Sos sovraffollamento delle carceri. In Italia lavora solo un detenuto su tre di Giacomo Galeazzi interris.it, 28 gennaio 2022 Inizio 2022 choc: un suicidio ogni tre giorni. Petralia (Dap): “Il lavoro, per i detenuti, è l’unico modo per attivare e stimolare nelle loro menti una vibrazione di libertà”. Gherardo Colombo e il presidente emerito della Corte Costituzionale al convegno “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” all’Università Lumsa. Allarme carceri, testimonianze e proposte oltre le sbarre. Secondo Giovanni Maria Flick il sovraffollamento è un problema che non si vuole risolvere”. E i detenuti “sono spostati come le mucche di Mussolini”. Il magistrato antimafia Bernardo Petralia dirige il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “A volte non dormo per quello che vedo. Acqua calda e water sono un lusso nelle carceri”, racconta Petralia. Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle ammende, esorta a “uscire dalla legge del contrappasso”. E considera i giovani “più aperti al dialogo”. Giustizia riparativa. Sovraffollamento. E riforme in tempo di pandemia. Questi i temi affrontati nel convegno in Università Lumsa per la presentazione del libro “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi”. Per due volte l’Italia è stata condannata per il sovraffollamento delle carceri. “Nonostante questo tutto è rimasto come prima. Ciò ricorda quello che accadeva quando Mussolini andava in visita nel sud Italia. Come allora venivano spostate le mucche da una campagna all’altra. Così oggi si spostano i detenuti per non mostrare l’evidente problema di sovraffollamento”, sottolinea il professor Giovanni Maria Flick. Aggiunge il presidente emerito della Corte Costituzionale: “L’altra soluzione frequentemente proposta è la costruzione di nuove carceri. A prescindere dal tempo che questo richiederà. E a prescindere dal fatto che ridurre il carcere a mura e a spazi è un modo di concepire la pena che prima o poi finirà per affidarne la gestione ai geometri del catasto. E non ai giudici di sorveglianza”. Istanze - Puntualizza il professor Flick: “Si è affermata la tendenza a ricorrere sempre più al diritto penale e al carcere. Accogliendo certe istanze molto demagogiche e molto populiste che fanno leva sulle reazioni e sull’aggressività delle persone. Per arrivare a teorizzare un carcere del quale non si conosce assolutamente il contenuto e la realtà”. Temi approfonditi nel libro “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” da Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni. Docenti e ricercatori di management delle università Lumsa e Bocconi. Un percorso di ricerca di quattro anni sulle carceri in Italia. Condotto attraverso interviste nei penitenziari milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Con l’obiettivo di indagare i fattori organizzativi che influenzano la capacità degli istituti di pena di perseguire il fine costituzionale. Cambiamento di prospettiva - Tra gli interventi, anche quello di Gherardo Colombo, presidente Cassa delle ammende, Secondo il quale “i ragazzi sono tra i più aperti al dialogo”. Disposti a “rivedere le proprie posizioni sui temi di pene detentive e giustizia riparativa”. Afferma Colombo: “È necessario cambiare la prospettiva. E uscire dalla logica di legge del contrappasso. Sono quindici anni che porto il tema all’attenzione dell’opinione pubblica. E in questo periodo l’atteggiamento delle persone è profondamente cambiato. Inizialmente non si poteva neppure affrontare”. Le nuove generazioni sono “più disponibili a entrare nel dialogo”. Pur partendo generalmente da una certezza assoluta. Ossia che “è giusto punire chi ha commesso un reato”. Per questo, evidenzia Colombo, è “necessario affrontare continuamente il tema con la società civile. A partire proprio dalle scuole”. Lavora solo un detenuto su tre - Bernardo Petralia, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, evidenzia il ruolo del lavoro nel processo di recupero dei detenuti. “In Italia lavora solo il 34% dei detenuti - precisa. Ma il lavoro non dipende solo dall’amministrazione penitenziaria. Che può offrirlo nei limiti e tra le mura del carcere. Bisogna estendere l’offerta che viene dall’esterno. Il lavoro, per i detenuti, è l’unico modo per attivare e stimolare nelle loro menti una vibrazione di libertà”. Parlando delle condizioni di vita nelle carceri, Petralia non nasconde il proprio coinvolgimento personale. Spiega: “Sono addolorato e intristito. Non posso dire di essere soddisfatto. Di aver raggiunto degli obiettivi. E nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana. L’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso. E delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo. Detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Effetto Covid - “Il Covid dentro le mura carcerarie è la proiezione nel microcosmo di quello che accade nella società civile. E quindi in tutto il resto del Paese. Nella società libera- osserva il responsabile del Dap-. Possiamo aggiungere che per certi aspetti siamo già rodati. I numeri sono più alti rispetto allo scorso anno a causa della nuova variante. Ma il numero dei sintomatici e dei ricoverati è molto minore. Questo grazie anche a una vaccinazione di massa ottenuta con una sinergia complessa ma riuscita con l’autorità sanitaria. Forse non in tutte le regioni ma in gran parte. Abbiamo somministrato oltre 100 mila dosi ai detenuti. E questo ci ha concesso di avere un tasso di gravità molto contenuto che si estende anche al personale”. Un suicidio ogni tre giorni - Inizio d’anno choc oltre le sbarre: un suicidio ogni tre giorni, numero dei detenuti in aumento. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, denuncia “la criticità della situazione in questo avvio dell’anno” e segnala la “necessità di ritrovare un dialogo produttivo attorno al tema dell’esecuzione penale detentiva che sappia rispondere alla particolare difficoltà oggi vissuta negli istituti da parte di chi vi è ristretto e da parte di chi in essi opera quotidianamente”. Situazione drammatica - “La situazione nelle carceri italiane peggiora - evidenzia l’Osservatorio Diritti. Da una parte aumentano i suicidi. Dall’altra riprende a crescere il numero dei detenuti, calato nel 2020 per effetto della pandemia. Palma riassume la drammatica situazione relativa ai suicidi in prigione: “Ventiquattro diviso otto fa tre. Al 24 di gennaio i suicidi in carcere nell’anno sono stati otto: uno ogni tre giorni. È un dato che non può essere né sottovalutato né, tantomeno, ignorato”. Per Palma, “anche se è evidente che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di fattori e di malesseri della persona e non può essere ricondotto solo al carcere, tuttavia, l’accelerazione che ha caratterizzato le prime tre settimane del 2022 non può non preoccupare e interrogare l’amministrazione che ha la responsabilità delle persone che sono a essa affidate”. Aggiunge il Garante dei detenuti: “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”. Il numero dei suicidi negli istituti di pena italiani ha avuto una lieve diminuzione l’anno scorso. Nel 2021, infatti, secondo Ristretti Orizzonti sono stati 54 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. Nel 2020, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ci sono stati invece 61 suicidi. La Consulta: è urgente una legge per superare le criticità delle Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 gennaio 2022 La Corte costituzionale dichiara inammissibili le questioni sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli a proposito della disciplina sulle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), ma nel contempo chiede al legislatore di procedere, senza indugio, a una complessiva riforma del sistema. Circa 700 persone sono in attesa di trovare collocazione in una Rems - Il problema principale esaminato è il discorso delle persone, molte delle quali trattenute in carcere, che sono in attesa di essere trasferite presso le Rems. La Consulta, ricordiamo, ha esperito una istruttoria che ha rilevato dati significativi. Un numero di persone almeno pari a quelle ospitate nelle 36 Rems allo stato attive - più in particolare un numero compreso tra le circa 670 (secondo i calcoli del ministero della Salute e della Conferenza delle Regioni e della Province autonome) e le 750 persone (secondo i calcoli del ministero della Giustizia) - è, oggi, in attesa di trovare una collocazione in una Rems, nella propria regione o altrove. La permanenza media in una lista d’attesa è pari a circa dieci mesi; ma in alcune Regioni i tempi per l’inserimento in una Rems possono essere assai più lunghi. Le persone che si trovano in lista d’attesa sono spesso accusate, o risultano ormai in via definitiva essere autrici, di reati assai gravi - tra gli altri, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, violenza sessuale, rapina, estorsione, lesioni personali e persino omicidi, tentati e consumati. Nella sentenza della Consulta si evidenziano due linee di pensiero - La sentenza della Consulta redatta dal giudice Francesco Viganò, rivela che ci sono due linee di pensiero circa la risoluzione del problema. In sostanza da una parte c’è il ministero della Giustizia che ascrive l’esistenza di lunghe liste d’attesa principalmente all’insufficienza complessiva dei posti letto disponibili e all’assenza di soluzioni alternative sul territorio in grado di salvaguardare assieme le esigenze di salute del singolo e di sicurezza pubblica. Mentre c’è il ministero della Salute, unitamente alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, che ascrive il problema a un eccesso di provvedimenti di assegnazione alle Rems da parte dell’autorità giudiziaria in conseguenza di una diffusa mancata adesione al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma. Le liste di attesa per le Rems creano un deficit di tutela dei diritti fondamentali - Resta il fatto che la lista d’attesa crea un deficit di tutela dei diritti fondamentali. Per la Consulta risulta chiaro che la soluzione non può essere quella dell’assegnazione in soprannumero delle persone in lista d’attesa alle Rems esistenti: un simile rimedio - secondo la Corte Costituzionale - finirebbe soltanto per creare una situazione di sovraffollamento di queste strutture, snaturandone la funzione e minandone in radice la funzionalità rispetto ai propri scopi terapeutico- riabilitativi. “Ed è altresì evidente - si legge sempre nella sentenza - che l’alternativa non può essere quella di collocare provvisoriamente in istituti penitenziari queste persone, le quali necessitano di terapie e di un percorso riabilitativo che il carcere non è in alcun modo idoneo a fornire”. La Corte, a tal proposito, sottolinea che, a fronte anche della comunicazione al governo italiano di vari procedimenti pendenti avanti alla Corte EDU (uno dei quali ora definito con la sentenza “Sy contro Italia”) promossi da persone affette da patologie psichiatriche detenute in strutture penitenziarie, la relazione dei ministri della Giustizia e della Salute e della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha dato atto dell’impegno congiunto di tutti gli attori istituzionali coinvolti a eliminare al più presto queste situazioni, suscettibili di dar luogo a loro volta a intollerabili violazioni dei diritti fondamentali delle persone interessate. La Corte costituzionale: affrontare senza indugio il problema delle liste d’attesa - Che fare dunque? La Consulta ammonisce che il problema delle liste d’attesa esige, piuttosto, di essere affrontato senza indugio - sulla base di adeguati finanziamenti da parte dello Stato e delle autonomie territoriali - attraverso le differenti strategie prospettate nella loro relazione dagli stessi ministeri della Giustizia e della Salute e dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome; strategie miranti a ridurre gradatamente, sino ad azzerare, l’attuale divario tra il numero di posti disponibili e il numero dei provvedimenti di assegnazione. “E ciò - sottolinea sempre la Corte - mediante l’articolata gamma di interventi già indicati dai diversi attori istituzionali”. Ovvero, dalla valorizzazione e potenziamento delle alternative terapeutiche per la salute mentale esistenti sul territorio, sì da contenere il più possibile la necessità di ricorrere ai provvedimenti custodiali nelle Rems, a iniziative dirette alla definizione di standard condivisi nella scelta della misura più appropriata in relazione alla situazione clinica e alla pericolosità sociale dei singoli interessati. “Sino - aggiunge la Consulta - eventualmente alla realizzazione di nuove Rems, laddove se ne evidenzi l’imprescindibilità per far fronte a una domanda che si rivelasse non ulteriormente riducibile”. Altra indicazione data dalla Consulta, è l’esigenza - ai sensi dell’articolo 110 della costituzione - di assicurare una esplicita base normativa allo stabile coinvolgimento del ministero della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura di sicurezza della libertà vigilata, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario, anche in vista dell’eventuale potenziamento quantitativo delle strutture esistenti o degli strumenti alternativi. I giudici costituzionali: va completata la riforma che ha superato gli ex Opg - Dalla sentenza della Corte costituzionale emerge il fatto che va completata la riforma che ha superato gli ex ospedali psichiatrici giudiziari. Non a caso indica anche di potenziare delle alternative terapeutiche per la salute mentale esistenti sul territorio, in maniera tale da contenere il più possibile il ricorso dei giudici alle Rems. Però Il Dubbio segnala un problema: si rischia che il Parlamento opti per la soluzione più “semplice”, ovvero quella di costruire più Rems. Così si finisce come il discorso delle carceri: risolvere il sovraffollamento puntando esclusivamente sull’edilizia. Ciò è fallimentare. Come è stato sempre ribadito su queste pagine de Il Dubbio, le Rems sono state concepite per essere l’ultima soluzione. Una soluzione c’è. Ricordiamo che da quasi un anno giace in Parlamento la proposta di legge a firma del deputato di + Europa Riccardo Magi. Parliamo di una riforma radicale dove l’idea centrale è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. Tutto ciò, accompagnato dal superamento del doppio binario, residuo del codice fascista Rocco. Consulta: al sistema Rems serve una riforma organica di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2022 La dichiarazione di non illegittimità della sentenza n. 22 nasce solo dall’esigenza di evitare un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, ma la Corte chiede che il legislatore proceda subito a una complessiva riforma. Per le criticità delle Rems serve una legge che risolva gli attuali problemi. Questo in sintesi il contenuto della sentenza n. 22 della Corte costituzionale depositata oggi. L’ufficio stampa della Consulta informa che i giudici delle leggi, preso atto che le vigenti norme in materia di residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche presentano numerosi profili di frizione con i principi costituzionali, chiedono al legislatore di intervenire al più presto. La Corte - prosegue la nota - pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli a proposito della disciplina sulle Rems - ha sottolineato quali sono i nodi che vanno risolti. Infatti dall’istruttoria disposta dalla stessa Corte è emerso, in particolare, che a oggi sono tra 670 e 750 le persone (molte delle quali ritenute socialmente pericolose dal giudice) in lista d’attesa per l’assegnazione a una residenza e che i tempi medi per entrare sono di circa dieci mesi, e molto più lunghi in alcune Regioni. Nella sentenza si ricorda inoltre che le Rems sono state concepite nel 2012 dal legislatore come strutture residenziali caratterizzate da una logica radicalmente diversa dai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): la loro funzione è quella di attuare un percorso di progressiva riabilitazione sociale, mantenendo o ricostruendo rapporti con il mondo esterno, e nelle quali il malato mentale può essere assegnato soltanto quando non sia possibile controllarne la pericolosità con strumenti alternativi, per esempio con l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale. L’assegnazione alle Rems resta però nell’ordinamento italiano una misura di sicurezza, disposta dal giudice penale non solo a scopo terapeutico ma anche per contenere la pericolosità sociale di una persona che ha commesso un reato. Ciò comporta - ha osservato la Corte - la necessità di rispettare i principi costituzionali sulle misure di sicurezza e sui trattamenti sanitari obbligatori, tra cui la riserva di legge: ossia l’esigenza che sia una legge dello Stato a disciplinare la misura, con riguardo non solo ai “casi” in cui può essere applicata ma anche ai “modi” con cui deve essere eseguita. Al contrario, oggi la regolamentazione delle Rems solo in minima parte è affidata alla legge; molto è rimesso ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da Regione a Regione. La Corte ha poi sottolineato che a causa dei suoi gravi problemi di funzionamento il sistema non tutela in modo efficace né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi gradualmente nella società. Infine, la totale estromissione del ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di Rems - e dunque in materia di esecuzione di misure di sicurezza disposte dal giudice penale - non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione, che assegna al Guardasigilli la responsabilità dell’organizzazione e del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Quindi la dichiarazione di non illegittimità della pronuncia nasce solo dall’esigenza di evitare un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, ma la Corte chiede che il legislatore proceda subito a una complessiva riforma che assicuri: un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati alle necessità di cura e a quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività; forme di idoneo coinvolgimento del ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale degli autori di reato, nonché nella programmazione del relativo fabbisogno finanziario. La Consulta: “Riformare subito le Rems” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 gennaio 2022 Monito al legislatore sulle Residenze per l’esecuzione nelle misure di sicurezza che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Devono sottostare a leggi dello Stato (non regionali) e va coinvolta anche la Giustizia. A pochi giorni dalla condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo per il caso di un detenuto con patologia psichiatrica che avrebbe dovuto essere trasferito in una Rems ma non trovandovi posto era stato trattenuto in carcere, arriva una nuova sentenza, questa volta della Corte costituzionale, che funge da “monito al legislatore affinché proceda, senza indugio, a una complessiva riforma di sistema” delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le strutture di cura che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari, luoghi esclusivamente di carattere custodiale. Con la sentenza n°22 depositata ieri, i giudici della Consulta hanno dichiarato inammissibile le questioni di legittimità sollevate dal Gip del Tribunale di Tivoli sulla disciplina che norma le 32 Rems italiane, ma solo perché se lo avessero fatto ne sarebbe derivata, puntualizza la Corte, “l’integrale caducazione del sistema delle Rems, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi Opg, con la conseguenza di un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti”. Il giudizio però è netto: l’applicazione concreta delle regole vigenti sulle Rems “presenta numerosi profili di frizione con i principi costituzionali, che il legislatore deve eliminare al più presto”. Eppure questa volta, a differenza di casi recenti come per l’ergastolo ostativo o per l’aiuto al suicidio, i giudici costituzionalisti non hanno dato un limite temporale al legislatore per agire. Il motivo sta nella complessità della materia, che coinvolge il carcere e i servizi di salute mentale, ma chiama anche in causa lo stesso titolo V della Costituzione. Per capire meglio, ricostruiamo la vicenda: in seguito ad un caso molto simile a quello che è costato all’Italia la condanna di Strasburgo, il giudice di Tivoli, Aldo Morgigni, aveva sollevato dubbi di costituzionalità della legge istitutiva delle Rems nella parte in cui conferisce la competenza esclusiva su di esse alle sole Regioni e alle Asl, estromettendo completamente il Ministero di Giustizia. Se la magistratura non ha voce in capitolo sulle Rems, sosteneva in soldoni il giudice, ogni decisione riguardante i detenuti malati psichici può solo sottostare alle regole delle Regioni. Con un’istruttoria che la Consulta aveva disposto il 24 giugno 2021 chiedendo al governo i dati esatti sugli internati, era emerso “che sono tra 670 e 750 le persone attualmente in lista d’attesa per l’assegnazione ad una Rems; che i tempi medi di attesa sono di circa dieci mesi, ma anche molto più lunghi in alcune Regioni; e che molte di queste persone - ritenute socialmente pericolose dal giudice - hanno commesso gravi reati, anche violenti”. Perciò emerge “l’esigenza che sia una legge dello Stato a disciplinare la misura” di assegnazione alle Rems, mentre oggi essa “è rimessa ad atti normativi secondari e ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che rendono fortemente disomogenee queste realtà da Regione a Regione”. Inoltre, l’attuale sistema non tutela “né i diritti fondamentali delle potenziali vittime di aggressioni”, né “il diritto alla salute del malato”. Infine, sottolinea la Consulta, “la totale estromissione del ministro della Giustizia da ogni competenza in materia di Rems non è compatibile con l’articolo 110 della Costituzione”. Il ministero di Giustizia dunque, conclude la Corte, deve essere adeguatamente coinvolto; deve essere adeguata la base legislativa; ed è urgente la “realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio”. Proprio su questo ultimo punto insiste il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che sottolinea: “Il sistema delle Rems esce dalla sentenza della Corte confermato nella sua positività. Deve però superare gli elementi di immaturità ancora evidenti nel ricorso frequente all’assegnazione e deve essere in grado di dare risposte omogenee e di effettiva presa in carico. Un sistema che deve comunque essere sempre percepito dalla collettività come un progresso culturale e sociale nell’affrontare il tema dei cosiddetti “folli rei” che ha chiuso l’oscuro capitolo degli Opg”. Per l’associazione Antigone, la sentenza indica la necessità di “aumentare il dialogo tra la magistratura e gli operatori sanitari”. “Oggi è chiaro - evidenzia il presidente Patrizio Gonnella - che nessuno può pensare di risolvere la questione semplicemente aprendo più Rems. Uno dei passaggi più significativi scritti dalla Corte riguarda la grave mancanza di risorse che colpisce, in tutta Italia, i servizi di salute mentale, destinatari di meno del 3% dell’intero budget del Ssn. Una scelta che pone l’Italia agli ultimi posti nel panorama europeo. Senza investimenti, è difficile fare le riforme”. Sì, la politica snobberà pure l’ultima sentenza sul 4-bis: e avrà un’altra lezione dalla Consulta di Michele Passione* Il Dubbio, 28 gennaio 2022 Con la sentenza n. 20 del 2022, relatore Zanon, la Corte costituzionale ha respinto (dichiarandola inammissibile in riferimento all’art. 27/ 3 Cost., e non fondata con riguardo all’art. 3) la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di Sorveglianza di Padova, sostanzialmente volta ad estendere il verso della pronuncia n. 253/ 2019 (che ha trasformato da assoluta a relativa la presunzione di pericolosità sottesa alla mancata collaborazione per l’accesso degli ergastolani ostativi al permesso premio) anche per quel che concerne l’odierna disciplina prevista dal comma 1 bis dell’art. 4 bis o.p. Nello spazio limitato concesso, vale la pena focalizzare questa prima analisi su poche questioni. La prima: la Corte ha ritenuto che la richiesta avanzata dal giudice a quo, pur certamente deteriore rispetto al sistema vigente (nei casi di accertata collaborazione impossibile, inesigibile o irrilevante non è richiesto onere di allegazione rispetto all’assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata), non comportasse la declaratoria di inammissibilità del petitum. Pur non essendovi “dubbio che l’intervento richiesto renderebbe più gravosa la posizione del condannato che richieda (o abbia addirittura già ottenuto) l’accertamento dell’impossibilità o inesigibilità della collaborazione”, dovendosi per l’effetto estendere “lo standard probatorio introdotto dalla sentenza n. 253 del 2019, più rigoroso in punto di oneri di allegazione nonché riguardo ai temi di prova da approfondire per superare il meccanismo ostativo”, la Corte ritiene che la richiesta non fosse impedita dai suoi precedenti (da ultimo, sent. 17 del 2012, che ha dichiarato inammissibile una quaestio volta ad estendere i casi di revoca della liberazione anticipata). A tal proposito, la Corte richiama la sua sentenza n. 32 del 2020, operante sul presupposto della “natura sostanziale della disciplina interessata, con applicazione delle garanzie apprestate dall’art. 25 Cost.” dalla quale resterebbero fuori “i meri benefici penitenziari, quali appunto i permessi premio, sicché non sarebbe in principio inibito provvedere nel senso auspicato dal rimettente, ove fossero fondate le questioni sollevate”. Abbiamo già avuto modo di dirlo, lo ripetiamo qui. Così argomentando, la Corte trascura l’immane concretezza del percorso penitenziario che, pur non potendosi esigere ex lege una progressione trattamentale, presuppone di norma l’accesso ai permessi premio nella prospettiva di più ampie aperture. Difficile dunque ritenere che anche questo istituto non implichi (e del resto, con il permesso il detenuto esce dal carcere, sebbene non per sempre - ma neanche il semilibero, così determinandosi una “concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”) una “differenza radicale, tra il dentro e il fuori”, per citare le stesse parole della Corte (sent. n. 32/ 2020). La seconda: la Corte indica il verso al Parlamento nella prospettiva del suo futuro intervento all’udienza di maggio. La commissione Giustizia, che ha di recente adottato un testo unificato in materia, volto ad estendere tout court la disciplina additiva appena censurata dalla Corte a tutte le misure alternative alla detenzione in caso di accertata collaborazione impossibile, non potrà non tenerne conto, ché altrimenti l’esito è scontato. Facile prevedere che questo non accada; fare la faccia feroce non costa niente, ripaga elettoralmente nell’immediato, e poi si può sempre dare la colpa a qualcuno, agli amici dei mafiosi, agli avvocati che si prestano all’invio di lettere omicidiarie, etc., ma non credo sia davvero possibile pensare a una Corte che smentisca se stessa e che accetti una surrettizia impugnazione dei suoi precedenti. Infine, un’ultima annotazione. Ha fatto rumore la recente presa di posizione del Procuratore Generale, secondo cui l’ergastolo ostativo e il 41 bis non sono carcere duro. Qualcuno ha provato a scorgere tra le pieghe del discorso pronunciato all’inaugurazione dell’anno giudiziario una interpretazione costituzionalmente orientata, e non un afflato per le tricoteuse col tocco sulla testa, ma siccome verba volant, scripta manent, il Dott. Salvi ha messo per iscritto nelle sue linee di intervento del 21 gennaio scorso che non bisogna “dimenticare, peraltro, che l’esperienza giudiziaria ha dimostrato il frequente ricorso all’uso strumentale della collaborazione impossibile e/ o inesigibile esclusivamente finalizzata ai benefici altrimenti non consentiti”. Strumentale; c’è scritto così. Eppure è stata la Corte con le sue sentenze a ispirare la normativa contestata, e che oggi si vorrebbe eliminare. Eppure anche con la sentenza n. 20 la Corte ha evidenziato la differenza “ontologica” tra chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole (silente per sua scelta), da quella di chi oggettivamente vuole, ma soggettivamente non può (silente suo malgrado)”. Siccome è rara avis, mi piace qui ricordare che la citazione è di un Avvocato, che come pochi conosce la materia (si chiama Alessandro Ricci) e siccome fa il suo mestiere cerca di ottenere i benefici previsti dalla legge. *Avvocato Giustizia e carcere, la pena non può più essere solo sequestro del tempo di Domenico Alessandro De Rossi* Il Riformista, 28 gennaio 2022 Tra i tanti argomenti interessanti il (mal)funzionamento della Giustizia ogni giorno di più emerge per la gravità delle condizioni in cui si trova proprio l’esecuzione penale. Non è più rinviabile un’ampia riflessione riguardante cosa significhi oggi, ma segnatamente per il domani, la funzione della detenzione alla luce del dettato costituzionale. Urgente oggi è anche un’ampia valutazione su come realizzare tale scopo. Il ragionamento è ovviamente legato ai problemi dell’edilizia penitenziaria, della gestione del patrimonio preesistente e dei possibili nuovi istituti, oltre al suo eventuale rapporto col territorio. Recentemente Franco Corleone, che di carceri se ne intende, senza tanti giri di parole su Il Manifesto viene al punto: “Non sopporto più l’ipocrisia di chi lamenta il fenomeno senza indicare le cause”. In sostanza si dice stanco, anche lui, di questo strano rapporto tra fittizie intenzioni di cambiamento e conseguenti apparenti doglianze per i risultati mai raggiunti che non individuino le responsabilità. Tra le ultime iniziative assunte dal ministro Bonafede nel 2021, poi ereditate dalla Guardasigilli Cartabia (non sappiamo in che termini e con quale entusiasmo), c’è la notizia dell’ennesima istituzione della Commissione per l’architettura penitenziaria. Titolo altisonante quello del tavolo, promosso in prima persona non si sa da chi. Richiamando in nome dell’arte del costruire la Commissione, l’operazione sembrerebbe essere stata più un assicurare la presenza alle future decisioni che non quello di risolvere quanto di attuale, urgente e necessario pretende la gravissima situazione. Costruzioni complesse sono le carceri. Per lo stato disastroso in cui si trovano oggi, è più rispettoso annoverarle nel campo dell’edilizia penitenziaria, ben lontana questa dimensione dall’architettura. Le Commissioni sono formate in buona parte sempre dagli stessi professionisti che, nonostante puntualmente vengano chiamati per le doverose dissertazioni, ostinandosi a parlare di architettura permangono nei fatti comodamente fuori dalla più semplice discussione edilizia che riguarda gli impianti mal funzionanti, i tetti rotti, gli arredi fatiscenti, gli spazi inadeguati, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate. Pensiamo che al massimo le Commissioni, per dovere istituzionale, l’esistenza dell’ancora non abrogato articolo 27 della Costituzione, accomodandosi così nei più sicuri binari di stretta osservanza formale. Di fatto l’ultima commissione Bonafede, i cui risultati dei lavori svolti sono poco noti, sembrerebbe essere niente di più che il solito auspicio di quanto sarebbe bello se si potesse avere un carcere a misura dei diritti umani, in regola col dettato costituzionale e costruito secondo canoni rispettosi della buona architettura. A detta di chi è meglio informato di me, questo risultato della Commissione sarebbe l’”ennesimo atto della rappresentazione della “stagione dei proclami architettonici” in tema di carcere”. Lacrime di coccodrillo? Può darsi. Ma questa affermazione rivela se non altro una coazione a ripetere dei partecipanti riuniti nei soliti riti ministeriali dei tavoli e delle commissioni. Ben sapendo che i risultati non ci saranno. In compenso subito dopo si affretteranno a lamentarsi della loro inconcludenza. Data la suddetta coazione, sono da escludere debite distanze dalla accertata inutilità delle Commissioni, dei convegni e dei tavoli tecnici. Almeno per coltivare la propria immagine, il partecipare può essere cosa utile, non certo alle carceri, ma sicuramente alla persona. Qui Franco Corleone ha visto giusto. Insomma è veramente necessario che la ministra Cartabia muova verso nuovi modelli interpretativi in concorso con altre competenze ministeriali sulla vera funzione dell’esecuzione penale. Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve passare per la riduzione drastica della recidiva, proponendo nuovi modelli organizzativi destinati a supportare le istituzioni, trasformandosi in servizi per il territorio. Insomma il sequestro del tempo come condanna e vendetta surrettizia deve cambiare nella civile opportunità di recupero e reinserimento nel corpo sociale. Nell’interesse non solo del detenuto. *Architetto, docente e urbanista. Vicepresidente e fondatore del Cesp (Centro europeo studi penitenziari) Corrispondenza fra difensori e reclusi al 41-bis, niente fango sui penalisti di Riccardo Polidoro Il Riformista, 28 gennaio 2022 I penalisti insorgono avverso la diffamatoria presa di posizione de “Il Fatto quotidiano” che, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale sull’abrogazione della censura della corrispondenza tra detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis e i difensori, ha scritto che ora “i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”. La gravissima affermazione, che rispecchia i valori a cui s’ispira il citato quotidiano, rappresenta esplicitamente la volontà di gettare fango sulla professione di avvocato, visto come complice ed esecutore delle volontà illecite dei suoi assistiti. Il visto di censura eliminato dalla Corte consentiva l’apertura della corrispondenza da parte dell’autorità giudiziaria o dell’amministrazione penitenziaria e la sua integrale lettura. All’esito della stessa, si poteva poi determinare la mancata consegna al destinatario, sia che esso fosse il difensore ovvero il detenuto. La procedura comportava, dunque, il venir meno della segretezza nel rapporto detenuto-difensore e poteva arrivare anche a non far conoscere, all’insaputa degli interessati, non solo quanto scritto nella corrispondenza, ma anche il suo stesso invio. Tutto ciò a giudizio discrezionale di chi esercitava il controllo. Un sistema in palese violazione del diritto di difesa, principio cristallizzato nell’art. 24 della Costituzione. E quale tutela potrebbe avere il detenuto se la sua strategia processuale venisse conosciuta anzitempo dall’accusa? Se il confronto con il difensore sui fatti oggetto dell’imputazione venisse mediato dalla lettura da parte dell’autorità giudiziaria? Argomenti che non interessano evidentemente “Il Fatto quotidiano” che, nell’occasione, ha ritenuto - non condividendo la pronuncia della Corte - di gettare una luce di sospetto sul difensore, indicandolo come colluso con sodalizi criminali. Eppure il ruolo della difesa è storicamente insostituibile, in quanto garanzia dello Stato di diritto. Non potendo, pertanto, aspirare alla sua abolizione si cerca di sminuirne la funzione, nella cieca convinzione che gli indagati siano tutti colpevoli e che l’avvocato costituisce un inutile intralcio processuale che ostacola la conclusione di un rapido processo da concludersi con la condanna. Non molto tempo fa, un autorevole personaggio politico ebbe, infatti, a dichiarare che la procedura penale inizia con le indagini che sfociano nel processo e poi, appunto, nella condanna. Non venne presa in considerazione altra soluzione. Si vuole ignorare che, purtroppo, gli errori giudiziari nel nostro Paese sono moltissimi e che le ingiuste detenzioni, statisticamente, giungono a un numero impressionante, pari a tre al giorno. Contrariamente a quanto sostenuto, dunque, il diritto di difesa va rafforzato e non indebolito e meritano maggiori tutele le garanzie processuali, nel rispetto non solo della tenuta di uno Stato democratico, ma nell’interesse di tutti. Ben venga, dunque, la sentenza della Corte Costituzionale che, tra l’altro, oltre a ribadire quanto già indicato da norme europee e internazionali, conferma un principio già stabilito, in passato, dalla stessa Corte, in ordine ai colloqui con il difensore: l’eventualità che persone appartenenti ad un ordine professionale, tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza, si prestino a fungere da tramite fra il detenuto e i membri dell’organizzazione criminale, se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in un enunciato normativo. Vi possono essere, dunque, rare eccezioni e le regole. L’importante è che le prime non si tramutino nelle seconde, come avviene proprio per il 41 bis, al cui regime sono sottoposte circa 800 persone: tutti boss? La vergogna infinita dei bambini in carcere di Giulio Cavalli Il Riformista, 28 gennaio 2022 “Entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto”. Era il 2015 e l’allora ministro della giustizia Andrea Orlando nel penitenziario di Rebibbia, di fronte a otto mamme incarcerate con i loro figli aveva promesso “la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”. Sono passati 7 anni e i dati ci dicono che al 31 dicembre scorso nel sistema penitenziario italiano si trovavano 18 bambini reclusi. La “vergogna” è rimasta tale, le promesse pure. La legge in vigore è la 62 del 2011 e prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età, gli ICAM e le case famiglia protette. Nonostante le premesse e i principi che hanno ispirato la legge, la carcerazione non è stata eliminata. “Entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto”. Era il 2015 e l’allora ministro della giustizia Andrea Orlando nel penitenziario di Rebibbia, di fronte a otto mamme incarcerate con i loro figli aveva promesso “la fine di questa vergogna contro il senso di umanità”: “non possiamo privare un bambino della libertà, è innocente ma allo stesso tempo ha diritto di vedere sua madre. - aveva detto Orlando - Abbiamo tre obiettivi da realizzare prima possibile: il primo è la fine della detenzione per questi piccoli, il secondo è quello di rivedere le modalità con cui avvengono i colloqui tra genitori e figli. Abbiamo firmato un protocollo d’intesa con l’associazione “Bambini senza sbarre” e con il Garante per l’Infanzia per ridefinire l’accoglienza in carcere”. Il 15 luglio del 2015 nei penitenziari italiani c’erano 33 donne che stavano scontando la pena con i loro bambini: 15 accolte negli Icam (gli istituti a custodia attenuata per detenute madri) di Milano, Torino e Venezia e le altre 19 in normali carcere. Sono passati 7 anni e i dati ci dicono che al 31 dicembre scorso nel sistema penitenziario italiano si trovavano 18 bambini reclusi. Un anno fa erano 29 e, al 31 dicembre del 2018, 52. La “vergogna” è rimasta tale, le promesse pure. La legge in vigore è la 62 del 2011 e prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età, gli Icam e le case famiglia protette. Nonostante le premesse e i principi che hanno ispirato la legge, la carcerazione non è stata eliminata: l’accesso alle case famiglia protette è molto limitato perché gli oneri di spesa finora non sono stati a carico dello Stato. Un esempio? Nel secondo rapporto semestrale dell’Ausl di Bologna (dal titolo “Carcere Bologna: il disastro permanente”) Vito Totire nell’agosto 2020 scriveva: “Irrisolto il problema dello spazio per una persona detenuta con bambino; irrisolto nel senso che, dopo tanti anni, ancora non paiono esecutive le norme che vietano la detenzione in carcere di bambini piccoli che devono invece essere ospitati, con le loro mamme, negli ICAM e/o comunque in una struttura alternativa al carcere e diversa a seconda della posizione giuridica della madre; di recente, ancora una volta, la Dozza ha ospitato una bambina di 4 anni, sia pure per pochi giorni! Comunque, fino a quando esiste lo spazio per donna con bambino, lo spazio “rischierà” di essere occupato a discapito delle strutture alternative extracarcerarie”. Pochi mesi dopo la direzione del penitenziario annuncia che al reparto femminile del carcere sarà inaugurato un nido per ospitare di volta in volta fino a due donne con i loro figli. Il Garante regionale Marcello Marighelli ricorda che il nido in carcere è una misura che risale al 1975. No, non si tratta di una soluzione: i bambini devono uscire dal carcere. La differenza l’ha sintetizzata perfettamente il deputato Paolo Siani (PD): “Ho visitato personalmente l’Icam di Avellino e una casa famiglia protetta di Roma. Sono due mondi completamente diversi: il primo è un carcere, il secondo è il luogo adatto a far crescere un bambino quando rimane con la madre detenuta”, commenta. Per questo il deputato aveva depositato a dicembre del 2019 la proposta di legge 2298 per superare i “profili problematici” della legge 62/2011, la norma che dieci anni fa ha istituito gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) per “impedire che bambini varchino la soglia del carcere”. Inizialmente sembrava che ci fosse una larga convergenza ma poi tutto si è arenato in Commissione giustizia. La proposta di legge Siani prevede l’obbligo per lo Stato a finanziare le case famiglia protette per detenute madri e l’obbligo per il ministero delle Giustizia di stipulare convenzioni con gli enti locali per individuare le strutture idonee ad accogliere le mamme detenute con i loro bambini. Il testo della proposta di legge prevede anche alcune modifiche al codice di procedura penale finalizzate a rendere la custodia cautelare delle detenute madri all’interno degli Icam solo nel caso in cui sussistano “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. La proposta, se venisse approvata, eviterebbe che per le madri si aprano le porte del carcere ma individuerebbe nelle case famiglia protette la soluzione ordinaria, relegando gli Icam come estrema soluzione. A dicembre del 2020 con un emendamento alla legge di bilancio era stato previsto un fondo con una dotazione di 1,5 milioni di euro all’anno per il triennio 2021-2024 (4,5 milioni in tutto) per creare un numero di posti sufficiente per accogliere le madri in carcere con bambini. Si attendeva il decreto attuativo e la ripartizione dell’importo tra le regioni. È arrivato solo 10 mesi dopo (a settembre del 2021) e a oggi le uniche case famiglia protette attualmente attive sono solo a Roma e Milano. Una cosa è certa: in Italia finiscono in carcere bambini che sono innocentissimi perché la politica fatica a trovare una soluzione. C’è una categoria di persone che è condannata a scontare in carcere pene mai commesse, inconsapevoli del destino che gli è stato rilevato. Mancano i direttori: le carceri sono un inferno di Claudia Osmetti Libero, 28 gennaio 2022 Il 18% degli istituti di pena non ha un dirigente, altri se lo dividono. Non ci sono educatori né magistrati di sorveglianza. Per tacere degli agenti (10mila in meno). “C’è carenza di acqua calda e intere sezioni sono senza riscaldamento. Sta aumentando lo stato di aggressività tra i detenuti, tanto che le risse violente e gli atti di autolesionismo sono giornalieri. Il magistrato di sorveglianza non risponde a istanze anche da oltre un anno”. Viene lo sconforto, a leggere quelle righe. Perché sì, a Parma “c’è effettivamente una situazione molto complessa”, spiega Alessio Scandurra, il coordinatore dell’osservatorio di Antigone, ossia dell’associazione che da anni monitora quel che avviene dietro le sbarre italiane. Chiariamo subito, però: che le patrie galere siano dei colabrodo, spesso fatiscenti e sicuramente affollate non è una novità. Non è nemmeno un fatto peculiare di Parma. “Lì”, continua Scandurra, “la struttura è composta da due padiglioni. Quello nuovo, in sostanza, non ha grosse segnalazioni. In quello vecchio invece si è costretti a razionare l’acqua calda, come dice il detenuto, perché non ce n’è abbastanza, e anche l’impianto di riscaldamento non è adeguato. Abbiamo ricevuto pure noi segnalazioni sull’aumento di casi di autolesionismo, che invece è proprio una peculiarità di questa struttura perché altrove, in media, non si registra. Ma il punto principale è che sussiste una carenza di organico. Il carcere di Parma è stato per lungo tempo senza un direttore, quello nuovo è entrato in servizio a fine 2020, in un momento particolare e molto difficile. Non ha nemmeno un vice su cui appoggiarsi”. Non è un carcere piccolino, quello di cui stiamo parlando: ha una capienza di oltre 600 posti, un’ala riservata ai disabili che arrivano da tutta Italia, una sezione dedicata al 41-bis (cioè al carcere duro), un’età media più alta di quella nazionale (il che non aiuta, per ovvie ragioni, la gestione di aree specifiche come l’infermeria). “Far funzionare quella macchina non è uno scherzo”, ammette Scandurra, “specie se le forze sono ridotte e manca persino il personale dirigenziale”. Va in questo modo in mezzo Paese. Manca di tutto, al fresco. Dagli agenti nei vari bracci su su fino alla scrivania del direttore di turno. I numeri (quelli veri) li ha dati Rita Bernardini intervenendo al congresso dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, nel carcere milanese di Opera nemmeno un mese fa: è la litania dell’imbarazzo. Su 189, sette istituti non hanno manco un’anima al loro capo, altri 27 si dividono un direttore (quindi il tempo a sua disposizione, quindi la possibilità di poter risolvere qualsivoglia bega). Praticamente il 18% delle nostre prigioni è senza una figura apicale di riferimento. Su una pianta organica di 999 educatori, sono in servizio appena in 710. I magistrati di sorveglianza meglio neanche citarli perché se ne contano 206 a fronte di un totale dei detenuti che supera le 54mila unità: hai voglia a chiedere qualcosa, qualunque cosa. Star dietro a tutti diventa oggettivamente impossibile. Gli agenti dovrebbero essere 41.595 ma sono solo 32.275, cioè ne mancano più di 9mila. Serve continuare? “La carenza di direttori è una questione seria”, commenta Scandurra, “dovuta da un lato a un aumento della complessità amministrativa che, come per tutti i settori, cresce nel tempo, e dall’altra al concetto di responsabilità, perché dirigere un carcere non è una passeggiata. Vuol dire andarci tutti i giorni, tanto per cominciare. Il risultato è che in Sardegna, per esempio, non ci vuole andare più nessuno e tutti i direttori delle carceri, sull’isola, sono sardi. Oppure che, in media, ogni direttore segue circa tre istituti diversi”. L’altro aspetto è legato al portafoglio perché lo stipendio è, indennità a parte, il medesimo sia per i piccoli che per i grandi penitenziari. “Attualmente è in corso un concorso per 40 posti che dovrebbe metterci una pezza”, chiosa l’esperto, “però per troppi anni non s’è fatto nulla”. È già qualcosa, anche se, nell’immediato, il bando rischia di essere controproducente: le commissioni che dovranno vagliare i profili degli aspiranti direttori sono composte dagli attuali colleghi che, per poterlo fare, dovranno necessariamente assentarsi dal proprio posto di lavoro. Referendum tra i giudici sul sistema elettorale per il Csm, 8mila gli iscritti al voto online di Liana Milella La Repubblica, 28 gennaio 2022 Consultazione strategica in vista della riforma del Csm, la prima scadenza politica dopo la scelta del nuovo capo dello Stato. Oggi e domani le toghe sceglieranno maggioritario e proporzionale, oppure il sorteggio, chiesto dal centrodestra in Parlamento, mentre la ministra Cartabia propone un maggioritario temperato. Sistema maggioritario, come propone la ministra della Giustizia Marta Cartabia? Oppure proporzionale, come chiede la maggior parte delle correnti? O invece il sorteggio, che vorrebbero sia Articolo 101, l’unico gruppo all’opposizione nell’Associazione nazionale magistrati, ma anche molti dei davighiani di Autonomia e indipendenza? Un sorteggio però che piace moltissimo all’intero centrodestra in Parlamento. Perché Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sponsorizzano la soluzione che per loro azzererebbe le correnti delle toghe dopo il caso Palamara. Giusto mentre in Parlamento si sta scegliendo l’inquilino del Quirinale, la magistratura italiana invece va alla conta sul sistema elettorale del Csm per lanciare un segnale alla politica che dovrà approvare la riforma. E si tratta del primo impegno molto rilevante subito dopo il Colle. Di rilievo perché la maggioranza è divisa proprio sulla legge elettorale, tant’è che la riforma, pur portata da Cartabia a palazzo Chigi prima di Natale, è rimasta ferma lì. Sarebbe stato necessario un Consiglio dei ministri per discutere gli emendamenti di Cartabia al testo del suo predecessore Alfonso Bonafede di M5S. Ma non se n’è fatto nulla né subito dopo Natale, né nelle settimane seguenti, anche alimentando una sorta di giallo. Probabilmente un atteggiamento di prudenza rispetto a una maggioranza che si sarebbe spaccata ancora una volta sulla giustizia. Una situazione che però ha spinto la commissione Giustizia della Camera, dopo un’esplicita richiesta di Enrico Costa di Azione, a decidere di andare avanti ugualmente nell’esame degli emendamenti dei gruppi, senza aspettare quelli della ministra. Ma tant’è. In questo abituale groviglio politico sulla giustizia, ecco innestarsi il referendum lanciato dall’Anm prima di Natale. Chiesto da Articolo 101 e dai davighiani, e accettato dalle altre correnti. E adesso, tra domani e venerdì, siamo arrivati al voto, che fa registrare un primo segnale positivo rispetto a chi temeva un disinteresse della magistratura e un rischio flop. Invece, a ieri sera, risultavano già iscritti 8mila magistrati pronti a votare online sulla piattaforma Eligo. I risultati ci saranno già venerdì sera. E l’indicazione avrà un peso importante in vista della futura riforma. Ma sarà anche rivelatrice degli umori delle toghe. Se dovesse prevalere il sorteggio questo rappresenterebbe un segnale negativo anche rispetto all’attuale assetto dell’Anm, che vede una giunta formata da tutte le correnti, tranne Articolo 101, il gruppo di Andrea Reale e Giuliano Castiglia, che ha un forte radicamento in Sicilia, e che ha scatenato una campagna durissima, anche con raccolte di firme indirizzate al Quirinale, contro il “sistema” dell’ex pm Palamara. Nonché contro il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per via delle sue indicazioni disciplinari, in cui tra i criteri ha escluso quello dell’auto promozione. Da giorni, nelle mailing list dei giudici, si sono moltiplicati gli appelli alla necessità del voto. Proprio nel timore di un atteggiamento assenteista che però, al momento, sembra smentito proprio dal numero degli iscritti. Va da sé che chi si iscrive per votare è ipotizzabile che poi voti. Ma quali saranno i due quesiti tra cui scegliere? Nel primo si chiede se si vuole che “i candidati al Csm siano scelti mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere”. Mentre il secondo quesito chiede se per l’elezione della componente togata del Csm si ritenga preferibile un sistema a ispirazione maggioritaria o proporzionale. Finora, a leggere il dibattito tra le correnti, risulta evidente che il sistema preferito è quello proporzionale. Lo indicano la sinistra di Area, e anche Magistratura democratica. Ma anche Unicost e una parte di Autonomia e indipendenza. Magistratura indipendente invece andrebbe verso il maggioritario. Sì deciso per il sorteggio, come s’è detto, di Articolo 101 e una parte dei davighiani. Archiviato il sistema con cui si è votato 4 anni fa - un collegio unico nazionale per il quale hanno corso pochissimi candidati indicati dalle correnti, tra cui solo 4 pm per 4 posti da pm - Cartabia ha scelto un maggioritario binominale senza liste. Sistema che, per i fan del proporzionale, avrebbe lo stesso difetto del precedente, e non porterebbe ad alcuna vera novità. Di qui la scelta del proporzionale, con le liste dei gruppi e il voto sulla lista, permettendo quindi agli elettori di scegliere effettivamente. Ma come si può leggere nel dibattito sulle mailing