Giuliano Amato al vertice della Consulta: “Carceri, noi pronti a intervenire” di Errico Novi Il Dubbio, 30 gennaio 2022 L’ex Capo del governo eletto all’unanimità nuovo presidente della Corte costituzionale. Riguardo alla parità di genere, in conferenza stampa dice subito: “Noi maschi dovremmo vergognarci, continuiamo a vedere la donna dalla cintola in giù”. Che l’elezione di Giuliano Amato a presidente della Corte costituzionale s’intrecci suggestivamente con la tormentata sfida del Colle, lo si vede da vari piccoli segnali. Intanto stamattina, poco prima che verso le 12 l’ex presidente del Consiglio fosse indicato all’unanimità (dagli altri giudici costituzionali) al vertice della Consulta, si era dovuto procedere al giuramento del nuovo componente della Corte Filippo Patroni Griffi, indicato dal Consiglio di Stato per avvicendare il presidente uscente Giancarlo Coraggio, che ha concluso i propri 9 anni a Palazzo della Consulta giusto ieri. Immaginatevi la scena: il giuramento, come da prassi, avviene al Quirinale, dunque nelle mani del presidente in carica, Sergio Mattarella appunto. E dunque, mentre i partiti si consumavano nel loro fallimento e si accingevano ad andare a loro volta in pellegrinaggio al Colle per chiedergli in ginocchio di restarci, lui il Capo dello Stato, continuava tranquillamente a esercitare le funzioni. Vi dice nulla, come sequenza simbolica? A voler condire il tutto, tenete presente che al giuramento di Patroni Griffi c’erano pure la protagonista di uno dei tentativi più dolorosi degli ultimi giorni, Maria Elisabetta Alberti Casellati, e la terza carica dello Stato, Roberto Fico, che presiede l’Aula nel voto per la presidenza della Repubblica. Infine, Mario Draghi, protagonista implicito dell’intera vicenda Colle. Una specie di pausa collettiva di riflessione. Poco dopo si riunisce la Corte costituzionale al completo ed elegge all’unanimità, come detto, Giuliano Amato presidente. È lui il giudice più anziano, la prassi vuole che sieda al vertice della Consulta, il che non ha alcuno dei sempre presunti effetti in termini di benefit: ai presidenti uscenti non toccano né macchine blu né altre leggendarie ma ormai inesistenti prebende. Amato nomina subito i vicepresidenti, sempre da prassi: sono i giudici Silvana Sciarra, Daria de Pretis e Niccolò Zanon. Tutti valentissimi, il terzo peraltro redattore di alcune fra le recenti sentenze garantiste emesse dalla Corte in materia di ergastolo e carcere ostativo. Bene. A proposito delle due vicepresidenti donne, proprio a partire dalla questione di genere Amato regala, nell’immediatamente successiva conferenza stampa, un saggio della propria arguzia, che fa di lui un auspicabilmente ritrovato protagonista del dibattito pubblico, seppure i presidenti della Corte in carica tendano a parlare assai poco, al di fuori dei tradizionali appuntamenti annuali con la stampa: “Continuiamo a non essere pari, continuiamo a vedere la donna più dalla cintola in giù”. È sferzante, spietato: “Anche i giovani spesso trovano identità nella cultura machista, noi maschi abbiamo di che vergognarci e questo è un problema: non chiediamo al Parlamento di risolvere qualcosa che è dentro di noi”. E invece il legislatore dovrebbe dare segnali su altro: “La Corte indica una delle soluzioni possibili”, premette, in rifermento ad alcune delle questioni affrontate di recente, incluse l’ergastolo ostativo e il suicidio assistito, e poi però avverte: “Saremmo più contenti se si trovassero soluzioni in Parlamento”. Anche qui parla chiaro e non fa sconti, In generale: “La collaborazione tra Corte costituzionale e Parlamento diventa fattore essenziale, tanto più nel caso di conflitti sui valori”. Ma visto che spesso le soluzioni non arrivano, i problemi restano, innanzitutto sul carcere: “In passato dicemmo, sul sovraffollamento, che bisognava provvedere, perché la situazione non sarebbe stata ulteriormente tollerabile. Ora siamo nuovamente sulle 52mila, 53mila presenze: se ci fosse riproposta una questione su questo tema, ci troveremmo di fronte alla responsabilità di affrontarla”. Avvertimento severo, ma in fondo rassicurante: mal che vada, c’è sempre la Consulta, per fortuna. Amato, da “quirinabile appena scampato”, non si nega su discorsi presidenziali riferiti al Colle (“se si decide di cambiare, penserei al modello francese”) e poi ricorda che a fine settembre andrà “in pensione”, come giudice e come presidente della Consulta. “Fino ad allora mi troverete qui”. Sarà breve, ma certamente intenso. Ergastolo ostativo, Di Battista: “Eliminarlo è il più grande regalo alle mafie” di Salvatore Frequente Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2022 “Rischiamo di smantellare l’impianto legislativo voluto da Paolo Borsellino e Giovanni Falcone per contrastare la criminalità organizzata”. Parola di Salvatore Borsellino, fondatore del movimento Agende rosse e fratello del giudice ucciso da Cosa Nostra, intervenuto nel corso dell’evento organizzato a Milano dal consigliere regionale lombardo Luigi Piccirillo per affrontare l’argomento dell’ergastolo ostativo. Nell’aprile dello scorso anno la Corte Costituzionale ha infatti dichiarato incostituzionale la norma che vieta di liberare e concedere benefici ai boss stragisti condannati all’ergastolo che non collaborano con la giustizia. La Consulta aveva comunque concesso un anno di tempo al Parlamento per intervenire sulla questione. Ma a pochi mesi dalla scadenza, il nuovo testo è fermo ancora in commissione giustizia alla Camera. “Con le votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica l’iter è stato bloccato e a fermarlo è stato il sottosegretario alla giustizia Sisto che è l’avvocato di Berlusconi. Evidentemente è una legge che dà fastidio”, commenta Piera Aiello, testimone di giustizia e deputata, componente proprio della stessa commissione Giustizia (oltre che di quella Antimafia). “Il rischio - ha aggiunto - è che dopo 26 anni, soggetti come i fratelli Graviano, possano tornano a casa tranquilli e beati”. Prospettiva molto criticata anche dalle Procure italiane, a partire dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha dedicato un ampio passaggio del suo discorso alla riforma: “L’ergastolo ostativo e il 41-bis non sono carcere duro ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992”. “I giudici antimafia che combattono veramente la mafia quotidianamente sono giustamente terrorizzati dall’idea che si possa cancellare l’ergastolo ostativo, che significherebbe cancellare l’ergastolo tout court”, ha sottolineato Alessandro Di Battista, anche lui tra i relatori dell’evento milanese. “Smettere di combattere affinché si possa svelare la verità, disincentivando i boss a pentirsi, è il miglior regalo che si possa fare alle mafie”, ha aggiunto. A chiedere all’Italia la riforma dell’ergastolo ostativo nel 2019 era stata anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo hanno stabilito che la condanna al carcere a vita “irriducibile” viola l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani. “Purtroppo l’Europa, che non ha una legislazione antimafia adeguata come quella italiana - commenta Salvatore Borsellino - pretende di sindacare su quella che è la migliore legislazione sul tema”. Intanto il testo base e i numerosi emendamenti sono ancora fermi in commissione, mentre si avvicina la scadenza imposta dalla Corte costituzionale. L’auspicio di Piera Aiello è che immediatamente dopo “l’elezione del nuovo presidente della Repubblica il Parlamento possa discutere e approvare questa legge” per provare a “salvare il salvabile”, inserendo rigidi paletti per la concessione degli eventuali benefici anche agli ergastolani che non collaborano. È dal 2019 che Mattarella chiede la riforma del Csm: ora lo ascolteranno? di Valentina Stella Il Dubbio, 30 gennaio 2022 Già subito dopo il deflagrare del caso Procure, il Presidente cominciò a invocare nuove regole contro le degenerazioni. Dove eravamo rimasti? Al 20 gennaio, seduta straordinaria del plenum del Csm convocata per riconfermare il primo presidente Curzio e il presidente aggiunto Cassano ai vertici della Cassazione: “Questa occasione imprevista - disse Sergio Mattarella - mi offre l’opportunità di ripetere al Consiglio e a ciascuno dei suoi componenti gli auguri più intensi per l’attività che svolgerà nei prossimi mesi con la presidenza del nuovo Capo dello Stato”. Le sue parole erano state interpretate come un ulteriore segnale di non volere il bis. E invece continuerà a presiedere l’attuale consiliatura, ormai in scadenza, e le prossime che verranno, traghettando il Csm verso la rigenerazione etica tanto auspicata. Mattarella è, in quanto più alta carica dello Stato, al vertice anche dell’organo di autogoverno dei magistrati dal 2015, anno d’inizio del suo primo settennato: era la consiliatura di Luca Palamara, e terminò nel 2018. Gli ultimi tre, in particolare, sono stati, per il Csm, gli anni della più grave crisi di credibilità. Alcuni contestano a Mattarella di non aver denunciato o agito abbastanza per contrastare il disfacimento, e vedono una conferma della loro tesi nel silenzio sulla giustizia nel discorso dell’ultimo 31 dicembre. Secondo altri, invece, Mattarella ha parlato e agito nei momenti necessari. Ieri, il vicepresidente del Csm David Ermini, nel felicitarsi con il rieletto Capo dello Stato, ha detto che “il Paese in questo momento ha ancora bisogno di lui, ha bisogno della sua guida illuminata e del suo esempio di uomo retto al servizio del bene comune, per costruire il futuro e dare speranza alle giovani generazioni dopo il lungo inverno pandemico. La saggezza e l’equilibrio che lo contraddistinguono, la sua autorità morale e il profondo senso dello Stato e delle istituzioni sono garanzia che il nuovo settennato sarà altrettanto autorevole e prestigioso di quello appena trascorso”. E soprattutto, Ermini si è detto certo che, per il Consiglio superiore, il presidente Mattarella, “supremo tutore e interprete dei valori costituzionali e dell’indipendenza e autonomia della magistratura, sarà, come sempre è stato in questi anni, costante riferimento e saldo sostegno. Bentornato Presidente”, ha concluso. Basta una breve retrospettiva per corroborare il punto di vista di chi, come Ermini, giudica Mattarella una luce nel buio della magistratura in crisi. Il 29 maggio 2019 Corriere della Sera e Repubblica fanno sapere che Palamara è indagato a Perugia per corruzione. Il 21 giugno 2019 durante una assemblea straordinaria del Csm per convalidare l’elezione di due nuovi consiglieri togati, dopo le dimissioni di altri coinvolti nello scandalo Palamara, Mattarella fu durissimo: “Quel che è emerso, nel corso di un’inchiesta giudiziaria, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile. Quanto avvenuto ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche per il prestigio e l’autorevolezza dell’intero Ordine giudiziario”. E cominciò a invocare riforme. La riconquista di credibilità e dell’indipendenza e totale autonomia dell’Ordine giudiziario “confido che avverrà anzitutto sul piano, basilare e decisivo, dei comportamenti”, ma anche con “modifiche normative, ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione”. Si cominciò a parlare di sorteggio dei membri del Csm per scongiurare una ulteriore lottizzazione del Consiglio. Allora forse era una eresia, oggi, con i risultati del referendum dell’Anm, si rafforza invece questa ipotesi, benché sia da sempre tacciata di profili di incostituzionalità. Mattarella si espresse ancora sul nodo più delicato delle degenerazioni correntizie quando il 14 novembre 2019, per la nomina di Giovanni Salvi a procuratore generale della Cassazione, precisò: “Colgo questa occasione per ribadire l’esigenza che da tante parti viene sottolineata: il Consiglio superiore ha, oggi più che mai, il dovere di assicurare all’Ordine giudiziario e alla Repubblica che le sue nomine siano guidate soltanto da indiscutibili criteri attinenti alle capacità professionali dei candidati”. Il 6 aprile dell’anno successivo vengono depositati gli atti dell’inchiesta: tra la cena all’Hotel Champagne e la pubblicazione delle chat dell’ex leader Anm, il Csm, e tutto il sistema delle correnti, sono ormai sconquassati. Il 29 maggio 2020, a un anno esatto dall’inizio dello scandalo, Mattarella interviene nuovamente, con un comunicato stampa, per spiegare che, nonostante la situazione, non può sciogliere il Csm, tuttavia “se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Consiglio superiore della magistratura formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda: questo compito non è affidato dalla Costituzione al presidente della Repubblica ma al governo e al Parlamento. Governo e gruppi parlamentari hanno annunziato iniziative in tal senso e il presidente della Repubblica auspica che si approdi in tempi brevi a una nuova normativa”. E intanto al timone del ministero della Giustizia c’era il pentastellato Alfonso Bonafede. Solo il 21 aprile dello scorso anno la commissione Giustizia della Camera adottò la legge dell’ex guardasigilli come testo base per la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Da allora stallo, completo della politica. Siamo arrivati a pochi mesi dal rinnovo del nuovo Csm, ma gli emendamenti di Cartabia sono congelati a Palazzo Chigi. Eppure lo scorso 24 novembre, in occasione del decennale della Scuola superiore della magistratura, Mattarella indirizzò l’ennesimo monito alla politica: “Il dibattito sul sistema elettorale per i componenti del Consiglio superiore deve ormai concludersi con una riforma che sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme”, definendo “non più rinviabile la riforma. Non si può accettare il rischio”, proseguì, “di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Insomma, il riconfermato Mattarella non vorrà di certo trovarsi a presiedere un Csm eletto con gli stessi meccanismi degenerativi che hanno originato gli scandali del correntismo. Quasi sicuramente, nella sua idea di nuovo Csm non c’è un plenum di sorteggiati. E probabilmente auspica una revisione del sistema delle nomine, in modo da evitare, tra l’altro, un nuovo imbarazzante scontro tra Consiglio di Stato e Consiglio superiore, che lo ha visto protagonista, nell’ultima seduta, in una veste che è sembrata favorevole alla riconferma di Curzio e Cassano a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. È tempo dunque di passare dalle parole ai fatti: non sappiamo se il Mattarella bis sarà più interventista del precedente alla guida del Csm, ma una linea l’ha data e ora governo e Parlamento devono accelerare per concretizzare la riforma. I partiti gli hanno chiesto un sacrificio, di logica ne condividono l’operato, di conseguenza non possono eludere le sue continue esortazione per un rinnovamento della prossima Consiliatura. Riforma del Csm, il referendum tra le toghe: no al sorteggio e al sistema maggioritario di Luca D’Auria Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2022 Quasi la metà degli iscritti all’Associazione nazionale dei magistrati si esprime a favore del sorteggio, su cui invece sono ufficialmente contrarie tutte le correnti (esclusa Art. 101). Il risultato finale però è quello che ha visto prevalere il no con 2470 preferenze. Sono arrivati i risultati del referendum dei magistrati per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura. Un tema oramai in discussione da due anni dopo gli scandali e le indagini sulle manovre per pilotare le nomine dei procuratori che sono sfociati nel caso Palamara. Quasi la metà degli iscritti all’Associazione nazionale dei magistrati si esprime a favore del sorteggio, su cui invece sono ufficialmente contrarie tutte le correnti (esclusa Art. 101). Il risultato finale però è quello che ha visto prevalere il no. Viene bocciato a enorme maggioranza il sistema elettorale maggioritario per il Csm, un sistema su cui starebbe ragionando la ministra della Giustizia, Marta Cartabia in vista della riforma. Due i quesiti sul sistema elettorale per il Csm ai quali sono stati chiamati a rispondere i magistrati italiani. Il referendum interno, indetto dall’Anm, ha chiesto agli iscritti se vogliano che “i candidati al Csm siano scelti mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere” e se per l’elezione della componente togata si ritenga preferibile un sistema a ispirazione maggioritaria o proporzionale, si è concluso con il no al primo quesito e la preferenza al sistema elettorale ad ispirazione proporzionale. Il voto si è svolto online, su una piattaforma digitale, ed era a scrutinio segreto. Al primo quesito ha risposto il 54,31 %. Il numero totale degli elettori era 7872, i votanti sono stati 4275. I no sono stati 2470 e i sì 1787, dei restanti 18 voti non è stato comunicato nulla. Per il secondo scrutinio sempre lo stesso numero di votanti, ma hanno votato 4091 aventi diritto. L’affluenza è stata inferiore e pari al 51,97 %. La proposta di un sistema a ispirazione proporzionale ha ricevuto 3189 preferenze, quella a ispirazione maggioritaria 745. La nuova legge elettorale per Palazzo dei Marescialli, secondo alcuni addetti ai lavori, ha come effetto quello di rafforzare le correnti. Un risultato completamente opposto a quello che in teoria dovrebbe essere raggiunto le modifiche da attuare. L’ipotesi, circolata nelle settimane precedenti, è che il governo vorrebbe modificare l’attuale sistema elettorale per il Csm in questo modo: al posto di un unico collegio nazionale ci sarebbero sette collegi più piccoli. Uno sarebbe riservato ai giudici di legittimità, due per i pubblici ministeri, quattro per i giudici. Il numero dei consiglieri togati sarebbe invariato: quindi per coprire 16 seggi ogni collegio elegge i due candidati più votati con preferenza unica. Gli altri due posti vengono scelti tra i migliori terzi classificati. Un meccanismo che aveva provocato la reazione di Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo, consiglieri togati eletti con Autonomia e Indipendenza a Palazzo dei Marescialli. “La nuova legge elettorale per la elezione del Csm prevedrebbe un sistema binominale con piccoli collegi. Questo farà sparire ogni possibile opposizione allo strapotere delle correnti che sottometteranno definitivamente i magistrati liberi che sono la maggioranza. Sarebbe il trionfo del correntismo e del bipolarismo che provocherà ulteriori spaccature e conflitti”. Sulla stessa lunghezza d’onda anche i magistrati di Articolo 101, il gruppo nato in polemica con le correnti della magistratura. “Se dovesse essere confermato questo meccanismo di designazione è improbabile che si possa ottenere l’elezione di candidati non designati da correnti e dunque fuori da certe dinamiche - aveva dichiarato Andrea Reale, componente dell’Anm di Articolo 101 - Posso dire che se con una norma simile non solo non si debella il correntismo ma anzi si mortificano le istanze di tutti i magistrati che non vogliono appartenere ad alcun gruppo”. Sul tavolo del presidente piomba la mina giustizia di Felice Manti Il Giornale, 30 gennaio 2022 La prima grana sulla scrivania del neo rieletto presidente