Rems, la vera riforma è cancellare il Codice Rocco di Franco Corleone Il Riformista, 29 gennaio 2022 Dopo l’indicazione della Corte costituzionale l’altra strada è quella di subire l’indicazione dei giudici intervenendo sulla legge 81 con il rischio di consolidare una soluzione di piccoli Opg e la conferma del doppio binario. Discutiamo la proposta di legge presentata da Magi. La sentenza 22 del 27 gennaio 2022 della Corte Costituzionale, redattore Francesco Viganò, sulla questione delle Rems e del superamento degli Opg è di grande valore e pone in maniera ineludibile questioni di importanza strategica. Vengono messe in luce contraddizioni nelle norme che hanno sostanziato una scelta rivoluzionaria, la chiusura del manicomio giudiziario che io ho definito subito una rivoluzione gentile, ma contemporaneamente emergono contraddizioni nella ricostruzione della vicenda e nella prospettazione di un intervento legislativo correttivo. È fondamentale e costituisce un punto fermo la dichiarazione di inammissibilità delle questioni poste dal giudice di Tivoli per aberratio ictus, relativamente agli articoli del Codice Penale 206 e 222, ma anche rispetto alle questioni relative alla legge 9, alla luce dei risultati emersi dall’istruttoria deliberata dall’Ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021 che chiedeva al Governo una relazione di chiarimento su quattordici punti. La Corte esplicita con nettezza che una dichiarazione della norma contestata avrebbe comportato la caduta integrale del sistema delle Rems “che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi Opg e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”, ma anche un aggravamento delle difficoltà denunciate sulla efficienza del sistema. Tutto bene dunque? Non proprio, perché la Corte suggerisce dei correttivi sostanziali e richiama l’attenzione sul fatto che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati nella pronuncia”. Infatti la Corte Costituzionale conferma la nuova linea adottata di dare indicazioni di modifiche legislative al Parlamento, in alcuni casi con tempi ultimativi, e indica la necessità di definire un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e di quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei reati che potrebbero essere compiuti dai soggetti sottoposti alle misure di sicurezza perché socialmente pericolosi e infine in un adeguato coinvolgimento del Ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e nel monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura della libertà vigilata. La Corte è perentoria nell’affermare che il ricovero in una Rems, per come è concretamente configurata nell’Ordinamento, “non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria”, perché la misura di sicurezza è strettamente legata alla pericolosità sociale, seppure presunta. L’incapacità di intendere e volere al momento del fatto, attraverso il proscioglimento si riverbera dunque sul presente e sul futuro, con una incapacitazione permanente che si salda con la affermazione di possibilità della reiterazione del reato. Evidentemente scoppia l’insostenibilità denunciata già ora di un ruolo ambivalente di cura e custodia. La Corte condivide con assoluta chiarezza la scelta del superamento dell’Opg e dell’abbandono di una logica custodialistica, ma lega la finalità terapeutica a una tutela della sicurezza delle vittime. È anche decisivo il giudizio sulla essenzialità dei principi cardine della territorialità e del rispetto del numero chiuso e in particolare del numero ottimale di 20 ospiti, come anche l’affermazione che non spetti alla Corte individuare la ragione della lunga lista d’attesa per l’ingresso in Rems. In ogni caso viene espresso un ventaglio di responsabilità che illuminano la realtà, dalla insufficienza dei posti disponibili a un eccesso di provvedimenti di assegnazione alle Rems da parte dell’autorità giudiziaria in conseguenza di una diffusa mancata adesione al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma e al non rispetto dell’indicazione di extrema ratio, dalla assenza sul territorio di soluzioni alternative per salvaguardare le esigenze di salute del singolo e di sicurezza pubblica, al mancato esercizio di poteri sostitutivi: nomina di un commissario nei confronti delle regioni in difficoltà. La Corte Costituzionale invita a una decisione. Che fare? Ci sono due strade alternative. Subire le indicazioni della Corte intervenendo sulla legge 81 (magari eliminando la possibilità di ingresso in Rems per le misure di sicurezza provvisorie) con il rischio di consolidare una soluzione di piccoli Opg (ma bisognerebbe abbattere il bubbone di Castiglione delle Stiviere con i suoi 160 posti) e la conferma del doppio binario del Codice Rocco o mettere in campo la grande riforma radicale di eliminare la non imputabilità e stroncare alla radice le attuali contraddizioni. Discutere quindi la proposta 2939 presentata alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi che ha raccolto l’elaborazione proposta dalla Società della Ragione e da molte altre associazioni e movimenti che scioglie i nodi legati a vecchi principi e afferma nuove categorie legate alla legge 180 per cui la libertà è terapeutica. Il senso è chiaro: “Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo la responsabilità - e con ciò la possibilità di comprensione- delle loro azioni; e risparmiando lo stigma che il verdetto di incapacità di intender e volere e l’internamento recano con sé”. Liberare almeno dal carcere chi patisce disagio mentale di Maria Antonietta Farina Coscioni* Avvenire, 29 gennaio 2022 Caro direttore, ancora una volta il tuo giornale si dimostra lettura imprescindibile, capace com’è di ‘illuminare’ luoghi e situazioni che solitamente sembrano interessare poco o nulla gli altri media. Mi riferisco specificamente all’articolo di Luca Liverani “Disagio psichico e 41 bis, quei messaggi sul carcere” (‘Avvenire’, 25 gennaio 2022). In effetti, la sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) che condanna l’Italia per aver trattato in modo inumano un detenuto con gravi problemi psichiatrici, ci mette con le spalle al muro. Tutto nasce, come ricorda Liverani, dalla vicenda di Giacomo Seydou Sy, sofferente di turbe della personalità e bipolarismo. Una storia che mi ha particolarmente colpito e commosso, quando Loretta Rossi Stuart, la mamma di Giacomo, ha accettato due anni fa di renderla nota dai microfoni de ‘La nuda verità’, la trasmissione che conduco per ‘Radio Radicale’. Già: perché la vicenda si trascina da anni, e rivela - al di là del caso singolo - una situazione che le istituzioni e la politica dolosamente, pervicacemente ignorano. Non si entra assolutamente nel merito del reato che viene contestato, e neppure si mette in dubbio che vi sia una vittima; si dice ‘solo’ che le vittime sono almeno due, visto che si è accertata la malattia di Giacomo; ed è altrettanto chiaro che Giacomo ovunque deve stare, ma certo non in un carcere. Dove invece è stato recluso. L’importanza della sentenza della Cedu in questo consiste, e non certo nell’irrisorietà della cifra risarcitoria (36.400 euro per ‘danni morali’). Il fatto mortificante è che si sia dovuti ‘emigrare’ in Europa, per ottenere un risultato elementare: il carcere non è un luogo per la cura e l’assistenza; e un malato affetto da disagio psichico accertato e certificato non può e non deve stare in una cella di penitenziario. Da sempre sono convinta che i disturbi psichici sono nettamente più pesanti da sopportare e supportare di quelli fisici. In questo senso ho cercato, da parlamentare, di concentrare i miei sforzi e le mie energie, nella passata legislatura. Si era, allora, riusciti a realizzare proficue e preziose convergenze e sintonie, un comune sentire, un’autentica ‘unione’ capace di superare i diversi (e spesso opposti) schieramenti politici. Purtroppo casi come quelli di Giacomo sono tutt’altro che isolati, come può confermare chiunque si occupa delle questioni legate al disagio mentale; e non è accettabile che le carceri siano ‘discariche’ come un tempo erano i manicomi, prima che venissero aboliti. Qui si apre un capitolo tutto da scrivere: perché dal 1978 (anno in cui si è approvata la legge 180) a oggi, sia pure con mille contraddizioni e ritardi, molti passi in avanti sono stati fatti, e soprattutto grazie a operatori intelligenti e pieni di volontà buona, che hanno saputo far fronte a innumerevoli lacune e assenze delle istituzioni. Più di recente sono stati aboliti di Ospedali Psichiatrici Giudiziari, anch’essi, quasi sempre, luoghi di pena e sofferenza e non di cura, al di là degli stessi operatori, lasciati soli e mandati allo sbaraglio. Ma non si è ancora provveduto ad assicurare quei ‘luoghi’ e garantire quelle risorse, quelle professionalità che si possano prendere cura dei malati: che certamente non possono essere abbandonati a loro stessi, come invece troppe volte accade. Tanto occorre fare, e rapidamente: per evitare altre condanne della Cedu, ma soprattutto per evitare inutili e crudeli sofferenze ai malati e alle loro famiglie; e scongiurare che il malato possa fare, come purtroppo spesso accade, male al prossimo e a se stesso. È uno degli obiettivi dell’Istituto che presiedo. Conforta sapere che ‘Avvenire’ è sempre in prima fila in questa battaglia di civiltà. *Presidente Istituto Luca Coscioni Carcere, nuovi spazi non significhino più detenuti di Cesare Burdese Il Riformista, 29 gennaio 2022 Nei prossimi cinque anni, in virtù delle risorse nazionali recentemente messe in campo per le infrastrutture penitenziarie, potremmo assistere ad una intensa attività edilizia per il miglioramento delle condizioni materiali delle nostre carceri, a detta, anche della Ministra Cartabia, indegne del nostro Paese e della nostra storia. Per la precisione si tratta della costruzione e miglioramento di padiglioni e spazi per strutture penitenziarie per adulti e minori per complessivi 132,9 milioni di euro. Come recentemente ha informato il Parlamento la guardasigilli in carica, oltre alle risorse del Pnrr, per il triennio 2021-2023, abbiamo anche previsto circa 381 milioni per le indispensabili ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi. Si tratta di cifre interessanti ma non risolutive, per una serie di questioni. Basti pensare che nel nostro Paese, un posto detentivo costa - mediamente stimato per difetto - circa centomila euro e che per la sola manutenzione degli istituti in funzione occorrerebbero cinquanta milioni di euro ogni anno. Conosciamo a sufficienza la dimensione dello scenario in cui quei denari andranno a riversarsi e le dinamiche e le logiche alle quali dovranno soggiacere; per anni ne abbiamo trattato denunciandone i limiti. Per questo siamo pervasi da un sentimento che oscilla tra la curiosità di come le cose potranno andare e la quasi certezza dell’ennesima occasione perduta. Utile pertanto ritornare sui limiti architettonici dell’esecuzione penale che ci appartengono e che ci hanno visti condannati in Europa, con l’intento di fornire consapevolezza per meglio comprendere le sorti dell’azione di resilienza, indotta dal Covid-19, anche nel carcerario, ma soprattutto delle risorse in campo. Il nostro patrimonio edilizio penitenziario è costituito da 191 istituti in funzione, insufficienti rispetto al fabbisogno ricettivo ed inadeguati architettonicamente per la funzione penale che il monito costituzionale indica. Nell’ultimo decennio, a partire dal Piano Carceri, il tentativo fatto di realizzare nuovi istituti è fallito; alcune realizzazioni sono al palo almeno per le consuete questioni procedurali e gli impicci burocratici. Va rilevato come nel nostro Paese non siano sufficienti dieci anni (per essere ottimisti) per realizzare e mettere in funzione un carcere di medie dimensioni (350 posti), a fronte di poco meno di due anni necessari in Francia per consegnare un carcere da 800 posti “chiavi in mano”. La disumanità, insita nella natura stessa della condizione detentiva, è esasperata da sempre da soluzioni architettoniche afflittive, che nel tempo si sono stratificate e consolidate diventando norma, in palese conflitto con le istanze riabilitative della pena contemporanea. Ci accingiamo a destinare risorse in luoghi disumani perché architettonicamente irriguardosi dei bisogni materiali e immateriali degli individui, che in quei luoghi vivono e lavorano o che occasionalmente si ritrovano. Luoghi che impediscono ogni possibilità di esperienza che arricchisce e per questo distruttivi e inumani. Luoghi concepiti in assenza di ogni intendimento a ricercare soluzioni spaziali per migliorare rapporti e conflitti, a differenza di quanto e successo, a partire dagli ‘80 del ‘900, negli USA e contestualmente in Europa. Ovunque, e ancora di più in carcere, non è pensabile che l’individuo si evolva in un ambiente costruito monotono, uniforme, paralizzante nelle sue deprivazioni sensoriali ed emozionali, dove i muri anziché convalidare, rassicurare, incoraggiare, sostenere, favorire, al contrario invalidano, rendono incerti, scoraggiano, minano e reprimono. Il degrado materiale degli istituti in funzione, unitamente alla carenza di spazi vitali e trattamentali, rappresenta solo il tratto immediatamente percepibile di una condizione negativa che è la sommatoria di fattori che vanno oltre la dimensione fisica delle strutture. Una simile condizione non dipende unicamente dall’incuria o dalla reiterata carenza di risorse da destinare alla manutenzione degli istituti, così come l’assenza di qualità architettonica non dipende dall’aver trascurato i bisogni dell’utilizzatore in fase progettuale. È nelle dinamiche che nel nostro Paese appartengono alla produzione e alla gestione dell’edilizia penitenziaria che vanno ricercate le motivazioni originarie di un quadro negativo da troppo tempo in atto. Limitandoci a quelle che appartengono a logiche non estranee alla specificità del tema, è utile acquisirne i lineamenti. Innanzitutto vanno considerate le posizioni assunte dei decisori politici, che negli anni si sono succeduti, in materia di innovazione della scena architettonica penitenziaria. Posizioni più inclini al virtuale che al reale, nella promessa ogni volta di scenari irrealizzabili e mai andando al nocciolo della questione. Rifarsi alla Costituzione legiferando non basta, bisogna conseguentemente concretamente agire. Strettamente connessi e conseguenti a questa circostanza sono i limiti culturali - in termini di assenza dei temi - che caratterizzano il mandato operativo affidato ai progettisti ministeriali, che per legge hanno il compito di elaborare - di fatto in regime di assoluta autarchia e monopolio - l’ideazione concettuale dell’edificio carcerario. Compito questo da sempre svolto alla luce dell’esclusivo dominio dell’utile e della norma. Recentemente la ministra della Giustizia Marta Cartabia si è espressa in termini lusinghieri riguardo i lavori della Commissione sull’architettura, che al suo arrivo al Ministero stava terminando il suo compito, con fecondi suggerimenti. Ma, dunque, come operare nei prossimi cinque anni spendendo in maniera proficua il denaro messo a disposizione? Come intraprendere un percorso virtuoso sul piano culturale per il riscatto architettonico del carcere? Verrebbe da rispondere nel modo seguente: tenendo in debita considerazione il completamento dell’attuazione della norma vigente, agendo con ragionevolezza e lungimiranza, ovvero con i piedi ben saldi a terra ma con lo sguardo oltre le nuvole. In altri termini, innanzi tutto mettendo mano in maniera sistematica e tempestiva al risanamento e all’adeguamento degli istituti dal punto di vista igienico sanitario e funzionale, inoltre dotandoli, con le risorse spaziali a disposizione, di ambienti accoglienti per chi viene in visita e di ambienti per le attività trattamentali. Il tutto evitando opere edilizie di altra natura, non strettamente necessarie e non utilizzabili in tempi brevi. Circa la questione del superamento del sovraffollamento, non illudere “cavalcando la costruzione di nuove carceri”, che comunque in cinque anni non vedrebbero la luce. Se nuove edificazioni devono esserci, concentrarsi allora sulla realizzazione degli otto nuovi padiglioni già programmati, intesi come strumento di decongestione degli istituti in cui saranno realizzati e non come disponibilità di nuovi posti per incrementare la popolazione detenuta. A riguardo è bene ricordare che la Commissione per l’architettura, citata dalla Ministra, ha fornito un progetto per l’edificazione degli otto padiglioni accennati, dei quali i requisiti e le prestazioni ambientali previste vanno nel senso auspicato. La crescita culturale architettonica per colmare il gap che ci separa dal carcere della Costituzione è altra faccenda. Solo una forte volontà politica, protratta nel tempo e orientata ad affiancare sul tema dei valori dell’architettura, in maniera più determinata, i soggetti tecnico-ministeriali ai soggetti culturali competenti, potrebbe contribuire, nel corso degli anni, a far evolvere e ad attualizzare gli spazi della pena nel nostro Paese, dentro e fuori il “recinto”. Sempre ovviamente che vi sia la convinzione condivisa che la dimensione materiale degli spazi della pena (tradizionali e non), siano una risorsa di civiltà del nostro Paese, da affidare ai giovani di oggi e alle generazioni che verranno. Le carceri italiane sono solo sequestro del tempo? Per adesso pare di sì di Serena Baiocco metropolitanmagazine.it, 29 gennaio 2022 I progetti di edilizia per le carceri italiane partono tutti con i migliori propositi, ma puntualmente si perdono. Certo è che qualcosa deve cambiare. Impianti mal funzionanti, tetti rotti, arredi fatiscenti, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate: benvenuti nell’edilizia penitenziaria italiana, che sembra curarsi dei suoi detenuti, ma in realtà non ne ha la minima voglia, e non ha progetti in attivo per migliorare la situazione. I detenuti sembrano essere costretti in una gabbia, col solo scopo di passare il tempo che la pena singolarmente gli impone, senza