Le proposte per rinnovare le carceri italiane di Gabriele Cruciata huffingtonpost.it, 2 gennaio 2022 Sono finiti i lavori della Commissione creata dal ministero della Giustizia per migliorare la vita dentro le prigioni. Individuate 35 azioni da avviare subito e alcune idee per riformare la legge, organizzate in focus tematici. I principi ispiratori sono umanizzazione e rieducazione. Caldeggiata anche una riforma della formazione del personale di polizia penitenziaria. Il 22 dicembre la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario ha consegnato alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, la relazione finale del proprio lavoro. La Commissione era stata istituita nel settembre del 2021 con l’obiettivo di elaborare delle proposte concrete per migliorare la qualità di vita all’interno delle carceri italiane. Il gruppo di lavoro - composto tra gli altri anche dai provveditori regionali Carmelo Cantone e Pietro Buffa, dallo psichiatra Giuseppe Nese e dal magistrato di sorveglianza Fabio Gianfilippi - è stato presieduto da Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre. La relazione presentata dalla Commissione si articola in 35 azioni amministrative, attuabili fin da subito tramite circolari o direttive, accanto alle quali ci sono anche 8 linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e puntuali indicazioni di modifiche da apportare, principalmente, alla legge penitenziaria del 1975 e al regolamento del 2000. I problemi delle carceri - La vita quotidiana nelle carceri presenta diverse difficoltà. Il 28% dei detenuti è tossicodipendente, circa un terzo è in carcere in attesa di giudizio (cioè senza una condanna definitiva) e le attività culturali e lavorative sono ridotte all’osso. Nell’aprile del 2021 un report del Consiglio d’Europa ha svelato che le carceri italiane sono le più sovraffollate dell’Unione europea, con una presenza media di più di 120 persone ogni 100 posti disponibili. Ancor prima, nel febbraio 2020, un’ispezione condotta dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti e delle punizioni inumane o degradanti aveva messo in luce non solo il problema del sovraffollamento, ma anche quello dell’escalation di episodi di violenza, nonché di carenze strutturali degli edifici. Tutto ciò succede nonostante le poche carceri-modello in Italia, su tutte Bollate a Milano, abbiano dimostrato che una qualità migliore della vita in carcere determini una minor possibilità che i detenuti tornino a delinquere alla fine della pena. I lavori della Commissione - “Gli interventi che proponiamo sono rivolti a garantire i principi di umanizzazione e di rieducazione, nonché il rispetto degli standard internazionali in tema di detenzione”, ha spiegato ad upday il presidente della Commissione Marco Ruotolo. “Le proposte si muovono su un doppio binario: da un lato le 35 azioni amministrative individuate come priorità e le puntuali revisioni del regolamento, dall’altro la rimozione di alcuni ‘ostacoli’ presenti nella legge sull’ordinamento penitenziario, che incidono sulla quotidianità dell’esecuzione della pena”. La Commissione ha proposto, in particolare, un aggiornamento del regolamento che investe diversi punti, dallo spazio a disposizione nelle celle alla partecipazione del terzo settore nella determinazione dei programmi di trattamento, dalla disciplina dell’assistenza sanitaria a quella dei colloqui a distanza. “Uno dei punti fondamentali - ha spiegato Ruotolo - è proprio quello di far somigliare la vita in carcere quanto più possibile a quella libera, come suggerito anche dall’Europa”. Qualora il governo fosse d’accordo con queste proposte, basterebbe modificare e aggiornare il regolamento in Consiglio dei ministri. Gli altri interventi avrebbero invece bisogno di più tempo. Si tratterebbe infatti di modificare la legge del 1975 che regola il carcere italiano. Secondo Ruotolo, “molti degli interventi suggeriti mirano alla semplificazione della gestione del sistema. Abbiamo ad esempio proposto che i singoli regolamenti d’istituto siano approvati dai Provveditorati regionali e non più dal ministro”. I focus tematici su cui si basa la proposta di riforma - Le proposte della Commissione sono state organizzate in sei focus tematici: gestione dell’ordine e della sicurezza; impiego delle tecnologie; salute; lavoro e formazione professionale; tutela dei diritti; formazione del personale. Mentre sul fronte dell’ordine e della sicurezza ci si è concentrati in particolare su misure per prevenire l’ingresso di droghe, telefoni o altri oggetti vietati, sul tema della tecnologia la Commissione ha proposto di mettere a sistema l’utilizzo delle videochiamate, introdotto durante la pandemia. Secondo Ruotolo, “con i dovuti accorgimenti sarebbe possibile l’utilizzo da parte dei reclusi di telefoni cellulari, configurati in maniera idonea e funzionale, ossia senza scheda e con possibilità di chiamare solo i numeri autorizzati”. Particolare attenzione è stata dedicata allo sviluppo del lavoro professionalizzante, fuori e dentro il carcere, e all’accesso alle cure, soprattutto per chi è tossicodipendente o affetto da disturbi psichiatrici. Uno dei focus principali è stato quello relativo alla formazione del personale. Secondo Ruotolo “sarebbe bene favorire una migliore selezione in sede di assunzione e una compiuta formazione in ingresso e in itinere (cioè svolta mentre si è già in servizio effettivo, ndr)”. “L’innovazione del sistema - ha concluso Ruotolo - potrà pienamente realizzarsi solo con il contributo degli operatori dell’esecuzione penale, proprio in quanto adeguatamente selezionati e formati”. Il segretario generale del sindacato Uil-Pa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, ha commentato dicendo che “oggi gli agenti penitenziari sono pochi e hanno scarse opportunità di formazione. Mancano 18mila unità e quelle che ci sono lavorano sotto pressione e con formazione in itinere approssimativa e insufficiente”. Secondo De Fazio è corretto intervenire sul reclutamento: “Va superato il meccanismo per cui vengono riservati dei posti a chi ha svolto il servizio militare volontario, perché queste persone non hanno una formazione adeguata per lavorare dentro al carcere”. De Fazio ha concluso dicendo che “chi lavora nella polizia penitenziaria capisce fin da subito che le regole nel carcere sono diverse da quelle scritte, e che la stessa amministrazione spesso contravviene alle regole imposte da essa stessa”. Occorre dunque “una riforma seria che vada a favore di chi vive il carcere, che sia detenuto o agente”. Il direttore delle carceri Petralia: “A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere” di Liana Milella La Repubblica, 2 gennaio 2022 “Gli agenti picchiatori hanno tradito la divisa. La prigione cambierebbe se tutti lavorassero”. Il direttore delle carceri italiane, Bernardo Petralia, per tutti Dino, fino al maggio 2020 magistrato antimafia, dà a Repubblica la sua prima intervista. E svela dettagli su una nuova realtà, quella del lavoro. Anche nel 2021 il pianeta carcere è finito sui giornali per il sovraffollamento, per il Covid, per i maltrattamenti, per i mafiosi che vogliono liberarsi dal 41bis. E invece ecco una novità, 15.827 detenuti, cioè il 30% dei 54mila presenti, lavora. E riesce anche a cambiare vita. È solo un dato del Cnel? “È un dato confortante. E ci spinge a premere proprio su questo tasto. Le prospettive di incremento lavorativo sono tante, direi tantissime. Insieme alla Ministra Cartabia, stiamo sperimentando anche ipotesi innovative, e se la pandemia rallenta la sua morsa, ne sentiremo presto parlare. Questo da Nord a Sud. Fermo il discorso che se si riuscisse a far lavorare tutti i detenuti, a quel punto i problemi della realtà penitenziaria ne risentirebbero in positivo”. Addirittura 54mila persone potrebbero lavorare tutte? “Tra queste bisogna distinguere tra i detenuti definitivi e quelli ancora sotto giudizio. Il lavoro appartiene a tutti, ma il risultato più intenso lo si ha con chi è definitivo, anche se non mancano molti esempi di lavoranti giudicabili”. Le esperienze di lavoro sono moltissime. Solo isole di pregio oppure un carcere che davvero sta cambiando faccia? “I lavori sono di tanti tipi, e alcuni di vera eccellenza. Anche io ne voglio citare alcuni, di cui ho cognizione diretta. La digitalizzazione dei processi più importanti della Repubblica. Il processo Moro è in corso, si sta per iniziare il più voluminoso di tutti i tempi, quello di Ustica, e poi il processo Gelli, per i quali sono state già bandite le gare per il tutor e l’acquisto degli scanner”. E dove succede tutto questo? “A Rebibbia. Lo stesso carcere in cui una decina e più di detenuti fanno un lavoro di alta specializzazione e umanità. Gestiscono il call center dell’ospedale Bambin Gesù di Roma”. In concreto cosa fanno? “Io stesso ho visitato la sala dove lavorano questi “telefonisti” che rispondono alle chiamate continue e pressanti di tutta l’utenza, fatta soprattutto di genitori e di parenti. Lavorano esattamente come si fa nel centralino di un ospedale, ma alcuni detenuti, con il permesso per il lavoro esterno, svolgono questo servizio dentro il Bambin Gesù. Ma c’è molto di più…”. Si riferisce ad altri lavori utili per la collettività? “Le cito tre casi particolarmente significativi. La rigenerazione di modem della Linkem che escono come nuovi dal carcere di Lecce e da Rebibbia femminile. Posso rivelare che i manager dell’azienda mi hanno confessato che questa manodopera è di gran lunga superiore a quella esterna. Poi la bonifica del parco Rogoredo di Milano. E la pulizia dei giardini e delle coste dell’isola di Favignana”. Lei ha fama di essere un capo Dap che non sta chiuso a largo Luigi Daga. Che cosa l’ha colpita di più? “In questa funzione ho imparato molto dai sindacati, dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma, e dalle associazioni. Ma voglio citare esperienze che mi hanno lasciato il segno. Talvolta, quando giro le sezioni degli istituti, mi sento chiamare per nome e cognome, e mi rendo conto di come il rapporto di distacco vissuto da magistrato si sia trasformato in qualcosa di più umano”. Lei quanto gira nelle carceri? “A volte visito anche due istituti a settimana, ed è colpa del Covid se il mio giro non è ancora completo. Ma tenga conto che in istituti problematici sono tornato più volte per verificare se quello che non andava è stato messo a posto secondo le indicazioni date”. Come possono coesistere le realtà del lavoro con i pochi metri di una cella? Non è una contraddizione? “Di certo non è l’unica. E mi riferisco a quando, girando per le sezioni e parlando con i detenuti, scopro che anche in quei pochi metri quadri talvolta manca l’acqua calda, o non funzionano gli scarichi. Questa è la ragione per cui torno anche più volte, e pure a sorpresa. Lavoriamo tutti per cercare di ridurre il più possibile queste contraddizioni e rendere le migliori possibili le condizioni di vita in un istituto. A beneficio di tutti. Devo dire che mi colpisce sempre però l’ordine quasi maniacale che vedo nei pochi metri delle celle. Per non parlare delle camere delle donne, colorate e ricche di ninnoli e di ricordi”. Lei parla di donne, e che mi dice dei bimbi in carcere con le loro mamme? Diamo loro una speranza. Il 2022 sarà l’anno giusto per farli “evadere”? “Il nido di Rebibbia è vuoto e allo stato abbiamo in totale negli istituti 16 donne e 18 bambini piccoli, ma - come dice la ministra Cartabia che si sta adoperando molto per questo doloroso problema - “anche un solo bimbo in carcere è troppo”. Allora, da capo del Dap dico ai miei colleghi magistrati e al Parlamento che questa drammatica questione va risolta con il contributo di tutti”. Il Covid. I vostri dati parlano di circa 500 detenuti positivi su 54mila e di 600 agenti su 37mila. È il segno di una battaglia che non si riesce a vincere? In carcere sta entrando Omicron? “Quest’ennesima ondata, purtroppo, colpisce pure le carceri, dove abbiamo però anche percentuali altissime di vaccinazione: al momento sono oltre 95mila le dosi somministrate. Possiamo dire che grazie ai protocolli con le singole Asl e al pressing continuo che facciamo sulle Regioni le misure di prevenzione al momento ci danno una statistica fatta di pochissimi sintomatici e qualche ricoverato, poiché tutti gli altri sono asintomatici”. Una situazione sotto controllo? “In questo momento posso rispondere di sì. E abbiamo allertato i provveditori perché tramite le autorità sanitarie locali vengano costituiti degli open day, nei quali sia possibile procedere a una libera e continua vaccinazione di detenuti e personale. Stiamo verificando inoltre la possibilità di fare avere negli istituti mascherine Ffp2”. Il 2021 si chiude e la notizia più drammatica sul carcere è stata quella dei detenuti picchiati a freddo a Santa Maria Capua Vetere e degli agenti violenti arrestati. Com’è stato possibile? “Quello che io chiamo un tradimento della divisa si è scoperto grazie alla scrupolosa attività di un magistrato di sorveglianza. Da quella vicenda è scaturito un rigore estremo da parte nostra, anche per scongiurare il rischio di un trascinamento in questa vergogna dell’intero corpo della Polizia penitenziaria che invece dà continui segni di essere sano”. Draghi e Cartabia, quando hanno visitato quel carcere il 14 luglio, hanno detto: “Non c’è giustizia dove c’è abuso”. Se lei fosse un detenuto dormirebbe tranquillo in una patria galera dov’è potuto accadere un fatto del genere? “Quella