I giudici e le leggi civili che la politica non vuol fare di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 31 gennaio 2022 Giuliano Amato ha introdotto la conferenza stampa successiva alla sua elezione a presidente della Corte costituzionale indicando quello che è oggi il maggior problema istituzionale nei rapporti tra la Corte e il Parlamento. Un problema, affrontando il quale senza ottenere che ciascuno faccia ciò che deve, porta a deragliare il sistema delle istituzioni costituzionali. La questione nasce e cresce per la frequente incapacità del Parlamento a legiferare quando è necessario per modificare una legge che, così com’è, non è compatibile con la Costituzione. Ciò avviene spesso, ma non solo, quando il tema che richiede disciplina legislativa vede contrapporsi esigenze e valori culturali o etici diversi, facenti capo a parti diverse della società. Temi che si usa chiamare “divisivi”. La Corte costituzionale giudica della compatibilità con la Costituzione di leggi che i giudici sospettano di incostituzionalità. Il più delle volte il giudizio della Corte può esprimersi semplicemente nel senso della costituzionalità o meno della legge. Essa nel primo caso resta in vigore, nel secondo caso cessa di esserlo. Ma succede che la pura e semplice dichiarazione di incostituzionalità lasci un inaccettabile vuoto nell’ordinamento, che va riempito con valutazioni e scelte di carattere politico: scelte che è fisiologico che siano effettuate dal Parlamento nella sua funzione legislativa. In tal caso, per molti anni, la Corte costituzionale ha evitato di sostituirsi al Parlamento e ha dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalità, che ponevano simili problemi. Successivamente la Corte ha iniziato a dare indicazioni al Parlamento, sollecitandolo a provvedere in modo che la legge incostituzionale fosse sostituita da altra compatibile con la Costituzione. Molto spesso il Parlamento ha ignorato la necessità segnalata dalla Corte. Amato ha citato la legislazione sul cognome dei figli e quella sui casi di ergastolo che ostano alla possibilità di liberazione anticipata. Ma ve ne sono numerosi altri. Così è stato fino a quando la Corte, negli anni recenti, ha ritenuto che la disfunzione creata dal Parlamento non fosse più tollerabile: il prezzo sarebbe stato il mantenimento in vigore di leggi incostituzionali. Così la Corte ha adottato una prassi diversa. Essa ora spiega con una ordinanza le ragioni per cui la legge sottoposta al suo esame è incompatibile con la Costituzione, spiegandone le ragioni e talora delineando la possibile soluzione. La Corte rinvia di un anno la decisione, in modo da dar tempo al Parlamento di provvedere. Se ciò non avviene la Corte, sostituendosi al Parlamento, con la sua sentenza ricostruisce il sistema normativo in un modo ch’essa ritiene possibile nel quadro dell’ordinamento costituzionale e legislativo. E così per reagire alla mancanza del Parlamento agisce in supplenza, dilatando i propri poteri ed entrando sul terreno che, secondo la Costituzione, sarebbe esclusivamente proprio del Parlamento. Poi, a distanza di tempo interverrà magari il Parlamento, mosso anche dall’urgenza dei problemi che spesso sorgono nella esecuzione della sentenza della Corte costituzionale. La Corte, infatti, produce una normativa difficilmente completa e spesso impraticabile, poiché è priva della libertà del Parlamento ed è condizionata, se così si può dire, dall’imbarazzo di agire sul terreno altrui. Un esempio di tutto ciò è la sentenza della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio. Quando poi il Parlamento legifera, la tendenza è quella di riprodurre quanto la Corte ha deciso nel ricostruire il sistema, dopo aver eliminato la norma incostituzionale. Di nuovo l’esempio è ciò che sta avvenendo in Parlamento per disciplinare il suicidio assistito. Così il Parlamento, riluttante a legiferare, quando non può più evitarlo, tende a fotocopiare quanto la Corte ha deciso nella sua impropria, anche se necessitata, opera legislativa. In tal modo spera forse di oscurare la propria responsabilità politica. Ma la Corte ha adottato una tra le varie soluzioni possibili nel quadro della Costituzione. La scelta della migliore, come ha ben sottolineato il presidente Amato, spetta al Parlamento. La distorsione va quindi oltre quella legata ai ritardi del Parlamento e investe anche la Corte costituzionale. I giudici, poi, che non possono rifiutare di decidere i casi, sono messi in difficoltà. Come si diceva, questi problemi riguardano prevalentemente materie eticamente o culturalmente sensibili. Difficili da risolvere se vi è in Parlamento chi vorrebbe imporre alle minoranze le scelte etiche, i valori, gli stili di vita della maggioranza (come se la Repubblica laica fosse uno Stato etico). Se invece si accettasse la prevalenza della libertà individuale e del rispetto dell’autodeterminazione, con il limite del danno procurato ad altri; se la tolleranza delle diverse opzioni divenisse il criterio da adottare, la soluzione dei casi “divisivi” diverrebbe possibile, la società meno aggressiva, le regole meno opprimenti per tutti. Il Parlamento produrrebbe leggi civili e la Corte costituzionale non dovrebbe provvedere in emergenza. I voti agli ex pm Nordio e Di Matteo messaggio al Colle sulla giustizia di Stefano Zurlo Il Giornale, 31 gennaio 2022 Durante il nuovo mandato non si potrà più svicolare: è da 30 anni che il Paese invoca riforme. L’icona del garantismo e quella del giustizialismo. Come dire, guelfi e ghibellini nell’Italia del ventunesimo secolo. Carlo Nordio e Nino Di Matteo: tutti e due volti della televisione, entrambi osannati e ammirati. Ma, soprattutto, una coppia di magistrati. Nordio è in pensione, dopo una vita alla procura di Venezia, Di Matteo è al Csm, ma è stato sulla prima linea di delicatissime inchieste di mafia e ha esplorato la zona grigia al confine con la politica. Punti di riferimento, in un Paese che non ama le sfumature, per destra e sinistra: quasi naturale che siano stati loro, due toghe anche se agli antipodi, ad aver collezionato più voti, alle spalle dell’imprendibile Mattarella, nella corsa al Quirinale. Novanta schede per Nordio, trentasette per Di Matteo. Più di tutti gli altri inseguitori, nell’elezione decisiva. Naturalmente, si tratta di due personaggi che vanno ben oltre gli stereotipi e le appartenenze a colpi di slogan, ma fa riflettere che siano diventati dei simboli, strattonati da una sorte e dall’altra in queste ore tumultuose. O di qua o di là. La questione giustizia continua a dividere e questo accade perché i problemi drammatici, denunciati infinite volte, non sono stati risolti. Anzi, la ministra Cartabia ha presentato alcune riforme, in corrispondenza delle esigenze del Pnrr, ma quella più controversa, relativa al Csm, è rimasta nel freezer. Draghi, che premeva per andare al Quirinale e scansare spine e rovi, ha traccheggiato e tergiversato come nemmeno i democristiani dei tempi d’oro. Mattarella, che era e torna a essere il presidente proprio di quell’accidentato e malandato Csm, ha preferito glissare e pattinare sul ghiaccio scivolosissimo degli scandali, delle querelle, dei guai che mortificano ogni giorno la giustizia. Non ne ha parlato nel discorso di fine anno, in teoria quello del congedo, si è poi presentato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, solo pochi giorni fa, al fianco dei vertici della Cassazione, oggetto di uno sconcertante braccio di ferro fra Palazzo dei Marescialli e il Consiglio di Stato. Insomma, senza farla tanto lunga e con il dovuto rispetto per il capo dello Stato, votato oltretutto da una maggioranza larghissima e trasversale, i nodi sono ancora tutti lì. Tutti aggrovigliati, tanto da far pensare che scioglierli sia quasi impossibile. Ma i cittadini, quelli che subiscono processi interminabili, quelli che vengono condannati con sentenze feroci e incomprensibili, quelli che restano mesi in carcere prima che qualcuno si accorga dell’errore, hanno diritto a sperare in un cambiamento. È il Paese che vuole voltare pagina per portare un sistema antiquato e barocco, inquinato dalle correnti e dalla commistione con la politica, all’altezza di quel che ci chiede l’Europa. All’orizzonte ci sono i sei referendum richiesti a gran voce da una platea di oltre settecentomila cittadini. La spinta che arriva a intermittenza dal Palazzo potrebbe prendere forza nelle urne, anche se non si può sottovalutare la falce della Consulta chiamata ad esaminare i quesiti. In ogni caso i dossier sulla malagiustizia sono nell’agenda dei governi da quasi trent’anni, dall’esplosione di Mani pulite e dalle scintille alla frontiera fra i due poteri. Draghi e Mattarella sanno che nei loro cassetti ci sono le lettere di tanti connazionali esasperati. Aspettano tutti una risposta. E l’attendono da troppo tempo. L’ignobile allusione dei manettari e la questione morale della giustizia di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 31 gennaio 2022 Il Fatto quotidiano ha attaccato la decisione della Corte Costituzionale di tutelare il diritto di corrispondenza, insinuando che cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera. Ci sono piccoli episodi, scaramucce insignificanti che hanno il grande pregio di far capire il clima del tempo e soprattutto la mediocrità del materiale umano. Non sto parlando del Quirinale ma di un semplice “occhiello” del Fatto nel titolo di un articolo che parla di una importante, liberale sentenza della Corte costituzionale. Il giornale diretto da Marco Travaglio, l’uomo che ama farsi odiare dai garantisti italiani con un titolo offensivo che a dire il vero non riprende il contenuto del pezzo a firma di Antonella Mascali denuncia il supposto favore che la Consulta avrebbe fatto alla criminalità organizzata dichiarando li costituzionalità della censura della corrispondenza tra detenuti e i loro difensori. È una bella sentenza scritta da uno dei migliori giuristi penali italiani, Francesco Viganò: il ragionamento è lineare e limpido. Posti sulla bilancia due contrastanti diritti, quello alla difesa sociale e quello alla personale libertà di comunicazione, la Corte, nell’ambito del paradigma dell’art. 3 della costituzione individua il punto di equilibrio nella tutela del diritto di difesa di cui la comunicazione a ogni livello dell’imputato con l’avvocato è espressione. Il bilanciamento è attentamente soppesato con le restrizioni