Numeri, costi, leggi e problemi dell’esercito delle toghe fuori ruolo di Roberta Spinelli La Verità, 3 gennaio 2022 Continua a crescere il numero dei fuori ruolo autorizzati dal Csm. Lavorano (con doppio stipendio) nelle pubbliche amministrazioni, spesso all’estero e lasciano sguarniti gli uffici di provenienza. La giustizia italiana avanza come una lumaca, ma la magistratura sotto organico si concede il lusso di consentire a oltre zoo toghe di fare altri lavori. È il fenomeno dei magistrati fuori ruolo: giudici e pubblici ministeri distaccati in posti chiave di ministeri e altri enti statali o internazionali. Capi di gabinetto e di dipartimento, capi del personale, consiglieri giuridici, responsabili degli uffici legislativi, inviati all’estero: sono molteplici le opportunità di lavorare lontano dai tribunali. E naturalmente con doppio stipendio: quello di magistrato e di “gran commis” di Stato. Una soluzione che conviene sia al magistrato (due stipendi per un lavoro solo) sia al ministero, che paga solo l’indennità: se dovesse assumere qualcuno, dovrebbe farsi carico di uno stipendio intero. Un esempio. Nell’elenco pubblico degli attuali 161 fuori ruolo con incarichi amministrativi figurala dottoressa Tiziana Coccoluto, che dopo una carriera da magistrato di tutto rispetto (ha prestato servizio al tribunale di Roma con funzioni di gip e gup), è passata a lavorare nei ministeri. Ai Beni culturali dal 2015 è stata vice capo di gabinetto vicario e successivamente capo di gabinetto dei ministri Dario Franceschini e Alberto Bonisoli; dal 2019 è consigliere giuridico con funzioni di vice capo di gabinetto vicario al ministero della Salute guidato da Roberto Speranza. In questi anni da fuori ruolo, la dottoressa Coccoluto è passata dalla quinta alla sesta valutazione di professionalità, con relativo scatto di stipendio: la retribuzione lorda annua dei magistrati di quinta valutazione è sui 105.000 euro (la somma esatta dipende anche dall’anzianità di servizio e relativi scatti) mentre quella dei magistrati di sesta sta sui 110.000 euro esclusi tredicesime, arretrati, indennità speciali, adeguamenti di stipendio. A questa paga base si aggiunge un compenso annuo lordo di 41.846,11 euro per le funzioni svolte al ministero della Salute. Dei 180 responsabili amministrativi al ministero della Giustizia, 90 appartengono all’ordine giudiziario, tutti con incarichi di vertice. Un nome per tutti: il dottor Marcello Rescigno è incardinato al tribunale di Napoli, in una Regione dove la giustizia soffre di organici carenti ed enormi arretrati; ciononostante egli è stato chiamato ad assumere la funzione di ispettore generale in Via Arenula, anch’egli con stipendio da magistrato più l’indennità ministeriale. Altro paradosso: al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), che dipende dal ministero della Giustizia, operano magistrati fuori ruolo che sono tutti pubblici ministeri. Sul sito del Csm compaiono gli elenchi dei fuori ruolo. Al 30 aprile 2021, i magistrati collocati fuori ruolo presso altri ufficio enti sono 161 (erano 152 nel 2017) rispetto a un tetto fissato dalla legge in 200; quelli collocati fuori ruolo presso organi costituzionali o di rilievo costituzionale sono 47 (lavorano al Csm stesso, alla Corte costituzionale e alla presidenza della Repubblica); quelli fuori ruolo per incarichi elettivi sono 20; infine altri 3 sono in aspettativa per ricongiungimento coniugale. Le amministrazioni sono numerosissime: ministeri, Parlamento, autorità di garanzia (dal Garante per la concorrenza all’Anticorruzione), ambasciate. Parecchi sono all’estero: Commissione europea, Consiglio d’Europa, Corte di giustizia europea, Corte dei diritti dell’uomo e altri ancora. Il dottor Alberto Landolfi, in organico a Genova nella direzione antimafia e antiterrorismo, è stato spedito fuori ruolo a Rabat, in Marocco, come “magistrato di collegamento” dal 2019. Nello stesso anno il Csm ha deliberato chela dottoressa Roberta Collidà svolgesse il ruolo di magistrato di collegamento tra il ministero della Giustizia francese e il Principato di Monaco, con sede a Parigi, dove nei mesi scorsi ha seguito, tra l’altro, l’arresto dei io terroristi rossi da anni latitanti Oltralpe. Dalla risposta a un’interpellanza dell’onorevole Enrico Costa (oggi in Azione) ed ex sottosegretario alla Giustizia si apprende che magistrati italiani, oltre che a Parigi e Rabat, lavorano anche a Strasburgo, Tunisi, Lussemburgo, Tirana e all’Aia alla Corte penale internazionale. La dottoressa Elisabetta Maria Cesqui, magistrato di grande esperienza con un curriculum fatto di importanti inchieste, ha svolto funzioni non giudiziarie al ministero della Giustizia dal 3 giugno 1998 al 21 giugno 2001 e dal 15 ottobre 2014 al 27 giugno 2018, per un totale di 6 anni e 9 mesi (il collocamento fuori ruolo non può superare i io anni complessivi). Lo scorso febbraio il Csm ha autorizzato, eccezionalmente, il collocamento fuori ruolo della Cesqui come capo di gabinetto al ministero del Lavoro nonostante che nell’ufficio di appartenenza, cioè la Procura generale della Cassazione, l’organico fosse scoperto per il 28,57%: il limite di legge è il 20%. Secondo l’Eu Justice score-board 2021, il rapporto annuale di comparazione fra i sistemi giudiziari degli Stati Ue, quello italiano è tra più lenti d’Europa: occorrono in media 500 giorni per la conclusione di una causa civile in primo grado, si sfiorano gli 800 giorni in appello e si superano i 1.200 giorni nel terzo grado di giudizio. Il nostro Paese rimane soggetto alla sorveglianza rafforzata del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per la durata dei procedimenti amministrativi e penali. La giustizia lumaca va di pari passo con le carenze d’organico. E ha pesanti ripercussioni economiche. All’ultimo Forum Ambrosetti di Cernobbio, il guardasigilli Marta Cartabia ha quantificato in 573.779.000 euro gli indennizzi che lo Stato italiano ha pagato negli ultimi 5 anni per i ritardi nei processi. Questa somma, per esempio, comprende i 5.500 euro sborsati per la durata irragionevole del processo (11 anni, 4 mesi e 27 giorni) al boss di mafia Luigi Mancuso. Da Bruxelles ci hanno bacchettato più volte: il Consiglio europeo nelle sue annuali Raccomandazioni ha costantemente sollecitato l’Italia a “ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio”, nonché ad “aumentare l’efficacia della prevenzione e repressione della corruzione riducendo la durata dei processi penali e attuando il nuovo quadro anticorruzione”. L’assottigliamento di un organico già in difficoltà è però soltanto uno dei problemi posti dal massiccio ricorso alle toghe fuori ruolo per incarichi nella pubblica amministrazione. L’altro è proprio la commistione tra magistratura e politica. Come rileva Costa, all’ufficio legislativo di Via Arenula lavora un solo non magistrato: gli altri sono tutti giudici o pm. Difficile che un parere o una bozza di provvedimento uscito dal ministero della Cartabia possa urtare l’interesse delle toghe. In quegli uffici potrebbero lavorare avvocati, docenti universitari, funzionari pubblici, ma a decidere o a fare pressioni sono sempre magistrati. Il conflitto d’interessi è dietro l’angolo, mentre si consolida il potere delle toghe sull’esecutivo. Gian Domenico Caiazza: “La presenza nei ministeri rafforza il potere delle toghe sulla politica” di Roberta Spinelli La Verità, 3 gennaio 2022 Il presidente dell’Unione delle camere penali: “Formalmente i distacchi rispondono a chiamate personali ma sono concordati con 1’Anm e dosati tra le varie correnti. La Cartabia dovrebbe toglierli dall’ordinamento”. A che punto è la riforma della giustizia alla quale ha messo mano il guardasigilli Marta Cartabia? I primi provvedimenti sono stati una delusione. E non si fanno altri passi avanti, soprattutto sulla situazione dei fuori ruolo. Ne abbiamo parlato con l’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali italiane. Come reputa la riforma proposta dal ministro della Giustizia? “Riteniamo che la riforma non affronti in modo adeguato le situazioni sulle quali è necessario intervenire, se si vuole arrivare a una vera riforma dell’ordinamento giudiziario. È una riforma troppo concentrata sul sistema elettorale che, a nostro giudizio, costituisce un aspetto marginale sul quale intervenire. Non è certamente cambiando il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura che si risolvono i problemi della degenerazione del correntismo e della credibilità della magistratura italiana”. Dove bisognerebbe incidere? “Si fa molto poco sul tema, importantissimo, dei giudizi di professionalità per l’avanzamento delle carriere. A nostro giudizio vanno introdotti i criteri che responsabilizzano professionalmente il magistrato chiamato a rispondere dei risultati delle proprie scelte professionali e della sua operatività. Di tutto questo nella riforma non c’è traccia”. E i fuori ruolo? “Una novità anche rispetto alle più recenti bozze della riforma, dove il problema era stato ignorato. Si tratta, però, di un passo in avanti ancora timido perché nella riforma si dà solo un’indicazione di massima annunciando una “diminuzione” del loro numero”. La questione era stata segnalata negli anni, anche da voi. Non si poteva fare qualcosa prima? “Il tema è cruciale. Sicuramente si poteva affrontare prima, ma non è mai stato fatto. La diminuzione ipotizzata nella bozza Cartabia è un elemento positivo ma insufficiente. Intanto è una definizione molto generica: diminuire va bene, ma bisogna indicare di quanto: del 10, del 50, del 70%? Il problema non è la percentuale di riduzione, ma l’eliminazione del fenomeno. Non c’è ragione di affidare ruoli amministrativi a chi ha vinto un concorso in magistratura”. Perché non basta una riduzione del numero? “Chi vince il concorso di magistratura deve fare il magistrato, non andare a occupare ruoli nell’esecutivo. Questo determina una commistione tra due poteri dello Stato, quello esecutivo e quello giudiziario, sottraendo risorse a quest’ultimo. Ci lamentiamo che il numero dei magistrati è largamente insufficiente per il carico delle cause, e poi lasciamo che vengano dirottati nei ministeri. Bisognerebbe intervenire in modo molto più radicale, sostanzialmente impedendo, tranne casi eccezionali, il distacco dei magistrati dai propri ruoli”. Quindi non tutti i magistrati fuori ruolo sono realmente indispensabili in altri incarichi? “Assolutamente no. L’esperienza giudiziaria può essere utile come consulenza, ma i compiti attualmente ricoperti da magistrati nella pubblica amministrazione possono essere assunti innanzitutto da personale di ruolo delle stesse amministrazioni. Non è affatto detto che in un ministero il capo di gabinetto, del settore legislativo o del personale debbano essere magistrati. Nel settore pubblico esistono risorse professionali molto qualificate. Se il loro numero è insufficiente, che vengano banditi concorsi per assunzioni senza attingere dal bacino della magistratura”. C’è anche un tema economico: le toghe fuori ruolo mantengono lo stipendio più un’indennità per gli incarichi che vanno a ricoprire… “Certamente c’è anche questo, ma non è il problema fondamentale. È molto più grave la commistione che si è creata con la politica, perché poi queste persone ritorneranno in magistratura. Ci si sbraccia per rivendicare l’indipendenza della magistratura dalla politica, ma ogni nuovo governo si siede a tavolino con l’Associazione nazionale magistrati per spostarne 200 nell’esecutivo. Più dipendenza e commistione con la politica di questo è difficile immaginare”. Il Csm concede “eccezionalmente” il collocamento dei fuori ruolo anche quando si supera la soglia del 20% di scoperto nell’ufficio di provenienza del magistrato… “Questo dimostra quanto valore politico la magistratura attribuisca a questi distacchi che, di fatto, conferiscono un potere straordinario e indebito non solo al singolo fuori ruolo, ma all’intera categoria in generale. Formalmente i distacchi rispondono a chiamate personali dei singoli ministri, in realtà sappiamo benissimo che sono concordati con l’Associazione nazionale magistrati e accuratamente dosati tra le varie correnti anche tenendo conto del colore politico del governo. In questo modo la magistratura ottiene un potere di interlocuzione molto forte con la politica”. È per questo che anche la riforma Cartabia è molto timida in materia? “Certamente. Registriamo comunque un primo segno di attenzione”. Altro caso sono i magistrati direttamente impegnati in politica… “I fuori ruolo sono magistrati spostati dalla funzione giudiziaria a quella amministrativa. Poi sì, ci sono anche quelli che si fanno eleggere parlamentari, sindaci, consiglieri regionali. E poi, finito il mandato, riattraversano le cosiddette “porte girevoli” e vengono reintegrati nelle proprie funzioni. Nemmeno su questo tema mi pare vi siano grandi novità all’orizzonte. Noi pensiamo che un magistrato entrato in politica debba abbandonare definitivamente la funzione giurisdizionale. Il problema non è dopo quanti anni, o se deve tornare a svolgere le funzioni in una regione diversa da quella del collegio elettorale. Un magistrato che ha cambiato mestiere non deve più rientrare nei ranghi della magistratura”. Prorogate le Camere di consiglio da remoto per tutto il 2022 camerepenali.it, 3 gennaio 2022 La denuncia dei penalisti italiani. Il Governo proroga lo stato di emergenza sanitaria fino al 31 marzo 2022 ma consente ai magistrati di tenere le camere di consiglio da remoto fino al 31 dicembre 2022, senza far più riferimento al rischio di contagio. La denuncia di Ucpi e l’appello alle forze parlamentari perché sia posto rimedio all’ennesima violazione delle regole del processo accusatorio. Ci aveva favorevolmente stupiti la scelta del Governo di non inserire ulteriori proroghe dei meccanismi che consentono la trattazione delle cause a distanza in sede di cautela e la necessità della richiesta di discussione dei