vere opportunità di farne effettivamente qualcosa, di quel tempo. Il problema parte dalle fondamenta, letteralmente, perché come si può avviare validi progetti di reintegrazione sociale, se le strutture sono allo sbaraglio? E il problema ancora maggiore è che questa situazione sembra sempre passare in secondo piano. Tra le ultime iniziative che stanno tentando di decollare, c’è la notizia dell’ennesima istituzione della Commissione per l’architettura penitenziaria, che è il campo dell’edilizia che si occupa della costruzione e del mantenimento delle carceri. Ma siamo sicuri di farlo nel modo giusto? Non è che dovremmo prendere un po’ di spunto dagli svedesi, e magari buttarci qualche soldo in più? Certo è che se la pena va scontata in un carcere fatiscente, sentirsi un animale in gabbia e niente più è facile, e porta l’individuo ad incattivirsi, ad abbattersi, a pensare che più di quel trattamento, a conti fatti, altro non gli spetta. Ma se le strutture fossero più a misura d’uomo, votate al rispetto della dignità del singolo (che è innegabile e sacra), i percorsi per reintrodursi all’interno della società civile servirebbero effettivamente a qualcosa. Più che altro perché due mesi, cinque anni o vent’anni passati a guardare il muro magari qualcuno se li merita, ma in generale possiamo dire che è un trattamento disumano e improduttivo, per tutti. Dovrebbe essere sia nell’interesse del detenuto sia in quello dello Stato, creare un ambiente consono allo sviluppo di una propria identità capace di redimersi dagli errori del passato e andare avanti, per reintegrarsi a pieno. Ma non succede mai, e non potrebbe comunque succedere in strutture mal gestite come quelle che abbiamo ora. Bisogna investire in un nuovo modo di prendere la questione, e rendersi conto del peso che questa ha nelle vite dei detenuti e all’interno della società. I detenuti nelle carceri italiane come le mucche di Mussolini di Violetto Gorrasi today.it, 29 gennaio 2022 Una leggenda metropolitana narra che un giorno Benito Mussolini, impegnato a visitare alcune fattorie di campagna, notò che il bestiame fosse sempre lo stesso e veniva spostato per fargli credere che le aziende fossero tutte attive e funzionanti. Le vacche da latte erano le stesse nella prima, nella seconda e nella terza fattoria visitata: venivano caricate su camion e spostate di masseria in masseria per far vedere al capo del governo gli ottimi risultati raggiunti. Le “mucche di Mussolini” diventano una metafora per descrivere il tasso di sovraffollamento nelle carceri italiane e la mancanza atavica di soluzioni nelle parole di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale. “Per ben due volte l’Italia è stata condannata per il sovraffollamento delle carceri, e nonostante questo tutto è rimasto come prima: mi si perdoni il paragone forse irrispettoso, ma ricorda quello che accadeva quando Mussolini andava in visita nel sud Italia. Così come allora venivano spostate le mucche da una campagna all’altra, così oggi si spostano i detenuti per non mostrare l’evidente problema di sovraffollamento”, ha detto Flick nel suo intervento durante un convegno sul tema delle carceri che si è tenuto mercoledì scorso all’università Lumsa di Roma. L’intervento di Flick si inserisce nel dibattito per la presentazione del libro “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” scritto da Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni, docenti e ricercatori di management di università Lumsa e Università Bocconi. Si tratta di un percorso di ricerca di quattro anni sulle carceri in Italia, condotto attraverso interviste nei penitenziari milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, con l’obiettivo di indagare i fattori organizzativi che influenzano la capacità degli istituti di pena di perseguire il fine costituzionale. Che è quello rieducativo, come si evince dall’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per usare le parole della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il sovraffollamento è una condizione che “esaspera anche i rapporti tra detenuti e rende più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. Un po’ di numeri dall’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. Al 28 febbraio 2021 i detenuti nelle carceri italiane sono 53.697, un numero che è tornato a salire rispetto al 31 dicembre 2020. Nell’ultimo anno il numero delle carceri è rimasto lo stesso, ossia pari a 189. La capienza regolamentare è invece scesa da 50.931 posti a 50.551. Il tasso di sovraffollamento è oggi pari al 106,2%. Posto però che la stessa amministrazione penitenziaria riconosce formalmente che “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato” e che presumibilmente i reparti chiusi potrebbero riguardare circa 4mila posti ulteriori, il tasso effettivo, seppur non ufficiale di affollamento, va a raggiungere il 115%. Dunque per poter scendere fino al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni paesi la percentuale fisiologica di un sistema che deve sempre prevedere la disponibilità di un certo numero di posti liberi per eventuali improvvise ondate di arresti o esecuzioni, sarebbe necessario deflazionare il sistema di altre 4mila unità che diverrebbero 8mila alla luce dei reparti transitoriamente chiusi. Le 20 carceri più affollate: Taranto 196,4% (603 detenuti per 307 posti); Brescia 191,9% (357 detenuti per 186 posti); Lodi 184,4% (83 detenuti per 45 posti); Lucca 182,3% (113 detenuti per 62 posti); Grosseto 180% (26 detenuti per 15 posti); Udine 174,4 (157 presenti per 90 posti); Bergamo 164,1% (517 detenuti per 315 posti); Latina 158,4% (122 detenuti per 77 posti); Busto Arsizio 156,6% (376 presenti per 240 posti); Genova Pontedecimo 155,2% (149 detenuti per 96 posti); Altamura 154,7% (82 detenuti per 53 posti); Monza 153,1% (617 detenuti per 403 posti); Pordenone 150% (57 detenuti 38 posti); Gela 150% (72 detenuti per 48 posti); Bologna 149,2 (746 detenuti per 500 posti); Como 149,1% (358 detenuti per 240 posti); Roma Regina Coeli 147,3% (893 presenti per 606 posti); Catania “Bicocca” 146,7% (201 presenti per 137 posti); Bari 146,5% (422 presenti per 288 posti); Asti 146,3% (300 presenti per 205 posti). Al 21esimo posto, tra le più rilevanti carceri metropolitane, troviamo Foggia, con un tasso di affollamento del 146,3% (534 per 365 posti), al 30esimo Firenze Sollicciano (136,1%, ovvero 668 detenuti per 491 posti), al 34esimo Napoli Poggioreale (132,5%, 2.085 detenuti per 1.571 posti) e al 47esimo Torino “Lorusso e Cotugno” (tasso di affollamento del 133,6%, 1.345 detenuti per 1.060 posti). Quali riforme per ridurre il sovraffollamento? Le pessime condizioni di sovraffollamento, ma anche sanitarie e sociali, in cui vivono i detenuti non sono certo una realtà emersa pochi mesi fa a causa del coronavirus, ma il quadro che ci offre questo inizio di 2022 non è dei migliori, secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Per questo è importante prevedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Bisogna fare in modo che ciò avvenga”, argomenta Gonnella, secondo il quale è importante accelerare sulla strada delle riforme. Prevedere ad esempio forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi, potrebbe dare sollievo alle strutture congestionate. Ogni detenuto costa circa 130 euro al giorno. In confronto, le misure alternative costano meno di un decimo e hanno un impatto ben più significativo nella lotta alla recidiva e negli obiettivi di recupero sociale dei condannati. In questo senso, i soldi del Recovery Fund che arriveranno all’Italia e andranno in parte alla giustizia e al sistema penitenziario non dovrebbero rappresentare l’ennesima occasione persa, nell’illusorio tentativo di migliorare lo status quo costruendo nuove carceri o spostando i detenuti di qua e di là. “Non è costruendo carceri che si innova un sistema che invece ha bisogno di modernizzazione, creatività e investimenti nel campo delle risorse umane”, scrive Claudio Paterniti dell’osservatorio nazionale di Antigone. Acqua calda e water un lusso in carcere - Parlando delle condizioni di vita nelle carceri, il capo del dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, non ha nascosto il proprio coinvolgimento personale: “Sono addolorato e intristito, non posso dire di essere soddisfatto, di aver raggiunto degli obiettivi e nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana, l’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso, e delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Il capo del Dap ha evidenziato anche il ruolo del lavoro nel processo di recupero dei detenuti: “In Italia lavora solo il 34% dei detenuti, ma il lavoro non dipende solo dall’amministrazione penitenziaria, che può offrirlo nei limiti e tra le mura del carcere: bisogna estendere l’offerta che viene dall’esterno. Il lavoro, per i detenuti, è l’unico modo per attivare e stimolare nelle loro menti una vibrazione di libertà”. Diceva Voltaire che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri. Affermazione, questa, che trascende i tempi e arriva ai giorni nostri con un’attualità prorompente. Agire si può, si deve. Ma con interventi radicali, non servono i palliativi. Per non fare la fine delle mucche di Mussolini Nel carcere la pandemia della solidarietà di Davide Dionisi Città Nuova, 29 gennaio 2022 La “doppia detenzione” raccontata ai microfoni de “I Cellanti”, settimanale di Radio Vaticana Italia. Il carcere è un mondo di uomini e donne che hanno una storia segnata dal dolore, quello proprio e quello che hanno talvolta causato nelle vite degli altri. La pandemia li ha colti di sorpresa ma, paradossalmente, erano preparati perché da ristretti loro ci vivono da anni. E proprio perché la situazione la conoscono molto bene, hanno deciso di lanciare un messaggio a quello che sono soliti chiamare “mondo libero”. Un messaggio di solidarietà, di speranza e, non ultimo, di disponibilità ad aiutare chi stava soffrendo. Per farlo hanno scelto “I Cellanti”, il programma settimanale di Radio Vaticana Italia che si occupa di pastorale carceraria. “Così siamo sicuri che ci ascolterà papa Francesco. Ci vuole bene e parla sempre bene di noi. Anche noi gli vogliamo bene e preghiamo sempre per lui”, hanno ripetuto più volte ai nostri microfoni. Così facendo, hanno ancora una volta espresso il desiderio di essere trattati come persone e non come numeri o cose. La potenza del loro messaggio ha rovesciato l’aridità della condizione detenuta nell’attiva soggettività sociale e ha creato le possibilità di operare anche da reclusi attraverso condizioni di cooperazione con la comunità libera. I loro gesti raccontanti all’emittente pontificia hanno riavvicinato il carcere alla società, al territorio, e chi ha ascoltato ha avuto la possibilità di guardare “oltre il muro” non più come ad un luogo dell’immaginazione, ma ad una vera comunità di socializzazione. Gianni, Massimo, Orlando, Massimiliano, Daniele, Mouhcine, Paolo, Goffredo, Alessandro, Danilo, Silvio e Francesco. Sono solo alcuni dei nostri protagonisti, ognuno con un percorso diverso, drammatico per certi versi. Ragazzi che avrebbero potuto assumere altri atteggiamenti: lamentarsi, denunciare, protestare. Invece hanno scelto la via della partecipazione e del coinvolgimento. “Abbiamo subito cercato di coinvolgere le ragazze in un progetto mirato dalla duplice finalità: mantenere l’occupazione e dare una mano a chi ne aveva bisogno. Da qui è nata la riconversione delle nostre sartorie per la produzione di mascherine”, raccontano le volontarie di “Made in carcere”, l’associazione che dal 2007 realizza corsi di taglio e cucito nella Casa circondariale di Lecce e Trani. Stesse dinamiche, con risultati altrettanto sorprendenti, si sono manifestate a Forlì. E ancora a Napoli, dove fermare la pizza e il caffè non è certo impresa facile. E lo sanno bene le ragazze delle “Lazzarelle”, la cooperativa di sole donne nata nel 2010 che produce caffè artigianale, secondo l’antica tradizione napoletana, all’interno del più grande carcere femminile di Pozzuoli. A Taranto i detenuti hanno realizzato mascherine destinate agli uffici giudiziari, mentre a San Vittore le ospiti hanno confezionato turbanti per le pazienti del reparto di ginecologia oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano. C’è dunque chi si è rimboccato le maniche e chi, invece, ha giocato d’anticipo puntando sulla solidarietà. A Venezia, nella Casa di reclusione femminile della Giudecca è stato raccolto un bel gruzzolo (110 euro!) poi donato al reparto di Terapia Intensiva dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, mentre dall’Istituto di Sanremo sono arrivati ben 100 kg di alimenti alla Caritas. Questi sono solo alcuni episodi durante il lockdown che abbiamo scelto di raccontare per convincere anche i più scettici che umanizzare gli istituti deve essere l’obiettivo principale e per renderlo effettivo è necessario un impegno a tutto campo che sviluppi quell’inventiva pedagogica che è nella struttura e nei programmi di chi ogni giorno si prodiga affinché il detenuto non venga mai identificato con la pena che ha commesso. C’è inoltre chi ha riscoperto il piacere di scrivere. Abbiamo raccolto tante testimonianze di iniziative che hanno visto protagonisti ragazzi e ragazze ristrette che hanno scelto di far conoscere fuori l’emergenza Covid-19 in carcere, i conseguenti provvedimenti restrittivi che hanno visto la sospensione temporanea dei colloqui visivi con i propri familiari, l’interruzione di tutte le forme di volontariato, fonte di massimo aiuto per coloro che si trovano privati della libertà negli istituti. La produzione è stata sorprendente. Grazie all’esercizio della scrittura hanno rivelato, seppur con diverse sfumature, che il carcere oggi è sì concentrato sul ruolo della trasformazione degli individui, ma allo stesso tempo è la ragione principale dell’esclusione sociale. Il sistema di detenzione spesso supera la tolleranza dei diritti umani, cosa che rappresenta un enorme problema politico e sociale. Qual è dunque l’alternativa alla cultura della pena? È evidente che le misure volte alla deflazione delle carceri mediante l’apertura a misure alternative alla detenzione vanno incontro alla doppia funzione di garantire condizioni umane per i detenuti, che comunque versano ancora in condizioni molto difficili, ma soprattutto risultano più efficaci per il recupero di coloro che hanno commesso reati minori e che mediante un sistema di giustizia riparativa hanno più possibilità di non delinquere oltre: occasione che in carcere verrebbe senz’altro meno. È emerso dai loro racconti che un sistema di detenzione senza cura e trattamento umano del detenuto non funziona in maniera adeguata e spesso determina una ricaduta da parte dello stesso in terribili reati. Fare prevenzione durante l’esecuzione della pena e gli anni di detenzione non è sufficiente, se non si investe in una seria terapia, per garantire la sicurezza ed evitare la reiterazione del reato. È necessario investire sempre di più nella rete che collega la realtà penitenziaria con la società civile, un ponte che va costruito per realizzare la vera prevenzione a tutela della sicurezza a tutti i cittadini. Il programma radiofonico della Radio Vaticana, in questo senso, intende contribuire a migliorare la qualità dei servizi, portando un significativo supporto ai detenuti, ascoltando i loro problemi e dando sostegno morale e psicologico. Una piccola rivoluzione culturale sul concetto di detenzione e anche se sembra poca cosa il coinvolgimento di persone che hanno rotto il patto sociale serve a molto anche se il carcere per molti rimane un pianeta sconosciuto, ma abitato da persone concrete. Esistono le mura che delimitano l’area della detenzione, ma esistono anche le barriere del pregiudizio, che segnano le dimensioni dell’esclusione. La vicenda della pandemia, pur nella sua drammaticità, ci ha confermato che il carcere può essere un luogo educativo (o meglio ri-educativo) dove poter esprimere continuamente una personalità attiva sia verso l’universale (lo Stato) che verso il particolare (le persone e i gruppi sociali). Un territorio di frontiera che oggi più che nel passato esige un surplus di progettualità per poter operare in favore della comunità. Non solo quella carceraria. Sesso in carcere vietato in Italia, ma ridurrebbe violenza e comportamenti devianti di Michele Giordano Il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2022 L’Italia è uno dei Paesi in cui ai detenuti non sono concessi rapporti sessuali con i propri partner. “Studi condotti nei penitenziari dei Paesi che aderiscono a tale scelta - spiegano Cristina Tedeschi, medico chirurgo e specialista in Ginecologia ed Ostetricia e Debora Rossi, psicologa specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale, fondatrici del sito Babeland.it - hanno mostrato come la possibilità per i reclusi di coltivare la propria sfera intima e sessuale non soltanto riduca le tensioni, gli episodi violenti, la masturbazione compulsiva e l’omosessualità eteroindotta, ma anche il numero e la gravità delle sanzioni disciplinari riportate. Tale possibilità correla inoltre inversamente con il rischio di recidiva ed è dunque stato evidenziato come i detenuti che sperimentano la sessualità durante il periodo di reclusione sono meno inclini, rispetto agli altri, a riprodurre comportamenti devianti una volta conclusasi la detenzione”. Tentativi in tal senso in Italia ce ne sono stati, ma sono tutti falliti. Ben otto anni fa, attraverso l’Associazione Antigone, che da oltre trenta si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, Carmelo Musumeci (scrittore ex criminale ed ergastolano che in carcere ha conseguito tre lauree) aveva lanciato una petizione (#amoretralesbarre che raccolse 2810 firme), ma l’iniziativa non ha mai conseguito alcun effetto pratico. “Eppure io - condannato alla cosiddetta “Pena di Morte Viva” (l’ergastolo ostativo) - e la mia compagna, sono ventitré anni che sogniamo l’amore senza poterlo fare”, scriveva allora Musumeci. “Lei, anche dopo tanti anni, è ancora l’amore che avevo sempre atteso”. E aggiungeva: “Nelle carceri, in Croazia, sono consentiti colloqui non sorvegliati di quattro ore con il coniuge o il partner. In Germania alcuni Lander hanno predisposto piccoli appartamenti in cui i detenuti con lunghe pene possono incontrare i propri cari. In Olanda, Norvegia e Danimarca nelle carceri ci sono miniappartamenti nei quali si possono ricevere le visite. In Albania, una volta la settimana, sono previste visite non sorvegliate per i detenuti coniugati. In Québec, come nel resto del Canada, i detenuti incontrano le loro famiglie nella più completa intimità all’interno di prefabbricati. In Francia, come in Belgio, in Catalogna e Canton Ticino sono in corso sperimentazioni analoghe”. La possibilità di coltivare i propri affetti è prevista anche in alcuni Stati degli Usa (California, New York, Washington, New Mexico e Connecticut) e in altri Paesi. Dopo 25 anni di galera, l’ergastolo ostativo venne mutato per Musumeci in ordinario e solo nell’agosto 2018 ha ottenuto la liberazione condizionale e oggi lavora presso la Comunità Giovanni XXIII di don Benzi. Ci aveva provato anche il deputato Marco Boato nel 2002, quando era capogruppo al Misto della Camera, a proporre una legge (che portava la firma di 64 onorevoli sia della maggioranza che dell’opposizione) per offrire ai detenuti la possibilità di “una visita al mese delle persone già autorizzate ai colloqui ordinari, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro, in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi”. “Ovviamente - spiegava Boato - potranno usufruire di questa opportunità solo le persone che abbiano già dimostrato di avere requisiti di affidabilità e di non pericolosità ed alle quali vengano già concessi permessi”. Ma anche questa proposta è finita nel dimenticatoio. “Ma come si fa a pensare che un uomo o una donna possano salvare i legami affettivi se gli unici momenti di contatto sono i colloqui, durante i quali sei guardato a vista? La cattolicissima Spagna o l’ordinata Svizzera consentono i ‘colloqui intimi’, da noi appena qualcuno ha avanzato l’ipotesi delle ‘stanze dell’affettività’ si è subito parlato di ‘celle a luci rosse’”“, ribadiva Ornella Favero, coordinatrice dell’associazione Ristretti Orizzonti, in un’intervista a Specchio, inserto de La Stampa, del 12 febbraio 2005. “C’è la convinzione che la pena sia privazione della libertà, più tante piccole torture: la distruzione degli affetti e la castrazione di qualsiasi manifestazione di una normale vita sessuale”. Il che vale, ovviamente, per gli uomini e per le donne. Il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (R, ‘98, 7, regola n. 68). Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha spinto per mettere a disposizione dei detenuti luoghi per coltivare i propri affetti (R 1340, ‘97) relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali. Tutto ciò, però, non vale per l’Italia. La legge 653/’86 (poi abrogata) aveva ipotizzato che il detenuto potesse mantenere un legame di coppia pre-esistente, ma la cosa ha suscitato delle “ovvie perplessità di ordine psicologico e morale, oltre che ambientale”. “Per fare un esempio - scriveva la psicologa Giuliana Proietti su Ristretti.it - il detenuto nella cella dell’amore va controllato? E se sì, da chi? Come? Attualmente sono in vigore 4 ore di colloquio e 12 minuti di telefonata mensile: un periodo di tempo troppo breve che non può ovviamente sostenere alcun tipo di rapporto affettivo”. Insomma, siamo ancora molto distanti, almeno nel nostro Paese, dall’approvare quanto scriveva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”. Il Colle e le grane della giustizia: cosa farà il nuovo presidente del Csm? di Valentina Stella Il Dubbio, 29 gennaio 2022 Da Giuliano Amato a Paola Severino passando per Cassese, Nordio, Violante e Cartabia. Chiunque sarà avrà di fronte un compito immane. Non basta porsi la domanda “chi sarà il prossimo Capo dello Stato”. Per noi curiosi delle dinamiche di politica giudiziaria, l’altra domanda fondamentale è: “Che Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura sarà?”. O meglio “quale potrebbe essere la sua idea di amministrazione della giustizia?”. Assai difficile esprimere un giudizio prognostico ma nel valutare alcuni candidati possiamo trarre spunto dai loro atti e dalle loro parole. Giuliano Amato, già professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato, oggi verrà eletto nuovo Presidente della Corte costituzionale, visto che il mandato di Giancarlo Coraggio è scaduto ieri. È stato relatore, nel luglio scorso, di una decisione della Consulta che ha ritenuto illegittima la revoca dei trattamenti assistenziali dei condannati per mafia e terrorismo che scontano la pena fuori dal carcere. A margine della presentazione del libro di Annalisa Chirico “Condannati preventivi” disse: “Io ho sempre scritto, fin dagli anni 60, che la carcerazione preventiva non può essere una anticipazione di pena, deve essere ritenuta, come dice il Codice, l’extrema ratio e non può mai essere automatica. I troppi casi nei quali la si usa non come extrema ratio ma come normale trattamento di qualunque imputato concorre enormemente al sovraffollamento carcerario”. Nell’ottobre 2018 a Rebibbia, quando iniziò il viaggio della Consulta nelle carceri, prendendo come spunto una domanda di un detenuto sulla pena accessoria, in particolare sull’interdizione spesso perpetua al diritto al voto, Amato si rivolse al leghista Morrone: “Varrebbe la pena, signor Sottosegretario, che gli organi politici se ne occupassero perché francamente togliere il diritto di voto ad una persona che rientra nella società è togliergli il pezzo più grosso della cittadinanza”. Marta Cartabia invece l’abbiamo imparata a conoscere in questi mesi. Apparentemente super partes, ha portato a casa in pochi mesi la riforma del processo penale e civile. Primi obiettivi del Pnrr raggiunti, ma a che prezzo? Il compromesso politico ha scontentato magistratura, avvocatura e accademia. Tuttavia, paradossalmente, proprio questa sua capacità di ascoltare, di mediare, di non alzare mai la voce, di essere prudente la fa apprezzare in quegli ambienti che potrebbero volerla al Colle. Però, sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, ci si sarebbe aspettati da lei maggiore coraggio e spinta riformatrice, al momento però ci troviamo in una fase di stallo, forse per colpa di Palazzo Chigi; e inoltre le bozze degli emendamenti governativi trapelate qualche settimana fa non piacciono ai diretti interessati. Quindi aver sponsorizzato una proposta di modifica con la contrarietà della gran parte della magistratura associata non fa prefigurare una calorosa accoglienza al Csm. Profilo completamento diverso quello dell’attuale presidente del Senato Elisabetta Casellati, la cui elezione è stata bruciata da una settantina di franchi tiratori. Sarà contenta Repubblica che in questi giorni ha tentato di silurarla in anticipo proponendo ad intervalli regolari una foto che la ritrae in atteggiamenti amichevoli e confidenziali con Luca Palamara: come potresti guidare il rinnovato e nuovo credibile Csm se sei andata a braccetto con il virus più letale che ha infettato la magistratura? Comunque per alcuni sarebbe stata una figura che avrebbe portato un po’ di imbarazzo a Palazzo dei Marescialli in qualità di presidente: l’attuale Presidente del Senato, infatti, fu tra i 150 parlamentari del Popolo delle Libertà che marciarono sul tribunale di Milano contro i giudici e la celebrazione del processo Ruby. Ad essere imbarazzante per noi è semmai la sua adesione alla ipotesi di castrazione chimica per gli stupratori. Di tutt’altro spessore l’ex giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese, per nulla morbido con il potere degli organi inquirenti, come ha evidenziato in una intervista del 2020 rilasciata al Riformista: “Le procure sono diventate un potere indipendente dalla stessa magistratura, un quarto potere dello Stato, grazie al compito che si sono arrogate di “naming e shaming”, cioè di additare al pubblico ludibrio. Un attento esame compiuto da un magistrato, qualche tempo fa mise in luce che solo un numero molto limitato delle accuse si rivelavano fondate. Ma intano, una volta rese pubbliche, avevano già “condannato” gli accusati”. Cassese è anche favorevole alla separazione delle carriere, secondo il suo pensiero va infatti assicurata “una piena indipendenza e imparzialità di quella parte del corpo dei magistrati che fa parte degli organi giudicanti. Questo vuol dire completa impermeabilità, nei due sensi, sia dall’esterno verso l’interno, sia dall’interno verso l’esterno. E questo comporta una separazione tra componenti degli organi di accusa e componenti degli organi giudicanti”. Nell’ipotesi remota di un Sergio Mattarella bis sapremmo già quale potrebbe essere il suo stile: ha presieduto il plenum del CSM in poche occasioni, come sempre avviene. Per qualcuno non avrebbe denunciato abbastanza la crisi della magistratura, tesi corroborata dal suo silenzio sui temi della giustizia nel suo ultimo discorso del 31 dicembre. Per altri, invece, avrebbe parlato e agito nei momenti necessari. Come quando al decennale della Scuola Superiore della Magistratura diede un ultimatum sulla riforma del Csm: “basta con le trincee corporative”; e in ultimo quando ha presieduto la seduta in cui, a dispetto della sentenza del Consiglio di Stato, sono stati rinominati Curzio e Cassano ai vertici della Cassazione. L’ex Ministro della Giustizia del Governo Monti Paola Severino non troverebbe molto probabilmente il favore dell’avvocatura quale presidente del Csm. Seppur avvocato, con la sua revisione della geografia giudiziaria che prevedeva il taglio di 37 tribunali e 38 procure, si inimicò gran parte della sua categoria di appartenenza, soprattutto quando liquidò la questione dicendo “qualche km in più non è grave”. Se supererà il vaglio della Corte costituzionale, la prossima primavera gli italiani saranno chiamati a votare sul referendum di Lega e Partito Radicale per l’abolizione della nota Legge Severino sulla incandidabilità alle elezioni politiche per coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, legge che fu poi applicata in maniera retroattiva a Silvio Berlusconi. Sull’abrogazione della legge Severino si è detto favorevole un altro dei quirinabili, Carlo Nordio, che proprio in una intervista al nostro giornale, disse: “Questa legge non è stata fatta dopo una opportuna valutazione tecnica, ma per ragioni di demagogia politica. Ed è nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione”. In ultimo c’è l’ex magistrato ed ex presidente della Camera dei deputati Luciano Violante: capo del partito dei giudici, per tre decenni è stato in Parlamento il portabandiera delle toghe rosse. Francesco Cossiga, come ricordò il Giornale, “lo chiamava “Il piccolo Vishinsky”, dal nome dell’aguzzino delle purghe staliniane, considerandolo l’istigatore dei processi politici degli anni Novanta (Andreotti, ecc.)”. Poi la metamorfosi, sintetizzata qualche giorno dal Fatto: “Mani Pulite è stata una stagione giacobina”, “Craxi un capro espiatorio”. E poi: “Esistono giudici che hanno costruito le loro carriere sul consenso popolare”, e da ultimo ha avuto anche parole di condanna nei confronti dell’intreccio malato tra giornalisti e pm. Di Matteo al Quirinale? Il magistrato che gli ex 5 stelle vorrebbero presidente di Vanessa Ricciardi Il Domani, 29 gennaio 2022 Il pm che ha seguito le indagini sulle stragi di Falcone e Borsellino e sulla trattativa stato mafia vive sotto scorta per le minacce di morte dei padrini della mafia siciliana. Un personaggio che divide garantisti e giustizialisti. Il gruppo degli ex 5 Stelle che compongono “l’Alternativa” ha deciso che per il Quirinale il nome giusto è quello di Nino di Matteo, il pm antimafia che ha indagato sulle stragi dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e in seguito sulla trattativa stato-mafia. Nato a Palermo nel 1961, 60 anni, vive sotto protezione per le minacce dei boss: lo stesso Totò Riina, il “capo dei capi” durante l’ora d’aria nel carcere di Opera di Milano nel 2014 disse di volergli far fare “la fine del tonno”. L’ordine di ucciderlo secondo alcuni pentiti sarebbe stato rinnovato anche dal super latitante Matteo Messina Denaro. Entrato in magistratura nel 1991 come sostituto procuratore presso la direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta è poi diventato pubblico ministero a Palermo nel 1999. Nel 2019 è diventato membro del consiglio superiore della magistratura. Il Corriere della sera lo ha definito un “magistrato divisivo” perché in prima linea non solo nella lotta alla criminalità ma anche sui temi che riguardano la giustizia e la politica, da ultimo le critiche per la candidatura poi sfumata di Silvio Berlusconi al Quirinale. A novembre, Di Matteo suscitando l’indignazione di Forza Italia, ha sottolineato che il presidente della Repubblica è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura. Senza voler esprimere giudizi politici, il Pm invitò a riflettere se Berlusconi fosse o no adatto a quel ruolo e ha ricordato che secondo quanto emerso da una sentenza definitiva su Marcello Dell’Utri, che, hanno certificato i giudici, fu intermediario di un accordo tra il 1974 e il 1992 con le famiglie mafiose palermitane. Un patto che in cambio della protezione personale e imprenditoriale di Berlusconi prevedeva il versamento di somme ingenti di denaro da parte del Cavaliere a Cosa Nostra. Le critiche di Di Matteo prescindono dal colore politico. Nel 2019, su La 7, Di Matteo ha raccontato che a fine giugno 2018 era stato contattato dal Guardasigilli, Alfonso Bonafede (M5s), per diventare nuovo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ma “il ministro mi fece capire che per la soluzione di capo del Dap aveva ricevuto delle prospettazioni di diniego o mancato gradimento” ha ribadito poi in commissione parlamentare Antimafia. Per lui era “gravemente incomprensibile il comportamento del ministro”. Di recente è tornato a esprimersi sulla riforma della giustizia che ha spaccato il Movimento cinque stelle. Secondo Di Matteo la politica ha rinunciato alle sue responsabilità per “usare i magistrati come alibi” e - sottolineava Di Matteo - sta discutendo una “pessima riforma” della Giustizia presentata dalla ministra Marta Cartabia, che “rischia di mandare in fumo tanti processi”. Nel dibattito alle Camere sono arrivati aggiustamenti ma “Io continuo a ritenere che nonostante i correttivi, complessivamente la riforma Cartabia sia una pessima riforma”. Il gruppo di fuoriusciti del Movimento 5 stelle ha deciso così di abbandonare la candidatura di Paolo Maddalena, ex vice presidente della Corte costituzionale, per puntare tutto sul magistrato simbolo del processo stato-mafia. Le nuove tecnologie invadono anche l’inaugurazione dell’anno giudiziario di Lucilla Gatt, Luigi Viola e Gianfranco D’Aietti Il Domani, 29 gennaio 2022 La parola “informatica” è distribuita omogeneamente nel corso dell’intera relazione; è evidente l’attenzione che ormai le nuove tecnologie rivestono nell’organizzazione giudiziaria e l’informatica ne assorbe la parte più rilevante, determinandone ogni profilo organizzativo. Si è tenuta il 21 gennaio, presso la sede della Suprema Corte di Cassazione, l’inaugurazione dell’anno giudiziario e il Primo Presidente Pietro Curzio ha svolto una relazione sull’amministrazione della giustizia, evidenziando un successo storico: “Le sei sezioni civili hanno definito il 23,3% in più di processi rispetto al 2019 (40,1% in più rispetto al 2020)). Mai la Cassazione civile nei suoi cento anni di storia aveva deciso un numero di cause così elevato”. Un’accelerata di rilevanza storica, dunque, dimostrata con la forza dei numeri. Anche in ambito penale, vi sono stati risultati importanti con definizioni ben superiori al flusso dei ricorsi pervenuti nel 2021: “la durata media dei procedimenti è stata inferiore all’anno”. I risultati sono stati raggiunti nonostante la scarsità di risorse dei magistrati: “Dal rapporto 2020 della Commissione europea per l’efficacia della giustizia del Consiglio d’Europa (CEPEJ), emerge che in Italia il personale impiegato nel sistema giustizia è sensibilmente inferiore a quello di altri paesi europei. Ad esempio, il raffronto con la Germania è il seguente: in Italia ogni 100.000 abitanti vi sono 11.6 giudici affiancati da 37.1 amministrativi. In Germania ogni 100.000 abitanti vi sono 24.5 giudici affiancati da 65.1 amministrativi”. Anche sul piano della c.d. informatica giuridica vi è stato un significativo impegno. Nel corso della sua relazione scritta (300 pagine) il presidente Curzio ha riportato per 88 volte la parola informatica. La parola “informatica” è distribuita omogeneamente nel corso dell’intera relazione; è evidente l’attenzione che ormai le nuove tecnologie rivestono nell’organizzazione giudiziaria e l’informatica ne assorbe la parte più rilevante, determinandone ogni profilo organizzativo. I settori principali sono stati rappresentati dal potenziamento delle strutture del Centro Elettronico della Cassazione (ricco di materiale documentario giuridico, sentenze e massime) e dalla recentissima introduzione in cassazione dell’informatica gestionale con il processo telematico Civile (già operativo negli uffici territoriali italiani). Intelligenza artificiale - Le parole intelligenza artificiale sono, invece, riportate 5 volte. Il presidente Curzio ha segnalato che per lo sviluppo di tecniche potenziate dalla intelligenza artificiale “la Corte di cassazione ha realizzato un accordo con la Scuola Universitaria di Studi Superiori di Pavia per una collaborazione strategica con il Centro di Documentazione Elettronica (CED) della Cassazione, per l’organizzazione di materiale giuridico digitale al fine di estrarre e rappresentare conoscenze giuridiche, trovare correlazioni implicite, individuare orientamenti giurisprudenziali e/o legislativi”. Le prospettive della intelligenza artificiale, però, vengono accuratamente