list, la vera preoccupazione è che possa prevalere l’indicazione del sorteggio. Anche nella veste di sorteggio “temperato”, giusto quello proposto al Senato dalla responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno. Si sorteggiano i possibili candidati, dando indicazioni precise sui requisiti che devono avere, e sui sorteggiati i magistrati italiani votano. Un sistema per evitare il rischio principale del sorteggio, e cioè la piena incostituzionalità, visto che proprio la Carta, all’articolo 104, parla di “componenti eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune”. Proprio l’equilibrio della doppia elezione - tra le toghe da una parte, nelle Camere dall’altra - verrebbe “turbata” da un sorteggio. Che si presterebbe sicuramente ad obiezioni di costituzionalità. Tra le quali c’è anche quella che riguarda il diritto di elettorato passivo, per cui chi vuole può candidarsi, mentre il sorteggio, anche nella versione temperata, escluderebbe questa possibilità. Tant’è che l’ex Guardasigilli Bonafede, che inizialmente aveva previsto questa soluzione, l’aveva poi lasciata andare. Ma è evidente infine che il referendum ha un significato più politico. La magistratura chiede di essere protagonista della riforma elettorale del proprio organo di governo autonomo. Non un semplice messaggio alla politica, ma l’esplicita richiesta di essere una voce che è obbligatorio ascoltare. Da qui il tam tam via chat e via mail di queste ore, ma che va avanti da giorni, per dire rendiamoci interlocutori e protagonisti della futura legge, una legge “per noi” e non “contro di noi”. Una scarsa affluenza al voto, oppure una differenza modesta tra le due ipotesi di sistema elettorale, potrebbe mettere nel nulla una giusta voglia di protagonismo. Cassazione, le nomine del Csm sono assurde di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2022 Il Consiglio superiore della magistratura - che, di regola, impiega mesi e mesi per nominare i capi dei più importanti uffici giudiziari lasciandoli così per lungo tempo vacanti - ha, in poco più di 70 ore, confermato le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano ai vertici della Corte di Cassazione, nomine che, su ricorso del candidato pretermesso Angelo Spirito, erano state qualche giorno prima annullate dal Consiglio di Stato che le aveva definite “manifestamente irragionevoli”. La estrema rapidità della conferma - elogiata dal capo dello Stato, presente alla seduta del plenum - lascia perplessi perché, come è stato evidenziato dai componenti che hanno votato contro (3) o astenutisi (3), le nuove motivazioni - anziché costituire una reale ottemperanza delle sentenze del consiglio di Stato, che imponevano una riformulazione capace di superare le censure che avevano portato all’annullamento delle delibere - si limitano a riproporre sostanzialmente le stesse argomentazioni svolte nelle originarie motivazioni. Per quanto riguarda specificamente la riconferma di Curzio a primo presidente, gran parte della ripetitiva motivazione si basa su una asserita maggiore importanza e complessità di gestione di una sezione (la VI sezione, di cui era titolare Curzio) rispetto alle altre cinque sezioni civili della Cassazione (l’altro candidato Spirito è titolare della III sezione). Argomentazione opinabile dal momento che la VI sezione civile è la sezione di “verifica preliminare dei ricorsi” (cosiddetta sezione “stralcio” o “spoglio”). Essa ha il compito di definire le controversie di più semplice soluzione (soprattutto con declaratoria di inammissibilità) e di trasmettere gli altri processi alle sezioni competenti che trattano, quindi, quelli più complessi con la emanazione dei principi di diritto (funzione monofilattica della Corte di Cassazione). Si aggiunge in motivazione: “È proprio il carattere di assoluta eccellenza della professionalità del dottor Curzio nelle funzioni di legittimità, attestata non solo nei diversi pareri ma anche proprio dallo sviluppo della carriera nelle funzioni di legittimità, particolarmente rapido nelle sue tappe, che conferma la completa padronanza delle funzioni di legittimità nella sua massima intensità possibile, tale da non potersi ipotizzare alcun ulteriore arricchimento determinato da un ulteriore decorso del tempo. Il che vale a giustificare, appunto, la sua equivalenza con il dottor Spirito, pur a fronte di esperienze temporali così consistentemente diverse”. Secondo tale incredibile motivazione, Curzio, in 13 anni di funzione di legittimità, non solo avrebbe raggiunto la “padronanza” di tale funzione (ivi compresa quella “monofilattica”) che l’altro candidato Spirito avrebbe acquisito solo dopo 25 anni, ma l’avrebbe acquisita - udite, udite - “nella sua massima intensità possibile, tale da non potersi ipotizzare alcun ulteriore arricchimento determinato da un ulteriore decorso del tempo”. Con tale delibera, il Csm sembra non avere alcuna intenzione di abbandonare quella rotta di logiche distorte che troppe volte hanno ispirato le sue decisioni reiteratamente annullate dal giudice amministrativo per manifesta illogicità o irragionevolezza. Nel corso del suo intervento all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi - dopo aver auto-elogiato la sua gestione del potere disciplinare (in realtà più che criticabile) - ha “auspicato che il Parlamento, nel porre mano alle riforme ordinamentali, sappia restituire al Consiglio il ruolo che la Costituzione ha designato”. Si tratta di un’affermazione priva di significato perché il Pg dovrebbe sapere che le riforme non potranno mai invertire quella rotta, deviata rispetto al ruolo del Consiglio, potendo ciò avvenire solo con un forte riemergere dell’etica individuale di ogni componente che, ispirando il proprio comportamento ai doveri di correttezza, trasparenza e imparzialità, dimostri di aver abbandonato logiche di clientelismo, di appartenenza correntizia, di collateralismo con la politica. Solo in tal modo sarà restituito al Csm quel ruolo, autorevole e credibile, da tempo perduto. “Assoluzioni e prescrizioni, i numeri sono sconvolgenti. Ormai siamo oltre il 60%” di Valentina Stella Il Dubbio, 28 gennaio 2022 L’avvocato Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti- Pescara, ha scritto per ‘Archivio penale’ un articolo intitolato ‘Riforme, statistiche e altri demoni’, frutto di una ricerca dell’Università, condotta insieme al professore di statistica, Simone Di Zio. Sono stati mossi dalla convinzione che senza conoscenza dei dati offerti dal mondo reale non è possibile alcun reale cambiamento. A maggior ragione quando si parla di giustizia, tanto è vero che la ministra Cartabia, durante la sua relazione al Parlamento, ha annunciato l’istituzione del Dipartimento del ministero che si occuperà della transizione digitale e della statistica. Stiamo vivendo un periodo di riforme nel campo della giustizia. Eppure molti dati riguardanti la sua amministrazione sono sconosciuti... Credo che la giustizia penale sia stata per troppo tempo un campo oscuro, in cui molte cose, troppe, navigano al riparo della formula del segreto, declinato in varie misture. Lo Stato ha il dovere di agire in modo trasparente: nel campo del diritto amministrativo, le discipline dell’accesso agli atti hanno portato doverosa luce negli incunaboli dell’apparato; nel settore specifico del processo penale, poi, la Corte europea ripete che (perfino) le indagini devono essere trasparenti. E però in questo Paese la trasparenza sembra per molti versi ancora un sogno ingenuo e non è cosa che dovrebbe accadere in uno Stato di diritto. Ecco, la prima forma di trasparenza dovrebbe iniziare dalle statistiche sul processo penale. Una vera democrazia non dovrebbe tollerare che l’attività dei suoi organi sia scarsamente decifrabile e ben poco pubblica. Quindi ben venga il nuovo dipartimento annunciato dalla Guardasigilli? Certo. Ma è fondamentale che ci sia piena e totale trasparenza sul metodo usato e sulla totalità dei dati raccolti. Nel suo articolo lei analizza anche le relazioni dell’anno giudiziario in Cassazione. Rispetto alle ultime: per il Primo Presidente Curzio circa il 50% dei processi di primo si conclude con l’assoluzione, mentre per il Procuratore Generale Salvi solo il 21%... Ho letto i dati a cui lei fa riferimento. Per quanto questo tipo di analisi sia cosa delicata, posso dire, in via di prima approssimazione, che, anche sulla scorta degli studi da noi condotti sulla base dei dati ufficiali della Direzione Generale di statistica e analisi organizzativa del Ministero, sono corretti i numeri sui proscioglimenti indicati dal Primo Presidente. E sono numeri sconvolgenti. Se lei aggiunge a quel 50,50% di esiti assolutori da parte del giudice monocratico adito a citazione diretta, i numeri delle prescrizioni, si arriva sicuramente - lo dico a spanne attorno al 60%, forse di più. Ripeto, mi sembrano numeri sconvolgenti, che sarebbero degni della più grande attenzione, e invece non è stato così da parte di nessuna delle recenti riforme. Si è preferito “manganellare” il giudizio d’appello, che - purtroppo per l’efficienza delle riforme in questione - si colloca a valle della maggior parte delle declaratorie di prescrizione. Questi dati ci dicono forse, come lei ha scritto, che ‘ l’azione penale viene troppo spesso esercitata in assenza dei corretti requisiti’. Anche Curzio ha bacchettato pm e gup in tal senso... Qui devo scomodare una molteplicità di concetti noti: il processo penale è una pena in sé, un tormento autentico per l’imputato; sottoporre un innocente ad un processo che potrebbe essere evitato semplicemente con indagini più accurate o anche semplicemente condotte nel rispetto dell’art. 358 c.p.p. (cioè anche a favore dell’indagato) è un’abitudine radicalmente contrastante con la presunzione d’innocenza, oltre ad essere uno scempio etico. È la famosa “azione penale apparente” da cui ci mise inutilmente in guardia anni fa la Corte costituzionale: fenomeno gravissimo, che conosce molte sfaccettature, che giungono fino ai casi - frequentissimi nella prassi, come ben sanno i difensori - di azione penale esercitata sulla scorta della mera querela e poco altro. D’altra parte, quando osserviamo il fenomeno nella prospettiva della vittima del reato, il risultato è simile: la Cedu insegna da tempo che la vittima ha diritto ad indagini complete e di qualità, perché si arrivi non ad un responsabile purchessia, ma all’effettivo responsabile. Infine, un pensiero che potrebbe apparire brutale, ma è solo schietto: la giustizia è un bene prezioso e non va sprecato; sprecarlo significa assumerci le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti, ovvero una giustizia sommersa dai numeri e troppo spesso priva di qualità. Una commissione ministeriale sta lavorando ai decreti attuativi della riforma del processo penale. Il suo articolo “ha eletto ad oggetto d’analisi la gestione delle indagini preliminari e dell’alternativa tra agire e archiviare”. Che consigli ha da dare a chi dovrà riformare questa parte? Un suggerimento che mi sento di fare a cuor leggero, e che dovrebbero senz’altro seguire, è l’abbandono della circolare Pignatone come modello per la disciplina dell’iscrizione della notizia di reato e del modello 45. Intende gli atti non costituenti notizia di reato, che riposano nel “limbo” della non sicura definibilità? Esatto. È un terreno delicatissimo e il modello Pignatone riporta il nostro codice a forme di autogestione della notizia di reato da parte delle Procure che ricordano molto la struttura del codice Rocco, prima della riforma urgente realizzata dopo la caduta del regime fascista. Quel modello trasforma la notizia di reato in una creatura gestibile ad libitum dalle Procure e nella più totale mancanza di trasparenza: Tizio viene perseguito e va a giudizio, Caio, invece, viene “salvato” grazie al modello 45. Immagini di trovarsi a difendere una persona cui vengono addossate responsabilità spettanti in realtà ad altro soggetto, la cui posizione è stata semplicemente cestinata con un tratto di penna e senza controllo giudiziale. Un incubo che esiste già oggi e che s’intende allargare a dismisura. Stento davvero a comprendere come sia possibile, in questo momento storico, fornire alle Procure poteri del genere, che riescono ad eclissare senza rumore persino notizie di reato provenienti dagli organi di polizia giudiziaria. Forse, poi, esistono margini anche per eliminare un altro buco nero del nostro codice, ovvero la stentata disciplina delle investigazioni difensive, che allo stato consente al pubblico ministero di ignorare bellamente le indagini della difesa, anzi persino di ostacolarle. A proposito di Pignatone, qualche giorno fa ha scritto un articolo in cui ha detto che la giustizia è lenta a causa dei troppi gradi di giudizio, dei troppi avvocati e del divieto della riforma in peggio... Sono discorsi già fatti, mi stupisce che si continui a proporre riforme simili ad onta della loro inconsistenza pratica e dell’insostenibilità scientifica. La storia dei troppi avvocati mi fa sinceramente sorridere: mica parliamo di processo civile dove l’azione è esercitata dagli avvocati? Il lavoro agli avvocati, qui, sono le Procure a fornirlo. Forse sotto simili assunti si sottende che gli avvocati “inducono” i loro assistiti ad impugnare; insomma, non sono discorsi da farsi. Piuttosto direi che sono i magistrati ad essere in numero nettamente inferiore rispetto al necessario. Quanto al tema del divieto di riforma in peius, mi sembra costituzionalmente disdicevole ed evoca nuovamente un istituto caro al legislatore fascista; senza dire che avrebbe la stessa inesistente efficacia deflattiva dell’art. 96 c. p. c., privo di effetti apprezzabili, come ben sanno i civilisti. Quanto all’argomento dei troppi gradi di giudizio, mi limiterò a dire che prima di sfiorare - anche solo sfiorare, ripeto - un tema del genere, andrebbe assicurata una reale qualità nell’amministrazione della giustizia; vogliamo parlare dei numeri degli errori giudiziari? Aggiungo invece questo: sono anni che si scarica la responsabilità dei ritardi del processo penale sulle povere Corti d’appello. Anche qui, però, i dati statistici dimostrano che i veri problemi stanno altrove. Ma su questo tornerò nella prossima tranche della nostra ricerca. Sui beni confiscati alle mafie errori da non ripetere di Carlo Borgomeo* Avvenire, 28 gennaio 2022 L’Avviso dell’Agenzia per la Coesione territoriale, rivolto ai Comuni, per progetti di valorizzazione dei beni confiscati è un’occasione mancata, perché non prevede un ruolo attivo del Terzo settore e perché finanzia solo le ristrutturazioni fisiche dei beni. Su questi limiti oggettivi vi sono state molte critiche e la richiesta del Forum del Terzo Settore di ritirare e riformulare il bando. Il mancato riferimento al Terzo settore infatti non è solo discutibile dal punto di vista formale, è grave in termini politici se si considera che l’intervento, nel Pnrr rientra nel capitolo dell’inclusione sociale. Rispetto a questa obiezione il Ministro ed il Direttore dell’Agenzia hanno promesso una particolare attenzione al tema; ma il meccanismo non muta: riconoscere premialità ai progetti relativi ai beni già assegnati agli Ets è un’eccezione che conferma la regola. Si poteva fare riferimento alla necessita di un loro maggiore coinvolgimento nel Decreto del 12 gennaio, che proroga la scadenza del bando al 28 febbraio; non avrebbe cambiato molto le cose, ma poteva costituire un segnale di attenzione e di coerenza rispetto alle assicurazioni del Ministro Carfagna sulla volontà di valorizzare il ruolo del Terzo settore. Ma altrettanto grave è aver deciso di impegnare 250 +50 milioni solo per le ristrutturazioni dei beni. In tal senso l’esperienza dei Pon sicurezza poteva insegnare: non sono pochi i casi di beni ristrutturati e poi non utilizzati, con effetti devastanti in termini politici nei territori. Le numerose esperienze di interventi che valorizzano la capacità di gestione del Terzo settore, finanziando le ristrutturazioni e la gestione iniziale delle attività, non riescono ad orientare la Pa, autoreferenziale e prigioniera di procedure e criteri spesso senza senso. Non si può fare un bando così importante senza porsi il problema delle risorse per la gestione; è già accaduto con il Bando dell’Agenzia dei beni confiscati che assegnava 1.000 beni a ETS senza prevedere risorse finanziarie per la gestione. C’è qualcuno in grado di decidere che una parte, molto marginale, delle risorse finanziarie confiscate e confluite nel Fondo Unico Giustizia venga destinata a rendere più organici ed efficaci gli interventi che ho richiamato? Il sistema politico ed istituzionale è in grado di voltare pagina capendo che non si può più intervenire sui beni confiscati solo in modo simbolico per la legalità, ma significa costruire percorsi di sviluppo trasparente, equilibrato, solidale sui territori? È determinare nuova occupazione. È dimostrare che alla ricchezza prodotta dalle mafie, le comunità sono in grado di contrapporne un’altra. Con oltre 35mila immobili confiscati - che valgono 32 miliardi - 4mila aziende confiscate, più di 5mila beni mobili registrati confiscati per un valore di 4,3 miliardi, con 5 miliardi di risorse finanziarie confiscate, bisogna cambiare radicalmente il sistema. Altrimenti continueremo a sprecare occasioni. *Presidente Fondazione