processi di appello e di cassazione e, soprattutto, la possibilità per i giudici di tenere le camere di consiglio da remoto, soluzione questa sempre avversata dall’Unione, in quanto modalità che non realizza alcuna collegialità. Infatti, con il decreto-legge n. 221 del 24.12.2021, per quanto attiene alla materia penale, si è intervenuti solo prorogando le discipline emergenziali che riguardano licenze, permessi premio e detenzione domiciliare. Evidentemente il Ministero ci ha ripensato ed ecco che, con l’art. 16 del decreto Milleproroghe, già “bollinato” ed in corso di pubblicazione, non solo tutte le norme di emergenza della legislazione civile, penale, amministrativa, contabile, tributaria e militare sono state prorogate ma la solita “manina”, neppure tanto nascosta, questa volta ha disvelato il vero intendimento che è quello di assecondare i desiderata di una parte di ANM. A fronte della proroga generale dello stato di emergenza nazionale per il contenimento dell’epidemia da Covid-19 fino al 31 marzo 2022, le regole emergenziali del processo penale vengono prorogate fino al 31 dicembre 2022. Poiché però il Governo interviene fuori tempo massimo la disciplina non si applica per le udienze di trattazione fissate tra il 1° gennaio 2022 e il 31 gennaio 2022. Dunque la norma ha il significato di rendere stabile la disciplina che tra l’altro consente ai giudici di decidere da remoto, prescindendo dal rischio pandemico, perpetuando una disciplina dalla quale la riforma “Cartabia” ha inteso allontanarsi e peraltro prevedendo un periodo transitorio per la messa a regime del processo telematico. Gli avvocati penalisti denunziano l’evidente ennesimo attacco alle garanzie ed alle prerogative difensive, questa volta perpetrato strumentalizzando la pandemia per individuare un termine di proroga privo di qualsiasi collegamento con l’emergenza sanitaria. L’appello è alle forze parlamentari che hanno a cuore i principi del giusto processo affinché, in sede di conversione, si ritorni quantomeno a limitare il ricorso alle norme emergenziali del processo al generale termine del 31 marzo 2022 previsto per l’emergenza nazionale. Efficienza della giustizia penale: Gialuz fra i 15 del comitato tecnico di Diego D’Amelio Il Piccolo, 3 gennaio 2022 Organismo costituito dal governo per monitorare i tempi del settore. Il docente universitario: “Un grande onore lavorare in questo gruppo”. C’è anche il triestino Mitja Gialuz nel Comitato tecnico-scientifico appena costituito dal governo Draghi per monitorare l’efficienza della giustizia penale. Il nuovo organismo nasce nell’ambito dell’applicazione del Pnrr italiano che, su richiesta della Commissione europea, ha previsto anche la riforma del processo penale per abbreviare i tempi della giustizia. Il Comitato supporterà il percorso di riforma, incaricato di valutare il raggiungimento degli obiettivi connessi al Recovery Plan che, oltre agli investimenti, ha richiesto agli Stati membri una serie di riforme. Dopo aver fatto parte del gruppo di esperti che ha affiancato il ministero della Giustizia sulla revisione della giustizia penale, ora Gialuz entra nel Cts che ne seguirà l’applicazione. Professore ordinario di procedura penale all’Università di Genova, Gialuz accoglie con soddisfazione la nuova nomina: “Il Comitato - spiega - ha una valenza strategica importante ed è stato previsto per la prima volta nel sistema italiano dalla recente riforma Cartabia. La Commissione europea ha chiesto all’Italia di ridurre i tempi della giustizia e il Comitato è stato creato per ripensare le modalità di monitoraggio e valutare l’impatto della riforma attraverso l’acquisizione di dati statistici oggettivi”. Il docente universitario, nonché patron della Barcolana, si dice “particolarmente onorato e soddisfatto di entrare in un gruppo di lavoro composto da personalità autorevoli e con una forte connotazione interdisciplinare, dai giuristi agli statistici, fino agli economisti. Ci aspetta un lavoro molto impegnativo: si tratta di accompagnare tutto il percorso di digitalizzazione e ammodernamento della giustizia penale, avendo per la prima volta un’idea chiara della realtà a partire da dati statistici precisi”. Gialuz è l’unico esperto di procedura penale all’interno dell’organismo, composto da 15 membri. Si tratta del riconoscimento del lavoro svolto nell’ultimo anno all’interno della Commissione Lattanzi, che ha elaborato le proposte alla base della riforma del processo penale promossa dalla ministra Marta Cartabia. Vibo Valentia. Detenuto si toglie la vita in carcere: è stato trovato impiccato in cella lacnews24.it, 3 gennaio 2022 Cinque giorni fa nello stesso istituto penitenziario un’altra persona aveva tentato il suicidio dandosi fuoco. Suicidio nel carcere di Vibo Valentia. Un detenuto, originario di Satriano, è stato trovato impiccato nella sua cella e vani si sono rivelati i tentativi da parte della Polizia penitenziaria e del personale medico del carcere di strapparlo alla morte. Era detenuto nella sezione Sex offender. Cinque giorni fa nello stesso carcere altro detenuto extracomunitario aveva tentato di togliersi la vita dandosi fuoco. Si trova attualmente ricoverato nel Centro Grandi Ustionati del Cardarelli di Napoli. È grave, ma ce la farà. Asti. Allarme Covid nel carcere, 84 casi tra i detenuti di Carlotta Rocci La Repubblica, 3 gennaio 2022 C’è un focolaio nel penitenziario di massima sicurezza. La garante “Green Pass obbligatorio anche per i parenti a colloquio”. C’è un focolaio Covid all’interno del carcere di Asti. A inizio settimana i positivi tra i detenuti erano una trentina, ora sono diventati 84, numeri molto più alti rispetto alla media del Piemonte, visto che a Torino si registrano una dozzina di contagi, e nessuno tra i detenuti degli altri istituti penitenziari piemontesi. È alto anche il numero di positivi riscontrato tra tra gli agenti della polizia penitenziaria, 70 in tutto il Piemonte, una dozzina ad Asti, sei ad Alba, nove, al carcere Cantiello e Gaeta di Alessandria, 10 al San Michele di Alessandria, nove a Torino e Ivrea, quattro a Novara, tre a Biella, Cuneo e Saluzzo, due a Vercelli. Il “caso” Asti era già emerso durante la presentazione del dossier sulle criticità delle carceri presentato dal garante regionale Bruno Mellano. Nel carcere di alta sicurezza di Asti sono immediatamente scattate le misure previste dal protocollo anticovid e tutti i detenuti positivi sono stati isolati dagli altri ma resta un tema che è stato sollevato anche dalla garante cittadina Paola Ferlauto. “Agli agenti e ai volontari che operano nel carcere viene chiesto il Green Pass per entrare in carcere ma questo non avviene per i parenti dei detenuti che, trattandosi di un carcere di massima sicurezza arrivano da tutta Italia per vedere i loro famigliari detenuti - spiega - Il rischio è che si crei l’effetto che abbiamo visto all’inizio della pandemia con le case di riposo, cioè che siano gli ingressi dall’esterno a favorire i contagi”. Il carcere di Asti applica la normativa prevista per tutte le carceri italiane che non obbliga i famigliari dei detenuti e gli avvocati ad avere il Green Pass per entrare negli istituti di pena a colloquio. Il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria Osapp, poi, solleva un’altra questione, la mancanza di mascherine ffp2. “Chiediamo che vengano distribuite, come previsto dalle nuove norme anti-contagio per i luoghi al chiuso”, dice il sindacato. Sulmona (Aq). Carcere, da 22 anni senza docce e acqua calda in cella di Filippo Raggio cronachedi.it, 3 gennaio 2022 Niente docce e acqua calda in cella nel carcere di Sulmona, in provincia dell’Aquila. “Sono 22 anni che mancano”. Lo ha detto Mauro Nardella, segretario generale territoriale Uil-Pa Polizia penitenziaria sottolineando che i servizi in questione sono stati previsti nel 2000 dal Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Nardella ha proposto un intervento per dotare le camere di detenzione di docce e acqua calda e di trasferire i detenuti, durante la ristrutturazione dei vecchi reparti, nel nuovo padiglione che - con i suoi 200 posti letto in più - tra poco verrà inaugurato. Il sindacalista avanza anche la richiesta di elettrificare i cancelli del penitenziario ad alta sicurezza: “Elettrificazione non ancora nemmeno progettata in questo istituto a differenza di altri” ha concluso. Interventi che alleggerirebbero il lavoro degli agenti della Polizia penitenziaria di stanza nel carcere della valle Peligna. Padova. Rieducazione in carcere, i detenuti sono pasticcieri di Chiara Cogliati ultimavoce.it, 3 gennaio 2022 La rieducazione in carcere dovrebbe essere una priorità, eppure a causa del sovraffollamento sono sempre meno i programmi rieducativi. A Padova c’è una pasticceria che fa un panettone speciale. Di recente elogiata dal New York Times che le ha dedicato un lungo articolo, la Pasticceria Giotto sforna uno dei dieci migliori panettoni d’Italia, definito speciale perché fatto da alcuni detenuti della prigione Due Palazzi a Padova. “Crediamo che l’individuo non sia definito solo dal suo errore e che la crescita sia favorita se accompagnata da professionisti”, si legge sul sito. L’iniziativa risponde a quell’esigenza di rieducare il reo in maniera attiva e funzionale al rientro in società. L’obiettivo è trasmettere la cultura del lavoro, far sì che il detenuto possa comprendere i propri errori e evitare di ricaderci una volta uscito dal carcere. Questo è ciò a cui il carcere dovrebbe ambire. Eppure, sempre più spesso, non è così. L’importanza della rieducazione in carcere - Nel suo articolo, il New York Times evidenzia il problema del sovraffollamento delle carceri italiane che rende i programmi di rieducazione del detenuto di difficile attuazione e conseguenzialmente la pena non raggiunge la funzione rieducativa prefissata nelle Regole penitenziarie europee. Inoltre, non vi sono abbastanza opportunità lavorative e solo alcuni detenuti possono accedere a tali programmi, come quelli citati sopra. La rieducazione è fondamentale poiché, sempre a detta del New York Times, che riporta le stime del Ministero di Giustizia, “la media nazionale di recidiva è del 70% con la maggior parte dei detenuti che tornano in galera con condanne più lunghe delle prime”. Tuttavia, “tale tasso scende al 5% se i detenuti lavorano durante la detenzione”. Pena repressiva o rieducativa? Da quanto scrive il New York Times si evince che molto spesso le Regole penitenziarie europee non vengono rispettate e in questo modo il sistema penitenziario europeo finisce per assomigliare sempre di più a quello americano di tipo repressivo, che alla rieducazione predilige la neutralizzazione del reo e la sua esclusione dalla società. Nel sistema americano, chi ha sbagliato deve pagare, mentre in quello europeo, chi commette un reato deve capire il perché del suo crimine e di conseguenza migliorarsi per non tornare sugli stessi passi. Solo tramite programmi rieducativi, quali la pasticceria di Padova, i detenuti raggiungono tale consapevolezza e, una volta usciti, tornano ad essere membri attivi nella società. Per di più, il sistema europeo prescrive il rispetto dei diritti dei detenuti e della loro dignità. Si tratta di una norma fondamentale se si pensa alla salute mentale degli incarcerati. Come puntare a una maggiore rieducazione? È la subcultura carceraria a dover cambiare: il reo non deve essere concepito come parte del mondo penitenziario ma di quello esterno. Un cambio di mentalità è dunque necessario sia nella società che nelle istituzioni affinché il detenuto venga inteso come qualcuno che ha sì sbagliato, ma che resta in ogni caso una persona che può e deve comprendere i suoi errori al fine di migliorare. Inoltre, una maggiore formazione degli agenti penitenziari sulla psicologia forense e la criminologia potrebbe agire a favore di un incremento nel supporto dei detenuti nell’essere rieducati e aiutati in questo talvolta difficile processo. Ma problema di base resta il sovraffollamento delle carceri che se non verrà risolto rimarrà ostacolo all’attuazione di progetti rieducativi. Un tentativo di soluzione è stato ampliare la possibilità di accedere alle misure alternative, come servizi sociali, detenzione domiciliare, etc. Padova. Il panettone del carcere tra i migliori d’Italia (piace anche al New York Times) di Chiara Amati Corriere della Sera, 3 gennaio 2022 Trentotto detenuti per quattro maestri pasticcieri. Si chiama “Giotto” la pasticceria all’interno del carcere di Padova. Qui il panettone, tra i migliori d’Italia, è così buono d’aver conquistato anche il New York Times. “Prima di finire in carcere non avevo mai assaggiato un panettone, sapevo a mala pena cosa fosse. Ora posso dire che mi piace così tanto che, a ogni Natale, ne prendo cinque o sei e li spedisco alla mia famiglia, giù al Sud, in Sicilia. È il mio modo per dire che, nonostante gli errori, io ci sono”. Giovanni è un detenuto del carcere “Due Palazzi”, nella periferia nord-ovest della città di Padova, la cui storia è finita persino sulle colonne del New York Times. Di lui sappiamo che deve scontare una pena di 23 anni e che gli ultimi cinque li ha trascorsi lavorando per “Giotto”, una pasticceria piuttosto nota lungo corso Milano, a pochi minuti dalle piazze centrali della provincia veneta, ma prima di tutto un luogo dove il profumo del riscatto sociale si annusa fin dall’ingresso. E a renderlo ancora più appetibile è il lavoro. Quello svolto da un team di 38 detenuti, sotto la supervisione di quattro pasticcieri professionisti che, per sette giorni alla settimana, impastano e infornano su tre turni quotidiani, il primo alle 4 del mattino: biscotti, brioche, crostate, torrone, cioccolato, gelati... Ogni dolce prodotto viene poi venduto al banco o portato negli alberghi della città. La specialità del momento resta il panettone, quello che Giovanni non conosceva. E di cui oggi sa tutto. Si fa orgoglioso quando spiega che la sua