delimitate nel discorso segnalando i problemi etici che essa pone, l’attenzione all’indipendenza dei giudici, con focalizzazione anche sulla percezione che di essa ha il pubblico. Viene chiaramente indicato che ogni sistema di IA non deve in alcun modo interferire nella valutazione dei giudici ma solo costituire un supporto per una migliore conoscenza di tutti gli elementi in gioco. Sull’intelligenza artificiale, però, viene lanciato un allarme da Laura Viaut, docente di storia del diritto all’Università Sorbona (Les modèles mathématiques probabilistes au service de la justice quantitative, in Actu-Juridique.fr) che afferma: “Il giudice in carne ed ossa non deve cedere il passo al giudice virtuale. Non dobbiamo dimenticare che le correlazioni statistiche non sempre hanno senso. La correlazione non deve essere confusa con la causalità. Se una correlazione è un nesso statistico che non permette di sapere quale variabile agisce sull’altra, la causalità è un nesso che afferma che una variabile agisce su un’altra. In altre parole, se due eventi sono vicini nel tempo o nello spazio, possiamo dire che sono correlati. Tuttavia, questo non significa necessariamente che uno abbia causato l’altro”. Il ruolo dei precedenti - Bisogna riaffermare che il numero dei precedenti giurisprudenziali dati o negati non deve essere mai decisivo a fondare la giustezza o meno di una tesi. Il conformismo rappresenta un grave e subdolo pericolo per la giurisdizione. In tal senso, modelli basati sulla frequenza dei precedenti “conformi” devono essere sempre valutati come “informazione” e mai come “modello di decisione”. Il pericolo del giudice “robot” (solo dal punto di vista culturale) potrebbe non essere, poi, troppo remoto. Ma piuttosto che paventare il giudice robot, la Cassazione e l’intero apparato giudiziario dovrebbero piuttosto perseguire l’obbiettivo di automatizzare, con una attenta rilevazione delle procedure e delle situazioni, tutta l’attività dei flussi organizzativi delle cancellerie. Lavoriamo in modo collaborativo e multidisciplinare, dialogando in modo effettivo con le categorie professionali e l’accademia, per un modello più giurimetrico e meno informatico, finalizzato a comprendere esattamente la specificità del caso, valorizzando il diritto di difesa e senza correlazioni rischiose. Si spera che la strada dell’informatizzazione venga rafforzata anche con ulteriori accordi. Referendum sul Csm: il sorteggio non passa, ma la metà dei magistrati non vota di Giulia Merlo Il Domani, 29 gennaio 2022 Ha votato circa il 52 per cento degli aventi diritto, tra il primo e il secondo quesito. Schiacciante il favore per un sistema elettorale proporzionale, mentre la magistratura si divide sul sorteggio: l’ipotesi non sfonda ma raggiunge il 42 per cento dei voti. Sono arrivati i risultati del referendum online promosso dall’Anm, sulla riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. I quesiti erano due. Il primo chiede se si è favorevoli o contrari a che “i candidati al Csm siano scelti mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere”. Il secondo invece “quale sistema ritieni preferibile per l’elezione della componente togata del Csm” con la possibilità di scegliere se proporzionale o maggioritario. I risultati: il sorteggio non vince - Su un totale di 7872 elettori, hanno votato in 4275, ovvero circa il 54 per cento del totale. Per il primo quesito sul sorteggio, il risultato è stato di 2470 contrari e 1787 favorevoli al sorteggio, pari a circa il 42 per cento dei votanti. Il risultato è stato così commentato con Domani da Mariarosaria Savaglio, Segretario Nazionale Unicost: “Il risultato elettorale, pur avendo vinto il no al sorteggio, deve comunque indurre ad una più approfondita riflessione. Si deve tener conto sia della bassa affluenza rispetto alla platea degli aventi diritto, sia delle molte preferenze avute dal l’opzione del sorteggio temperato. Da una parte vi è disinteresse, dall’atra un malcontento del corpo elettorale di cui bisogna prendere atto”. Sul punto ha preso posizione anche Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia e sostenitore del sorteggio, secondo cui “Questo risultato, alla viglia impensabile, ci conforta nella nostra battaglia per una riforma che punti davvero a ridimensionare il peso delle correnti”. Anche il gruppo di Area si è espresso con una nota spiegando che “Siamo preoccupati per l’astensionismo”, ma “constatiamo con soddisfazione che i magistrati, pur disincantati e delusi per tutto ciò che è successo in questi anni, non ritengano il sorteggio la soluzione dei mali dell’autogoverno”. I risultati: vince il proporzionale - Al secondo quesito ha votato il 51 per cento degli aventi diritto e i risultati sono stati schiaccianti in favore di un sistema elettorale prevalentemente proporzionale, con 3189 voti contro i 745 in favore del maggioritario. Anche su questo, Savaglio ha spiegato che “Questo significa che la magistratura vuole che il Csm sia largamente rappresentativo e il dato appare in contrasto con una scelta casuale dei suoi componenti”. Il commento del presidente Santalucia - Una dichiarazione è arrivata anche dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, che ha parlato a titolo personale ma ha detto che “è evidente che un numero significativo di magistrati hanno votato contro il sorteggio, bocciandone la proposta politica. Il dato letto insieme all’alto numero di magistrati che non hanno votato, può significare che il sorteggio non è stato interpretato come la svolta epocale prospettata dai promotori”. L’Anm boccia la riforma, ma il sorteggio avanza di Paolo Comi Il Riformista, 29 gennaio 2022 I quesiti erano due: il primo, relativo al sorteggio dei togati raccoglie il 42% dei sì perché sempre più magistrati sono stufi del potere delle correnti. Il secondo boccia il maggioritario voluto da Cartabia. Stroncata la riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno delle toghe, proposta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il sistema attuale va bene così e, se proprio un correttivo ci dovrà essere, allora forse è il caso di mettere mano al sorteggio. È quanto emerge dal referendum consultivo proposto questa settimana dall’Associazione nazionale magistrati. I quesiti erano due: uno relativo proprio al sorteggio dei togati, e l’altro sulla scelta del meccanismo di voto fra maggioritario o proporzionale. Su circa 8.000 iscritti all’Anm, i votanti sono stati 4.275 per il primo quesito e 4.091 per il secondo. 1.787 quelli a favore del sorteggio e solo 745 a favore del maggioritario ipotizzato dalla Guardasigilli. Trionfo, invece, per il proporzionale, il sistema in vigore che ha consentito fino a oggi alle correnti di condizionare l’attività del Csm, trovando in Luca Palamara il suo alfiere più rappresentativo. “A tutti gli iscritti è stata offerta la possibilità di votare. Si sono accreditati quelli che si sono accreditati e amen… Di questi, il 42 per cento è stato favorevole al sorteggio”, ha detto Andrea Mirenda, giudice a Verona e fra i primi a spingere su questo sistema di elezione che dovrebbe mettere fine allo strapotere correntizio, “Una risicata maggioranza - prosegue Mirenda - ha fatto vincere il no. Chi è rimasto silente tra gli accreditati ha assunto una posizione giuridica di neutralità rispetto a qualsivoglia soluzione”. “Questa è un’ulteriore riprova della tenuta costituzionale del sorteggio, a definitiva smentita dell’inconsistenza delle tesi correntizie. Perché, è appena il caso di ricordarlo, questo consenso è espresso da una comunità di giuristi di prim’ordine”, ha concluso il magistrato. Soddisfazione dalle toghe di Articolo 101, il gruppo di magistrati anti-correnti che del sorteggio ha fatto un manifesto identitario. Il sorteggio in discussione è di tipo “temperato”. Verrebbe, infatti, costituito un paniere di magistrati sorteggiati con determinati requisiti di professionalità ed anzianità e da questo paniere si procederebbe poi con le votazioni. Un modo per non toccare la Costituzione che prevede l’elezione dei componenti togati del Csm. L’ultima parole alla politica. Sul sorteggio è da tempo in atto uno scontro nella maggioranza. Lega e Forza Italia sono favorevoli al sorteggio temperato, a differenza del Pd e del M5s. Forza Italia, in particolare, è spaccata: Pierantonio Zanettin, capogruppo forzista in Commissione giustizia è un un grande fan del sorteggio, a differenza di Francesco Paolo Sisto, sottosegretario azzurro a via Arenula. Tornando alla riforma del Csm, la discussione in Parlamento, che si trascina stancamente da due anni e mezzo, è adesso sospesa per l’elezione del capo dello Stato. Le eventuali modifiche dovranno essere fatte entro pochi mesi dal momento che a luglio sono in programma le votazioni per il rinnovo dell’attuale consiliatura. Le nomine del Csm e i tanti dubbi su quei cento ricorsi ogni anno di Pieremilio Sammarco* Il Dubbio, 29 gennaio 2022 Egregio Direttore, mi consenta una breve replica all’articolo apparso il 26 gennaio u. s. sul suo giornale a firma del professor Filippo Donati, il quale ha ricordato a tutti che gli atti del Csm, come qualunque atto della pubblica amministrazione, sono soggetti al controllo di legittimità del giudice amministrativo e che il ricorso alla giurisdizione costituisce un diritto costituzionale insopprimibile. Come poter contraddire questo assunto? Impossibile, perché è lapalissiano. Oltre la difesa d’ufficio, il professor Donati, però, non spiega le ragioni per cui nei confronti delle decisioni di annullamento da parte del giudice amministrativo il Csm ha assunto spesso un atteggiamento ondivago. Ad esempio, nel febbraio del 2019 in occasione dell’annullamento della nomina del Procuratore aggiunto della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, il Csm, senza alcun strepitio, recepì l’annullamento del Consiglio di Stato della nomina del dottor Romanelli, magistrato notoriamente esperto in antiterrorismo, nominando al suo posto la dottoressa De Simone. Forse perché in quella occasione il dottor Romanelli non era stato adeguatamente sostenuto da qualche corrente? E, volendo continuare con gli esempi, si può fare riferimento all’annullamento della nomina del Procuratore di Modena avvenuta in quello stesso periodo. In secondo luogo, il professor Donati non spiega il reale motivo per il quale alcune delle nomine per le posizioni apicali della giurisdizione ordinaria negli ultimi anni sarebbero state decise in via definitiva dal giudice amministrativo che ha annullato le decisioni prese dal Csm. La spiegazione (non detta) è che, basandoci su quanto riportato dalle cronache giudiziarie, le delibere del Csm sarebbero sovente assunte in modo discrezionale sulla base delle indicazioni delle correnti con la conseguenza che esse sono talvolta sorrette da motivazioni insufficienti o contraddittorie e questo genera un contenzioso amministrativo (tra legittimità e ottemperanza) di oltre 100 ricorsi all’anno che costringe il Csm a modificare le proprie decisioni. Ma sono note alle cronache solamente le decisioni per le posizioni apicali della giurisdizione (ad es. la nomina del primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nel 2007, la nomina di Lo Voi a Procuratore capo di Palermo nel 2014, ancora Lo Voi a Roma nel 2021, oltre l’attuale diatriba per la presidenza del Tribunale di Lecce e quanto accaduto pochi giorni fa con i vertici della Cassazione). Vista l’entità del fenomeno, due sono le ipotesi (alternative): il Csm erra nella valutazione dei candidati o il Consiglio di Stato erra nella valutazione dei ricorsi sottopostigli? Al lettore il compito di scegliere tra le due opzioni. In entrambe le ipotesi però è il cittadino, l’utente e l’operatore della giustizia a rimanere disorientato. *Professore Associato di Diritto Privato Comparato l’Università degli Studi di Bergamo Il diritto di difesa deve essere al riparo da ogni intrusione di Giuliano Pisapia Il Dubbio, 29 gennaio 2022 Due sentenze - la prima della Corte Costituzionale, la seconda della Corte Europea dei diritti dell’uomo - riportano al centro il tema delle carceri nel dibattito pubblico italiano. Nel primo caso la Consulta - accogliendo l’interpretazione della Corte di Cassazione - ha riconosciuto l’illegittimità del visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” come previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario italiano - e il suo difensore. La Corte di Strasburgo è invece intervenuta riguardo ai due anni di detenzione di Giacomo Seydou Sy - in una struttura - il Carcere di Rebibbia del tutto inadatto al suo stato di salute mentale. La Cedu ha evidenziato e condannato il trattamento inumano non per le pessime condizioni carcerarie, ma anche per la mancanza delle terapie idonee a curare il ragazzo affetto da disturbi della personalità e bipolarismo. Devono far riflettere le parole che si leggono nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo: “I governi hanno l’obbligo di organizzare il sistema penitenziario in modo da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, indipendentemente da qualsiasi difficoltà finanziaria o logistica”. Secondo i giudici di Strasburgo non possono essere delle scusanti di un comportamento disumano la mancanza di fondi e di strutture. Da troppi decenni non si affronta veramente questo nodo, rendendo di fatto inattuato anche l’articolo 27 della nostra Costituzione che prevede che le “pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Avere carceri “umane”, capaci di accogliere i detenuti rispettando la loro personalità e garantendo i loro diritti non può essere un mero e vuoto impegno ma deve diventare una priorità per l’intero Paese e, in particolare, per chi ha responsabilità istituzionali e politiche. È una questione di civiltà giuridica e carceraria. Ed ecco perché le due sentenze della Consulta e della Cedu, apparentemente distanti, si legano tra loro in quanto pongono al centro i diritti. I diritti che hanno, e debbono avere, anche tutti i detenuti sia quelli condannati con sentenza definitiva sia quelli in carcerazione e preventiva e quindi presunti innocenti. Principio che deve valere anche per chi è anche “condannato” al regime più duro. Era inaccettabile - e bene ha fatto la Cassazione a sollevare la questione - che ancora vigesse, sono parole della Corte Costituzionale: “Una generale e insostenibile presunzione (…) di collusione del difensore dell’imputato finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Sono parole importanti che riportano al centro il ruolo e la dignità del difensore. Ed è un bene che la Consulta abbia deciso di intervenire dopo la sentenza di nove anni fa - la n. 143 - che aveva sanato la questione dei colloqui personali tra detenuto sotto regime 41 bis e il suo difensore. Il diritto di difesa deve essere al riparo da ogni controllo. La dignità e il rispetto del carcerato sono la misura di ogni Paese. La ministra Cartabia - pur nelle difficoltà insite nella composita maggioranza che sostiene l’attuale Esecutivo - ha indicato priorità e obiettivi per una “giustizia giusta” ponendo al centro anche la questione delle carceri. Dopo due anni di pandemia i problemi all’interno delle strutture penitenziarie si sono acuiti e le rivolte ad inizio dell’emergenza Covid 19 sono state solo la punta dell’iceberg. Realtà meritevoli come Antigone non mancano ogni giorno di riportare al centro del dibattito i problemi che i detenuti - senza dimenticare le guardie, gli operatori e i volontari si trovano ad affrontare. Dopo l’elezione del Presidente della Repubblica è necessario che si indichi tra le priorità del dibattito parlamentare il ripensamento della giustizia e delle carceri in Italia abbandonando fanatismi e ideologismi. I due distinti casi sanzionati dalla Consulta e della Cedu sono spie d’allarme di un sistema che necessita di un vero e proprio cambio di passo; un cambio di passo indispensabile e non più procrastinabile. Il divieto di internet è contro la Costituzione? Parola alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 gennaio 2022 La Corte costituzionale dovrà decidere se il divieto d’accesso a internet, disposto dalla Questura come mezzo di misura di prevenzione, è in contrasto con le norme convenzionali. Al centro della vicenda, è la misura di prevenzione dell’avviso orale emesso dal questore nei confronti di una persona già condannata per reati di tentata rapina, rissa e minaccia al pubblico ufficiale. A sollevare la questione di legittimità costituzionale è la Cassazione tramite l’ordinanza numero 46076. Accade che, con provvedimento reso il 4 febbraio 2020, il Tribunale di Roma ha rigettato l’opposizione proposta da B.M. avverso l’avviso orale contenente divieti aggiuntivi, ai sensi dell’art. 3, comma 4, d. lgs. n. 159 del 2011, emesso nei suoi confronti dal Questore di Roma l’ 8 agosto 2019. L’avviso orale - che imponeva a B. Mi. lo specifico divieto di possesso e uso di “qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente (...)” e il divieto di accesso a internet, ricomprendendo tra gli strumenti vietati anche i telefoni cellulari, nonché di sostanze infiammabili e artifici pirotecnici - si fondava sulla ritenuta pericolosità sociale del soggetto, valutata con giudizio prognostico sulla base delle condanne passate in giudicato per reati di tentata rapina, lesioni personali, rissa e minaccia, e dell’esito delle ulteriori indagini relativamente all’accertamento a suo carico di reati di maltrattamenti in famiglia, minaccia, furto, resistenza a pubblico ufficiale. Avverso al provvedimento del Tribunale ha proposto appello l’avvocato difensore Emanuela Febbi, deducendo due motivi. Con il primo motivo deduce l’assenza della pericolosità generica ed attuale. Sostiene che nessun giudice abbia mai dichiarato la pericolosità sociale del prevenuto, e che i divieti imposti siano privi di collegamento con i reati commessi, peraltro risalenti nel tempo; non è sufficiente l’inquadramento del soggetto in una delle tre categorie di pericolosità ‘ generica’, essendo necessaria una valutazione prognostica