visita è stata un momento estremamente importante: la presenza del Governo ai massimi livelli ha trasmesso un messaggio fortissimo di vicinanza all’intero sistema penitenziario e ai suoi infiniti bisogni. La verità è che in nessun istituto si dorme tranquilli. Non dimentichiamo mai che sono luoghi di prigionia. E uso volutamente questo antico termine che fa comprendere come in quei luoghi si venga tristemente privati del bene prezioso della libertà. Quando vinsi il concorso in magistratura, mio suocero penalista mi disse che per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere. Adesso capisco fino in fondo quelle parole”. Lei, e il suo vice Roberto Tartaglia, siete arrivati al Dap dopo le rivolte del marzo 2020. Il carcere di Modena distrutto. E nove morti dentro. Tredici in tutto nei penitenziari italiani. Da magistrati antimafia avete capito se dietro c’era la regia delle cosche? “Da allora a oggi non abbiamo avuto segnali di un coordinamento unico delle mafie. Ma ovviamente questa è una domanda che dovrebbe rivolgere a chi indaga”. “Da gennaio mi dedicherò al carcere” dice la ministra Cartabia al costituzionalista Marco Ruotolo che le ha appena consegnato una corposa proposta per innovare il sistema penitenziario. Mi dica i tre interventi che lei farebbe subito... “Rafforzare la salute in carcere, anche attraverso l’estensione a tappeto della telemedicina, anche se non è nostra diretta competenza; aumentare in modo significativo l’organico della polizia penitenziaria e degli educatori, cosa a cui abbiamo cominciato a lavorare da subito con la ministra. Rendere gli istituti più accoglienti e moderni con un aumento significativo degli spazi per il trattamento. Per garantire questo obiettivo quest’anno, per la prima volta con una cifra così importante, sono stati destinati 20 milioni di euro, cioè il 30% del budget a disposizione del Dap, per gli spazi trattamentali”. Carceri, il 2022 inizia con un suicidio e un’evasione di Davide Varì Il Dubbio, 2 gennaio 2022 Il 2022 è iniziato in modo drammatico per il mondo delle carceri italiane. Dopo gli oltre 50 suicidi del 2021 c’è stato un primo suicidio nella Casa Circondariale di Salerno e un’evasione in quella di Vercelli. Le notizie sono state diffuse da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Se chi ben incomincia è a metà dell’opera, avremmo davvero voluto iniziare in altro modo questo 2022 che non commentando un’ennesima evasione e un nuovo suicidio nelle nostre carceri. E invece il nuovo anno inizia così come si è chiuso il precedente, non dissimile da quello ancora antecedente e così via”, dichiara De Fazio. Il segretario della Uil_Pa Polizia Penitenziaria punta l’indice sul sistema penitenziario: “L’evasione di un detenuto dal carcere di Vercelli della scorsa notte, avvenuta per quanto si apprende nel più classico dei modi, con il taglio delle sbarre della finestra della cella (perché di celle e non di altro si tratta), unitamente al suicidio di Salerno, segna l’ulteriore conferma del totale fallimento nel perseguimento della sua mission del sistema penitenziario, ma anche - riteniamo - dell’intero apparato d’esecuzione penale”. De Fazio poi rincara: “Due evasioni si potrebbe dire, una dal penitenziario e un’altra, molto più tragica, dalla stessa vita di chi evidentemente non ha retto alle brutture di un carcere che non solo non assolve alle funzioni dettate dalla Carta costituzionale, ma che - al di là di quello che è ormai molto vicino a mostrarsi come becero chiacchiericcio di politici e governanti - non è neanche lontanamente nelle condizioni di poterlo fare. Come si possono immaginare e conciliare trattamento, rieducazione e sicurezza in assenza di provveditori regionali, di direttori di carcere, di comandanti della Polizia penitenziaria, con carenze organiche di migliaia di unità in tutte le figure professionali e che raggiungono le 18mila nel Corpo di polizia penitenziaria? Noi pensiamo che non sia neppure utopia, perché a quest’ultima comunque si può credere (serve a far camminare l’uomo, sosteneva Eduardo Galeano). In verità, abbiamo il forte sospetto che nessuno o quasi possa realmente pensare che l’attuale sistema carcerario sia in grado di puntare a realizzare ciò che la Costituzione vorrebbe”. La disamina della situazione fatta dal segretario della Uil-pa Polizia penitenziaria è molto dura: “E, se possibile, ciò che ancor di più preoccupa in un quadro già di per sé desolante, è la circostanza che non si intravedono reali prospettive evolutive, se non improbabili palliativi. Non riforme complessive e unitarie, ma al massimo qualche toppa destinata probabilmente ad aprire nuove falle, come per esempio quelle ipotizzate dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presieduta dal professor Ruotolo e voluta dalla Ministra Cartabia; non assunzioni straordinarie, se si pensa che la legge di bilancio appena varata dal Parlamento, a fronte di 18mila carenze nella Polizia penitenziaria, ha previsto un fondo utile per circa 44 (dicesi quarantaquattro!) assunzioni aggiuntive nel 2022 da ripartire fra tutte le forze di polizia e i vigili del fuoco e, complessivamente, circa 2.300 in undici anni: in media 42 all’anno fino al 2032 per ogni Corpo”. E Gennarino Di Fazio continua: “Anche noi, pertanto, e ce ne rendiamo conto, apriamo questo 2022 come avevamo chiuso il 2021 e chiediamo nuovamente alla Ministra della Giustizia Cartabia e al Presidente del Consiglio Draghi di dare un senso di coerenza alle loro rispettive dichiarazioni concernenti la necessità di migliorare le condizioni del sistema carcerario e di aprire immediatamente un confronto organico che consenta da un lato di adottare misure immediate ed emergenziali, dall’altro di attuare riforme strutturali non più rinviabili. Non sarebbero più credibili se, magari a breve, qualcuno di loro ripetesse le stesse parole da altri e più importanti scranni”. Panettoni, vino e mascherine: l’altra faccia delle carceri italiane di Liana Milella La Repubblica, 2 gennaio 2022 La ministra Cartabia: “Occasione di reinserimento”. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Petralia: “Se tutti lavorassero sarebbe un’altra cosa”. Per il New York Times uno dei dieci panettoni più buoni al mondo viene prodotto… nel carcere di Padova. E in quello di Trani c’è il “tarallificio” della Cooperativa Campo dei Miracoli che oramai è entrata nella grande distribuzione alimentare. All’Ucciardone di Palermo - lo storico carcere che ha visto sfilare i più famosi boss di Cosa nostra - i detenuti adesso imparano a fare i pizzaioli. A Sant’Angelo dei Lombardi, in quel di Avellino, nel penitenziario ricostruito dopo il terremoto del 1980, si digitalizzano i documenti. Rebibbia va citata per i prodotti di sartoria, nonché per una pensione per cani. E a Sollicciano ecco la cooperativa Ulisse che mette in vendita le biciclette recuperate e riparate dai detenuti. Ma c’è anche dell’altro - come racconta a Repubblica Dino Petralia, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - perché recuperare i detenuti, e far precipitare gli indicatori della recidiva, “contribuisce a rendere la società più sicura”. A San Vittore, sempre a Milano, i detenuti cuciono i turbanti per le donne malate di tumore. Mentre a Santa Maria Capua Vetere si producono mascherine anti covid, proprio quelle che hanno indossato il premier Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia quando - era il 14 luglio - hanno visitato l’istituto di pena dopo gli arresti degli agenti per via delle violenze contro detenuti inermi. Se questi sono i casi - ma vedremo che ce ne sono anche molti altri - sono le cifre a fare notizia. E in particolare il fatto che, per la prima volta, il rapporto del Cnel sul lavoro, reso pubblico prima di Natale, dedica un lungo capitolo proprio alle attività in carcere e diffonde un dato su cui riflettere. Oggi i detenuti che lavorano sono 15.827. “Su una popolazione carceraria di 54mila questa cifra è pari al 30% dei presenti” sottolinea il rapporto. Una cifra decisamente ragguardevole. A cui va aggiunto un altro dettaglio citato dal Cnel: “I detenuti assunti alle dipendenze di datori di lavoro esterni sono 2.130, di cui 937 prestano la loro attività all’interno del carcere, i restanti lavorano all’esterno e rientrano la sera”. Una realtà numerica che fa dire a Petralia. “Se tutti lavorassero, il carcere sarebbe un’altra cosa”. E i dati rivelano che le attività sono già tante: a oggi, nei 189 istituti penitenziari italiani sono state avviate complessivamente 194 iniziative per lavori di pubblica utilità, dalla cura del verde e del decoro urbano, ad attività di manutenzione e ristrutturazione, alla produzione di mascherine, 275 per lavorazioni varie, 246 per corsi scolastici (dall’alfabetizzazione di primo e secondo livello, agli studi universitari, alla scuola alberghiera, all’informatica) e 151 per attività culturali (tra laboratori di teatro, giornalismo, musica e canto, fotografia, pittura). Come hanno scritto su Repubblica, in un’importante inchiesta sul carcere durata un anno, i colleghi Massimo Razzi e Gabriele Cruciata, il lavoro può essere un’importante via d’uscita da una vita di devianza. E le storie ci sono. E sono tantissime. Meriterebbero di essere raccontate una per una. Rappresentano “l’altra faccia” della detenzione cattiva e fine a se stessa, vissuta solo come pena, senza né ravvedimento, né futuro. Solo carcere per sempre, e basta. Ma non è certo in questo tipo di carcere che crede la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Che, giusto prima di Natale, ha ricevuto dal costituzionalista esperto di “patrie galere” Marco Ruotolo, il progetto per cambiare le regole. “La pena, quale che sia la forma dell’espiazione, deve tendere a restaurare e a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato” scrive Ruotolo. E adesso la ministra Cartabia dice a Repubblica: “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità. L’ho già detto ai membri della Commissione sull’innovazione penitenziaria. Anzitutto dovrò valutare le loro proposte e poi elaborare con il Dap un piano di azione da proporre su tutto il territorio”. Quali emergenze vuole sanare Cartabia? Eccole: “Il carcere ha sterminati bisogni: il mio obiettivo è introdurre cambiamenti molto concreti, che incidano anzitutto a livello amministrativo per migliorare la vita quotidiana di chi vive e lavora in carcere. La tecnologia può aiutare a trovare risposte ai molti bisogni della vita che si svolge “dietro le mura”: dalle possibilità offerte dalla video-sorveglianza alla telemedicina, dalla prenotazione e svolgimento dei colloqui alla tenuta dei documenti dei detenuti. E molto altro”. Sì, ma il lavoro in carcere quanto conta? Risponde Cartabia: “Tutte le innovazioni possono diventare anche occasioni di lavoro per i detenuti, un fattore essenziale perché il carcere possa davvero assolvere alla funzione di rieducazione e reinserimento, come esige la Costituzione. E perché questo accada l’amministrazione penitenziaria ha bisogno di rapporti con la società civile, con gli imprenditori che facciano da ponte tra il “dentro e il fuori”. Se il 2022 sarà davvero “l’anno del carcere”, allora conviene guardare a quello che succede già oggi “dentro e fuori” dalle mura. Non solo violenza, non solo pestaggi, non solo Covid, né sovraffollamento. Certo, tutto questo può ancora verificarsi. Ma ci sono anche le realtà positive. Quegli oltre 15mila detenuti che lavorano. Citiamo altri casi allora. A Milano i detenuti che stanno trasformando il boschetto di Rogoredo dalla più grande piazza di spaccio del Nord Italia a un parco per i cittadini. Sempre a Milano l’esperienza della Tim nel carcere di Bollate dove si riparano i modem. E oggi il trend delle riparazioni realizza numeri a sei zero. A Busto Arsizio va citata la cioccolateria al top anche per i prodotti per celiaci. A Venezia un’ottima storia. A Livorno, nel carcere della Gorgona, si produce un vino di pregio. A Bologna un’altra sartoria. A Forlì un laboratorio per riciclare la carta. A Rebibbia c’è di tutto, dall’officina meccanica e di carrozzeria, alla lavanderia, al laboratorio per produrre infissi in alluminio. Scendiamo al Sud ed ecco le sete pregiate di San Leucio, prodotte nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi, che arredano la reggia di Caserta. Potremmo andare avanti così, con cifre, esempi, storie di singoli imprenditori ex detenuti che, una volta fuori, hanno anche dato vita a cooperative per far lavorare altri detenuti, com’è successo a Bollate. L’altra faccia del carcere è questa. Sfida la violenza e guarda a una nuova vita in cui l’essere stati “dentro” rappresenta il passato. Minori, boom e successo della “Messa alla prova” di Davide Imeneo Avvenire, 2 gennaio 2022 A Reggio Calabria è boom della “Messa alla prova”: +89% di richieste in un anno. L’esito? Positivo nella totalità dei casi. De Palma: strumento finalizzato al recupero e al reinserimento sociale. Protocollo contro la dispersione scolastica. La Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha tracciato nei giorni scorsi il bilancio sociale dell’anno appena concluso. Un “documento morale” di grande valore per tutto il mondo della giustizia minorile poiché il distretto giudiziario in riva allo Stretto offre una pluralità di casistiche con pochi eguali su tutto il territorio nazionale. Infatti, nel tessuto socioeconomico della Città metropolitana di Reggio Calabria si intrecciano le vicende dei minori non accompagnati dovute agli