tipiche del regime del 41 bis rispetto alle quali il visto di censura è un aggravio eccessivo che lede il diritto di difesa. Il giudice delle leggi, qui è il punto, ritiene che una società democratica debba correre il rischio che si lega al rispetto della segretezza delle comunicazioni perché altrimenti lo squilibrio sarebbe intollerabile per lo Stato di diritto. L’occhiello nel titolo, di pretta matrice travagliana, (“geniale: cosi i boss potranno ordinare stragi e omicidi per lettera”) ha scatenato una generale indignazione presso gli avvocati, ma, sembra incredibile non contro l’incredibile offesa ai giudici della Corte quanto alla dignità e alla reputazione dell’avvocatura italiana. Una reazione che anche a chi scrive, pur membro della categoria sembra spropositata e che si concretizza addirittura nella minaccia di querele e diffide. La presidente della massima istituzione delle toghe il Consiglio Nazionale Forense ha addirittura diffidato Travaglio a prendere le distanze nientemeno che dall’occhiello dell’articolo pena il ricorso alle vie legali, come in uno sfratto. Questa esplosione d’indignazione costituisce un clamoroso autogol: Travaglio rispondendo a una lettera di protesta di un avvocato ha diplomaticamente osservato che il titolo si riferisce ovviamente a una esigua minoranza di avvocati “disposti per collusione o paura a trasmettere all’esterno ordini delittuosi dei loro clienti” tra cui inserisce il caso di “una avvocatessa di Canicattì”. Da qui egli definisce “criminogena” la sentenza della Corte in quanto “favorisce tali deviazioni”. Assai meno gentile la risposta di Marco Travaglio alla presidente del Cnf, cui rinfaccia di parlare troppo dei diritti degli avvocati dei mafiosi e tacere su quella grave ferita al diritto di difesa che è l’obbligo di Green Pass per gli avvocati. Ho sempre pensato di Travaglio, penna tra le più brillanti, come al perfetto esempio di una vena anarcoide - eversiva, intimamente autoritaria e intollerante, da sempre presente in una certa cultura, anche politica, italiana che ha trovato la sua perfetta sintesi nel motto “me ne frego” (di chi non la pensa come me, della salute degli altri, dei criminali cui vanno negati i diritti elementari e il cui difensore può essere l’avvocato para-mafioso, sociopatico e No Vax, il prototipo appunto del legale secondo il direttore). Il diritto di difesa svuotato e ridotto a simulacro è quello che piace a lui e Piercamillo Davigo e che piaceva anche al suo amico Beppe Grillo prima che scoprisse i piaceri del processo penale. Auguri. Onestamente a me le frasi e le osservazioni del Fatto e del suo direttore sembrano diffamatorie per la Corte Costituzionale e per uno dei suoi più valorosi componenti ma non certo per la categoria degli avvocati. La verità è che andava e va difesa la Consulta e il principio di civiltà che la sua sentenza ha ribadito, invece la levata di scudi e le polemiche ci sono state solo per l’allusione al ruolo colluso del difensore. Che vi siano disonesti nelle fila degli avvocati come in tutte le categorie è naturale e innegabile, così come vi sono fulgidi esempi di eroico sacrificio come Fulvio Croce ucciso dai brigatisti rossi e Serafino Famà, assassinato dalla mafia per aver dissuaso una propria assistita dal piegarsi alle volontà di un boss. Quello che è interessante è capire il perché di reazioni che lasciano intuire come il tema dei rapporti tra avvocato e cliente, così dibattuto rappresenta tuttavia un nervo scoperto per l’avvocatura. Ma più in generale il problema è l’esistenza di una questione morale nel mondo della giustizia esplosa con la vicenda Palamara e poi proseguita con altri scandali che è il riflesso di uno dei grandi problemi della società italiana: la frantumazione sociale. Fuor di metafora, è noto che nell’attuale critico e frastagliato momento storico, insieme alla crisi della magistratura si è registrata la circostanza che alcuni importanti esponenti dell’avvocatura italiana, che hanno rivestito e ancora ricoprono cariche politiche e associative di primo piano sono sottoposti a processo, in taluni casi con applicazioni di misure cautelari o addirittura richiesta di condanna. Per tutti non ho alcun dubbio sulla loro estraneità ai reati contestati, ma questa è una posizione personale che non può avere rilievo: ciò che mi preme sottolineare è il rischio che può derivare da una sorta di riflesso condizionato, dalla sensazione di sentirsi sotto assedio, dalle rivendicazioni corporative di una sorta d’immunità. Come per le vicende politiche anche in queste polemiche settoriali emerge il male oscuro della democrazia italiana: la frantumazione sociale, la perdita di una visione comune. Non possiamo subire attacchi indiscriminati alle garanzie ma non possiamo neanche illuderci che i problemi etici che hanno investito altre categorie professionali non ci riguardino come avvocati, pena la generalizzazione di vizi e pregiudizi che intaccherebbero il prestigio professionale di tutti. È importante non tanto la reazione stizzita agli attacchi, quanto la capacità ove ve ne fosse bisogno di affrontare una eventuale questione morale che riguardi l’avvocatura, con fierezza e senza giudizi affrettati, ma con il necessario coraggio. Ed è una questione che riguarda oggi tutta la società italiana. I familiari delle vittime di Mafia: “Report non infanghi Falcone” di Davide Varì Il Dubbio, 31 gennaio 2022 La lettera dei familiari delle vittime di mafia dopo il servizio su Volo. “Il servizio pubblico dovrebbe meglio valutare la qualità dell’informazione che viene data all’opinione pubblica, evitando che diventi il discredito di Uomini illustri che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia”. A dichiararlo è Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale dei familiari di vittime innocenti di mafia, dell’associazione “I Cittadini contro le mafie e la corruzione”. “Mi riferisco - prosegue Ciminnisi - alla trasmissione di Rai3 “Report” e al verbale d’interrogatorio di Alberto Volo, reso ai pm nel 2016. Leggendo la trascrizione delle sommarie informazioni testimoniali rese dal signor Volo a magistrati della Procura di Palermo, in data 14 luglio 2016, si evince come il dottor Paolo Borsellino, a suo dire, lo avesse portato a conoscenza di sue personali opinioni in merito alla strage di Capaci. Una ricostruzione - a mio modesto avviso assolutamente inverosimile, visto lo spessore del magistrato, la sua riservatezza e la professionalità che da tutti gli è sempre stata riconosciuta”. “Ciò che forse ancor più stupisce, è la maniera in cui viene descritto il rapporto tra il Volo e il dottor Giovanni Falcone, quest’ultimo quasi indicato come subalterno al primo dal quale attendeva suggerimenti in merito alle indagini che stava conducendo, così come si evince dal verbale di Sit. “Volo: è chiaro che Giovanni Falcone qualcuno… a qualcuno l’incarico deve averlo dato, perché quando parlavamo poi di determinati a di di… Li faceva anche perché glieli suggerivo io: “vai a vedere questa cosa, vedi di sapere questo, questo e quest’altro, insomma”. A prescindere dall’attendibilità delle dichiarazioni del signor Volo che - seppur non spetta a me giudicarle - mi appaiono come un compendio di assolute castronerie, prescindendo dalla valutazione della sua attendibilità - a tal proposito giova ricordare che il dottor Giovanni Falcone lo aveva definito un “mitomane” - trovo riprovevole che si possa consentire a chicchessia di ridicolizzare la figura dei due Giudici che per questo Paese hanno dato la propria vita. Nell’auspicare una maggiore attenzione da parte del mondo dell’informazione che non dovrebbe accettare in maniera acritica quanto proposto, non posso fare a meno di restare basito dal fatto che così poco spazio viene dato ai familiari dei due Giudici e a chi, come nel caso dell’avvocato Trizzino, ha seguito tutte le vicissitudini giudiziarie relative alle stragi - in particolare quella di via D’Amelio - che maggiori spunti di riflessione potrebbero dare. A questi ultimi esprimo la mia personale vicinanza e quella dei familiari delle vittime di mafia che rappresento all’interno dell’associazione di cui mi onoro di far parte”. Torino. “In 2 metri quadrati si può vivere”: niente risarcimento al detenuto di Federica Cravero La Repubblica, 31 gennaio 2022 La decisione del Magistrato di sorveglianza: “Poteva uscire di cella per molte ore al giorno”. Ma per la Corte europea dei diritti umani sotto i 3 metri si configura un trattamento “inumano e degradante”. È stato in carcere per più di dieci anni, girando tra quattro istituti penitenziari per scontare condanne per una svariata serie di reati. E guardando da nord a sud l’Italia dietro le sbarre si è reso conto che dovunque andasse le celle erano al limite - e in molti casi sotto - i diritti umani: addirittura 2,13 metri quadrati calpestabili a testa nel carcere di Novara. E poi 2,76 metri quadrati ad Aosta, 3,44 ad Alessandria e 3,52 a Sant’Angelo dei Lombardi, in Campania. Per questo un detenuto torinese, quando ha iniziato a vedere la fine della sua pena, ha fatto richiesta al tribunale di sorveglianza del capoluogo piemontese di scarcerazione anticipata, come previsto dall’ordinamento penitenziario a titolo di compensazione per chi ha subito una condizione detentiva inumana o degradante. Ma il magistrato ha respinto la sua richiesta motivando la decisione con il fatto che, nei periodi in cui la cella era più piccola, l’uomo era “ristretto in regime aperto” e dunque la presunta violazione dei diritti umani “può dirsi ampiamente compensata dalla possibilità di uscire dalla cella per la maggior parte delle ore del giorno e di utilizzare la camera detentiva unicamente come luogo di pernottamento. Questo rende possibile ritenere che la limitata fruizione di spazio personale abbia minore rilevanza e non leda la dignità umana, data la possibilità di movimento e la piena facoltà di usufruire di maggiori spazi fuori dalla cella”. Erano stati gli avvocati del detenuto, Sergio Almondo e Alessandro Lamacchia, a chiedere che l’uomo potesse anticipare il fine pena. La norma, infatti, prevede che possa essere scontato un giorno ogni dieci passato in una cella piccola oppure, nel caso il termine per uscire arrivasse prima, si dovrebbe prevedere un risarcimento di otto euro per ogni giornata passata in condizioni simili. Tuttavia la definizione di cosa sia inumano e cosa sia accettabile non è un criterio fisso, ma