sulla base di elementi di fatto che fondino un giudizio di attualità della pericolosità sociale. Con il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 8 Cedu, per la mancata indicazione della durata minima e massima degli obblighi imposti dal Questore, e per la compromissione di fondamentali diritti costituzionali, e l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, d.lgs. 159/2011. Con ordinanza del 27.4.2021 la Corte di Appello di Roma ha riqualificato l’impugnazione come ricorso per Cassazione ed ha trasmesso gli atti alla Corte, la quale osserva che il divieto di possedere o utilizzare in tutto o in parte qualsiasi apparato di comunicazione radiotrasmittente è in grado di incidere sulle libertà fondamentali connesse. Il divieto di accesso a internet - osserva la Suprema Corte - appare in contrasto con la dimensione passiva della libertà di espressione espressamente prevista dall’art. 10 della Convenzione europea che assicura la libertà di ricevere informazioni. Il diritto alla libertà di espressione, inoltre, è un diritto individuale e sociale, che ha acquisito un rilievo ancora maggiore grazie a internet che, come precisato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 9 febbraio 2021, nel caso “Ramanaz Demir” contro Turchia, è un servizio pubblico “funzionale al godimento di molteplici diritti umani”. Proprio la giurisprudenza della Corte europea sull’utilizzo di internet porta la Cassazione a ritenere fondati i dubbi di legittimità costituzionale perché l’assenza di un termine di durata dei divieti stabiliti dal comma 4 dell’art. 4 del Dlgs 159/ 2011 è una sorta di “spada di Damocle” “permanentemente incombente sulla persona destinataria dell’avviso orale c. d. aggravato”. Dubbi poi sulla legalità convenzionale dell’ingerenza perché non è sufficiente una base legale, ma occorre che un individuo possa adattare la propria condotta alle prescrizioni legali. Nei divieti imposti con l’avviso orale del questore sussiste un deficit di legalità convenzionale perché non è prevedibile “da parte del destinatario della misura di prevenzione, la modalità temporale di esercizio del potere limitativo”. Così, la Cassazione ha passato la parola alla Corte costituzionale al fine di accertare il contrasto con gli articoli 3, 15, 21 e 117 della Costituzione con riguardo agli articoli 8 e 10 della Convenzione europea. Marche. Lavoro e casa dopo il carcere, il futuro dei detenuti redattoresociale.it, 29 gennaio 2022 Nelle Marche 148 dimittendi. Il Garante Giulianelli attivando una serie di incontri, il un primo con il presidente di Ente regionale per l’abitazione pubblica. “Confronto interlocutorio che ha permesso di avere un quadro generale della situazione per quanto riguarda sistemazioni abitative adatte allo scopo” Il futuro dei detenuti dimittendi, in termini di soluzioni abitative e di lavoro, è uno dei temi all’attenzione del Garante delle Marche Giancarlo Giulianelli, che sta attivando una serie di incontri per affrontare le problematiche legate alla realtà carceraria. “Al 31 ottobre di quest’anno - evidenzia Giulianelli nelle Marche sono stati registrati 148 dimittendi, con un’età media compresa tra i 30 ed i 35 anni. Una volta fuori dal carcere per molti non c’è un tetto su cui poter fare affidamento, ma poterglielo garantire vuol dire rendere possibili misure alternative, arginare le possibilità di recidiva, permettere il mantenimento di legami affettivi e parentali. Nella buona sostanza, guidare con oculatezza il reinserimento nella società. Ovviamente il tutto in stretta connessione con il supporto occupazionale”. Proprio in quest’ottica il Garante ha effettuato un primo incontro a remoto con il Presidente di Erap (Ente regionale per l’abitazione pubblica) Marche, Massimiliano Sport Bianchini, al quale ha partecipato anche il segretario dell’ente Maurizio Urbinati. “Un confronto interlocutorio - come lo definisce Giulianelli - che si è dimostrato molto positivo ed ha permesso di avere un quadro generale della situazione per quanto riguarda sistemazioni abitative adatte allo scopo. Intenzione comune è quella di approfondire ulteriormente tutte le possibilità”. Sul fronte del lavoro, Giulianelli ha in animo di concretizzare degli incontri con alcune associazioni imprenditoriali e di categoria. “Il discorso - sottolinea - poggia sulle stesse basi. Ridare dignità e certezze per un rientro positivo nella società. In questa direzione assumono una significativa valenza anche le attività trattamentali, soprattutto quelle di carattere formativo, che permettono di fornire un primo profilo ad una futura occupazione”. L’auspicio è che “le stesse attività possano riprendere adeguatamente, anche con nuove proposte che il Garante intende avanzare, una volta superata l’emergenza pandemica”. Campania. Covid nelle carceri, Ciambriello: “Oggi 501 detenuti contagiati” Il Mattino, 29 gennaio 2022 “In Campania ad oggi 501 detenuti contagiati da Covid (Poggioreale 163, Carinola 134, Secondigliano 81, Avellino 76), tre ricoverati al Cotugno, 174 agenti ed operatori penitenziari contagiati (101 solo tra Poggioreale e Secondigliano). Emergenza nell’emergenza con il rischio Covid nelle carceri. Che fare per rendere più dignitosa la vita di tutti coloro che sono presenti nelle carceri e stemperare le tensioni? In queste condizioni di sovraffollamento, problemi igienico sanitario, sospensioni delle attività, la pena può davvero conseguire la sua finalità, come prevista dalla Costituzione?”. È quanto si chiede il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Il garante rende noto che continua la campagna di vaccinazioni nelle carceri: “Tra martedì ad oggi 712 dosi di vaccino solo nel carcere di Poggioreale, dove, però, 21 detenuti che avevano chiesto la prima dose oggi hanno rifiutato di riceverla”. “Non ci sono in molte carceri condizioni di efficienza per quel che riguarda gli organici, agenti, personale socio sanitario ed educatori - aggiunge - gli equipaggiamenti e i dispositivi di protezione individuale e ambientale per detenuti e personale. La politica ha il freno a mano sul carcere, snobba sentenze di Consulta e della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. La pena non può essere solo privazione della libertà e sequestro del tempo. Il Covid sta dimostrando i limiti del sistema penitenziario. C’è bisogno di un segnale di svolta da parte della politica, del Governo e del Ministero della Giustizia”. Roma. Tso, Rems, infine il carcere. Il calvario di Eros Priore, morto di martedì di Francesco Lo Piccolo huffingtonpost.it, 29 gennaio 2022 Che la terra ti sia lieve, più lieve di quella terra che ti è stata buttata addosso da sistemi giudiziario, penale e sanitario. Eros Priore è morto due giorni fa, martedì 25 gennaio, nell’Hospice San Raffaele di Montecompatri, zona Colli Albani, a una trentina di chilometri dalla sua casa a Colleferro. Avrebbe compiuto 61 anni a maggio. Guarda caso, sempre a gennaio e sempre il giorno 25, era il 2010, Eros Priore era finito in Trattamento Sanitario Obbligatorio per aver litigato e per aver rotto un computer nel Centro di Igiene Mentale a Colleferro. Non era la prima volta che aveva a che fare con i medici e con la polizia: dopo la morte dei genitori viveva con la sorella, non aveva un lavoro, se ne stava spesso solo chiuso in casa. Un buono, ma ingenuo, in tanti si prendevano gioco di lui. Facile all’ira, veniva trattato a psicofarmaci che alle volte rifiutava. Non è certo, ma forse è da quella data di 14 anni fa, da quel lontano 25 gennaio, da quel Tso insomma, che per Eros Priore comincia un calvario fatto di comunità che definiva lager, legacci, psicofarmaci, visite mediche, perizie. Fino ad arrivare a finire rinchiuso nel carcere di Velletri, poi nel carcere di Secondigliano, quindi alla Rems di Subbiaco, e di recente internato nella Casa Circondariale-Casa di lavoro di Vasto. Un calvario non per un reato compiuto per il quale si è condannati alla pena del carcere, ma un calvario per motivi di sicurezza, per risocializzare - come prescrivono i giudici - una persona ritenuta socialmente pericolosa, caratteriale, visionario che si rifiuta di prendere psicofarmaci, che non accetta cure, comunità e restrizioni di alcuna natura. Un percorso rieducativo e sanitario che in realtà sembra solo una punizione: nella Casa di lavoro di Vasto dove avrebbe dovuto restarci un anno - avrebbe dovuto uscire il 23 aprile di quest’anno - Eros Priore in realtà non ha mai lavorato (come del resto tanti altri internati), abbandonato a se stesso, si è anche ammalato. A causa di una ischemia intestinale gli è stato tolto metà dell’intestino e gli è stata praticata una deviazione verso un sacchetto esterno per la raccolta delle feci. Era lo scorso luglio, avrebbero dovuto togliergli il sacchetto in un paio di mesi, non l’hanno mai fatto. Per mancanza di anestesisti, mi è stato detto. Avrebbero potuto mandarlo a casa, mandarlo in una struttura sanitaria, o in qualsiasi altro posto. Non l’hanno fatto e l’hanno riportato nel carcere-casa lavoro di Vasto. La sorella Loredana, che l’ha incontrato in carcere con videochiamata dopo il blocco dei colloqui a causa del Covid, mi ha raccontato che era “distrutto, irriconoscibile, andava avanti a sigarette e caffè, caffè e sigarette, più che camminare strisciava aiutandosi con una scopa che usava rovesciata come una stampella, era pelle e ossa”. Pelle e ossa anche a causa di un tumore ai polmoni diagnosticato lo scorso dicembre ormai in fase terminale, metastasi diffuse in tutto il corpo. Di nuovo ospedale. E di nuovo carcere, poi dal carcere all’ospedale, infine due settimane fa la decisione di mandarlo a casa a Colleferro, da sua sorella, in fin di vita. Ma Eros Priore a casa c’è stato solo due giorni, fino a che l’hanno mandato all’Hospice di Montecompatri, dove martedì mattina ha fatto il suo ultimo respiro. Morto senza essere risocializzato o guarito, morto e certo non curato. Questo a pochi giorni dalla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha: 1) condannato l’Italia per un caso di un giovane incarcerato a Rebibbia, 2) ricordato che il carcere non può essere un luogo adeguato per i soggetti malati. Almeno non in un Paese che si definisce civile. Ciao caro Eros, che la terra ti sia lieve, più lieve di quella terra che ti è stata buttata addosso da sistemi giudiziario, penale e sanitario. Modena. Detenuti morti nella rivolta di marzo 2020, anche Antigone andrà alla Cedu ansa.it, 29 gennaio 2022 Dopo che il Gip ha respinto il reclamo sull’archiviazione. Anche l’associazione Antigone si prepara a rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’archiviazione dell’inchiesta sui nove detenuti morti a marzo 2020, quando scoppiò una rivolta nel carcere di Modena, in concomitanza con altre proteste simili in altri penitenziari italiani. Il reclamo di Antigone è stato infatti dichiarato inammissibile dal Gip. “A questo punto la nostra intenzione - dice l’avvocato Simona Filippi, che assiste l’associazione - dopo aver esperito tutte le vie di ricorso interne, è quella di iniziare a lavorare al ricorso alla Cedu”, che si andrà ad aggiungere a quello dei familiari di un detenuto, assistiti dall’avvocato Luca Sebastiani, “chiedendo che l’Europa faccia chiarezza sulla dinamica di questi nove morti”. Enna. Suicida Commissario di Polizia penitenziaria, aveva 58 anni Giornale di Sicilia, 29 gennaio 2022 Un Sostituto Commissario del Corpo di Polizia Penitenziaria - 58 anni, B.N. - in servizio nel carcere di cittadino, si è tolto la vita questa mattina in auto mentre si stava recando al lavoro. A dare notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “È una notizia agghiacciante, che sconvolge tutti noi”, dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe, che ricorda come quello dei poliziotti penitenziari suicidi è un dramma che va avanti da tempo senza segnali di attenzione da parte del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sui suicidi in divisa, il Sappe rileva come “i poliziotti penitenziari sono lasciati abbandonati a loro stessi, mentre invece avrebbe bisogno evidentemente di uno strumento di aiuto e di sostegno. Lo scorso anno 2021 sono stati 5 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita, 6 furono nel 2020 ed erano stati 11 nel 2019”. Numeri “sconvolgenti”, per Capece che aggiunge: “Ministero della Giustizia e Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non possono continuare a tergiversare su questa drammatica realtà. Servono soluzioni concrete per il contrasto del disagio lavorativo del Personale di Polizia Penitenziaria. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria”, conclude Capece. “Qui servono azioni concrete e non le chiacchiere ministeriali e dipartimentali che su tutti queste tragedie non ha fatto e non fa nulla: è vergognoso e inaccettabile!”. Firenze. Detenuto chiede di visitare il padre, il permesso arriva dopo la morte di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 29 gennaio 2022 Sollicciano, la denuncia di Matulli (Pantagruel): “Dal tribunale rifiuti insensati”. Detenuto a Sollicciano, aveva chiesto al tribunale di sorveglianza di concedergli un permesso di libertà vigilata per andare a trovare suo padre in fin di vita. Ma il permesso non gli è stato concesso e lui non ha potuto lasciare il carcere. Ha insistito, mandando richieste su richieste al tribunale, giorno dopo giorno. Alla fine quel permesso tanto agognato permesso è arrivato, ma con una tragica beffa è arrivato il giorno dopo la morte del padre. È la storia di un giovane detenuto marocchino recluso nel penitenziario di Sollicciano da circa due anni (dovrà scontarne ancora uno). La storia, raccontata dall’associazione di volontariato Pantagruel, inizia quando il padre, che viveva in Marocco, viene a conoscenza di essere malato. I medici gli diagnosticano un tumore e gli dicono che non gli resta ancora molto tempo da vivere. Così l’uomo anziano parte per l’Italia e arriva a Firenze: vuole vedere il figlio per un’ultima volta prima di morire. Si trasferisce a casa della figlia, sorella del detenuto, che da tempo vive in provincia di Firenze. E qui attende. Nel frattempo, da Sollicciano, il detenuto fa partire la prima richiesta ufficiale di permesso speciale per malattia grave del padre, un permesso che quasi sempre viene concesso ai reclusi. Ma dal magistrato di sorveglianza la prima risposta è negativa. A concorrere alla decisione sfavorevole ci sarebbe la non idoneità della casa in affitto presso cui vive la sorella, a causa del fatto che il contratto di affitto della sorella non prevedeva il subaffitto di qualche giorno al detenuto. “Un assurdo pretesto”, secondo l’associazione Pantagruel. Passano le settimane e la casa viene acquistata dalla sorella. Secondo Pantagruel, che ha seguito da vicino il caso del giovane internato, ci sarebbero adesso tutte le condizioni per avere il tanto sperato permesso. Ma anche stavolta, niente di fatto: ancora un responso negativo. Passano altri giorni e il padre peggiora sempre di più. Da Sollicciano partono ulteriori richieste, ma ancora nessuna risposta positiva. Fino a quando il padre del ragazzo si aggrava ulteriormente e muore, lo scorso 17 settembre, senza che il recluso abbiamo potuto fargli visita. Quando al ragazzo arriva finalmente il permesso speciale per uscire provvisoriamente, il padre è già deceduto. A quel punto, il giovane va su tutte le furie, si dispera, urla, viene calmato da Fatima, una volontaria marocchina di Pantagruel. “Era intrattabile, da un lato profondamente addolorato per la scomparsa del padre, dall’altro furioso perché non gli era stata concessa la possibilità di salutarlo per un’ultima volta, era il suo desiderio più grande”. “Abbiamo assistito impotenti ad un episodio gravissimo - ha commentato il presidente dell’associazione Pantagruel ed ex vice sindaco di Firenze Giuseppe Matulli - Tempo fa ho scritto al presidente del tribunale di sorveglianza per sottolineare l’importanza della tutela dei diritti dei detenuti di fronte a situazioni come questa, eppure non è bastato perché il tribunale ha respinto le ripetute richieste del recluso con motivazioni assurde e insensate, assolutamente pretestuose, tanto che poi il permesso è arrivato, ma quando ormai era troppo tardi”. Il permesso in questione, come detto, solitamente viene concesso. Secondo l’articolo 30 del regolamento, “nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, ai condannati e agli internati può essere concesso dal magistrato di sorveglianza il permesso di recarsi a visitare l’infermo”. Milano. “Contro i reati minorili serve un patto tra carcere e scuola” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 29 gennaio 2022 Fabrizio Rinaldi guida il Beccaria: una via per il recupero. Emergenza spazi aggravata dalla pandemia. Appassionato del “fare” milanese ma orgoglioso napoletano, padre di una figlia adolescente, da sempre interessato al mondo dei giovani e con una lunga storia ai vertici di vari penitenziari della Lombardia. La figura appena scelta per dirigere il Beccaria - Fabrizio Rinaldi - è di spessore ed esperienza. Peccato però che ancora una volta per il carcere minorile milanese si tratti di una guida part-time (in sede due giorni a settimana) come era stato per Mimma Buccoliero, appena trasferitasi a Torino. Le pesa avere due incarichi insieme, al carcere di Como e al minorile di Milano? “Di necessità virtù. Io metterò tutto il mio impegno per svolgere al meglio questo incarico, che comunque sarà transitorio. Le procedure per le assunzioni di dirigenti del minorile a tempo pieno sono avviate e confido che le nomine siano prossime. In una fase come questa, turbolenta e di disagio giovanile esplosivo, nell’interesse degli adolescenti un direttore a tempo pieno sarebbe auspicabile”. Si parla di disagio e questo si traduce anche in piccole rapine e aggressioni che continuano a verificarsi in città ad opera di minori devianti o con disturbi di varia natura. Allo stesso tempo in Lombardia le comunità sono insufficienti. Come si fa fronte alla situazione? “La cura e rieducazione dei ragazzi