sbarchi dei migranti; la pervasività corrosiva della ‘ndrangheta, che in modo più marcato rispetto alle altre mafie proietta sui minori la garanzia di una successione di legami familiari criminali; la diffusa presenza di molteplici accampamenti Rom. L’intreccio di queste criticità rende significativi a livello nazionale i dati emersi dalle attività della Procura per i minorenni. Il dato più importante è un vero e proprio richiamo alla speranza. Infatti emerge un aumento significativo della Messa alla prova (Map), che consiste in uno degli epiloghi speciali che possono verificarsi nel corso del processo penale minorile. È un istituto di probation processuale attraverso il quale il processo viene sospeso e, nel periodo di sospensione, il minore viene affidato ai servizi sociali per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno affinché si verifichi se è possibile un cambiamento in positivo della personalità dell’imputato. Se la Map ha esito positivo, allora il reato viene estinto, permettendo così al minore di proseguire il proprio percorso di vita senza avere alle spalle alcun precedente penale. Dai dati della Procura minorile di Reggio Calabria, emerge che la scelta della Map è cresciuta, rispetto all’anno precedente, dell’89,28%, con esito positivo nella quasi totalità dei casi. Si sta facendo strada la pratica di una giustizia minorile riabilitativa. Una questione su cui il Procuratore Roberto Di Palma si sofferma molto: “È la prova che la Giustizia viene finalizzata al recupero e al reinserimento sociale” ha dichiarato in conferenza stampa. L’obiettivo, quindi, fornire una seconda possibilità ai minorenni, aiutandoli a crescere sotto ogni punto di vista, anche quello culturale. Durante la Map viene anche avviato un percorso obbligatorio di lettura. È emerso, infatti, che solo il 39% dei minori - in Calabria - è dedito alla lettura di libri. Per questa ragione, i ragazzi che accettano la Map si impegnano a leggere almeno un libro al mese e a relazionare sul libro ai delegati dei Servizi Sociali. È anche accaduto che un figlio di una famiglia di mafia ha rifiutato la Map poiché risulta “disonorevole” per una persona appartenente ai ranghi della mafia sottoporsi alla prova dello Stato. Allora il minore è stato invitato ad un confronto con il padre, detenuto al 416-bis. Durante il confronto, il genitore ha convinto il figlio a sottoporsi alla Messa alla prova per evitare di fare la sua stessa fine. Si assiste, quindi, ad una vera e propria rigenerazione sociale, educativa e morale, resa possibile grazie ad un corretto utilizzo dell’Istituto giuridico della Messa alla prova. Tra gli altri dati evidenziati dalla Procura, si segnala una significativa dispersione scolastica. Grazie alla sottoscrizione di un protocollo con Inps, Comune di Reggio Calabria, Procura per i Minorenni e tre istituti scolastici primari - individuati in via sperimentale - situati in tre quartieri tra i più problematici della città di Reggio Calabria, è stato possibile intercettare ben 130 casi di mancata iscrizione alla prima elementare. Un dato allarmante che - come da Protocollo citato - ha avviato indagini finalizzate a verificare l’esistenza di reati penali e l’adozione di sanzioni amministrativo- contabili, fra cui la sospensione per due mesi del reddito di cittadinanza, ove la famiglia ne fosse percettrice. Anche in questo caso la via della giustizia ha il sapore della promozione umana, che rende le aule dei tribunali dei veri e propri luoghi di rinascita. Presunzione di innocenza. Il decreto Cartabia rappresenta uno sfregio alla Costituzione di Gian Carlo Caselli L’Espresso, 2 gennaio 2022 La norma che dovrebbe intervenire sulla presunzione di innocenza pone forti limiti l diritto all’informazione. E, in aggiunta, rafforza la distanza tra indagati “eccellenti” e quelli “comuni”. Una direttiva europea del 2016 ha come oggetto l’adozione da parte degli Stati membri di alcuni interventi sul principio della presunzione di innocenza: di qui un decreto legislativo entrato in vigore in Italia il 14 dicembre 2021. Anche in questo caso è stata evocata la formula, un po’ logora, “ce lo chiede l’Europa”, che però non impedisce di notare come nel nostro ordinamento il principio sia già consacrato nella Costituzione, per cui ci si chiede se fosse proprio necessario un intervento ulteriore. Tanto più che oltre al precetto costituzionale vi sono anche specifiche disposizioni per reprimere eccessi o abusi nelle esternazioni sui processi (una direttiva del Csm del 2018 insieme a varie ipotesi di illecito disciplinare previste dalla legge per i magistrati). In ogni caso, se la direttiva europea offriva un dito, certi sedicenti garantisti nostrani si son presi il “classico” intero braccio. Arrivando a stabilire che la diffusione al pubblico delle informazioni relative ai procedimenti penali è consentita solo “quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrano altre specifiche ragioni di interesse pubblico”. Il che pone tutta una serie di gravi problemi. Innanzitutto la formula usata investe tutta l’informazione giudiziaria, a prescindere dal fatto che venga in considerazione la posizione di questo o quell’indagato. Ed è stato autorevolmente osservato (in particolare da Vladimiro Zagrebelsky) che nella sua assolutezza la norma potrebbe comportare l’irragionevole conseguenza di limitare il diritto di informare e di essere informati. Diritto inalienabile quando si tratta di attività giudiziaria, posto che essa (come ogni altra attività pubblica) deve assoggettarsi al controllo sociale in punto di correttezza, coerenza e affidabilità. Tanto più che se i Pm non parlano, o possono parlare solo come fossero imbavagliati dentro una gabbia, per tutti i mezzi d’informazione l’alternativa sarebbe chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo “suonare” campane che facilmente potranno risultare inquinate. Con effetti perversi quando l’indagato sia interessato non solo a vedere riconosciuti i propri diritti, ma soprattutto a vedere soddisfatti i propri interessi: tanto da porre in essere tutto ciò che può servire ad arginare le offensive che mirano a colpirne l’immagine nell’opinione pubblica, anche richiedendo al proprio legale - oltre a un impegno “tecnico” - un concreto aiuto in tale direzione. A questo punto ecco alcuni interrogativi: può accadere che il processo interpretato sugli organi di informazione dalla parte privata richieda talora, per il naturale riequilibrio delle parti, una lettura speculare ad opera della parte pubblica? Alle imprecisioni o fantasie che accompagnano certe cronache, può il magistrato opporre precisazioni e chiarimenti a protezione del proprio lavoro, delle parti offese e degli interessi in gioco? Il decreto legislativo sbrigativamente riferito alla sola presunzione di innocenza sembra escludere tali possibilità. Ma attenzione, così si avvantaggiano gli indagati “eccellenti” e si rafforza una grave asimmetria che caratterizza il nostro sistema penale: la compresenza di due distinti codici, uno per i cittadini “comuni” e uno per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla posizione sociale, comunque per bene...); destinati, il primo, a segnare la vita e i corpi delle persone e - il secondo - a un approccio più soft, in particolare misurando l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione (o improcedibilità). Mentre le norme sulla presunzione di innocenza possono di fatto consolidare tale asimmetria, il governo e la ministra Cartabia dovrebbero, per contro, preoccuparsi di eliminare lo sfregio che essa rappresenta alla nostra Costituzione. Arrivano i soldi del Pnrr e nessuno cerca più le mafie e la corruzione di Giovanni Tizian Il Domani, 2 gennaio 2022 La voglia di rinascita impone un silenzio forzato per non rovinare il racconto del successo della ricostruzione Così i clan approfittano dell’assenza di limiti sui subappalti. E si preparano a prendere parte ai grandi progetti. Nella lotta alla mafia e alla corruzione c’è una nuova tattica: fingere che non esistano, così da depurare da ogni elemento di negatività la narrazione positiva di un paese che deve crescere, svilupparsi, e dunque investire rapidamente i 235 miliardi dei fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e di altri finanziamenti collegati. La trama del favoloso futuro che ci aspetta però non fa i conti con i poteri criminali, espunti solo dal copione ma non dalla società. Non c’è la volontà politica di affrontarli, perciò meglio insabbiarli, meglio spuntare le armi ai cacciatori di corrotti e mafiosi. Meno inchieste, meno clamore, maggiore sarà la fiducia dell’Europa nel paese. La riforma Cartabia sul processo penale sconta una lettura arcaica della mafia, che considera clan di mafia solo chi ostenta ferocia e violenza. Caratteristiche necessarie per configurare il reato di associazione mafiosa prevista dall’articolo 416 bis del codice penale. Lettura che tuttavia mal si concilia con l’evoluzione criminale e culturale delle mafie italiane, strutturate come holding e società di servizi, che di rado oggi usano il piombo dei fucili contro istituzioni o “nemici” esterni, extrema ratio riservata solo ai traditori interni o a regolamenti di conti tra famiglie. Nel rapporto con lo stato, con la politica, con l’imprenditoria e i professionisti, le mafie usano metodi persuasivi differenti: la corruzione è il collante tra il loro mondo e quello dell’economia legale. Aver lasciato i reati di corruzione fuori dal regime speciale della riforma della giustizia, quindi soggetti all’improcedibilità se il processo non si chiude entro tempi stabiliti dalla legge, è sintomo di miopia interpretativa del fenomeno mafioso per come è oggi. Un famoso narcotrafficante palermitano, poi pentito, ha detto una volta a Giovanni Falcone: “Dottore qui la chiamate mafia, a Milano corruzione”. Nel nome del Pnrr una serie di regole sono state cambiate, “l’Europa lo esige”, dicono. Prendiamo la materia complessa degli appalti pubblici. Già il governo Conte I, con la Lega al potere, aveva aumentato la soglia dei subappalti al 40 per cento dal 30 precedente. Per gli esperti di infiltrazioni mafiose è stato un errore, replicato poi con l’arrivo di Draghi. La soglia inizialmente aumentata al 50 per cento, dal primo novembre è stata eliminata rendendo il subappalto libero. Come chiedeva l’Europa, appunto. A Bruxelles però sono da sempre indifferenti al fenomeno mafioso nella sua versione finanziaria. Proprio per l’assenza di regole stringenti gli imprenditori delle cosche italiane avevano spostato il baricentro dei loro affari in Germania, Olanda, Francia, Belgio e Spagna. L’Europa ci chiede di eliminare i paletti che in Italia sono necessari a frenare la penetrazione dei clan nei cantieri e noi accettando poniamo le basi per un ritorno al passato, quando la giungla nei contratti pubblici ha garantito ai padrini affari d’oro con soldi pubblici. Un caso di scuola sono stati i cantieri dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Laboratorio dell’illegalità, di corruzione e di ingerenza mafiosa. Regno del subappalto selvaggio, prima che venisse regolamentato, fonte di profitti milionari per le cosche locali, più che tollerate dai colossi delle costruzioni. Allo stesso modo l’Alta velocità: da Napoli a Roma, da Torino a Milano, da Bologna a Piacenza, non c’è stato cantiere in cui grazie alle norme morbide sul subappalto, solo dopo rafforzate, le imprese di ‘ndrangheta, camorra e mafia siciliana non siano state chiamate a compiere lavorazioni quali movimento terra, carpenteria, impianti. Il settore delle infrastrutture, àmbito in cui le mafie sono leader, sarà tra i beneficiari maggiori delle risorse del Pnrr: con oltre 25 miliardi attesi è il terzo dopo digitalizzazione e transizione ecologica. Dietro ogni emergenza italiana che si rispetti troviamo i padrini. La ricostruzione post terremoto in Irpinia negli anni Ottanta ha permesso alla camorra il salto di qualità da delinquenza a mafia imprenditrice. Gli appalti post sisma in Abruzzo e Emilia Romagna hanno visto le imprese della ‘ndrangheta e della camorra muoversi fin dai primi giorni, a partire dalla rimozione delle macerie. L’elenco dei disastri che hanno arricchito le mafie è sterminato. Per la ricostruzione del paese dopo la pandemia gli indizi dell’interesse delle organizzazioni mafiose sono diventati sùbito prove certe. Prima la Direzione investigativa antimafia, poi la guardia di finanza avevano messo in guardia i tifosi delle regole zero: “La criminalità organizzata si è immediatamente interessata ai flussi finanziari erogati a sostegno dell’economia”, si legge nella relazione del comandante generale dalla guardia di finanza, Giuseppe Zafarana, presentata in commissione antimafia a maggio 2021. Il generale cita il caso di un imprenditore della ‘ndrangheta in Lombardia che “aveva ottenuto per tre società un contributo a fondo perduto correlato all’emergenza sanitaria”. Zafarana ha poi aggiunto: “Le indagini svolte nel pieno del periodo pandemico hanno dimostrato che le organizzazioni mafiose hanno intravisto nell’emergenza sanitaria una ghiotta occasione di business”. Nonostante i segnali indichino che le mafie abbiano già iniziato a banchettare con i soldi pubblici stanziati per l’emergenza sanitaria, invece di invocare più controlli e stimolare le indagini su corruzione mafiosa, si invocano meno regole per procedere spediti verso l’obiettivo del 2026, l’anno in cui il governo dovrà rendicontare all’Europa i risultati del