va valutato dal giudice a seconda dei casi. Un’indicazione arriva dalla Corte europea dei diritti umani, che stabilisce che “ciascun detenuto dovrebbe poter trascorrere almeno otto ore al giorno fuori dalla cella e lo spazio disponibile per ciascun detenuto dovrebbe essere di sei metri in caso di cella singola e di quattro se ci sono più persone”. Invece quando i detenuti “hanno a loro disposizione meno di tre metri quadrati, il sovraffollamento deve essere considerato tanto grave da giustificare da sé il riscontro della violazione della convenzione europea dei diritti umani”. Il detenuto torinese dunque, era convinto di avere diritto al risarcimento. Le direzioni dei vari istituti penitenziari avevano redatto puntualmente delle relazioni calcolando al centimetro gli spazi, “al netto del bagno ma al lordo del mobilio” è il criterio. Così si è visto che quando stava “comodo”, l’uomo era in una cella di 10 metri quadrati che, tolti 3,52 metri quadrati di due letti, meno 0,80 di due tavoli e 0,34 di due armadietti fa 7,04 metri quadrati da dividere con un compagno di cella, ovvero 3,52 a testa. Ma quando stavano in sei in una cella di 20,12 metri quadrati, tolti letti tavoli e armadi, lo spazio rimasto era di appena 2,13: sufficienti per vivere, secondo il tribunale di sorveglianza di Torino. Roma. Vitto scadente, blitz dei carabinieri nelle carceri e al Dap di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 31 gennaio 2022 I militari nei penitenziari su mandato della Procura. In seguito alla (severa) sentenza della Corte dei Conti il Garante capitolino dei detenuti ha sollecitato l’avvio di un’inchiesta. Contratti, incarichi, delibere, corrispondenza: i carabinieri sono andati nelle carceri e al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ad acquisire documentazione sul vitto nelle carceri. L’ombra di un servizio talmente scadente da risultare in conflitto con la tutela del diritto alla salute si è concretizzata nei mesi scorsi dopo proteste, denunce e soprattutto una sentenza (severissima) della sezione del Lazio della Corte dei Conti. Oggi per i detenuti di Lazio, Abruzzo e Molise lo Stato paga 2 euro e 39 centesimi al giorno, comprensivi di colazione, pranzo e cena. Chi fino ad ora ha provveduto a questo servizio (la ditta Ventura collegata al gruppo Berselli, fornitore storico delle carceri) ha bilanciato i propri guadagni attraverso la gestione dello spaccio interno dove il cosiddetto sopravvitto raggiunge cifre ben superiori a quelle commerciali. In seguito alla sentenza della Corte dei Conti il garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha sollecitato un approfondimento in Procura dove è stato aperto un fascicolo (al momento senza indagati). Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Andrea Cusani vogliono verificare se dietro il ribasso praticato dalla Ventura si nasconda una frode in pubbliche forniture o un’altra intesa illecita fra l’amministrazione penitenziaria e i privati delle ditte aggiudicatarie di appalti, spesso affidati in regime di proroga. Nel frattempo, sempre in virtù di quella sentenza, il ministro della Giustizia Marta Cartabia, ha sospeso il bando in corso e indetto una nuova gara secondo la quale il vitto sarà separato dalla gestione dello spaccio: “Secondo il cronoprogramma - afferma Carmelo Cantone, provveditore di Lazio, Abruzzo e Molise - ai primi di marzo dovremmo avere il vincitore del nuovo bando”. In parallelo ai magistrati di piazzale Clodio si è mosso il procuratore regionale della Corte dei Conti, Pio Silvestri: dietro l’afflittivo sistema del vitto carcerario, infatti, potrebbe celarsi un danno d’immagine per la pubblica amministrazione. Silvestri oltre a delegare a sua volta l’acquisizione di documentazione si prepara a convocare il garante capitolino. La lettura del materiale raccolto dai carabinieri, coordinati dal colonnello Dario Ferrara, permetterà di ricostruire decisioni e responsabilità all’interno della scala gerarchica ministeriale. Tanto che a breve potrebbero scattare le prime iscrizioni sul registro degli indagati. “Continuo a ricevere proteste da parte dei detenuti sulla scarsa qualità dei pasti di ogni giorno. Mi auguro che l’assegnazione del nuovo servizio arrivi nei tempi stabiliti” spera Stramaccioni. Firenze. Fatima, volontaria a Sollicciano: “Questo luogo è una discarica sociale” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 31 gennaio 2022 “Qui ci sono persone che dovrebbero stare in una comunità di recupero, non in carcere”. In Italia dal Marocco quando aveva 12 anni, dal 2014 aiuta l’associazione Pantagruel nel penitenziario fiorentino. Due volte a settimana varca il cancello di Sollicciano ed entra in carcere per stare accanto ai detenuti, ascoltare i loro bisogni, comprendere le loro frustrazioni. Fatima è una ragazza con genitori marocchini, arrivata in Italia dal Marocco quando aveva 12 anni. Nel penitenziario fiorentino, dal 2014 grazie all’associazione Pantagruel, segue soprattutto i reclusi di origine maghrebina. “La cosa più drammatica per i detenuti è l’impossibilità di contattare le loro famiglie. Possono soltanto scrivergli lettere, ma spesso i genitori si trovano in paesi sperduti in Tunisia e Marocco e le lettere che scrivono non arrivano mai. In alternativa possono chiamarli al telefono ma, anche in questo caso, non sempre è semplice perché i loro familiari devono avere un contratto telefonico con un certificato che dimostri che la persona in questione è parente del recluso e non sempre si riesce ad avere”. Secondo Fatima, Sollicciano oggi “è una discarica sociale, dove vivono disgraziati che non hanno neppure soldi per pagarsi un caffè, persone che sono tossicodipendenti e sono finite nel giro dello spaccio ma che, anziché in carcere, dovrebbero stare in una comunità di recupero”. Tra i casi più drammatici che ha seguito c’è quello di un detenuto marocchino che aveva chiesto al tribunale di sorveglianza un permesso speciale di libertà vigilata per dare un ultimo saluto al padre in fin di vita, ma il permesso è arrivato soltanto dopo la morte del padre. Siracusa. Focolaio Covid nel carcere, stop alle attività didattiche per i detenuti Giornale di Sicilia, 31 gennaio 2022 Focolaio Covid nel carcere di Siracusa. Secondo fonti sindacali sarebbero 106 i detenuti contagiati e 36 gli agenti della polizia penitenziaria. Una situazione che ha portato il responsabile del Cavadonna, Aldo Tiralongo a sospendere tutte le attività didattiche: “A causa della presenza di diversi casi di contagio da Covid19 tutta l’attività didattica è sospesa indicativamente sino al 01.02.2022” si legge nel provvedimento. Una vicenda di difficile gestione sottolineata anche dal Codacons che annuncia un esposto alla procura della Repubblica di Siracusa per “epidemia colposa”. L’associazione dei consumatori chiede di indagare sulla adeguatezza delle misure di precauzione, nonostante il contesto in cui le guardie carcerarie e il resto del personale si trovano ad operare è ovviamente piuttosto complicato, soprattutto in termini di garanzia del distanziamento fra detenuti. Nel marzo del 2020, ad inizio pandemia, in molti penitenziari d’Italia, compreso quello di Palermo, si scatenarono una serie di proteste da parte proprio dei detenuti. In un caso, a Modena, durante una rivolta uno dei condannati morì durante una manifestazione nel corso della quale alcuni detenuti si erano barricati nell’istituto. Como. Situazione drammatica nel carcere del Bassone, 133 detenuti positivi al Covid quicomo.it, 31 gennaio 2022 Sono ben 133 i detenuti positivi al Covid secondo gli ultimi dati ufficiali forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in data 27 gennaio. 133 detenuti nel solo carcere di Como sui 714 circa positivi nei 18 Istituti presenti nella Regione Lombardia. Il dato, nella sua cruda e oggettiva realtà, dimostra che Como sta subendo i colpi di questa ondata pandemica ben oltre quanto sarebbe lecito attendersi. “Ben oltre i numeri sofferti da altre carceri che ospitano un numero maggiore di detenuti - ci spiega Dario Esposito, segretario provinciale di Uil-Pa. Altrettanto impietosa risulta essere la situazione per quanto riguarda i colleghi della polizia Penitenziaria contagiati: sono 20 sui circa 180 presenti nei 18 Istituti lombardi, colleghi a cui ovviamente viene destinato il miglior augurio di pronta e piena guarigione”. “Al di là delle statistiche - continua Esposito - che in ogni caso costituiscono il miglior giudice sulle condizioni lavorative di Como, questa Organizzazione Sindacale vuole invitare la società a non considerare un problema marginale, trascurabile, da nascondere entro quattro mura quello del focolaio attivo nel carcere Comasco. La sicurezza di una società si fonda e si basa sulla sicurezza e sull’efficienza dei luoghi a cui affida l’espiazione della pena, del resto sono ancora vive le immagini dei tumulti e dei disordini che in tempi recenti sono sorti in molte carceri italiane in seguito al divampare di focolai. La sicurezza di un carcere non è un esclusivo interesse dell’operatore che svolge il suo servizio o di chi sconta una pena, è l’anticamera della sicurezza del cittadino comune”. Per tutti questi motivi Uilpa ha da tempo chiesto la dotazione di mascherine ffp2 per tutti gli operatori penitenziari e ha domandato che i detenuti siano trattenuti nelle camere di sicurezza delle forze dell’Ordine che hanno eseguito l’arresto fino all’udienza di convalida, questo per non congestionare inutilmente le carceri col fenomeno delle “porte girevoli”. Le condizioni lavorative all’intero del carcere di Como, secondo il resoconto dei sindacati, sono pessime: è anche successo che una sola guardia, contro ogni standard di sicurezza, dovesse prestare servizio contemporaneamente in una sezione con malati di Covid e in altre non Covid. Per arginare queste carenze è stato proposto di usare la sezione “trans” (che conta pochi detenuti) come una zona di quarantena ma per far questo bisognerebbe prima trasferire questi detenuti in un altro penitenziario. “È necessario - conclude Esposito - che l’enorme responsabilità della soluzione di questi problemi non venga lasciata alle incombenze dell’ultimo degli agenti, l’ultimo dei preposti, l’ultimo dei coordinatori, è necessario che la Gestione dell’Area Sicurezza nell’Istituto Comasco possa finalmente dare una risposta concreta e tangibile a queste legittime e sacrosante rivendicazioni