della Repubblica Sergio Mattarella si chiama giustizia. Un corposo dossier che comprende la riforma per via referendaria voluta dal “suo” grande elettore Matteo Salvini, il conflitto irrisolto tra Csm e Consiglio di Stato dopo che il plenum ha snobbato le sentenze che avrebbero dovuto decapitare i vertici della magistratura, il riequilibrio di poteri e correnti interno allo stesso Csm dopo il risultato della consultazione che ha bocciato il sorteggio e rilanciato il sistema elettorale proporzionale per la nomina dell’organo di autogoverno della magistratura. E se il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia proclama un po’ troppo frettolosamente che la proposta di riforma del Csm è stata “significativamente bocciata”, i dati dicono altro. Dopo l’esplosione delle rivelazioni bomba di Luca Palamara sulle trame dietro le carriere di giudici e pubblici ministeri ben quattro magistrati su dieci chiedono un cambio di passo rispetto all’influenza che la politica ha avuto sulle fortune di toghe amiche e sulle sfortune di politici e magistrati scomodi. “Il 42% dei magistrati italiani ha detto sì al sorteggio temperato dei candidati al Csm. Nessuno può più affermare, come pure era stato detto recentemente, che vi è la netta contrarietà dell’Anm a qualsiasi utilizzo del sorteggio”, è il ragionamento del gruppo di Articolo 101, che più di altri si è battuto per riformare l’organismo e preservarlo dalle derive correntizie. Tanto che l’ex consigliere Csm Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia della Camera, ha buon gioco a dire che “questo risultato, alla vigilia impensabile, ci conforta nella nostra battaglia per una riforma che punti davvero a ridimensionare il peso delle correnti”, cosa che un eventuale sistema maggioritario per l’elezione della componente togata del Csm avrebbe potuto favorire. A preoccupare Area, la corrente più di sinistra, è “l’astensionismo, che si manifesta in un periodo in cui sarebbe importante l’impegno di tutti a difesa dell’autogoverno”. Nel giorno in cui un altro “quirinabile” come Giuliano Amato è stato nominato presidente della Consulta, mentre Filippo Patroni Griffi, ha prestato giuramento come neo giudice costituzionale proprio nelle mani di Mattarella, cosa farà il rinnovato inquilino del Quirinale a cui toccherà nuovamente presiedere il Consiglio superiore della magistratura? “Mi auguro che il sistema giudiziario ritrovi serenità e Mattarella riporti l’equilibrio perduto che gli italiani si aspettano”, dice Salvini. E soprattutto, la magistratura ha preso coscienza del crollo della sua reputazione? “Non si può andare avanti così, la magistratura ha perso credibilità che deve essere recuperata senza arroccamenti, ragiona con l’Adnkronos il costituzionalista Felice Giuffré. A dare una mano alla riforma sarà il Guardasigilli Marta Cartabia, anche lei finita nel tritacarne del toto Quirinale, proposta da Salvini e bocciata da Pd e M5s, ostili alle misure garantiste che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alla furia manettara dei grillini. L’impressione è che, finita la festa per la rielezione, il timer della grana giustizia ricominci il suo inesorabile conto alla rovescia. Al Colle e a via Arenula il compito di non farla saltare in aria. Maxi, il processo contro la mafia che ha cambiato la storia di Roberto Saviano Corriere della Sera, 30 gennaio 2022 Il più grande procedimento contro la mafia della storia occidentale: da Buscetta alle storie più bizzarre, un’avventura di conoscenza e di coscienza in 10 puntate. Realizzare un podcast sul Maxiprocesso di Palermo ha significato entrare nella sceneggiatura del reale più paradossale, nello spazio simbolico più radicale, il più grande processo contro la mafia della storia occidentale, l’inizio di tutto. Il disvelamento di un’organizzazione prima considerata “ipotetica”, segnalata come esagerazione politica, da tutti conosciuta ma pubblicamente disconosciuta e rinnegata. E poi i politici che avevano garantito la revisione della sentenza che vengono ammazzati e i procuratori che l’avevano ispirato e creato, Falcone e Borsellino, che in quei giorni iniziano a morire. Durò dal 10 febbraio 1986, giorno in cui iniziò in primo grado, e si concluse il 30 gennaio 1992, giorno della sentenza in Cassazione. Prima dell’inizio del processo Cosa Nostra aveva ucciso i magistrati Cesare Terranova, Rocco Chinnici, Ciaccio Montalto, Gaetano Costa. Dodici magistrati si rifiutarono di presiedere la Corte d’Assise prima che accettasse con coraggio Alfonso Giordano che è uno dei principali protagonisti del podcast, la sua voce dolce e i suoi modi attenti sono la trama della riuscita del processo. Giordano riuscì a condurre un processo equo in una situazione di continuo sabotaggio e di pressione mediatica incredibile, riuscì a condurlo senza che vi fosse il dubbio di una sentenza già scritta ma anzi con la continua ricerca di prove, confronti, disponibilità all’ascolto. Abbiamo voluto chiamare il progetto: “Maxi - Storia del processo che ha sconfitto la mafia”, prodotto da Audible Original, scritto da me e in collaborazione con Massimiliano Coccia; la regia è di Niccolò Martìn, con la sigla originale di Fulminacci e i materiali di archivio di Radio Radicale. Dieci puntate in cui proviamo a portare chi deciderà di ascoltarci dentro un processo che sarà un’incredibile avventura di conoscenza e coscienza. L’aula bunker costruita appositamente per il processo, chiamata l’astronave e impenetrabile ad eventuali bombardamenti dall’esterno. Buscetta il padrino che dà le chiavi semantiche per comprendere l’organizzazione, che parla protetto da una gabbia di vetri anti-proiettili perché era arrivata una soffiata che mafiosi vestiti da carabinieri o guardie carcerarie infedeli avrebbero potuto ucciderlo mentre testimoniava. Il confronto tra Buscetta e Calò ha un sapore epico dove il primo smonta il tentativo del secondo di far passare la scelta di collaborazione come un’operazione de relato, cioè basata solo su fatti ascoltati e non sostenuti da prove e indizi; poi il trafficante di eroina di Singapore Ko bah Kin essenziale per comprendere le dinamiche del narcotraffico di Cosa Nostra, che incredibilmente non viene tradotto ma compreso nel suo italiano claudicante, a differenza del pentito Totuccio Contorno che parla un siciliano strettissimo per cui necessita traduzione. Ma non finiscono qui le storie bizzarre e feroci del Maxi. Proprio il più ignorante e considerato bifolco dei soldati di mafia, Contorno, ha come soprannome “Coriolano della Floresta”, il protagonista di un libro, “I Beati Paoli”, che Cosa Nostra aveva eletto a proprio testo di riferimento, letto e regalato a in carcere, dato agli affiliati. E poi Lucianeddu Liggio che ne uscirà assolto e per questo si tormenterà per tutta la vita. Nel podcast ci sono voci “interne” al maxi processo, quelle di Giuseppe Ayala e Pietro Grasso, il primo pubblica accusa, il secondo giudice a latere del maxiprocesso. Guideranno il lettore ni vari gironi di quell’esperienza irripetibile. Falcone e Borsellino non ci sono nel dibattimento. Falcone era il giudice istruttore (ruolo adesso cassato) e quindi non poteva essere presente ma l’anima del pool antimafia di Caponnetto è tutta Appare incredibile immaginare che fino a quel momento in tanti ancora tergiversavano sull’esistenza stessa di un’organizzazione criminale capace di penetrare in profondità nel tessuto economico, sociale e politico del Paese. Il lavoro inquirente portato avanti con rigore da Giovanni Falcone riuscì a ricostruire in modo magistrale decenni di dominio di Cosa Nostra, seguendo i flussi di denaro, le rotte della droga che si univano a quelle del contrabbando, riuscì a ribaltare il paradigma esistente fino a quel momento, convincendo le istituzioni e l’opinione pubblica che quella lotta senza quartiere riguardava il futuro del nostro Paese. La vittoria fu costruita udienza dopo udienza, interrogatorio dopo interrogatorio. La sentenza fu durissima: 19 ergastoli, pene per un totale di 2.665 anni di reclusione. Questo podcast vuole essere un omaggio a un momento fondamentale della nostra storia che incredibilmente si è perduto nel confuso rumore di fondo. E invece si tratta della più grande vittoria contro un’organizzazione criminale attuata per mezzo del diritto. Uno dei rari momenti in cui la giustizia e le istituzioni (o meglio una parte di esse) hanno coinciso. Ascolta il trailer del podcast: https://widget.spreaker.com/player?episode_key=ytr3JpuJtUA Terzo livello di Carlo Bonini, Massimo Pisa e Benedetta Tobagi La Repubblica, 30 gennaio 2022 La nuova inchiesta sulla strage neofascista di Brescia porta lì dove nessuno poteva immaginare. Il comando Nato di Verona. Quando l’hanno battuta le agenzie, poco prima di Natale, la notizia ha faticato a conquistarsi una breve. Due chiusure indagini per la strage di piazza della Loggia e due nuovi e semisconosciuti estremisti di destra accusati di aver messo la bomba che dilaniò Brescia alla fine del maggio di 48 anni fa, uccise otto persone, ne ferì un centinaio, inaugurò l’ennesima stagione dello stragismo di mano neonazista con la complicità di pezzi dello Stato. Già perché ha già due colpevoli, quell’attentato, arrivati però soltanto con la sentenza di Cassazione del 2017. Uno, Carlo Maria Maggi, ex capo dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo” nel Triveneto, è morto l’anno dopo. L’altro, Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone” del Sid (l’allora servizio segreto militare), sta ancora combattendo la sua battaglia per la revisione del processo. Per questo, le storie di Marco Toffaloni e Roberto Zorzi - che sono appunto i due accusati dell’ennesima indagine della Procura di Brescia - potrebbero benissimo essere due note a margine della storia nera d’Italia. Invece, nelle 280mila pagine (mal contate) di atti depositati in Tribunale, e consultati integralmente da Repubblica, c’è molto altro. C’è la consueta ricerca documentale del “secondo livello” (quello degli uomini incardinati nelle istituzioni italiane) e ci sono nomi e cognomi di ufficiali degli apparati: Sid, Carabinieri, Polizia. Ma c’è, soprattutto, l’indicazione di un inedito terzo livello. Parliamo del Comando Forze Terrestri Alleate per il Sud Europa - leggi: Nato - il cui cuore sarebbe stato a Palazzo Carli, a Verona, la città di Toffaloni e Zorzi. Qui, con la copertura di generali dei paracadutisti italiani e statunitensi, si sarebbero svolte le riunioni preparatorie di un progetto stragista che avrebbe dovuto sovvertire la democrazia italiana e rinsaldare lo scricchiolante fronte dei regimi del Mediterraneo. Quello che, all’epoca, teneva insieme il Portogallo salazarista, la Grecia dei colonnelli e la Spagna franchista. D’istinto, lo si direbbe un romanzo fantasy costruito su migliaia di informative, verbali, intercettazioni, pedinamenti e vecchi faldoni, recuperati dalla magistratura negli archivi dei nostri Servizi e in quelli degli Stati Maggiori dei nostri apparati militari e della sicurezza a forza di decreti di esibizione, e in cui si dipana anche la storia di un pugno di ragazzi figli di quel tempo. Con la passione per il calcio, le moto, i giochi da adulti, l’esoterismo. Un mondo popolato da donne bellissime e attori, svastiche e orge, agenti doppi e vendette. Per una vicenda tragica che ha fatto morti prima di quel terribile 28 maggio 1974, e forse continua a farne. Già, perché chi indaga sulla strage di Brescia si è sempre trovato di fronte a due nodi da sciogliere. A due bombe. La prima, esplosa nove giorni prima, alle 3 di notte, falciò un ragazzo di vent’anni in Vespa. Si chiamava Silvio Ferrari, era un neofascista che aveva già commesso attentati e andava a far saltare l’uscio della sede della Cisl. Ma non fece in tempo. Saltò in aria all’imbocco di piazza Mercato. Fatalità, errore umano o trappola? Uno dei migliori amici di Ferrari, Arturo Gussago, finì a processo accusato di strage, e come tutti i coimputati fu assolto. Faceva l’avvocato. Il 24 dicembre, quattro giorni dopo la chiusura di questa inchiesta, un infarto lo ha stroncato. Il supertestimone che ha guidato gli investigatori tra i segreti bresciani e fino al comando Nato di Verona (lo chiameremo “Alfa”, per motivi di sicurezza, e sarà l’unico nome che non faremo), ha fatto tanti nomi di persone coinvolte nella strage. Quello di Gussago è stato l’ultimo, pochi mesi fa. Déjà vu - Questa storia comincia, o meglio, ricomincia, quando ancora l’ultimo dibattimento è alla prima delle sue cinque puntate. Alla sbarra, oltre a Maggi e Tramonte, ci sono il neofascista Delfo Zorzi (uscito indenne dai processi per piazza Fontana e la strage di via Fatebenefratelli del 1973), Pino Rauti in quanto nume di Ordine Nuovo, il chiacchieratissimo generale dei carabinieri Francesco Delfino, che a Brescia condusse le prime inconcludenti indagini, e il suo confidente Gianni Maifredi. Camicie nere, pezzi di Stato, mondo di mezzo tra neofascismo e criminalità. Giampaolo Stimamiglio è tra le gole profonde di quell’inchiesta e tra i testimoni-chiave dell’accusa. Padovano, molto amico di Giovanni Ventura, ex Ordine Nuovo poi passato alla V Legione, Stimamiglio è un reduce che molto sa e molto ha sentito dire. Nel luglio del 2009, non avendo ancora vuotato il sacco dopo quindici anni di interrogatori, contatta il colonnello del Ros Massimo Giraudo, investigatore che naviga il mare dell’eversione dall’inizio dei Novanta, godendo del massimo della fiducia da alcune Procure (Brescia, Palermo) e del minimo da altre (Milano, Bologna). All’ufficiale, Stimamiglio racconta due cose. Due confidenze che avrebbe raccolto dal generale in pensione Amos Spiazzi, altra vecchissima conoscenza delle trame nere, versante golpista, fin dall’arresto per l’affaire Rosa dei Venti. La prima: piazza della Loggia, nella sua fase operativa, sarebbe stata una joint venture tra neri bresciani e veronesi. La seconda: c’era un ruolo atlantico nella regia della bomba, e un uomo chiave sarebbe stato Aldo Michittu. Già, proprio l’ufficiale protagonista di uno scandalo da operetta nel 1993, una storia di complotti presunti e ricatti veri ordita insieme alla moglie e starlette Donatella Di Rosa, impietosamente ribattezzata “Lady Golpe”. Sembra una trama da serie tv, quella di Stimamiglio, che nei mesi successivi aggiunge dettagli nuovi. C’era una “Scuola”, tra i duri e puri di Ordine Nuovo a Verona, che addestrava i suoi adepti agli attentati. Evoca Elio Massagrande e Roberto Besutti, due nomi storici del neonazismo più radicale, e i loro allievi Paolo Marchetti, Fabrizio Sterbeni, Roberto Zorzi, Umberto Zamboni, Marco Toffaloni. Ognuno di loro, negli infernali Settanta, aveva almeno un fascicolo a carico. Dice, infine, il confidente, che ad ammazzare Silvio Ferrari non fu il fato, ma una mano omicida che aveva manipolato il tritolo, ed era scaligera. Stimamiglio vorrebbe il programma di protezione. Nell’attesa, accetta di mettere tutto nero su bianco con i magistrati. La voce corre anche tra i vecchi camerati e qualcuno di loro, come Stefano Romanelli, comincia a parlare tra mille reticenze. Finché, il 6 aprile 2011, Giampaolo Stimamiglio cala l’asso. Rivela di aver incontrato, vent’anni prima, Marco Toffaloni. Erano nel motel gestito a quel tempo da Claudio Bizzarri, altro chiacchieratissimo ex camerata, parà già inquisito da Vittorio Occorsio e di recente accostato alla strage di piazza Fontana. Sorrideva, quel giorno, Toffaloni, rivangando i bei tempi. E a un tratto esclama: “Anche a Brescia gh’ero mi!”. Piazza della Loggia? “Son sta mi!”. Eppure, il 28 maggio 1974, Marco Toffaloni si avvicinava al suo diciassettesimo compleanno. Stimamiglio chiese: c’era anche Roberto, te l’ha consegnata lui? “Sì, certo”. I pm Piantoni e Chiappani e il procuratore Pace sobbalzano. L’11 aprile Marco Toffaloni e Roberto Besutti vengono iscritti nel registro degli indagati. Di Michittu non si sentirà più parlare. Tomaten - Il vecchio e il giovanissimo. Un istruttore di lanci d’aereo col mito della Rsi, che dalla metà degli anni Sessanta faceva la spola tra Mantova e Verona, conosciutissimo da Servizi e Antiterrorismo. E un ragazzino col mito del superuomo e dell’esoterismo, delle armi e del fuoco, che si era fatto una fama nera fin da minorenne. Prima con Amanda Marga, la setta importata dall’India che predicava purezza e svastiche. Poi con gli incendi dolosi delle Ronde Pirogene Antidemocratiche, banda che colpiva tra Bologna e Verona e vantava stretti legami - e forse qualcosa di più - con Marco Furlan e Wolfgang Abel, il duo che sotto la sigla “Ludwig” aveva sterminato decine di vittime colpendo tra gay, disabili, frequentatori di discoteche e cinema porno. Lo chiamavano “Tomaten”, Marco Toffaloni. Alla tedesca. Per quel suo vezzo di arrossire spesso. Ma era la sua unica debolezza. Feroce negli scontri di piazza, fin dai tempi in cui distribuiva il giornaletto Anno Zero fuori dai licei dei rossi, per poi pestarli insieme ai camerati. Ma vantava anche letture e frequentazioni kremmertziane, frequentazioni massoniche, amicizie (Rita Stimamiglio, Beppe Fisanotti, Paolo Marchetti) in comune con i Nar Gilberto Cavallini e Giusva Fioravanti. Non è un’indagine semplice, quella su “Tomaten”. Intanto è diventato cittadino svizzero e ha cambiato nome in Franco Müller, prendendo il cognome dell’ex moglie Silvia. Poi sfida gli inquirenti, non si presenta agli interrogatori, fa sapere di avere coperture tra i carabinieri ed in effetti, rovistando nei suoi fascicoli, i militari del Ros trovano parecchie anomalie. Non è facile nemmeno farsi strada in quell’ambiente. Gli ordinovisti di un tempo tacciono. O sono all’estero, come Roberto Zorzi, che ha portato la famiglia a Snohomish, nei pressi di Seattle, fa il predicatore e alleva dobermann da competizione nel “Kennel del Littorio”. Nomen omen. Oppure muoiono. Scompare Stefano Romanelli, il “camerata Toba”, sul punto di diventare gola profonda. Si spegne, il 31 maggio 2012, Roberto Besutti. E l’accertamento principale, la verifica dei registri scolastici per il 28 maggio 1974, dice che Marco Toffaloni, quella mattina, era in classe. Non si sa se tutto il giorno, soltanto alla prima ora o l’ultima. Ma era al suo banco in 3ª B. Anche Spiazzi, interrogato dai magistrati, nega di aver mai confidato alcunché a Stimamiglio, gli accertamenti si disperdono in mille rivoli senza nessun vero sbocco e, alla fine del 2013, il procuratore dei minori Emma Avezzù (“Tomaten” era sedicenne, il giorno della strage) si convince a chiedere decreto d’archiviazione. Non si arrende il pm Francesco Piantoni, in Procura ordinaria, ma il suo fascicolo ora è a carico di ignoti. Alfa - C’era, però, ancora un segreto da esplorare su Marco Toffaloni. Un vecchio commissario in pensione, Giordano Fainelli, racconta al colonnello Giraudo di come, all’Ufficio Politico e al Nucleo Antiterrorismo di Verona, le indagini sui neofascisti avessero parecchi buchi. Pensi, spiega l’ex poliziotto all’ufficiale dei Ros, che una volta perquisimmo la cantina di “Tomaten” e trovammo un deposito di esplosivo. Forse anche quello usato in