Con il Sud Testimoni di giustizia: c’è chi sceglie di dire la verità anche a rischio della vita di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2022 Provate a mettere sul piatto di una bilancia la concreta possibilità di essere ammazzati e sull’altro piatto una piccola bugia che, se detta, cancellerà quel rischio. Cosa fareste? Personalmente non mi sono mai trovato in una situazione del genere, ma so di aver preferito la bugia mille volte nella mia vita pur rischiando infinitamente meno. E non ne vado fiero. Qualche giorno fa un imprenditore di Siracusa, Marco Montoneri, si è trovato di nuovo in un tribunale a confermare una storia che gli è valsa sicuramente la concreta possibilità di essere ammazzato. Un giorno il complice di un presunto killer di due uomini si presentò nella concessionaria di auto di Montoneri e gli chiese di riferire alla polizia che si era sbagliato e che il presunto killer e questo tizio erano sì andati da lui a comprare una macchina, ma in un giorno successivo a quello effettivo. Motivo: costituire un alibi, falso (!), per complice e presunto killer. Riportano le cronache giudiziarie che Marco Montoneri, ancora una volta, ha ribadito la verità, non ha cambiato versione, ed è una verità schiacciante, perché contribuisce a rendere provata la ricostruzione di quegli ultimi momenti di vita delle due vittime e la responsabilità di killer e complice. Marco Montoneri non è Superman: è un uomo normale, un papà orgoglioso dei suoi figli e un marito innamorato della donna che con lui ha condiviso ogni scelta, anche quella di entrare nel programma speciale di protezione, che li ha costretti ad abbandonare terra, lavoro e famiglia. Quanto vale per la Repubblica italiana un fatto del genere? Frequento da vent’anni Testimoni di Giustizia, di alcuni posso dire di conoscere bene storia, sofferenze, amarezze… posso dire di voler loro bene. Tante volte in questi anni ho trovato persone pronte a mettermi in guardia sulla specchiata coerenza di queste persone, con frasi del tipo “guarda che non è tutt’oro quello che luccica”, “ha deciso di denunciare soltanto quando non ce la faceva più con i debiti”, “era già fallito”, “conosce così tanti fatti di mafia perché in fondo era un amico loro”, “l’attentato se l’è fatto da solo per avere i soldi dello Stato”. E potrei continuare. Ho sempre ascoltato con attenzione e seriamente verificato quello che ho potuto. Eppure il mio sentimento e il mio giudizio su di loro non sono cambiati mai. Da qualche parte ho letto: “La felicità non sta in una emozione, ma in una decisione”. Prendo in prestito questa frase per dire che il valore della vita di queste persone non lo cerco in una aliena intransigenza morale che non oso pretendere nemmeno da me stesso, ma nella grandezza della decisione di dire la verità in quel preciso momento, che fa la differenza tra continuare a vivere nella propria comfort zone e rischiare di mandare tutto all’aria, rischiare di morire o di far morire i propri cari. Quanto è grande quel momento? A me non è mai capitato, lo ripeto, e pertanto continuo a sentirmi piccolo di fronte a queste persone. Se lo stato dubitasse della veridicità di quella dichiarazione fatale, dovrebbe perseguirli come criminali (come la nostra riforma del sistema di protezione dei testimoni di Giustizia peraltro ribadisce), ma diversamente dovrebbe portarli in palmo di mano. Non sempre accade, anzi. Tanto che, se alcuni di loro hanno scelto la forma della associazione per manifestare pubblicamente il proprio e l’altrui disagio, altri hanno scelto la strada dell’impegno politico ed è di queste settimane la notizia che figure storiche come Pino Masciari e Ignazio Cutrò hanno fondato insieme a Elisabetta Trenta un nuovo soggetto politico denominato Noi (Nuovi Orizzonti per l’Italia), che si candida a rappresentare autorevolmente le istanze di quei cittadini onesti (si può di nuovo usare questa parola?) che vogliono una democrazia libera dalla paura e dalla corruzione. Spero che il nuovo Presidente della Repubblica sappia parlare anche a questi italiani e italiane, li sappia far sentire parte di un disegno condiviso, li sappia rassicurare. Almeno quanto ci si aspetta che sappia rassicurare i mercati. Lombardia. Covid, positivo un detenuto su dieci laprovinciacr.it, 28 gennaio 2022 Sono 740 i detenuti positivi nelle carceri lombarde (il 10% della popolazione carceraria) con 5 ricoverati, di cui uno in terapia intensiva. La “copertura” vaccinale con terza dose sfiora il 40%. Sono i numeri che il Provveditore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) Pietro Buffa, insieme a Roberto Ranieri della UO Sanità Penitenziaria di Regione Lombardia, hanno fornito alla Commissione Speciale Situazione Carceraria. “I dati fotografano una situazione della popolazione detentiva speculare a ciò che accade all’esterno - ha dichiarato la Presidente della Commissione Antonella Forattini -. Dopo la crescita esponenziale di fine dicembre/inizio gennaio, oggi la curva del Covid negli istituti di pena lombardi sembra aver rallentato la sua corsa. Ciò anche grazie al lavoro di tutti gli attori del sistema carcere che hanno messo in atto misure di contenimento e grazie alla campagna di vaccinazione che sta procedendo in tutte le case circondariali. Dobbiamo proseguire su questa strada affinché le nostre carceri non diventino nuovi focolai di diffusione del Covid”. Sono 7.838 i detenuti nelle case circondariali lombarde (di cui 3.521 gli stranieri) su una capienza di 6.129 posti. Nella quarta ondata sono stati 1.500 i casi di detenuti positivi. Di questi cinque hanno avuto la necessità di ricorrere al ricovero ospedaliero e uno è in terapia intensiva (si tratta di una persona con due dosi di vaccino e con una situazione di comorbidità). Ad oggi i positivi sono poco meno di 800 (740), un dato che negli ultimi giorni si è mantenuto stabile e che indica il possibile raggiungimento del plateau. Ai detenuti lombardi il booster del vaccino anti Covid ha cominciato ad essere somministrato (senza differenze di fasce di età) nel mese di ottobre dell’anno scorso. Oggi la terza dose copre il 40% della popolazione carceraria secondo un piano vaccinale che ha privilegiato gli istituti carcerari con una maggiore presenza di detenuti “fragili”, come quelli di Opera e Sondrio che hanno raggiunto rispettivamente il 71% e il 61%. Al termine dell’audizione Antonella Forattini ha confermato la volontà di istituire il tavolo “Salute mentale e carcere” per “creare un gruppo di lavoro che possa confrontarsi con una patologia che purtroppo è molto diffusa negli istituti carcerari e che ha un impatto forte sulle comunità carcerarie in termini di benessere sociale e di utilizzo di risorse pubbliche”. Monza. Allarme dentro il carcere: 100 positivi su 600 detenuti di Marco Galvani Il Giorno, 28 gennaio 2022 “Cento detenuti positivi su poco meno di 600. Oltre a 24 agenti contagiati su poco più di 300. Fossimo un paese di mille abitanti, verremmo dichiarati zona rossa”. Per Domenico Benemia, della segreteria regionale Uil polizia penitenziaria, “la situazione all’interno del carcere di Monza è diventata insostenibile”. Punta il dito verso i vertici dell’Amministrazione penitenziaria, mentre “qui tutti lavorano senza sosta, senza orari, a cominciare dalla direttrice e dal comandante”. Ma “siamo allo stremo”. Vero è che tutti i nuovi detenuti in ingresso sono sottoposti a tampone molecolare o rapido e lo screening è effettuato anche sui detenuti che devono essere trasferiti da un istituto di pena a un altro, tuttavia i dati dell’ultimo monitoraggio comunicati dal provveditore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Pietro Buffa e dal responsabile della sanità nelle carceri della Lombardia, Roberto Ranieri, evidenziano che la percentuale di positivi e dei non vaccinati tra i nuovi ingressi è altissima, oltre il 90%. In via Sanquirico “in ogni sezione ci sono delle ‘bolle’ con positivi - continua il sindacalista -, non è possibile creare un unico reparto Covid” perché in carcere conta anche che reato hai commesso. Non è come in ospedale, certi detenuti non possono convivere con altri. E quindi “oggi ci ritroviamo ad avere sezioni chiuse, il regime delle cosiddette sezioni aperte è stato temporaneamente sospeso perché abbiamo positivi, quarantene e negativi”. Un clima “pesante” con “orari di lavoro che vanno ben oltre le sei ore previste dal contratto”. E a questo si aggiunge che “abbiamo appreso ufficiosamente l’apertura del nuovo padiglione ex femminile”, da anni abbandonato, che dovrebbe ospitare 90 detenuti in più “senza, però, la garanzia di ricevere rinforzi”. Oggi la casa circondariale di Monza ha 16 sezioni detentive maschili, con una capienza normalmente di oltre 600 detenuti, la metà stranieri. E un sovraffollamento di 200 detenuti rispetto alla capienza regolamentare prevista dal Ministero. Al momento comunicazioni ufficiali da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ce ne sono, ma la ristrutturazione dell’ex detentivo femminile è completata e dovrebbe ospitare circa 90 persone con ‘custodia attenuata’, come ad esempio i semiliberi. In ogni caso “serviranno nuove risorse - auspica il sindacato. Oggi a Monza gli agenti di polizia penitenziaria sono 320. Con qualche sacrificio possiamo anche dire di non essere sotto organico, ma con una sezione in più da gestire, è necessario l’arrivo di almeno altri 30 agenti”. Rieti. Claudio sta male e va curato, ma non è un uomo è un carcerato di Giuseppe Rossodivita Il Riformista, 28 gennaio 2022 Recluso da luglio, è in attesa di giudizio. Ma anche di cure. Paziente oncologico, affetto da epatite C: patologie trattate con successo prima di entrare in cella, quando era ancora una persona. Tempo fa, in occasione di una delle molte iniziative nonviolente di Rita Bernardini e dei Radicali volte a ottenere il rientro nella legalità delle carceri italiane, Sergio Staino disegnò una vignetta che raffigurava un uomo, con in braccio un corpo esanime, che rivolgendosi verso un altro uomo, vestito con la toga di un giudice, supplicando dice: “sta male, va curato”, ottenendo per risposta la seguente domanda: “è una persona o un carcerato?”. La feroce e allo stesso tempo amara satira di Staino, non è affatto lontana dalla realtà. Lo sa Claudio Marongiu, detenuto dall’11 luglio 2021 nel carcere di Rieti. Claudio non sta scontando una pena, è un imputato in attesa di giudizio, un’attesa che si consuma, insieme al suo corpo. Claudio ha 60 anni, è gravemente malato e dall’11 luglio del 2021, oltre a essere in attesa di giudizio è anche in attesa di conoscere l’evoluzione delle sue malattie. E, soprattutto, è in attesa delle cure. Sin dal suo ingresso in carcere Claudio ha riferito agli addetti del Servizio Sanitario Penitenziario di essere un paziente oncologico per un tumore epatico trattato nel 2017 presso il Policlinico di Tor Vergata e di soffrire di altre serie patologie, inclusa una epatite C sviluppata nel 2019: sono malattie dove la tempestività degli interventi terapeutici può fare la differenza tra la vita e la morte. Claudio per una vita ha lavorato in Rai, amava la musica, era consulente musicale prima di essere dichiarato totalmente inabile al lavoro proprio a causa delle sue malattie. Prima dell’ingresso in carcere Claudio “era una persona” e come tale era stata sino ad allora curata con successo grazie alle terapie somministrate inizialmente e ai successivi continui controlli di routine effettuati presso un istituto ad alta specializzazione com’è il Policlinico di Tor Vergata. Dopo l’ingresso nel penitenziario di Rieti Claudio ha smesso di essere una persona ed è diventato un ‘carcerato’, come quello rappresentato nella amarissima vignetta di Staino. I valori ematici di Claudio, a partire dai giorni immediatamente successivi all’ingresso in carcere, hanno sin da subito evidenziato una nuova sofferenza epatica, con una riattivazione, certa, dell’epatite C se non del suo tumore. Ma Claudio sino a oggi non è mai stato curato, anzi, a più di sei mesi dall’arresto Claudio non sa neppure quali sono esattamente le evoluzioni delle sue malattie. Il fisico di Claudio è sempre più debilitato, sta dimagrendo a vista d’occhio e in violazione del suo diritto alla salute la sua permanenza all’interno della struttura carceraria sta avvenendo in assenza di una diagnosi definitiva che permetta l’avvio tempestivo delle cure. Quando Claudio non era carcerato e dunque era ancora una persona, si curava a Tor Vergata, nota eccellenza italiana in ambito di malattie del fegato dove, come dovuto in un caso clinico complesso come il suo, veniva periodicamente sottoposto a visite specialistiche, ecografie, tac, risonanze magnetiche e a tutti gli esami strumentali diagnostici indispensabili per monitorare e scongiurare l’insorgenza di recidive oncologiche o di riattivazioni infettivologiche. Al contrario, da quando Claudio è carcerato, e dunque, come lascia intendere Staino, non è più trattato da essere umano, il Servizio di Medicina Penitenziaria dell’Asl di Rieti, pare essersi dimenticato di lui. A nulla sono valse le PEC di diffida inviate dai difensori, già dal mese di agosto 2021, così come a nulla sono valse le ripetute ordinanze del giudice monocratico del Tribunale di Velletri, con le quali sono stati sollecitati ulteriori e definitivi accertamenti diagnostici al fine di dare avvio alle necessarie terapie e, ove del caso, al ricovero presso il Policlinico di Tor Vergata. Il frutto raccolto si è concretizzato in un paio di relazioni sanitarie interlocutorie dove pure si evidenzia una “infezione da HCV in atto in attesa di accertamenti di II livello per escludere ripresa di malattia oncologica”. Ancora il 20 dicembre il Giudice ha “rilevato che occorre sottoporre con urgenza l’imputato ad una RMN dell’addome con contrasto al fine di definire nel più breve tempo possibile l’iter terapeutico da intraprendere”. E solo il 30 dicembre 2021, a circa 6 mesi dall’arresto, veniva effettuata la RMN. Ma Claudio, nonostante un’ulteriore ordinanza del Giudice per sollecitare l’invio degli esiti, ancora non sa nulla, Claudio può aspettare, come le sue malattie. Claudio non è una persona, è un carcerato, in Italia, Regione Lazio, città di Rieti, anno 2022. Firenze. “One Man Jail”, al debutto i giovani detenuti del Meucci di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 28 gennaio 2022 Debutto al teatro Cantiere Florida con lo spettacolo “One man Jail: le prigioni della mente”. La rappresentazione teatrale che vede al debutto i giovani detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze si inserisce all’interno dell’iniziativa “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che punta alla promozione della cittadinanza attiva e all’inclusione sociale, dando risposta ai due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future. Lo spettacolo, proposto e prodotto da Compagnia Interazioni Elementari, diretto da Claudio Suzzi, utilizza risorse digitali per un progetto di teatro in carcere che ha materializzato in scena in tempo reale i giovani detenuti dell’Istituto penale per i minorenni “G. Meucci” di Firenze per raccontare una storia di libertà, mentre il pubblico si è trasformato per due ore in un gruppo di prigionieri, o forse si è accorto di esserlo sempre stato, in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori. “Attraverso l’uso dello streaming con ‘One Man Jail’ proviamo a capovolgere tre punti di vista.” - ha dichiarato il regista Claudio Suzzi - “Il primo riguarda le modalità di fruizione del teatro in carcere. Di solito viene chiesto allo spettatore di entrare nell’istituto penitenziario, con tutte le limitazioni del caso. Con il collegamento live rendiamo molto più facile la possibilità di incontro tra città e carcere. Il secondo è quello che trasforma un’attività educativa, il teatro appunto, in una possibilità di lavoro vera e propria. Altro ribaltamento è quello relativo alla trama: il teatro che diventa carcere e il pubblico che si trasforma in detenuto, mentre la prigione da cui trasmettiamo va a simboleggiare la mente del protagonista”. Gallarate (Va). I ragazzi dell’istituto Falcone a confronto con la dura realtà del carcere di Roberto Morandi varesenews.it, 28 gennaio 2022 Grazie alla collaborazione con l’associazione Assistenza Carcerati e Famiglie gli studenti dell’istituto hanno incontrato un detenuto che sta espiando la sua pena e sta cercando un futuro diverso. “Se qualcuno cerca di tirarvi dentro, valutate ogni circostanza e soprattutto valutate le persone”. Antonio (nome di fantasia) è un ragazzone ben piazzato, è in carcere a Busto Arsizio per fatti (legati allo spaccio di droga) risalenti al 2011. Parla ai ragazzi e alle ragazze dell’istituto Falcone, sempre attento alla formazione completa dei ragazzi, senza schivare anche temi scomodi. Antonio è stato invitato alla scuola di via Matteotti a Gallarate grazie alla collaborazione dell’associazione Assistenza Carcerati e Famiglie e anche grazie al capo dell’area trattamentale del carcere di Busto Arsizio Valentina Settineri, dentro al progetto di educazione civica coordinato dal professor Mantica. L’intervento di fronte agli studenti ha prima di tutto messo in guardia sul rischio di fare scelte sbagliate, magari solo per leggerezza tipica dell’età, magari per voglia di emergere, di fare colpo a suon