sindacali”. Roma. Data di nascita sbagliata, detenuto “salvato” due volte dai giudici di Giulio De Santis Corriere della Sera, 31 gennaio 2022 Il suo compleanno è il 30 marzo, ma è stato accusato di maltrattamenti in famiglia al posto di un omonimo, sempre in carcere, nato invece il 3 marzo dello stesso anno, il 1974. I pm ne hanno chiesto comunque il rinvio a giudizio, ma è un’altra persona. Da due anni Gianluca Marcelli, nato il 30 marzo del 1974, è perseguitato dalla data di nascita del suo omonimo. L’altro Gianluca Marcelli è venuto al mondo il 3 marzo del 1974. A dividerli, 27 giorni. A creare problemi è quel numero zero che distingue il 3 dal 30 marzo. Uno zero che ha mandato in tilt la macchina giudiziaria, dando vita a un kafkiano corto circuito che ha rischiato per ben due volte di far finire sotto processo un estraneo alle accuse. Tutto inizia nel dicembre del 2019. Allora Marcelli, quello nato il 30 marzo, viene accusato di maltrattamenti in famiglia nei confronti dei genitori. Lui cade dalle nuvole. Primo: perché non è figlio di quelle persone. Secondo: perché nel periodo delle accuse è in carcere per altre ragioni. Spiega tutto alla Procura attraverso il suo avvocato, Daniel Giudice. Ma comunque gli inquirenti ne chiedono il rinvio a giudizio. Al termine del rito abbreviato il 12 aprile del 2021 il gup lo assolve per non aver commesso il fatto. Tutto finito? Macché. A dicembre scorso ne viene chiesto di nuovo il rinvio a giudizio. Sempre con la stessa accusa: maltrattamenti in famiglia. Ancora una volta a mandare in stallo il sistema è la data di nascita. Marcelli pretende di venire tradotto in aula. Il giudice prende nota dell’errore. E annulla la richiesta di rinvio a giudizio. Con la speranza che lo zero non mandi più in tilt la giustizia. La scuola brucia di Alessandro D’Avenia Corriere della Sera, 31 gennaio 2022 Lorenzo Parelli, 18 anni, morto durante l’alternanza scuola-lavoro. Matteo Riganti, 18 anni, morto per una fragilità acuita dalla pressione scolastica. Sua madre mi ha scritto la settimana scorsa: “Che cosa fare di pratico, perché, domani, la prossima ora, gli educatori si rendano conto che sono chiamati a fare qualcosa di straordinario per ingaggiare questi ragazzi? Perché è tanto diffuso questo sentimento di “lost in space” dei tanti Mattei che, forzatamente frequentano (ma sempre di più abbandonano) la scuola e avrebbero bisogno di almeno un prof per essere “ripresi”... e invece soffocano tra verifiche e programmi?”. Dopo questi due recentissimi lutti mi chiedo: serve ancora la scuola? Potrebbe sembrare una domanda retorica, ma non lo è quando qualcosa che l’uomo crea per umanizzare la vita e renderla più vivibile (è lo scopo della cultura: dalla ruota alla letteratura, dal fuoco alla democrazia) ottiene il contrario: dis-umanizza. Se accade le possibilità sono due: o quella cosa non serve più o non serve così com’è. In un momento in cui ai primi sintomi siamo obbligati a fare un tampone, vorrei avessimo la stessa prontezza per curare sintomi evidenti da anni negli attori della scuola: studenti, insegnanti, genitori. 1. Studenti. Nel libro A mente accesa, Daniela Lucangeli, luminare in neuroscienze e apprendimento, racconta di aver partecipato nel 2017 (prima della pandemia) a una commissione ministeriale sul benessere/malessere a scuola: “Individuata nella prima adolescenza (14-16 anni) la fascia per i questionari, la commissione ha indagato il limite oltre il quale il malessere generico si trasforma in burnout o in ansia e stress. I nostri studenti sperimentano molto più malessere che benessere nella loro esperienza scolastica: il 27% ha dichiarato di stare “così così”, il 73% di star male e, all’interno di questo gruppo, il 60% (più della metà della popolazione scolastica) sta male stabilmente, non ha ricordo di essere mai stato bene a scuola. Perché? Le cause riguardano fattori cognitivi (eccesso di carico prestazionale), emotivi (soprattutto ansia e noia), sociali (sfiducia nei modelli di riferimento)”. 2. Docenti. In Italia è la categoria più soggetta a burnout (dal verbo inglese bruciarsi): sfinimento psico-fisico da lavoro. Quando ho iniziato a insegnare, nel 2000, era già un’emergenza: da anni il professor D’Oria nei suoi studi segnala il malessere dei docenti e l’assenza di azioni. Già in una ricerca decennale del 2001 il 73% degli insegnanti risultava infatti affetto da patologie psichiatriche, esito di burnout. Le cause erano, per il 26% di loro, la relazione con gli studenti, per il 20% con i genitori, per il 20% con i colleghi, per il 2% con il dirigente, per il rimanente 32% la somma di queste relazioni (più esposte le docenti, l’80% del corpo docente, soprattutto over 50). La scuola così com’è è per noi insegnanti una sfinente guerra di relazioni (motivo per cui il ritornello caustico del lavoro solo mattutino e dei mesi di vacanza è fuori luogo). 3. Genitori. Chiedono alla scuola di abbassare le pretese, impegnare i figli ma senza gravare sulla loro già faticosa gestione. Come è accaduto? Nel recente Il danno scolastico - La scuola progressista come macchina di disuguaglianza, il sociologo Luca Ricolfi e la docente/scrittrice Paola Mastrocola, con dati ed esperienza alla mano, rispondono: “La scuola senza qualità è una macchina che genera disuguaglianza. Solo un cieco non vede come sono andate le cose: è la cultura progressista che ha inteso la democratizzazione non come mettere la cultura alta a disposizione di tutti, ma come “diritto al successo formativo”; e che ha demonizzato gli insegnanti che si opponevano all’abbassamento dell’asticella, o erano contrari a rilasciare falsi attestati. Ricevere un’ottima istruzione era l’unica carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con i figli di quelli alti”. Infatti i percorsi tecnico/professionali diventano spesso recinti di povertà. Questo malessere generale riguarda la scuola pre-pandemia, l’emergenza sanitaria ha solo denudato ferite incancrenite che la politica degli ultimi due decenni non ha affrontato e quindi aggravato. Una scuola che invece di accendere le persone le brucia va riformata. Come? La risposta non è “Chiudiamo le scuole!”, titolo dell’omonimo pamphlet dello scrittore Giovanni Papini che già nel 1918 denunciava provocatoriamente una certa organizzazione scolastica: “La civiltà non è venuta fuori dalle scuole che intristiscono gli animi invece di sollevarli e le scoperte decisive della scienza non son nate dall’insegnamento pubblico ma dalla ricerca solitaria disinteressata e magari pazzesca di uomini che spesso non erano stati a scuola o non v’insegnavano”. Però dobbiamo chiudere “questo modo” di fare scuola, una catena di montaggio spesso priva di cura delle persone, come spiegava già nel 1970 il filosofo Ivan Illich nel famoso “Descolarizzare la società”, in cui, seppur con eccessi ideologici ma con dovizia di proposte, aveva previsto gli esiti di una scuola che: scambia l’apprendimento con la prestazione/carriera, non offre quindi il sapere come aiuto per aprirsi all’esperienza della vita, ma addestra lo studente a performance e diplomi, rendendolo consumatore di programmi (basti pensare all’esame di maturità farsa - promozione del 99,8% degli studenti - eppure così ansiogeno per ragazzi che magari non sanno cosa fare dopo quell’esame); non permette agli insegnanti di essere maestri di umanità, conoscenza, desiderio, cioè guide al pensiero critico, collaborativo e innovativo, ma spesso li rende funzionari burocratici, precari, ripetitori di programmi, giudici di performance e competizioni (basti vedere come negli ultimi anni sono state introdotte, senza mezzi adeguati: prove Invalsi, alternanza scuola-lavoro e, in pandemia, proprio l’educazione civica! A proposito consiglio Maddalena Colombo, Gli insegnanti in Italia). A questo va aggiunto che la gestione attuale della scuola retribuisce (poco) coloro che lavorano bene allo stesso modo di chi lavora male; non aiuta le famiglie in difficoltà, sperperando i quasi 8mila euro che costa alle nostre tasse ogni anno uno studente (si legga Lettera ai Politici sulla Libertà di Scuola di Anna Monia Alfieri e Dario Antiseri); consolida o amplia il divario sociale, come dimostra Federico Fubini in La maestra e la camorrista. Perché in Italia resti quel che nasci (basti il dato della nostra dispersione scolastica al 13%: più di mezzo milione di ragazzi ha lasciato la scuola nel 2020). Perché non reagiamo? Perché l’azione politica dei cittadini è di fatto impossibile: c’è un vuoto di rappresentatività politico/sindacale di cui lo spettacolo (di potere) a cui abbiamo assistito per l’elezione del Presidente della Repubblica è la tragica rappresentazione. La filosofa Hannah Arendt, studiando i totalitarismi, per scongiurare nuove forme di tacita, inconsapevole o forzata collaborazione alla violenza da parte della maggioranza, elaborò l’idea di “disobbedienza civile”, cioè quando un certo numero di cittadini “si convince che i canali consueti del cambiamento non funzionano più e non viene più dato ascolto alle loro rimostranze”. Questi cittadini, seppur in minoranza, sono chiamati a organizzarsi per risvegliare “maggioranze che si ritengono inerti fino a farne mutare l’opinione”. Per questo non bastano sindacati/occupazioni/scioperi, normalizzati e resi sterili dal sistema, ma serve un serio lavoro di persone di professioni diverse, ma unite dall’obiettivo di riformare la scuola e capaci di risvegliare l’opinione pubblica, per far pressione su una politica che si ricorda della scuola in zona elezioni con quattro frasi paternalistiche su giovani e futuro e sentimentali fervorini sui docenti eroi della nazione. Magari la scuola diventasse argomento su cui giocarsi il consenso elettorale! Propongo alcuni esempi di “disobbedienza civile”. Studenti: aprire profili social per segnalare, magari con un minuto di silenzio in piedi in classe o in presidenza, una lezione malfatta, un’aula non riscaldata... ma anche una lezione bellissima e una scuola arredata con le piante. Docenti: impegnare le ore di auto-formazione e di educazione civica per approfondire tra noi, e poi con i ragazzi, i testi segnalati o altri, per poi produrre insieme lettere, volantini e video sia di proposta sia di protesta su fatti precisi, da far girare a scuola e da indirizzare a Presidente della Repubblica, Premier, ministro dell’istruzione, sindaci, assessori scuola e mezzi di comunicazione. Genitori: in alleanza con i