realizzazione è un procedimento meticoloso fatto di 72 ore di impasti e lievitazioni. Dopo un’ora di cottura viene lasciato raffreddare a testa all’ingiù per evitare che la caratteristica forma a cupola si sgonfi. Anche per questo i panettoni dei detenuti di Padova da dieci anni rientrano nella top ten del Gambero Rosso. Verso una (re)inclusione sociale - È appassionato Giovanni. Lo si capisce dai racconti e dalla sete di sapere che lega come un sottile fil rouge i detenuti del programma di panificazione. Programma, questo, messo a punto nel 2005 da Work Crossing Cooperative, un gruppo senza scopo di lucro che gestisce le iniziative di lavoro carcerario in Veneto. E che in questi anni ha coinvolto oltre 200 carcerati con opportunità sempre nuove, sempre diverse. Come l’apertura, un mese fa, di una vetrina della pasticceria Giotto, atelier in cui potranno trovare lavoro i detenuti una volta scontata la pena, così da completare il percorso di reinserimento nella società. “Abbiamo iniziato con un paio di pasticceri e quattro o cinque detenuti - dichiara Matteo Marchetto che della cooperativa è il presidente - e sfornavamo qualche centinaio di panettoni. A oggi, la produzione della pasticceria conta 80.000 panettoni venduti in tutto il mondo, come il resto della produzione dolciaria”. Come vengono selezionati gli aspiranti pasticcieri - Il processo di selezione degli aspiranti pasticcieri è metodico. “L’amministrazione penitenziaria fa una prima analisi che consente a noi di scegliere tra i candidati più idonei - continua Marchetto -. Poi la palla passa alla nostra psicologa che valuta i profili prima e durante i sei mesi di tirocinio”. Nessuna forma di assistenzialismo tiene a puntualizzare Marchetto, ma concrete opportunità di impiego e di riscatto sociale. “Insegniamo una professione attraverso cui è possibile ricominciare a vivere con tanto di compenso: da 650 euro al mese per il primo semestre fino a mille euro per i mesi successivi. Sempre sotto supervisione psicologica. Chi sbaglia deve pagare. E la pena deve essere espiata integralmente, vero. Ma allo stesso tempo, come prevede la nostra Costituzione, deve esserci un percorso di riabilitazione e integrazione sociale, altrimenti questi anni, e queste pene, finiscono per essere buttati. Con loro anche le risorse pubbliche”. Più orgoglio, meno rischio di recidiva - Secondo i dati del Ministero della Giustizia, il sistema carcerario italiano è sovraffollato e la media nazionale di recidiva è del 70 per cento, con la maggior parte dei reclusi che rientra in galera per condanne anche più lunghe della prima. Questo tasso scende al 5 per cento per i detenuti della cooperativa che scelgono di lavorare durante il periodo di reclusione. E lo fanno con una abnegazione che si costruisce in itinere anche grazie alla famiglia. Marchetto racconta di figli che, a casa, hanno messo in una teca la prima busta paga del papà. O di detenuti che rimangono destabilizzati quando viene chiesto loro di confezionare una torta nuziale: mica una a caso, proprio quella nuziale! Insomma, molto più di un incentivo ad andare avanti sulla strada ritrovata. A proposito di questo, Matteo Concolato, uno dei quattro pasticcieri che supportano Giovanni e gli altri detenuti, non ha dubbi: “Il programma di riabilitazione dà ottimi benefici. È impagabile vedere un ragazzo che viene da anni di carcere e che, forse, non ha mai lavorato prima, appassionarsi alla pasticceria. Ancor più vederlo acquisire un senso di responsabilità per quello che fa, vederlo ricominciare a fidarsi di se stesso e degli altri. Una seconda opportunità che merita di essere colta, ma che soprattutto deve poter essere data”. Taranto. Progetto “Fuori dall’orto”, dal carcere le insalate per il Banco Alimentare di Roberto Pedron internationalwebpost.org, 3 gennaio 2022 Giunge a conclusione il progetto “Fuori dall’orto”, promosso all’associazione “Noi e Voi” onlus insieme all’Amministrazione penitenziaria di Taranto. Il percorso, iniziato nell’estate del 2019, ha coinvolto 15 detenuti del carcere Magli in misura alternativa che, per l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, hanno potuto svolgere attività formativa all’esterno della struttura. E così un primo cancello lo hanno varcato, andando a piantare cipolla, insalata, finocchi, sedano, nel terreno che circonda il carcere. Il raccolto poi lo hanno donato al Banco Alimentare, per aiutare chi non ce la fa. Una storia di successo, nonostante le complicazioni logistiche causate dal Covid19. “Si è trattato di un corso teorico-pratico su come si realizza un orto - spiega il presidente dell’associazione Noi e Voi Onlus, don Francesco Mitidieri - dalle tecniche di impianto ai sistemi di irrigazione, le stagioni, i tempi di semina e di coltura. Nella parte teorica, che ha coinvolto 4 docenti, sono stati fatti anche piccoli esperimenti nei vasi. Poi quanto imparato è stato riportato alla pratica, proprio sul terreno messo a disposizione dalla direzione penitenziaria. Nonostante la pandemia, siamo riusciti ad arrivare alla fine e siamo contenti che pur essendo stato pensato per una decina di persone, il progetto in realtà sia riuscito ad appassionarne 15, andandosi ad integrare con altre attività, portate avanti già autonomamente dall’istituto penitenziario”. “Fuori dall’orto” rientra nel bando “Puglia capitale sociale 2.0” e ha coinvolto professionisti del settore, come Marcella Candelli, dottore agronomo, uno dei 4 docenti. Un progetto con una finalità anche solidale: donare il raccolto a chi ne ha bisogno. “Da tempo abbiamo iniziato una collaborazione con la casa circondariale di Taranto - spiega Luigi Riso, responsabile regionale del Banco Alimentare - perché a tanti venga data la possibilità di reintegrarsi all’interno della società”. Il progetto porta a casa altri due importanti risultati: la possibilità per uno dei partecipanti di ottenere una borsa lavoro finanziata dall’UEPE (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna, ndr) per lavorare in agricoltura nella cooperativa omonima “Noi e Voi” e l’acquisto di attrezzature per proseguire l’attività dell’orto, oltre i tempi dettati dal finanziamento regionale. “Abbiamo acquistato pompe che portano l’acqua - ha spiegato don Francesco Mitidieri - ripristinato l’impianto di irrigazione, un lavoro svolto dagli stessi corsisti sulla base delle conoscenze acquisite, comprato macchinari e tutto il necessario per proseguire e ringraziamo vivamente la direttrice della casa circondariale di Taranto, Stefania Baldassari, per aver creduto in noi e aver sposato con entusiasmo il progetto”. Roma. Carcere di Regina Coeli, la realtà virtuale per “evadere” DI Maurizio Ermisino retisolidali.it, 3 gennaio 2022 E-vision è il progetto che Semi di Libertà sta sperimentando a Regina Coeli per il benessere e la formazione dei detenuti. Il concetto di “evasione”, quando si parla di carcere, ha spesso una connotazione negativa, di illegalità. Ma “evasione” può voler dire anche scappare con la mente per chi si trova in una situazione di reclusione e solitudine. Semi di Libertà Onlus sta sperimentando a Regina Coeli l’utilizzo della Realtà Virtuale per far “evadere” i detenuti da una realtà non virtuale di sbarre e muri ventiquattr’ore su ventiquattro. Il progetto si chiama E-vision ed è stato realizzato insieme a una startup romana, Keiron Interactive. Grazie a questa idea, i detenuti fanno attività fisica in un contesto di gamification, grazie al software realizzato da Keiron. “In una società dove le distanze vengono annullate dai mezzi di comunicazione e gli stessi spostamenti fisici divengono rapidissimi, in carcere il rapporto spazio-tempo appare completamente rovesciato rispetto alla società esterna: lo spazio è limitato ed è caratterizzato dalla ripetitività dell’esperienza”, spiega Paolo Strano, presidente di Semi di Libertà. “Il corpo del recluso e le sue facoltà percettive e relazionali si trovano compresse all’interno di uno spazio che ritualizza comportamenti e possibilità di scelta”. La Realtà Virtuale allora ha potenzialità enormi. E-vision dalle palestre al carcere - L’idea di E-vision parte da molto lontano, e non è nata per il carcere. “Il progetto è nato nel 2019: nascevamo come startup che lavorasse con le palestre”, spiega Renzo Cariero, fondatore di Keiron Interactive. “Tutti sappiamo che l’attività fisica porta benessere, tutti ci iscriviamo in palestra, ma i dati dicono che dopo tre settimane l’accesso alla palestra cala. Volevamo fare un esperimento di gamification, in cui l’attività fisica diventasse un gioco”. “Tramite un nostro contatto siamo entrati nell’Istituto Penitenziario di Benevento, per fare dei test”, continua. “Il riscontro è stato positivo, e volevamo donarlo all’istituto, nella sezione femminile. Era uscito un articolo sulle riviste locali, ed essendo Paolo essendo del settore, ha letto l’articolo e ci ha contattato. Il vantaggio di questo strumento per una persona che vive una vita normale è la possibilità di motivarsi. Per una persona che sta ventiquattr’ore su ventiquattro. in un posto chiuso diventa un’evasione mentale”. Considerazioni fatte davanti al Covid - Lo strumento dà una serie di vantaggi e prospettive importanti. “Il suo utilizzo in questo senso nasce da una serie di considerazioni fatte davanti al Covid” ci spiega Paolo Strano. “Il Covid ha inferto ferite dolorose ai penitenziari italiani; ha acuito la chiusura verso il mondo esterno, ha sospeso tutte le attività trattamentali, sono stati sospesi i colloqui e non si potevano ricevere nemmeno i pacchi. Il Covid ha acuito la separazione con il mondo esterno”. E-vision può ovviare anche ad eventuali altri isolamenti che potrebbero tornare in essere. “Una volta che i detenuti si sono allenati e sono stati istruiti all’utilizzo, l’attività può essere svolta senza l’ausilio di operatori esterni”, spiega ancora Paolo Strano. “Noi controlliamo l’esattezza dei movimenti e il feedback dell’attività, ma è un sistema che potrebbe assicurare continuità trattamentale anche in condizioni di eventuali chiusure”. I detenuti e le nuove tecnologie - Ma è un discorso che va contestualizzato in un orizzonte più ampio, quello della digitalizzazione. “Il mondo fuori cambia a una velocità esagerata” ragiona il presidente di Semi di Libertà. “Dentro è l’esatto opposto: tutto è fermo, le nuove tecnologie faticano ad entrare, anche se con la pandemia sono aumentare le videochiamate, che prima erano un vero e proprio tabù. Lì dentro il tempo è fermo, espanso, la percezione da parte delle persone è diversa, il fatto che la tecnologia vada così veloce fuori fa sì che, una volta uscito, ti ritrovi in un mondo cambiato, completamente differente, che usa strumenti per te ignoti. Far familiarizzare i detenuti con le nuove tecnologie è fondamentale. In qualche modo la pandemia ha rotto questo tabù della tecnologia che in carcere era sempre stato molto forte”. Un mondo fantasy - Ma che cosa vedono le persone che indossano i visori e si immergono in questa nuova realtà? “È un mondo fantasy alieno”, spiega il fondatore di Keiron Interactive. E-vision serve per l’allenamento fisico, ma anche per la formazione. “L’allenamento è studiato per gente che vive una vita normale. Così abbiamo pensato di far vedere loro un mondo fantasy, alieno, con robot che devi sconfiggere”. “Si tratta di cinque allenamenti, tra cui lo scatto e i piegamenti delle gambe” continua. “In ogni allenamento hai dei robot che ti fanno comparire davanti delle sfere che contengono degli elementi che possono fare male agli avversari. È un gioco che si basa sul punteggio e sulla velocità. Il punteggio è competitività positiva e come tale lo abbiamo testato tra gli adolescenti”: dopo la sperimentazione a Regina Coeli ne è partita un’altra presso l’Istituto Penale Minorile di Casal Del Marmo, in accordo con UISP, per proporre attività trattamentale sportiva integrata tra ginnastica tradizionale e fitness. Uno strumento di formazione - Questi visori rappresentano potenzialmente uno strumento straordinario. “Il software ha la funzione di allenare “evadendo” commenta Paolo Strano. “La nostra ipotesi, che capiremo insieme all’Università La Sapienza, è che l’attività fisica, unita al fatto che con la testa siano da un’altra parte, dovrebbe far calare lo stress. Crediamo che possa anche indurre un effetto indiretto nei confronti del personale che lavora lì, che in questo modo si troverebbe persone meno nervose: un ambiente lavorativo migliore”. Ma i visori di VR, una volta sdoganati, possono diventare unno strumento straordinario. “Puoi far visitare musei, siti archeologici, spettacoli teatrali” commenta Strano. “E fare formazione. Dal punto di vista culturale puoi proporre tante cose. In un futuro perfetto, che non è oggi, con i visori si potrebbero fare i colloqui con i familiari”. Un modello per tutti i penitenziari - La Regione Lazio ha cofinanziato il primo progetto E-vision, che ora sta avendo un’evoluzione molto importante. “È diventata partner di questo progetto l’Università La Sapienza”, rivela il presidente di Semi di Libertà. “Il dipartimento di Psicologia si è messo a disposizione per eseguire una serie di test sui detenuti: l’idea di misurare l’impatto di questa attività sulla popolazione detenuta, e di ottimizzare l’applicativo sulla base dei feedback che gli stessi detenuti danno per arrivare ad avere un prodotto, un software ottimizzato che possa diventare un modello scalabile in tutti i penitenziari italiani. Può diventare una buona pratica anche all’estero. In tutta la fascia mediterranea i problemi sono simili ai nostri”. Il software, allora, potrà diventare più adatto alla vita e alle esigenze dei detenuti. “Confrontandoci con psicologi ed esperti del settore, faremo una serie di aggiustamenti”, anticipa Cariero. “Nel gioco abbiamo oggetti di scena che non sono idonei al contesto, come bombe o pugnali, così andremo a rilavorare sull’ambientazione creandone una meno fantasiosa, più realistica