Pnrr. Meno regole e una lacunosa interpretazione dei fenomeni criminali. La mafia scompare, la corruzione pure. Il paese vivrà l’illusione di essere finalmente libero. Chi continuerà a restare sobrio dall’ubriacatura collettiva saranno le vittime, escluse dal mercato inquinato e distorto dalla concorrenza sleale. Salerno. Si impicca alla finestra della cella, aveva 28 anni il primo detenuto suicida del 2022 di Antonio Lamorte Il Riformista, 2 gennaio 2022 Si è consumato al carcere di Fuorni, Salerno, il primo suicidio in carcere del 2022. Era un giovane uomo di 28 anni, si chiamava Desiad Ahmeti. A dare la notizia il Garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello. “Ahmeti si è suicidato stanotte nel carcere di Salerno - si legge nella nota diffusa dal Garante - Aveva compiuto 28 anni recentemente. Il suo fine pena era a settembre del 2023”. L’emergenza dei suicidi nelle carceri continua, una strage silenziosa. Il 28enne era ristretto nel reparto prima sezione, al secondo piano dell’Istituto di Pena. Regolarmente parlava con il padre, tramite videochiamata. “Ogni crisi è una scommessa, ma questa al tempo del Covid - ha aggiunto Ciambriello - non è stata colta dalla politica per avviare un processo di necessarie innovazioni, in termini di gestione, organizzazione ed inclusione sociale negli Istituti Penitenziari. La Pandemia ha riportato alla luce non solo problematicità cronicizzate del pianeta carcere, ma soprattutto ha delineato nuove forme di incertezza, in termini di normative e in termini di diritti acquisiti dalle persone ristrette”. Secondo quanto fatto sapere dal Sappe, il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, il detenuto di origini albanesi si sarebbe impiccato nella notte. Il corpo sarebbe stato rinvenuto dal personale di Polizia durante un giro di controllo, impiccato alle inferriate della finestra della cella. Inutili i tentativi di soccorso. Il detenuto era solo nella cella dov’era ristretto per reati comuni. Il 2020 era passato alla storia come l’anno in cui si erano consumati 61 suicidi in carcere: mai così tanti da vent’anni come riportava nel suo report l’Associazione Antigone. Secondo il conto aggiornato da ristretti.it, delle 132 morti in carcere del 2021, 54 sono stati suicidi. Se il numero dovesse essere confermato dalle stime che nei prossimi mesi saranno precisate e accertate con maggiore chiarezza e completezza si tratterebbe di quasi il 41% delle morti. Una strage. La considerazione di Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Si consideri che negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria hanno sventato, nelle carceri del Paese, più di 23mila tentati suicidi ed impedito che quasi 175mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze”. Il Garante Ciambriello sulla situazione nel quale si è consumata la tragedia la scorsa notte: “Un reparto dove lo scorso anno il 7 marzo iniziarono le proteste nelle carceri italiane dopo che erano state sospese visite, permessi, lavoro e relazioni con il mondo del volontariato. Abbiamo bisogno di interventi rapidi sul sistema carcere per ridurre ansia e solitudine, di migliorare i temi dalla salute, incrementare le misure alternative al carcere. Non si può continuare a morire di carcere ed in carcere”. Roma. Morto durante la perquisizione, indagini sulla dinamica di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 Gianluca Dell’Anna, 38 anni, era stato riportato a casa dagli agenti dopo una rapina a Montespaccato. Il tragico tentativo di fuga dalla finestra del bagno, nella caduta ha colpito una ringhiera al pianterreno. “Lo abbiamo visto piangere, o almeno così sembrava, quando l’hanno portato a casa per quella che credevamo fosse una perquisizione. Non aveva le manette. Poco dopo è morto davanti ai garage condominiali”. Per chi abita nel palazzo di via Cardinal Mastrangelo, nella zona di via Baldo degli Ubaldi, l’ultimo giorno del 2021 è stato choccante. Ma a lasciarli perplessi è stato non leggere articoli né ascoltare servizi nei tg che riportassero quello che era successo. Un 38enne, Gianluca Dell’Anna, ha perso la vita dopo essere precipitato per cause in corso di accertamento dalla finestra del bagno del suo appartamento, al terzo piano dell’edificio. Erano da poco passate le 10 di mattina. L’uomo si trovava con alcuni poliziotti dopo essere stato fermato per una rapina nella quale sarebbe rimasto coinvolto a Montespaccato qualche minuto prima. Così gli investigatori, da prassi, lo hanno portato prima a casa sua per una perquisizione alla quale sarebbe seguito il trasferimento in commissariato oppure in carcere, in attesa dell’udienza di convalida. Quello che è successo dopo sarà adesso oggetto di un’indagine per appurare come siano andati i fatti. Sembra che il 38enne abbia tentato di fuggire dopo aver chiesto agli agenti di poter andare in bagno: non è chiaro se uno degli operatori (ma è probabile) lo abbia seguito per controllarlo, ma Dell’Anna a un certo punto avrebbe approfittato di un momento in cui era rimasto da solo per aprire la finestra e cercare di raggiungere un piccolo terrazzo che si trova non lontano dal bagno. Tentativo tragicamente fallito perché il 38enne è invece precipitato per oltre dieci metri, sbattendo prima sul parapetto metallico di un balcone al pianterreno e finendo quindi in cortile. Il 38enne è stato subito soccorso dagli stessi poliziotti ma è stato tutto purtroppo inutile: è deceduto sul colpo. Sono ora in corso accertamenti per capire come siano andati i fatti. Gli agenti in servizio in quell’operazione saranno sentiti e verrà anche inviata una relazione in Procura. Il riserbo sulla vicenda è massimo, anche se dalle prime ipotesi quanto accaduto dovrebbe essere stato un incidente. Un tentativo di fuga finito male che ha sconvolto chi abita nell’edificio. Gli accertamenti nel palazzo sono durati tutto il giorno, con i rilievi della polizia scientifica non solo nell’appartamento del 38enne, controllato nell’ambito delle indagini sulla rapina per la quale Dell’Anna era sospettato, ma anche al pianterreno e davanti ai garage: il colpo sulla ringhiera durante la caduta potrebbe essere stato infatti quello fatale per il 38enne. Proprio un anno fa nella zona dei Due Ponti, su via Cassia, un 36enne cingalese è morto in circostanze identiche durante un’operazione antidroga. Rimini. Il sindaco in visita al carcere: presto nuovo Garante per i diritti corriereromagna.it, 2 gennaio 2022 Il sindaco di Rimini Jamil Sadegholvaad, insieme alla vice sindaca Chiara Bellini e alla presidente del Consiglio Comunale Giulia Corazzi, ha visitato venerdì 31 dicembre la Casa Circondariale di Rimini, su iniziativa del Partito Radicale e della Camera Penale di Rimini, nell’ambito del progetto “Natale in carcere”. Accompagnati dal presidente della camera penale di Rimini Alessandro Sarti e da Ivan Innocenti per il Consiglio Generale Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale, i vertici dell’Amministrazione Comunale hanno avuto l’opportunità di approfondire la realtà del carcere nella sua completezza, sia sul fronte delle condizioni della struttura, sia per gli aspetti legati alla vita dei detenuti e al lavoro della polizia penitenziaria. “Un’occasione importante, in questa prima fase di mandato amministrativo, per prendere consapevolezza di una realtà complessa - è il commento dell’Amministrazione comunale - e soprattutto per poter pianificare una serie di azioni, per collaborare con la Casa Circondariale e con gli enti e le associazioni collegate, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e contribuire a costruire le condizioni affinché la pena detentiva possa rappresentare anche la base per un percorso di reinserimento nella società. In questa direzione va il nuovo ‘Progetto carcere’ del Comune di Rimini, che insieme alle realtà del terzo settore propone interventi di sostegno, formazione, educazione per i detenuti, per allontanare i rischi di recidive o di reati peggiori una volta scontata la pena. Il primo impegno però sarà l’avvio già a inizio dell’iter per procedere alla nomina del nuovo ‘Garante per i diritti delle persone private della libertà personale’, una figura istituita nel Comune di Rimini dal 2014 e votata dal Consiglio Comunale, che nasce per tutelare i diritti dei detenuti mediante la promozione di iniziative e progetti di sensibilizzazione pubblica a favore dei detenuti e in generale della comunità”. Alessandria. L’evasione di Vercelli riaccende i riflettori anche sulle due carceri cittadine di Valentina Frezzato La Stampa, 2 gennaio 2022 Un dossier regionale diffuso nei giorni scorsi prevede interventi anche per Don Soria e San Michele. L’evasione da film nella notte di Capodanno avvenuta a Vercelli riaccende, dopo nemmeno una settimana, di nuovo i riflettori sulla sicurezza nelle carceri del Piemonte. A pochi giorni dalla fine del 2021 la Regione aveva presentato il sesto dossier sul tema sottolineando le principali criticità delle strutture. Comprese le due di Alessandria (la casa circondariale Don Soria e la casa di reclusione San Michele) e quella vercellese dalla quale è riuscito a fuggire tra il 31 dicembre e il primo gennaio un detenuto, segando le sbarre e calandosi con le lenzuola. L’uomo, ora ricercato, è Kristjan Mehilli, 27 anni e di nazionalità albanese; era uno degli autori della rapina in villa ai danni dell’imprenditore vitivinicolo Riccardo Coppo a Cella Monte, provincia di Alessandria, avvenuta nel novembre 2018. È giudicato pericoloso e sono stati predisposti posti di blocco in tutta la regione, se ne sta occupando la Squadra Mobile della Questura di Vercelli. Mehilli si è calato con delle lenzuola dal quarto piano, dopo aver segato le sbarre insieme a un complice; all’esterno lo aspettavano almeno due persone, che hanno forzato il cancello. Il compagno di cella, anche lui di origini albanesi, è stato fermato: si sarebbe rotto un braccio mentre si calava giù. Sulla questione si è subito espresso il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, parlando di una evasione “annunciata e clamorosa”. Proprio perché della situazione non più sostenibile di quella struttura, e delle altre, si erano già espressi più volte. “La grave vicenda - dice Donato Capece, che del Sappe è segretario generale - porta alla luce le priorità della sicurezza, spesso trascurate, con cui quotidianamente hanno a che fare le donne e gli uomini della polizia penitenziaria di Vercelli. A compiere l’evasione sono stati due detenuti albanesi con fine pena 2029 perché riconosciuti responsabili di rapina nelle ville del Casalese e Vercellese. I due si sono calati dalla cella e si sono recati nel perimetro interno del carcere. Si sono poi arrampicati sul muro di cinta e, aiutati da un complice che ha lanciato loro delle corde, si sono calati dal muro ma uno dei due è caduto, rompendosi un braccio, ed è stato bloccato dagli agenti mentre l’altro è riuscito a fuggire. In svariate occasioni abbiamo parlato della grave carenza di personale in servizio e soprattutto dell’inadeguatezza del muro di cinta”, inagibile da anni. “Questa di Vercelli - ha aggiunto - è una evasione annunciata, frutto della superficialità con cui sono state trattate e gestite le molte denunce fatte dal sindacato sulle condizioni di sicurezza dell’istituto”. Le stesse che avevano sottolineato a metà novembre subito dopo l’aggressione, ai danni di un agente, nel carcere Don Soria di Alessandria: “I vertici del ministero della Giustizia e dell’amministrazione penitenziaria - aveva detto Capece - si sveglino dal torpore nel quale si trovano e adottino con urgenza immediati provvedimenti”. “Le carceri sono veramente al limite della governabilità, tra violenze e impunità”, aveva sottolineato Vicente Santilli, segretario Sappe per il Piemonte. Nel dossier firmato dalla Regione - utile per capire come spendere i soldi del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza - per i due istituti penitenziari di Alessandria non si parla mai di sicurezza, ma di “consolidamento, restauro e rifunzionalizzazione complessiva” soprattutto riferendosi alla casa circondariale Don Soria, quella in centro città. “Gran parte degli spazi esistenti nella struttura storica del centro città - scrivono - non è attualmente utilizzabile per problemi ai tetti e conseguentemente agli impianti elettrici. Negli ultimi due anni l’amministrazione è stata comunque costretta a intervenire con lavori di manutenzione straordinaria per garantire l’utilizzo in sicurezza dell’edificio: su una parte dei tetti, sulle docce, sulla palestra. La struttura storica ha locali e spazi inimmaginabili che, con un mirato intervento progettuale, hanno delle indubbie potenzialità per le attività trattamentali, formative e lavorative, come dimostra l’utilizzo parziale dei cameroni esistenti, la realtà del negozio, il progetto di ristorante, l’esistenza delle celle antiche, gli appartamenti abbandonati, l’ex-femminile”. Con i 132,9 milioni di euro previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e i fondi messi a disposizione dal governo bisogna però soprattutto pensare alla sicurezza. Di tutti. “Un eroe”. Le contraddizioni dell’Iran tramite la storia di un recluso di Paolo Mereghetti Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”, scriveva Brecht. Perché se qualcuno si trova a essere considerato tale non sa che cosa gli può succedere, sembra voler chiosare Asghar Farhadi, che, al suo ultimo film, premiato a Cannes con il Grand Prix della giuria e in corsa per l’Oscar