presidi e docenti che vorranno, creare un comitato che segnali agli altri genitori della scuola e poi su giornali, radio, tv, rete e aule giudiziarie, sia le situazioni illegali (dall’edilizia scolastica al becero sistema di gestione delle supplenze e del sostegno) sia quelle virtuose (in una scuola hanno deciso di disegnare un sorriso su tutte le mascherine). Qualcosa può cambiare solo con una disobbedienza civile ragionata e continua, altrimenti molti continueranno a “bruciarsi” e pochi “fortunati” a salvarsi, contro l’art.3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Proprio la scuola, per una gestione politica inadeguata, oggi diventa spesso ostacolo al pieno sviluppo e partecipazione? Serve una class action culturale e legale. Per fortuna ci sono molte situazioni virtuose e da prendere a modello, ma raccontarle e farle diventare “sistema”, e non eccezioni eroiche o sentimentali, è compito nostro: #lascuolabrucia o #lascuolaccende? PS. Perché non cominciare dall’imminente festival della canzone, divenuto vetrina di lotte sociali e culturali? Magari tra i monologhi potrebbe esserci quello di una professoressa precaria, di uno studente che ancora a fine gennaio non sa (tutto tace al ministero) come sarà la maturità di quest’anno, di una mamma con un figlio bisognoso del sostegno o di una che il figlio l’ha perso. Alternanza scuola-lavoro, “occasione” o “sfruttamento”? di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2022 La morte di Lorenzo Parelli mette a nudo i limiti del sistema: le proposte di presidi e studenti per migliorarlo. Tra Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) e sistema duale, ogni anno centinaia di migliaia di ragazzi hanno modo di confrontarsi nei più svariati settori del mondo produttivo. L’incidente costato la vita a un 18enne ha creato aspre polemiche e divisioni sul modello da seguire. C’è chi parla di “esperienza necessaria”, chi di “sfruttamento da eliminare”. Tutti però sottolineano una necessità: le regole vanno cambiate. Alcune soluzioni raccolte: albo di aziende certificate, incentivo ai tutor aziendali e scolastici, rimborsi agli stagisti. La morte di Lorenzo Parelli, lo studente di 18 anni colpito da una trave d’acciaio nel suo ultimo giorno di stage in un’azienda in provincia di Udine, ha rilanciato il dibattito su quella che tutti chiamano “alternanza scuola-lavoro”. È spaccato il mondo della scuola tra chi invita a non strumentalizzare la vicenda, come i presidi, e chi chiede di eliminare l’obbligatorietà dell’esperienza lavorativa (Flc Cgil) o addirittura di abolire i percorsi scuola-lavoro già nell’anno in corso (Cobas). Nel mezzo ci stanno gli studenti, che intanto scendono in piazza, come nei giorni scorsi a Roma, Napoli, Milano, Torino e Padova, per chiedere più tutele e nessuno sfruttamento. Una posizione espressa anche dalla Cisl Scuola. Molte voci, insomma, che però un punto in comune ce l’hanno: il sistema che coinvolge il mondo della scuola e del lavoro va migliorato a partire da un’analisi dei dati a disposizione, da un albo di aziende certificate in quanto adatte a ospitare gli studenti e da un incentivo ai tutor aziendali e scolastici. Ma prima ancora delle soluzioni da adottare, va fatta chiarezza sui percorsi e sui numeri. L’alternanza scuola-lavoro nata nel 2015 con la “Buona scuola” di Matteo Renzi oggi si chiama Pcto, ovvero “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”. Un cambio di nome voluto dall’allora ministro leghista Marco Bussetti che non ha cambiato di molto la sostanza. Accanto ai Pcto c’è poi il cosiddetto sistema duale, un modello di formazione professionale alternata fra scuola e lavoro che vede le istituzioni formative e i datori di lavoro fianco a fianco nel processo formativo. A scegliere sono i ragazzi al termine della scuola secondaria di primo grado. Si può scegliere di proseguire gli studi nella secondaria di secondo grado articolata in licei, istituti tecnici e istituti professionali, o nella filiera della formazione professionale, a partire dagli Istituti di istruzione e formazione professionale (IeFP), di competenza regionale, che rilasciano una qualifica triennale o un diploma quadriennale. In questo caso, gli allievi svolgono degli stage lavorativi che in alcuni casi diventano dei veri e propri contratti di lavoro a tempo indeterminato (apprendistato di primo livello), che sono retribuiti a seconda della tipologia di percorso. Quanto ai numeri, i dati da citare sono quelli del ministero dell’Istruzione e delle Regioni. Per quanto riguarda la vecchia definizione di alternanza scuola-lavoro, i ragazzi in Pcto (quelli dell’ultimo triennio) sono un milione e 514mila. Le ore frequentate nel triennio, come prevede la normativa, sono almeno 180 negli istituti professionali (erano 400 prima della riforma Bussetti), almeno 150 nei tecnici (dalle precedenti 400) e almeno 90 nei licei (dalle precedenti 200). Proprio nell’anno scolastico 2018-2019, quando i percorsi di alternanza hanno cambiato nome, l’89% dei ragazzi di quinta ha frequentato un Pcto, mentre l’anno seguente si è scesi al 64,2% a causa della pandemia e alla conseguente sospensione dei percorsi, che lo scorso anno sono stati frequentati dall’85,6% degli studenti di quinta. Di questi, oltre il 40 per cento ha seguito il percorso in collaborazione con imprese, per fortuna senza vittime né feriti. Tanto che c’è chi non ha dubbi sull’efficacia del progetto e di fronte a polemiche e proteste parla di “critiche pretestuose e pregiudizio ideologico nei confronti del lavoro”, come il numero uno dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli. “Se fai certi studi non puoi fare a meno di andare in industria, in un laboratorio. Studiare, in questi casi, è vedere come si fa quel lavoro”, argomenta Giannelli, che pensa a Giotto che andava a bottega del Cimabue. E aggiunge: “Certo, c’è da migliorare, ma non demoliamo tutto. Va creata una banca dati con la recensione di tutte le aziende in modo da mappare quelle adatte e sicure ad accogliere gli studenti. Oggi uno dei problemi maggiori è piuttosto che le scuole devono pregare le ditte per trovare posto per i ragazzi”. Un’idea, questa del presidente dell’Anp, che va a braccetto con quella di Lena Gissi, segretaria nazionale Cisl Scuola: “Il sistema duale è una grande opportunità. Ho visto studenti impegnati nelle mie strutture che hanno avuto modo di fare esperienze significative per la loro formazione”. Anche la segretaria Cisl, tuttavia, propone qualche modifica: “Vanno incentivati i tutor e poi bisognerebbe pensare almeno ad un rimborso spese qualora i ragazzi debbano prendere mezzi pubblici per raggiungere i luoghi di lavoro”. Ma c’è anche chi la pensa diversamente, vedendo in queste esperienze un modo di fornire al sistema produttivo manodopera gratuita o a bassissimo costo, spesso senza prospettive. “L’evoluzione in Pcto non ha portato miglioramenti sostanziali sulla gestione di questi progetti, che rimane assolutamente precaria e spesso li trasforma in ore di sfruttamento”, sostiene Irene Bresciani, coordinatrice della Rete degli studenti medi di Padova. “Allo stesso modo - prosegue la ragazza - funzionano gli stage esterni, percorsi di formazione obbligatori per raggiungere un monte ore che possa far accedere lo studente all’esame di Stato. Questi stage spacciati per formativi e i Pcto non sono scuola, non sono lavoro, ma sono sfruttamento gratuito. Vogliamo indurre le istituzioni e l’opinione pubblica ad una seria riflessione politica sui percorsi scuola-lavoro”. Critica anche Serena Turnone, diciottenne di Martina Franca iscritta al liceo scientifico Tito Livio: “Come classe abbiamo fatto un progetto particolare: il restauro di un quadro ritrovato in un convento nella nostra città. L’ho trovato inutile. Adoro l’arte, ma mi sono resa conto che non mi è servito a nulla dal punto di vista lavorativo. Mi sembrerebbe più giusto formare i ragazzi sulle tutele, su come si legge un contratto o una busta paga: cose a noi sconosciute”. Ed è negativo anche Gianluca Saurgnani, liceale di 18 anni di Izano (provincia di Cremona): “Al liceo fanno fare conferenze con aziende e università, tendenzialmente non mandano in azienda. Per chi fa una scuola come la nostra è una palla al piede. Per chi fa un tecnico, può essere utile”. Ma anche il mondo studentesco è diviso. E non mancano i pareri opposti. Chiara Ferrari, 18 anni, alla quinta Itis a Crema, l’estate scorsa ha svolto quaranta ore in una farmacia. “Ho capito come si lavora, non pensavo fosse così stancante. Seguivo il loro orario: sistemavo i farmaci, guardavo le scadenze, ho appreso la logica del marketing”, racconta. E una richiesta la fa anche lei: “Certo, se ci dessero qualche soldo non sarebbe male. Alla nostra età serve a renderci un po’ più indipendenti. Io per esempio, ho iniziato a fare la cameriera in un ristorante”. D’accordo con lei il coetaneo Lorenzo Locati, rappresentante d’istituto del liceo classico Ostellini di Udine: “In collaborazione con l’università ho fatto un lavoro di digitalizzazione di testi del Settecento. È un’esperienza molto utile in sé, perché parte da presupposti ottimi: l’approccio dello studente al mondo del lavoro che è una realtà totalmente diversa dalla scuola. Il problema secondo me è che non c’è una vera e propria cultura di questi progetti”. Come anticipato, c’è poi la partita del sistema duale, che riguarda gli IeFP delle Regioni. Ilfattoquotidiano.it ha raccolto i dati di Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia. Ad oggi nessuna vittima tra gli studenti che hanno attivato uno stage, in nessuna di queste regioni. Non mancano invece i feriti, ma per fortuna si contano sulle dita delle mani: nell’anno scolastico 2020-2021 sono stati cinque su 3500 stage attivati in Veneto e due nella provincia autonoma di Bolzano, sul totale dei 976 allievi in stage. Nondimeno, qualche altro caso è stato riportato dalle cronache. Il 4 febbraio 2020 a Genola (Cuneo) un 17enne è finito in terapia intensiva dopo essere stato travolto da una cancellata in ferro, e il 13 giugno 2018 a un coetaneo è stata amputata una falange a causa di un incidente mentre lavorava in un’officina meccanica vicino a Prato. Mentre il 7 ottobre 2017, a La Spezia, uno studente è rimasto schiacciato da un muletto e si è rotto la tibia. Infine, il 21 dicembre 2017 a Faenza, il braccio meccanico di una gru ha ceduto e un 18enne si è fratturato le gambe. Impiegati negli