sono sempre prioritarie, il carcere certo non si sottrae alle sue responsabilità. Ma dovrebbe essere lasciato solo come extrema ratio se ogni altra possibilità viene giudicata impossibile e comunque circoscritto a un tempo limitatissimo. Particolarmente importante é l’impegno profuso nell’indirizzare ad attività socialmente utili e nel valorizzare l’istituto della messa alla prova”. Cosa l’ha colpita più di tutto al Beccaria? “L’impegno del personale di polizia e di chi opera nell’area trattamentale e il grande investimento del terzo settore e di soggetti esterni nella formazione scolastica e lavorativa dei ragazzi. Investimento economico e di energie”. Come si rende il tempo in carcere un’opportunità? “Bisognerebbe cercare di avvicinargli coraggiosamente il mondo delle scuole e della società civile. L’osmosi durante la detenzione può fare molto in vista del reinserimento e contro il rischio dello stigma. Vorrei incoraggiare progetti e collegamenti con i licei e utilizzare sempre di più il nostro teatro Puntozero come luogo di sperimentazione per il necessario avvicinamento tra “dentro” e “fuori”. Inaugurata da poco la palestra, grazie alla Fondazione Rava, al Beccaria restano problemi strutturali. Primo tra tutti, il sovraffollamento... “Abbiamo 39 ospiti e la capienza sarebbe di 31. Visto il periodo di particolare turbolenza in strada, temiamo l’arrivo di altri ragazzi che non potremmo accogliere: li dovremmo per forza mandare in altre regioni, lontano dalle famiglie, ed é una soluzione non ottimale dal punto di vista rieducativo. Anche gli spazi in origine destinati ai ragazzi arrestati in flagranza sono occupati da quelli in isolamento preventivo per il Covid. Risultato: chi è in stato di fermo deve essere portato via, a Torino o Genova, con dispendio di forze ed energie. Il problema degli spazi, in pandemia, è esacerbato per tutti”. I lavori di ampliamento che dovrebbero raddoppiare la capienza e paiono non finire mai, a che punto sono? “Mi dicono che il cantiere terminerà entro l’anno. Non è semplice, anche perché aumentano gli adolescenti devianti con problematiche sanitarie psichiatriche o di dipendenza che destabilizzano la gestione dei gruppi. Serve, in generale per i giovani, una regia più forte e complessiva che prenda in mano urgentemente potenzialità e problemi, prima che peggiorino”. Latina. Pena alternativa per i detenuti “Messi alla prova” latinacorriere.it, 29 gennaio 2022 Il Comune ha approvato lo schema di convenzione con il Tribunale di Latina per la “messa alla prova”, l’istituto previsto per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni di reclusione che consiste nella sospensione del procedimento penale per l’imputato. Su disposizione del giudice, infatti, l’imputato viene affidato all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna per lo svolgimento di un programma di trattamento che prevede come attività obbligatoria e gratuita l’esecuzione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che può essere svolto presso istituzioni pubbliche, enti e organizzazioni di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Con la delibera di Giunta il Comune di Latina ha dunque approvato la convenzione per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per tutti gli imputati che ne abbiano diritto, indicando anche i servizi nei quali gli stessi potranno essere impiegati: attività nell’ambito del welfare: collaborazione e supporto all’Amministrazione Comunale nei progetti/servizi incentrati sulla tutela dell’infanzia, delle persone anziane e disabili; interventi di emergenza (ad esempio Emergenza freddo e Pronto Intervento Sociale); supporto a specifiche attività quali accoglienza di persone senza dimora, di richiedenti e/o titolari di protezione internazionale; attività nell’ambito del verde pubblico: azioni di pulizia e manutenzione integrative nelle aree verdi pubbliche; attività nell’ambito della tutela ambientale: collaborazione e supporto all’Amministrazione Comunale nei progetti/servizi incentrati sulla tutela ambientale; attività nell’ambito dei beni comuni: collaborazione e supporto all’Amministrazione Comunale nei progetti/servizi incentrati sulla promozione del senso civico tramite la cura dei beni comuni; piccoli interventi di ripristino dell’arredo urbano e del decoro urbano; supporto alla rimozione del vandalismo grafico. La convenzione avrà la durata di 5 anni a decorrere dalla data di sottoscrizione e potrà essere rinnovata d’intesa tra i contraenti. “Con questo atto - commenta la Vice Sindaco e Assessora al Welfare Francesca Pierleoni - l’Amministrazione di Latina conferma la volontà di collaborare con il Ministero della Giustizia e di voler fare la propria parte nell’accompagnare le persone che si sono rese responsabili di reati di minore allarme sociale in un percorso di riabilitazione e reinserimento fatto di condivisione dei valori fondanti della convivenza civile”. Lodi. Tenta il suicidio per due volte: detenuto salvato alla Cagnola di Laura Gozzini Il Cittadino, 29 gennaio 2022 Ha usato le lenzuola e i lacci delle scarpe per impiccarsi, in carcere a Lodi, per due volte in 48 ore. Così un uomo arrestato e condotto alla Cagnola nei giorni scorsi ha cercato di togliersi la vita, ma è stato salvato dagli altri detenuti e dagli agenti della polizia penitenziaria. La drammatica notizia è arrivata ieri dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario Provinciale di Lodi e Delegato Regionale per la Lombardia Dario Lemmo che spiega: “Il detenuto ha tentato il suicidio a mezzo impiccamento nel bagno della cella la prima volta con le lenzuola e la seconda volta con i lacci delle scarpe. I tre agenti intervenuti la prima volta e i due agenti intervenuti la seconda volta hanno subito sollevato il detenuto e hanno slacciato le lenzuola e i lacci delle scarpe per liberarlo dal soffocamento”. L’uomo è stato subito soccorso e gli sono state praticate le manovre di rianimazione per salvarlo. “Era appena entrato dopo l’arresto e si trovava nelle stanze dei nuovi giunti - spiega la direttrice della casa circondariale di Lodi Mariantonietta Tussi -. Si tratta di un soggetto noto ai servizi territoriali del Cps (Centri psico-sociali) in quanto tossicodipendente, che ha fatto questi due “tentativi”, sventati per fortuna, in un momento in cui erano presenti i compagni di stanza per cui la prima volta hanno potuto salvarlo e poi sono intervenuti gli agenti, e la seconda volta grazie all’intervento egregio degli agenti”. La direttrice tiene a precisare che la vigilanza è sempre stata massima: “La persona non è mai messa nella condizione di rimanere sola, c’è sempre qualcuno nella stanza, soprattutto all’ingresso perché deve effettuare l’isolamento da Covid - prosegue. In ogni caso, essendo un soggetto problematico da gestire in carcere a Lodi, non disponendo di un servizio psichiatrico h 24 e di un medico di notte, è stato chiesto di trasferirlo in un luogo più idoneo dove c’è un’assistenza psichiatrica e nel frattempo è stato messo in regime di grande sorveglianza”. Lodi. “Vivono rinchiusi come in una camera a gas: ho visto persone che non stavano bene” di Laura Gozzini Il Cittadino, 29 gennaio 2022 La volontaria. Grazia Grena di Loscarcere racconta le condizioni di vita in questo lungo periodo Covid: “Loro hanno bisogno di noi”. Come una stanza che si rimpicciolisce. Sempre di più. Sempre di più. “Come una camera a gas”. Mentre Grazia Grena la descrive ti sembra di vederla, la cella dove i detenuti in tempo di Covid trascorrono i loro giorni senza più “ossigeno”, “perché gli spazi in cui si muovono sono sempre celle a parte l’aria”. Grena è un ex militante di Prima Linea e presidente di Loscarcere, associazione di volontari delle 14 che prima dell’ondata Omicron svolgevano la loro attività all’interno del carcere di Lodi. E da tre settimane sono chiuse fuori, in attesa che la curva dei contagi cali. Nell’ultima visita ha incontrato la disperazione più disperante e non nasconde di essere preoccupata: “Dopo due anni di Covid i detenuti non ce la fanno più. Tutte le attività sono state sospese, ieri (giovedì, ndr) ho avuto un colloquio con la direttrice e ho capito che era successo qualcosa. Ieri sera sono uscita e al mio circolo ristretto l’ho detto” confessa alla notizia del tentato suicidio, reiterato due volte, proprio qualche giorno fa. “L’ultima volta che sono entrata in carcere risale minimo a tre settimane fa. Ho visto persone che non stavano bene, in una sofferenza psicologica, come essere in una camera a gas - ricorda. E gli agenti m’incoraggiavano a parlare con sempre più persone, perché anche cinque minuti potevano essere non chissà che, ma un sollievo”. Sa bene, perché lo ha provato sulla propria pelle, che il carcere ti sgretola. E che anche lei e gli altri volontari possono fare “poco”. Ma che quel poco è tantissimo. Sospesi in piena emergenza Covid, corsi di teatro, di panificazione, incontri per i papà e tutte le altre iniziative da poco riprese, hanno dovuto fermarsi di nuovo. Ed è dura. “Siamo stati paragonati ai giardinieri, ma il volontariato che è tanto bistrattato è ossigeno per i detenuti, perché vuol dire mantenere contatti con la realtà e la speranza - osserva -. Il carcere è un ambiente chiuso che con il Covid si è chiuso ancora di più e questo ti svuota, ti fa tornare infantile. Se ogni 10 detenuti che escono in 7 tornano dentro, vuol dire che non è la risposta giusta”. Rovigo. Carcere, la Cgil chiede un direttore stabile e medici specialisti lapiazzaweb.it, 29 gennaio 2022 Giovedì 18 novembre una delegazione della Fp-Cgil ha fatto visita all’interno del carcere di Rovigo. Durante la visita è emersa la cronica mancanza in pianta stabile di un direttore penitenziario, proprio per la presenza di detenuti classificati alta sicurezza, situazione che rende necessario avere in pianta stabile un direttore. “Risulta assolutamente necessaria - dichiara Gianpietro Pegoraro, coordinatore regionale del Dap Funzione Pubblica - all’interno del carcere, la figura del medico specialista. Il dentista, a esempio, viene una volta a settimana e questo crea non pochi problemi per chi lavora all’interno dell’istituto. Abbiamo notato che, ai piedi del reparto detentivo, sono accatastati mucchi d’immondizie, che giorno dopo giorno si accumulano sempre di più. Se ci fosse un direttore in pianta stabile questo non sarebbe accaduto. I fondi assegnati sono insufficienti per pagare un numero maggiore di detenuti dediti a svolgere attività lavorativa. La mancata classificazione dell’istituto comporta da una parte la non appetibilità di direttori penitenziari nel scegliere Rovigo come sede e, dall’altra, sminuisce l’ottimo lavoro che sta svolgendo il personale”. “Come sindacato - conclude Pegoraro - chiediamo alle istituzioni di farsi carico della situazione e di aprire un tavolo con l’amministrazione penitenziaria regionale. Chiediamo inoltre al provveditore regionale di trovare una soluzione alla cronica mancanza di un direttore in pianta stabile”. Biella. “S-Prigioni Legami”, un aiuto per i genitori “ristretti” e i loro figli newsbiella.it, 29 gennaio 2022 Il progetto è nato all’interno del Tavolo Carcere di Biella ed è stato presentato questa mattina in Prefettura. Si chiama “S-Prigioni Legami”. È il progetto presentato oggi venerdì 28 gennaio in Prefettura al quale darà presto avvio il Tavolo Carcere di Biella, un progetto di rete volto a favorire l’inclusione sociale e contrastare situazioni di marginalità, disagio e fragilità connesse, con specifico riferimento al tema “carcere e genitorialità”. A tale proposito “S-Prigioni Legami” prevede azioni specifiche per supportare i genitori “ristretti” delle libertà personali e i loro figli, favorire relazioni costruttive, solidali e inclusive, e sensibilizzare l’opinione pubblica. “In data 15 dicembre” aggiunge Sonia Caronni Garante dei diritti delle persone ristrette nella libertà per il Comune di Biella “è stata rinnovata per altri 4 anni la Carta dei diritti per i figli dei genitori detenuti, il protocollo di intesa è stato firmato dal Ministero della Giustizia, l’A.G.I.A. (Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza) e l’Associazione Bambini Senza Sbarre Onlus, e si ritiene assolutamente importante porre l’attenzione sui diritti dei minori figli delle persone ristrette della libertà, sia in termini di prevenzione che educativi. Si ritiene, infatti, che il genitore recluso possa essere comunque un buon papà malgrado la detenzione, riuscendo a mantenere il legame genitoriale, andando ad incidere sulla recidiva dei reati”. Aggiunge il Prefetto di Biella Franca Tancredi “Ho accolto con entusiasmo la richiesta del Garante di presentare, qui in Prefettura, un progetto di così ampio respiro, peraltro, a pochi giorni dal rinnovo della “Carta dei diritti dei figli dei genitori detenuti”, da parte del Ministro della Giustizia. Quella dei bambini con almeno un genitore detenuto è una realtà dolorosa e traumatica, una esperienza che, per chi la vive, anche se in tenera età, rischia di compromettere non solo il suo rapporto con il genitore ma, nel lungo termine, anche il futuro del suo benessere psichico, fisico e sociale. Chi ha un genitore detenuto è “doppiamente” colpito, perché non soffre solo per la separazione dalla figura paterna/materna, ma soffre quotidianamente per la vergogna, il rifiuto sociale e il conseguente isolamento sociale. L’intera società è chiamata quindi a interrogarsi su questo triste fenomeno, alla ricerca di soluzioni alternative che prevedano la cura del disagio affettivo, economico, sociale, della devianza e della povertà. E il progetto, oggi presentato, va in questa direzione”. L’iniziativa vuole coniugare diversi aspetti, formativi, culturali e sociali, per offrire risposte a 360 gradi, coinvolgendo molteplici realtà del territorio, dal capofila del progetto APS Bambini al Centro, alla Casa Circondariale di Biella, dal Centro Territoriale per il Volontariato, alla Caritas Diocesana, dalle amministrazioni pubbliche alle istituzioni scolastiche, nonché diverse associazioni locali che fanno parte del tavolo carcere. Nella prima fase di avvio progettuale (febbraio - marzo 2022) sarà attivato un percorso formativo rivolto a tutti gli operatori del territorio, e che vedrà il coinvolgimento diretto di associazioni ed esperti che da anni svolgono attività studi e ricerche sul tema (Associazione Bambini al Centro, Associazione Ciao, professoressa Francesca Maci dell’Università Cattolica di Milano, dottor Luigi Pagano ex Direttore del Carcere di San Vittore). A seguire (marzo - ottobre 2022) saranno organizzate attività educative individuali e di gruppo, finalizzate a ridurre la dispersione scolastica, favorire la creazione di competenze e promuovere il senso di solidarietà e l’inclusione sociale. Verranno proposti incontri di sensibilizzazione rivolti alla comunità educante locale per aumentarne la consapevolezza e le conoscenze relative alle “famiglie ristrette” ed eventi per favorire il confronto e il dialogo come gruppi di auto mutuo aiuto, caffè letterari, momenti sportivi, per creare, quando e se possibile, un ponte tra l’interno e l’esterno del carcere. Nel medesimo periodo verrà allestito uno sportello di ascolto con azioni specifiche sul tema della genitorialità, pensate per rafforzare le capacità relazionali dei genitori detenuti. L’obiettivo del progetto, oltre al supporto alle famiglie in difficoltà, sarà anche quello di generare un progressivo cambiamento su come viene percepito il carcere all’esterno, per eliminare pregiudizi negativi e consolidare una comunità coesa, attenta ai bisogni delle persone fragili e inclusiva. Il progetto è sostenuto da Regione Piemonte attraverso l’avviso pubblico “Sostegno a progetti di rilevanza locale promossi da soggetti del terzo settore”. Massa Carrara. Il grande cuore di Carolina per i detenuti di Maria Nudi La Nazione, 29 gennaio 2022 Da 5 anni Ginesini è attiva nel volontariato al carcere di Massa. Ma la sua esperienza come referente dell’associazione “L’Altro Diritto” è finita. Ogni sabato Carolina Ginesini, di Carrara, laureata in giurisprudenza, praticante nello studio legale dell’avvocatessa Cristina Lattanzi, va nel carcere di via Pellegrini a Massa dove da cinque anni insieme a un gruppo di cittadini fa volontariato per i detenuti. Un tipo di volontariato particolare che lei racconta con un pizzico di emozione che regala una atmosfera particolare a questa esperienza. Carolina è stata per cinque anni la referente dell’associazione ‘L’Altro Diritto’ che svolge un ruolo di tutela paralegale per i detenuti, senza sostituirsi ai loro difensori sori dei detenuti, ma integrandone il ruolo e creando quella finestra sul mondo per chi vive all’interno del carcere. Ora la sua esperienza volge al fine e il testimone passerà nelle mani di Chiara Bertelloni. Ma Carolina continuerà a fare volontariato perché per lei il carcere, ma soprattutto i detenuti sono diventati parte integrante della sua vita, della sua esperienza giuridica, del suo cuore. Come nasce questa esperienza? Ho incontrato quest’ associazione quando studiavo giurisprudenza a Pisa e ho voluto capirne di più. In pratica ci occupiamo di sostenere i detenuti per quanto riguarda gli aspetti legali senza sostituirci ai loro difensori. Ad esempio li aiutiamo a fare un’istanza per ottenere un permesso e altre pratiche che non riuscirebbero a fare da soli. E così in questi cinque anni ho avuto modo di conoscere persone che, al di là dei reati commessi, mi hanno regalato emozioni e sentimenti che mi hanno arricchita moltissimo. Ormai li conosco tutti e ricordo i loro nomi. E dico sempre che non siamo noi dell’associazione ad aiutare loro, ma sono loro che ci salvano”. Ora passa il testimone? Sì, dopo cinque anni è giusto che questa esperienza abbia un altro referente. Chiara Bertelloni è una persona fantastica che saprà svolgere questo ruolo in modo eccezionale. Ma io continuerò ad andare in carcere. Un detenuto mi ha scritto sul giornalino una lettera di ringraziamento, uno dei regali più belli che abbia mai ricevuto. La nostra