e più neutra. Il cuore del gioco non sarà più una sfida per sconfiggere qualcuno, ma una gratificazione nel conquistare qualcosa. Il nuovo gioco avrà nuove gestualità per allenare più parti del corpo, ad esempio le mani, su device più nuovi e performanti, con l’utilizzo delle mani”. Ci saranno dei costi iniziali per la realizzazione del software da ammortizzare, ma il valore del progetto non ha prezzo. “Se veramente le attività trattamentali concorrono a umanizzare la pena e ad avere un utilizzo culturale e formativo, il ritorno, economico ma non solo, per la società sarà importante” conclude Paolo Strano. Fermo. Progetto “Una comunità in movimento” alla Casa di reclusione qdmnotizie.it, 3 gennaio 2022 Registrati miglioramenti della postura, dell’attenzione e in generale del benessere psicofisico dei detenuti. Nonostante le limitazioni imposte dalle misure di contenimento del Covid 19, sono state 32, nel secondo semestre dell’anno 2021, le ore di intervento del progetto “Una comunità in movimento” presso la casa di reclusione di Fermo. Si tratta di una iniziativa di promozione dell’attività fisica e sportiva, in particolare attraverso allenamento funzionale o functional training a circuito, ma anche con esercizi di ginnastica posturale, stretching completo alla fine della lezione e alcune andature di atletica. La casa circondariale di Fermo - L’attività, organizzata dall’Unione sportiva Acli Aps, è riservata ai detenuti e viene realizzata a seguito della stipula e al rinnovo del protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e l’Unione sportiva Acli nazionale, grazie al contributo che viene concesso dalla Regione Marche (L.R. 28/2008 - coordinamento a cura dell’Ambito sociale territoriale di Pesaro). A Fermo, nel corso dell’attività, sono stati registrati miglioramenti della postura, dell’attenzione e in generale del benessere psicofisico. Con questa iniziativa, che ha compreso anche la fornitura di materiale come step e tappetini per esercizi a terra, l’Unione Sportiva Acli Aps si pone di promuovere la pratica sportiva all’interno dell’istituto penitenziario, nella consapevolezza del significativo ruolo svolto dallo sport per la promozione del benessere psicofisico delle persone detenute, per l’educazione a corretti stili di vita, favorendo al tempo stesso forme di aggregazione sociale e di positivi modelli relazionali di sostegno al percorso di reinserimento. Busto Arsizio. Detenuti fotografi e modelli nel calendario 2022 del carcere varesenews.it, 3 gennaio 2022 Lo hanno realizzato i partecipanti al corso di fotografia gestito dal fotografo figlio d’arte Hermes Mereghetti. In porto un altro dei progetti della cooperativa “La Valle di Ezechiele”. Il 2022 della cooperativa che aiuta i detenuti nel reinserimento sociale “La Valle di Ezechiele” inizia con il calendario fotografico realizzato da Hermes Mereghetti, fotografo impegnato da qualche tempo in progetti con don David Maria Riboldi, cappellano del carcere di Busto Arsizio. “Nato grazie alla pronta disponibilità della Direzione della Casa Circondariale di Busto Arsizio, il progetto si è strutturato non come un’incursione dentro le mura di un bravo fotografo, ma come un corso di fotografia, in 10 lezioni, da due ore. Il calendario è frutto del corso. Docente è stato il giovane fotografo Hermes Mereghetti, figlio d’arte, che l’anno scorso accompagnò suo padre in un reportage su incarico del Ministero della Giustizia sul covid a San Vittore (pubblicato su Repubblica)” - spiega don David. L’area Trattamentale del penitenziario ha individuato nella sezione del Trattamento Avanzato il luogo ideale dove fare la proposta e si è rivelato un terreno fertile: c’erano 15 posti, si sono iscritti in 19, di 9 etnie diverse. “Una bella sfida, in partenza. Una grande gioia, alla fine” - prosegue il fondatore della cooperativa che poi ci tiene a fare una precisazione importante: “Le foto non le ha scattate Hermes. Le hanno pensate e scattate gli iscritti al corso. Per questo siamo orgogliosi, come “La Valle di Ezechiele”, di presentare l’unico calendario fotografico 100% made in carcere: dall’ideazione alla stampa, affidata alla cooperativa zerografica, nel carcere di Bollate. Chi prende in mano uno dei nostri calendari tocca qualcosa che sa di rinascita. Non tanto per quanto ritratto, descrittivo della vita quotidiana in carcere, quanto per chi e come è stato realizzato”. La parola scelta da don David per il risultato è “stupore dall’amalgama di persone che ordinariamente si trovano spesso su fronti opposti, perché appartenenti a ceppi etnici diversi. Si è creato un algoritmo di piacevolezza dello stare insieme, davvero inatteso. Il mercoledì, giorno del corso, era un giorno diverso dagli altri, sul calendario. Molto ha fatto Hermes, la cui eccellenza nelle relazioni ha fatto sì che La Valle di Ezechiele lo assumesse al capannone di Fagnano quale responsabile”. La politica della solidarietà. Il discorso di Mattarella e la coesione del Paese di Ezio Mauro La Repubblica, 3 gennaio 2022 Nell’epoca del “si salvi chi può”, come riesce a sopravvivere e a trovare un senso il concetto di solidarietà? Il Presidente della Repubblica Mattarella, nel suo ultimo messaggio di fine anno per gli auguri agli italiani, lo ha messo al centro del discorso e soprattutto dello sforzo di coesione indispensabile nel Paese per avviare una ricostruzione basata sull’unità istituzionale e morale, recuperando fiducia e speranza dopo l’assalto della pandemia. È come se il Capo dello Stato, nel momento di lasciare il Quirinale, ci invitasse a considerare gli effetti secondari del virus: quei contraccolpi emotivi, psicologici, istintivi che non vengono rilevati nel computo quotidiano del contagio, impegnato a conteggiare il numero delle infezioni e dei morti, ma si depositano nella coscienza degli individui modificandola, e modificando di conseguenza la relazione di ognuno di noi con gli altri, e con quell’insieme di istituzioni e poteri che è lo Stato. Naturalmente l’infezione attacca l’individuo, lo esclude dalla vita associata, lo costringe a usare la distanza e la separazione, la chiusura, come strumenti di difesa e di precauzione, disconnettendolo dalla sfera pubblica e dal suo agire sociale, tagliando i fili che lo fanno muovere nella rete abituale di connessioni, collegamenti, legami. È quella rete che viene via via disabilitata per prudenza, da quando abbiamo scoperto che il virus insidia anche il corpo sociale, e non solo quello individuale: a partire dalla sua meccanica di riproduzione, che usa l’umano come strumento di diffusione del contagio, e dunque ci costringe a diffidare dei nostri simili, addirittura dei congiunti. In queste condizioni come si può preservare il valore dello scambio interpersonale e del meccanismo di relazione se la pratica che ci consigliamo e ci prescriviamo li svaluta quotidianamente come fonte di pericolo? Mattarella, ritornando per tutto il discorso sui temi dalla “responsabilità”, dell’“umanità”, dell’“abnegazione”, dell’“impegno”, delle “esclusioni”, della “povertà”, delle “ingiustizie”, della “solitudine”, del “sostegno” e della “lealtà” sembra preoccupato di non lasciar sommergere dalla crisi pandemica proprio quel deposito di solidarietà accumulato nel Paese come se fosse una variabile dipendente dalla crisi, e non un carattere che ha segnato la vita nazionale nelle diverse epoche, dunque un elemento costitutivo della nostra civiltà materiale, scambiato ogni giorno sul mercato spontaneo della convivenza civile. E infatti i protagonisti di tutto questo sono le persone comuni titolari di diritti e doveri, non patrioti o eroi nel discorso del Presidente, ma suoi “concittadini”. Sul piano storico e culturale, nel concetto di solidarietà si incontrano due lasciti e due tradizioni, quella rivoluzionaria della “fraternità” e quella cattolica della “carità”: ma anche un riflesso del “conservatorismo compassionevole” della Big Society riproposta da Cameron. Si potrebbe quasi dire che proprio qui sopravvive una delle ultime metafisiche tollerate e praticate nello Stato moderno. In realtà lo specifico attuale della solidarietà è di natura civile, perché indica un vincolo autoimposto e liberamente accettato, la consapevolezza degli altri intorno a sé, la proiezione della dimensione individuale degli interessi legittimi in una sfera più ampia, dove si stabilisce un legame non contrattuale tra le persone, nel riconoscimento di un fondamento comune di umanità. È quindi una sorta di obbligazione volontaria alla necessità altrui, una risposta privata ad una specie di interpellanza generale senza condizione e senza imposizioni, che segnala la rete autonoma, volontaria e spontanea che si intreccia sotto il rapporto regolato tradizionalmente tra lo Stato e il cittadino. Sottovoce, la solidarietà è riuscita talvolta a tradursi direttamente in politica corrente, ad esempio in Europa con la creazione del sistema di welfare, a protezione dei ceti più deboli in un disegno di parziale riequilibrio sociale nell’età della disuguaglianza. Ma intanto l’impegno solidale è implicitamente al centro di altre costruzioni sociopolitiche della modernità, quasi senza che noi ce ne accorgiamo, come un fenomeno naturale. È il caso dell’idea di comunità, almeno nel suo principio originario non di sistema chiuso su caratteristiche identitarie come sangue e etnia, ma al contrario di realtà unitaria attraverso ciò che è comune, nella ricerca proprio del bene comune. Ed è il caso, ancora, della stessa nozione abusata di società civile, nel semplice significato descritto da Ralf Dahrendorf come “insieme di individui che intrattengono tra loro rapporti di civiltà”, e danno risonanza pubblica agli effetti che i problemi sociali hanno causato nelle sfere private. La solidarietà dunque è il nucleo di ogni azione consapevole che la vita sociale dell’individuo e del gruppo di riferimento in cui si muove è basata sulla compresenza, sul rapporto con gli altri; e della capacità di tener conto di questa influenza reciproca. Come nella decisione di vaccinarsi, a tutela propria e altrui. Il peso politico di questa scelta è evidente. Si può aggiungere che l’elemento della solidarietà comporta una lettura condivisa del bene spicciolo, morale e materiale, che possiamo scambiarci nella vita di tutti i giorni, passando dalla compassione alla condivisione, dalla carità ai diritti. Ma a questo punto nasce l’ultimo interrogativo, rovesciando i termini: perché è così difficile una lettura condivisa del male? La pandemia ce lo conferma ogni giorno. La maggioranza innaturale, d’emergenza, che regge il governo Draghi sta insieme per manifesta impotenza politica, senza essere capace di trovare nella lotta contro il virus la ragione sociale, scientifica e soprattutto morale di una solidarietà necessitata. Manca l’elemento fondamentale, una comune interpretazione del male da combattere. Senza questa non c’è vera solidarietà, non c’è alleanza, ma solo un gregge senza immunità. Migranti. Border game, vite sospese sulla rotta balcanica di Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja Corriere della Sera, 3 gennaio 2022 Sei pentito di essere partito? “Sì. Ora non ho più sogni”. Una coppia di scrittori percorre la distanza dalla Serbia a Trieste mescolandosi con i disperati che provano a entrare in Europa, quasi sempre respinti alle frontiere in modo violento. Scoprendo che dal dolore di questa gente spesso si sprigiona un’imprevedibile vitalità. Edoardo Albinati e Francesca d’Aloja hanno preso parte a una missione organizzata dall’Agenzia Onu per i Rifugiati-UNHCR in Serbia e a Trieste. Accompagnati da Carlotta Sami, portavoce UNHCR in Italia, hanno incontrato e conosciuto la realtà di tanti rifugiati e migranti che si trovano lungo la famigerata “rotta balcanica”. Hanno incontrato volontari e persone delle istituzioni serbe e italiane e approfondito la realtà di chi ha deciso di fermarsi in Serbia, un paese che sta facendo enormi sforzi per creare opportunità per l’integrazione, e chi ha invece proseguito, sperimentando decine di volte il cosiddetto “game”, il tentativo di superare le frontiere di vari paesi europei, spesso respinti in modo crudele e violento. Ed infine chi accoglie e chi è accolto a Trieste. Un racconto a due voci che riflette quanto siano fragili gli equilibri alle frontiere europee e quanto colpiscano in modo drammatico l’esistenza di persone fragili ma desiderose di ricostruirsi la vita in modo sereno e costruttivo. Francesca d’Aloja: “Decompressione. È di questo che ha bisogno la mia mente al rientro dalla missione balcanica con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati-UNHCR. Non è semplice ritrovare le proprie ordinarie abitudini nel passaggio da una realtà così spaventosamente diversa e tremendamente vicina, alla mia vita di tutti i giorni. Le luminarie natalizie, le vetrine ammiccanti certo non aiutano, rendono tutto più insensato. “Just try to put yourself in the same situation” è la frase che mi ha accompagnato per tutto il viaggio. L’ha pronunciata Nikola Kovacevic, il giovane avvocato serbo a cui l’UNCHR ha riconosciuto quest’anno il Nansen award europeo per il suo lavoro in difesa dei diritti di profughi e rifugiati. Una frase tanto semplice quanto fondamentale ma anche, lo confesso, difficile da far propria. Io davvero non so, non posso sapere cosa significhi sopportare certe umiliazioni, non conosco l’origine di quella forza misteriosa che fa andare avanti questa gente sebbene una parola per definirla esiste: disperazione. Ne ricavo una prova tangibile e violenta all’indomani del nostro arrivo in Serbia. E forse è giusto cominciare dall’orrore, uno schiaffo che brucerà per i giorni a seguire”. Majdan, Serbia - Edoardo:”La Serbia è un paese che confina con altri otto. Attraverso le piatte distese della Vojvodina, stiamo arrivando alla triplice frontiera con Ungheria e Romania. Un paesaggio inospitale. Villaggi perlopiù abbandonati, le finestre sfondate o con le serrande chiuse, i tetti ondulati per il cedimento delle travi. Questa parte della Serbia si sta spopolando, se ne vanno all’estero o a Belgrado”. Francesca: “Majdan. Già dal nome la località evoca ricordi sinistri, basta aggiungere “ek” finali per comporre l’orrendo Majdanek, il campo di concentramento polacco. L’assonanza non è solo fonetica, purtroppo. Ci arriviamo dopo tre ore di auto e chilometri di paesaggi nebbiosi come in un film di Tarkovskij, casolari in rovina, piccole fattorie dimenticate. È a una di queste costruzioni, una stalla diroccata, che siamo diretti. Si staglia in mezzo al nulla, circondata da pozzanghere e sterpaglie. Di fronte a quello che fatico a definire ingresso, c’è un gruppo di uomini che battono i piedi per il freddo (la temperatura è scesa sotto lo zero): la prima cosa che salta agli occhi sono le loro scarpe, perlopiù sneakers in tela. Ma l’abbigliamento non è meno incongruo: tute acetate, giacche a vento che sarebbero inadatte pure a Palermo, pochissimi indossano i guanti, quasi tutti un berretto in pile. Ci stavano aspettando. Alle loro spalle una lamiera funge da protezione all’accesso del ricovero che ci apprestiamo a varcare con la reticenza di chi prevede che oltre la soglia lo aspetta un girone infernale. E tale è. Una struttura rettangolare lungo il cui perimetro grandi aperture lasciano entrare un vento gelido. Sul pavimento è disseminata una cinquantina di minuscole tende sudice e lacere, con intorno un tappeto di lerciume. C’è un odore aspro, sprigionato dai materiali utilizzati per accendere fuochi di fortuna: pneumatici, cartoni e poca legna, perlopiù umida e quasi inservibile. Si fa avanti un ragazzo, fradicio, è appena tornato dopo l’ennesimo tentativo di traversare il confine rumeno, il famigerato “game”. I poliziotti lo hanno minacciato con la pistola seguendo l’ottuso rituale del pushback. E lui: “Perché mi punti addosso la pistola? Non sono un animale pericoloso!”