di soldi da spendere. Chi sbaglia e finisce in carcere si scontra con una realtà dura, più dura di quanto certi luoghi comuni suggeriscono a volte anche ai ragazzi. “Il carcere non è per deboli o per i fragili. Ci sono persone che ti avvicinano per chiederti favori in cambio di protezione” ha messo in guardia Antonio. Chi finisce in carcere per lo più entra “disarmato”, senza punti di riferimento, a volte persino senza i più elementari beni materiali. “Vedo ragazzi che entrano senza un euro, a volte persino senza vestiti. Perché magari la felpa ha il cappuccio o perché è un capo firmato, che non si può mettere”. Il tutto in un ambiente duro, dove bisogna guardarsi le spalle, anche se non manca a volte l’aiuto reciproco (“Non pensate ci siano solo lupi affamati”). Secondo la Costituzione il carcere deve puntare al riscatto del detenuto. Nella realtà è un tema difficile, perché le difficoltà materiali spesso superano la possibilità di pensare al proprio futuro. Ma ci sono anche storie positive, dai laboratori di lavoro che insegnano una professione alla possibilità di studiare: Antonio ha raccontato di essersi diplomato in amministrazione e marketing e di aver già trovato la possibilità di lavorare in uno studio professionale (nonostante non abbia ancora finito di scontare la condanna. Dallo studio e dal lavoro passa molto della riabilitazione della persona detenuta. Anche se poi molto viene dalla elaborazione personale. “Io non ho mai dato neppure una canna a un quindicenne, ma neppure a un trentenne. Ma indirettamente ho fatto del male, ne sono consapevole. Sono dispiaciuto per quello che ho fatto”. “Uno sbaglio, un errore non va a inficiare il futuro di una persona” ha ricordato Annitta Di Mineo, ex docente del Falcone, oggi in pensione ed impegnata proprio con l’associazione che assiste i carcerati di Busto Arsizio e soprattutto le loro famiglie, che indirettamente scontano anche loro una parte della pena, anche se non in carcere. Il Falcone sarà coinvolto anche nell’allestimento di “una mostra di opere in ceramica realizzate dai detenuti”, ha ricordato in conclusione Agostino Crotti, presidente dell’associazione Assistenza Carcerati e Famiglie. La musica nata nei lager salverà il mondo di Emiliano Moccia Vita, 28 gennaio 2022 Da più di trent’anni Francesco Lotoro recupera la musica scritta nei campi di concentramento e nei gulag: ha raccolto oltre 8mila spartiti, talvolta scritti persino sulla carta igienica. “Il musicista non canta il Lager, non lo esalta, né eleva la deportazione a elemento poetico, ma distrugge ideologicamente il Campo attraverso la musica”. A Barletta nascerà la Cittadella della Musica Concentrazionaria, dove questo inestimabile patrimonio troverà casa. “La musica prodotta in cattività, dal primo Lager all’ultimo Gulag, esorcizza questi luoghi, annichilisce le ideologie totalitarie, ci introduce a tempi migliori. Il musicista non canta il Lager, non lo esalta, né eleva la deportazione a elemento poetico, ma distrugge ideologicamente il Campo attraverso la musica. Il musicista deportato aspirò infatti a far crollare le mura di cinta del Campo cantando, suonando e scrivendo musica. Perché suonare per un musicista è un’esigenza fisiologica. Ed anche se scritta e composta in luoghi di sofferenza e prigionia, la musica risponde sempre ai suoi canoni estetici, senza lasciarsi disegnare dal ghetto, dal Lager o dalla restrizione”. Quello che sta compiendo il Maestro Francesco Lotoro è un lungo cammino di liberazione che ha preso il via nel 1988, da quando cioè ha iniziato a “liberare la musica”, a recuperarla, a restituirla all’umanità. Suoni, storie, partiture, documenti. Da più di trent’anni il pianista e compositore di Barletta recupera la musica scritta nei Campi di concentramento e nei luoghi di cattività civile e militare tra il 1933, anno dell’apertura del Lager di Dachau, e il 1953, anno della morte di Stalin e graduale liberazione degli ultimi prigionieri di guerra detenuti nei Gulag sovietici. Il suo meticoloso lavoro di ricerca racconta ed apre la conoscenza sul vastissimo patrimonio di Letteratura Musicale Concentrazionaria, composta da oltre 8mila spartiti e 10mila documenti, tra microfilm, diari, quaderni musicali, registrazioni fonografiche, interviste con musicisti sopravvissuti. Un incredibile bagaglio storico e culturale che lo ha visto viaggiare in tutto il mondo “perché preferisco andare di persona a recuperare il materiale che ci viene donato. Non si tratta solo di recuperare un manoscritto, uno spartito o un documento, ma di entrare nella storia del musicista che lo ha composto, nella storia dei sopravvissuti, che all’inizio del mio percorso ho anche avuto modo di conoscere personalmente, mentre oggi sono i figli o i nipoti che conservano e ci donano il materiale musicale che va ritirato, catalogato, riversato in supporti digitali”, racconta Lotoro. “C’è un lavoro immenso da portare avanti, come studiare la partitura di 500 musiche da eseguire per registrarle e conservarle per farle conoscere”. L’impegno di Lotoro e del suo staff rileva con forza l’importanza del 27 gennaio, in cui si celebra la “Giornata della Memoria” per ricordare la data in cui 76 anni fa le truppe sovietiche dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz rilevando al mondo, per la prima volta, la realtà del genocidio del popolo ebreo in tutto il suo orrore. In questa particolare giornata di sensibilizzazione, non va dimenticato che nei campi di concentramento furono deportati anche oppositori politici, omosessuali, malati di mente, persone con disabilità, testimoni di Geova, rom e sinti. Diritti negati e calpestati, storie di vita spezzate a causa dell’olocausto. Ma storie che in molti casi continuano a vivere ancora nelle musiche scritte dai detenuti nei lager nazisti e nelle prigioni sovietiche. “La musica prodotta in condizione di privazione dei più elementari diritti umani molte volte li ha aiutati, in molti casi li ha salvati, in altri non ha potuto evitare la morte”, prosegue il direttore d’orchestra e docente di pianoforte presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari. “La musica aveva poteri taumaturgici, guariva le persone, perché salvava il cervello dei deportati, permetteva al cuore di creare immaginarie vite parallele. La lingua, il sovraffollamento degli spazi, la spartizione del cibo creavano tensioni e problemi, mentre la musica tendeva ad unire le persone”. E Lotoro - che ha studiato, riprodotto e suonato migliaia di spartiti - non ha dubbi sul valore della Letteratura Musicale Concentrazionaria: “Un buon 60% sono dei capolavori; di questi, il 30% se fossero state eseguite a quei tempi, negli anni in cui sono state composte, avrebbero trasformato il linguaggio musicale. Ricostruire queste musiche, eseguirle, leggere gli spartiti è stato come scongelare un Mammut che adesso tutti possono scoprire”. Per realizzare le loro composizioni, quindi, deportati e prigionieri si affidavano a tutto ciò che capitava sotto le loro mani, a volte tirando una semplice linea su un pezzo di carta per fare un pentagramma. Ma c’è stato anche chi come “Rufold Karel, che soffriva di dissenteria, scriveva sui fogli di carta igienica con la carbonella. Con questa tecnica - rileva - nel carcere di San Pancrazio a Praga ha scritto un’opera intera di tre atti”. Per questo, oltre a costruire un archivio della musica sopravvissuta alla deportazione e ai campi di prigionia, Lotoro è impegnato anche a sensibilizzare e far conoscere questa imponente eredità umana ed artistica. Il libro “Un canto salverà il mondo” (Feltrinelli editori) racconta il viaggio che da più di trent’anni sta coinvolgendo il pianista e compositore pugliese. Un cammino che non è terminato. Anzi. Dal sogno di ricerca di Lotoro è nata la Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, creata nel 2014 dal musicista con un piccolo gruppo di altri soci fondatori a Barletta, la città dove verrà creata la Cittadella della Musica Concentrazionaria, “il più grande hub al mondo dedicato alla musica prodotta nei campi. Sorgerà nell’area e nelle strutture della ex Distilleria di Barletta, individuate dall’Amministrazione Comunale per essere recuperate e ristrutturate grazie ad un finanziamento pubblico del Piano di Riqualificazione delle Periferie. I lavori sono in stato di avanzamento. Si tratta di quasi 5 milioni di euro che rappresentano una cifra importante ma non sufficiente a completare il progetto. Per proseguire siamo in attesa che il Governo, rallentato sia dalla pandemia del Covid sia dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica italiana, si esprima su due progetti che abbiamo candidato a valere con il Contratto Istituzionale di Sviluppo della BAT IS e con i Piani di Valorizzazione. Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia, ma conto di poter effettuare la posa della prima pietra tra due o tre mesi”. Anche perché la realizzazione della Cittadella della Musica Concentrazionaria sbloccherebbe tutte quelle donazioni di documenti, fonogrammi, spartiti in attesa di essere consegnati dai famigliari dei musicisti sopravvissuti, che “rischiano di rovinarsi, di danneggiare la ricerca, e dall’altra parte consentirebbe di poter dare una casa a tutto il materiale che già abbiamo. Oltre al Comune di Barletta - dice Lotoro - devo ringraziare anche la Regione Puglia che ha deciso di sostenere per i prossimi anni i viaggi verso i Paesi in cui devo recarmi per recuperare il materiale ed incontrare i parenti dei musicisti sopravvissuti, come America, Australia, Israele, Francia, Gran Bretagna e tanti altri”. Cittadella Della Musica Concentrazionaria Intanto, Lotoro continua a girare, a raccontare di questo archivio e della storia di alcuni strumenti musicali incredibilmente ancora in vita. Come il violino, oggi patrimonio della Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta, appartenuto al violinista polacco Jan Stanislaw Hillebrand, che suonava nell’orchestra di Auschwitz. A donarlo alla Fondazione è stata la vedova, Hanna Hildebrand, che vive a Bay City, nel Michigan. Il violino è stato restaurato dal liutaio Bruno Di Pilato di Ruvo di Puglia. “Vogliamo condividere questo sogno con tutti - conclude Lotoro - affinché possa diventare tesoro artistico, culturale e spirituale del mondo, storia di tutti”. La sottile arte di manipolare l’informazione di Gianni Riotta La Repubblica, 28 gennaio 2022 Dalla Guerra Fredda ai No Vax, dalle fake news ai dossieraggi un saggio ripercorre il fenomeno di creare una verità alternativa. Il 5 maggio del 1971, il compunto funzionario Lawrence Bitt apparve davanti alla Commissione Giustizia del Senato americano dichiarando: “La ragione per cui la disinformazione funziona sempre così bene è che tanti giornalisti e politici vogliono davvero credere ai nostri messaggi, che confermano le loro opinioni”. Dietro lo pseudonimo “Bitt” si nascondeva in realtà la spia cecoslovacca Ladislav Bittman, dirigente della disinformazione per l’intelligence del Patto di Varsavia, e autore della leggendaria “Operazione Nettuno” del 1964, falsi documenti nazisti, che, misti ad autentici reperti hitleriani, vennero fatti ritrovare in un lago al confine con la Germania Ovest, per imbarazzarne i governi democratici. Quando l’Unione Sovietica occupa Praga, nel 1968, Bittman-Bitt, disilluso, emigra a Boston e rivela i piani di “disinformatja” del Cremlino. La novità filosofica, spiega Bittman, non consiste nel rilasciare bugie nel campo nemico, pratica antica come il Cavallo di Troia degli Achei, sotto le mura di Ilio, ma nel saper riconoscere chi tra gli avversari “vuol credere” al falso costruito ad arte, prediligendolo al vero: questa è la faglia attraverso la quale fiducia e consenso di una società decadono. Nel suo straordinario saggio “Misure Attive. Storia segreta della disinformazione”, tradotto ora da Paolo Bassotti per Luiss University Press (pagine 494, euro 24), lo studioso tedesco Thomas Rid, docente alla Johns Hopkins University, osserva acuto come, solo cinque mesi prima delle rivelazioni di Bittman al Congresso Usa, il filosofo Michel Foucault, nella celebre lectio magistralis “L’ordine del discorso”, tenuta al Collège de France, parlasse “della opposizione tra vero e falso” come di un sistema storico volto a conseguire il potere tramite l’esclusione, svelandone la reale natura: storica, arbitraria, modificabile e violenta”. Una spia colta osserverà più tardi che la campagna di disinformazione, dai No Vax e No Green Pass del nostro paese, alle campagne elettorali Usa 2016-2020, all’offensiva del presidente russo Putin in Ucraina 2022, usa le tecniche sofisticate del Dadaismo e del surrealismo del secolo scorso, creando una realtà illusoria, che da milioni di persone viene scelta invece come vera. La studiosa italiana Franca De Agostini, in un saggio nel volume Il potere del pifferaio magico, curato da Gianna Fregonara, avverte severa: smentire le notizie false, il cosiddetto fact checking o debunking, è compito arduo, perché chi le condivide le crede “vere”, non false, e dunque serve ribaltargli addosso l’universo. Il saggio di Rid appassionerà il lettore per le spy stories avvincenti che lo percorrono, Feliks Edmundovic Dzeržinskij, la feroce spia sovietica che fonda la Ceka, madre dell’intelligence nell’Urss, è capace di evocare, fra i profughi zaristi, finte reti di resistenza ai soviet che erano solo miraggi, per far cadere in trappola i dissidenti aristocratici. Anche gli americani vengono raccontati in diretta con le loro catene di montaggio di bugie, dalla Guerra Fredda fino ai misteriosi Shadow Brokers, capaci di autoinfliggere all’intelligence Usa profonde ferite. Rid comprende quel che ancora elude il dibattito italiano, per provincialismo o eccessi di settarismo: se oggi le fake news sono così intrattabili, non è solo per la pervicace rete dei social media, i loro algoritmi, le cosiddette “stanze dell’eco” conformiste, o l’avidità di piattaforme come Facebook. È, soprattutto, per la crisi di fiducia dominante, il relativismo nichilista predicato da Foucault che, rinchiuso nei seminari dei college Ivy League, pochi danni faceva, pompato da lobby come l’Agenzia Ricerca Internet di San Pietroburgo, la “fabbrica dei troll” finanziata dal sodale di Putin Evgenij Viktorovic Prigožin, corrompe il dialogo civile su ogni tema, epidemia, economia, Quirinale, perfino la tragica morte di uno studente in fabbrica. Mentre tanti analisti e studiosi si illudono ancora su una opinione pubblica divisa in compartimenti stagni, i Giornalisti, i Docenti, i Disinformatori, gli Apostoli della Trasparenza, i Whistleblowers alla Greenwald, Snowden, Assange, l’Intelligence, il Cittadino online, Rid ci restituisce, crudele, cinica, spietata, la realtà, dove il campione di Wikileaks Julian Assange dialoga fitto fitto con le spie russe e gli hacker legati al Gru, intelligence militare, i giornali e le tv, a caccia di scoop, non guardano per il sottile su chi invia loro dossier segreti, perché, a che scopo e da quale canale, miscelando, alla Bittman-Bitt, senza scrupoli, Vero e Falso. Non ci sono dunque Buoni contro Cattivi nella battaglia contro la disinformazione, evento campale per la sopravvivenza delle democrazie. Ma credere, come vaticinò Foucault e come replicano, a caccia di briciole di audience i talk show corrivi sul Covid, che Vero e Falso siano uguali, e non opposti, ci perderà. Il grande inganno della retorica sullo stato di eccezione di Mariano Croce e Andrea Salvatore Il Domani, 28 gennaio 2022 Da più parti e a più riprese, su giornali e blog, in riviste accademiche e saggi scientifici, si avanza il sospetto che vent’anni fa siamo entrati in uno stato di eccezione permanente. Ed è bene che tremino i polsi, perché lo stato di eccezione ha quel potere infido che si attribuisce al diavolo: convince tutti che non esiste. Con stato di eccezione si designa infatti un colossale meccanismo di autoinganno che permette l’inverarsi di uno scenario distopico: l’intera popolazione di uno stato, per il timore di un pericolo incombente e letale (o meglio, così presentato), si piega a un baratto disperato che scambia la protezione della vita con la rinuncia alla libertà. È per questo che chi denuncia lo stato di eccezione si riferisce a qualcosa di ben più temibile di un semplice stato di emergenza, benché nel dibattito degli ultimi due decenni si tenda a sovrapporre i due termini. Le distinzioni - Proviamo invece a distinguerli. Lo stato di emergenza è una condizione di crisi imprevedibile, e dunque imprevista, che chiama il governo di un paese ad approntare misure temporanee, utili al superamento della crisi e destinate a essere revocate al termine di essa. Un attacco terroristico, un disastro ecologico, una crisi del debito sovrano, una pandemia: tutte situazioni rispetto alle quali le leggi ordinarie si rivelano tanto impotenti da richiedere misure emergenziali fino allo scampato pericolo. Con stato di eccezione si indica invece qualcosa di assai più minaccioso e pervasivo. Si tratta di un’impalpabile transizione di fase in cui l’emergenza da fine diventa mezzo: un governo utilizza surrettiziamente la legislazione di emergenza come strumento per avviare un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale di una comunità e lo fa proprio alimentando la minaccia da cui pur sostiene di voler proteggere la