associazione si autofinanzia e stiamo facendo una raccolta fondi sulla pagina Facebook. Grazie a chi ci aiuta economicamente siamo in grado di sostenere le spese che affrontiamo per dare una mano ai detenuti. Iniziative finalizzate a far conoscere all’esterno la popolazione carceraria e ad abbattere i pregiudizi. Ci siamo anche attivati per la nomina di un garante comunale dei diritti dei detenuti. Quale è il suo sogno nel cassetto? “Vedrò se intraprendere la carriera di avvocato o quella di magistrato. Ma continuerò sempre nella mia attività di volontariato per detenuti. A toccare con mano realtà difficili, con la possibilità di mettersi a disposizione per provare a essere utili a chi vive una situazione di sofferenza come quella della detenzione”. E oggi Carolina sarà ancora una volta in carcere mentre Chiara Bertelloni la sostituirà nel ruolo di referente dell’associazione ‘L’Altro Diritto’. Premiare chi crea valore contro le disuguaglianze di Mauro Magatti Corriere della Sera, 29 gennaio 2022 Distorsioni: sono troppi in Italia quelli che traggono benefici dalla comunità senza dare alcun contributo al bene comune. Poveri e giovani che non studiano e non lavorano i più colpiti. I temi della riforma fiscale, della revisione del reddito di cittadinanza, degli ammortizzatori fiscali e del salario minimo sono tornati spesso nel dibattito di questi ultimi mesi. Tutti importanti, essi ruotano attorno a un tema centrale: c’è un nesso tra la crescita, l’uso intelligente delle risorse e una equa distribuzione delle risorse disponibili? Sarebbe però un errore rubricare la questione nel capitolo “sociale”, semplicemente perché il nesso tra economia, società e persone è sempre più stretto. Come ha affermato, proprio in questi giorni, Larry Fink, ceo di BlackRock, “i dipendenti di tutto il mondo cercano di più dal loro datore di lavoro, compresa una maggiore flessibilità e un lavoro più significativo”. Il problema è che, nel nostro paese, i diversi aspetti della questione continuano a venire affrontati separatamente, quando ciò che serve non è una sequenza di interventi scollegati, ma un’azione organica e massiccia mirante a modificare le distorsioni strutturali che bloccano la crescita. I dati che emergono dell’analisi delle dichiarazioni dei redditi 2019, realizzata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali (ripresa qualche giorno fa da Alberto Brambilla sul Corriere economia) ci aiutano ad addentrarci nel labirinto Italia. Solo poco più di 500.000 contribuenti - l’1,2% del totale - dichiara un reddito superiore ai 100.000€. Che è come dire che la fascia benestante della popolazione è praticamente sparita nel paese. Abbassando la soglia ai 35.000 € - da cui deriva un reddito netto di circa 2000€ - si arriva al 13% dei contribuenti, circa 5,5 milioni di persone, poco meno del 25% del totale degli occupati. Con questi numeri, anche considerando la disomogeneità territoriale, si dovrebbe arrivare alla conclusione che il ceto medio in Italia non c’è più. Si tratta però di dati che vanno approfonditi, perché le cose sono un po’ più complicate. Parto dalla considerazione più ovvia. I dati sui redditi dichiarati non si spiegano se non in rapporto all’ampia fascia di evasione ed elusione fiscale. Non è certo una novità. Sappiamo che, nonostante qualche passo in avanti, l’Italia rimane uno dei paesi con una quota di evasione tra le più alte in Europa. L’elevata pressione fiscale (per i pochi che pagano) è la giustificazione usata dai tanti che sfuggono all’erario. L’obiezione è fondata, ma alla fine è un circolo vizioso. Rimane il fatto che sono troppi in Italia quelli che traggono benefici dalla comunità in cui vivono senza dare in contraccambio alcun contributo al bene comune. Così nel tempo, nonostante tutto, la ricchezza privata è cresciuta, compensando il crescente squilibrio dei conti pubblici. E tuttavia, in un clima di incertezza e sfiducia, e con una sotto dotazione di beni collettivi, questa ricchezza tende a stagnare, faticando a tradursi in investimento. I ritardi in tema di tecnologia, formazione, dimensione di impresa confermano questa affermazione. Sta di fatto che, in un paese in cui ci sono 5 milioni di microimprese, oltre alla repressione (che è necessaria), l’evasione fiscale si combatte ricostruendo il rapporto con il contribuente, ivi compresa la relazione tra reddito personale e di impresa. Tuttavia, questa prima considerazione non spiega tutto. In Italia i lavoratori dipendenti sono circa 18 milioni, e il dato Irpef ci dice che i salari rimangono terribilmente bassi. Anche qui il confronto internazionale lo conferma: secondo l’Ocse, negli ultimi 30 anni l’Italia è l’unico paese Europeo in cui i salari medi non sono aumentati. Mentre sono cresciuti di circa il 30% in Francia e Germania e del 5% in Spagna. Nello stesso periodo, la quota dei redditi da lavoro sul pil - in tendenziale discesa ovunque - è diminuita in modo più marcato nel nostro paese. In Italia lavoriamo in pochi (la quota di occupati è tra le più basse in Europa) e con salari bassi. Secondo il rapporto del Ministero del lavoro pubblicato in questi giorni, 1 dipendente su 4 non arriva a guadagnare 1000 euro al mese. Le conseguenze sono pesanti sull’intera società e in modo particolare sui giovani i quali, non a caso, appena possono scappano all’estero dove trovano posizioni lavorative più interessanti dal punto di vista professionale e più redditizie dal punto di vista economico. Col risultato che stiamo perdendo un’intera generazione. Per un paese che mette il lavoro nel primo articolo della costituzione, non è un bel messaggio. Le distorsioni del mercato non sono però corrette dalla mano pubblica. Lo Stato italiano, indebitato e inefficiente, è famelico ma spende male le risorse. A fronte di un consistente incremento della spesa sociale (passata da 73 a 114 miliardi tra lo 2008 e il 2019), le disuguaglianze sono aumentate, così come il numero di poveri assoluti e di giovani che non lavorano e non studiano (neet). Più che di quantità, c’è un grave problema di qualità della spesa pubblica. Il paese cosi non può andare lontano. E le tante eccellenze, che pure abbiamo, restano isole felici che non hanno la forza per cambiare davvero le cose. Occorre intervenire, e in fretta, per correggere queste distorsioni, sfruttando la buona spinta che il 2021 ci ha dato in combinazione con il Pnrr, che è davvero un’occasione irripetibile. Al fondo si tratta di concordare la linea da seguire attorno a un punto centrale: al di là di pubblico e privato, di lavoro dipendente e indipendente, di grande o piccolo, occorre diventare capaci di premiare tutti coloro che contribuiscono alla creazione di valore. E cioè chi investe, chi lavora, chi aumenta la conoscenza, chi protegge l’ambiente, chi combatte la precarietà e lo sfruttamento. Studenti in piazza per Lorenzo e contro la scuola del capitale disumano di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 29 gennaio 2022 La mobilitazione contro l’alternanza scuola-lavoro e il suo mondo. Presidi e cortei degli studenti in 20 città dopo la morte in fabbrica di Lorenzo Parelli, 18 anni. Una decina di studenti feriti a Torino. Cariche a Napoli e Milano: “La repressione non ci ferma”. Una decina di studenti sono stati feriti ieri dalle cariche della polizia a Torino mentre il corteo in solidarietà con Lorenzo Parelli, morto durante uno stage alla Burimec di Lauzacco vicino a Udine, cercava di muoversi. A causa delle restrizioni imposte al diritto di manifestare nelle cosiddette “zone arancioni” tutte le uscite da piazza Arbarello sono state bloccate impedendo in questo modo al presidio di muoversi. La Cub di Torino ha dato “piena solidarietà agli studenti” e ha rilanciato l’impegno “per l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro, una norma che rende le scuole subalterne al sistema delle imprese ed è volta solo a un addestramento delle giovani generazioni a condizioni di sfruttamento e precarietà”. Ci sono state violente cariche sui cortei studenteschi anche a Napoli e Milano. “Noi andiamo avanti con la protesta. Non sarà la repressione a fermarci” hanno risposto gli studenti. Da Catania a Milano, da Trento a Venezia a Udine e Bologna o Parma. E poi Firenze e Napoli, Cagliari e Cosenza, Bari e Taranto, Terni e Roma. La rabbia e l’indignazione per la morte atroce di Lorenzo, giunto all’ultimo giorno di uno stage condotto un Centro di formazione professionale ieri ha attraversato l’intero paese e ha spinto, dopo quattro anni, di nuovo alla partecipazione politica una nuova generazione studentesca di coetanei, la stessa che da due anni è stritolata dalla scuola in pandemia. “Non saranno di certo la repressione, fatta con le manganellate in piazza e con le sospensioni nelle scuole, che sono le uniche risposte che abbiamo dalle istituzioni, a fermare la nostra lotta contro l’Alternanza e contro questa scuola che uccide - hanno detto gli studenti romani della “Lupa in lotta”, un movimento nato nel corso dell’autunno a seguito dell’occupazione di una cinquantina di istituti nella Capitale - Legittimare l’Alternanza Scuola-Lavoro (oggi P.C.T.O., ndr.), chiedendo miglioramenti e raccontando la favola della “Buona” Alternanza. L’Alternanza buona non esiste, la vostra scuola non va migliorata, va rivoluzionata, e la morte di Lorenzo qualche giorno fa lo ha mostrato chiaramente a tutti. Le scuole non sono aziende, i presidi non sono manager, il sapere non è profitto”. La tragedia, e la protesta puntuale e determinata di uno dei provvedimenti chiave, tra i più brutali della scuola neoliberale voluta sia dal centro-destra che dal centro-sinistra negli ultimi vent’anni, è stata rimossa o comunque occultata dal penoso spettacolo offerto sul Quirinale in questi giorni da una politica agonizzante. Ieri colpiva la differenza tra i riti mortiferi del Palazzo e la presenza nelle piazze degli studenti che affermano il diritto all’esistenza. I primi corteggiati, gli altri in altri casi manganellati com’è accaduto anche al Pantheon a Roma il 23 gennaio scorso. “Sangue del nostro sangue”. Era uno dei cartelli improvvisati sventolati da giovanissime ieri a Roma in piazza dell’Esquilino. Non è rabbia, sulla quale non si costruisce una politica, ma l’intelligente sensibilità di una razionalità collettiva che si va formando. La critica durissima è al modello di scuola e di società, teorizzata dagli ideologi del “capitale umano” che altro non è che il rovesciamento della forza lavoro nel suo contrario. “La vita di Lorenzo è stata spezzata dalla fame di profitto di aziende senza cultura della sicurezza, dalla scuola e dallo Stato che hanno imposto che le studentesse e gli studenti debbano sperimentare sfruttamento e lavoro gratuito e rischiare la propria vita durante i percorsi formativi - sostiene l’Unione degli Studenti - Tutto questo, legittimando un mercato del lavoro in cui le aziende competono al ribasso su sicurezza, salari, lavoro precario e interinale. Viene insegnato che è normale lavorare gratis, senza diritti, sicurezza e la possibilità di organizzarsi nel sindacato”. Alla mobilitazione nazionale hanno partecipato, tra gli altri, Rifondazione Comunista, il Fronte della Gioventù Comunista, mentre i Cobas che hanno indetto per oggi uno sciopero straordinario e i lavoratori della Gkn, del SI Cobas, Usb e de “il sindacato è un’altra cosa” hanno dato la loro solidarietà. Vent’anni dopo, Guantánamo è ovunque di Baher Azmy MicroMega, 29 gennaio 2022 Il fatto che la prigione continui a essere in piedi dopo vent’anni dalla sua istituzione e l’avvicendarsi di quattro presidenti alla Casa Bianca è sintomo della crisi democratica che abbiamo di fronte oggi. È da poco passato l’anniversario dell’assalto - guidato da Donald Trump - al Campidoglio degli Stati Uniti e a un principio fondamentale dello Stato di diritto: il regolare trasferimento del potere esecutivo sulla base della volontà popolare. Ma se questo evento minaccioso è chiaramente a fuoco, vale la pena riflettere su un’istituzione e un’ideologia che preannunciavano e acceleravano il nostro attuale momento autoritario: vent’anni fa, l’amministrazione del presidente George W. Bush inaugurava una prigione militare offshore a Guantánamo Bay, Cuba, allo scopo di incarcerare e torturare, senza alcun vincolo legale, uomini e ragazzi musulmani. Due decenni dopo, gli artefici di quel regime e gli autori di quelle torture non sono stati perseguiti e 39 uomini sono ancora detenuti sull’isola, senza che all’orizzonte si scorga la fine di questa storia. Componente centrale della sconsiderata prosecuzione da parte dell’amministrazione Bush della “guerra globale al terrore”, Guantánamo cristallizza la trasformazione degli Usa in uno Stato di massima sicurezza. L’insidiosa eredità della prigione non dovrebbe svanire dalla consapevolezza pubblica. L’essenza autoritaria di Guantánamo - il suo flagrante disprezzo per i diritti umani fondamentali, insieme alla distruzione e alla disumanizzazione che ha operato sulle sue vittime - è stata variamente interpretata come più o meno eccezionale, più o meno al di là delle norme e degli ideali americani. All’epoca ero un giovane avvocato e sono stato spronato dall’idea dell’eccezionalità della violazione dei princìpi fondamentali da parte di Guantánamo, ma dopo quasi 18 anni di contenziosi per conto dei detenuti, ho imparato a conoscere meglio quella prigione. Guantánamo non è ciò che ci piace pensare che sia. Non solo espande una vergognosa storia di americana brutalizzazione dell’Altro, ma la sua creazione e la sua difesa prefiguravano l’abbraccio muscolare dell’anticostituzionalismo e dell’illegalità che sperimentiamo oggi. Anni di contenziosi e segnalazioni non lasciano dubbi sulla funzione di Guantánamo. I piani per la prigione furono formulati nei mesi successivi all’autorizzazione all’uso della forza militare da parte del Congresso, nel 2001, che diventò legge una settimana dopo gli attacchi dell’11 settembre ed è in vigore ancora oggi. Nel dicembre dello stesso anno, gli avvocati del Dipartimento di Giustizia John Yoo e Patrick Philbin inviarono un promemoria al consigliere generale del Dipartimento della Difesa William J. Haynes II identificando Guantánamo come un promettente luogo di detenzione perché con tutta probabilità avrebbe potuto eludere la giurisdizione sull’habeas corpus dei tribunali civili statunitensi. L’assalto dello Stato Islamico alla Guantánamo siriana è solo la punta dell’iceberg di Lorenzo Trombetta Limes, 29 gennaio 2022 L’assedio attorno alla prigione di Gweiran e i combattimenti successivi dimostrano tutti i limiti della cosiddetta lotta al terrorismo. Con una sorprendente e coordinata azione militare, la prima da quando lo ‘Stato Islamico’ (Is) in Siria era stato dichiarato sconfitto militarmente nel 2019, un manipolo di miliziani dell’Is ha messo a ferro e fuoco ad Hasake, nel nord-est del paese, la più affollata prigione di detenuti sospettati di appartenere alla stessa organizzazione jihadista. I combattimenti, scoppiati il 20 gennaio, si sono formalmente conclusi il 26 gennaio. Ma proseguono in maniera sporadica dentro e attorno al carcere alla ricerca di “sacche” di resistenza. Al centinaio di miliziani (tra cui dei detenuti dello stesso carcere) si sono contrapposte forze curde e arabe cooptate dall’ala locale del Partito dei lavoratori curdi (PKK), che è sostenuto dalla coalizione globale anti-Is guidata dagli Stati Uniti. Nei pressi del perimetro sotto assedio del attor, anche noto come Sinaa, dal nome del quartiere in cui sorge, sono stati presenti per giorni membri delle forze speciali statunitensi e britanniche a sostegno delle forze curdo-arabe anti-Is. L’aviazione della coalizione ha condotto diversi raid aerei e sorvoli con elicotteri da guerra Apache sull’edificio della prigione. Il carcere conteneva circa cinquemila prigionieri, tra cui più di 800 minori secondo l’Unicef. In generale, i detenuti di Gweiran sono sospettati di appartenere allo Stato Islamico o sono miliziani catturati nelle battaglie di Baghuz della primavera del 2019, ultima roccaforte territoriale dell’organizzazione jihadista. Le centinaia di minori - alcuni di appena 12 anni, secondo Save the Children - sono giovanissimi ex miliziani o semplicemente figli di miliziani uccisi, feriti o fatti prigionieri in battaglia. Gli adulti e i minori detenuti a Gweiran si trovano da quasi tre anni in affollatissime camerate senza letti e in condizioni igenico-sanitarie assai precarie. Provengono da più di 50 paesi diversi, giacché a siriani e iracheni si vanno ad aggiungere prigionieri asiatici, caucasici, africani, nordamericani ed europei. La mattina del 27 gennaio, l’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria ha contato 211 deceduti, 50 dei quali appartenenti alle forze curde e arabe, 7 civili e 154 miliziani dell’Is. Si tratta di bilanci non verificabili in maniera indipendente sul terreno. Un numero imprecisato di detenuti è evaso. Alcuni sostengono che sono scappati a centinaia e altrettanti sono stati catturati. Secondo altre fonti, gli arresti sono stati pochi, mentre la maggior parte dei numerosi evasi è già giunta nelle zone dove lo Stato Islamico si sta riorganizzando, lungo la valle dell’Eufrate. Le forze del PKK affermano che più di mille tra assalitori e detenuti sono stati fermati, senza fornire il numero degli evasi in fuga. Proseguono intanto i rastrellamenti anche nella vicina regione di Dayr az-Zor, dove il 27 gennaio sono stati arrestati 15 individui sospettati di appartenere all’Is. Circolano immagini e filmati in cui si mostrano decine di presunti jihadisti e fuggitivi catturati, allineati e seduti. I loro visi sono rivolti verso un muro, il petto e la schiena scoperti. Le manette ne stringono i polsi. Sono in silenzio. Un miliziano delle forze anti-Is gli urla contro in lingua araba. Un altro, con insistenza, fa sentire loro il suono del fucile automatico, puntato verso l’alto. Gli organi media della coalizione guidata dal PKK hanno comunicato che i combattenti anti-Is ripresi in questi filmati sono stati espulsi dai ranghi militari