al miglior film straniero, ha voluto dare proprio questo titolo: “Un eroe”. La persona in questione, Rahim Soltani (Amir Jadidi, straordinario con la sua aria da cane bastonato), è un abitante di Shiraz che nella prima scena esce dalla prigione dove sta scontando una pena per debiti. Ha un permesso di due giorni in cui spera di convincere il suo debitore Barham (Mohsen Tanabandeh) a ritirare l’accusa in cambio della restituzione di una parte dei 150mila toman che gli deve. Lo farebbe con le monete d’oro che la donna con cui ha una relazione semi-clandestina (Sahar Goldust) ha fortunosamente trovato in una borsa abbandonata. Ma quando scopre che Barham non vuole ritirare l’accusa e che le monete d’oro valgono meno di quanto pensasse, allora ha un soprassalto di onestà: vuole cercare chi le ha perse per restituirle. Tanti cartelli appesi nei paraggi del luogo del ritrovamento ottengono il risultato: si presenta una donna che, descrivendo perfettamente la borsa, si riprende le monete.Tutto finito? No, perché l’atto di onestà giunge alle orecchie dei direttori del carcere e poi di un giornalista e quindi della televisione. Così Rahim diventa un “eroe”. E la sua odissea ha inizio. Che con il “metodo Farhadi” si allarga a macchia d’olio, coinvolgendo parenti, vicini e poi tutta la città. Tornato a girare in patria dopo la parentesi in Spagna, il regista ritrova tutta la forza del suo modo di fare cinema, ogni volta allargando un po’ di più lo sguardo e “smascherando” un po’ di più le azioni degli uomini. Perché diversamente da film hollywoodiani (vedi “l’angelo del volo 104” di Eroe per caso, con la sua agnizione finale...) qui la verità non solo non verrà mai davvero svelata ma forse non interessa a nessuno: al regista sta a cuore accompagnare lo spettatore in un viaggio dentro le tante contraddizioni degli uomini, a cominciare da quelle di Rahim. Ma non solo, visto che ognuno sembra inseguire un secondo fine con le proprie azioni, a partire dai dirigenti carcerari che forse vogliono far dimenticare in fretta quello che succede dentro la prigione per continuare con i responsabili dell’organizzazione benefica che regala un diploma di benemerenza a Rahim solo per un po’ di auto-pubblicità, con la tv che crea “eroi” a comando di audience e poi con i guardiani della moralità pubblica (che dubitano di tutto e di tutti) e anche con la figlia di Barham (l’inflessibile esattore del debito) che ha perso la dote per colpa dei soldi prestati a Rahim, per finire con lo stesso protagonista costretto a fare davvero l’”eroe” di fronte ai soldi di una colletta che forse possono servire di più ad altri. E a ogni passaggio Farhadi scava nelle contraddizioni di un Paese e una cultura dove i rapporti formali sembrano una cappa che imprigiona le persone e che trova un’eco e una risonanza nei social, dove la verità conta ancora meno delle illazioni e delle supposizioni. Così, allargando il campo d’azione, passando dal privato al pubblico al “politico”, il film sa restituire quel “girare a vuoto” dei fatti che media e social spossessano delle loro radici reali per trasformare in qualcosa di sfuggente e però incombente, da cui non si prescinde. Con la sua aria grigia, di chi si sente sempre schiacciato dai fatti, Rahim è il campione di un Iran che cerca di sopravvivere, pronto ai compromessi, capace di reagire solo di fronte al comportamento intransigente del suo debitore o per difendere la dignità del figlio balbuziente. E in un film dal fortissimo sguardo morale è forse lui, il piccolo Siavash, il vero “eroe”, silenzioso testimone di un mondo dove gli adulti sembrano guidati solo dall’egoismo e le cose finiscono per trascinarsi sempre uguali. Che la libertà non sia messa nell’angolo di Ascanio Celestini Il Manifesto, 2 gennaio 2022 L’augurio per il 2022. Riflessioni e idee per cominciare bene il nuovo anno. Due giorni fa sul manifesto abbiamo letto l’articolo di Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. La prima parola del pezzo è “finalmente” seguita da un punto esclamativo. Ci parla della relazione conclusiva della “Commissione per l’innovazione penitenziaria” nella quale si “intravede”, scrive Gonnella, qualche proposta che potrebbe “avere un impatto significativo in termini di riduzione del danno prodotto dalla carcerazione”. Io partirei da qui per cominciare l’anno nuovo. Due anni di pandemia hanno frullato l’ordine del giorno delle nostre priorità. Dal frullatore è uscita una società più liquida, incerta e disordinata. Bisogna riordinare. La legge 300 del ‘70 ci ricorda fin dal primo articolo che “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”. E vale la pena sottolineare che nelle prime righe si parla di “luoghi dove prestano la loro opera” i lavoratori. Con il cosiddetto smart working stiamo abbattendo questo caposaldo. Come facciamo a tutelare la sicurezza sul posto di lavoro se quel posto è diventata la nostra casa? Un angolo sul tavolo della cucina, una mensola sistemata all’ingresso o uno spazio rimediato in camera da letto? Come facciamo a tutelare le libertà sindacali se i lavoratori non si incontrano più nello stesso luogo, ma devono comunicare tramite la rete? Mi ricordo il racconto di Graziella, operaia di Pontedera. Ci parlò di una rivendicazione iniziata perché le mogli avevano confrontato le buste paga dei mariti e s’erano accorte che qualcuno aveva lo stipendio pieno nonostante gli scioperi. Dunque avevano compreso che era un crumiro entrato di straforo e pure una spia del padrone. Lo sappiamo che si prende coscienza nelle pause o fuori dai cancelli anche parlando di vita coniugale, di sport e magari anche di cinema e letteratura. Confrontiamo la complessità della nostra vicenda individuale con quel dispositivo alienante che spesso è il lavoro, come si diceva un tempo, “sotto padrone”. L’art 14 dello Statuto dice che “Il diritto di costituire associazioni sindacali (…) è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. E l’art 26 ci ricorda che “I lavoratori hanno diritto di raccogliere contributi e di svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali all’interno dei luoghi di lavoro”. Siamo sicuri che in quell’oceano inquinato che è internet sia possibile fare “opera di proselitismo”? Siamo sicuri che il confronto, la dialettica e dunque la libertà di espressione non siano messe in un angolo? Lo smart working esisteva anche prima che lo chiamassimo “smart”. Era una maniera per fare in modo che i lavoratori lavorassero tanto senza limiti di orari, con la possibilità di servire più padroni contemporaneamente e senza esigere tutele. Te lo immagini uno sciopero di smart workers? Persone che manco si conoscono tra di loro, che stanno in luoghi diversi, con lingue diverse, assunti tramite subappalti. Ma oggi l’incertezza della precarietà lavorativa è diventata smart, mentre il lavoro fianco a fianco è un pericolo. Un pericolo per il contagio, certo! Ma non possiamo cercare di non buttare via il solito bambino insieme all’acqua sporca? Ora passo alla scuola e mi basta citare il direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, Rocco Pinneri che chiede di “denunciare formalmente il reato di interruzione del pubblico servizio e di chiedere lo sgombero dell’edificio, avendo cura di identificare, nella denuncia, quanti possiate degli occupanti”. Sta parlando degli studenti che, come accade da decenni, si prendono la responsabilità di autogestire la propria scuola. Cioè di fare politica nel modo più sano e costruttivo: senza ritorni economici e di potere. Invece di coinvolgerli seguendo il meglio della scuola partecipata sviluppando il rapporto col territorio, confrontandosi con le famiglie, le associazioni e i luoghi di produzione culturale, eccetera… li si vuole tutti in fila per tre a risponder sempre di sì. Chiudo col carcere evocato all’inizio nelle parole di Gonnella. Le immagini di Santa Maria Capua Vetere ci raccontano per l’ennesima volta che le galere sono campi di battaglia nelle quali la società borghese, incapace di gestire il disagio, lo combatte come fosse un esercito straniero e nemico. Un esercito armato ha affrontato i detenuti che, per la maggior parte, sono reclusi per reati connessi alla droga, l’immigrazione e ai mille problemi affrontati esclusivamente con la punizione, la repressione, con i muri e le sbarre. Eravamo certi dell’art. 27 della Costituzione per il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ma questa certezza è stata manganellata tra quelle sbarre. Con tutta la speranza possibile affianco il mio sguardo a quello dell’Associazione Antigone cercando di “intravedere” nel 2022 un ottimismo che non proviene dalla possibilità di frenare, ma almeno di lottare contro questa deriva. Il mondo salvato dai ragazzini e dalle utopie di Dacia Maraini La Stampa, 2 gennaio 2022 Le grandi metamorfosi avvengono soltanto per contagio di spirito e di immaginazione. Una bambina dalle treccine a coda di topo. Una faccia acqua e sapone, ma determinata e pensosa. Si chiama Greta ed è riuscita, con la sua carica sincera, a contagiare il mondo dei giovanissimi. Purtroppo questi ragazzini non votano e perciò gli adulti che ci governano non li hanno presi molto sul serio. Ma pure quei ragazzini hanno piantato una freccia nella mappa del pianeta. La freccia indica le zone a rischio: ghiacciai che si sciolgono, mari che si inquinano, estinzioni di tante specie animali, aria che si riempie di veleni, foreste che, bruciate, mettono in pericolo l’equilibrio ecologico. Greta e un popolo di giovanissimi testimoni ci dicono che ci stiamo avviando, incoscienti e irresponsabili, verso un suicidio collettivo. Di suicidio collettivo ricordo di avere appreso con sorpresa durante un viaggio in Messico, a proposito dell’invasione degli spagnoli che portavano armi, nuove malattie e delirio di onnipotenza, in nome di un dio intollerante verso le altre religioni e fortemente vendicativo. Moltissimi uomini e donne di un paese antico e pacifico, credendo che quello fosse il destino di un popolo abbandonato dai propri dei, preferivano affogare volontariamente in mare, piuttosto che mettere in moto l’intelligenza strategica e affrontare l’emergenza. I pericoli spesso innescano in noi visioni apocalittiche, per cui i muscoli del corpo si paralizzano e il cervello si necrotizza. Se il futuro è bruciato da orribili novità, se il destino incombe inesorabile, meglio lasciarsi andare alla morte prima che altri ce la impongano. Da qui deriverebbero le visioni catastrofiche, il mito di una macchinazione misteriosa e inesorabile, l’annuncio della fine e quindi la resa al fato. La bambina dalle trecce striminzite ci esorta a rimboccarci le maniche e agire, senza dare ascolto alle fascinazioni delle apocalissi irrevocabili, dando retta alla ragione che è il nostro dono più prezioso. Ma, come ha scritto con amore e fiducia Elsa Morante, il mondo, se sopravvivrà, sarà Salvato dai ragazzini. Un atto di fiducia nella forza di chi non si è compromesso con le tante piccole rinunce e i tanti piccoli cedimenti al male minore. Qualcuno disdegna il valore delle utopie. Eppure la storia ci insegna che senza utopie, il mondo si ferma e regredisce. Le utopie, anche se difficili da realizzare, danno una spinta all’entusiasmo e alla fiducia nel futuro di cui i popoli hanno bisogno per affrontare le emergenze. Sono argomenti che inquietano gli esseri umani da sempre: si nasce buoni e si diventa cattivi per ingerenza degli interessi e delle lotte per il potere, o si nasce con la capacità, come capita agli animali, di essere buoni e cattivi, e si agisce con egoismo e brutalità o con generosità e senso civico per consapevolezza, educazione, esperienze e cultura? La questione è stata argomento di feroci lotte all’interno della Chiesa, all’interno delle filosofie moderne, cominciando dai battibecchi fra Voltaire e Rousseau negli anni scintillanti e innovativi dell’Illuminismo. Io propendo per questa ultima visione: “L’uomo - scrive Massimo Salvadori nel bel libro In difesa della storia - ha in comune con gli animali la capacità di muoversi nello spazio, ma a differenza di questi, gli esseri umani sono gli unici giunti a poter muoversi in posizione eretta. Gli uomini hanno in primo luogo l’enorme vantaggio derivante dal fatto di essere dotati di un cervello molto più potente e sofisticato. Inoltre, sono capaci di coltivare e sfruttare a proprio vantaggio, mediante le scoperte e le applicazioni della scienza e della tecnologia, le risorse offerte dalla terra, dall’aria e dalle acque, e di proteggersi con efficacia dalle intemperie. L’uomo inoltre è il solo capace di trarre profitto dalle proprie esperienze e “di servirsi dei mezzi messi a sua disposizione dal mondo naturale per costruirne un altro: quello artificiale. Erigere case, palazzi, grattacieli, ospedali, sviluppare mezzi di produzione di ogni genere di beni, alzare dighe, canalizzare le acque, coltivare la terra, fabbricare macchine per spostarsi più velocemente, solcare i mari, levarsi nei cieli: tutto ciò ha reso l’essere umano tanto diverso e potente. Ma l’uomo possiede anche qualità orribili. È capace di scatenare continue e terribili guerre nella logica di tutti contro tutti, sa essere crudele come nessuna altra creatura, ricorre a strumenti mostruosi per assoggettare i propri simili, arrivando a torturarli, giungendo al punto di pianificare e attuare lo sterminio in massa di coloro che considera nemici”. Se quello che dice Salvadori è vero, come io credo, noi possiamo e dobbiamo favorire e incoraggiare