stage o negli apprendistati, per la maggior parte i ragazzi trovano posto nelle attività dei servizi alla persona, nel turismo, nel commercio e nell’artigianato. In Valle d’Aosta, ad esempio, le aziende coinvolte appartengono ai settori del benessere, al primo posto, a quello turistico-ricettivo, alla piccola e grande distribuzione e infine alla meccanica e carrozzeria. In Piemonte, dov’è obbligatoria la formazione in sicurezza sia per gli stage che per l’apprendistato, prevalgono sempre le categorie del benessere, oltre ai lavori legati alla riparazione meccanica ed elettrica. “Ritengo che il tirocinio sia uno strumento importante - dichiara a ilfattoquotidiano.it l’assessore all’Istruzione e al Lavoro del Piemonte Elena Chiorino - abbiamo sempre lavorato per mantenere standard qualitativi elevati e continueremo a farlo, certi che sia la direzione giusta da perseguire. Anche le imprese vanno supportate in tema di sicurezza, mettendo a loro disposizione strumenti formativi dedicati, senza riempirle soltanto di atti burocratici da evadere. Non ritengo che la soluzione sia quella di ridurre i tirocini perché andrebbe soltanto a discapito dei ragazzi”. In Lombardia, regione che vale da sola più del 50% del totale nazionale in termini di allievi coinvolti, nell’anno 2020-2021 26.259 ragazzi erano iscritti al sistema duale, di cui 1.555 apprendisti. Il 17,73% era impiegato nelle attività di servizi alla persona, il 17,45% nella ristorazione, il 10,96% nel commercio al dettaglio, il 9,12% in quello all’ingrosso, il 7,74% nei lavori di costruzione specializzati e il 7% nell’istruzione. In Sicilia, dal 2018 al 2022 sono stati attivati 1.793 contratti di apprendistato di primo livello (tra istituti superiori e IeFp), con oltre 300 aziende coinvolte (dalle 107 del 2018), prevalentemente appartenenti al settore della ristorazione e delle strutture ricettive. Inoltre, tra il 2018 e il 2020 sono stati trasformati 171 contratti a tempo indeterminato. Ma è proprio su questi numeri che si levano le critiche di un’altra parte del mondo sindacale. Le più pesanti arrivano dai Cobas Scuola: “Negli istituti tecnici e professionali questa pratica ha messo a disposizione delle aziende centinaia di migliaia di giovanissimi che, con la scusa di imparare il mestiere, introiettano la concezione dominante per cui è una fortuna trovare un impiego anche se i diritti (salariali, contrattuali, di orario e organizzazione) devono essere sacrificati in nome di una produzione finalizzata ai profitti privati piuttosto che a soddisfare i bisogni sociali di tutta la cittadinanza”. Accuse pesanti, che non risparmiano le Regioni: “Il fatto che la formazione professionale regionale svolga una funzione del genere è scandaloso. Esattamente come noi, il movimento studentesco denuncia il Pcto come una mala pratica da abolire, per riportare nelle aule (da ampliare, ristrutturare e rendere accoglienti) studenti e studentesse: non si migliora la scuola allontanando dall’istruzione, ma rendendo migliore la scuola eliminando le classi-pollaio, aumentando gli organici e attrezzando laboratori e aule di strumenti adeguati e ammodernati”. Altrettanto duro Francesco Sinopoli, segretario nazionale Flc Cgil: “Siamo da sempre per l’abolizione dell’obbligatorietà dell’alternanza scuola lavoro. In Italia non ci sono così tante realtà da poter rendere efficace questa esperienza. In questi giorni nessuno ha strumentalizzato la morte di Lorenzo, ma finalmente si è riaperta una riflessione. Quel ragazzo non era in Pcto ma in uno stage, ma poco cambia. La domanda da fare è: cosa ci faceva sotto quella trave? Non vogliamo buttare via il bambino con l’acqua sporca, ma serve un albo delle aziende dove poter fare stage e Pcto. Non abbiamo bisogno di adeguare le scuole alla domanda del sistema produttivo”. Ministro, mi spieghi le botte di Ismaele C. La Stampa, 31 gennaio 2022 Domenica sono stato colpito alla testa da una manganellata durante una manifestazione per la morte di Lorenzo Parelli, io e altri 3 ragazzi abbiamo riportato ferite suturate con dei punti. Sempre domenica al Pantheon la polizia ha caricato gli studenti con una violenza inaudita e senza un valido motivo. A Torino, durante altre manifestazioni studentesche, venerdì scorso, ci sono stati 20 feriti tra cui due gravi. Episodi simili si sono verificati anche a Milano e a Napoli. Sorgono doverosi dubbi sullo stato di salute della nostra democrazia. La responsabilità è della ministra Lamorgese, alla quale va chiesto conto e ragione della condotta muscolare delle forze dell’ordine in dinamiche di piazza di solito gestite nella totale tranquillità e calma. Penso che focalizzarsi su una critica ai fatti come un problema di ordine pubblico, esclusivamente di violenza ingiustificata, rischi di spegnere totalmente il problema politico della violenza poliziesca nel contesto delle nostre manifestazioni: è una questione che non si risolve con delle scuse, spiegando il perché o attraverso particolari liturgie istituzionali. Noi eravamo in piazza, come in tantissime città d’Italia per chiedere l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro, contro un processo in atto da decenni, portato avanti da tutti i governi, che sta trasformando la scuola pubblica italiana in un’azienda o in ufficio di collocamento. Eravamo in piazza per la morte surreale di un nostro coetaneo, ucciso dal dogma della competitività, che ha sfregiato la nostra istruzione pubblica. Piuttosto che alla Lamorgese, responsabile istituzionale dei quattro punti che mi ritrovo in testa, mi rivolgerei al ministro Bianchi, che nel contenuto politico non è diverso dalla Azzolina, che non era diversa da Fioramonti (anche se sotto il suo ministero l’alternanza è stata depotenziata) che non era diversa dalla Fedeli, e si potrebbe andare a ritroso per molto tempo. Se la Lamorgese è la responsabile istituzionale della violenza inspiegabile della polizia (ho letto che rappresentanti delle forze dell’ordine hanno giustificato i fatti di Torino e Milano dicendo che il rischio era il saccheggio - parliamo di massimo cinquecento studenti, tra cui molti minorenni - delle sedi di Confindustria) allora di questa ferita Patrizio Bianchi ne è il responsabile politico. Perché noi quel giorno, quando ci stavamo per muovere in corteo, eravamo diretti verso il Miur proprio per contestare il ministro Bianchi L’ideologia suprematista dietro l’orrore della Shoah di Luigi Manconi La Stampa, 31 gennaio 2022 Che memoria ci consegna la Giornata della memoria celebrata quattro giorni fa? Una lezione illuminante è quella che si trova in uno degli ultimi articoli di Primo Levi pubblicato, col titolo “Buco nero di Auschwitz”, su La Stampa del 22 gennaio del 1987, settantotto giorni prima di quel sabato di aprile in cui si tolse la vita. L’occasione dello scritto era la discussione pubblica in corso in quei mesi in Germania e in Europa a proposito della natura della Shoah e della legittimità o meno di una sua comparazione con altri orrori perpetrati in nome di un’ideologia organizzata in un sistema statuale di dominio e violenza. In particolare, un gruppo di storici, guidati da Ernst Nolte, era impegnato nel dimostrare il nesso di causalità, anche cronologico, tra le stragi realizzate dal regime nazista e quelle messe in atto dal regime sovietico, sottolineando come l’organizzazione dei lager fosse successiva a quella dei gulag; così come le stragi dei kulaki e degli oppositori politici avessero anticipato i dispositivi di sterminio attuati dal Terzo Reich. Il che portava, quasi inevitabilmente, a considerare la Shoah come una sorta di risposta difensiva alla politica del terrore adottata dal sistema bolscevico e alla minaccia di invasione del territorio tedesco. Primo Levi analizza con estremo rigore e con meticolosa acribia tutti i dati della discussione in corso, entrando dettagliatamente nel merito delle argomentazioni degli storici revisionisti. Ne emerge un atto di accusa spietato nei confronti dell’Urss, che non risparmia alcuna critica, non dissimula alcun dissenso, non attenua alcun giudizio: “I sovietici non possono essere assolti”. Sono responsabili, infatti, degli immondi processi e delle innumerevoli e crudeli azioni contro veri o presunti nemici del popolo, della reinvenzione di un’economia schiavistica destinata alla “edificazione socialista”; e certamente i soldati sovietici, dopo l’assedio di Leningrado, “si macchiarono di colpe gravi”. Come si vede non la più piccola indulgenza e, nemmeno, quell’atteggiamento, così diffuso, di chi muove critiche anche le più feroci, ma sentendosi comunque parte integrante, e delusa, dello schieramento da cui si prendono le distanze. Cosa che sarebbe stata comprensibile, tenendo conto degli incontestabili meriti storici avuti dall’Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo. No, Levi non si riferisce a “partiti fratelli” da cui dissentire o a “compagni che sbagliano”, verso i quali la critica è tanto pesante quanto segnata dal dolore: per una affinità che si deve ripudiare e per il tradimento di valori che si ritenevano condivisi. Sentimento, questo, comune a tanti democratici sinceri e a tanti comunisti in buona fede, ma presi mani e piedi legati nel meccanismo della guerra fredda, che pure affidavano all’Unione Sovietica un ruolo decisivo nella promozione del riscatto sociale delle classi subalterne. Primo Levi non parla da persona disillusa, come chi ha creduto nel “Dio che è fallito” - anche in questo caso la sua lucidità è fuori dall’ordinario - : e proprio questo dà maggiore forza alla sua analisi. La teoria della “unicità” della Shoah viene limpidamente argomentata: “Il disprezzo della fondamentale uguaglianza di diritti fra tutti gli esseri umani trapelava da una folla di particolari simbolici, a partire dal tatuaggio di Auschwitz fino all’uso, appunto nelle camere a gas, del veleno originariamente prodotto per disinfestare le stive invase dai topi. L’empio sfruttamento dei cadaveri, e delle loro ceneri, resta appannaggio unico della Germania hitleriana”. Se, continua Levi, quell’ideologia avesse prevalso “troveremmo oggi un mondo spaccato in due, “noi” i signori da una parte, tutti gli altri al loro servizio o sterminati perché razzialmente inferiori”. Ecco, è il fondamento inequivocabilmente razzista della ideologia e della pratica del nazismo che rende la Shoah “il male assoluto”. Questo il ragionamento di Primo Levi nel gennaio del 1987. Perché