piazza della Loggia. Ma quel materiale, e quel verbale, sparirono. Ed in effetti Giraudo e l’ispettore Michele Cacioppo, investigatore di punta della Dcpp del Viminale, non trovano nulla in nessun archivio. La ricerca diventa empirica. Anagrafica. Trovare i vicini di casa dell’epoca del ragazzo. Sollecitare la loro memoria. Finché i carabinieri non ne trovano uno che parla. Che sa, o almeno, ricorda: “Non oltre il 1978 mio padre mi disse che Marco Toffaloni era coinvolto nella strage di Piazza della Loggia, la notizia la ebbe dai genitori di Marco con i quali era in ottimi rapporti”. È un nuovo filo, da seguire. Il testimone indica due amici di “Tomaten”, due frequentatori di quella cantina. Uno, Nicola Guarino, viene convocato in caserma e colto con la guardia abbassata. Parla di una riunione dell’inizio del ‘74 con Toffaloni, imberbe ma già assai critico con le nuove leve di Ordine Nuovo, troppo morbide per i suoi gusti. Per la rivoluzione, diceva, bisognava fare qualcos’altro. Bisognerebbe, aggiunge Guarino - che dopo quel verbale farà marcia indietro e non collaborerà più - cercare gli altri partecipanti di quella riunione. E gioverebbe, aggiunge l’ex camerata Umberto Zamboni, cercare i proprietari di due vecchie auto, segnalate nelle prime indagini bresciane: una Bmw grigia e una Citroen Dyane celestina, entrambe targate VR. Ne aveva parlato, all’epoca, Ermanno Buzzi, il sedicente “conte di Blanchery”, ambiguo ladro d’arte con le SS tatuate su una mano e agganci ovunque, anche in tribunale. Il primo processo aveva puntato su di lui e la sua corte, in primo grado nel 1979 Buzzi aveva preso l’ergastolo ma non arrivò mai all’appello, strangolato in carcere da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli. Tutte le sentenze successive oscilleranno tra il “cadavere da assolvere” e il ruolo operativo nella strage. Gli inquirenti vanno a ripescare tutti i protagonisti del procedimento originario. Si imbattono in “Alfa”, personaggio vicinissimo a Silvio Ferrari, testimone diretto della cena alla pizzeria Ariston, la sera del 18 maggio 1974, tra Silvio e il suo omonimo Nando Ferrari, neofascista veronese che lo convinse a commettere l’attentato, dopo aver festeggiato tutta la notte con amici in una villa sul lago. “Alfa” parla. E rivela uno scenario sconcertante. L’appartamentino - Spiega che Silvio Ferrari, negli ultimi mesi della sua vita, lo portava in un monolocale mansardato nel centro di Brescia, in una strada a fondo cieco. Via Aleardi. Qui, nel bagno, il ragazzo aveva una camera oscura. Sviluppava foto. E poi riceveva, alternativamente, i carabinieri in borghese mandati dall’allora capitano Delfino, comandante del Nucleo investigativo, o il vicequestore Lamanna dell’Ufficio Politico. Consegnava le buste con le foto sviluppate e intascava soldi. Tanti. E da troppe mani. Un’attività clandestina da informatore che era rimasta un segreto per quarant’anni. Del resto, di quell’appartamentino, avevano già parlato in passato il neofascista bolognese Luigi Falica e lo stesso Umberto Zamboni. Alfa dice ancora che alla famosa cena del 18 maggio, c’erano anche tre veronesi arrivati sulla celebre Dyane celestina. Che uno era un marcantonio, e la terza una ragazza. Che Silvio Ferrari, inoltre, conosceva bene Maurizio Tramonte, la fonte “Tritone”. Il materiale per far lievitare l’indagine c’è. Anche perché i carabinieri del Reparto Operativo di Verona, incaricati di analizzare le foto in bianco e nero della strage scattate in presa diretta dal reporter Silvano Cinelli, fanno una scoperta sorprendente. Tra i volti immortalati a fissare i cadaveri, ce n’è uno giovanissimo. Con una stupefacente somiglianza con un’antica segnaletica di Marco Toffaloni. Il consulente antropometrico Tommaso Capasso conferma. Ma, nel frattempo, le rivelazioni di “Alfa” proseguono. Dice che, tra le foto messe in busta nel monolocale, ce n’erano alcuni di paracadutisti in esercitazione a Pian del Voglio. E una sequenza che riprendeva il capitano Delfino in persona e, di spalle, Nando Ferrari. Che quegli scatti, sviluppati da Silvio, provenivano dall’interno di una caserma e li aveva richiesti lo stesso Delfino, frequentatore dell’appartamentino. “Alfa” ha paura delle conseguenze di queste rivelazioni, spiega di essere stato già minacciato di morte in passato perché quel segreto doveva rimanere tale. Ma non smette di parlare, e il colonnello Giraudo di annotare: “Era ben chiaro che Delfino intendeva che aveva fatto ammazzare Silvio Ferrari, ma egli lo diceva anche come se sapesse perfettamente che io sapevo che era andata così”. L’accusa al generale, nel frattempo assolto in Tribunale e scomparso, è terribile. “Alfa” non risparmia nemmeno il fu Silvio Ferrari: Il romanzo si arricchisce di paragrafi inquietanti. “Tomaten”, dalla Svizzera, percepisce vibrazioni sfavorevoli. In una conversazione (intercettata) con le sorelle appena interrogate, le mette in guardia: “Dovete andare assolutamente da un avvocato per non farmi dei danni - incalza - perché mi state facendo dei danni assurdi, inconsapevolmente. Loro hanno degli intrighi”. Ma non è l’unico nel mirino, l’uomo che si faceva chiamare “Acastasi” ai tempi delle Ronde Pirogene. Il 4 febbraio 2015 Umberto Zamboni fa un’altra rivelazione dirompente: “Mi sento oggi di dire che all’epoca, a me, così come ad altri di Ordine Nuovo, era noto che la strage di Piazza della Loggia aveva visto la partecipazione di veronesi. Posso specificare più di uno. Mi sento ancora di aggiungere che uno dei nomi che mi venne fatto quale veronese coinvolto nella strage di Brescia è Roberto Zorzi”. Il marcantonio - Figlio di un marmista, corpaccione robusto (Alfa lo riconoscerà come il marcantonio della famosa cena), capelli biondi corti e baffetti alla Hitler, Zorzi aveva vent’anni all’epoca della strage. Era tra gli ordinovisti più duri all’ombra dell’Arena e del Bentegodi, frequentandone già allora la curva con i suoi camerati. Durante la campagna per il referendum sul divorzio affiggeva i manifesti dei Guerriglieri di Cristo Re, sigla oltranzista di importazione franchista. Lo chiamavano il “pirata”, spavaldo com’era, ma anche “la fleur”, perché aveva lavorato presso un fiorista. E di fiori, il ragazzo, si era occupato anche il giorno dei funerali di Silvio Ferrari: un cuscino, con l’ascia bipenne e il nastro in raso firmato “I camerati di Anno Zero”, che la delegazione veronese aveva portato a Brescia il 21 maggio 1974. Erano in tanti, quel giorno, a braccio teso al cimitero a fare il presente. Messaggi minatori, che gridavano vendetta per il giovane saltato in aria sulla Vespa, cominciavano già a circolare. Quel pomeriggio, con piazza del Mercato presidiata dagli extraparlamentari di sinistra, i neofascisti andarono a cercare, e trovare lo scontro. Cinque di loro, tutti veronesi, vennero arrestati perché trovati in possesso di una pistola e una piccozza: Nicola Guarino, Alberto Romanelli (cugino di “Toba”), Arianno Avogaro, Nico De Filippi Venezia e Franco Francescon. Zorzi no, era riuscito a svignarsela in tempo sulla Seicento di Umberto Zamboni, all’epoca in carcere. Ma la sua targa era stata annotata. E il capitano Delfino, il pomeriggio stesso della strage, aveva diramato un telex urgente ai carabinieri di Verona, che avevano rintracciato Zorzi a casa della fidanzata e lo avevano portato via con una coperta sui polsi, a coprire le manette. Fermato per strage, in caserma, mentre i sottufficiali inviati da Brescia ne controllavano l’alibi. Disse, “il pirata”, di aver passato la mattinata a Porta San Giorgio, al bar di fronte alla fermata delle filovie. Lì a bighellonare e chiacchierare, dalle 8 alle 11. E poi, nel pomeriggio, insieme a “Toba” Romanelli. Gli accertamenti si erano limitati a un controllo al bar. E il capitano Delfino aveva preso per buono il presunto alibi fornito dalla figlia del barista, che ricordava Zorzi a chiacchierare con un rappresentante di commercio (“Certo Galvani Massimo”) e un ragazzo barbuto (“certo Claudio Antolini”). Nessuno di loro era stato interrogato, nessuna foto era stata mostrata, eppure “La signorina Daniela era certissima, ed è apparsa sincera ed attendibile nonché disinteressata, della presenza dello Zorzi sino ad oltre le ore 10 del mattino del 28 maggio”. La notizia del fermo di un certo Roberto Z. era finita sul Corriere della Sera del 30 maggio a firma di un inviato specialissimo come Giorgio Zicari, che di lì a qualche giorno sarebbe stato travolto dallo scandalo della sua collaborazione con i Servizi - un Renato Farina ante litteram - nell’affaire del Mar di Fumagalli. Di Zorzi, invece, non si era saputo più nulla. Certo, l’etichetta di estremista negli anni gli aveva procurato qualche noia, facendolo controllare o perquisire dopo l’omicidio di Vittorio Occorsio (1976), la strage di Bologna (1980) e quella al Rapido 904 del Natale 1984. Ma aveva potuto candidarsi (non eletto) alle comunali di Verona dell’80 nelle liste del Msi, vivere la sua svolta mistica, laurearsi in Teologia a Trento, portare la famiglia negli Usa e aprire quell’allevamento intitolato al fascio e dedicato alla “Regina Pacis”, la madonna. Lontano dalle accuse dell’ex camerata Zamboni: “Stefano Romanelli mi disse che lo Zorzi aveva fatto il botto, con ciò intendendo il nostro Zorzi, cioè il Roberto, si accesero i suoi occhi quando me lo disse”. Le caserme - Indagini insabbiate, sottufficiali che girano la testa dall’altra parte. Il cliché è noto. I nuovi accertamenti sull’alibi di Zorzi rivelano plasticamente il depistaggio. La “signorina Daniela” citata nel rapporto Delfino viene rintracciata a distanza di 41 anni. Si scopre che all’epoca era una ragazzetta di 16 anni che dava una mano al padre. Non solo non ricorda il biondino coi baffi alla maniera del Führer, ma nemmeno i carabinieri. Ha solo un vago flash, talmente etereo da collocarlo all’epoca della bomba alla stazione di Bologna: due signori in borghese che entrano, fanno un paio di domande al padre e quest’ultimo che gliele rivolge. Non ha idea di chi siano Galvani e Antolini. Tocca al Ros rintracciarli. Il primo abitava vicino a Zorzi, sa chi è, faceva il marmista e ne conosceva il padre, ma la mattina della strage non lo ha mai incrociato. Claudio Antolini, invece, è imparentato con il marcantonio, avendo sposato Maria che è cugina di Paola Crescini in Zorzi. Lo ricorda, quel fermo, non certo quell’incontro al bar. Anzi, la signora Maria aggiunge che in quella fine di maggio del 1974 nel cortile di casa, seminascosta da una siepe, sostava una Dyane celestina. Le ricerche riescono a risalire al proprietario: Elio Massagrande, il vecchio leader di Ordine Nuovo a Verona, che per sfuggire agli arresti era scappato in Grecia e aveva lasciato le chiavi della “due cavalli” ai suoi adepti. Molte tessere cominciano a incastrarsi. Zamboni, che morirà nell’ottobre 2015 lasciando le sue rivelazioni a metà, riesce ancora ad aggiungere una cosa: correva, tra i neri di On, l’idea di commettere stragi indiscriminate, di fare i morti per scuotere il Paese ed invocare il governo forte. Il regime. Qualche neonazista si era tirato indietro, altri ci stavano Naturalmente, dice, in quel giro “se si entrava, non si usciva”. Già, ma dove era nata quell’idea? Bisogna seguire Alfa, e il filo dei suoi verbali. Dei suoi diari di viaggio postumi, accanto a Silvio Ferrari. Quelle foto scattate a Delfino non erano state fatte a Brescia, spiega. Ma a Verona. Insieme, il ragazzo destinato a morire e il supertestimone erano andati più volte. In una caserma dei carabinieri affacciata su un fiume, con una grande sala nello scantinato dove si tenevano delle riunioni. I Ros riportano Alfa in quei luoghi, sperando in un effetto rabdomante. Il “bastone” ne indica tre. La caserma dei carabinieri di Parona Valpolicella, sul Lungadige alla periferia nord di Verona, con una sala nello scantinato e un accesso posteriore proprio come scritto a verbale. Ma poi, passando davanti a un anonimo palazzo di via Montanari, Alfa si blocca: “Qui ci siamo stati con Silvio”. Ed è un’indicazione pazzesca perché in quell’edificio di proprietà dell’Inps, all’ultimo piano, il Sid aveva insediato per trent’anni la segretissima sede del Centro di controspionaggio. Infine il sopralluogo si dirige verso via Roma. “Ecco, in quel palazzo siamo entrati. Ma non dal portone: da quell’accesso con la sbarra, che porta in cortile”. È l’entrata secondaria, riservata agli inquilini del condominio adiacente, di Palazzo Carli, la sede del Comando Ftase. La Nato. Gli attentati - “Lì, prima di entrare, Silvio era atteso un ragazzo che già avevamo visto nella caserma del seminterrato”. Sull’album fotografico, il dito si ferma al volto numero 6. “Questo qui, una persona tremenda e molto determinata, l’avevo fuori già all’esterno della pizzeria Ariston a incontrarsi con gli altri veronesi e con Silvio, sarà stata una settimana prima della sua morte”. È Marco Toffaloni. E quella riunione fu parecchio animata, si parlava di esplosivo, secondo il supertestimone, roba “che non era più possibile prendere da una certa caserma di Verona e che lo deve prelevare dalla caserma Papa di Via Volturno a Brescia”. Di un attentato, da commettere la sera del 18 maggio in una delle prime discoteche gay di Brescia, il Blue Note. Ed in effetti, nella scia di attentati che precedettero piazza della Loggia, quello fu un episodio anomalo: due telefonate anonime, entrambe effettuate da Ermanno Buzzi alla Polstrada e alla Guardia di Finanza, innescarono un rapido e vistoso controllo che tenne alla larga i bombaroli. Buzzi frequentava il Blue Note e non voleva guai ai suoi amici e ai poliziotti che lo frequentavano, di cui era confidente. Secondo Alfa, il piano proveniva dalla caserma veronese: “Alle riunioni di Parona fu detto che in realtà l’obiettivo non era il locale, ma il proprietario dello stesso”, e cioè Marco Bruschi, “perché un funzionario della Questura andava”, e cioè Vincenzo Via, il capo dell’Ufficio Politico. Un progetto incredibile. Forse inverosimile. Come la promessa che era stata fatta a Ferrari: dopo il botto sarebbe stato trasferito a Milano, dove aveva agganci con i neri della Fenice, gli sarebbe stato trovato un appartamento vicino al Tribunale dove organizzare una nuova azione e avrebbe lavorato sotto copertura. Ne ha dato indiretta conferma il generale Domenico Sevi, all’epoca in servizio al controspionaggio e convocato un giorno nella caserma dei carabinieri di via Moscova dall’allora capitano Umberto Bonaventura: stavano preparando, gli disse, l’arrivo del neofascista bresciano a Milano. Solo che, all’ultimo minuto e timoroso di una trappola, Silvio Ferrari avrebbe fatto di tutto per tirarsi indietro e sparire dalla circolazione, magari con un nuovo lavoro a Verona che avrebbe sopperito l’impiego nella concessionaria auto dei genitori. E portandosi dietro le foto più compromettenti, quelle delle riunioni pre-stragiste, come garanzia. Vero? Falso? Nel frattempo, il supertestimone aggiunge nuove pennellate al suo affresco. Ripesca dalla memoria un’altra riunione con i veronesi, nella settimana tra il 21 e il 28. E poi svela i nomi mancanti alla riunione preparatoria, quella col discorso concitato sull’esplosivo che non si trovava. Uno è Paolo Siliotti, un neofascista scomparso nel 1980 in un incidente di moto, ricco di famiglia e frequentatore dei giri giusti, compresi quelli del calcio: Pierluigi Busatta e Sergio Vriz, mediano e fantasista del Verona degli anni Settanta, erano spesso nella sua villa di famiglia. Ora - in uno dei passaggi più paradossali dell’intera indagine - si ritrovano interrogati in un procedimento per strage, alla ricerca (vana) di ricordi e collegamenti con un ambiente, quello ordinovista, che all’epoca avevano solo e inconsapevolmente sfiorato. L’altra partecipante alle riunioni sui locali da far saltare sarebbe stata, a dire di Alfa, la ragazza più bella e corteggiata di Verona, Anna Rita Terrabuio, che ebbe un breve momento di celebrità proprio in quegli anni, quando fece perdere la testa a Fabio Testi che per lei lasciò nientemeno che Ursula Andress. A 42 anni dalle copertine dei rotocalchi, è in grado di riconoscere in foto “Tomaten”. La spruzzata di gossip non dà però sbocchi perché tutti i compagni e le amiche di Terrabuio, compreso Testi interrogato tra un’Isola dei Famosi e un’ospitata, negano che da liceale avesse un qualsiasi interesse politico, men che meno eversivo. La diretta interessata, a verbale, non può che ribadirlo. Gli ufficiali - La digressione rosa, innescata dalla superteste, porta fino al controllo di un’agenda del defunto Spiazzi su cui, alla data del 4 agosto 1980 (due giorni dopo la bomba di Bologna) il cognome Terrabuio era annotato accanto a quello di Zorzi. Non si sa, però, a che titolo. Altro, però, è per gli investigatori il cuore del problema. Cioè credere alla sconvolgente ipotesi che ufficiali che avevano giurato sulla Costituzione potessero farsi complici e strateghi di un piano assassino, oltre che golpista. Anche perché i nomi che riempiono i faldoni dell’indagine, quelli dei presunti partecipanti a quelle riunioni di Parona e poi di Palazzo Carli, sono pesantissimi. C’è il già citato Delfino, ufficiale dalla carriera fulminante ma eternamente macchiata da due ombre, entrambe bresciane: piazza della Loggia e il sequestro dell’industriale Giuseppe Soffiantini, che gli procurò una condanna per truffa aggravata. C’è Angelo Pignatelli, all’epoca titolare del Centro Cs Verona e ufficiale che godeva della massima fiducia del generale Gianadelio Maletti, l’allora capo del controspionaggio che finirà condannato per i depistaggi su piazza Fontana e morirà latitante a Johannesburg. Una ricerca documentale su Pignatelli (grossa parte delle 280mila pagine del colossale incarto proviene da archivi di Aise, Aisi, comandi dell’Arma e Stato Maggiore di Esercito e Aeronautica) ha fatto riesumare un documento sugoso: il 28 maggio 1974, il giorno della strage, Pignatelli - che Silvio Ferrari chiamava semplicemente “Angelo”, secondo i racconti di Alfa - era in Germania Ovest in ragione del suo fluente tedesco, a organizzare, insieme ai colleghi del Bka, la missione del Sid in Germania Ovest per scortare, con sei spie, la Nazionale di Valcareggi ai Mondiali di calcio, due anni dopo la strage di Settembre nero alle Olimpiadi di Monaco. Torneranno sani e salvi ma coperti di “azzurro tenebra”, Facchetti e compagni. Infine, tra le foto associate a Parona e Palazzo Carli, c’è quella di un giovane Mario Mori, altro ufficiale “dannato” della stagione delle stragi. Su di lui, il colonnello Giraudo indagava già per conto della procura di Palermo, all’interno del processo sulla trattativa. E i documenti d’archivio legano Mori a Brescia, ma alla lontana, in due diversi modi. L’ufficiale, all’alba di una carriera che lo avrebbe portato al vertice del Ros e del Sisde, era giovane tenente a Villafranca Veronese e bazzicava l’ambiente Ftase. Inoltre, era presente a Pian del Rascino subito dopo la morte di Giancarlo Esposti, e qui va aperto un altro cassetto di questa infinita vicenda: Esposti, neonazista sanbabilino, trafficante