con tutti i mezzi la conoscenza della storia, come nostra più potente guida alla responsabilità sociale. Insomma usare la pratica della conoscenza, del dubbio, della critica, della sperimentazione, sempre guidati da una visione ampia e generosa del futuro, che non si chiuda solo sulla difesa degli interessi privati ma si allarghi all’altro da sé. Negare la realtà, proporsi come eterne vittime di complotti mondiali, chiudere gli occhi, le orecchie e la bocca, come le tre scimmiette che si trovano nel santuario di Toshogu in Giappone, vuol dire andarsene col pensiero e la coscienza prima di morire, mentre siamo ancora vivi. Anche se in realtà le tre scimmiette, secondo l’insegnamento confuciano, dovevano rappresentare i modi per vivere bene: non ascoltare, non vedere, non parlare. Ma curiosamente, come succede spesso nella immaginazione collettiva, le tre esortazioni si sono trasformate in tre tabù. Chi non guarda non vede, chi non ascolta non sente, chi non parla non comunica. Non saranno comunque le proibizioni, le esortazioni, gli allarmi a farci cambiare passo. Le grandi metamorfosi avvengono per contagio di spirito e di immaginazione: provare dolore nel vedere bruciare un bosco, provare sgomento nel guardare un ghiacciaio che si spoglia del suo meraviglioso abito bianco per mostrare uno scheletro grigio e pietroso, provare pena per gli animali ammassati negli allevamenti intensivi, sono le basi per la voglia di cambiamento e per la disposizione a fare sacrifici. Perché di sacrifici avremo bisogno e non saranno indolori. Ma i sacrifici si fanno quando si è appassionati e non certo per volontà etiche imposte dall’alto. I sentimenti cambiano secondo i cambiamenti del mondo, ma abbiamo capito che affidare tutta la responsabilità, in maniera feticistica, alle macchine, pur veloci e sofisticate, senza tenere conto dello sviluppo e della maturazione della persona e della civiltà, porta disastri. I robot non provano sentimenti e non hanno valori. Per questo è importante che gli esseri umani, se vogliono continuare ad abitare questa Terra, si attengano a un sistema di valori condiviso e a una fervida immaginazione che li renda miracolosamente e carnalmente vivi rispetto ai corpi minerali dell’universo. Se l’etica diventa intolleranza di Alberto Mingardi Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 Il mondo occidentale sembra “libertario”, ma talvolta finisce per prevalere un nuovo paternalismo. In Italia li chiamiamo “temi etici”. Sono le questioni di libertà personale, i dibattiti che hanno a che fare con la sovranità di ciascuno sul proprio corpo. Sono le questioni sulle quali i partiti che sostengono il governo Draghi si sono spesso divisi nel modo più netto: pensiamo alla legalizzazione delle droghe leggere o al suicidio assistito. In generale, però, l’impressione è che la nostra società sia più “libertaria” di quelle che l’hanno preceduta. È una questione prima che politica, generazionale: nel mezzo della pandemia, i giovani italiani si sono mobilitati per un’unica battaglia, quella sul ddl Zan. Ha poca importanza che la cannabis diventi “legale” fra un anno o fra cinque: già oggi è un consumo che non fa scandalo e sono pochi i genitori inquieti se il figlio fuma uno spinello. Questa società più libertaria dovrebbe ruotare attorno a un principio: le istituzioni pubbliche hanno il dovere di informare il singolo dei rischi che corre con un certo comportamento, ma non possono decidere per lui. L’argomento antiproibizionista non è che la cannabis faccia bene, è che non sta allo Stato giudicare cosa mi fa male e cosa no. Nelle scorse settimane, la Nuova Zelanda ha annunciato una norma, che dovrebbe essere approvata nel corso del 2022, per cui coloro che sono nati dal 2008 in avanti, anche al raggiungimento della maggiore età, non potranno più acquistare un pacchetto di sigarette. I danni del fumo sono stati oggetto di campagne di comunicazione capillari, già oggi i minori non possono acquistare tabacco; non mancano, sugli stessi pacchetti, indicazioni chiare e anche immagini inquietanti sulle conseguenze per la salute. Perlomeno nei Paesi occidentali, è difficile trovare qualcuno che non sia informato sul tema. Tutta una serie di spazi è interdetta ai fumatori, il loro è ormai veramente un vizio privato. Eppure, in un Paese del Commonwealth, l’obiettivo di una società “smoke free” giustifica un divieto così radicale. Dal prossimo 4 gennaio, nell’Ue non potranno più essere utilizzati inchiostri che contengono isopropanolo per realizzare disegni colorati sull’epidermide. Esistono pigmenti sostitutivi, ma non per tutti i colori. I tatuatori hanno cercato invano di fare sentire la propria voce. La sovranità dell’individuo sul suo corpo non esclude lo strato più superficiale e in generale la diffusione dei tatuaggi ha una dimensione culturale che segna, almeno in apparenza, la distanza fra il mondo di oggi e le vecchie convenzioni borghesi. Eppure, l’Ue ha inflitto un colpo importante, nel breve termine, a quest’industria senza pensarci due volte. Non era possibile informare le persone, convincerle della pericolosità di alcuni pigmenti, alimentare, per così dire, una domanda di sicurezza “dal basso”? Una società più “libertaria” avrebbe fatto così. Una delle eredità di lungo periodo della pandemia sarà la rinnovata centralità della salute, nel repertorio delle giustificazioni dell’intervento pubblico. C’è differenza, ovviamente, fra la possibilità di infettare qualcun altro e comportamenti che danneggiano soltanto me stesso. La questione è un’altra. Una società che ascolta gli economisti tenderà a dare la priorità a problemi economici, una società che ascolta i medici tenderà a problemi sanitari. Più importante dell’argomento antiproibizionista “di principio” diventa dunque una sorta di senso comune igienico: il tabacco fa male, la cannabis no. Si dirà: nulla di nuovo. Sin dall’alba dei tempi, le sostanze “pericolose” sono quelle che la percezione dei più definisce tali. Ma è diverso se i temi etici scavano la trincea di un’autentica emancipazione del singolo oppure riflettono pregiudizi diffusi. Elementi libertari si possono mescolare a un paternalismo di tipo nuovo: diverso ma non meno intollerante del vecchio. Se la legge indica chi va curato prima di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 2 gennaio 2022 Le condizioni gravi di insufficienza di mezzi nei reparti di terapia intensiva e di pronto soccorso rispetto al numero di pazienti affetti da Covid-19 hanno costretto i medici a scelte drammatiche tra l’uno e l’altro dei malati, con pesanti responsabilità per medici e infermieri nei reparti. L’eccezionalità della situazione di emergenza, che si è verificata specialmente in certi periodi della pandemia, ha attirato l’attenzione, in Italia come altrove in Europa, su una questione che si pone peraltro quotidianamente negli ospedali, ove occorre effettuare scelte tra paziente e paziente. Scelte di priorità, ma ogni priorità si accompagna ad una posteriorità e questa, in materia di salute può essere grave. Basti pensare alle “deprogrammazioni” di trattamento di malati non-Covid-19. O al forzato rallentamento degli interventi chirurgici quando sia necessario un successivo ricovero in terapia intensiva e il relativo reparto sia al completo. D’altra parte, è esperienza comune la assegnazione di codici di vari colori all’arrivo in un Pronto Soccorso. Recentemente a Torino il disastro verificatosi in piazza San Carlo ha improvvisamente portato centinaia di feriti in reparti di Pronto Soccorso ovviamente non predisposti per gestire una tale ondata di pazienti. Scelte rapidissime hanno dovuto esser fatte. Il richiamo alla “medicina di guerra” è appropriato. Il nesso dei trattamenti intensivi o di urgenza nei casi gravi di Covid-19 con la vita o la morte ha posto ai medici e alle loro associazioni specialistiche la necessità di elaborare specifiche e adeguate linee di condotta. Le soluzioni adottate nei vari paesi hanno seguito la via delle indicazioni di criteri clinici provenienti dalle associazioni professionali o dai comitati etici, qualche volta avallate dai ministeri della salute. In proposito si deve ricordare che in ultima analisi è sempre il medico curante ad avere la competenza e la responsabilità per valutare la specifica condizione e le necessità di ogni singolo paziente. Così si è operato in Italia. Sul sito dell’Istituto superiore di sanità si trova il documento del gennaio 2021 elaborato da un gruppo di lavoro della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva con la Società italiana di medicina legale. In esso si afferma innanzitutto che “nel caso di una saturazione delle risorse assistenziali tale da determinare l’impossibilità di garantire a tutte le persone malate il trattamento indicato, è necessario ricorrere al triage, piuttosto che ad un criterio cronologico (ordine di arrivo) o casuale (sorteggio)”. In considerazione dei criteri generali di deontologia medica di appropriatezza clinica, di proporzionalità e di ragionevole utilizzo delle risorse disponibili, il triage deve essere l’esito della valutazione globale di ogni singola persona malata, in funzione delle probabilità che essa ha di superare la condizione critica con il supporto delle cure intensive. I parametri da considerare sono indicati nel numero e tipo di comorbilità, nello stato funzionale pregresso e fragilità rilevanti rispetto alla risposta alle cure, nella gravità del quadro clinico attuale, nel presumibile impatto dei trattamenti intensivi, anche in considerazione dell’età del paziente e nella volontà della persona malata riguardo alle cure intensive. Il documento precisa che l’età deve essere considerata nel contesto della valutazione globale della persona malata e non sulla base di predefinite soglie di età. Solo a parità di altre condizioni, il mero dato anagrafico può avere un ruolo nella valutazione globale della persona malata in quanto con l’aumentare dell’età si riducono le probabilità di risposta alle cure intensive. Scopo del triage non deve essere quello di stabilire chi è più grave o ha maggiori necessità di cure, ma chi, con il supporto delle cure intensive, potrà con più o meno probabilità superare la sua attuale condizione critica, con una ragionevole aspettativa di sopravvivenza a breve termine dopo la dimissione dall’ospedale. Prima di dar conto della recente sentenza della Corte costituzionale federale tedesca, concernente il rischio di discriminazione che, nel triage, potrebbero patire i portatori di gravi disabilità, si può dire che nulla, nelle indicazioni date in Italia, consente di ritenere che situazioni di più o meno grave disabilità possano essere tenute in conto come controindicazione alla ammissione del paziente alle terapie intensive, né in sé, né in comparazione con le condizioni di altre persone. Ma la natura della disabilità o la coesistenza di specifiche morbilità possono incidere sulla valutazione dell’efficacia della terapia intensiva. In tal caso il criterio di utilità del ricorso alla terapia intensiva non porta ad una discriminazione in danno del disabile, poiché non è questa sua condizione che decide la valutazione medica, ma il complesso della condizione clinica rispetto agli esiti della terapia intensiva. Da tenere in conto infatti è solo quest’ultimo, come unico criterio clinicamente fondato ed egualmente applicato a tutti i pazienti. Analogo dovrebbe essere il discorso quanto agli anziani, che, come si è visto, rispetto ai più giovani hanno una capacità ridotta di utilmente reggere la terapia intensiva. Questa e non altra può essere ragione di non dare all’anziano il trattamento intensivo. E non si tratterebbe di discriminazione in danno degli anziani, costituzionalmente vietata. Venendo a considerare ciò che ha deciso la Corte costituzionale tedesca, va innanzitutto detto che, senza ovviamente essere vincolante in Italia, le sue argomentazioni debbono essere tenute presenti. Il quadro di riferimento costituzionale è infatti identico nei due paesi: divieto di discriminazione, rispetto della dignità delle persone, vincolo degli obblighi discendenti dalla Convenzione internazionale sui diritti delle persone disabili. Nell’un sistema e nell’altro, entrambi parte dell’Unione europea, ha senso la ricerca dell’armonizzazione. La Corte tedesca ha ritenuto che il legislatore non abbia assicurato sufficiente protezione ai malati disabili rispetto al cruciale momento della assegnazione ad un reparto di terapia intensiva. In certi casi di seria disabilità, il malato potrebbe non essere in grado di validamente discutere con l’équipe medica e la decisione dei medici potrebbe essere viziata da stereotipi sulla disabilità. La disabilità inoltre potrebbe essere in se stessa considerata motivo di esclusione dalla terapia intensiva, dando così luogo a discriminazione fondata proprio sulla disabilità. Inoltre i criteri elaborati dalle associazioni mediche non sono vincolanti, come sarebbe una legge, cosicché è ridotta la loro efficacia di garanzia. Il legislatore tedesco deve dunque rapidamente intervenire. Ma il contenuto della legge è rimesso alla discrezionalità legislativa, che dovrà tener conto sia delle difficili condizioni in cui operano i medici, sia della finale competenza esclusiva del medico curante, sia delle possibilità alternative che si possono ipotizzare per rafforzare la posizione e i diritti del disabile. In conclusione, l’effetto vincolante della sentenza sembra limitarsi alla necessità di un atto