mai una simile interpretazione va riaffermata ancora oggi? Perché è proprio quel particolare approccio a renderla incontestabile. La natura abnorme della Shoah e la sua confermata unicità non discende dal numero delle vittime o dall’efferatezza dei metodi di sterminio, ma propriamente da quella ideologia “ariano-suprematista” che ne fu prima motivazione e prima finalità. Il nazismo, dunque, come strategia di disumanizzazione, fondata sull’annientamento di una parte dell’umanità stessa: l’umanità che negava se stessa. E il suo tratto essenziale: l’eguaglianza tra gli uomini. È questo a rendere pretestuosi i tentativi di “parificazione” tra gli orrori quali quelli affidati al calcolo delle vittime (quanti milioni quelle uccise dal comunismo?); e, altrettanto pretestuosa l’equivalenza tra tutti i regimi dispotici e tirannici del primo Novecento: quasi fosse necessario equiparare al nazismo tutte le altre dittature, per poterle criticare con maggiore radicalità. Il rifiuto di ogni totalitarismo è precondizione di qualsiasi dichiarazione di fede democratica, ma comprendere quale sia la natura profonda e unica del nazismo è uno strumento indispensabile. Al fine di coglierne le nuove manifestazioni più frequenti di quanto si creda e le forme inedite che può assumere la ricorrente ideologia della subordinazione dell’uomo all’uomo. Accordo Italia-Libia, cinque anni senza fermare abusi e torture di Paolo Pezzati* Il Domani, 31 gennaio 2022 Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo Italia-Libia e quattro governi, niente è cambiato. Si continua a morire nel Mediterraneo. L’accordo fondato sull’esternalizzazione delle frontiere che sancì la dottrina Gentiloni-Minniti non solo non ha fermato le stragi in mare, ma ha consentito all’industria del contrabbando e della detenzione di esseri umani di diventare sempre più fiorente. L’Italia in questi anni ha provato in tutti i modi a superare l’ineluttabilità geografica e giuridica dell’essere il paese europeo principalmente coinvolto, ma l’ha fatto nel modo peggiore possibile, senza valori, senza umanità, senza diritti, oltre tutto senza una vera e comune visione europea, ispirata ai principi fondamentali dell’Unione. Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo Italia-Libia e quattro governi, niente è cambiato. Si continua a morire nel Mediterraneo, migliaia di migranti vengono riportati nei lager libici tra abusi, torture e violenza, l’industria del traffico di esseri umani incrementa il suo spietato fatturato, mentre l’Europa continua a far finta di non vedere. Firmato a Roma il 2 febbraio del 2017, il Memorandum di intesa fondato sull’esternalizzazione delle frontiere, sancì la dottrina Gentiloni-Minniti, misurando la bontà del proprio assunto su nient’altro che il numero degli intercettati o il calo degli arrivi via mare. Un assunto che deve però ritenersi fallimentare, perché in cinque anni non solo non ha fermato le stragi in mare, con oltre 8.000 morti lunga la rotta del Mediterraneo, ma ha consentito all’industria del contrabbando e della detenzione di esseri umani di diventare sempre più fiorente, riciclando e reinvestendo, grazie anche a ruoli di responsabilità ricoperti da propri uomini nella cosiddetta Guardia costiera o in altre istituzioni libiche. Sarebbe ipocrita nasconderselo, ma il business dei centri di detenzione e l’odiosa pratica dei riscatti estorti alle famiglie di chi arriva in Libia, per raggiungere l’Italia e l’Europa, altro non sono che la conseguenza dell’aumento delle persone riportate in Libia dalla Guardia costiera negli anni: oltre 80.000 dal 2017, di cui 32.000 solo nel 2021. Non solo: dei 32.000 deportati del 2021, è rimasta traccia solo di 12.000, registrati in centri ufficiali, mentre i restanti 20.000 sono diventati dei fantasmi, senza esiti o destini, stritolati probabilmente nella morsa di aguzzini e trafficanti. La difesa dei diritti umani è stata affrontata ancora una volta come una variabile “esogena”, una componente che nei fatti non ha influenzato nel tempo le scelte politiche dei leader italiani ed europei, sia nell’approccio strategico complessivo, quanto nella scelta degli interlocutori libici specifici, che di volta in volta si sono susseguiti. È stata semplicemente sacrificata all’altare di una apparentemente ineluttabile realpolitik. L’accordo Italia-Libia costituisce di fatto l’inizio di un vero e proprio “scacco ai diritti umani”, nonostante nel tempo si sia voluto accreditare la Libia come un paese sicuro, e che restituirle i migranti intercettati provenienti dalle sue coste fosse tra le opzioni plausibili. Per allestire tutta questa finzione si è formata e addestrata la Guardia Costiera libica con fondi italiani (al costo di 32,6 milioni di euro in 5 anni) ed europei, la si è dotata di mezzi e le si è dato supporto nella richiesta di riconoscimento di una propria zona SaR da parte dell’International Maritime Organization. L’Italia in questi anni ha provato in tutti i modi a superare l’ineluttabilità geografica e giuridica dell’essere il paese europeo principalmente coinvolto dagli sbarchi provenienti dalla rotta del Mediterraneo centrale. Ma l’ha fatto nel modo peggiore possibile, senza valori, senza umanità, senza diritti, oltre tutto senza una vera e comune visione europea, ispirata ai principi fondamentali dell’Unione. La strada resta sempre la stessa: superare i limiti imposti dal Trattato di Dublino, seguendo un approccio solidale, portando finalmente acqua e vita a una missione europea in grado di attuare ricerca e soccorso nel Mediterraneo e ampliando le vie legali di ingresso. *Oxfam Italia Irlanda. Bloody Sunday, “Inaccettabile l’amnistia proposta da Johnson” di Leonardo Clausi Il Manifesto, 31 gennaio 2022 A cinquant’anni esatti dalla strage in cui quattordici dimostranti irlandesi per i diritti civili morirono ammazzati dai paracadutisti britannici, la popolazione di (London)Derry ha ripercorso ancora una volta ieri, come ogni anno, l’itinerario di quel fatale corteo nel Bogside, l’area cattolica della città. In centinaia si sono raccolti davanti al memoriale Bloody Sunday, dove il primo ministro irlandese Micheal Martin ha deposto una corona di fiori per ricordare le vittime cattoliche in quei dieci minuti di fuoco del 30 gennaio 1972, come il ministro degli Esteri Simon Coveney e altri leader politici, tra cui la leader del Sinn Féin Mary Lou McDonald e il leader del nazionalista Sdlp, il Social Democratic and Labour Party, Colum Eastwood. Dopo una cerimonia religiosa nel corso della quale sono stati letti, come di consueto, tutti i nomi dei morti - tra cui figurano vari adolescenti: chi colpito alle spalle, chi a terra, chi mentre agitava un fazzoletto - il premier irlandese Martin ha privatamente incontrato i familiari delle vittime presso il Museum of Free Derry. E ha commentato l’iniziativa del governo populista ed euroscettico di Boris Johnson, che intende promuovere una legislazione riconciliatoria che ammonta in buona sostanza a un’amnistia, vista anche l’età avanzata dei soldati coinvolti. “Non credo debbano esserci amnistie per chicchessia, ritengo che si debba andare in fondo con i procedimenti penali e l’applicazione della giustizia” ha detto il taoiseach (tiscech, primo ministro) Martin, echeggiando Michael McKinney, il fratello di William, una delle vittime, che ha ribadito l’opposizione delle famiglie all’idea: “Se realizzeranno le loro proposte, le famiglie della Bloody Sunday le fronteggeranno a viso aperto”. Contro l’amnistia si era espresso anche l’ex leader laburista Jeremy Corbyn, intervenuto sabato pomeriggio: “È oltraggioso che nessuno sia stato mai indagato per la morte di quattordici dimostranti innocenti. È un doppio oltraggio che il governo britannico stia progettando una legislazione che renderebbe un simile sforzo ancora più arduo in futuro”. L’anniversario, che molti in Italia ricordano anche grazie all’omonimo, opinabile inno degli U2, rievoca una delle pagine più nefaste della storia britannica del Novecento, forse la peggiore dei Troubles (disordini, così viene eufemisticamente definita la guerra civile in Irlanda del Nord) e fa da corollario ad altre nefandezze colonial-militari. Non solo per la gravità - altri episodi di violenza da ambo le parti, nazionalista cattolica e unionista protestante hanno fatto registrare altrettante vittime - ma per il prolungato tentativo di occultare la verità da parte di Londra. Dopo un primo rapporto governativo nel 1972, pieno di menzogne, diffamatorio delle vittime e teso a esonerare i militari da ogni responsabilità, nel 2010 le cinquemila pagine di un’inchiesta durata dodici anni, commissionata da Tony Blair e finita in grembo a David Cameron avevano finalmente stabilito l’ovvio: le vittime erano disarmate, inoffensive e l’ufficiale britannico al comando aveva violato gli ordini. Cameron chiese scusa, ma a oggi nessun militare è mai stato accusato. Questo passato che non passa rischia di secernere oggi tutta la sua tossicità, anche alla luce delle vicissitudini nordirlandesi dopo i colpi inferti da Brexit alla pace e alla condivisione dei poteri sanciti dal Good Friday Agreement nel 1998. E il ritorno del settarismo si riflette nelle bandiere dello stesso reggimento paracadutisti macchiatosi delle atrocità, fatte sventolare in varie zone protestanti della città. Siria. Ong: 332 morti nell’attacco dell’Isis alla prigione di Ghwayran ansa.it, 31 gennaio 2022 L’assalto del gruppo dello Stato islamico alla prigione di Ghwayran nella città di Hassake nel nord-est della Siria e gli scontri tra jihadisti e forze curde hanno provocato 332 morti dal 20 gennaio. Lo riferisce un nuovo rapporto annunciato dall’Osservatorio siriano dei diritti umani (Osdh). Ieri si sono verificati nuovi sporadici scontri tra le forze curde, sostenute dalle forze statunitensi, e membri dell’Isis ancora in libertà vicino alla prigione, dove almeno 3.500 jihadisti di diverse nazionalità sono stati detenuti. L’ong siriana ha precisato che dei 332 morti 246 sono jihadisti, 79 membri delle forze curde, mentre sette sono civili. Secondo l’Osservatorio, l’aumento del bilancio delle vittime è dovuto al ritrovamento di nuovi cadaveri durante le operazioni di ricerca da parte delle forze curde negli edifici carcerari e nelle aree adiacenti. Secondo la ong il bilancio delle vittime rischia di aggravarsi a causa delle persone rimaste gravemente ferite. Siria. L’allarme dei curdi