d’armi e fonte del controspionaggio milanese, era in tenda insieme a tre camerati sulle alture del reatino la notte del 30 maggio 1974, a 48 ore dall’eccidio bresciano. Ufficialmente latitante, lucidava i mitra in attesa di un colpo di Stato. Arrivarono i carabinieri, invece, e cadde nel conflitto a fuoco, e da allora i sospetti che lo legano a piazza della Loggia non si sono mai diradati del tutto. Mori, si diceva, a metà del ‘74 era ufficiale del Sid al Raggruppamento Centri di Roma, nella branca che si occupava di reclutare i defezionisti dalla Bulgaria comunista, e assorbirne le informazioni. Esposti, in tasca, aveva nomi e indirizzi di un paio di questi. Roba da agenti sotto copertura, da far sparire in fretta. Così come andavano coperte e ingoiate, secondo i racconti di Alfa, le possibili allusioni alle riunioni di Parona e alle foto, oggetto di avvertimenti e minacce fin dai giorni dopo la strage. In uniforme, e particolarmente energici, sarebbero stati quelli di Delfino. Morbidi, e in borghese, quelli di Mori. Palazzo Carli - Oggi è di nuovo appannaggio dell’Esercito italiano ma quell’insediamento Nato, in piena guerra fredda, era il più grosso centro di potere militare sul nostro territorio, insieme a quello di Napoli. Gli ufficiali che ne popolavano gli uffici erano per la maggior parte italiani, ma non solo. Ogni addetto vivente, e sono decine, è stato scovato dagli investigatori ed ha dovuto rispondere a domande sull’ipotesi di un centro occulto di stragismo. Nessuno, ovviamente, ha confermato l’indicibile passaggio di alcuni ragazzini con velleità al tritolo. Ragazzi, però, con ricordi nitidi, se è vero che Alfa ha saputo riconoscere i portici interni e la scala in fondo a sinistra nel portico, che portava direttamente agli appartamenti privati del comandante. O indicare la presenza di un ufficiale con il basco amaranto, quello dell’Aeronautica, e all’epoca esisteva davvero l’ufficiale di collegamento Oscar Santoli. O ancora parlare di “Eva”, la spia polacca Anka Dirani, e indicarla come amante dell’allora colonnello Lucio Innecco, ufficiale chiacchieratissimo - il Sid, tramite Pignatelli, lo pedinerà per mesi sospettandolo di simpatie comuniste e di intese col nemico, senza però trovare riscontri - e amico delle famiglie Siliotti e Terrabuio. L’ordinovista Claudio Lodi lo ricorda frequentatore delle stesse palestre di arti marziali dove si addestravano i camerati. Perfino l’ex calciatore Vriz ricorderà Palazzo Carli tra i luoghi frequentati dal suo amico Paolo Siliotti. Tracce, parziali ma solide, della frequentazione di Delfino al comando risalgono a una sua partecipazione dietro invito al ricevimento dopo la liberazione del generale James Lee Dozier, sequestrato dalle Br a fine 1981 e liberato due mesi dopo. E c’è un riscontro interno, l’ex capitano Massimiliano Rossin, che ha confermato agli investigatori i plurimi passaggi non registrati di Delfino e Pignatelli nel quartier generale. È sufficiente? Possibile? Credibile? Vero? L’ultima fase dell’indagine, non a caso etichettata “Deep State”, con quel sistematico carotaggio dei fondali della Repubblica alla ricerca di inconfessabili collusioni, ha trovato qualche porta chiusa. Carabinieri che indagano su carabinieri, e sulle altre Armi, lo Stato che interroga sé stesso e mette a processo propri pezzi, bollandoli come deviati, magistrati che aprono armadi riservati, in un cortocircuito di ipotesi, sospetti e bivi tra verità indicibili (se tutto l’impianto venisse dimostrato) e schizzi di fango indesiderati anche per l’alleato. Bertram Gorwitz, nome di battaglia “Igor”, era all’epoca l’ufficiale più in vista, la mente grigia del comando Ftase. Era anche il punto di riferimento del colonnello Innecco, ed è ovvio che qualsiasi piano elaborato a Palazzo Carli dovesse passare da lui. La scaletta in fondo al portico indicata da Alfa conduceva al suo cospetto. È stato riconosciuto in foto. Il generale non può rispondere, però: riposa dal 1997 ad Arlington. Gli assenti - Non hanno risposto finora, né Marco Toffaloni né Roberto Zorzi. Del secondo, tra le carte, si trova traccia di una fugace telefonata via Whatsapp al colonnello Giraudo, con toni di scherno e vaghe promesse mai onorate di rientro in Italia per mettersi a disposizione dei magistrati. Sul suo conto gli investigatori sono riusciti a collezionare altre significative testimonianze, quelle di Ferdinando Trappa, uomo che trafficava in quadri rubati insieme ad Ermanno Buzzi. E che giura di aver assistito ad un incontro tra i due, a un distributore notturno di benzina, poco prima della strage. C’è, poi, un ulteriore tassello alle descrizioni fatte da Alfa, un recente vivido dettaglio sulla riunione dopo la morte di Silvio Ferrari: “Quello che non ha fatto lui dobbiamo farlo noi. Questa frase fu pronunziata dal Roberto Zorzi e me lo ricordo come il personaggio carismatico al tavolo”. Di “Tomaten”, gli inquirenti hanno potuto stabilire la militanza strettamente legata a quella del “pirata” fin dall’inizio del 1974, a distribuire i giornalini di Anno Zero o a fare propaganda antidivorzista per i Guerriglieri di Cristo Re. La foto e i rilievi antropometrici sono riscontri solidi. La sua carriera da attentatore un punto a favore di chi lo accusa. E poi ci sono le recentissime aggiunge del supertestimone, verbalizzate dal pm Caty Bressanelli e dal procuratore aggiunto Silvio Bonfigli. “Alla fine Silvio evidentemente si lascia convincere anche perché pensava magari di cambiare vita, di andare a Milano. La sera prima della morte ricordo Nando (Ferrari, ndr), Arturo Gussago e Silvio e dall’altra parte Siliotti Zorzi e Toffaloni”. Già, Gussago, che negli anni Settanta patì l’infamia del carcere preventivo e delle accuse poi sbriciolate a processo insieme ad Andrea Arcai, figlio del magistrato Giovanni, e a Mauro Ferrari, il fratello minore di Silvio, il proprietario della Vespa saltata in aria, accusato di volersi vendicare col tritolo. Anzi, col Vitezit, lo stesso esplosivo usato con ogni probabilità in piazza Fontana: un candelotto venne trovato al ragazzo in cantina, probabilmente messo apposta da chi lo voleva incastrare con una perquisizione ad arte. Gussago, si diceva: “Era una brava persona, non mi ha mai detto che voleva ammazzare Silvio o fare una strage, lui ha sempre voluto rimanere nell’ombra ma c’era”, giura Alfa. E adesso che è morto così tragicamente, appena chiuse le indagini su Zorzi e Toffaloni, bisogna davvero parlarne al passato, e aggiungerlo all’elenco di chi non potrà difendersi. Proprio per questo sarà bene condividere la prudenza di Manlio Milani, presidente della Casa della Memoria, che con i legali di parte civile sta leggendo in questi giorni le carte: “Siamo in una fase molto delicata, soprattutto per i testimoni che hanno parlato e dovranno parlare. Stiamo approfondendo con gli avvocati, sappiamo che l’indagine si è svolta in continuità con l’ultimo processo. Speriamo si prosegua in quella direzione”. Quella dei colpevoli accertati. L’unico modo per far pace con quel passato. Qualunque sia la verità. L’oscena tutela dell’impunità, di Benedetta Tobagi “L’indagine si è svolta in continuità con l’ultimo processo”, ha detto Manlio Milani, sopravvissuto alla strage di Brescia e rappresentante dei famigliari. E in effetti, come in un tragico puzzle, molte tessere della nuova indagine s’incastrano a pennello nel quadro dei fatti già accertati in sede giudiziaria. La centralità di Verona e dei neonazisti di Ordine Nuovo, per esempio, collima con la ricostruzione secondo cui l’ordigno di piazza Loggia era passato dall’appartamento - nonché santabarbara - del defunto Marcello Soffiati, figura di riferimento di Ordine Nuovo nel veronese, sito nella centralissima via Stella (non lontano dal romantico balcone della Giulietta shakespeariana). Soffiati, guarda caso, risultava essere legato ai golpisti della Rosa dei venti, oltre a essere in contatto con gli americani e avere libero accesso alle loro basi. Secondo il supertestimone, ci sarebbe il defunto generale dei Carabinieri Francesco Delfino dietro la morte del camerata Silvio Ferrari, provocata da un ordigno che questi portava sul pianale del motorino la notte del 19 maggio ‘74 - l’ultimo degli episodi dell’escalation di violenza fascista contro cui era stata convocata la manifestazione del 28. Sembra che Ferrari fosse un informatore (come lo era, peraltro, il condannato per strage Maurizio Tramonte-”Tritone”) divenuto “scomodo”. Sempre Delfino avrebbe convalidato, con troppa leggerezza, l’alibi di uno dei nuovi indagati, Roberto Zorzi (nessuna parentela con l’ordinovista Delfo né con il magistrato Gianpaolo, che ha svolto la quarta istruttoria sulla strage). Le sentenze già passate in giudicato, pur assolvendo Delfino dall’accusa di concorso in strage, hanno però sottolineato come, in qualità di capitano del nucleo investigativo dell’Arma, egli abbia compiuto “plurimi atti abusivi” nel corso della prima inchiesta sul massacro, che non a caso pascolò lontanissimo dagli ordinovisti risultati poi responsabili. Nel 1978, quando si apre il processo basato sulle sue indagini (destinato a concludersi con un sostanziale nulla di fatto), Delfino è già entrato al Sismi, il servizio segreto militare dell’epoca. Come agente segreto, Delfino ha il nulla osta “Cosmic”, che garantisce l’accesso ai massimi livelli di segretezza Nato (al pari, per esempio, di Amos Spiazzi), e si muove tra Washington, il comando Shape di Bruxelles (quartier generale delle potenze alleate in Europa) e il delicato teatro strategico del Mediterraneo. Si è indagato a lungo per capire se fosse lui l’ufficiale golpista che si nascondeva dietro il nome in codice “Palinuro”; il Delfino si è sempre difeso sostenendo che quello fosse il nome in codice di un suo collega dell’Arma, Giancarlo D’Ovidio. Nessuna sorpresa, dunque, se risultasse confermato che bazzicava gli uffici veronesi della Nato. Le nuove indagini, poi, tirano in ballo a più riprese il Sid (poi Sismi) e uno stretto collaboratore del defunto generale Maletti, un’altra amara conferma. L’ultimo processo, infatti, ha ricostruito con precisione il clamoroso depistaggio da lui compiuto: pur avendo a disposizione una serie di note informative attendibili, che puntavano dritto verso Maggi e gli ordinovisti, dettagliandone i progetti stragisti, quando fu convocato dagli inquirenti nell’agosto 1974, Maletti disse di non avere in mano nulla, e suggerì di indagare su un gruppo già smantellato. I protagonisti di alto livello, come vedete, sono tutti morti. Hanno funzionato proprio bene, i meccanismi osceni a tutela dell’impunità. Pazienza: “Io ho pagato tutti i miei presunti errori, molti altri no” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 30 gennaio 2022 L’x agente del Sismi: “Calvi e l’Ambrosiano potevano essere salvati se non fossero finiti nelle mani di Licio Gelli”. “Sono finito nel vortice della strage di Bologna per i miei rapporti col Sismi. Posso provare tutto, carte alla mano”. A seconda dei “misteri d’Italia” in cui stato coinvolto Francesco Pazienza, classe 1946, è stato qualificato come agente segreto, faccendiere, depistatore. Presente a vario titolo in oscure vicende - dalla strage di Bologna (2 agosto 1980) alla morte del banchiere di Dio Roberto Calvi (18 giugno 1982) e al crac dell’Ambrosiano - ogni volta che si evoca il suo nome si materializza quel groviglio di poteri occulti che ha governato l’Italia nell’ombra, seminando morte e terrore. Ma chi è davvero Francesco Pazienza? Il Corriere lo ha intervistato ora che l’ex agente del Sismi - riprendendo il racconto fatto oltre vent’anni fa nel suo libro Il disubbidiente (Longanesi) e con il supporto di nuovi documenti inediti, ha raccontato la sua complessa storia in La versione di Pazienza, (Chiarelettere), appena uscito in libreria. Una versione certamente di parte, ma indispensabile per diradare la nebbia che ancora avvolge un pezzo importante della storia del nostro paese. Pazienza non ci sta ad accollarsi tutta la responsabilità per il crac dell’Ambrosiano, né a passare da depistatore per la strage di Bologna. Perciò narra agli ultimi giorni di Roberto Calvi, che lui ha vissuto in prima linea, e racconta i momenti salienti di quella che definisce “la grande abbuffata” dell’Ambrosiano. Ma anche molte altre cose di figure chiave della storia italiana. Il Corriere lo ha intervistato nel suo covo di Lerici, in Liguria. Pazienza, Lei è stato qualificato in molti modi, non tutti esaltanti: ma lei come si definirebbe? “Mi definire un adventurer, nel senso anglosassone di “cercatore di avventure” e non di avventuriero all’italiana. Non a caso la mia prima avventura, dopo la laurea in Medicina alla Sapienza di Roma, è stata quella di lavorare al fianco di Jacques Cousteau, il grande esploratore e oceanografo. In Francia ho lavorato come consulente finanziario. Dopo sono venute le collaborazioni con i servizi di intelligence, francesi e italiani. Amavo una frase di Churchill: “L’intelligence è un lavoro talmente sporco che solo un galantuomo lo può fare”. Nel 1980 Lei è divenuto un uomo del Sismi e nel 1981 consulente del “banchiere di Dio” Roberto Calvi. Come andò veramente quella storia? “L’Ambrosiano era tutt’altro che una banca fallita. Calvi è stato vittima di un attacco perpetrato da quelli che ho definito “gli sciacalli”, in primis Licio Gelli. Calvi mi disse che c’era l’esigenza di dare una mano al Maestro Venerabile in quel momento di difficoltà (il 1981 quando furono scoperti gli elenchi della P2, nda). Con il suo contorto e allusivo modo di parlare, quasi mi chiese di aderire alla (defunta) loggia massonica. Risposi: “Guardi che, ben prima della visita da parte della Guardia di finanza, Gelli aveva chiesto d’incontrarmi, ma a me non interessava per nulla conoscerlo. Si figuri quindi se può interessarmi farlo adesso, nel momento in cui i topi scappano”. In quel documento gli consigliavo di prendere le distanze da Gelli il più rapidamente possibile, se voleva cercare di evitare l’ondata di fango che si stava profilando all’orizzonte, Ancora non sapevo che il banchiere fosse iscritto alla P2. Ma lui lo sapeva benissimo, ecco da dove derivava la sua preoccupazione. L’altro aspetto che lo impensieriva, ma di cui mi avrebbe messo al corrente soltanto qualche tempo dopo, era la mancanza di referenti politici diretti. Tutti i suoi rapporti con il mondo politico erano sempre stati mediati da Gelli e il suo braccio destro Umberto Ortolani. Era completamente nelle loro mani. La morte di Calvi resta un mistero, non lo so come sia andata, anche se non sono convinto che riciclasse per conto della mafia. I Rockefeller erano interessati all’Ambrosiano, vendendolo tutto o in parte avrebbe potuto salvarsi. Solo dopo la morte di Calvi le assicurazioni Toro furono cedute agli Agnelli”. Lei nel 1983, mentre è negli Stati Uniti, riceve un mandato di cattura per il crac dell’Ambrosiano: verrà consegnato alle autorità italiane nel giugno del 1986. Nel 1993 è condannato a tre anni per il crac dell’Ambrosiano. Nel 1995 viene condannato a dieci anni per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. È stato in carcere complessivamente dodici anni; e dal 2007 per un anno e mezzo in affidamento ai servizi sociali... “La materia è ampia e complessa. A differenza di quanto è capitato a De Benedetti, chiamato come me in causa per la bancarotta dell’Ambrosiano e che ne è uscito grazie alla prescrizione, per me non è stato possibile perché un noto avvocato di allora non presentò le carte giuste al processo: se avesse dimostrato che ero residente all’estero questo avrebbe valso anche a me la prescrizione. Quanto alla strage del 1980, nel mio libro denuncio poi le manovre che hanno portato alla mia condanna come depistatore per l’attentato di Bologna, contestando carte alla mano la documentazione che ha consentito la mia estradizione dagli Stati Uniti e la detenzione brutale al 41bis per oltre otto mesi. Erano gli anni dello strapotere di Andreotti in politica e di Cuccia in finanza, del potere meno visibile dei servizi segreti o del famigerato Ufficio Affari Riservati del ministero dell’Interno, di figure come Giuseppe Santovito e Federico Umberto D’Amato, passando ovviamente per Licio Gelli e per il suo sodale Umberto Ortolani. Sono gli anni più violenti e bui della nostra storia recente. Diversamente da molti altri, io non ho goduto dell’impunità concessa a molti, avendo scontato fino in fondo la mia pena in varie carceri italiane. Nelle mie memorie rivelo molte verità scomode, che posso documentare in modo completo, carte alla mano”. Se alla malagiustizia si aggiunge una burocrazia nemica. Il caso Prosperi di Antonio Mastrapasqua formiche.net, 30 gennaio 2022 Una liquidazione di meno di 40.000 euro per 132 giorni di ingiusta detenzione. Poco? Forse sì. Ma il problema è che il conto non è stato ancora saldato e lo Stato non risponde. Quanto valgono 132 giorni di ingiusta detenzione? Secondo la giustizia italiana un po’ meno di 40.000 euro. Poco? Probabilmente sì. Ma soprattutto il conto non è stato saldato, anche se il debitore è lo Stato, nella fattispecie il ministero delle Finanze. Massimiliano Prosperi aspetta da quasi un anno la liquidazione del danno per ingiusta detenzione, definito con sentenza della Corte d’Appello nel marzo dello scorso anno. Ma il Mef non paga, e non risponde ai solleciti. L’uomo era stato detenuto per circa sei mesi e condannato in primo grado nel 2016 per essere il presunto mandante di un omicidio avvenuto a Roma. L’anno dopo, in appello, la sentenza è stata ribaltata ed è stato riconosciuto innocente. La sentenza di assoluzione è diventata definitiva nel 2018. Successivamente ci sono voluti altri tre anni per ottenerne una che definisse il risarcimento per il danno subito. Poi nulla. Silenzio. Prosperi era un imprenditore, oggi si arrangia facendo il muratore. Quei 40.000 euro, oltre che dovuti, sarebbero utilissimi per ricomporre i pezzi di una vita devastata da un errore giudiziario. Ma la burocrazia sta condannando per la seconda volta un uomo innocente. Non si tratta solo di cattiva burocrazia - inefficiente, complicata, autoreferenziale - che si oppone a una burocrazia buona, che aiuta la vita di cittadini, famiglie e imprese, fornendo un servizio essenziale di utilità pubblica. Siamo di fronte a un caso di burocrazia nemica. Purtroppo, il caso del signor Prosperi non è unico. Sono circa 1.000 all’anno i casi di ingiusta detenzione riconosciuta dallo Stato. Il 20% di chi ricorre per ottenere un risarcimento. I soldi tardano spesso ad arrivare e quasi mai lo Stato si rivale sul magistrato che ha amministrato “male” la giustizia, anche se la legge Vassalli lo prevede esplicitamente. La vicenda di Prosperi non è solo uno dei tanti casi di malagiustizia, si configura come un pessimo esempio di burocrazia nemica. Non solo inutile o dannosa per la vita sociale, ma addirittura ostile, irrispettosa delle stesse sentenze dei magistrati. Una storia che rischia di accentuare uno sguardo negativo nei confronti di tante amministrazioni pubbliche, anche quando i casi di rapporto positivo