cittadinanza. Rispetto allo stato di emergenza, lo stato di eccezione segna quindi uno scarto qualitativo che comporta la deliberata manipolazione da parte delle autorità statali e la credula disposizione al raggiro da parte di cittadine e cittadini. È per questo che chi oggi utilizza lo strumento diagnostico dello stato di eccezione per leggere una qualsiasi crisi in atto lo fa in fondo per chiamare a una doverosa presa di coscienza: non crediate - mettono in guardia costoro - che l’intento del governo sia quello di risolvere la crisi, quando la crisi è proprio ciò che gli consente di ridurre sempre più il perimetro dei vostri diritti e delle vostre libertà. Ermeneutica del sospetto - Ed è qui che l’ipotesi dello stato di eccezione mostra la propria filiazione diretta dalla cosiddetta “ermeneutica del sospetto”: il grande diagnosta, refrattario all’inganno, sa, comprende, vede oltre, e cerca con disperata insistenza di ridestare i suoi concittadini (resi ciechi e servili da un pericolo che non c’è, e che, se c’è, di certo non ha le dimensioni che gli attribuisce la narrazione del governo). Ma, avverte sornione Giorgio Manganelli, “una segreta, ma accanita complicità ci lega alle cose che non esistono”. E lo stato di eccezione è una di quelle. Beninteso: non ci riferiamo alle distorsioni e agli abusi che i governi potrebbero attuare per imperizia o bieco tornaconto in fase di gestione delle crisi. No, quel che ci convince molto poco è la ben più onerosa tesi avanzata dai nostrani profeti disarmati, secondo cui sarebbero proprio i governi ad alimentare le emergenze. Tesi che non riesce a convincerci dacché a nostro avviso fondata su una svista macroscopica: si vuole con essa leggere negli avvenimenti degli ultimi due decenni (dalla reazione più che energica al terrorismo islamista alla gestione della pandemia tuttora in corso) una metamorfosi epocale che dallo stato di emergenza starebbe via via dragando le società democratiche nella palude illiberale dello stato di eccezione. E questo lucido catastrofismo pretende in tal modo di denunciare una strabiliante macchina dell’impostura che, dall’amministrazione Bush jr ai governi oggi in carica, segue fedelmente un progetto studiatissimo di asservimento dei popoli. Ecco: noi crediamo che alla lista delle cose che non esistono vada senz’altro aggiunta la capacità di un governo - figuriamoci di più governi assieme - di ideare e realizzare un progetto di lungo corso, tantomeno uno che voglia propiziare una trasformazione palmo a palmo del modo in cui vivono intere popolazioni. Insomma, la teoria dello stato di eccezione permanente non regge proprio perché, tra le altre cose, si aspetta troppo da complessi farraginosi e intricati come le amministrazioni statali (alcune, com’è noto, più farraginose e intricate di altre). Sicché il problema dell’ipotesi eccezionalista è di una sovrabbondanza che sfocia in addomesticata paranoia. Chi evoca lo spettro dell’eccezione non vuole solo che siano necessari uno scrutinio costante, un’attenzione meticolosa, un plastico senso della misura quando si tratta di valutare, uno per uno, i provvedimenti che un governo adotta per gestire una crisi. Sin qui, del resto, come potremmo dissentire? L’ipotesi grilloparlantesca tracima in teoria della cospirazione quando assegna a questi provvedimenti un’intenzionalità più che metodica e una capacità che va ben oltre quella di qualsiasi misura governativa o legge dello stato. I governi che sfruttano le emergenze per creare promettenti eccezioni avrebbero niente meno che l’obiettivo di trasformare un’intera forma di vita, di impiantarvi modelli di condotta inediti, di plasmare menti e persone perché possano interiorizzare una disposizione istintiva alla sottomissione senza protesta. Questa quindi la natura profonda e menzognera dello stato di eccezione che si ritiene da più parti ineludibile svelare: un’orchestrazione minuziosa di un grande inganno collettivo con cui si fa credere, ma con digeribile gradualità, che l’emergenza non passerà mai, che la crisi sia destinata a durare, che le maglie strette del governo debbano farsi ancora più strette. Tutto questo, con l’aggravante di utilizzare la paura, che, ben più e meglio della minaccia esplicita, consente di modellare un’intera popolazione perché si conformi docile persino ai comandi più inusitati. Ma siccome lo stato di emergenza è una cosa seria, non è raccomandabile a nostro avviso lasciarsi travolgere dal parossismo di una tesi tanto accattivante quanto, ci pare, campata in aria. Verificare e argomentare - Occorre piuttosto tenersi fermi allo studio vigile della legislazione emergenziale e verificare punto per punto se essa risponde in modo efficace alla condizione di crisi che si vuole superare. Esaminare, limitare e circoscrivere ogni singolo provvedimento, non tanto per la paura di trovarsi dinanzi a un totalitarismo imberbe, quanto perché il rischio serio - e questo sì, gravosissimo - è quello dell’inefficacia e dell’inefficienza. Contro queste afflizioni perpetue della politica statale (prima dichiarata moribonda ora temuta come onnipotente), occorre dar vita a un concorso virtuoso tra diversi attori e diverse agenzie - com’è naturale nel caso di una pandemia, in cui il sapere indispensabile alla comprensione e alla gestione degli eventi vede unita in uno sforzo comune una congerie di collettivi, ben al di là dei soli organi governativi e delle altre istituzioni statali: università, centri studio, laboratori, osservatori, organizzazioni della società civile, media, e così via. L’emergenza è costitutivamente impossibilitata alla transizione di fase denunciata dagli eccezionalisti quando rimane visibile, discussa, partecipata, e quando sa ammettere al tavolo di lavoro, con le dovute cautele (e i dovuti dispositivi di protezione individuale), anche le forme meno razionali di dissenso, facendo sì che esse non si chiudano in una rumorosa lagnanza ma provino in qualche modo a sostanziare in modo argomentato le loro tesi. Insomma, lo stato di emergenza, benché tutt’altro che desiderabile, può essere persino un terreno di rivivificazione politica quando esalta i processi di cooperazione democratica a ogni livello, pur comprimendone inevitabilmente tempi e dinamiche. Argomentare, ascoltare, discutere. E mai demonizzare. Nulla di nuovo, come si vede. È la ricetta classica della filosofia. Sin dai tempi in cui la volontà di rispettare leggi ritenute ingiuste comportava la somministrazione della cicuta, non del vaccino. I farmaci? Le nuove droghe dei giovani di Fiammetta Cupellaro La Stampa, 28 gennaio 2022 E i genitori se ne accorgono quando chiama il pronto soccorso. Ansiolitici, antinfiammatori: il consumo inizia spesso a 13-14 anni e i ragazzi sono convinti di poterli gestire. Mixandoli con alcol e cannabis. Intervista a Claudio Leonardi presidente della Società italiana patologie da dipendenza. Farmaci e droghe. O meglio, farmaci usati come droghe. Dai giovani alla ricerca di un modo semplice e poco costoso di sballare. Psicofarmaci, ansiolitici, sonniferi, antidepressivi, stabilizzanti dell’umore, i farmaci oppioidi, utilizzati nella gestione del dolore che non solo lo alleviano, ma rimuovono la componente emotiva e per questo spesso usati come stupefacenti dai ragazzi: inducono euforia. E poi le droghe sintetiche. Secondo il rapporto redatto dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze del 2019, dal 2005 alla fine del 2018, sono oltre 730 le nuove sostanze psicoattive che compaiono e scompaiono dal mercato prima di essere inserite nella tabella delle sostanze stupefacenti. Sostanze psicoattive, oppiacei, i cannabinoidi sintetici, gli stimolanti come le amfetamine, e le benzodiazepine. Sempre dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze del 2019: “Tra le persone che iniziano per la prima volta il trattamento della tossicodipendenza per un problema legato agli oppiacei, una su cinque segnala un oppiaceo sintetico”. Ad esempio, la codeina in Italia dovrebbe essere venduta solo con ricetta medica. Ma procurarsela è facile, come spiega Claudio Leonardi, direttore UOC Patologie da Dipendenza ASL Roma 2 e presidente della Società italiana Patologie da Dipendenza: “Per lo sballo i ragazzi vogliono spendere poco, per questo cercano sempre sostanze nuove. Preferiscono però i farmaci alle droghe perché hanno l’illusione di poterne gestire l’uso e l’effetto. Iniziano ad usarle a 13 anni e a 16 sono già dei chimici. Fanno i mix con alcol e cannabis, se le scambiano. Soprattutto dalla loro parte è che sono legali e l’assunzione di queste pillole le considerano quasi al pari di una sbornia. Le trovano in internet o addirittura nei cassetti di casa. Si informano in rete, sanno quali assumere, come mescolare pillole e gocce per ottenere lo sballo. I genitori? Se ne rendono conto quando li chiama il pronto soccorso. Fino a quel momento pensano di poter gestire il problema da soli, ma purtroppo non è così”. O forse, invece, l’avevano già capito prima quale fosse il problema, “ma è difficile ammetterlo” dice ancora Leonardi. “Quando ad esempio dai cassetti spariscono ansiolitici, i farmaci in assoluto più usati al mondo, dopo i comuni antinfiammatori (usano anche questi) bisogna intervenire in fretta perché l’uso prolungato di questi medicinali può provocare danni seri: tremori, eccitazione, tristezza, delirio, allucinazioni difficoltà a pensare e ad esprimere le proprie emozioni”. Claudio Leonardi, dal suo osservatorio della Asl Roma 2 (una delle più grandi d’Italia, con il suo milione e 300 mila residenti: il 45% di tutta la popolazione del comune di Roma) le paure e le ansie degli adolescenti le conosce bene. Decine di famiglie che ogni mese chiedono di poter accedere ai Servizi per gli adolescenti, nome che fa meno paura, ma che gestisce anche le tossicodipendenze per gli under 18. Leonardi conosce la ricerca dei ragazzi di trovare un antidoto a quel senso di inadeguatezza che caratterizza questo periodo della vita, fondamentale per la formazione. “Sono tanti i ragazzi che seguiamo e sono sempre di più, il più piccolo ha 13 anni, i più grandi 26-27. Ora abbiamo una lista di attesa. Come facciamo ad intercettarli? Arrivano da noi quando purtroppo finiscono in ospedale. Recuperati all’interno di un locale oppure in seguito a un incidente stradale: se l’ospedale prevede protocolli di collaborazione con strutture adeguate per la dipendenza, come accade a Roma dove c’è una rete di servizi, scatta la segnalazione, altrimenti vengono rimandati a casa. Altre volte, sono costretti ad avere colloquio con gli specialisti perché devono scontare sanzioni in seguito ad un iter giudiziario, oppure, arrivano da altri istituti sanitari dove i ragazzi sono andati accompagnati dai genitori per altre patologie e poi ci si accorge che il problema è la dipendenza da farmaci o da droghe. L’età comunque del consumo si è abbassata: iniziano a 13-14 anni”. A quell’età piace sperimentare per vincere i freni inibitori, per dimostrare di essere all’altezza. Ma non solo. Spiega ancora il dottor Leonardi: “Il nostro osservatorio sono le loro storie. Spesso ci raccontano di non uscire con il preciso scopo di sballarsi, ma che vengono convinti da una serie di fattori: l’accettazione da parte dei coetanei, oppure la voglia di continuare a divertirti quando il fisico non regge più e si cerca “l’aiutino”. Qualcuno per sentirsi come gli altri, arriva in discoteca con una scatola di farmaci o di pillole di droga sintetica, magari le scambia con un paio di bicchieri, oppure le rivende perché qualcuno paga il suo biglietto di entrata nel locale. Ma il problema è che oggi i ragazzi non consumano droghe o farmaci solo quando sono in gruppo, di notte o di giorno, ma le assumono anche da soli, a casa. Ti sballi nella tua camera e i tuoi genitori pensano, ‘sta solo dormendo’. Ma non c’entrano l’ansia o la depressione: la prendono perché così fanno anche gli altri o ‘perché sto meglio’“. E quando i genitori chiedono aiuto? “Quando l’abuso di farmaci o di droghe entra in una fase acuta, oppure i loro figli hanno rischiato di morire perché in quelle condizioni si sono messi alla guida della macchina. A quel punto sono disperati. Quando si rendono conto che il figlio o la figlia sta male sul serio, allora si rivolgono ai servizi, ma alcune volte è tardi. Perché chiariamo una volta per tutte, gli alti dosaggi di questi farmaci, il loro abuso, possono creare un danno profondo e radicato, come le droghe. La dipendenza può provocare scompensi seri all’equilibrio psicofisico dei ragazzi, causare perfino problemi neuropsichiatrici. Come per le droghe. Effetti come le allucinazioni o i deliri continuano anche quando non si assumono più. Alcune volte, purtroppo, i danni sono irreversibili e si può arrivare ad una patologia psichiatrica vera e propria con cui confrontarsi tutta la vita. La tolleranza del consumo è individuale e non prendono una cosa solo, ma è un mix tra psicofarmaci, droghe e alcol”. Allora cosa fare? Spiega ancora il dottor Leonardi: “Mi sento di lanciare un appello ai genitori soprattutto a prendere una decisione in fretta. Mi rendo conto che prendere atto del problema sia molto faticoso, ma prima si interviene e più sarà possibile tornare indietro dai danni provocati all’abuso. Occorre fare attenzione ad alcuni segnali, come gli improvvisi cali di rendimento scolastico, la richiesta di denaro, sbalzi di umore, perdite di interesse per qualcosa a cui tenevano molto. Purtroppo, si cerca di sottovalutare il problema, ma è meglio non farlo. Ci sono strade per il recupero dei ragazzi. Ci sono terapie personalizzate per gli adolescenti che in genere vengono assistiti da terapisti specializzati in base alla loro fascia di età. E se non si riesce a convincere il proprio figlio o la propria figlia a farsi aiutare, bisogna che siano i genitori a rivolgersi ugualmente allo specialista che li aiuterà a ritrovare quel rapporto di fiducia con il ragazzo o la ragazza. L’importante che la famiglia sia consapevole del problema. Altrimenti il rischio è che quegli sballi da ragazzino li segneranno per sempre”. Negli Usa scattano le “purghe” dei libri di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 28 gennaio 2022 “Scontro” nelle scuole. All’offensiva principalmente gruppi conservatori, talvolta finanziati da miliardari di destra come il gruppo Koch. Le guerre culturali che scuotono l’America - dal razzismo all’aborto passando per vaccini e mascherine anti-pandemia - da tempo sono arrivate anche nel mondo dell’istruzione. Il 2021 è stato un anno di scontri furibondi nei distretti scolastici degli Stati e anche tra gli attivisti che si sono fronteggiati nei school board di città e contee. Dove inveire contro lacritical race theory (l’America fondata sullo schiavismo e non sulla libertà dal colonialismo britannico) o contro il white saviorism (i bianchi accusati di paternalismo da afroamericani che vedono nella loro adesione ai diritti civili delle minoranze solo un gesto di facciata) è diventato un modo per scavare trincee da dove vengono sparati tentativi di mettere al bando centinaia di libri genericamente accusati di avere contenuti osceni o di trattare i rapporti razziali e i diritti dei gay in modi non condivisi da molti, soprattutto a destra. Libri di testo scelti dai distretti scolastici, ma soprattutto quelli delle letture che riempiono gli scaffali delle biblioteche degli istituti. All’offensiva principalmente gruppi conservatori come Moms for Liberty e Parents Defending Education: dietro l’apparenza di iniziative spontanee di famiglie degli studenti, spesso spuntano strutture politiche finanziate da miliardari di destra come il gruppo Koch. Per l’Ala, l’associazione dei bibliotecari americani, il fenomeno è in crescita esponenziale: nel solo ultimo trimestre dell’anno appena concluso è stata chiesta la messa al bando di 330 libri: più del doppio dei 156 dell’intero 2020. Ogni richiesta, sostiene l’Ala, produce un effetto-valanga. In Texas a ottobre il parlamentare Matt Krause ha seminato il panico nelle biblioteche inviando a tutte una lista di 850 libri su materie varie, chiedendo se ne avevano, quante copie e quanto avevano speso. Oltre che in Texas le “purghe” dei libri si stanno diffondendo in Virginia, Kansas, Utah, Wyoming e Pennsylvania dove, però, la messa al bando anche di libri per bambini su Martin Luther King e Rosa Parks è stata revocata dopo una rivolta degli stessi studenti. Non si fa attendere la reazione della sinistra radicale vogliosa di spedire in soffitta opere letterarie in odore di paternalismo razziale come Il buio oltre la siepe di Harper Lee o Uomini e Topi di Steinbeck, mentre rischia anche Mark Twain per gli epiteti sui neri di Huckleberry Finn. Guantánamo: l’inutile e più costoso carcere di massima sicurezza al mondo di Luciano Bertozzi africa-express.info, 28 gennaio 2022 Secondo Human Right Watch la prigione resta uno dei simboli più duraturi dell’ingiustizia, degli abusi e del disprezzo per lo stato di diritto. “Guantánamo Bay, 20 anni di ingiustizie e violenze”. Così Amnesty International intitola il comunicato per ricordare il “compleanno” del carcere, realizzato per ottenere informazioni a scapito dei diritti umani. Il luogo di detenzione è, infatti, uno dei frutti avvelenati della guerra globale al terrore. “In tutto il mondo, Guantánamo rimane uno dei simboli