inascoltato: rispunta l’Isis di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 31 gennaio 2022 Si moltiplicano i segnali preoccupanti in particolare in alcune aree della Siria. “Non fatevi illusioni. Isis è battuto, ma non sconfitto. Se non ci aiutate a combatterlo, ritornerà”. Lo dicevano apertamente i miliziani curdi di fronte alle rovine di Baghouz, l’ultima roccaforte del Califfato nella Siria Nordorientale. Era il marzo 2019: dopo cinque anni di guerra spietata contro il terrore jihadista, decine di migliaia di vittime e il forte coinvolgimento della coalizione a guida americana, i curdi della regione siriana semi-indipendente che loro chiamano Rojawa ci mettevano in guardia. Ma la comunità internazionale li ascoltò poco, pareva un appello interessato. I fatti degli ultimi tempi provano che avevano ragione da vendere. Isis e l’estremismo islamico rialzano la testa, colpiscono dal Niger, al Mali, al Burkina Faso, sino all’Afghanistan talebano, oltreché nell’Iraq diviso tra sciiti e sunniti, in contrasto con la sua minoranza curda, e nella stessa Siria piagata dalla crisi economica che crea gravi difficoltà alla dittatura di Bashar Assad. Il campanello d’allarme più inquietante è stato l’attacco lanciato in grande stile la settimana scorsa dagli orfani di Abu Bakr al Baghdadi contro il carcere di Gweiran, un ampio complesso circondato da alte mura alla periferia di Hasakeh, dove sono detenuti oltre 5.000 irriducibili, tra loro il fior fiore della jihad internazionale. I morti sono ben oltre 200, non è chiaro cosa sia avvenuto ai circa 600 minorenni figli dei “martiri” islamici delle battaglie di Mosul e Raqqa. Il combattimento è durato almeno sei giorni, gli americani hanno inviato rinforzi. L’intero nucleo urbano di Hasakeh è rimasto paralizzato dal coprifuoco. I curdi dicono di avere vinto, ma non è chiaro quanti siano evasi e quanti abbiano raggiunto il vicino campo di Al Hol, dove sono detenuti quasi 60.000 tra mogli e figli dei jihadisti. Intanto il governo di Baghdad segnala la crescita dei blitz di Isis nei pressi di Mosul. I curdi vanno ascoltati. Myanmar. Un anno fa il colpo di stato: in 12 mesi di morte e miseria di Riccardo Noury Corriere della Sera, 31 gennaio 2022 Oltre 1.400 manifestanti uccisi, 11.000 persone arrestate più di 8.000 delle quali ancora in carcere, l’ex leader del governo civile Aung San Suu Kyi condannata a sei anni per false accuse e a rischio di ulteriori 100 anni di carcere, molti dei suoi più stretti collaboratori - tra cui il deposto presidente Win Myint - a loro volta condannati. È questo il bilancio dei 12 mesi seguiti al colpo di stato militare del 1° febbraio 2021 in Myanmar. A questi dati vanno aggiunti il caos, l’insicurezza economica e la crisi sanitaria che stanno mettendo in pericolo la vita di 55 milioni di persone. La recrudescenza dei conflitti tra l’esercito e i vari gruppi armati su base etnica ha costretto centinaia di migliaia di civili alla fuga. Con l’approssimarsi dell’anniversario del colpo di stato, i militari di Myanmar hanno ripreso gli attacchi aerei indiscriminati nel sud-est del paese, bloccato l’afflusso di aiuti umanitari indispensabili a salvare vite umane e lanciato una sanguinosa campagna repressiva contro attivisti e giornalisti. Come in passato in occasione delle operazioni militari contro i rohingya, anche adesso il mondo sta a guardare, nonostante la Commissione di accertamento dei fatti istituita dalla Nazioni Unite abbia chiesto che il generale Min Aung Hlaing e ulteriori alti ufficiali delle forze armate siano posti sotto inchiesta per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Amnesty International ha rinnovato la richiesta al Consiglio di sicurezza di imporre un embargo totale sulle armi dirette a Myanmar, applicare sanzioni mirate contro i capi delle forze armate e riferire urgentemente la situazione di Myanmar al Tribunale penale internazionale. Reporter rinchiusi o espulsi. La fine del giornalismo in Cina di Laura Harth formiche.net, 31 gennaio 2022 Restrizioni sui visti, uso arbitrario delle restrizioni Covid-19, intimidazioni, minacce e non solo: le tattiche di Pechino per costringere i corrispondenti a “raccontare bene la Cina”. Il rapporto del Foreign Correspondents Club of China. “Interviste annullate, cacciato dalle città nelle aree tibetane del Sichuan dalla polizia, detenuto a Chengdu. E non solo per storie delicate. È diventato impossibile fare giornalismo in Cina”. È una delle tante testimonianze dirette incluse nell’ultimo rapporto annuale del Foreign Correspondents Club of China appena pubblicato, “Locked Down or Kicked Out covering China”. Il documento presenta un resoconto straziante dell’incessante repressione della stampa e dei giornalisti stranieri nella Repubblica popolare cinese e a Hong Kong, con “ostacoli governativi senza precedenti per bloccare e screditare i giornali indipendenti”. Restrizioni sui visti, uso arbitrario delle restrizioni Covid-19, intimidazioni, minacce ai familiari e colleghi, molestie fisiche, doxing, sorveglianza e divieti di uscita sono solo alcune delle tante tattiche impiegate dallo Stato per costringere i corrispondenti esteri, il personale locale e le loro fonti a conformarsi al mantra del “raccontare bene la Cina”. A pochi giorni dell’apertura dei Giochi invernali di Pechino 2022, i corrispondenti fanno notare come l’approccio della Cina ai giornalisti stranieri è in diretto contrasto con le sue stesse politiche dichiarate per i media stranieri e lo spirito olimpico di eccellenza, amicizia e rispetto. Il Covid-19 è stato utilizzato frequentemente dalle autorità per ritardare l’approvazione di nuovi visti per giornalisti, interrompere i loro viaggi e rifiutare le richieste di interviste. Una tattica che continua in vista di Pechino 2022: in un travel advisory in cui avvertono senza mezzi termini i colleghi corrispondenti che ogni loro movimento e attività telematica sarà soggetto a sorveglianza, lo stesso Fccc nota come i media internazionali non hanno potuto partecipare a conferenze stampa e coprire la preparazione dei Giochi - come l’arrivo della torcia olimpica - per motivi tra cui l’obbligo di presentare test Covid-19 in un lasso di tempo impossibile. Inoltre, il 62% degli corrispondenti intervistati ha affermato di essere stato ostacolato almeno una volta dalla polizia o da altri funzionari; l’88% dei giornalisti che si sono recati nello Xinjiang nel 2021 ha affermato di essere stato visibilmente seguito e più di un quarto degli intervistati ha affermato che le proprie fonti sono state molestate, detenute o interrogate dalla polizia più di una volta. “Una donna con cui avevamo chiacchierato amichevolmente, all’improvviso ha fatto un gesto di rinchiudere la bocca, ci è passata davanti ed è corsa fuori dal suo negozio, letteralmente scappando dopo essere stata interpellata dagli uomini oscuri che ci seguivano”. Secondo il rapporto, le autorità cinesi sembrano anche incoraggiare una serie di azioni legali o la minaccia di azioni legali contro giornalisti stranieri, in genere presentate da fonti molto tempo dopo che hanno esplicitamente accettato di essere intervistate. Nel frattempo, gli attacchi sostenuti dallo Stato contro giornalisti stranieri, in particolare con campagne di trolling online, favoriscono una crescente sensazione tra il pubblico cinese che i media stranieri sono il nemico, incoraggiando le molestie fisiche dei giornalisti sul campo. Le tante testimonianze dettagliate dei giornalisti nel rapporto Fccc forniscono uno spaccato del pesante costo personale, imposto da quello che il Comitato per la protezione dei giornalisti ha definito il “peggior carceriere di giornalisti del mondo” nel suo ultimo sondaggio annuale. Infatti, al titolo del rapporto Fccc sarebbe da aggiungere la parola “rinchiusi”: aumentano alla velocità della luce le sparizioni forzate e l’incarcerazione di giornalisti locali (e non) con il pretesto di mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Centoventisette i giornalisti attualmente detenuti nella Cina continentale e a Hong Kong secondo il rapporto del dicembre scorso di Reporters Without Borders. Tra loro Zh?ng Zh?n, detenuta dal maggio 2020 e poi condannata a quattro anni di carcere per essere stata “litigiosa e provocatoria” nei suoi reportage da Wuhan. Nel novembre 2021, le procedure speciali delle Nazioni Unite hanno lanciato un appello per il suo rilascio immediato e incondizionato: “L’arresto e la detenzione di Zh?ng Zh?n e di una serie di altri cittadini giornalisti per il loro lavoro sullo scoppio del Covid-19 a Wuhan, una questione di vitale interesse pubblico, è profondamente preoccupante. Non solo rappresenta uno sforzo delle autorità per censurare informazioni nell’interesse pubblico, ma è una preoccupante misura di ritorsione volta a punire coloro che tentano di aggirare questa censura per condividere informazioni nell’interesse della salute pubblica”. Altri attualmente scomparsi o in detenzione includono: F?ng B?n, un altro giornalista cittadino che si era recato a Wuhan all’inizio del 2020; Chéng L?i, cittadina australiana detenuta nell’agosto 2020 a causa del peggioramento delle relazioni tra Australia e Cina; e Haze Fan, membro di Bloomberg News a Pechino, arrestata un anno fa in circostanze poco chiare e la quale rimane tutt’ora in incommunicado. Come accennato, lo stesso destino ora spetta a Hong Kong. Il rapporto 2021 della Fccc evidenzia la chiusura forzata del quotidiano pro democrazia Apple Daily e l’incarcerazione del suo proprietario Jimmy Lai e di cinque dei suoi massimi dirigenti nel primo semestre del 2021. Ma era solo l’inizio: “Mentre il 2021 volgeva al termine, sette editori e membri del consiglio dell’agenzia indipendente Stand News sono stati arrestati ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale. Citizen News, un altro canale indipendente che ha seguito da vicino le proteste anti estradizioni di Hong Kong del 2019, ha chiuso subito dopo per problemi di sicurezza”. L’immagine dipinta dal rapporto della Fccc, opportunamente pubblicato appena prima dell’apertura delle Olimpiadi invernali di Pechino da cui molti corrispondenti sono stati esclusi, fornisce una straordinaria visione del dietro le quinte della propaganda e della macchina di censura della Repubblica popolare cinese. Due facce della stessa medaglia che portano il lettore dentro il clima di paura e oppressione che soffoca ogni libertà di espressione.