ed efficiente non mancano. Di fronte al dramma di una ingiusta detenzione riconosciuta e non “pagata” potrebbe sembrare inopportuno rammentare i tanti episodi di burocrazia amica, che per fortuna ci sono e ci sono stati. Ne sono stato buon testimone negli anni che ho avuto l’onore di lavorare per il Paese come civil servant, al vertice dell’Inps. La buona burocrazia, fatta di impiegati e dirigenti zelanti e dediti al dovere, diventa amica dei cittadini quando sa organizzarsi per servire al meglio il Paese, arginando le inefficienze, promuovendo le attività efficienti, premiando le buone pratiche e inventando - quando serve - percorsi e modalità nuove per adeguarsi alle esigenze della collettività. Ho avuto la ventura di vedere un’amministrazione pubblica darsi l’obiettivo di pagare le prestazioni previdenziali e assistenziali in tempi sempre più stretti - parlo sempre dell’Inps che ho presieduto per tanti anni - di inventare nuove forme di collaborazione con altre amministrazioni, per assicurare il miglior servizio per i cittadini. Ricordo gli interventi nel processo di riconoscimento e controllo dell’invalidità civile, che nel dialogo con le Asl e le Regioni, riuscirono ad assicurare liquidazioni in tempi certi, se dovute. Ricordo l’efficientamento delle procedure sui certificati medici per malattia dei lavoratori, che consentirono di dare trasparenza a percorsi spesso offuscati da un’ingiusta sopportazione di casi di assenteismo. Ricordo la riduzione del contenzioso giudiziario per il quale l’Inps deteneva un primato non invidiabile. Ricordo gli scambi di informazioni con le altre amministrazioni pubbliche - come per esempio con l’Agenzia delle Entrate - per evitare l’erogazione di prestazioni a chi non ne aveva diritto. I casi dell’Inps che ricordo in prima persona sono certo che si moltiplicano nei Comuni italiani più virtuosi, non a caso il Comune resta una delle istituzioni più apprezzate dai cittadini. Non solo. Basta ripensare a questi due anni di pandemia, che hanno visto l’impegno e l’abnegazione di medici e paramedici di tutto il Sistema sanitario nazionale, che hanno finito per ridimensionare gli inevitabili casi di malasanità, facendo apprezzare un grande pezzo di amministrazione pubblica efficiente ed efficace. C’è una Pubblica amministrazione buona e amica, che dovrebbe dare sempre meno spazio alle sacche di ostilità e di inefficienza che riducono i cittadini al grado di sudditi. Trento. Dal Centro diurno per i problemi psichici (che manca) al sovraffollamento ildolomiti.it, 30 gennaio 2022 I problemi del carcere raccontati dalla Garante dei detenuti al Rotary club Trento. Antonia Menghini ha spiegato quali problemi sta vivendo la casa circondariale di Spini compreso il tragico tema dei suicidi a quello del fine pena. Durante il settimanale incontro del Rotary Club Trento ha ricordato che “un giorno, un detenuto in uscita mi ha detto sconvolto: ho paura di ritrovarmi di fronte a tanta libertà” Quasi 300 detenuti a fronte di 240 previsti ma nel 2015 erano arrivati ad essere, mediamente anche 330. Questi numeri che raccontano di una flessione ma che dimostrano come sia tuttora in atto un sovraffollamento, si riferiscono al carcere di Trento. Lunedì 17gennaio, infatti, il Rotary Club Trento, guidato dal presidente Matteo Sartori, unitamente al Rotaract di Trento, presieduto da Jessica de Ponto, hanno avuto quale relatrice, nell’ambito degli incontri settimanali organizzati dall’ente, la professoressa Antonia Menghini, professoressa di diritto penale alla Facoltà di Giurisprudenza di Trento (con svariati incarichi scientifici nell’ambito dell’attività da lei svolta) e autrice di numerose pubblicazioni. Dal 2017 è la “Garante dei diritti dei detenuti della Provincia Autonoma di Trento” ed in tale veste è intervenuta con una relazione dal titolo “Carcere e Coronavirus”. Tema estremamente complesso e importante, anche a causa delle annose problematiche che affliggono la situazione carceraria italiana, affetta da un “cronico e strutturale sovraffollamento”, che è stato pesantemente condannato dalla Corte di Strasburgo per la prima volta nel 2013, per “violazione della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo per trattamento disumano e degradante”. Riguardo alla Casa Circondariale di Spini di Gardolo, come detto, al 31 dicembre 2021 vi erano 299 detenuti su 240 previsti: 27 donne e 272 uomini. Nel 2015 erano mediamente 330. La flessione, che comunque vede ancora un sovraffollamento, è dovuta ad un lavoro davvero importante svolto dalla magistratura di sorveglianza, con l’applicazione di misure alternative come la detenzione domiciliare, soprattutto in questo periodo di pandemia. La Casa Circondariale di Spini di Gardolo, dopo svariati avvicendamenti, è diretta da Annarita Nuzzaci, alla quale dal 2019 è stata assegnata anche la direzione della Casa Circondariale di Bolzano. Incarichi molto gravosi da svolgere contemporaneamente. Circostanza che ha reso e rende oggettivamente molto complesso lo svolgimento di una progettualità di lungo periodo. Sottodimensionata risulta essere a Spini di Gardolo in particolare l’area educativa, il personale di polizia penitenziaria (ruolo estremamente importante) e l’organico dei medici, soprattutto nel periodo di pandemia. Non è stato inoltre attivato il cosiddetto Centro Diurno per persone affette da disagio psichico, dove possano essere seguite non solo sotto il profilo medico, ma anche con un affiancamento in senso più ampio. La relatrice ha poi evidenziato che particolarmente pesanti sono state per i detenuti, sempre a causa del virus, le sospensioni dei colloqui in presenza, le visite dei familiari a causa delle zone rosse e la sospensione dei trasferimenti in carceri più vicini alle famiglie, come previsto dalle normative (disposizione revocata solo nell’agosto del 2021). In questo contesto, le già limitate libertà delle persone detenute si sono notevolmente ristrette. Quanto sopra ha portato all’accentuarsi di episodi di maggiore insofferenza e di maggiore autolesionismo, riconducibili al conseguente crescente disagio psichico dei detenuti. In alcuni casi si sono verificati anche veri e propri scontri, ma non a Trento. Antonia Menghini ha poi toccato il tragico tema dei suicidi in carcere. Ha ricordato che è necessario attivarsi al massimo, per intercettare per tempo le motivazioni che possono portare a quel gesto estremo, al fine di scongiurarlo. E ancora il delicato tema del fine pena, soprattutto per chi non ha riferimenti sul territorio e che quindi si trova, una volta liberato, da un giorno all’altro, da solo, per la strada. “Un giorno, un detenuto in uscita”, ha raccontato la relatrice “mi ha detto sconvolto: ho paura di ritrovarmi di fronte a tanta libertà”. L’esaustiva relazione della Prof.ssa Menghini, davvero molto professionale, ma al tempo stesso anche molto umana, ha trovato grande consenso fra i presenti. Firenze. Sollicciano, chiede di incontrare il padre ma il permesso arriva dopo la morte di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 gennaio 2022 Lo sdegno generale: “Qualcosa deve cambiare. Nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, può essere concesso il permesso di recarsi in visita”. All’indomani del caso sollevato dall’associazione Pantagruel attraverso il Corriere Fiorentino, è unanime il coro di indignazione per la vicenda accaduta lo scorso settembre. A partire dall’associazione Ristretti Orizzonti: “Storie di permessi arrivati troppo tardi ne ho viste tante - ha detto Ornella Favero, coordinatrice dell’associazione - Io immagino che sia difficile per un magistrato di sorveglianza mettere insieme l’umana pietà con la sicurezza dei cittadini, e dare risposte in tempi rapidi, ma qualcosa deve cambiare, qualcosa bisogna fare perché non si arrivi tragicamente tardi, e perché lo Stato riesca a mostrare, anche a chi ha fatto del male, un volto più mite e attento ai bisogni di tutti. Perché solo così si disinnesca la rabbia nelle carceri, e si applica la Costituzione”. Tanto più che, ricorda Favero, il diritto è garantito dall’articolo 30 dell’ordinamento giudiziario, secondo cui “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l’infermo”. Sul tema interviene anche il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo: “Un fatto deprimente, un episodio che descrive molto bene il clima di abbandono e superficialità che si vive a Sollicciano”. E ancora Massimo Lensi dell’associazione Progetto Firenze: “Il permesso a questo detenuto gli andava concesso subito, su questo non ci piove, questa è una delle tante brutte storie a cui siamo abituati all’interno del mondo del carcere, che però sembra interessare a quasi nessuno”. Secondo Lensi, “è pertanto necessario potenziare la magistratura di sorveglianza, l’area educativa e le sezioni amministrative del carcere affinché siano snelliti passaggi burocratici e affinché problemi come questo non si verifichino più”. “L’impressione che si ricava parlando con i detenuti - ha infine aggiunto Alessio Scandurra dell’associazione Antigone - è che purtroppo questo caso non sia affatto una eccezione. Questi episodi sono figli di un atteggiamento che sconta una burocrazia eccessiva, non tanto dall’accanimento del tribunale di sorveglianza”. Donatella Di Cesare: “Dalla Shoah alla pandemia, la minaccia del negazionismo” di Emanuele Coen L’Espresso, 30 gennaio 2022 Continua a fare proseliti chi vuole cancellare l’Olocausto. La filosofa indaga questa ideologia nefasta, che con il passare degli anni amplia il proprio raggio d’azione. Mentre esce la nuova edizione del suo saggio “Se Auschwitz è nulla”. “Non è mai successo prima che si negassero sistematicamente gli eventi storici, addirittura mentre accadono”. Nel tempo del complottismo non c’è da stupirsi se il negazionismo gode di ottima salute. Il rifiuto di fatti storici documentati, infatti, che si tratti delle camere a gas o del Covid-19, resta alla base dell’ideologia della rimozione, che utilizza argomentazioni iperboliche a sostegno delle proprie tesi, propalate senza filtri attraverso la Rete. E così con il passare degli anni il negazionismo allarga il proprio spettro di azione, come osserva Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, una delle voci filosofiche più presenti nel dibattito pubblico, impegnata da lungo tempo su questi temi. Nel suo saggio “Se Auschwitz è nulla” (Bollati Boringhieri, pp.160, € 12), edizione ampliata del libro pubblicato dieci anni fa, esplora le nuove frontiere di questa ideologia nefasta. Oggi il negazionismo si amplia, arriva a negare la pandemia... “Non è mai successo prima che si negassero sistematicamente gli eventi storici, addirittura mentre accadono. Tuttavia questo fenomeno si replica; nasce dal contesto dello sterminio e, quasi con le stesse modalità, si fa largo nello spazio pubblico dove si arriva a negare la pandemia, a mettere in discussione l’efficacia dei vaccini, a impiegare quel dubbio iperbolico che diventa un dogma. Dovremmo riflettere su questo dilagare dei “negazionismi” al plurale, prenderli sul serio ed esaminarli attentamente. Siamo solo all’inizio”. Qual è il fulcro del nuovo negazionismo? “Il negazionismo ha nuovi volti. Nell’immediato dopoguerra mira a riabilitare il passato sollevando il nazismo da ogni colpa, scagionando il fascismo da ogni complicità nel genocidio degli ebrei d’Europa. Il che è possibile solo cancellando il crimine più obbrobrioso: l’industrializzazione della morte nei campi di sterminio. Ecco perché le camere a gas sono per decenni al cuore della negazione. Più tardi si aggiunge il tema del numero. “Ne sono morti davvero sei milioni?”. Con questa domanda, beffarda e offensiva, il negazionista costringe alla contabilità dell’orrore. Ma non possedere la cifra esatta di coloro che furono assassinati non muta l’entità del crimine. Tra il 2000 e il 2020 entra in una nuova fase. Il perno della nuova negazione diventa il cosiddetto “culto olocaustico”. Gli ebrei, quei “guardiani della memoria”, avrebbero approfittato di Auschwitz ergendolo a “sacrificio fondante”, fulcro e alibi della “nuova religione olocaustica”. Ben al di là della fondazione dello Stato di Israele, il “culto olocaustico” sarebbe il fondamento ideologico per riprendere saldamente le fila del potere, le redini del Nuovo Ordine Mondiale”. Da quale urgenza nasce la nuova edizione del libro? “Lo sfondo è un processo penale che ho dovuto affrontare in questi ultimi anni e che si è concluso qualche mese fa con la mia piena assoluzione. Sono stata portata in tribunale da un parente di Costanzo Preve del quale, in un articolo su Diego Fusaro, indicavo le responsabilità verso il negazionismo. Una brutta storia che ricorda quella di Deborah Lipstadt. Per me si aggiungeva ad anni di minacce per cui sono stata messa sotto scorta. Come spesso avviene, nel buio c’è la luce. Così ho avuto l’occasione per analizzare i nuovi temi del negazionismo, primo fra tutti quello del “culto olocaustico” che è insieme lo slogan inedito, ma anche il modo per aggirare ogni censura dopo l’introduzione del reato. Mi sono, dunque difesa e dai tanti appunti è nata l’idea di ripubblicare il libro che esce in una versione molto diversa da quella precedente perché contiene due nuove parti, una sull’antisemitismo nel XXI secolo, che ho scritto per la Treccani, e una parte sul nuovo negazionismo”. Che differenza c’è tra negazionismo e revisionismo? “I negazionisti sono riusciti a spacciarsi per revisionisti, come se mirassero solo a rivedere la storia in nome di una spassionata ricerca della verità. In realtà non vogliono ricercare nulla, bensì solo insinuano il loro dubbio iperbolico. In tal senso il negazionismo non è un’opinione come un’altra, né tanto meno una visione critica. È una dichiarazione politica che, minacciando il passato, insidia il futuro”. Con il proliferare dei social media il negazionismo assume forme inedite. “Si può parlare davvero di una complosfera negazionista. Là dove reale e virtuale, prova e rumore, ragionevole e assurdo, tutto è equiparato, i negazionisti trovano estro e ispirazione per rendere attuali e concreti i loro fantasmi. Non sorprende che i nuovi media siano diventati un potente mezzo per fare proseliti”. I testimoni della Shoah sono quasi tutti scomparsi ormai. È un fatto che rafforza il negazionismo? “Sì e no. I negazionisti hanno sempre tentato di demolire la testimonianza dei sopravvissuti. Il caso più emblematico è quello di Shlomo Venezia a cui ho dedicato il mio libro e che è stato per me una persona molto importante. Membro del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, lui sapeva bene che la sua testimonianza era la più temuta perché, a differenza degli altri, lui era stato dentro il dispositivo dello sterminio. I nostri sopravvissuti hanno fronteggiato l’ondata dei negazionisti. Sono stati e sono guide della coscienza democratica, come Liliana Segre, e perciò diventano vittime della violenta propaganda negazionista. Ma questo non vuol dire che dopo di loro sarà più facile negare. Qui sta il nostro compito. Vorrei ricordare una parola ebraica, l’imperativo “shamòr”, osserva!, che viene dopo “zakhòr”, ricorda!, ed è rivolto a chi, pur non avendo vissuto gli eventi, e non potendone avere memoria, ha tuttavia la responsabilità di trattenerne il ricordo osservandolo”. Il valore del volontariato, “patrimonio prezioso per le nuove generazioni” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 30 gennaio 2022 Un rapporto lungo e forte quello del presidente Mattarella, rieletto per il secondo mandato sabato sera, con il Terzo settore. Il 5 dicembre aveva detto: “Il rispetto dei diritti e delle libertà della persona nella solidarietà è il patrimonio più prezioso che dobbiamo trasferire alle nuove generazioni”. Il Forum del Terzo settore aveva ringraziato il capo dello stato, giunto al termine del suo mandato. E lo aveva fato attraverso la portavoce Pallucchi. Il presidente Mattarella, aveva detto Pallucchi, “ha sempre dedicato un’attenzione particolare e tutt’altro che scontata alle azioni e al ruolo che ha assunto il Terzo settore nel nostro paese”. Sin dall’inizio del suo mandato iniziato nel 2015. Quella attenzione alle molte migliaia di organizzazioni e ai tantissimi volontari che ogni giorno, come ci ricordano spesso le parole del Presidente della Repubblica, “contribuiscono alla coesione sociale del Paese” ha influito positivamente “sull’evoluzione normativa: come quando nel discorso di fine anno del 2018 - ha ricordato Pallucchi - esortò Governo e Parlamento ad evitare “tasse sulla bontà” a danno di quelle realtà che invece “meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli”. E poi, nel 2020, Sergio Mattarella intervenendo alla cerimonia di inaugurazione di Padova Capitale Europea del Volontariato “non solo riconobbe il valore inestimabile del volontariato, ma auspicò anche che si procedesse nell’attuazione della legge sul Terzo settore, coinvolgendo i protagonisti, assicurando una piena collaborazione tra i diversi livelli istituzionali, favorendo la partecipazione e il sostegno anche economico di una più vasta platea di cittadini”. La portavoce del Terzo Settore concludeva con l’auspicio che “anche in futuro la Presidenza della Repubblica sappia interpretare e promuovere il ruolo che la Costituzione attribuisce al Terzo settore”. I volontari nella pandemia da Covid-19 - Il 5 dicembre, inoltre, nella Giornata Internazionale del Volontariato, il Presidente Mattarella aveva detto: “Il volontariato è una straordinaria energia civile che aiuta le comunità ad affrontare le sfide del tempo e le sue difficoltà. Rinsalda i legami tra le persone, è vicino a chi si trova nel bisogno, riduce i divari sociali, promuove l’accoglienza e la sostenibilità”. Una giornata voluta 36 anni fa dalle Nazioni Unite, aveva ricordato in quella occasione, per dare il giusto valore alle numerose testimonianze di umanità e di altruismo che migliorano la nostra vita, e “senza le quali istituzioni e ordinamenti non sarebbero in grado di garantire appieno i principi cui si ispirano”. Infine: “Abbiamo avuto ulteriore prova dell’importanza e del coraggio dei volontari e delle loro associazioni nell’emergenza provocata dalla pandemia. I volontari sono stati in prima fila, accanto a medici e infermieri, nel prestare cura ai malati, nel sostenere chi è rimasto solo, nel costruire connessioni laddove tanti rischiavano di venire esclusi. Il rispetto dei diritti e delle libertà della persona nella solidarietà - afferma il Capo dello Stato - è il patrimonio più prezioso che dobbiamo trasferire alle nuove generazioni”. La crisi senza fine della scuola italiana, ferita gravemente dalla Dad di Gloria Riva L’Espresso, 30 gennaio 2022 Il sottofinanziamento dei nostri istituti è un problema ignorato da decenni. E mentre le competenze degli studenti peggiorano, aumenta la dispersione. Il covid ha fatto il resto: più le aule restano chiuse, più gli alunni abbandonano gli studi. C’è chi a scuola ha deciso di non andarci più. Ed è il 13 per cento dei ragazzi. E c’è chi a scuola ci va, ma senza imparare granché. Ed è il dieci per