e saranno giudicati per il loro comportamento riprovevole. Eppure, al di là dei filmati che circolano e dei racconti mediatici di parte che li accompagnano, su tutto rimane indelebile il segno della profonda violenza che continua a essere inflitta a comunità di individui da lungo tempo sofferenti. Era evidente, ancor prima dell’assalto alla prigione di Gweiran (preparata da tempo e di cui vi erano state avvisaglie ai primi di gennaio), che la questione dello Stato Islamico non può essere affrontata soltanto con la forza, la violenza e la coercizione. L’Is è stato dichiarato sconfitto in Iraq nel dicembre 2017 e in Siria nella primavera 2019. Ma da allora ogni giorno appaiono notizie di violenze che vedono coinvolte “cellule dell’Is”, bombardamenti aerei russi o statunitensi contro “postazioni Is”, uccisioni rivendicate o attribuite a “terroristi dell’Is”. La sconfitta dello Stato Islamico è stata tale nel senso che è crollata gradualmente la struttura pseudo-statale che si era palesata a partire dal 2014 in vaste regioni dell’Iraq e della Siria. Ciò è avvenuto in corrispondenza dell’avanzare delle truppe governative e delle milizie jihadiste sciite filo-iraniane in Iraq e dei progressi compiuti dalla coalizione curdo-araba a guida del PKK in Siria. Il termine “sconfitta”, d’altronde, può trarre in inganno. La fine dell’esperienza territoriale-politico-amministrativa non significa certo la fine dell’insurrezione armata. La quale, prima di essere un fenomeno militare da combattere con una contro-insurrezione, va concepita come la manifestazione del profondo disagio di una parte consistente di individui. In questi anni, si è parlato a lungo dello Stato Islamico come di un fenomeno globale. Sono decine di migliaia i miliziani che in Siria, in Iraq e in ogni angolo del pianeta hanno aderito attivamente all’organizzazione, trovandosi a combattere nei territori siriani e iracheni. Nell’ottobre 2020, i vertici del PKK siriano annunciavano la volontà di rimettere in libertà gradualmente una parte dei circa diecimila detenuti (di 55 nazionalità diverse) sospettati di appartenere allo Stato Islamico. E di fare altrettanto per circa ventimila civili, mogli e figli di jihadisti, rinchiusi nei campi di prigionia nella stessa regione nord-orientale siriana controllata dalle forze curde. Numeri che danno l’idea dell’ampiezza della questione relativa allo Stato Islamico. Gli eventi degli ultimi tre anni e quelli dell’ultima settimana dimostrano chiaramente che l’Is non si può sconfiggere con le bombe e con le prigioni. Le soluzioni violente, repressive e irrispettose dei diritti sono pienamente parte del problema. L’esempio più evidente è la sorte dei minori rimasti in trappola nel carcere di Gweiran per tutto il tempo dei combattimenti. Secondo le forze guidate dal PKK siriano si tratta di ragazzi tenuti in un’ala del carcere adibita a “centro di riabilitazione”. A coloro che hanno questionato nei giorni scorsi l’efficacia di questa forma di riabilitazione, gli addetti stampa delle forze curdo-siriane hanno risposto di aver chiesto da tempo ai loro partner internazionali e donatori stranieri - solidali con la causa anti-Is - di stanziare più risorse per allestire spazi alternativi per quelli che, da più parti, sono considerati terroristi in erba. Da almeno due anni le forze curdo-siriane chiedono a gran voce che la questione dello Stato Islamico venga affrontata anche e soprattutto fuori dalla regione nord-orientale della Siria sotto il controllo del PKK. Si richiede a gran voce il rimpatrio dei jihadisti stranieri e delle loro famiglie. Anche il vicino Iraq, coinvolto almeno quanto la Siria nel fenomeno, tentenna nel rispondere alle richieste delle forze curdo-siriane. Gli Stati Uniti e la Russia, che in modi diversi si dicono in prima linea nella lotta contro l’Is, non sono stati mossi dai “terroristi” rinchiusi nelle carceri del nord-est siriano, siano essi uomini adulti, minori, donne, anziani. Lo stesso vale per la Francia, la Gran Bretagna e molti altri paesi. Questi hanno finora allentato assai poco la pressione su un territorio estremamente saturo e sofferente, con infrastrutture inadeguate, segnato da una tensione sociale e una polarizzazione confessionale crescenti alla luce della peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni, aggravata dalle ripercussioni della pandemia. La prigione di Gweiran tornerà a breve sotto il pieno controllo delle forze curde e arabe locali, sostenute dagli Stati Uniti. Ma il segno di questo episodio deve rimanere bene impresso nella mente di analisti, cronisti, osservatori, lettori e curiosi. Non soltanto da un punto di vista tattico e militare, in relazione al pericolo che gli evasi possano diventare nuove risorse per le cellule dell’Is già operative lungo la valle dell’Eufrate. Questo evento dovrà essere ricordato perché dimostra che il fenomeno del terrorismo va considerato nella sua complessità. L’espressione armata dell’insurrezione IS è solo la punta dell’iceberg di un malessere che viene da lontano e che è destinato persistere. Un disagio causato da decenni di privazione di diritti fondamentali, civili e politici, di intere comunità - curde e arabe, sunnite e sciite, cristiane e yazide, assire e turcomanne. Oggi queste società sono al centro di una guerra tra poveri ed esclusi, per accaparrarsi quel che rimane delle risorse di un territorio dall’altissimo valore geostrategico. Hasake come capoluogo amministrativo dello Stato-nazione siriana conta relativamente poco. La sua rilevanza è pari a quella di Qamishli, l’altra maggiore città dell’area al confine con la Turchia. Questi due centri urbano-rurali costituiscono però i poli politici e militari dei poteri che oggi intendono controllare quell’angolo di Medio Oriente. Una regione ricca di risorse petrolifere e idriche, all’incrocio delle frontiere di Siria, Turchia e Iraq. Punto di passaggio millenario della via della seta, tra Caucaso, Anatolia e valle del Tigri. Tra Sinjar e Piana di Ninive. Tra Jazira e Badiya. Nell’area attorno a Hasake sono dispiegati oggi gli eserciti russi e statunitensi, le forze governative siriane e quelle guidate dal PKK. Poco lontano si trova le milizie arabo-siriane cooptate dalla Turchia. Gli Hezbollah sciiti libanesi hanno un contingente all’aeroporto di Qamishli, come avamposto iraniano. Le forze curdo-irachene del governo filo-turco di Erbil sono poco distanti e non vanno d’accordo con le milizie irachene e filo-iraniane della Mobilitazione popolare, che hanno inglobato le milizie yezide anti-IS di Sinjar. L’assalto al carcere di Gweiran ha riportato drammaticamente d’attualità il tema dei diritti e della spartizione della zona. Anche gli insorti jihadisti, siano essi dentro o fuori dal carcere, chiedono di essere considerati nella partita. E questo non offrirà certo migliori prospettive agli abitanti del nord-est siriano e di tutto il Medio Oriente. Se la questione continuerà a essere vista con le lenti della “lotta al terrorismo”, ci aspettano altri lunghi anni di sofferenze. Tikhanovskaja: “La repressione è la nuova normalità in Bielorussia di Massimiliano Coccia La Repubblica, 29 gennaio 2022 “Dopo i migranti, da Lukashenko l’Europa si aspetti un’offensiva della droga”. La leader dell’opposizione: “Abbiamo informazioni che indicano come il traffico di stupefacenti verrà utilizzato per il prossimo attacco alla Ue”. Signora Svetlana Tikhanovskaja, le notizie dalla Bielorussia non sono incoraggianti. Come procede la repressione di Lukashenko e quali sono le strategie dell’opposizione di cui lei è una delle voci più conosciute nel mondo? “Non si vedono le foto impressionanti delle proteste di strada a causa della repressione massiccia che è divenuta la nuova normalità, ma credetemi: la gente non si è arresa. Dopo che Lukashenko ha perso le elezioni nel 2020, non è riuscito a ripristinare la fiducia o a ‘voltare pagina’. L’economia sta andando peggio e il regime non può comprare la fedeltà con il doppio degli stipendi come faceva prima. Ci sono anche segni che le élite non sono così unite come prima. Negli ultimi due mesi, almeno 200 persone sono state incarcerate per commenti critici sui social. Il KGB ogni giorno rapisce persone e poi manda in onda video con confessioni estorte e anche i funzionari statali sono epurati per paura dei tradimenti”. Come si sta organizzando quindi la protesta? “Abbiamo aperto un canale telefonico protetto dove le persone ricevono indicazioni su come diffondere volantini e informazioni per aggirare la censura. Abbiamo creato un movimento sindacale clandestino e 16.000 lavoratori nei giorni scorsi hanno aderito ad uno sciopero; oltre 200.000 si sono iscritti al nostro programma di mobilitazione ‘Vittoria’. Abbiamo un apparato di cyberpartigiani che hackerano le istituzioni del regime. Pochi giorni fa sono state violate e paralizzate le ferrovie bielorusse. Ora vogliamo dimostrare alla classe dirigente che è possibile un’alterativa democratica con una nuova Carta Costituzionale”. A novembre, abbiamo visto aumentare la pressione di Lukashenko contro l’Europa utilizzando i migranti. Crede che ci saranno altre iniziative per destabilizzare l’Europa? “Quella di novembre non è stata una crisi migratoria, ma un attacco ibrido pianificato, una vendetta nei confronti di Polonia, Lituania e Unione Europea per aver sostenuto il movimento democratico bielorusso. Lukashenko voleva dividere le democrazie occidentali sapendo che la gestione dei flussi migratori è un argomento divisivo. I suoi sforzi sono stati vani perché nessuno lo ha legittimato. In questo momento la crisi è contenuta, ma non significa che non si ripeterà più. Abbiamo informazioni che il traffico di droga potrà essere utilizzato dal regime nel prossimo attacco all’UE. Non è escluso che il regime sfrutti anche la tensione ucraino-russa a proprio vantaggio, quindi dovremmo essere molto cauti e decisi”. Attualmente la Russia è il grande fattore di insicurezza per l’Europa sia dal punto di vista energetico che militare. Secondo lei, quale risposta politica dovrebbero dare le cancellerie europee contro il leader del Cremlino? “Lasciatemi parlare qui per la Bielorussia. Lukashenko è interessato alla crisi regionale in corso perché distoglie l’attenzione dalla crisi politica interna in Bielorussia. Potete vedere che dopo l’inizio della crisi dei migranti, l’UE ha parlato molto meno di prigionieri politici, torture nelle celle ed elezioni rubate. Capisco perché ora tutta l’attenzione è rivolta al Cremlino. Ma non dimentichiamo che Lukashenko è una minaccia diretta alla sicurezza europea. Ha minacciato di fermare il transito del gas, restituire armi nucleari al paese e dispiegare truppe contro l’Ucraina... E non ha subito gravi conseguenze. Rafforza solo il suo sentimento di impunità. Pensa che l’Europa sia debole, quindi l’UE deve essere ferma e coerente. Sanzioni, isolamento politico del regime. Gli ambasciatori non dovrebbero presentare credenziali e non accettare gli ambasciatori del regime”. Negli ultimi giorni gli eserciti russo e bielorusso hanno svolto esercitazioni militari congiunte. È possibile immaginare il supporto militare di Lukashenko in un ipotetico attacco all’Ucraina? “Innanzitutto, il regime di Lukashenko non ha il diritto di condurre esercitazioni perché ha perso le elezioni e la legittimità. Conducendo queste esercitazioni, Lukashenko vuole dimostrare lealtà al Cremlino. Il suo comportamento è irresponsabile. In mezzo alla tensione ucraino-russa, queste esercitazioni sono viste prima di tutto come una provocazione contro l’Ucraina. Bielorussi e ucraini sono nazioni molto vicine e hanno sempre avuto relazioni amichevoli. Sono sicuro che qualsiasi tentativo di creare inimicizie fallirà. Molte persone nell’esercito e nell’apparato statale della Bielorussia non obbediranno all’ordine di attaccare l’Ucraina”. Quali notizie arrivano dai dissidenti in carcere, compreso suo marito? “Le condizioni in carcere sono molto dure. Il mese scorso mio marito Siarhei è stato condannato a 18 anni di reclusione e da allora cerco di convincermi che è solamente un numero senza senso e non una pena reale, il contrario mi farebbe impazzire. Non può comunicare con il mondo esterno e posso interagire con lui solo tramite un avvocato. Ma i detenuti non perdono la speranza, credono in noi e nell’Unione Europea”. Le è stato conferito il Premio Sacharov per i diritti umani dal Parlamento europeo, che nei giorni scorsi ha eletto i nuovi vertici della sua assemblea e ha pianto la morte di David Sassoli. Cosa si aspetta dalle istituzioni europee? “David Sassoli era un mio grande amico, ci eravamo visti due mesi fa. Mi aveva invitato a parlare davanti alla plenaria del Parlamento europeo. Un grande dispiacere. Guardo con favore alla nuova presidente Roberta Metsola e dopo aver incontrato tutti i vertici europei sono felice di apprendere che il tema della Bielorussia unisce tutti. Le sanzioni comminate ai funzionari di regime sono una buona notizia ed ora è tempo l’Europa mostri i denti contro il regime. Spero che l’Italia possa avviare dei programmi di protezione internazionale per gli esuli e i dissidenti”. La Francia presiede il semestre di presidenza dell’Unione europea. Il presidente Macron ha proposto una difesa europea comune e una diplomazia unica per governare la scena geopolitica. Cosa ne pensa? “Sono felice che il presidente Macron sia stato il primo leader mondiale che ho incontrato un anno e mezzo fa. È stato da lui che ho sentito che il mondo sostiene i bielorussi e ha dato ai bielorussi forza ed energia. Spero che lui, come altri leader, come il primo ministro Draghi, assumano un ruolo di guida nella risoluzione della crisi in Bielorussia. È fondamentale per il futuro dell’Europa. Credo veramente nel potere delle istituzioni internazionali e della nostra comunità democratica. Forse ci credo più di molti altri politici”. Le speranze dell’Honduras, capitale delle carovane migranti di Andrea Cegna Il Manifesto, 29 gennaio 2022 Il paese centroamericano da cui si parte di più. Povertà e violenza diffusa le prime cause dell’emigrazione del 10% della popolazione. Ma il 2022 inizia con i la linea dura di Messico e Guatemala. E i femminicidi sono l’altra emergenza nazionale. Le prime carovane migranti del 2022 sono state stroncate sul nascere dalle autorità di Guatemala e Messico. La prima, che si era mossa dall’Honduras, il 15 gennaio è stata fermata il giorno seguente cercando di entrare in Guatemala. 700 persone, provenienti dallo stesso paese ma anche da Salvador e Nicaragua, si sono presentate alla frontiera e hanno trovato la muscolare risposta delle forze di polizia inviate dal presidente Giammattei. Il 21 gennaio l’ufficio stampa dell’Istituto Nazionale di Migrazione del Messico diramava l’informazione del blocco di 300 migranti partiti verso nord da Tapachula, città del Chiapas e di confine, diventata negli anni una sorta di purgatorio per chi aspetta di ricevere un permesso di soggiorno negli Usa. Tapachula in Messico e San Pedro Sula in Honduras sono le due “capitali” delle carovane migranti degli ultimi anni. Ma se nel paese governato da Andres Manuel Lopez Obrador “la politica migratoria continua a essere deplorevole e a non dare risposte alla popolazione migrante che necessita di esercitare il diritto alla mobilità, come tutti noi, o come dovrebbe essere in termini umanitari e di diritti umani” - ricorda Pedro Faro coordinatore del Centro dei Diritti Umani Fray Bartolomè de Las Casas, c’è chi si chiede se in Honduras con il cambio di governo la storia delle migrazioni possa cambiare. Una ricerca dell’Università Nazionale Autonoma ha riportato che l’esplosione del fenomeno migratorio si è registrata alla fine del secolo scorso e più precisamente nel 1998 come risposta al disastro generato dall’uragano Mitch. Nel 1990 infatti solo 156mila honduregni, il 3% degli abitanti, vivevano fuori dal paese mentre già nel 2000 erano diventati circa 340mila. Il flusso migratorio non si è mai interrotto e nel 2020 si è arrivati a superare il milione di honduregni/e migranti, ovvero circa il 10% dell’attuale popolazione. Tra l’ottobre 2018 e la fine del 2021 sono state almeno 12 le carovane migranti partite da San Pedro Sula, ed è il dato che maggiormente fa percepire l’Honduras come il paese centroamericano la cui popolazione migra di più. Per Eugenio Sosa, Sociologo delle migrazioni, intervistato da Danay Galletti Hernández di Prensa Latina, sono tre le cause che hanno determinato tale andamento: la prima è certamente la crisi sociale che ha come conseguente dirette povertà, precarietà, mancanza di reddito e disoccupazione, la seconda è la violenza strutturale che si materializza in omicidi, criminalità diffusa, persecuzione politica dei difensori dei diritti umani e delle comunità indigene, sfollamento forzato per garantire progetti legati al capitalismo estrattivo, e la crescita della criminalità organizzata. La terza è l’emergenza democratica vissuta dal paese con il golpe e l’inefficienza istituzionale dovuta alla corruzione e all’impunità, che genera disperazione e la sensazione che “le cose non possono essere cambiate nel Paese”. Nonostante gli ultimi governi progressisti del continente non abbiano segnato positivi cambiamenti in materia c’è chi spera che qualcosa in Honduras succeda, anche perché in campagna elettorale Castro ha promesso la creazione di condizioni favorevoli al ritorno di chi negli ultimi anni è stato costretto a migrare causa violenza, crisi democratica e polarizzazione della ricchezza. Ma se la presidente vuole davvero che chi vive in Honduras non sia costretto a migrare dovrà intervenire con coraggio per modificare la condizione di oppressione femminile. In Honduras viene uccisa una donna ogni 27 ore e 33 minuti. Le donne rappresentano più della metà della popolazione e restano il soggetto che più subisce i disastri e le discriminazioni generati da anni di neoliberismo selvaggio. Solo politiche mirate potranno garantire reali occasioni di vita nel paese così da non far vedere nella migrazione la difficile via per la salvezza.