. “We are no animals, we are no criminals” sono le frasi che ripetono insistentemente anche a me. Vorrei rispondere che se anche lo fossero non meriterebbero un trattamento del genere, e che il termine criminale andrebbe semmai rivolto a quelli che li respingono in maniera più o meno brutale. Siamo in Europa, santiddio. C’è anche un bambino, avrà otto anni. Non lascia mai la mano del padre, ed è l’unico, in quell’inferno, a regalarmi un sorriso. Ingoio una bestemmia insieme alle lacrime che faccio fatica a controllare. Penso alla notte che si avvicina, ai telefoni scarichi (il loro vero e unico tesoro), alle temperature implacabili, a me, che fra qualche giorno tornerò nel paese che sognano”. Edoardo:”Molti di loro hanno ai piedi nudi un paio di Croc semisbriciolate. Mostrano le loro piaghe e cicatrici, frutto della guerra o dei maltrattamenti polizieschi. A parte le randellate e le ustioni di sigaretta e ferro da stiro, la violenza più odiosa l’ha subita un siriano a cui i gendarmi si sono limitati, sadicamente, a rompere gli occhiali. Quando li intercettano, gli fregano i soldi, gli spaccano i cellulari, affinché non ci provino più, eppure loro continuano a provarci. Nel gergo della rotta balcanica, si chiama “game”, il tentativo ripetuto di scavalcare le frontiere, dieci volte, venti o trenta volte: una specie di lotteria, o di roulette, la cui posta è la vita. “Vedi, la migrazione è come l’acqua. Blocchi un punto e comincerà a gocciolare da un’altra parte.” E i paesi confinanti? Da qualche po’ di tempo i croati stanno più attenti a non esagerare, vista la cattiva stampa su come trattavano i migranti (leggi: vere e proprie torture). L’Ungheria fin dal 2016 si era portata avanti militarizzando tutta la frontiera con filo spinato e posti di blocco. La polizia rumena ancora ricorre alla tradizionale tecnica delle legnate. “Ma qui, riuscite a pregare?”, chiedo, visto che molti sono musulmani e hanno il precetto di farlo cinque volte al giorno. “Come possiamo?”, e indicano il fango cosparso di detriti dove inginocchiarsi. Dentro quel capannone, brulica un’umanità allo stremo eppure ancora bizzarramente vitale: figure simili a quelle che nel mese di novembre abbiamo visto annaffiare con gli idranti sulla frontiera tra Polonia e Bielorussia. Uno yemenita timidamente protesta perché non si parla mai del suo paese, e ha ragione, lo Yemen ha visto, a oggi, quattro milioni di persone costrette a fuggire per la guerra”. Francesca: “Si avvicina un altro ragazzo. È un ingegnere irakeno, parla un ottimo inglese. E’ tornato ora al fienile dopo aver tentato, all’alba, il suo venticinquesimo game. Si è sentito male, non riusciva ad andare avanti per il freddo. “Domani ci riprovo,” dice, “è la mia sola possibilità”. I pochi chilometri che li separano dal confine sono la chimera che spiega quel pernottamento allucinante. C’è gente che sta qui da mesi. Hanno affrontato ogni genere di rischio, sono finiti nelle mani di trafficanti senza scrupoli, hanno patito freddo e fame alla ricerca di una “vita dignitosa” e non vogliono fermarsi in un paese che (nonostante sia sicuro e offra crescenti opportunità di integrazione) offre salari insufficienti a ripagare i debiti contratti per affrontare il viaggio: la Germania, la Francia, l’Austria sono le mete ambite, il sogno europeo. C’è dell’epica in questo movimento umano inarrestabile. Vanno avanti e non si fermano, nonostante muri e fili spinati. L’ultimo schiaffo me lo riserva il passaggio di un pakistano che mi mostra una pentola con un fondo di maccheroni incollati. “Pasta italiana!” mi dice nel suo tragico omaggio alle nostre origini. Che Dio ci perdoni”. Edoardo: “Fuori dal capannone, nel nulla del nulla, un paio di sagome incappucciate palleggiano per ingannare il freddo e il tempo, il pallone bucato quando piomba nel fango non rimbalza. Dopo un po’ smettono. La linea dell’orizzonte si dissolve nel livido crepuscolo invernale: lì, a qualche chilometro, oltre l’invisibile confine, a destra c’è la Romania, a sinistra l’Ungheria. Risaliti in macchina, Francesca piange di sconforto sulla spalla di Carlotta Sami. Alcuni desperados di Majdan ci salutano con la V di indice e medio: il segno di vittoria più incongruo che io abbia mai visto. Molte ore di macchina dopo, belli cotti, ci infiliamo in un locale di Belgrado dove rifugiati iracheni e di ogni dove hanno cucinato piatti buonissimi, e li condividono con i locali. Malgrado la stanchezza è una bella serata, il cibo resta la più semplice occasione di incontro. Schiacciando tra i denti semi di melograno, piccole esplosioni dolci, cerco di non pensare troppo a quello che abbiamo visto stamattina. Cioè, dovrei pensarci, in fondo siamo qui per questo, no? ma preferisco non farlo e riuscire a dormire stanotte. Non mi si leva dalla testa una frase sentita a Majden: “Io mi chiedo solo: perché ci umiliano così?”. Miratovic e Preševo, Serbia - Francesca: “Partiamo all’alba da una Belgrado coperta di neve, ci aspettano quattro ore di viaggio per raggiungere il confine con la Macedonia del Nord, là dove transitò quasi un milione di persone in fuga dalla Siria, tra giugno 2015 e marzo 2016”. Edoardo: “A Miratovac, proprio sul confine con la Macedonia. Nevica fitto lungo il binario desolato che congiunge i due paesi. Il nostro accompagnatore Boban (il classico omone serbo) ricorda quando lungo quel binario camminava inesorabile una folla di migliaia di persone ogni giorno. L’epico esodo dei siriani. Ora le tende vuote sbattono nel vento”. Francesca: “Abbiamo imparato molto da quell’emergenza” ci dice Liria, responsabile del team UNHCR per il campo di Preševo. È una donna in gamba, Liria, entusiasta del proprio lavoro. Dopo averci rifocillato con specialità albanesi (la maggioranza della popolazione qui è albanese), ci accompagna a visitare l’RTC (Reception Transit Center), che un tempo era una fabbrica di tabacco. I vari reparti, dal refettorio ai dormitori, dal magazzino alle lavanderie sono ben organizzati, puliti. Ci sono spazi per le famiglie e i bambini possono frequentare la scuola. Da quando i confini degli Stati lungo la rotta balcanica sono stati chiusi, il flusso si è naturalmente ridotto e il viaggio verso l’Europa è diventato sempre più costoso e pericoloso. “Quelli che hanno soldi ce la fanno” mi dice un ventenne siriano alludendo all’unico sistema che garantirebbe loro l’ingresso in Europa: affidarsi (sarebbe più corretto dire consegnarsi) ai trafficanti. Il business della migrazione non è mai in perdita, sulla disperazione si guadagna, e in nome del profitto si compiono impunemente soprusi inauditi. Una violenza che si legge negli occhi e nei corpi spesso martoriati di persone che non chiedono altro che il riconoscimento di un diritto sancito dalle convenzioni internazionali. Li vediamo deambulare in ciabatte attraverso i reparti del centro. Sono quasi tutti giovani maschi partiti mesi, anni prima (la concezione del tempo viene rielaborata continuamente, l’unico punto fermo resta la data di partenza, quella di arrivo è imponderabile), che hanno congelato porzioni di vita legittime. Non coltivano amicizie, amori, non conoscono la spensieratezza, l’illusione di un sogno, il diritto a giocare a lavorare a divertirsi a sorridere. Nel piccolo corridoio che immette all’infermeria sono seduti alcuni ragazzi in attesa della visita medica. È buio e quasi tutti hanno il volto seminascosto dal cappuccio della felpa, ma uno di loro colpisce la mia attenzione (o forse i miei sensi)”. Ha le mani in tasca, la postura difensiva, guarda in basso. Poi solleva lo sguardo e in quella penombra m’illuminano i suoi occhi. Occhi afghani, gli stessi potenti occhi della ragazzina ritratta nel famoso scatto di Steve McCurry e che appunto, solo in quel luogo della terra esistono. Sono bellissimi e dolenti, forse sufficienti a spiegare, insieme alla ruga incongrua che segna la sua fronte di quattordicenne, quali difficoltà abbia attraversato lungo il cammino (il solito: Afghanistan-Iran-Turchia-Grecia-Bulgaria…) che lo ha portato, per adesso, fin qui. Migliaia di chilometri macinati insieme a “due cugini” (il virgolettato è purtroppo d’obbligo, non essendo mai certa la veridicità di parentele dietro le quali si possono nascondere profittatori di ogni genere). Prima di lasciare Preševo, chiedo a Liria di raccontarci un episodio che l’ha colpita più di altri, e lei risponde senza troppo pensare, segno che quel ricordo, nonostante siano trascorsi sei anni, è ancora vivo e presente: “Fra le migliaia di persone notai una ragazza che teneva in braccio un bambino di pochi mesi. Il piccolo, affamato, piangeva disperato, ma la mamma non aveva più latte. Allora mi offrii di allattarlo io, avevo partorito da sei mesi e il latte non mi mancava…” Liria si commuove e noi insieme a lei. Viene in mente la straordinaria scena finale di Furore di Steinbeck, con il vecchio moribondo allattato dalla ragazza che ha appena avuto un bambino: “I know love and fortune will be mine/ Somewhere across the border”“. Krnjaca, Belgrado - Francesca: “Nur è nata a Herat, in Afghanistan, ed è arrivata in Serbia quattro anni fa insieme al marito e ai tre figli. Hanno tutti fatto richiesta di asilo, la loro vita ricomincia da qui. Sta seduta di fronte a noi nella saletta messa a disposizione per i nostri incontri, nel centro di accoglienza di Krnja?a, appena fuori Belgrado. Non è il niqab a coprirle il volto ma la mascherina, come per tutti noi. Ha occhi bellissimi da ragazzina, sembra più giovane dei suoi ventotto anni. “Qui mi sento più libera, nel mio paese essere donna è molto difficile.” E poi, commuovendosi, dice qualcosa che la accomuna ai molti profughi che abbiamo incontrato: “Potreste fare qualcosa per le donne afghane? Non abbandonatele per favore…”. Non parla per sé, Nur, ma si fa portavoce degli altri, delle altre. Nessuno chiede qualcosa per sé, parlano tutti al plurale. Quando le dico che ho fatto l’attrice, le brillano gli occhi: “Anche io vorrei fare l’attrice, ho recitato in uno spettacolo insieme ad altri rifugiati come me”. Edoardo: “Quando Nur ha abbassato la testa e per pudore si è coperta i begli occhi pieni di lacrime, ho provato un sentimento violento e molto particolare che è di pena e tenerezza miste a una paradossale gioia. Esatto, gioia. Scriveva Hölderlin che invano noi ci sforziamo di dire gioiosamente il gioioso; ed ecco che, infine, nel lutto esso si esprime. E’ proprio così, dal dolore di questa gente talvolta si sprigiona una imprevedibile vitalità, un’esultanza che si trasmette a chi sta loro vicino. Sono momenti toccanti o anche divertenti che, mi dispiace per loro, i frustrati detrattori delle attività umanitarie, impegnati a demolire ogni minimo accenno di solidarietà, in vita loro non proveranno MAI. Per esempio, da noi in Italia spesso vengono presi a bersaglio i migranti solo perché possiedono un cellulare. Ma il giornalista serbo Momir Turudic lo spiega benissimo: “Be’, un paio di scarpe robuste e un cellulare fanno la differenza tra restare vivi e morire, per chi deve percorrere centinaia di chilometri a piedi in posti sconosciuti. Non sono un lusso, ma la sola speranza di sopravvivere.”