cento dei giovani. Così, nel 2021, un quarto di chi ha meno di 24 anni è entrato nel mondo degli adulti e del lavoro senza avere adeguati strumenti per affrontarlo, senza saper far di conto e comprendere un testo scritto. Il fenomeno si chiama dispersione scolastica, esplicita quando si verifica un vero e proprio abbandono degli studi, implicita quando si resta al banco ma senza trarne alcun insegnamento. Stando agli ultimi dati Invalsi, prove che testano le competenze dei ragazzi di terza media e quinta superiore in matematica e italiano, questa seconda forma di diaspora sta aumentando fortemente: il 39 per cento degli studenti di terza media non ha raggiunto i livelli minimi di comprensione dell’italiano, in peggioramento di cinque punti rispetto all’anno prima; ancor più sconfortanti gli esiti in matematica con il 45 per cento di insufficienze. Alle superiori il 44 per cento degli studenti ha gravi carenze in italiano, oltre la metà in matematica. Se al Nord il problema è contenuto - in Friuli Venezia Giulia la dispersione scolastica è sotto al dieci per cento, in Lombardia e Veneto al 13 -, in Campania e Calabria sfiorano il 40 per cento. Ecco perché un’altra dad, la didattica a distanza, non possiamo proprio permettercela: “L’interruzione delle lezioni in presenza ha inferto un duro colpo alla formazione dei ragazzi”, spiega Roberto Ricci, presidente di Invalsi, che continua: “È aumentata le quota di allievi in situazione di forte fragilità. I più colpiti sono i ragazzi che provengono da contesti difficili e in condizioni socioeconomiche complicate. Così, se il Veneto ha perso i suoi risultati eccellenti pur restando oltre la media, in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, dove le prestazioni erano scarse già prima, la situazione è precipitata”. Più le scuole restano chiuse, più gli alunni sono costretti a studiare da remoto, più la dispersione scolastica esploderà nei prossimi anni, lasciando sul campo giovani adulti privi della capacità di superare un colloquio di lavoro, di partecipare a un bando pubblico, di frequentare un corso di formazione o di avviare una propria attività imprenditoriale. La scuola sembra aver perso la capacità di rompere quella sorta di profezia che si autoavvera e porta molti giovani a non immaginarsi in un ruolo diverso da quello al quale il proprio destino sociale sembra inchiodarli. Un destino fatto di matrimoni precoci, lavori precari e senza sbocco, di rinuncia a intraprendere percorsi formativi e di ricerca del lavoro, di impossibilità di emergere dallo zoccolo duro di miseria. All’origine del declino della scuola c’è il suo tradizionale sotto finanziamento, che posiziona l’Italia in fondo alle classifiche europee e Ocse per risorse destinate all’istruzione. Va così dalla metà degli anni Novanta, con un ulteriore aggravamento dalla crisi economica del 2009, quando i finanziamenti all’istruzione sono scesi al di sotto del quattro per cento del prodotto interno lordo, il Pil, mentre, ad esempio, la Francia è sempre stata abbondantemente sopra il cinque per cento. “C’è stato un lieve aumento della spesa a partire dal 2015, con il progetto Buona Scuola del governo Renzi, ma non ci siamo mai schiodati da quel quattro per cento del Pil speso per la scuola, che continua a essere un valore inferiore alla media europea”, spiega Giorgia Casalone, docente di Scienza delle Finanze all’Università del Piemonte Orientale, che continua raccontando come il 99 per cento di quel denaro serva a pagare le spese ordinarie, cioè gli stipendi di professori e personale scolastico, mentre solo in minima parte è utilizzato per rendere le scuole luoghi più vivibili. Ma non è solo un problema economico: “Il nostro sistema di istruzione, essendo fortemente centralizzato, destina uguali risorse per gli studenti del nord, del centro e del sud. Ma essendo i risultati molto diversi da un’area all’altra, questo ci porta a dire che la crisi della scuola non dipende solo dalle risorse stanziate, ma in gran parte dal contesto familiare, dal livello di istruzione dei genitori, dall’ambiente socioculturale. Vuol dire che esistono delle carenze educative che la scuola, da sola, non riesce a colmare”, conclude Casalone. Anzi, in alcuni casi il valore aggiunto offerto dalla scuola è negativo. Ludovico Albert, presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, per molti anni ha insegnato in contesti difficili e racconta che l’assenza di incentivi a insegnare in scuole complicate spinge i docenti a cercare di spostarsi in scuole meno problematiche: “Dirigenti, insegnanti e personale amministrativo appena possono se ne vanno, rendendo tutto più difficile”. La scialuppa di salvataggio che il ministero dell’Istruzione offre alle scuole per salvarsi dalla povertà educativa è il Pon, programma operativo nazionale, periodici bandi su cui il ministero punta svariati milioni di euro per sostenere progetti extra curriculari, utili a stimolare la curiosità dei ragazzi e riavvicinarli al mondo della scuola, ad esempio realizzando orti didattici e acquistando device tecnologici: “Ma i presidi di scuole ai margini, che hanno difficoltà a trovare i docenti per l’attività ordinaria, non hanno il tempo per partecipare ai bandi, che richiedono una certa dose di burocrazia da assolvere. Così i finanziamenti dei Pon finiscono agli istituti meglio attrezzati, aumentando il divario e la disuguaglianza fra scuole”. Favorendo anche la ghettizzazione dei ragazzi. A Milano, ad esempio, oltre il 60 per cento dei bambini non frequenta la scuola elementare del proprio quartiere, ma istituti più centrali o meglio referenziati. Albert spiega che “il fenomeno della segregazione scolastica è molto forte e ci si trova con scuole di alto profilo, dove studiano i bambini bianchi provenienti da contesti socioculturali elevati, e istituti di periferia, dove l’80 per cento degli alunni è straniero e alta è l’incidenza di bambini con bisogni educativi speciali. Se aggiungiamo che in queste scuole gli insegnanti sono precari e tendono a spostarsi altrove, è facile capire perché il valore aggiunto dell’attività didattica è scarso o negativo. Succede che gli alunni di queste classi, di promozione in promozione, arrivino alla maturità con competenze al di sotto della quinta elementare: insufficienti per diventare cittadini consapevoli”. Il ministero ha scarso polso sul fenomeno e l’unico modo per raggiungere i giovani più in difficoltà è costruire patti o alleanze educative con la comunità territoriale, coinvolgendo gli educatori, le associazioni locali, la parrocchia e tutti coloro che sono in grado di aiutare a contrastare la disuguaglianza educativa e riportare i ragazzi all’interno delle scuole, fisicamente ma non solo. I risultati pubblicati da una ricerca condotta dal Forum Disuguaglianze e Diversità confermano che, nelle aree in cui la collaborazione fra società civile e scuola è stata più forte, la dispersione scolastica ai tempi del Covid-19 si è ridotta al dieci per cento, nelle altre è schizzata oltre il 40 per cento. La presenza degli educatori, nei periodi di lockdown e di chiusura delle scuole, ha permesso ai ragazzi più fragili di riallacciare il legame con la scuola e trovare maggiore fiducia in se stessi. Proprio sulla riduzione dei divari e sul miglioramento delle competenze degli alunni il governo Draghi ha deciso di investire 1,5 miliardi del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza. Tuttavia, il tragitto che porta a quell’obiettivo desta parecchi dubbi: “Quasi quattro miliardi serviranno a mettere in sicurezza le scuole, renderle agibili e costruirne 195 di nuove. Ed è giusto investire sulle infrastrutture, visto che l’età media delle scuole italiane supera i cinquant’anni”, commenta Daniele Checchi, docente di Economia della Statale di Milano, che prosegue: “Mentre è meno chiaro come si intenda utilizzare gli altri 1,5 miliardi per ridurre la dispersione scolastica e i divari”. L’unica certezza è l’intenzione del governo di investire 300 milioni di euro in un progetto di mentoring online per evitare che 10mila giovani abbandonino la scuola. Un progetto attorno a cui c’è molto scetticismo, visto che proprio la didattica a distanza è risultata fallimentare nella formazione dei giovani. C’è inoltre un malcontento generalizzato da parte di insegnanti e associazioni locali per come si intende sostenere i patti e le alleanze educative che coinvolgono le comunità locali: “Nel Pnrr ci sarebbe la possibilità di avviare progetti di collaborazione fra istituti e terzo settore, che è l’unico in grado di recuperare i ragazzi in fuga dalla scuola. Ma serve una precisa governance del ministero per decidere come costruire e favorire queste alleanze, specialmente nelle aree più critiche e fragili, e dove il territorio non offre comunità locali di sostegno alla scuola. Al contrario, non sembra esserci questo interesse, ma un generico rimando al meccanismo dei bandi e dei Pon, che favorisce le scuole meglio attrezzate, a scapito di quelle più disagiate”, spiega Ludovico Albert. Non è una questione di risorse economiche, come fa notare Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus che opera su Napoli e coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: “Basterebbero 250 milioni di euro per finanziare cento progetti e altrettante scuole collocate nelle aree più fragili d’Italia. Piuttosto è una questione di riforme e di programmazione da parte del ministero”, che al momento è pronto a usare il sistema dei bandi, un metodo consolidato ma fallimentare, per ridurre i divari, senza offrire una via preferenziale alle aree più critiche. Il rischio è di perdere per sempre metà dei giovani italiani, oggi in fuga dalla scuola, domani smarriti nella vita. La vergogna dei manganelli sugli studenti di Donatella Di Cesare La Stampa, 30 gennaio 2022 Le cariche indiscriminate della polizia non possono passare sotto silenzio. Colpi violenti sulla testa, sul volto - sangue e violenza. Le cariche indiscriminate della polizia contro gli studenti, che manifestavano pacificamente in tante città italiane, non possono passare sotto silenzio, coperte in questi giorni dal triste spettacolo della politica nel parlamento. Sono infatti scene non meno ignominiose, degne di un regime autoritario e ciecamente repressivo. La morte di Lorenzo Parelli, quel ragazzo di soli 18 anni, ucciso da una trave d’acciaio l’ultimo giorno del suo stage formativo, ha suscitato profonda impressione nei suoi coetanei. E come dar loro torto? Ragazze e ragazzi di quell’età sono scesi in piazza in tantissime città italiane, da Torino a Potenza, per esprimere le proprie emozioni, dal cordoglio alla rabbia, ma soprattutto per comunicare il proprio dissenso contro l’alternanza scuola-lavoro. D’altronde l’alternanza, che né forma né, tanto meno, avvia al mondo del lavoro, si è rivelata l’ennesimo ingranaggio di sfruttamento a basso costo. Ed è proprio quell’ingranaggio che ha stritolato la vita di Lorenzo Parelli. Perché, dunque, non starli a sentire? Perché non cercare di capire le loro ragioni? La loro giusta protesta non ha trovato invece altra risposta se non le cariche indiscriminate della polizia. A Torino gli studenti liceali, appartenenti a diversi collettivi, sono stati aggrediti dagli agenti perché avevano intenzione di passare in corteo per le vie del centro. Decine di loro sono rimasti feriti. Episodi analoghi si sono verificati a Napoli e a Roma, mentre a Milano sono stati picchiati gli studenti che volevano depositare davanti alla sede di Assolombarda una simbolica trave insanguinata di cartapesta. L’elenco sarebbe lungo: ragazzi contusi, rimasti per terra privi di sensi, oppure finiti al pronto soccorso. Come sempre - si dirà - le violenze non sono mai solo da una parte. Ma questa volta il gesto dell’agente che presidierebbe in tal modo l’ordine è proprio insopportabile. E dovrà certamente darne conto nei prossimi giorni chi ne ha la responsabilità. Noi sappiamo bene che oggi lo spazio pubblico non è per nulla neutro. Al contrario, proprio perché è ormai lo spazio dell’apparire, esprime un’architettura politica. Chi non ha potere è relegato fuori, invisibile e inascoltato. Purtroppo la polizia non ha più tanto il ruolo di ripristinare l’ordine, quanto quello di difendere i confini dell’architettura politica, i limiti stabiliti. Guai a forzarli! Chi è all’interno, ben visibile, esercita così il proprio potere. Ai margini restano le donne, i precari, i migranti - e i giovani. Quando si parla della scuola, o dell’università, si finisce non di rado per cadere nell’astrattezza impersonale. Quasi mai viene data la parola agli studenti. E il vero problema è che in Italia i giovani hanno un ruolo ridottissimo nello spazio pubblico. Se di tanto in tanto sono un oggetto di argomentazione, non sono, però, il soggetto riconosciuto di un confronto. La loro protesta per quel coetaneo morto tragicamente avrebbe dovuto essere accolta come il sintomo positivo di una sana reazione, il segnale importante di una voglia di essere partecipi, di far sentire la propria voce. Una politica che si limita a ostentare il volto poliziesco contro interrogativi legittimi, contro questioni nodali, ammette solo la propria incapacità. Non vorremmo più vedere casco e manganello contro chi rivendica il diritto allo studio in sicurezza. La violenza contro gli studenti in piazza: che dice la ministra Lamorgese? di Selvaggia Lucarelli Il Domani, 30 gennaio 2022 “Breve azione di cariche di alleggerimento”, “lanci di pietre, uova e bottiglie di vetro a cui la polizia ha reagito con alcune cariche”, “la questura ha fatto sapere che l’iniziale sit-in si è trasformato in un corteo”, “circa 200 partecipanti hanno cercato in tutti i modi di forzare gli sbarramenti delle forze di polizia, anche con l’utilizzo di un furgone”. A leggere sui giornali le (scarse) cronache di ciò che sarebbe accaduto ieri in alcune piazze d’Italia viene da pensare che gli studenti abbiano manifestato contro l’alternanza scuola/lavoro con ferocia, armati fino ai denti, con le forze dell’ordine costrette a difendersi utilizzando misura e senso delle proporzioni. Peccato che le cose siano andate molto diversamente e che l’accaduto sia di una gravità inaudita, perché decine di studenti inermi sono stati manganellati da poliziotti inspiegabilmente accaniti e violenti. A Milano, circa duecento ragazzi tra studenti, anarchici ed esponenti di centri sociali, volevano raggiungere la sede di Assolombarda per deporre una simbolica trave d’acciaio in cartapesta insanguinata. Dai video di Local Team si vede chiaramente che qualche ragazzo butta giù delle transenne per poi indietreggiare. Qualcuno, in un seguente momento, lancia verso la polizia delle uova con della vernice rossa che doveva simboleggiare il sangue dello studente Lorenzo Parelli, morto durante uno stage nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro. Violenza unilaterale - Non c’è violenza, nessuno aggredisce i poliziotti. Molti ragazzi e ragazze sono minorenni. Lo so perché tra quei ragazzi c’era anche mio figlio, che ha 17 anni. Ed era insieme a coetanei, alcuni suoi compagni di classe. Non ha lanciato nulla, era lì a manifestare, a ritrovare una ragione per sentirsi vivo e stimolato da una causa che reputava giusta dopo anni di dad, lockdown e pandemia. Si sente chiaramente che un poliziotto li minaccia, mentre il corteo è fermo: “Se tirate un altro uovo vi carichiamo”, dice. Qualcuno lancia un uovo, che cade sull’asfalto. La polizia allora li carica, manganella ragazzini e ragazzine sulla testa, sulle gambe, sulla schiena. Mio figlio, come molti altri, prende una manganellata in testa, cade, smarrisce una scarpa. Per un attimo perde coscienza, lo tirano su dei suoi amici che erano più indietro e che l’hanno scampata. Un ragazzo invece resta a terra, viene picchiato mentre è sull’asfalto, perde sangue dalla testa, va al pronto soccorso. Una sua amica, anche lei diciassettenne, è stata manganellata sulle gambe, altre hanno ematomi sulle braccia. Sono tutti increduli e spaventati. Due approcci diversi - A Torino è andata peggio. I video - numerosi e da diverse angolazioni - raccontano un tentativo dei ragazzi di avanzare oltre lo sbarramento dei poliziotti. Sono forse un centinaio e non si vede alcun furgone (come raccontato dalla questura) che avanza in direzione dei molti poliziotti presenti. Il furgone bianco è parcheggiato, aperto e con delle casse per la musica all’interno. Per la cronaca, sono gli stessi poliziotti che il giorno prima, a Torino, si lasciavano insultare senza reazione alcuna dai manifestanti no pass (“dovete sputarvi in faccia”, tra gli apprezzamenti documentati in alcuni video) e che presidiavano l’università all’interno della quale c’erano gli stessi manifestanti no pass che l’avevano illegalmente occupata. Quello che è accaduto a Torino è che la polizia ha attaccato con ben quattro cariche gli studenti in Piazza Arbarello. I video raccontano una verità precisa, e cioè ragazzi che cercavano di parlare con i poliziotti chiedendo il perché di tanta foga (“Perché ci picchiate, potremmo essere vostri figli”, dice una giovanissima a un poliziotto), qualche ragazzo che faceva pressione sugli scudi per avanzare e la polizia che colpiva in testa e sul corpo giovani indifesi, alcuni con le mani alzate, altri di spalle. I feriti sono stati una ventina, qualcuno è stato portato via in ambulanza sanguinante, altri erano in stato di shock con traumi alla testa e al corpo. Un video mostra un poliziotto mentre mette le mani al collo a un ragazzo con un altoparlante in mano, che chiede perché stiano picchiando ragazzi di 15 anni. Resta da capire il perché di tanta violenza gratuita su ragazzi che erano nelle piazze per una causa complessa e giusta come quella della sicurezza sul lavoro e la ragione per cui a Milano, Napoli e Torino l’atteggiamento delle forze dell’ordine sia stato così ferocemente compatto. Che fa il governo? Le manifestazioni no-vax vanno avanti da mesi paralizzando città, con cortei che non rispettano percorsi stabiliti e manifestanti facinorosi e insultanti, ma mai le forze dell’ordine sono ricorse ai manganelli. Chissà perché dei semplici studenti che solidarizzavano con un coetaneo morto sul lavoro e al massimo hanno tirato un uovo con della vernice sono stati picchiati a sangue. E chissà perché le (poche e inesatte) ricostruzioni giornalistiche riportano solo la versione della questura, senza tener conto di cosa raccontano i video. E i ragazzi. Quelli che - si dice - hanno pagato il prezzo più alto in questa pandemia e che, a quanto pare, continuano a pagare. Nel frattempo, attendiamo che la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si pronunci sull’accaduto, sperando che non se la prenda comoda come il premier Mario Draghi, quando c’è da rassicurare i cittadini su qualunque cosa. “In Italia ci sono territori in cui il diritto alla vita e alla salute sono seriamente minacciati” di Silvia Perdichizzi L’Espresso, 30 gennaio 2022 Non solo la Terra dei fuochi ma anche il Veneto per i Pfas, Taranto con l’Ilva e Roma con i rifiuti. Marcos Orellana, relatore