legislativo, il cui contenuto è però largamente rimesso alle scelte del legislatore. Quale allora la situazione italiana rispetto alle esigenze di garanzia che la Corte tedesca ha tenuto presenti? Nel merito sembra che contrasto non vi sia con il tenore del documento sopra sintetizzato, pur senza che esso menzioni specificamente la condizione del disabile. Ma non si tratta di una legge. Tuttavia l’osservanza delle migliori pratiche mediche, di cui quel documento è certo espressione, è tenuta in conto dalla legge penale e civile sulla responsabilità medica. La natura legislativa delle indicazioni metodologiche nel triage potrebbe quindi essere, nel sistema italiano, scarsamente significativa anche perché sarebbero necessariamente elastiche e legate alla concretezza delle condizioni di ciascun malato. Previsioni incerte, ma aumenta la diseguaglianza di Vincenzo Comito Il Manifesto, 2 gennaio 2022 Stime per il 2022. In un periodo di grandi incertezze, il trend delle diseguaglianze è quasi l’unica voce sicura. Come è noto, fare previsioni è complicato, specialmente in economia; raramente poi, come ha scritto il Financial Times, il suo andamento appare così difficile da leggere come per il 2022. Ma per andare avanti non si può fare a meno delle stesse previsioni e così tentiamo, riferendoci a varie fonti, di stimare per il 2022 l’andamento di quattro voci, le diseguaglianze, l’inflazione, il pil, l’occupazione. In un periodo di grandi incertezze, il trend delle diseguaglianze è quasi l’unica voce sicura. Dagli anni Ottanta esse non cessano di crescere. Il World Inequality Lab ci dice che il 10% delle persone più ricche possiede ormai il 76% dei beni mondiali, mentre il 50% più povero solo il 2%; per quanto riguarda i redditi, il 10% più ricco ne ottiene il 54,8% mentre il 50% più povero il 7,1%. Studiosi come Piketty e Atkinson hanno già ampiamente esplorato il fenomeno e suggerito le politiche per ridimensionarlo; ma le azioni correttive latitano. Da noi negli ultimi quaranta anni e con tutti i governi le differenze sono continuate a salire; ora nel Pnrr, nel budget 2022 e nella riforma fiscale non vi è traccia di una seria azione in proposito, ciò che non sembra interessare nessuno. Un economista come Jean-Paul Fitoussi parla ormai anche di Draghi (lo si è già detto, et pour cause, di Macron) come di un presidente dei ricchi. Si può affermare che nel 2022 e nel 2023 le diseguaglianze continueranno a crescere nel mondo; le forze che si oppongono al cambiamento sono troppo potenti. E veniamo all’inflazione. Negli scorsi mesi, a fronte dei rilevanti aumenti di prezzi, molte voci, dalla Fed al Fmi, hanno parlato di un fenomeno temporaneo, dovuto a strozzature nella logistica, a forti aumenti nella domanda di beni, alla crisi del petrolio. Ma ora si registrano grandi incertezze sul perché dell’inflazione, sulla sua durata, su come contrastarla. Intanto, negli Usa a novembre l’aumento dei prezzi al consumo è stato del 6,8%, in Germania del 5,2%, nell’Eurozona del 4,9%, in Italia del 3,7%, le cifre più alte degli ultimi decenni. A maggio l’Ocse pensava che l’inflazione nei paesi aderenti, scontato un aumento del 5% per il 2021, si sarebbe fermata al 2,5% nel 2022, mentre ora la stima al 3,5% per il prossimo anno e ancora al 3% nel 2023. È così che la Fed Usa terminerà a marzo 2022 il suo programma di acquisto titoli e dichiara che aumenterà i tassi di interesse per tre volte entro lo stesso anno. La Bce, che deve accontentare 19 paesi molto differenti tra di loro, ha deciso di tenerli fermi per tutto il 2022 e di moderare soltanto un poco la politica di acquisto dei titoli; altrimenti le conseguenze su paesi come l’Italia e la Grecia sarebbero state pesanti. Ma, vista la crescente divaricazione tra le due grandi aree economiche, gli speculatori sono già in agguato. Peraltro, le mosse della Fed non spaventano nessuno; la Borsa è rimasta indifferente e i rendimenti dei titoli pubblici sono fermi; si pensa che la stessa Fed non alzerà poi i tassi, viste le previsioni di indebolimento della crescita per la variante Omicron e la bocciatura dei piani di spesa di Biden. I sindacati europei, a fronte dell’aumento dei prezzi, continueranno a chiedere nel 2022 aumenti dei salari, mentre molte imprese stanno dichiarando una rilevante crescita dei profitti. Sempre l’Ocse, con previsioni pre-variante omicron, stima un incremento del pil per l’Eurozona del 5,2% per il 2021 del 4,3% per il 2022, del 2,5% per il 2023. Per l’Italia, dopo il 6,3% del 2021, si parla del 4,6% per il 2022 e del 2,6% per il 2023. Le stime della Ue sono un poco meno ottimistiche. Così per l’Italia si scommette per il 2022 in un 4,3% (nel 2021 recupereremo forse 170 miliardi di pil, ma ne avevamo persi 230 nel 2020) e in un 2,3% nel 2023. Mentre impazza la pandemia, i dubbi su tali stime crescono insieme al diffondersi della omicron, nonché alle incerte previsioni sull’economia cinese e sull’inflazione e comunque non tutti ci guadagneranno allo stesso modo. Qualcuno rispolvera per i paesi occidentali la minaccia della stagflazione di lontana memoria. E veniamo al lavoro. Negli Usa il livello di disoccupazione scende; siamo ormai ai minimi (4,2%), ma non migliorano retribuzioni e condizioni di lavoro. Nella UE essa è ora vicina ai livelli pre-pandemia, con il 7,3% di ottobre, restando comunque più alta che negli Usa; dovrebbe calare al 6,7% nel 2022. Anche l’occupazione supererebbe i livelli pre-crisi nel 2022. Ma la ripresa, dice la stessa Ue, non avviene in modo uniforme ed appare reale il rischio che aumentino le diseguaglianze tra generi, fasce di età e settori della società. IN Italia, per l’Istat tra la fine del 2019 e quella del 2020 si sono persi 622 mila posti; nel 2021 è aumentata l’occupazione, ma il numero dei disoccupati è ancora più alto del livello pre-pandemia e neanche alla fine del 2022 si ritornerebbe pienamente alla situazione pre-crisi. Comunque, l’aumento riguarderà per la gran parte, come nel 2021, lavoro precario e sottopagato, con molti contratti che durano meno di un mese e con donne e giovani che restano al margine (questi ultimi continueranno ad emigrare). Gli occupati a termine sono ormai più di 3 milioni. Intanto nel 2020 le retribuzioni medie sono diminuite del 6%. Possiamo chiudere queste note con un’altra certezza: il numero dei rider senza diritti, nonostante le sentenze di molti tribunali, continuerà nel 2022 a crescere nel mondo. Il ritorno della frontiera di Ezio Mauro La Repubblica, 2 gennaio 2022 Corre tra i Paesi Baltici e la Russia. la Bielorussia, l’Ucraina, fino al Mar Nero e alla Turchia. Segnando una diversa interpretazione del concetto di democrazia. È l’anno del ritorno della frontiera. Dopo aver abolito con la moneta unica i vecchi muri tra gli Stati, l’Europa scopre alle soglie del 2022 di avere di nuovo un confine esterno, geograficamente marcato, politicamente sensibile, storicamente simbolico. Corre tra i Paesi Baltici e la Russia, la Bielorussia, l’Ucraina, per poi scendere fino al Mar Nero e alla Turchia. Il Novecento ha danzato su questa parte del mondo, imprigionandola e poi liberandola. Il nuovo secolo sembrava nascere su una geografia pacificata, risolta, che traduceva nel disegno del continente la sconfitta definitiva dei totalitarismi e la supremazia finale della democrazia vittoriosa. Un’illusione subito minacciata dall’attacco del terrorismo islamista alle due torri, e infine cancellata dagli attacchi diretti alla democrazia da parte dei risorgenti autoritarismi: che propongono ai cittadini disorientati dalla doppia crisi economica e sanitaria un modello semplificato di governance e di leadership, senza controlli e contrappesi, per dispiegare completamente tutta la potestà dei nuovi sovrani, consacrati e protetti dal voto popolare. La diversa interpretazione del concetto di democrazia corre proprio sul percorso di quella nuova frontiera, una linea che divide due diverse concezioni del potere, due teorie del comando, due ideologie in formazione. Da un lato il “democraticismo” della Ue, impegnata costantemente a tradurre in regole il suo Credo nella democrazia delle istituzioni e dei diritti. Dall’altro lato il sovranismo delle nuove “democrature”, impegnate a svellere gli istituti di difesa dello Stato di diritto e i meccanismi di affermazione quotidiana dei diritti fondamentali, dalla libertà di informazione alla contendibilità del comando attraverso il libero gioco della politica. Dunque il nuovo confine non è casuale, e non è nemmeno una sovrastruttura artificiale, estranea alla vicenda storica e al sentimento popolare. Anzi, è immediatamente evocativo, in quanto resuscita esattamente la contesa tra le due metà del mondo che si sono confrontate per tutto il periodo della Guerra Fredda, come se la storia dopo aver fatto un giro ritornasse al punto di partenza, incapace di uscire dai vecchi equilibri. Perché dall’altra parte della frontiera noi troviamo nel 2022 il “nemico ereditario” dell’Europa politica: l’Est che ritorna. I punti cardinali sembravano smarriti in questa parte del mondo, da quando era crollata la pietra divisoria che separava i due campi: il Muro di Berlino, vero meridiano zero del pianeta che col primitivismo del cemento e del filo spinato distingueva l’Est dall’Ovest, simbolo armato di una guerra sospesa, che su quella barriera aveva il suo laboratorio d’esercitazione e il campo magnetico su cui scaricare tutte le tensioni di un conflitto latente. Lo smantellamento del Muro ha liberato Paesi e destini, cambiando la mappa d’Europa, ricucendo il continente, mentre la fine dell’Unione Sovietica prosciugava ideologicamente il concetto di Est, e lo riduceva a una pura interpretazione geografica. Oggi l’Est torna a dare identità a un pezzo d’Europa, a dare forma di potenza a un pensiero alternativo, a incubare tra Russia, Bielorussia, Polonia e Ungheria tutte le crisi dell’epoca, per scaricarle sulla Ue. Di nuovo, due Europe si fronteggiano, l’Ovest ritrova il suo Est e ricomincia la contrapposizione perenne. Ma occorre un passo in più per reggere questa sfida. Con l’Est non devono confrontarsi i singoli Paesi bensì l’Occidente, attingendo al suo patrimonio di storia e di filosofia della politica, al suo deposito di cultura, di tecnologia, di diritto e di civiltà. Ma l’Occidente, che è oggi guidato da un leader in ritirata come gli Stati Uniti, e che ha appena conosciuto la trasgressione trumpista ai valori liberali della Costituzione, ha più che mai bisogno di Europa per essere se stesso. Il 2022 è dunque l’anno del grande appuntamento per la Ue, l’occasione decisiva per trovare una soggettività politica e un ruolo da protagonista che le consenta di investire finalmente il valore politico della sua moneta in una politica estera comune, in una difesa dei valori occidentali, in una testimonianza dei principi della democrazia, da affermare in ogni crisi, come fonte di autorità. Serve il coraggio di un’innovazione istituzionale. Salvo assistere da attori non protagonisti alla rivincita dell’Est: con i destini d’Europa decisi dalla Russia resuscitata, perché davvero eterna. Dodici mesi di buone notizie, Amnesty International e le battaglie vinte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 Il racconto di un anno attraverso le buone notizie sui diritti umani. Così Amnesty International - organizzazione non governativa internazionale a tutela di libertà, verità, giustizia e dignità - ha raccontato il 2021. Selezionando le migliori storie nel mondo: una per mese su un totale di duecento. Un bilancio di alcune delle sue battaglie. Diritti umani e ambiente - Paesi Bassi, 29 gennaio. La Corte d’Appello dell’Aja, nei Paesi Bassi, giudica l’azienda petrolifera Shell responsabile dell’inquinamento da idrocarburi causato dalla sussidiaria Shell Nigeria nella regione del Delta del fiume Niger e dispone un risarcimento a favore di tre agricoltori locali che avevano fatto causa. Tortura - Germania, 24 febbraio. L’Alta Corte regionale di Coblenza, in Germania, condanna il funzionario della sicurezza del governo siriano Eyab al-Gharib a quattro anni e mezzo di carcere per crimini contro l’umanità, consistenti nelle torture commesse nei confronti di manifestanti arrestati nella capitale siriana Damasco. Diritti dei migranti, richiedenti asilo e rifugiati - Francia, 9 settembre. La Corte d’Appello di Grenoble, in Francia, annulla la condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nei confronti di sette attiviste e attivisti noti come “I sette di Briançon” che nell’aprile del 2018 si erano frapposti a un gruppo di neonazisti che cercavano di impedire l’ingresso dei migranti in territorio francese lungo il confine alpino. Pena di morte - Arabia Saudita, 27 ottobre. Ali al-Nimr, attivista saudita arrestato nel febbraio 2012 all’età di 17 anni e condannato a morte due anni dopo, viene rilasciato con alcuni mesi di anticipo rispetto alla scadenza della pena. Il 7 gennaio 2021 la sua condanna a morte era stata commutata in 10 anni di carcere. Giustizia - Germania, 30 novembre. L’Alta Corte regionale di Francoforte, in Germania, condanna un affiliato al gruppo Stato Islamico per genocidio e crimini contro l’umanità, per avere, nel 2015, comprato, ridotto in schiavitù., torturato e lasciato morire al sole un bambino yazida di cinque anni. Prigionieri di coscienza - Egitto, 7 dicembre. Il tribunale di emergenza di Mansoura, in Egitto, dispone la libertà provvisoria di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna arrestato al Cairo, in