“ Francesca: “Gli spettacoli di cui ha parlato Nur sono spesso opera di Branka Katic, un’attrice serba molto nota, che ha preso a cuore la causa dei rifugiati e collabora regolarmente con UNHCR organizzando seminari di recitazione. Non è un attivismo di facciata il suo, basta parlare un po’ con lei per essere contagiati dal suo fervore: “I spread all over my blonde enthousiasm!” dice ridendo. È bella gente quella che si occupa di queste cose, c’è poco da fare. Come Nikola Kovacevic che offre assistenza legale ai migranti e combatte affinché vengano loro riconosciuti diritti spesso calpestati, offesi, o nel migliore dei casi ignorati. Una forza della natura l’avvocato serbo, giocatore di pallanuoto, il classico tipo che vorresti avere accanto in un momento di pericolo. O la rappresentante dell’UNHCR a Belgrado, un’italiana, Francesca Bonelli, molto battagliera, che col suo lavoro sta creando opportunità di asilo e integrazione fino a poco tempo fa impensabili. Un futuro in Serbia, per esempio, potrebbero averlo tre ragazze del Burundi, Belyse, Lynda e Alice, che abbiamo incontrato al centro di Krnja?a. Sembrano sollevate, e sorridono quando gli chiediamo di abbassare le mascherine. Ci spiegano in un bel francese pulito che gli piacerebbe restare qui. Una di loro è una psicologa. L’atmosfera con loro si distende, si fa quasi giocosa. Non ci immaginavamo proprio di trovare qui ragazze africane: come la prima sera a Belgrado, Virginie, anche lei del Burundi, timida e bellissima, che studia biochimica all’università”. Edoardo: “L’ambasciatore Carlo Lo Cascio con molta pazienza cerca di spiegare a noi profani la singolare posizione geopolitica della Serbia: in attesa del via libera per entrare a far parte dell’EU, e al tempo stesso corteggiata da altri paesi, ovviamente la Russia, con cui il legame storico è sempre forte. La statua dello zar Nicola II è sempre lì, in Kralja Milana, a due passi dal Parlamento, e tutti i documenti ufficiali per legge vanno scritti in cirillico. Ora, sopratutto l’Italia preme per l’ammissione, del resto siamo il secondo partner commerciale della Serbia, tallonato dalla solita Cina. E’ insomma un paese in bilico. “Non dobbiamo aspettare che Russia, Cina e Turchia arrivino: sono già qui,” rammenta Lo Cascio. Eppure, penso io, c’è più Europa qui che, poniamo, in Lettonia… anzi di storia europea qui ce n’è persino troppa! Putin intanto tiene ben aperta la sua corsia preferenziale nei Balcani: i serbi pagano il gas russo a una tariffa irrisoria, fuori mercato, e hanno la garanzia che Mosca e Pechino al consiglio di sicurezza ONU voteranno sempre no al riconoscimento del Kosovo. In tema di migrazioni la Commissaria europea per gli affari interni Ylva Johansson ha di recente definito l’atteggiamento della Serbia “umano e pragmatico”, il che, commentiamo tra noi, è un bel complimento se paragonato a quanto stanno combinando alcuni paesi membri, a cominciare da Ungheria e Polonia. (E in effetti da quel che abbiamo visto fin qui, ha ragione la Commissaria, la Serbia si sta comportando bene. Ha persino messo in piedi un’Agenzia indipendente che si occupa specificatamente dell’asilo. Resto convinto che pragmatismo voglia dire proprio questo: nessun manicheismo, non affrontare i problemi a colpi di slogan ma cercando di ridurre quanto più possibile il danno e anzi tramutarlo in un’occasione di crescita. Essere pragmatici forse significa semplicemente essere umani.)”. Belgrado-Lubiana-Trieste - Edoardo: “Un protagonista di questa breve incursione balcanica è stato il fumo. I miasmi velenosi che ristagnavano nella stalla di Majdan, il fumo delle sigarette aspirate voluttuosamente negli interni di ogni ufficio o ristorante di Belgrado. Non ci siamo più abituati, dai tempi in cui si fumava al cinema, e le volute azzurrine si stagliavano nei raggi del proiettore. Branka ci ricordava ridendo come persino nel gabinetto del suo dentista ci sia un posacenere, per fumare tra un’estrazione e l’altra. Aspettando l’aereo, leggo un libro sugli dei greci, che, secondo l’autore, Walter Otto, sono presenti in modo costante in ogni pensiero, decisione o azione intrapresa dagli uomini. E a Majden? Da quella spianata fangosa gli dei sembravano essersi dileguati, per orrore verso tanta miseria umana; oppure era un dio ignoto a spingere senza tregua quei disgraziati contro il filo spinato del confine ungherese, ogni giorno, e a non fargli sentire gli sfollagente dei poliziotti rumeni. Che nome dare a questo dio che suscita in uomini comuni una forza e una resistenza sovrumane? Tra quei migranti ce n’era uno già abbastanza anziano, capelli e baffi bianchi, pieno di cicatrici sulle ginocchia, sui polsi e sul costato: ebbene, aveva tentato già trentotto volte. Trentotto volte respinto con le cattive. Appena decollati, dal finestrino vedo la Sava gettarsi nell’immenso Danubio, che a Belgrado dicono verde invece che blu. Lubiana la troviamo sepolta dalla neve”. Fernetti, Trieste - Edoardo: “Il confine tra Slovenia e Italia è impresidiabile. Lo afferma in tutta onestà Fabio Soldatich, dirigente della polizia di frontiera a Fernetti, sopra Trieste. “Ci sono 22 valichi, e noi abbiamo tre pattuglie…”. È quello che con soffice eufemismo viene definito un confine “poroso”. Dovrebbero tenerne conto, i patrioti che invocano la difesa a tutti i costi dei confini italiani: se ogni tanto si occupassero di realtà e non di strillare slogan. E poi, difesa da chi? Da eserciti nemici? No, da qualche gruppetto di profughi e migranti. “Qui vai per asparagi selvatici… e ti ritrovi senza accorgertene in Slovenia.” Uno può immaginare che a condurre il business siano trafficanti delle solite nazionalità, e invece no: non molto tempo fa hanno arrestato una cittadina tedesca che nascondeva tre indiani nel bagagliaio dell’auto. Persino una pensionata slovena ci si è messa, a trafficare uomini, è molto redditizio, i prezzi sono andati alle stelle: se fino al 2015 dalla Grecia a qui pagavi tre o quattrocento euro, ora solo dalla Bosnia te ne chiedono fino a cinquemila. I respingimenti (chiamati in modo eufemistico “riammissioni”) dal 2021 in Italia sono stati dichiarati illegittimi. È il risultato di un fitto dialogo tra le nostre autorità, l’UNHCR e le altre associazioni affinché venisse riconosciuto il diritto a chiedere asilo dopo aver affrontato ogni tipo di violenza durante il viaggio. Prima, uno sorpreso alla frontiera italiana veniva ricacciato in Slovenia, gli Sloveni lo acchiappavano e lo portavano al confine con la Croazia, e i croati lo ributtavano in Serbia, cioè fuori dall’EU, in una specie di crudele gioco dell’oca, dove un lancio di dadi sbagliato ti fa retrocedere di parecchie caselle, magari quando sei giunto a un passo dall’arrivo. Succedeva persino che in Serbia o in Bosnia ci finisse, ricacciata indietro, gente che non ci era mai passata prima: i paesi appena fuori dall’EU insomma usati come discariche umane, come secchi dell’indifferenziata… E sono gli stessi poliziotti a essere un po’ stufi della favola dell’”invasione”. “Perché se ne parla così tanto e se ne conosce così poco?” si chiedono. (E poi, che strazio non riuscire mai a parlare delle cose, e invece starsi sempre a trastullare con la loro narrazione! Finiamola con ‘sto mantra della narrazione! Le cose in fondo sono quello che sono.) Ora alla stazione di Fernetti ci sono cinque appena arrivati, due dal Punjab e tre dal Bangladesh. Attendono nel prefabbricato che da un po’ di tempo ha sostituito i tendoni: facile immaginare che la bora se li sarebbe portati via, i tendoni. Sono piccoli uomini scuri e magri, mascherati, infreddoliti nelle coperte, ma abbastanza vispi. Il loro viaggio dal delta del Gange fino al Carso triestino è durato, in media, da due a tre anni. Entra il medico a fargli il tampone. Poi la quarantena. Nel 2021 ne sono arrivati qui, in tutto, novemila”. Francesca: “La sindrome da stress post traumatico è un elemento poco considerato nell’anamnesi,” ci dice Michele Carraro, medico volontario dell’associazione Donk, che incontriamo a Casa Malala, il centro di accoglienza al confine italo-sloveno. “Il limitato numero di personale medico finiva per produrre visite frettolose, orientate soprattutto alla diagnosi di patologie infettive, come la tbc o la scabbia. Ora stiamo cercando di esaminare anche l’aspetto psicologico, ad esempio le conseguenze delle torture subite, un flagello finora poco evidenziato”. Edoardo: “Gli stati patologici che i medici di DonK riscontrano a prima vista sono piaghe a piedi e gambe, affezioni delle vie respiratorie, enteriti dovute all’acqua contaminata, e poi ferite di ogni tipo (da arma da taglio o da fuoco, ustioni da sigaretta o da metallo arroventato…). Ci raccontano la storia incredibile di un iraniano, un uomo facoltoso, dirigente d’industria, ma oramai quasi cieco per una retinite pigmentosa incurabile, che non sono riusciti a trattenere: voleva a tutti i costi raggiungere la Germania o l’Inghilterra, incurante del suo stato (torna in mente il commovente personaggio interpretato da Donald Pleasance nel film La grande fuga…). Quindi è riuscito a partire da Trieste tutto solo e ci ha telefonato da Parigi, sì, dalla Gare de Lyon, un vero miracolo che ci fosse arrivato. Ma la stazione stava chiudendo per la notte, si è trasferito nei sotterranei del Metro, lo hanno mandato via anche da lì, e ha dormito sotto una pensilina, poi la mattina è riuscito a prendere il treno per Francoforte… “Voglio trovare una cura per la mia anima, non per i miei occhi.” Carraro sospira. “È così: quando uno di loro sente che deve andare, va. Qualunque impedimento, qualsiasi malattia abbia, niente riesce a fermarlo. Trova un’energia che non possiamo nemmeno immaginare…” “ Francesca: “Incontriamo un ragazzo pakistano, arrivato da tre mesi dopo avere attraversato le classiche tappe. Quando ha lasciato il suo paese, quattro anni fa, aveva 17 anni. “Avevi paura quando hai cominciato il viaggio?” “Sì, molta. Sapevo che sarebbe stato difficile.” “Cosa ti sei portato da casa?” “Nulla. Uno zaino e il cellulare che mi è stato sequestrato in Iran…” “I momenti più difficili?” “È sempre difficile”. “Ti sei pentito di essere partito? “Sinceramente sì. Al mio paese avevo una vita. Studiavo, il mio sogno era diventare medico. Adesso non ho più sogni.” “Cosa ti ha insegnato questo viaggio?” “Ho imparato come si vive la vita.” Nei racconti le voci sono sempre pacate, quasi distaccate. Solo gli occhi denunciano. Viene da chiedersi quali sentieri tortuosi abbiano preso i sentimenti negativi. Ed è difficile la posizione di chi ascolta, non solo per la complessità del racconto che si percepisce essere parziale per un’infinità di intuibili ragioni: paura, sofferenza, desiderio di rimozione - ma anche perché l’ascolto ti induce a non restare indifferente, a fartene carico”. Edoardo: “Siamo al ICS (Italian Center of Solidarity) di Trieste, ad ascoltare storie. Gli Afghani partono a 12 o 13 anni e arrivano qui a 17, magari sono nati già in esilio, da genitori scappati in Pakistan o in Iran, e il loro paese d’origine non l’hanno visto mai. Hanno capelli nerissimi e occhi verdissimi, quella miscela sconcertante dalle nostre parti dove i colori vanno perlopiù assieme alla carnagione - biondi con occhi chiari e bruni con occhi neri. La storia burrascosa di Najib è quella di un ragazzo pashtun che deve scappare per una faida locale: è il primogenito di una famiglia facoltosa, e lì, a Swat, in Pakistan, rischia la pelle, dunque il padre lo obbliga a partire. “Attraverso il Belucistan arrivo in Iran. Non avevo idea di dove stessi andando. Sempre da solo viaggio in Iran, a piedi e in macchina, ci metto quindici giorni, e poi da lì passo in Turchia.” In Turchia se la vede brutta con una banda di Curdi armati di coltello, quindi, arrivato quasi al confine tra Turchia e Grecia, in mezzo a un bosco, un gruppo di afghani lo sequestra. Lo tengono prigioniero per due settimane e chiedono diecimila euro di riscatto al padre (più tardi Daniel, eritreo dell’UNHCR, ci spiegherà come funzioni, tra trafficanti e banditi, questo sistema di trasferimento anche di grosse somme di denaro attraverso dei complici locali, in maniera difficile da tracciare…). Una volta ricevuti i soldi, i rapitori di Najib ne chiedono ancora, e per questo rifiutano l’offerta di un altro gruppo di banditi afghani che volevano comprarsi Najib per mille euro e gestire loro l’ostaggio. “Mi puntavano il coltello alla gola e mi dicevano: chiama i tuoi genitori e digli che sei in Grecia, digli che sei in Francia…”“. Per fortuna sono sempre fatti di droga fumata con la shisha, sicché una notte Najib, mentre quelli dormivano, riesce a scappare forzando a calci le sbarre alla finestra. Attraversato il fiume Evros, riesce a entrare in Grecia, dove resterà a lungo lavorando per dodici ore al giorno la terra e raccogliendo olive. Da lì, a piedi, in Macedonia, da dove viene respinto tre volte, ma poi riesce a farcela in treno, e quindi in Serbia. “Quanto tempo sei rimasto in Serbia?” gli chiediamo. Non riesce a rispondere. Dice solo: “Quando viaggi, non sai che giorno è, che anno è…” (ed ecco che alle nostre orecchie di colpo assume tutto un altro significato la famosa canzone di Lucio Battisti…). Comunque rimane almeno un mese a Presevo, e poi da lì raggiunge la Bosnia, dove trascorrerà un anno e mezzo. “Cosa cercavi?” “Un paese dove vivere tranquillo,” risponde. Da questo punto in poi si sussegue una ventina di “game” quasi sempre falliti per attraversare Croazia e Slovenia e raggiungere in Italia, ma quando ci riesce, la prima volta, viene respinto indietro fino alla Bosnia. Il 18 ottobre scorso, oramai ventiquattrenne, approda di nuovo in Italia. “Bevi il tuo caffè, prima che si freddi…” Per farlo si abbassa un istante la mascherina. Una faccia simpatica. “In tutto questo tempo,” gli chiediamo, “hai mai incontrato una persona buona, che ti abbia aiutato?” Scuote la testa. “No.” “Nemmeno una su cento?” “Forse una sì.” Dunque le altre novantanove no. All’inizio del suo racconto aveva messo in mezzo i Talebani, come motivo della sua fuga, ma poi li ha lasciati cadere. Il nostro interprete ce lo conferma: anche lui, che ora vive e lavora in Italia da anni, al suo arrivo qui aveva usato la parola magica “Talebani”, per ottenere attenzione, comprensione”. Francesca: Entra Aida, una delle poche ragazze incontrate fin qui. Marocchina. Porta con sé forza e freschezza, e regala sorrisi che neanche la mascherina riesce a nascondere. Ha voglia di parlare e sa come farsi ascoltare, un dono che deve esserle stato utile per superare le peripezie che la vita le ha riservato. A 19 anni, incinta, parte da Fez insieme a Osama, il suo ragazzo, per sfuggire alle vessazioni degli zii materni (ricorrono spesso nelle storie queste figure di zii brutali…). La mamma e la nonna coprono la fuga e le danno 4000 euro. Nessuna meta precisa, la scelta cade su paesi che non richiedono il visto. Comprano un biglietto per Istanbul, appena arrivati vengono intercettati da due figuri (altre presenze ricorrenti…) che promettono loro aiuto per andare in Italia in cambio di 1000 euro. Saranno invece sequestrati e chiusi in una stanza da cui riescono a fuggire gettandosi dalla finestra. Lei perde sangue. È l’inizio di una serie di sventure: intercettati dalla polizia turca vengono nuovamente derubati dagli stessi poliziotti, poi aiutati da una famiglia di palestinesi che si offre di traghettarli in Grecia, lei però sta troppo male e finisce in ospedale. Le fanno un raschiamento senza anestesia. Senza più un soldo, Aida e Osama vivono a Istanbul da clochard, chiedendo l’elemosina. Li attendono due anni di marcia lungo il classico percorso balcanico: Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia (“il paese più razzista”), Croazia (“i poliziotti più cattivi, ti rubano pure le scarpe…”), Slovenia. Nel frattempo era rimasta di nuovo incinta, e le vengono le doglie in mezzo alla foresta slovena, ma fortunatamente trova rifugio in una casa isolata (“sembrava un’apparizione!”) il cui proprietario è un infermiere che la aiuta a partorire. Un parto miracoloso che richiama l’attenzione dei media sloveni (Aida ci mostra orgogliosa l’articolo di un giornale). Finalmente, l’arrivo a Trieste. “La storia sarebbe molto più lunga ma non vi racconto tutto perché la sto scrivendo, nel mio libro!”