speciale delle Nazioni Unite, lancia l’allarme. La sentenza di Marcos Orellana è chiara e molto forte: “In Italia ci sono territori in cui il diritto alla vita, alla salute, all’acqua potabile, a un cibo e un ambiente sani sono seriamente minacciati. Sono preoccupato”. Orellana è Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla gestione delle sostanze inquinanti e il loro impatto sulla popolazione. Non pronuncia queste parole a cuor leggero, è reduce da una missione in diverse zone italiane, dal Veneto dei Pfas alla Terra dei Fuochi campana, dall’Ilva di Taranto a Roma. Una perlustrazione mirata alla definizione di una relazione che sarà presentata alla 51° Sessione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite fissata nel settembre di quest’anno. Diritti umani, perché lo scorso ottobre una risoluzione dell’Onu ha sancito come “diritto all’umanità” l’accesso all’ambiente, all’acqua, all’aria puliti. Da qui anche la ridefinizione dell’incarico di Orellana che oggi è “Relatore Speciale delle Nazioni Unite su Sostanze tossiche e Diritti umani”. L’Espresso lo ha incontrato al termine della sua missione in Italia per anticipare quel che le Nazioni Unite stanno preparando per denunciare l’emergenza italiana. Orellana, ha riscontrato violazioni dei diritti umani dopo quasi due settimane di visite e incontri nei siti italiani più inquinati? “Durante la mia visita nei siti contaminati in Veneto, in Campania e in Puglia ho registrato una chiara minaccia alla possibilità di godere dei diritti umani internazionalmente riconosciuti. Molte delle attività altamente inquinanti, figlie dell’era postindustriale, non solo hanno contaminato in passato, ma continuano a farlo adesso generando ancora oggi un numero crescente di casi di malattie e di morti tra la popolazione”. Quando si pensa all’Italia dei rifiuti e delle sostanze tossiche il riferimento immediato è la Terra dei Fuochi. Perché è rimasto così colpito dalla situazione del Veneto? “Sono seriamente preoccupato per l’entità dell’inquinamento dei Pfas, sostanze perfluoroalchiliche, note anche come “prodotti chimici eterni” perché persistono e non si degradano nell’ambiente, in alcune aree del Veneto. Parliamo di 300 mila persone colpite dalla contaminazione della seconda falda acquifera più grande d’Europa. I residenti della zona più esposta hanno sofferto gravi problemi di salute come infertilità, aborti e diversi forme tumorali. È una situazione molto seria e, poiché non esiste una soglia di tolleranza all’esposizione a queste sostanze, invito l’Italia a limitarne l’uso solo ai casi in cui non esistano alternative e a ratificare al più presto la Convenzione di Stoccolma per l’eliminazione dei composti organici persistenti come i Pfas”. La popolazione locale, tuttavia, lamenta una grave carenza di informazioni a livello istituzionale e indica una responsabilità chiara da parte della Miteni di Trissino, considerata la prima fonte dell’inquinamento da Pfas nelle zone di Verona, Vicenza e Padova... “I dirigenti della Miteni erano consapevoli dello scarico di rifiuti e dell’inquinamento conseguente, ma non hanno offerto adeguate misure di protezione ai lavoratori né hanno divulgato informazioni sulla gravità dell’inquinamento da Pfas. Anche le autorità regionali sapevano e hanno taciuto. Alcuni abitanti sono venuti a conoscenza del problema della contaminazione tossica solo nel 2016-2017, quando la Regione ha avviato un piano di sorveglianza sanitaria per la popolazione più esposta. Eppure la Regione era stata informata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nel 2013. Un passo insufficiente perché ad essere monitorata è solo la zona più contaminata con grave rischio per i cittadini delle altre aree colpite”. Altro grande capitolo riguarda la gestione dei rifiuti. Lei ritiene che la situazione a Roma sia di ordinario allarme o si tratti di un fenomeno grave? “La “giustizia ambientale” è strettamente legata alla gestione dei rifiuti. Ci sono Regioni che esportano i rifiuti in altre Regioni o Paesi perché non hanno la capacità di gestirli in maniera adeguata. Spesso i luoghi di importazione sono Paesi poveri che subiscono tutto l’impatto dello smaltimento dei rifiuti che, la maggior parte delle volte, vengono inceneriti in maniera scorretta esponendo la popolazione a sostanze tossiche. Ecco, questo concetto di “ingiustizia” vale anche nell’export dei rifiuti da un Regione all’altra dello stesso Paese, come avviene per la città di Roma. È necessario che la capitale si adoperi per migliorare lo stato delle cose”. Della Terra dei Fuochi si parla da anni: che situazione ha trovato? “In un’area vastissima, che comprende 500 siti contaminati sparsi su 90 comuni del casertano e del napoletano, lo scarico e la combustione di rifiuti pericolosi hanno generato livelli molto alti di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. Ad oggi non è del tutto nota l’entità del problema, che colpisce tre milioni di persone, ma sono ampiamente documentati sia l’aumento della mortalità nelle zone interessate, sia una maggiore vulnerabilità al Covid-19”. C’è una connessione tra la cattiva gestione delle sostanze tossiche e il rischio di contrarre il Covid-19? “Ci sono diversi studi che lo provano. Una maggiore esposizione all’inquinamento rende le persone più suscettibili al Covid-19 e soggetti incolpevoli di una doppia ingiustizia ambientale. Non dobbiamo dimenticare l’origine zoonotica del virus, per cui tanto più l’uomo invade gli spazi naturali, distrugge le foreste e le specie, tanto più il virus entrerà a contatto con l’uomo”. A proposito di inquinamento, lei ha visitato anche la “Puglia dell’Ilva”, impianto classificato come primo emettitore di CO2 in Italia. “Le violazioni commesse in questo territorio a danno dei diritti umani sono molteplici. Parliamo di un aumento dei casi di cancro, di malattie respiratorie, cardiovascolari e neurologiche nonché una riduzione del quoziente intellettivo dei bambini. L’impianto e il suo processo produttivo sono obsoleti e le future attività avranno un impatto inaccettabile sulla salute umana e sull’ambiente. Adesso che lo Stato è comproprietario deve accelerare la bonifica dei siti contaminati e la trasformazione dell’Ilva affinché qualsiasi attività rispetti i livelli di qualità dell’aria previsti dell’Oms”. Lei ha puntato il dito contro i decreti “Salva-Ilva”. Perché? “I decreti, soprattutto il settimo, prevedono l’immunità penale e amministrativa del futuro acquirente dell’impianto, creando una percezione di impunità a vantaggio di potenti interessi economici. Questo è del tutto incompatibile con il principio di uguaglianza”. A proposito di norme, perché ha criticato anche la riforma Cartabia sui reati ambientali? “Mi preoccupa che per abbreviare la durata dei processi siano stati ridotti i tempi di prescrizione per alcuni reati, tra cui quelli ambientali. Si tratta di azioni criminali complesse che richiedono indagini lunghe. Temo che in nome di processi più brevi si possa creare un’impunità per reati che sono tra i più gravi previsti dal codice penale”. La pesca a strascico dell’Europol: milioni di dati biometrici anche su cittadini innocenti di Simone Pieranni L’Espresso, 30 gennaio 2022 Il servizio di intelligence europeo ha accumulato una mole di dati sensibili su migliaia di persone sospettate di terrorismo e anche senza legami con reti criminali. Ora interviene il garante europeo. Il primo allarme era arrivato a giugno del 2021, quando era emerso che l’Europol, il servizio di intelligence dell’Ue, stava raccogliendo dati biometrici dei cittadini europei, senza che vi fosse alcuna correlazione con eventi di natura criminale. Già allora si era parlato di un tentativo da parte dell’Europol di diventare simile alla più nota Nsa americana (National Security Agency), laddove la notorietà dipende in gran parte dalle nefandezze rivelate da Edward Snowden nel 2011 a proposito della sorveglianza di massa attuata su cittadini americani e non solo. Nel 2021 Chloé Berthélémy, consulente politica e responsabile della sorveglianza presso European Digital Rights, una rete europea che difende i diritti e le libertà online, su Euractiv aveva scritto che “l’archiviazione delle comunicazioni sensibili di persone innocenti per mesi o addirittura anni nelle banche dati di Europol aggraverà la reputazione di Europol come agenzia potente ma oscura e irresponsabile”. Nei giorni scorsi il garante della privacy europeo (Edps, European Data Protection Supervisor) ha finalmente ordinato la cancellazione, entro un anno, di tutti i dati archiviati in modo illecito da più di sei mesi su cittadini che non hanno alcun collegamento con un’attività criminale. La decisione ha scoperchiato quanto ha fatto l’Europol in questi anni, rivelando una mole di dati impressionante. A visionarli è stato il Guardian, secondo il quale sarebbero stati conservati circa 4 petabyte di dati, “equivalenti a 3 milioni di CD-Rom o un quinto dell’intero contenuto della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti”. All’interno ci sarebbero dati sensibili su migliaia di persone sospettate di terrorismo e crimini gravi attuali o passati, raccolti dalle polizie nazionali negli ultimi sei anni tra database e inchieste penali. La richiesta di cancellazione dei dati è tanto più importante in vista di nuove decisioni europee circa le attività di Europol e le garanzie di privacy, benché per Chloé Berthélémy, nonostante il passo rilevante compiuto, “sfortunatamente, la riforma di Europol che sarà adottata a breve annullerà tutti questi sforzi come previsto per legalizzare le stesse pratiche che minano la protezione dei dati e i diritti a un processo equo”. Il problema di questa immensa miniera di dati è che tra i sospettati dell’agenzia europea ci è finito chiunque, anche chi non aveva alcun collegamento con reti criminali, dimostrando una pesca a strascico nella raccolta dei dati che finisce per non garantire nessuno. La genesi di questa storia lo dimostra: tutto ha inizio nel 2014 e dipende in gran parte dalla tenacia di un attivista olandese, Frank van der Linde. Secondo la sua ricostruzione, nel 2014, la polizia e l’organo di anti-terrorismo olandese hanno iniziato a indagare su di lui, registrando anche i suoi post su Twitter. Dal 2017 al 2019 hanno aggiunto i suoi dati personali a un elenco di sospetti terroristi e hanno condiviso queste informazioni con Europol e Interpol. Da allora, la polizia ha segnalato le attività di Frank con un codice Cter (Counter Terrorism Extremism and Radicalization). Nell’ottobre 2018, per la prima volta, van der Linde chiede alla polizia di fornirgli le informazioni che avevano memorizzato su di lui. Nel febbraio 2019, le agenzie di polizia, inclusa l’anti-terrorismo, riconoscono l’attivismo di Frank come “non violento” rimuovendolo dalla lista. Ma il suo nome continua a essere presente nelle liste Europol. Van der Linde, per fortuna, si rivolge direttamente a Wojciech Wiewiórowski, che dal 2019 è a capo di Edps. Wiewiórowski prende a cuore il caso: il 30 aprile 2019 Edps, come scritto sul proprio sito, avvia un’indagine di propria iniziativa sul trattamento dei dati da parte di Europol; il 17 settembre 2020 Edps conclude la sua indagine con un ammonimento a Europol “poiché permangono problemi strutturali, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei principi di minimizzazione dei dati”, chiedendo a Europol di attuare “tutte le misure necessarie e appropriate per attenuare i rischi per le persone derivanti da tali attività di trattamento dei dati personali”. Edps all’epoca si era rivolta direttamente a Catherine De Bolle, direttrice esecutiva di Europol, con un documento dal titolo “Edps decision on the own initiative inquiry on Europol’s big data challenge” nel quale chiedeva risposte circa la raccolta dei dati. Senza ottenere risposte. Catherine De Bolle del resto sembra avere una posizione piuttosto chiara al riguardo: nel 2020 sul sito di Europol era apparso un suo articolo dal titolo “How to catch bad guys with the help of data - the right way” nel quale evidenziava l’importanza della privacy, lasciando però intendere che non sempre poteva essere l’unica guida nelle attività di polizia, anzi. E nel luglio del 2021, insieme a Cyrus Vance Jr., procuratore distrettuale della contea di New York, ha chiarito ancora meglio le sue idee, in un appello dal titolo “The last refuge of the criminal: Encrypted smartphones”. In questo testo i due vanno molto oltre il concetto di privacy, “La tecnologia si sta muovendo rapidamente e il suo abuso criminale non fa eccezione. I dispositivi digitali sono sempre più gli strumenti chiave con cui i crimini vengono pianificati e perpetuati; e spesso detengono le prove necessarie per risolvere un crimine. Troppo spesso, però, all’interno di uno smartphone quell’evidenza è inaccessibile”, scagliandosi infine contro i servizi di crittografia. In sostanza si richiede o si auspica la possibilità di utilizzare quei software, come ad esempio Pegasus della israeliana Nso, considerati pericolosi nelle mani degli Stati che possono usarli per sorvegliare anche attivisti e giornalisti. Dopo la decisione dell’Edps la Commissaria europea per gli affari interni europei Ylva Johansson ha affermato a Politico che “il potenziale rischio della decisione, che impone un periodo di conservazione dei dati di sei mesi e ordina a Europol di cancellare i dati su persone senza alcun legame criminale stabilito, è enorme”. L’Europol a sua volta ha risposto con un comunicato nel quale sostiene che la decisione dell’Edps “avrà un impatto sulla capacità di Europol di analizzare set di dati complessi e di grandi dimensioni su richiesta delle forze dell’ordine dell’Ue. Si tratta di dati di proprietà degli Stati membri dell’Ue e dei partner operativi e forniti a Europol in relazione alle indagini sostenute nell’ambito del suo mandato e comprende, tra gli altri, il terrorismo, la criminalità informatica, il traffico internazionale di droga e gli abusi sui minori. Il lavoro di Europol comporta spesso un periodo superiore a sei mesi, così come le indagini di polizia che supporta. Ciò è illustrato da alcuni dei casi più importanti di Europol negli ultimi anni”. Si ripropone dunque l’antico dilemma tra sicurezza e privacy e contemporaneamente la logica che sembra guidare quello che Shoshana Zuboff ha chiamato “capitalismo di sorveglianza”, ovvero la smodata raccolta di dati, elemento che accomuna ormai aziende e Stati. E se si mette giustamente in evidenza l’uso spregiudicato delle grandi corporation e piattaforme nella raccolta dei nostri dati, che spesso forniamo gratuitamente, mettendo a profitto delle aziende la nostra vita privata, si sottolinea meno questa attività da parte di Stati, o più Stati. Con il rischio di finire nelle stesse dinamiche kafkiane dell’attivista olandese. L’Ucraina, la Libia e le altre crisi: riapriamo gli occhi sul mondo di Gianluca Di Feo La Repubblica, 30 gennaio 2022 Mentre l’Italia era paralizzata dalla sciarada di nomi per il Colle, nelle cancellerie di tutto il pianeta si è tornati a pronunciare una parola terribile: guerra. Il mondo non si è fermato. Il gioco sterile dei partiti intorno al Quirinale ha monopolizzato la vita politica e mentre l’Italia era paralizzata dalla sciarada di nomi per il Colle, nelle cancellerie di tutto il pianeta si è tornati a pronunciare una parola terribile: guerra. Nella disattenzione del nostro Paese, la crisi ucraina ha raggiunto un livello di tensione come non si conosceva da decenni. La manovra della Russia, che continua ad accumulare brigate sui confini di Kiev e sfida l’Occidente con la sua flotta su tutti i mari, non riguarda solo il futuro dell’Ucraina. Quella a cui stiamo assistendo è la conclusione di un percorso costruito da Vladimir Putin lungo l’ultimo decennio con un unico obiettivo: riscrivere le mappe disegnate dalla caduta del Muro di Berlino. Mosca guarda più lontano del Donbass e dei territori contesi sulle rive del Mar Nero: vuole mettere in discussione l’ordine mondiale e ottenere il riconoscimento del suo ruolo di potenza imperiale. Come ai tempi dello zar, come ai tempi dell’Unione Sovietica. In questa partita il suo alleato è la Cina, l’altra grande autocrazia che condivide l’interesse russo a tracciare nuove linee di influenza attraverso i continenti. E l’unico antagonista sono gli Stati Uniti, che hanno progressivamente ridotto il loro impegno internazionale. Non pochi analisti ritengono che la crisi ucraina sia figlia della ritirata americana da Kabul: la dimostrazione di un disimpegno globale degli Usa, logorati da un ventennio di lotta contro il jihadismo. In questa prova di forza senza precedenti, il primo re a mostrarsi nudo è l’Unione Europea. Nonostante lo schieramento di un’armata alle sue porte e la minaccia esplicita a tutti i valori che la Ue incarna, non è stata capace di esprimere né una reazione, né una mediazione. Non ha una politica estera, non ha uno strumento militare e non ha neppure dirigenti all’altezza della situazione. La Germania, alle prese con il rodaggio di un governo con tanti colori da ricordare Arlecchino, e la Francia, a pochi mesi dal voto presidenziale, finora non sono riuscite a trovare una parte da protagonista nel dramma ucraino. Questo deprimente quadro europeo offre però un’opportunità unica per il nostro Paese. Come ha scritto Maurizio Molinari, Putin ha più volte indicato in Mario Draghi un referente sostenendo che “l’Italia potrà aiutare a normalizzare i rapporti fra la Russia e l’Unione Europea e perfino fra la Russia e la Nato”. Draghi ha certamente la visione strategica e l’esperienza diplomatica per gestire un canale di trattativa, a patto che dietro di lui ci sia un “sistema Paese” compatto: l’immagine dei nostri imprenditori allineati ad ascoltare le lusinghe di Putin ha dato un duro colpo alla credibilità dell’Italia. Affrontare una crisi richiede - lo ha sottolineato su Repubblica il ministro della Difesa Lorenzo Guerini - determinazione e dialogo, partendo dal ribadire il cardine della nostra politica estera - l’Alleanza Atlantica - per poi dare massimo spazio ai colloqui. Davanti alla minaccia della forza, rituali bizantini e metodi levantini difficilmente ottengono risultati: ci vuole chiarezza negli obiettivi e negli schieramenti. E il tentativo di riscrivere le mappe mondiali non riguarda solo l’Ucraina. Nel Sahel questa settimana i piani europei di stabilizzazione e di lotta al terrorismo islamista sono stati ulteriormente incrinati da un putsch in Burkina Faso e dal braccio di ferro tra i golpisti del Mali e l’Ue. Lì c’è il crocevia delle rotte migratorie e il più violento focolaio di insurrezione jihadista. In Libia le tensioni stanno riprendendo a crescere e condizionano le risorse energetiche più importanti per l’Italia. In Africa colonnelli e signori della guerra preferiscono gli uomini forti: guardano a Putin o a Erdogan, pronti a offrire sostegno armato. Di fronte a queste crisi, a Roma il Palazzo del Potere finora è apparso vuoto. La riconferma di Sergio Mattarella permette di riprendere a guardare avanti e aprire