attesa dell’udienza del 1° febbraio 2022 che lo vede imputato di diffusione di notizie false. Diritti umani, gli auspici per il nuovo anno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 gennaio 2022 Che Patrick Zaki torni definitivamente libero e riprenda gli studi, interrotti il 7 febbraio 2020, nella sua Bologna. Che con lui tornino liberi gli altri prigionieri di coscienza egiziani, tra cui colui che Patrick definisce il suo mentore, Alaa Abd el-Fattah. Che l’amministrazione Biden chiuda il centro di detenzione di Guantánamo, annulli le accuse nei confronti di Julian Assange e rinunci alla sua richiesta di estradizione. Che tutti i prigionieri di coscienza della Bielorussia, centinaia e centinaia, siano scarcerati. Che ad Ahmadreza Djalali, che tra pochi giorni compirà 50 anni, sia tolto quel cappio che gli pende sulla testa e sia permesso di tornare dalla moglie e dai figli a Stoccolma. Che insieme a lui tornino in libertà gli altri detenuti con doppio passaporto, iraniano-qualcosa, trattenuti in Iran come merce di scambio, insieme ad attiviste coraggiose come Nasrin Sotoudeh e Narges Muhammadi. Che il blogger saudita Raif Badawi sia rilasciato e, con lui, altri prigionieri di coscienza negli stati del Golfo, come Abdelhadi al-Khawaja in Bahrein e Ahmed Mansoor negli Emirati Arabi Uniti. Che le autorità messicane adottino misure concrete per prevenire i femminicidi. Che la Turchia rilasci tutti i giornalisti e gli attivisti politici in carcere, tra i quali Osman Kavala e Salahettin Demirtas. Che la Cina ponga fine alla persecuzione degli uiguri e delle altre minoranze religiose nello Xinjang. Che la Grecia e gli altri stati dell’Unione europea, Italia inclusa, pongano fine alla criminalizzazione della solidarietà. Che Israele cessi di espandere i propri insediamenti illegali nelle terre palestinesi. Che in Brasile si accertino e puniscano i mandanti dell’assassinio di Marielle Franco e Anderson Gomez. Che il presidente russo Putin ponga termine alla persecuzione delle organizzazioni della società civile. Che in Polonia si interrompa l’erosione dello stato di diritto e cessino le politiche ostili ai diritti delle donne e delle persone Lgbtiqa+ Che entro la fine dell’anno accada ciò che doveva accadere entro quella del 2021, ossia vaccini per tutti e per tutte grazie anche alla cessione temporanea dei brevetti da parte dei giganti dell’industria farmaceutica. Che le lotte per proteggere la terra e il clima siano appoggiate e non represse. Che prosegua la tendenza globale verso l’abolizione della pena di morte (pare che la Malesia sarà il prossimo stato che si aggiungerà alla lista!) Che in occasione dei mondiali di calcio in Qatar siano ricordate, risarcite e punite tutte le morti dei lavoratori migranti impegnati nell’ultimo decennio nella costruzione degli stadi e delle infrastrutture. Che in Italia sia adottata una legislazione equivalente al defunto ddl Zan, che siano introdotti i codici alfanumerici per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico. Che, sempre nel nostro paese, si avvii finalmente il processo nei confronti degli imputati del sequestro, della tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni. Che arrivino al termine, con adeguate condanne, i processi per l’omicidio di Stefano Cucchi e quelli riguardanti le torture praticate negli istituti di pena. Che nel Cile del nuovo presidente Gabriel Boric Font prosegua il cambiamento iniziato nelle piazze nell’autunno del 2019. Che la prospettiva di processi e condanne da parte della giustizia internazionale convinca gli autori di crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Afghanistan, Myanmar, Etiopia e altrove che prima o poi saranno chiamati a renderne conto. Egitto. Concessioni e strategie dietro la liberazione di Patrick Zaki di Fabrizio Gatti L’Espresso, 2 gennaio 2022 La chiusura dell’ufficio coperto dei servizi segreti di Al-Sisi a Milano. L’attivismo diplomatico della Francia. Così è partita la corsa a liberare lo studente in prigione. Mentre la famiglia Regeni attende giustizia. Mesi fa, quando il processo per l’omicidio di Giulio Regeni era ormai a un vicolo cieco ed è cominciato il conto alla rovescia per la liberazione di Patrick Zaki, anche l’ufficio coperto dei servizi segreti egiziani a Milano ha chiuso bottega. Il monitoraggio sull’Italia settentrionale, dalla provincia di Udine per il caso Regeni all’Università di Bologna per Patrick, era compito loro. La svolta, interpretata dal regime del Cairo come il segnale di un nuovo corso, è confermata dalle notizie del 26 novembre che arrivano da Roma. Quel giorno nelle sale del Quirinale il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il presidente francese, Emmanuel Macron, davanti al capo dello Stato, Sergio Mattarella, e alle delegazioni dei ministri di Roma e Parigi, firmano il “Trattato per una cooperazione bilaterale rafforzata”. È la dimostrazione più autorevole che grazie alla Francia, principale alleato europeo del presidente Abdel Fattah al-Sisi, anche i rapporti tra Italia e Egitto torneranno presto alla normalità. Nel giro di pochi giorni, il primo pomeriggio di mercoledì 8 dicembre Patrick Zaki, 30 anni, può finalmente riabbracciare la sorella Marise, la fidanzata e gli amici venuti a prenderlo davanti al commissariato di Mansoura, la sua città. E, nelle stesse ore, il consiglio di amministrazione di Leonardo può perfino sperare nella vendita all’aviazione militare egiziana di ventiquattro aerei da addestramento M-346, che si aggiungono a due fregate già cedute da Fincantieri nel corso dell’anno. Un affare per l’industria statale italiana di circa un miliardo e settecento milioni. Sono comunque briciole rispetto alle forniture belliche per miliardi di euro che la Francia ha consegnato all’Egitto durante la crisi dei rapporti tra Il Cairo e Roma aperta con la morte di Giulio Regeni e continuata con l’arresto di Patrick Zaki. Il ricercatore universitario friulano era stato sequestrato senza motivo, torturato e ucciso a 28 anni da agenti segreti egiziani tra il 25 gennaio e il 2 febbraio 2016. Lo studente dell’Università di Bologna era stato invece fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020. Questa partita a scacchi sulle due sponde del Mediterraneo ha più giocatori, ma un unico arbitro: il presidente francese Macron, con la sua diplomazia. Grazie al nuovo trattato del Quirinale, il premier Draghi ha riparato i danni provocati dal primo governo di Giuseppe Conte, culminati con la visita di Luigi Di Maio, allora vicepremier, ai capi dei gilet gialli che in quelle settimane stavano devastando Parigi. E con la liberazione di Patrick Zaki, il presidente egiziano al-Sisi ha provato a dare all’Europa una prova di apparente buona volontà. Ma, in questi giorni di parziale sollievo, non tutti hanno vinto. Non hanno ancora ottenuto giustizia Claudio Regeni, 69 anni, Paola Deffendi, 63, e la memoria del loro figlio Giulio. Le parole più ruvide nei loro confronti le ha pronunciate proprio il ministro degli Esteri, attribuendosi parte del successo per la liberazione di Patrick: “È alimentando i canali diplomatici che si arriva ai risultati, non chiudendoli”, è la spiegazione data da Luigi Di Maio. Evidente l’allusione alla richiesta della famiglia Regeni, assistita dall’avvocato Alessandra Ballerini, di ritirare l’ambasciatore italiano al Cairo, dal momento che la magistratura egiziana si rifiuta di eseguire l’elezione di domicilio dei quattro ufficiali imputati per la morte di Giulio, impedendone così il processo in Italia. L’elezione di domicilio è il semplice atto che l’autorità deve compiere davanti all’indagato affinché possano essergli comunicate le accuse che lo riguardano e le convocazioni alle udienze. Anche se la Procura di Roma ha identificato i presunti responsabili, senza questo pezzo di carta controfirmato o almeno recapitato, le torture e l’omicidio di Giulio rimarranno impuniti. Mancano infatti gli indirizzi dove notificare i capi di imputazione. Non è riuscita a ottenerli la diplomazia guidata da Di Maio. Ma nemmeno i tentativi personali di Marco Minniti, già ministro dell’Interno dal 2016 al 2018 durante il governo di Paolo Gentiloni e oggi presidente della Fondazione Med-Or, creata nella primavera 2021 dalla società Leonardo, come spiega il sito istituzionale, per “rafforzare i legami, gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (“Med”) e del Medio ed Estremo Oriente (“Or”)”. Finora è stato quindi più facile vendere aerei e navi da guerra a un regime totalitario, senza però ottenere in cambio la dovuta assistenza giudiziaria per rendere giustizia alla morte di un ragazzo innocente. Nonostante la mancata collaborazione, i servizi segreti egiziani hanno invece libertà d’azione in Italia. La sede coperta, attiva a Milano nei mesi più acuti della crisi per la morte di Giulio Regeni e l’arresto di Patrick Zaki, ne è la dimostrazione. Due piani di una palazzina di uffici in affitto, più lo scantinato, in una zona industriale a un quarto d’ora a piedi dalla fermata Brenta della terza linea della metropolitana, vicino al dormitorio comunale intitolato a Enzo Jannacci, a pochi isolati da piazzale Corvetto. Ufficialmente era il quartier generale di un’impresa di costruzioni, che dava lavoro e permessi di soggiorno ai connazionali in Lombardia. “Muratori? Qui non ne abbiamo mai visti”, raccontano gli autisti di un vicino deposito di Poste Italiane: “Ogni mattina si notava un discreto viavai di persone. Dall’aspetto erano tutti arabi, ma non sembravano affatto muratori. I loro vestiti erano stirati, puliti. Poi un giorno, all’improvviso, hanno smontato le insegne e non si è visto più nessuno”. Da allora le saracinesche sono abbassate. Le luci spente, dietro le vetrate a specchio. L’agenzia segreta più temuta sotto il regime di al-Sisi è l’Aca: Autorità di controllo amministrativo. Al di là della sigla burocratica, si tratta di una rete di intelligence che sorveglia i tanti apparati e, in nome della lotta alla corruzione, risponde direttamente alla cerchia fidata del presidente. Sono gli agenti dell’Aca, sparsi tra i consolati e gli uffici coperti, a monitorare quanto viene pubblicato in Italia sui dossier che interessano il regime. Ora che il caso di Patrick Zaki è stato temporaneamente disinnescato, il processo ai presunti assassini di Giulio Regeni resta il più delicato. L’omicidio del ricercatore friulano è competenza dell’Autorità di controllo amministrativo. I quattro imputati sono infatti dipendenti dello Stato egiziano: il generale Sabir Tariq, 58 anni, ufficiale di polizia presso il Dipartimento per la sicurezza nazionale; il colonnello Mohamed Ibrahim Athar Kamel, 53 anni, allora capo delle investigazioni giudiziarie al Cairo; il colonnello Helmi Uhsam, 53 anni, allora in forza alla National Security egiziana; il maggiore Abdelal Sharif Magdi Ibrahim, 37 anni, anche lui ufficiale della National Security. Sono tutti imputati per sequestro di persona e il maggiore Magdi per le torture e l’omicidio di Giulio, insieme con altri complici rimasti sconosciuti. Lunedì 10 gennaio il fascicolo verrà nuovamente discusso davanti al giudice per l’udienza preliminare, dopo che il 14 ottobre la III Corte d’Assise di Roma ha azzerato il processo per le mancate elezioni di domicilio. Il caso Regeni insomma è ancora nelle mani del ministro Di Maio. Vedremo cosa riuscirà a ottenere, con o senza la mediazione francese. Alla vigilia del sesto anniversario della morte del ricercatore, il governo italiano è all’angolo. Se alza la voce sull’omicidio, rischia di perdere i contratti militari con al-Sisi e Patrick Zaki potrebbe essere condannato a una pena superiore al periodo già trascorso in carcere. Se scende a patti, sacrifica la memoria di Giulio e la statura civile dei suoi genitori. Poi tocca a Patrick. Martedì primo febbraio lo studente dell’Università di Bologna tornerà davanti al giudice egiziano. Tre settimane separano le due udienze. Ventuno giorni in cui nessuno tra Roma e Il Cairo vorrà perdere la faccia. La speranza di una via d’uscita è nel calendario. Il 2022 è infatti un anno particolare per l’Egitto. Dal 7 al 18 novembre Sharm el-Sheikh, la località turistica sul Mar Rosso, ospiterà la conferenza sul clima Cop 27 e il regime, forse, cercherà di non presentarsi all’appuntamento mondiale con le carceri piene di studenti e oppositori. Un’opportunità l’ha indicata qualche giorno fa Mohamed Anwar el-Sadat, leader del Partito riforma e sviluppo e nipote del presidente egiziano ucciso in un attacco terroristico il 6 ottobre 1981. Queste le sue parole: “Proviamo a ricostruire quello che si è rotto tra noi in Egitto e l’Italia a causa del caso Regeni e di quello di Patrick George Zaki”. Lui, Patrick, un cuore grande, due lauree e un master all’Università di Bologna interrotto dall’arresto, continua a credere nella giustizia. Lo dimostra la sua pagina Twitter su cui ha ripreso a pubblicare con discrezione: “Spero di sentire qualcosa di buono oggi”, posta lunedì 20 dicembre sopra le foto di uno scrittore, un avvocato e un blogger arrestati nel settembre 2019 per aver criticato il governo. La sentenza del Tribunale del distretto di New Cairo, senza possibilità di appello, arriva nel pomeriggio: “Lo scrittore Alaa Abd El Fattah è stato condannato a cinque anni di prigione, mentre l’avvocato Mohamed el-Baqer e il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim a quattro anni ciascuno”. Il regime che ospiterà la prossima conferenza mondiale sul clima è tutto questo.