. E sorride. Sembra felice, ora. L’Italia le piace, ha chiesto asilo, la figlia va a scuola e impara la nostra lingua. Si sta integrando. Siamo stanchi e provati, dal viaggio, dai racconti, da ciò che abbiamo visto. Ascoltiamo ancora un ragazzo. Pakistano, arrivato in Italia da due anni, con lo statuto di rifugiato a tutti gli effetti. Ha il volto seminascosto dalla mascherina e dal cappuccio della felpa che non vuole togliere. Il suo racconto è sovrapponibile a tanti altri: stesso iter, uguali i passaggi. Mentre parla mi accorgo di non avergli posto la domanda rituale: “Quanti anni avevi quando sei partito?”. La sua risposta proietta tutto ciò che ha detto fino a quel momento in un pozzo ancora più nero e profondo: “Tredici anni”. Tredici anni. Il lungo viaggio che dal Pakistan lo ha portato in Italia è fatto di solitudine, paura e incredulità. Affidato a dei passeurs che lo scaricano in Turchia (dopo aver attraversato a piedi l’Iran), si ritrova a Istanbul, non conosce nessuno e come da copione finisce nelle grinfie di due uomini (si presentano sempre in coppia, come il Gatto e la Volpe), che prima gli offrono aiuto poi gli chiedono dei soldi. Arriva in Grecia, lo ferma la polizia e lo spedisce in un campo profughi dove resta 18 mesi senza poter uscire. Poi va a Salonicco, dorme all’aperto, nel parco. Un quarantenne lo vede e gli offre aiuto, lui ha paura, non si fida, ma l’altro è rassicurante e allora lo segue. Lo ospita alcuni giorni e gli trova lavoro nei campi dove però viene sfruttato e mal pagato (“lavoravo dalla mattina alla sera e i soldi guadagnati servivano a malapena per vitto e alloggio”). Sballottato da una parte all’altra, si unisce a un iraniano che gli procura un passaggio in Macedonia: i trafficanti lo lasciano a due chilometri da un campo profughi serbo dove resta alcuni giorni. Da lì riparte insieme a una famiglia araba diretta a Belgrado, dove altri passeurs garantiscono un passaggio in Bosnia. Alla stazione delle corriere viene derubato di tutto ciò che possiede: soldi e cellulare. Riesce comunque a partire per la Bosnia, ma non c’è posto nel campo profughi che dovrebbe accoglierlo e trova rifugio in un casolare abbandonato. Tenta trentacinque game per avvicinarsi all’Italia. Attraversa la Bosnia in soli 13 giorni, a piedi, insieme ad altri dodici, sette dei quali mollano per il freddo o perché fermati dalla polizia. Lui resiste e continua la marcia attraverso i boschi sloveni. Il 5 dicembre 2019 arriva in Italia. Ha sedici anni”. Edoardo: “Nel piazzale davanti alla stazione ferroviaria di Trieste Lorena Fornasir si reca ogni pomeriggio verso le quattro tirandosi dietro un carrellino con le medicazioni. Arrivano qui alla spicciolata, coi piedi congelati. Le ferite procurate durante il game stentano a rimarginare. Lorena presta ai nuovi giunti il pronto soccorso. Quella che lei e suo marito Gian Andrea Franchi è un’azione che però si vuole politica e non solo umanitaria, una forma di attivismo e non di semplice volontariato. Nel novembre scorso, il gip ha archiviato un procedimento a loro carico per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. I due erano stati indagati e considerati (in modo alquanto inverosimile…) nientemeno che il terminale italiano di un’organizzazione internazionale di trafficanti: e tutto ciò per aver ospitato due notti una coppia iraniana con bambini, e per averli facilitati nell’acquisto di un biglietto ferroviario per la Germania... Lorena davanti alla stazione di Trieste si prende cura delle piaghe fisiche, ma è una psicoterapeuta, e si chiede: “Cosa ne sarà di questi adolescenti che non hanno avuto infanzia? Dove finisce la loro rabbia?”“ Francesca: “Ultimo giorno a Trieste, spazzata da una bora gelida. Chissà in quanti lassù, oltre il profilo delle colline carsiche, oggi proveranno il “game”. Il senso di impotenza fa un male fisico, hai voglia a raccontare, ma sai che non basta, sai che chi la pensa come te non ha forse bisogno di parole (anche se credo si debba inventarne di nuove, quelle pronunciate tante volte hanno perduto il loro significato a forza di ripeterle…) e gli altri non vogliono sentirle. Le parole non sono sufficienti. Ma quando vedi con i tuoi occhi, ti accorgi quanto l’orrore e la bellezza siano più vicini di quanto si riesca a immaginare, di quanto la disprezzabile umanità sia capace persino in quei frangenti di mostrare un’invincibile bellezza”. Migranti. Dall’Afghanistan alla val di Susa, il lungo e pericoloso viaggio per la libertà di Laura Fasani Il Manifesto, 3 gennaio 2022 Dall’Afghanistan all’Europa. Il lungo e tormentato viaggio dei profughi per cercare di attraversare la frontiera Italo-Francese. Attraversare il confine tra l’Italia e la Francia non gli sembra una grande impresa, a confronto di quello che ha già passato. Di sicuro, però, è più facile per gli sciatori europei che gli sfrecciano accanto, senza badare a lui e al suo compagno di strada, incuranti dei binocoli della polizia puntati verso i boschi. “Qui funziona così: qualcuno scende felice - commenta Ali Rezaie - qualcun altro, invece, sale triste”. Ali Rezaie non avrebbe dovuto trovarsi con un suo compagno afghano su uno dei tanti sentieri invisibili nella neve alta che, a pochi passi dalle piste da sci, di giorno e di notte i migranti battono per attraversare le Alpi al confine tra l’Italia e la Francia. Succede a Clavière, ultimo comune italiano a una manciata di metri dal cartello blu con la scritta “France” circondata dalle stelle dell’Unione, la frontiera stridente di un’area Schengen accessibile ad alcuni e blindata per altri, che pure percorrono la stessa strada. Per Ali, afghano di Herat che fino a quest’estate lavorava per un’organizzazione internazionale, era stato riservato un posto su uno dei voli che da Kabul portavano in Europa chi aveva collaborato con gli stranieri. Ma gli attacchi suicidi e le sparatorie che il 27 agosto hanno fatto decine di vittime hanno compromesso anche la sua via più sicura per mettersi in salvo. E così è stato costretto a incamminarsi per un viaggio di migliaia di chilometri, quasi tutto a piedi. Più di tre mesi dopo Rezaie, 27 anni, è arrivato a Oulx, un comune dell’Alta Val di Susa a 79 chilometri da Torino, dove lo abbiamo incontrato insieme ai giornalisti di AP. Prima di tentare l’attraversamento dei passi alpini, si è fermato al Rifugio Massi, una struttura che dal 2018 offre ospitalità ai migranti in transito verso altri paesi europei, Germania in cima. A due passi dalla stazione dei treni, il Rifugio Massi può accogliere 42 persone, fino a ottanta nei momenti di maggiore emergenza. Gestito dagli operatori della onlus Talità Kum, fondata da don Luigi Chiampo, in stretta collaborazione con la Croce Rossa Italiana e l’associazione Rainbow for Africa, il rifugio è il punto di riferimento per i migranti che provano a passare il confine a Clavière. Per arrivarci prendono il pullman da Oulx fino in paese oppure per Cesana Torinese, sette chilometri più in basso, da dove salgono a piedi sulla statale prima di disperdersi nei boschi. Se fino al 2019 quasi il 90 per cento delle persone in transito era composto da africani, oggi la maggioranza sono iraniani, siriani, iracheni e soprattutto afghani, alcuni fuggiti come Ali Rezaie dopo il ritorno dei talebani e molti altri partiti più di un anno fa, per anticipare quello che vedevano come l’unico esito sicuro di questa guerra. Da inizio anno, raccontano al rifugio, da Oulx sono passati circa 12mila migranti. Non c’è ancora però l’esodo di massa che molti in Europa stanno aspettando, anche se i numeri sono in aumento. Basta provare a percorrere qualche metro delle strade possibili verso la Francia per capire perché. Appena si lascia la strada e si prova a virare verso il confine seguendo il Gps, le gambe affondano nella neve fino al ginocchio. Fa freddo, a Clavière, il vento gelido sferza le parti di viso scoperte anche se c’è il sole, la batteria del telefono si scarica in fretta. Solo i più motivati e i più attrezzati riescono ad affrontare le sei, sette o dieci ore di cammino, senza più mappa e con la paura di essere intercettati dalla polizia francese che pattuglia i promontori. Seguirli è quasi impossibile: appena puntano ai valichi, le loro gambe si muovono molto più veloci delle tue, anche se sei allenato: corrono, cadono nella neve, ma hanno un obiettivo e in poco tempo lasciano te, che non devi salvarti, indietro. Rezaie è fra i pochi riusciti a passare il confine al primo colpo. La gran parte dei migranti viene respinta e riaccompagnata al Rifugio Massi, da dove poi ripartono alla volta di Briançon, cittadina francese a 14 chilometri da Clavière. Quasi tutti, prima o dopo, ce la fanno. “Il nostro obiettivo principale è che nessuno muoia tra le montagne - spiega Luca Guglielmetti, uno dei responsabili del rifugio -. È la regola non scritta che da sempre guida i primi soccorsi sia qui sia dalla parte francese. Gli afghani sono molto sicuri di sé, perché sono abituati alle cime. Solo che questo non aiuta, perché li espone a un pericolo maggiore”. A Oulx i volontari hanno indicato i punti pericolosi da evitare lungo il percorso su cartine appese alle pareti del cortile del rifugio. A chi parte vengono dati scarponi, giacche, pantaloni da neve, guanti e berretti. Chi riesce ad arrivare a Briançon restituisce poi l’attrezzatura ai volontari del centro di accoglienza che opera in tandem con il Rifugio Massi, le Terrasses Solidaires, i quali la riportano a Oulx per i prossimi in partenza. Nessuno arriva ai piedi delle Alpi preparato, specie gli africani: sono smarriti davanti alle temperature invernali, la neve è un ostacolo per molti insormontabile. E tanti tornano indietro quando vengono respinti, perché il pensiero di rifare quella salita al gelo è insopportabile. Nemmeno Ali Rezaie è sicuro di come muoversi, partito in fretta con pochi soldi per sfuggire i talebani che, racconta, lo avrebbero ucciso di sicuro se l’avessero incontrato. Il suo percorso è stato quello di tanti altri connazionali: a piedi in Iran e in Turchia, poi una barca e altri 25 giorni di cammino in Grecia. Da lì, il barcone fino a Bari, i treni a Milano e a Torino. “Non abbiamo scelta, io non sarei voluto partire. Ma ho già preso così tanti rischi in passato, che ormai riprovare non mi costa nulla” dice Abdul Almazai. È un ragazzo di 26 anni di Kunar (Afghanistan), partito sei anni fa e respinto più volte alla frontiera francese. Sul cellulare ha una foto di sé con la parte destra del busto completamente ingessata: “Sono le botte che mi ha dato la polizia bosniaca quando mi ha scoperto al confine, dopo che avevo passato quindici ore immerso nel fiume per riuscire a passare”. Non ha un accenno di rancore nello sguardo, Abdul, solo la tristezza dolce degli apolidi che continuano a sperare di trovare una casa da qualche parte. Guglielmetti lo chiama “lo spirito fatalista” dei migranti che passano da Oulx: “Hanno una forza che li spinge al di là di ogni evento”. È la stessa spinta che anima anche un sedicenne di Kabul, diretto dalla madre in Germania. Alla fermata del pullman di Oulx, dove tenterà di arrivare a Clavière e lì chiedere di essere accolto in qualità di minore come prevede la legge europea, è solo e senza bagagli. A chiedergli se ha paura di essere respinto, sorride: “Non è questa la frontiera di cui preoccuparsi davvero”. Nel piazzale dei pullman c’è la strana atmosfera sospesa prima delle partenze. Tra chi aspetta il bus c’è anche Said Saeeidi, compagno di strada di Ali Rezaie. Lui è reduce da oltre quindici respingimenti al confine croato, sul corpo porta le cicatrici dovute a un attacco bomba suicida per cui ha deciso di andarsene dall’Afghanistan sei anni fa: “Lo sanno tutti, il mio non è mai stato un paese sicuro”, dice. Per questo l’idea di scalare una montagna al buio con dieci gradi sotto zero non fa paura a chi è fuggito. “Il peggio è passato - continua Said, gli occhi color mandorla che risplendono per il riflesso della neve -, e se Dio vuole, Inshallah, arriveremo dove vogliamo arrivare”. Per tanti quel dove è la Germania, il paese europeo ritenuto più ricco di opportunità per chi deve ricominciare da zero, ancora sulla scia della storica decisione di Angela Merkel di accogliere un milione di profughi siriani nel 2015. Vuole arrivarci Abdul, che vorrebbe studiare, laurearsi e trovare un lavoro che gli permetta di aiutare chi in futuro dovrà affrontare i Balcani come lui. Vogliono arrivarci