in fretta gli occhi sul mondo. Il confine tra Bielorussia e Polonia: l’Europa negata dietro un filo spinato di Marta Bellingreri L’Espresso, 30 gennaio 2022 Al gelo centinaia di curdi iracheni, tra cui ragazze yazide. Sopravvissuti al genocidio dell’Isis. Rispediti indietro, contro le convenzioni internazionali. Lungo i corridoi di un enorme magazzino, tra le coperte e i materassi disposti a terra uno dietro l’altro, che si elevano anche in verticale, i bambini sembra giochino a nascondino, sbucando ora da dietro una coperta-tenda, ora scendendo da una scala improvvisata verso il pavimento tanto grigio quanto freddo. Il loro posto per riunirsi, giocare e divertirsi sarebbe invece altrove, pochi metri più in là, sulla neve all’esterno del magazzino. Lo stesso spazio dove i loro genitori si mettono in fila per un pasto e dove a giorni alterni si avviano per le docce. Da dietro quei ripari-nascondigli, in realtà i bimbi stanno solo cercando i loro letti, temporaneo rifugio di un viaggio cominciato lontano e non ancora finito. Da qui difficile che, pur correndo a più non posso verso la meta, possano fare un “tana liberi tutti”. Di libero, a Bruzgi, in Bielorussia, d’inverno, non c’è proprio nessuno. Le scaffalature industriali di un ex centro doganale a poche centinaia di metri dal confine col filo spinato che li separa dalla Polonia sono state trasformate in un dormitorio per i richiedenti asilo che sarebbero voluti arrivare dall’Iraq e dalla Siria in Europa. Il dormitorio, però, con i numeri che - 56, 57, 58…- rimangono appesi ad ogni scaffalatura a inizio corridoio, assomiglia allo spazio ritiro merci Ikea o smistamento pacchi Amazon. Se non fosse che al posto delle merci ci sono le persone che l’Europa si ostina a non considerare tali. A Bruzgi, la maggior parte sono cittadini curdi iracheni, un migliaio, e tra loro, dunque, ragazze yazide, sopravvissute al genocidio messo in atto dal gruppo terroristico Isis a partire dall’estate del 2014 contro il loro popolo. Dopo tutti questi anni, anche loro fuggite o sopravvissute e ritornate dalle proprie famiglie, continuano a vivere in campi di sfollati nel nord dell’Iraq, spesso campi informali in condizioni di povertà estrema, dove una di quelle alluvioni sempre più frequenti potrebbe mettere di nuovo a repentaglio la loro vita. O a rischio attacchi con i droni della Turchia, che nell’ultimo anno si sono susseguiti in Iraq. Di nuovo. Dopo l’Isis e le alluvioni e ancora droni, di nuovo, al confine con l’Europa, giovani ragazze e giovani famiglie si ritrovano a tremare per il freddo: per la loro vita. A raccontarlo è Bahia Barakat, una ragazza di quindici anni che ha già la voce di un’adulta. Quando parla il suo tono è serio, irremovibile, come di un destino che ogni volta lei deve trovare la forza di cambiare. Sette anni fa è stata costretta a lasciare la sua terra di origine, il Sinjar, in Iraq, per rimanere sfollata per sette anni nel Kurdistan iracheno. Con lei i genitori e i fratelli, allora dei bambini, attorno a loro migliaia di persone che sparivano o fuggivano. “Anche negli ultimi mesi, dopo ben sette anni, sentiamo il pericolo dell’Isis imminente. Ci sono stati minacce e intrusioni in villaggi vicini anche nel Kurdistan iracheno. Tra il pericolo e l’assoluta assenza di un cambiamento, con la possibilità di migliorare la nostra situazione, abbiamo scelto di partire, correre un altro tipo di pericolo…”. Dal nord dell’Iraq, Bahia e la sua famiglia hanno preso un bus da Zakho, l’ultima città dell’Iraq a confine con Siria e Turchia. Da Zakho a Istanbul dove avrebbero poi preso un volo diretto per Minsk. Era il 29 ottobre: ancora poco e quelle tratte sarebbero state annullate, vietate per siriani e iracheni, potenziali richiedenti asilo in volo. Bahia invece è riuscita ad arrivare a Minsk e, come migliaia di altri siriani e iracheni, è stata portata in uno stesso hotel, che loro chiamano Hotel Blaneta, con una “b” che dovrebbe corrispondere alla “p” di Planeta. Poco importa: dall’hotel in poi la strada è già segnata. Sono numerosissimi i tassisti che li aspettavano all’uscita dell’hotel per portarli al confine con la Polonia. E per facilitare il passaggio, ai soldati bielorussi bastava tagliare un filo spinato e spingerli in Europa. A Bahia e famiglia invece serviva anche una buona dose di fortuna che li avrebbe fatti arrivare a chiedere asilo. E che non hanno avuto. “Dal 16 novembre siamo qua in questo dormitorio. La Polonia ci ha respinto. Possiamo solo sperare che facciano qualcosa per noi”: per non rimanere sospesi, per non essere riportate indietro. Sono centinaia infatti le famiglie curde irachene, e tra loro altre famiglie yazide come quella di Bahia, che con un volo diretto da Minsk sono atterrate a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Un viaggio fallito, dove a fallire è solo il rispetto delle convenzioni internazionali per cui il respingimento dei richiedenti asilo è illegale. Bahia può solo chiedersi come mai tante yazide siano arrivate negli anni passati in Germania, accolte come sopravvissute, e oggi lei non può più mettere piede nella stessa Europa. Nel frattempo nel dormitorio-magazzino, non c’è nessuna assistenza medica. A circondare le persone, o forse meglio a sorvegliarle, ci sono solo soldati dell’esercito bielorusso che in Europa sono conosciuti per altri orrori nella dittatura del presidente Alexander Lukashenko. Era il 9 agosto del 2020 quando alle elezioni presidenziali è stato riconfermato, al settimo mandato dal 1994. Trent’anni fa, al crollo dell’Unione Sovietica, la Bielorussia è diventata una repubblica indipendente e da allora ha conosciuto un unico presidente, Lukashenko. Lo stesso che, in barba all’Europa e forte dell’appoggio non troppo timido del presidente russo Putin, ha diretto da dietro le quinte i viaggi dei rifugiati siriani e iracheni: il passaggio nel cuore del suolo europeo è stato venduto come un pacchetto che comprendeva viaggio, visto turistico e hotel. È lo stesso presidente che all’indomani delle elezioni del 2020 ha represso con violenza e torture le manifestazioni di centinaia di migliaia di bielorussi che osano sperare, anche loro, in un cambiamento. Oggi molti degli attivisti e giornalisti che hanno osato sfidare il dittatore sono dietro le sbarre o fuggiti all’estero. La giornalista e scrittrice Svletana Aleksievi?, premio Nobel per la letteratura 2015, fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale bielorusso, aveva raccontato l’Unione Sovietica e la sua fine, e oggi nella Bielorussia vede il nuovo gulag, un potere cieco che vuole solo mantenersi, senza idee, fine a sé stesso. E mentre le prime pagine di tutti i giornali in Europa parlavano del confine polacco-bielorusso, il primo novembre due organizzazioni per i diritti umani, l’Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct) con sede a Ginevra e il Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (Ecchr) con sede a Berlino, hanno presentato una denuncia in Germania contro sei membri del servizio di sicurezza bielorusso per crimini contro l’umanità. Hanno accusato le autorità di aver effettuato detenzioni di massa, torture, sparizioni, violenze sessuali e persecuzioni politiche. I due gruppi hanno scelto di intentare la loro causa in Germania grazie al suo principio di giurisdizione universale, secondo cui i crimini contro l’umanità che sono stati commessi anche al di fuori del suolo tedesco possono essere perseguiti nelle sue corti nazionali. Per Yasmin, suo marito e sua madre Selma (nomi di fantasia per proteggerne l’identità) il conflitto in Siria è stato minacce e fuga continua. Selma è un’infermiera di Idlib che ha lavorato in un ospedale governativo. Per l’opposizione che è al potere nella sua provincia, il gruppo Jabhat al-Nusra, per anni ramo di al-Qaeda in Siria, il fatto che lei abbia curato i soldati di Assad non andava bene. Da lì, la prima fuga verso la città di Lattakia, sotto il controllo del regime. Come se non bastasse, anche a Lattakia, solo perché proveniva da Idlib la famiglia di Selma era considerata parte dell’opposizione e quindi non ben accetta. Ad Idlib, nel frattempo, i suoi fratelli venivano torturati in risposta alla loro fuga. Selma, con un trapianto di reni e altre gravi patologie, oggi non si può muovere da sotto quella tenda coperta che l’inchioda al magazzino di Buzgi in Bielorussia. “Vivo con il terrore che mia madre possa morire e non rivedere mai più i suoi figli, ovvero i miei fratelli in Germania che pure hanno cercato di aiutarci. Ma noi non possiamo andare neanche in un’ambasciata a Minsk, se usciamo dal campo non possiamo più farvi ritorno”, racconta in lacrime Yasmin, che insieme alla mamma e al marito è una delle poche persone che indossa perennemente la mascherina per la paura che hanno delle condizioni di salute di Selma. “Il nostro visto in Bielorussia è scaduto, non possiamo avanzare né arretrare. Sono distrutta psicologicamente e abbiamo bisogno di supporto. Mia madre ha bisogno di medicine, insieme abbiamo bisogno di stare in un luogo sicuro”. Il termometro resta fisso sotto lo zero. Un lungo inverno deve ancora passare per Yasmin, Selma e per altre migliaia di persone. Forse ciò che viene dato loro, il tè e biscotti, i noodles a pranzo, e poco altro la sera, non basterà a sostenerli. Finora li ha sostenuti solo il loro coraggio di reclamare il diritto d’asilo, il diritto a una vita migliore. Etiopia. Cinquemila morti per fame in Tigrai in 3 mesi di aiuti umanitari negati di Paolo Lambruschi Avvenire, 30 gennaio 2022 Lo denuncia un rapporto della regione che si oppone ad Addis Abeba da 15 mesi. Mercoledì primo volo della Croce Rossa dopo il blocco imposto dal governo. L’Onu: “Il 40% è senza cibo”. Almeno 5.000 persone sono morte per malnutrizione e mancanza di cure nel Tigrai da luglio a ottobre 2021. Tra di loro più di 350 bambini piccoli. Lo afferma un nuovo rapporto dell’ufficio sanitario della regione autonoma settentrionale etiope, in guerra con Addis Abeba dal 4 novembre 2020, che riporta le valutazioni delle autorità sanitarie locali in collaborazione con alcuni gruppi umanitari internazionali. Una stima parziale che, per i limiti agli spostamenti dovuti alle occupazioni e ai combattimenti, descrive il dramma solo del 40% del territorio. Il blocco degli aiuti umanitari imposto dal governo federale, ufficialmente per timore che cadessero in mano alle forze di difesa tigrine, ha prodotto una catastrofe umanitaria, come denunciato più volte ad Avvenire dai medici dell’ospedale del capoluogo Macallé e dalla diocesi di Adigrat. Un medico dell’Ayder ha confessato alla Bbc che i sanitari sono costretti ad elemosinare cibo perché sono senza paga da 8 mesi e al posto delle garze utilizzano strisce di abiti. Secondo l’Onu, meno del 15% dei rifornimenti necessari è entrato nel Tigrai da luglio e gli aiuti sono ai livelli più bassi da marzo, mentre quasi il 40% degli abitanti è vittima di “un’estrema mancanza di cibo”. Mercoledì 26 gennaio per la prima volta dallo scorso settembre un cargo della Croce Rossa è riuscito ad atterrare a Macallé per consegnare “medicinali essenziali”. Intanto proseguono i bombardamenti indiscriminati contro i civili con i droni di Addis Abeba che hanno ribaltato l’esito del conflitto. Il premier Abiy Ahmed ha appena sospeso in anticipo lo stato di emergenza dichiarato ai primi di novembre che ha provocato ondate di arresti arbitrari di tigrini, religiosi compresi, e ha dichiarato una settimana fa ad alcuni esponenti della diaspora etiope che l’inizio dei colloqui di pace è “imminente”. Ma il Tplf, partito guida del Tigrai che ha governato per quasi 30 anni l’Etiopia, ha annunciato il 25 gennaio la ripresa di “robuste” operazioni militari nella vicina regione degli Afar contro le forze filogovernative che bloccano gli aiuti. Oltre a due milioni di sfollati interni e a un numero imprecisato di vittime civili, la guerra civile dimenticata nasconde altre due emergenze umanitarie. La prima, quella dei 25 mila eritrei nei campi profughi del Tigrai, è stata denunciata dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati sottolineando il deterioramento delle condizioni a Mai Aini e Adi Harush attaccati di recente dai droni federali. La scarsità di cibo e l’assenza di medicine hanno provocato più di 20 vittime nelle ultime sei settimane. Inoltre, privi d’acqua potabile, i rifugiati si stanno dissetando ai ruscelli con ulteriori rischi sanitari. Ma nell’inferno del Tigrai, come lo ha definito il tigrino più famoso, il direttore dell’Oms Tedros, il dramma più celato è quello della minoranza degli Irob, popolazione senza voce del nordest, a cavallo tra Eritrea e Tigrai. Per la prima volta dalla pace del 2018, le famiglie sono state divise dall’occupazione delle truppe di Asmara. Metà del distretto degli Irob tigrini, quasi tutti cristiani, è stato invaso all’inizio del conflitto dall’esercito eritreo nella parte montuosa, con le città di Aiga, Woratle, Awda. Gli eritrei hanno creato una zona di nessuno per separare l’area dal distretto controllato dalle autorità tigrine e imposto regole ferree. Agli Irob è proibito varcare il confine fissato dagli eritrei, comunicare con i parenti, persino andare al mercato. Per acquistare viveri devono recarsi in Eritrea che, però, non accetta valuta etiope. Un’invasione accettata da Addis Abeba, ma gli Irob si sentono etiopi. Secondo la Società globale degli studiosi del Tigrai la minoranza rischia l’estinzione. Gli aiuti non arrivano da nove mesi e 72 civili sono stati uccisi a sangue freddo dai soldati asmarini nelle feste del Natale ortodosso dell’anno scorso. Erano quasi tutti giovani, alle famiglie è stato vietato per giorni di seppellirli. Altre 97 persone sono letteralmente sparite. La popolazione isolata in questi mesi di occupazione ha subito stupri, abusi, violenze, detenzioni illegali. Solo chi può pagare tangenti ai soldati è al sicuro, gli altri possono solo provare a sopravvivere. Bloody Sunday: una ferita lunga 50 anni di Caterina Soffici La Stampa, 30 gennaio 2022 La guerra civile in Irlanda del Nord. Oggi l’anniversario più amaro, la “Domenica di sangue”: un massacro senza giustizia. E la Brexit soffia sul fuoco. Bloody Sunday: anche il 30 gennaio 1972 era una domenica, la “domenica di sangue” in cui l’esercito britannico sparò sulla folla durante una manifestazione a Derry facendo 14 morti. Esattamente cinquant’anni fa, che sono tanti ma sembra ieri. E siamo ancora qui a canticchiare le parole degli U2, così attuali, non solo in Irlanda del Nord ma in tutti i luoghi del mondo dove il potere impugna le armi per chiudere la bocca ai cittadini, per imporre la sua legge contro chi scende in piazza per chiedere il rispetto dei propri diritti. “Sunday Bloody Sunday” cantava Bono e i versi di quella canzone erano di denuncia per quanto accaduto (“bottiglie rotte sotto i piedi di bambini / corpi sparsi sulle strade della morte”) ma anche un messaggio di pace, speranza e fratellanza (“non darò retta alla voce della battaglia /per quanto tempo ancora dovremo cantare questa canzone / perché stasera, possiamo essere una cosa sola, stanotte”). La pace adesso c’è, almeno sulla carta. Ma Brexit ha acceso di nuovo i riflettori sull’Irlanda del Nord, l’eterna spina nel fianco dei governi di Londra, che fatica sempre più a tenere insieme le spinte centrifughe di un regno sempre più disunito. E chissà come andrà a finire, perché l’odio brucia ancora sotto la cenere e ogni tanto basta una scintilla a far scoppiare di nuovo la violenza tra unionisti e indipendentisti, tra inglesi e irlandesi, tra protestanti e cattolici. Già, per quanto tempo ancora dovremo cantare questa canzone? Quella domenica di cinquant’anni fa i soldati del Primo Battaglione del Reggimento Paracadutisti dell’esercito britannico furono mandati a disperdere la folla riunita a Derry, in Irlanda del Nord, quartiere di Bogside, in una manifestazione di protesta contro una legge speciale emanata del governo irlandese unionista che permetteva di arrestare gli oppositori senza processo e a tempo indefinito. Erano i primi anni dei Troubles, era una legge speciale contro l’Ira, era una violazione dello stato di diritto e dei diritti elementari della giustizia: il giusto processo e la giusta carcerazione. Dovevano solo disperdere la marcia di protesta, ma improvvisamente i soldati iniziarono a sparare sulla folla e fu un massacro. Spararono ad altezza d’uomo, per uccidere. Alcuni furono colpiti alla schiena a distanza ravvicinata mentre tentavano di scappare, altri mentre prestavano soccorso ai feriti, altri travolti dai mezzi blindati. Quella maledetta domenica di sangue rimasero uccise 13 persone - tutti cattolici - e un’altra morì dopo quattro mesi di agonia in ospedale: 14 morti in totale. Una mattanza non degna di un Paese civile, di una grande democrazia. E ancora più indegno fu quello che accadde dopo: il governo di Londra (il primo ministro era Edward Heath) cercò di insabbiare l’indagine con una inchiesta affidata al giudice Widgery, che assolse i soldati sostenendo la loro tesi che la marcia non era pacifica e che i manifestanti erano armati e avevano bombe. Solo ventidue anni dopo, nel 1998, l’allora premier Tony Blair decise di istituire una nuova inchiesta (presieduta da Lord Saville) e ci vollero altri dodici anni e 200 milioni di sterline per arrivare alla verità, contenuta in un rapporto di 5 mila pagine e presentato nel 2010: i manifestanti non erano armati, i soldati avevano sparato per primi e neppure per rispondere a provocazioni. Solo un ragazzino forse aveva una bomba carta, non certo una reale minaccia. In seguito alla pubblicazione del rapporto il premier dell’epoca David Cameron fu costretto a scusarsi pubblicamente con i familiari per il comportamento del governo britannico. “Un attacco ingiustificato e ingiustificabile” disse di fronte a una nazione sbigottita. Anche se nessuno ha mai ufficialmente ammesso che fu proprio quel massacro ingiustificato e ingiustificabile a scatenare la reazione violenta dell’Ira nel ventennio seguente. E anche se nessuno ha mai pagato per quanto è successo: un soldato fu indagato per omicidio, ma dopo due anni è stato prosciolto per insufficienza di prove. Sunday Bloody Sunday cantavano gli U2, ed era il 1983 e la canzone schizzò in vetta alla classifica inglese, sbaragliando addirittura Thriller di Michael Jackson. L’immaginario collettivo non ha bisogno delle verità ufficiali e quella canzone era un grido di denuncia contro la violenza. E già Paul Mc Cartney aveva cantato per i morti di Bogside (e censurato dalla Bbc) e anche John Lennon. Perché le canzoni hanno questo potere, di parlare direttamente al cuore della gente. Come le foto che diventano icone, indelebili come il sangue sul fazzoletto bianco sventolato dal prete cattolico Edward Daly che scortava il trasporto di un ragazzo ferito. Si chiamava Jackie Duddy, aveva appena 17 anni e morì poco dopo. La foto del fazzoletto macchiato di sangue e di quel prete parlano più di tutte le inchieste e delle polemiche e ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, fanno venire i brividi.