Ali e Said, per lasciarsi l’Afghanistan alle spalle, perché sanno che non potranno tornare, e per ritrovare un senso in una vita diversa in cui, magari, ci sarà spazio anche per le loro famiglie, bloccate tra Iran e Turchia. Prima però ci sono le alpi italo-francesi, la linea di confine aspra e spezzettata dove migliaia di persone diventano ogni giorno invisibili, sotto gli occhi di tutti. Li rendono tali i turisti distratti che non mettono a fuoco quel passaggio rapido e silenzioso di chi cerca di far sparire le proprie tracce lì dove l’Europa chiude le sue porte in sordina, lasciandole aperte a chi ai piedi ha gli attacchi degli sci invece di scarponi da 19 euro della Decathlon usati più volte da individui diversi. “La gente non si accorge dei migranti tranne quando vede i furgoni della Croce Rossa che li riportano a valle o si siede accanto sul treno” commenta Bruna Consolini, sindaca di Bussoleno, comune a mezz’ora di auto da Oulx dove è stato allestito polo logistico in una vecchia scuola per accogliere i migranti quando il Rifugio Massi è pieno. “Pochi arrivano direttamente da noi, la Val di Susa è solo un transito per chi sta cercando di ricominciare una nuova vita” dice Consolini. Sono le 20.15 di domenica quando squilla il telefono. “We are in a safe house, in France, I drink tea now”. È Ali, lui e Said ce l’hanno fatta. La chiamata arriva il giorno dopo, appena prima di salire sul treno per Parigi: “Ci hanno lasciato andare. Mi sento bene, molto bene. Sono libero ora, sarà tutto più facile”. Forse la discesa di quei “felici pochi” stavolta può davvero iniziare, anche per lui. Stati Uniti. Rikers Island, l’isola penitenziario di New York è una Cayenna anche per le guardie di Massimo Basile La Repubblica, 3 gennaio 2022 La città più ricca del mondo ha un carcere medievale: sebbene abbia la gestione più costosa d’America, è sovraffollato e violento. I secondini non hanno più il controllo di molte aree. Assumere nuove guardie risolverebbe il problema, ma nessuno vuole andarci a Rikers Island. E questo è un problema. Nella città d’acciaio c’è un’isola penitenziario rimasta al Medioevo: le guardie carcerarie si danno per malate. Sette, il giorno di Columbus Day, hanno chiamato il numero delle emergenze, denunciando dolori al petto, palpitazioni, malanni alle gambe. Uno ha mostrato il bastone per confermare la sua improvvisa disabilità. Il 28 ottobre su 572 dipendenti in organico in uno dei dieci edifici che ospitano più di quattromila detenuti, 17 erano assenti dell’ultimo momento, 117 in congedo pagato a lungo termine e 136 “malati a tempo indeterminato”, cioè assenti per oltre trenta giorni. Alla fine, per coprire i 362 turni c’erano solo 302 guardie. A Rikers, che dista venti minuti di macchina da Central Park, non ci vuole andare nessuno, non solo i detenuti, quasi nessuno finito lì per scontare pene lunghe, per lo più persone con problemi mentali o talmente povere da non potersi pagare la cauzione. Quelli che sembrano sospetti, probabilmente sono innocenti, e quelli che sembrano innocenti devono guardarsi le spalle. I controllati hanno preso il sopravvento sui controllori. Soprattutto i membri delle gang criminali. Molti detenuti gestiscono alcune aree di Rikers, dove nei primi nove mesi del 2021 si è registrata una media di 38 aggressioni al giorno. Nell’ultimo anno sono morti sedici detenuti, tra “cause naturali”, pandemia e violenze, e migliaia rimasti feriti. In alcuni edifici, ha raccontato il New York Times in un lungo reportage, le celle restano aperte di notte, per cui è consigliabile dormire con un occhio aperto. E quando non si viene accoppati, o infilzati da un bisturi, si può morire in molti altri modi. Jason Echevarria si è ucciso ingoiando il detersivo in polvere dato ai detenuti per pulire le celle. Bradley Ballard, affetto da schizofrenia, è morto in isolamento dove non aveva potuto prendere i farmaci di cui aveva bisogno. Jerome Murdough, senza tetto finito a Rikers per aver sconfinato in un’area riservata, è morto per la troppa esposizione al calore. La cella dove era stato rinchiuso aveva una temperatura di quasi quaranta gradi, e lui aveva preso farmaci che ne aumentavano la sensibilità al caldo. Rikers vive nelle canzoni di Lana Del Rey, dei rapper, nei video giochi alla Tom Clancy, negli episodi della serie tv “Law and Order”, ma quello che non dicono è che il solo arrivare nell’isola, attraversando in auto il ponte d’acciaio del Francis Buono Bridges, anche solo come visitatore, ti fa sentire un criminale. Gli edifici in mattoni rossi che guardano l’East River sembrano disabitati, ma poi qualcuno fa capolino dalle finestre. In lontananza può capitare di scorgere un detenuto, con il volto insanguinato, venire portato via dalle guardie. Rispetto a tre anni fa gli episodi di violenza sono aumentati di quasi sei volte. Rikers sta vivendo la più grave crisi da quando negli anni ‘90 ci fu un’epidemia di crack. Eppure fa parte del distretto carcerario più costoso d’America: per mantenere il sistema penitenziario di New York, i contribuenti pagano una media di circa 400mila dollari l’anno a detenuto, sei volte più della media nazionale. Al secondo posto, tra le grandi città, c’è Miami con 107mila. “Rikers Island è un imbarazzo nazionale e l’abbiamo ignorato”, ha detto il nuovo sindaco di New York, Eric Adams. I consiglieri del suo predecessore, Bill de Blasio, avevano sollevato il problema nel 2017, ma non è stato fatto niente. La gestione del personale è in mano ai sindacati, che non hanno vincoli. Alcuni agenti, risultati ufficialmente a riposo per malattia, sono stati trovati a fare i fornai. Sette guardie sono state accusate di aver preso bustarelle per portare in cella droga, lame e cellulari. Nel 2019 il consiglio municipale di New York ha votato la cessazione di Rikers Island nel 2026, ma probabilmente la chiusura slitterà. Fino allora ci saranno altre violenze, di cui molti non avranno voglia di raccontare. O non potranno più farlo. Afghanistan. L’ex presidente Ashraf Ghani ricorda la sua fuga da Kabul di Andrea Marinelli Corriere della Sera, 3 gennaio 2022 In un’intervista alla Bbc, l’ex presidente che il 15 agosto lasciò il Paese racconta i momenti che hanno portato alla sua fuga: una decisione che consegnò il Paese nelle mani dei talebani. Quando la mattina del 15 agosto 2021 si è svegliato, il presidente afghano Ashraf Ghani non sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno nel Paese che guidava dal 2014. Solo quando il suo aereo ha lasciato Kabul, ha raccontato in un’intervista andata in onda sul programma radiofonico Today della Bbc, ha realizzato che se ne stava andando davvero, lasciando l’Afghanistan in mano ai talebani: una decisione che gli ha attirato grandi critiche ma che, a distanza di 4 mesi e mezzo, difende ancora. “I talebani avevano accettato di non entrare a Kabul, ma due ore dopo non era più così”, ha ricordato Ghani, che oggi vive negli Emirati Arabi Uniti, durante il colloquio con il generale Nick Carter, ex capo di Stato maggiore delle forze armate britanniche. “Due diverse fazioni dei talebani si stavano avvicinando da due direzioni differenti, e c’era l’enorme possibilità di un grande conflitto che avrebbe distrutto una città di 5 milioni di abitanti, portando il caos fra la sua gente”. Per questo, spiega, decise di lasciar partire alcuni dei suoi più stretti collaboratori e dei suoi cari, compresa la moglie - riluttante - e il suo consigliere per la sicurezza nazionale. Ghani, invece, attendeva che un auto lo portasse al ministero della Difesa: quell’auto non è mai arrivata, mentre il suo consigliere tornò insieme al capo della sicurezza presidenziale, entrambi terrorizzati, sostenendo che sarebbero stati uccisi tutti. “Mi ha dato meno di due minuti per prendere una decisione, dissi di partire per Khost, ma mi rispose che la città era caduta, così come Jalalabad”, ricorda l’ex presidente. “Non sapevo dove stessimo andando”, aggiunge. “Solo quando siamo decollati ho capito che stavamo lasciando l’Afghanistan. È successo tutto all’improvviso”. Secondo molti osservatori, la fuga di Ghani - che già era criticato per la sua gestione del Paese - mandò all’aria un complicato accordo che prevedeva una transizione “ordinata” e spianò la strada alla riconquista del Paese da parte dei talebani: gli studenti coranici erano certi di tornare al governo, ma il vuoto creato dall’improvvisa uscita di scena del presidente accelerò il passaggio. Oggi Ghani, 72 anni, ammette alcuni errori, a cominciare dalla fiducia riposta nella comunità internazionale, ma sostiene “categoricamente” di non aver portato soldi fuori dal Paese e ritiene che siano stati gli accordi di Doha fra gli Stati Uniti di Donald Trump e i talebani - che prevedevano una graduale riduzione delle forze armate americane in Afghanistan - a portare alla caduta di Kabul. “Invece di un processo di pace, fu un processo di ritiro. L’accordo ci ha cancellato: invece di un accordo politico, abbiamo avuto un colpo di Stato violento”, dice alla Bbc Ghani. “La mia vita professionale è stata distrutta, i miei valori calpestati, io sono stato trasformato nel capro espiatorio”. Mali. Putin manda i mercenari di Wagner: il Sahara sarà la nuova Libia di Francesco Battistini Corriere della Sera, 3 gennaio 2022 I paramilitari di Mosca s’accomodano a una tavola già affollata. Dove il menù l’hanno sempre cucinato i francesi, che hanno deciso un lento disimpegno. Dove gli americani gestiscono una delle più grandi basi militari dell’Africa. Dove vigilano sia l’Onu che l’Ue. L’oro di Mosca. A metà novembre, anonimo e silenzioso, un geologo russo atterra all’aeroporto di Bamako. Il controllo passaporti lo fa passare rapido, senza troppe formalità. C’è già un’auto del governo maliano che l’attende, per portarlo in albergo. E il giorno dopo, una jeep con scorta militare per andare alle miniere d’oro. L’uomo è un emissario di Evgenij Prigozmin, “il cuoco di Putin”, l’ex ristoratore di San Pietroburgo che tanti anni fa teneva sempre un tavolo fisso per il giovane Vladimir, poi s’arricchì allestendone i catering al Cremlino e dal 2014, fondato il Gruppo Wagner per apparecchiare le missioni più delicate, ne foraggia i mercenari in giro per il mondo. Il geologo ha ricevuto dall’oligarca un incarico preciso: fissare, in pepite, il prezzo della nuova avventura militare dello Zar. L’ispezione alle miniere è solo l’inizio. E bastano pochi giorni perché in Mali atterri anche un Tupolev, a sbarcare 50 soldati di ventura, l’avanguardia d’un migliaio di wagneriani destinati alle zone di Nara e Sikasso, sui confini mauritano e burkinabé: invitati dai generali golpisti di Bamako ad “assisterci nella guerra al jihadismo”, inviati da Putin a piantare la bandiera russa nel Sahel. Di Mali in peggio. Dopo l’Ucraina e la Siria, la Libia e il Centrafrica, il Venezuela e il Mozambico, i paramilitari di Mosca s’accomodano a una tavola già affollata. Dove il menù l’han sempre cucinato i francesi, che nei mesi scorsi han deciso un lento disimpegno da nove anni di missione militare. Dove gli americani gestiscono una delle più grandi basi militari dell’Africa. Dove vigilano sia l’Onu che l’Ue - alla task-force Takuba partecipa anche l’Italia - per tamponare il terrorismo di Al Qaeda e dell’Isis che sconfina nel Niger e nel Burkina Faso, oltre che il separatismo delle milizie tuareg e le violenze tribali. Dove soprattutto c’è un accordo che Putin ha firmato in ottobre coi generali golpisti, saliti al potere due anni fa: in cambio degli “istruttori” di Wagner, di quattro elicotteri da combattimento Mi-171 e d’una trentina di blindati, il Cremlino riceverà 220 milioni di dollari l’anno, lo sfruttamento dei giacimenti auriferi e un posto al sole in un deserto dov’era finora assente. “Parigi ci ha abbandonato” e ci siamo regolati di conseguenza, è la spiegazione del premier maliano Choguer Maiga, uno che in gioventù studiò nelle università sovietiche. “È un allargamento inaccettabile - protestano 16 Paesi occidentali, Italia compresa -, questi mercenari servono più a sostenere la giunta militare che a combattere il terrorismo”. Venti giorni fa l’Europa ha sanzionato Wagner, minacciando di sospendere ogni aiuto non umanitario a Bamako. Ma forse è troppo tardi: “Noi continueremo ad assistere il Mali”, è stata la gelida risposta del Cremlino. Uno scenario già visto. È dall’annessione della Crimea, otto anni fa, che i lanzichenecchi di Putin compaiono un po’ ovunque. In Centrafrica, un mezzo migliaio fa da guardia pretoriana al presidente Touadéra, controllando le regioni dei diamanti e del platino. In Venezuela, ne sono arrivati 400 a presidio dei pozzi di petrolio e del regime di Maduro. I wagneriani, ispirati nel nome al musicista preferito da Hitler e alle simpatie naziste del loro comandante in campo, il colonnello ucraino in congedo Dimitrij Utkin, sono tutti soldati provenienti da eserciti regolari: età richiesta fra i 35 e i 55 anni, paga media 4 mila dollari al mese e campo d’addestramento a Molkino, pochi chilometri dalla base degli Spetsnaz, i corpi speciali russi. Wagner funziona anche come una legione straniera e fra i contractor spediti in Mali ci sono siriani, ciadiani, sudanesi meglio abituati a combattere a queste temperature. Come dappertutto, i wagneriani hanno l’ordine d’essere invisibili: viaggiano sovente senza divisa e su charter segreti, usano falsi documenti e telefoni cifrati. Anche in patria, ufficialmente non esistono: i giornalisti che ne scrivono, vengono eliminati; l’ong Memorial, che li ha raccontati, è appena stata chiusa. Se i mercenari sopravvivono, ricevono le massime onorificenze militari russe. Ma se muoiono - duecento in Siria, un centinaio in Ucraina, a decine in Libia -, spesso nessuno lo sa. Il governo di Bamako non ammetterebbe mai la loro presenza, neanche per tutto l’oro del Mali. Diceva Woody Allen che, ogni volta che risuonava Wagner, gli veniva voglia d’invadere la Polonia: ora tocca all’Africa.