più duraturi dell’ingiustizia, - afferma Human Right Watch - degli abusi e del disprezzo per lo stato di diritto che gli Stati Uniti hanno scatenato in risposta agli attacchi dell’11 settembre.” L’11 gennaio del 2002 arrivarono, infatti, i primi due detenuti: il tunisino Ridah bin Saleh al Yazidi e lo yemenita Ali Hamza Ahmad Suliman al-Bahlul. “Trasferimenti segreti, interrogatori in regime di isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame - afferma Amnesty - torture, sparizioni forzate, totale diniego del diritto a un giusto processo. Questo è quello che perpetuano da 20 anni le autorità degli Stati Uniti”. Le organizzazioni internazionali e non governative hanno denunciato ripetutamente la drammatica situazione, accusando gli Stati Uniti di sevizie e di altri trattamenti inumani e degradanti in violazione del diritto internazionale. La risposta a tutti questi appelli? Il più assordante dei silenzi. Durante questi due decenni sono transitati a Guantanamo 780 prigionieri e ne sono stati rilasciati oltre 700, provenienti da 59 Paesi e attualmente ne restano 39. L’estate scorsa è stato trasferito un detenuto marocchino, il quale avrebbe dovuto lasciare la prigione militare nel 2016, ma ha dovuto trascorrere un altro lustro dietro le sbarre, pur non essendoci accuse a suo carico. Tutti i detenuti hanno trascorso nella famigerata prigione più di 12 anni, ma qualcuno è rimasto anche quasi venti anni. I detenuti provengono per lo più da Paesi arabi ed africani (Yemen, Arabia Saudita, Algeria, Tunisia, Pakistan, Malaysia, Afghanistan, Libia, Kenya e Indonesia) e sono stati presi arrestati in dieci Paesi: Afghanistan, Egitto, Georgia, Gibuti, Iran, Kenya, Pakistan, Thailandia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti. Almeno 24 di loro, prima di arrivare a Guantanamo, sono stati sottoposti a sparizioni forzate e detenuti in luoghi segreti, per un periodo variabile, da uno a sei mesi o anche oltre, ad opera della CIA. È eclatante il caso di Abu Zubaydah (Zayn al Abidin Muhammad Husayn), un palestinese che si trova a Guantanamo da 19 anni, detenuto a tutt’oggi in base alla legge di guerra e ha trascorso oltre 1.600 giorni, cioè quasi 5 anni della sua prigionia in località segrete! La sua storia, comprende una lunga lista di sevizie, è emblematica: prima di arrivare a Guantanamo è stato sottoposto a soffocamento con l’acqua, a nudità prolungata, costretto in posizione stressante, privato di sonno, e cibo, sottoposto ad attacchi psicologici, a reclusione in un box. Le autorità USA hanno dichiarato che il rilascio di questo carcerato avrebbe potuto creare un grave rischio per la sicurezza nazionale. Anche lo yemenita Ramzi bin al Shibh è stato detenuto in “black site” per circa 1.300 giorni e per una durata di poco inferiore (oltre 1.200 giorni), il pakistano Khalid Shaikh Mohammad e il saudita Mustafa Ahmad al-Hawsawi, rischiano, inoltre, la pena di morte. Ovviamente si tratta di condotte vietate dal diritto internazionale. L’elenco dei Paesi in cui si trovavano queste prigioni segrete è una notizia classificata. Amnesty ritiene tuttavia che questi luoghi di detenzione si trovino in Afghanistan, Polonia, Romania, Thailandia, Lituania e Marocco. Il saudita Abd al-Rahim al-Nashiri, considerato la mente dell’attacco alla nave militare USA Cole e di altri attentati marittimi, è stato fatto prigioniero negli Emirati Arabi Uniti e poi detenuto in siti segreti della CIA in diversi Paesi per circa 1.400 giorni prima di essere trasferito a Guantanamo. Anche lui è stato sottoposto a waterbording. Ma non tutti tacciono davanti a tali crimini. Il 24 luglio 2014, la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha stabilito che la Polonia - secondo un articolo della BBC del 24 luglio 2014 - aveva violato la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, consentendo alla CIA di trattenere e torturare Zubaydah e Abd al-Rahim al Nashiri sul suo territorio nel 2002-2003. Il tribunale ha condannato il governo polacco a pagare a ciascuno degli uomini 100.000 euro di risarcimento. Il 31 maggio 2018, la Cedu ha stabilito - secondo quanto riferisce la BBC il 31 maggio 2018 - che anche la Romania e la Lituania hanno violato i diritti di Abu Zubaydah e Abd al-Rahim al-Nashiri rispettivamente nel 2003-2005 e nel 2005-2006, e la Lituania e la Romania sono state condannate a pagare 100.000 euro di danni a ognuno. L’inutilità del carcere, nella punizione dei colpevoli degli attentati dell’11 settembre è anche evidenziata dai dati: solo otto sono stati condannati dalle Commissioni militari, cui spettava il compito di processarli. Dei 39 detenuti attuali - afferma Amnesty - 12 sono sotto la giurisdizione del tribunale di guerra delle Commissioni militari: tre sono sotto processo in attesa di verdetto, sette sono in fase processuale, mentre solo due sono stati condannati. Inoltre, 14 detenuti sono in uno stato di detenzione indefinita in base alla legge di guerra, non devono affrontare altri processi, né saranno rilasciati. Tredici sono incarcerati per motivi di guerra, ma sono stati segnalati per il trasferimento con accordi di sicurezza in un altro Paese o con un Paese terzo. Secondo The Dark Side di Jane Mayer, Michael Dunlavey, generale in pensione, nonché ex comandante operativo a Guantánamo, stimò che almeno la metà dei prigionieri sia stata trattenuta per errore. Uno studio della Seton Hall University Law School conclude che almeno il 55 per cento dei prigionieri detenuti a Guantanamo non ha mai compiuto atti ostili contro gli Stati Uniti e solo l’8 per cento ha avuto rapporti con al Qaeda. Questo fallimento dal punto di vista dell’accertamento delle responsabilità degli attentati si accompagna a costi enormi. In base a quanto riportato dal New York Times, per mantenere Guantanamo contribuenti degli States pagano 540 milioni di dollari l’anno, circa 13 milioni per ogni detenuto. Tuttavia tali stime potrebbero essere inferiori, a causa della segretezza dei dati reali. L’ex presidente Obama cercò di chiudere il carcere, ma senza successo, per le resistenze del Congresso. Urge mettere un punto finale definitivo a Guantanamo e portare i responsabili a processo in un tribunale. Guerra o pace: in Ucraina sceglierà Putin di Stefano Stefanini La Stampa, 28 gennaio 2022 A metà dicembre la crisi ucraina è passata dalla cottura a fuoco lento all’ebollizione con l’ultimatum russo di due trattati con Usa e Nato. È diventata crisi fra Russia e Occidente (Usa, Nato e Ue), oltre che fra Mosca e Kiev. I russi non si accontentavano di discuterne a voce. Volevano risposte scritte. Ora le hanno ricevute da entrambi. Non potevano che ripetere il no orale alle richieste russe e la proposta di un negoziato sulla sicurezza di tutti - della Russia che teme di essere minacciata dalla Nato, ma anche dell’Ucraina che è minacciata dalla Russia. Non sappiamo il contenuto delle risposte scritte, se non che confermano l’offerta di negoziare reciproche misure di controllo e riduzione armamenti, in particolare sui missili con testate nucleari a medio raggio, e altre misure di de-escalation militare in Europa. Più dello scritto sarebbe interessante sapere cosa si sono detti a voce americani e russi negli incontri bilaterali - se si sono detti qualcosa che vada appena al di là delle posizioni ufficiali. Perché, fermo restando il no alle richieste russe, un percorso negoziale esiste. Lo si può immaginare in tre stadi collegati: il primo è appunto quello di negoziati su forze nucleari intermedie e convenzionali, cui bisognerebbe aggiungere lo spazio extra-atmosferico un codice di condotta cyber; il secondo l’avvio, o ripresa via Consiglio Nato Russia, di un permanente dialogo di sicurezza con la Russia che possa poi sfociare in una nuova architettura di sicurezza europea; il terzo, il più difficile, riguarda il rapporto Russia-Ucraina. L’accordo Minsk II è un punto di partenza ma va aggiornato (è del 2015). Nulla vieta poi all’Ucraina - una volta sollevata dalla minaccia russa - di rinunciare alla Nato barattando neutralità per indipendenza e sicurezza. Con le garanzie del caso, beninteso. Ma lo deve fare l’Ucraina, non la Nato o gli Usa. Intanto però Mosca continua ad alzare la temperatura militare. Sta inviando (altre) truppe in Belarus per un’esercitazione militare congiunta - Determinazione Alleata 2022 - che schiererà dalla 60 alle 80mila unità. Lontano dal Donbas conteso ma a poco più di 300 km in linea d’aria da Kiev. Sta spostando verso il Mediterraneo un’ingente flotta, compresi mezzi da sbarco. La tenaglia intorno all’Ucraina continua a stringersi. Forse non sarà usata ma non è un bluff. È una pesante minaccia tesa a uno scopo. Le mete di Putin sono la zona d’influenza russa in Europa, il ritorno dell’Ucraina sotto l’ala di Mosca e il ritiro della Nato. La risposta americana apre prospettive negoziali che possono spingersi fino a metà strada: una stabilizzazione della sicurezza in Europa, meno truppe della Nato ai confini della Russia in cambio di meno truppe della Russia a quelli della Nato, un’Ucraina che sia libera di scegliere altre formule di sicurezza - per il momento, comunque, l’ingresso di Kiev nell’Alleanza è in altissimo mare. La Russia lo sta usando come pretesto. Le condizioni per negoziare dunque ci sono. Se negoziare è quello che Mosca vuole. Aspettiamoci due-tre settimane di diplomazia. Putin andrà a Pechino per le Olimpiadi invernali. Non inizierà una guerra che romperebbe le uova nel paniere all’amico Xi del cui appoggio ha più che mai bisogno. Intanto, le grandi pianure geleranno completamente, condizione ideali per i cingoli dei carri armati, dicono gli esperti militari. Per ora la Russia torna al dialogo, con gli americani di sicuro, forse anche con la Nato. Ma quanto in buona fede? Mosca ha già messo le mani avanti. Non c’è un granché da essere ottimisti hanno detto i portavoce vari ma “il Presidente sta studiando” le risposte ricevute. Con calma. In pratica sarà una sola persona, Vladimir Putin, a sciogliere il nodo guerra e pace. Avrà sicuramente letto Tolstoj per cui saprà a cosa va incontro con l’una o con l’altra. Questo è forse l’unico filo di speranza. Così la Tunisia scivola nella dittatura di Domenico Quirico La Stampa, 28 gennaio 2022 La culla delle Primavere arabe piegata da Kais Saied. Il presidente autocrate ha cancellato Parlamento e oppositori, ma la Sapienza gli ha dato un dottorato. Per dieci anni le cancellerie occidentali si sono affaticate a cancellare, dietro neppur troppo spesse dissimulazioni retoriche, quelle che un tempo chiamavamo le Primavere arabe. Operazione riuscita, con maggiori o minori affaticamenti, ovunque: in Egitto con l’avvento di un Mubarak meno bolso e più spietato di quello vecchio, in Libia con la spartizione di fatto del Paese in zone di influenza affidate momentaneamente a lillipuziani proconsoli in attesa di trovare una reincarnazione efficiente dell’indimenticabile Colonnello. In Siria si è provveduto con la opportuna permanenza al potere di Bashar Assad che offre ampie garanzie. Mancava all’appello termidoriano proprio la piccola Tunisia dove tutto era iniziato. Insomma bisognava trovare dopo dieci anni di penoso cabotaggio democratico infarcito di paralisi politica, stagnazione economica e sociale, corruzione, tentazioni jihadiste, un altro Ben Ali che facesse da esorcista e ristabilisse la nostra omertà di combriccole utilitarie: ovvero ordine, buoni affari, garanzie contro islamisti e soprattutto contro i migranti. Sì, a noi che siamo i messia dei diritti umani nel Terzo mondo piacciono i dittatori ma li vogliamo circoscritti e maneggevoli. La via del potere personale - Ebbene ora l’uomo c’è: Kais Saied, presidente allergico a qualsiasi ostacolo che si frapponga alla sua volontà, ovviamente emanazione diretta e incontestabile del volere del Popolo. L’autocrate è in smania di autoaffermazione, marcia a passo da bersagliere sulla via del potere personale e della dittatura solitaria. Evviva! Dunque tutto è tornato in ordine sulle rive del Mare Nostrum, abbiamo adeguato le opinioni ipercelesti di democrazia ai costumi sotterranei di tirannide. Per dare corpo a questa ennesima, e neppure originalissima, reincarnazione di caudillismo musulmano, vecchio scheletro a cui si da nuova polpa, Saied ha proceduto alla chiusura del parlamento a tempo indeterminato, alla revoca della immunità ai deputati molti dei quali sono finiti sotto processo, e crocifigge tutti coloro che lo criticano alle qualifiche di “traditori”, “ladri”, “corrotti” al soldo di poteri occulti. Promettendo ovviamente di non toccare libertà e diritti via via che li getta nella polvere, annuncia di voler trasformare in un vuoto secco, dissacrato e profano la faticosa Costituzione del 2014 costruita attorno a un equilibrio dei poteri che bloccasse appunto i tentativi possibili di un ritorno autoritario. Ne annuncia infatti una sostanziale revisione. Vediamola dal vivo. La “revisione” - Al posto del detestato Parlamento ci saranno fumosi alambicchi consultivi, “consigli locali” a metà tra i soviet e le ubbie del primo Gheddafi, che verranno sottoposti chissà quando a “referendum”. Operazione che già in se stessa appare come golpista perché dovrebbe esser votata dal Parlamento che non esiste più e sotto il controllo di una corte costituzionale che non è mai stata costituita. Su quella Costituzione, peraltro frutto misto, precario, incerto tra varie astrazioni sono stati spalmati da questa parte del Mediterraneo chilometri di ipocrita inchiostro elogiativo (“Vedete, pessimisti e miscredenti, nei Paesi arabi la democrazia è possibile”). Ai meritevoli di quella impresa sono stati distribuiti encomi e riverite patacche. L’incarico alla Sapienza - Questa vicenda che ora si racconta si svolge a Roma e può sembrar minore, una sciaguratissima gaffe, ma scopre bene molte bugie d’occidente. Dunque: tra queste patacche, nel giugno dello scorso anno, si iscrive anche un dottorato di ricerca in diritto romano assegnato in palandre accademiche dalla università romana La Sapienza proprio al super presidente, Kais Saied, per il “contributo decisivo dato allo sviluppo del dialogo tra ordinamenti giuridici fondato sul rispetto reciproco e la valorizzazione dei diritti umani”. Il 25 luglio il delittuoso Democratico realizzava il golpe assumendo i pieni poteri “per salvare la nazione”. A chiudere il parlamento spedì un carro armato facendo appendere la scritta “sospeso” come un negozio che vendeva merce avariata. Si constata, per attenuare: ma la università romana non poteva prevedere con un mese di anticipo la mossa golpista! Ai professori forse smarriti tra le delizie delle “res mancipi” e della “iurisdictio”‘ non dovevano sfuggire le reiterate fatwe di Saied contro la fastidiosa sopravvivenza di partiti, parlamento, società civile che definiva “vecchie schiavitù di cui bisogna liberarsi”, gli ispiravano fobìe e la sgangherata idea che “la democrazia sia la corrispondenza tra capo e il suo popolo che non sbaglia mai. In fondo la democrazia rappresentativa è in fallimento anche in occidente”. Come dargli torto! Sono sfuggite ai giureconsulti romani anche altre ideuzze del presidente: favorevole alla pena di morte ad esempio o contro la depenalizzazione della omosessualità. Vabbè, si può sorvolare su questi brutti segni premonitori, su questi imprudenti miscugli tra sacro e profano. Lo scandalo semmai è che da quel 25 luglio nessuno ha preso la unica decisione che consentirebbe di salvare il pudore politico e accademico, ovvero di sospendere o revocare il dottorato. Altrimenti il termine giuridico da utilizzare diventa quello di correità. Non è una scusa che una folta parte dei tunisini, come avviene a tutte le latitudini alle apparizioni dell’uomo della provvidenza che promette di far piazza pulita dei ladri (che certo non mancavano nella balbuziente democrazia del decennio) e degli affamatori del popolo, all’inizio applaudisse infervorata i sermoni di Saied. Tra loro, a guardar bene, anche i nostalgici di Ben Ali che intravedevano insperate occasioni di “revanche” affaristica. Nel frattempo però migliaia di tunisini rinsaviti sono tornati in piazza per protestare contro il presidente, richiamati oltre che dal partito islamista Ennahda anche dalle formazioni centriste e di sinistra riunite in un “collettivo contro il colpo di Stato”. Non è evidentemente quello il popolo a cui Saied riconosce la P maiuscola: manifestazione vietate “per Covid”, i gendarmi che fiutano l’aria e si sfrenano nei vecchi buoni metodi del tempo di Ben Ali, intimidazioni, manganellate, feriti, arresti, un sostenitore del partito islamista morto, un giornalista del francese “Liberation” picchiato. Salviamo le apparenze - Nel frattempo però i vezzeggiamenti da parte delle cancellerie verso il raiss di Cartagine si sono moltiplicati, con qualche pudibondo invito a non esagerare nel nuovo corso. Insomma: salviamo le apparenze. In questo incensamento ci siamo distinti, con la visita del ministro degli esteri al palazzo di Cartagine, ministro incantato dalla splendida ed esemplare collaborazione tra i due Paesi. E poi ci sorprendiamo che nel Nord Africa al Qaida avanzi arruolando legioni di disgustati dell’Occidente. Nonostante la boria da caid messianico e il raffinato arabo letterario che utilizza al posto del vernacolare “derja” tunisino (ma il popolo?) il Presidente è un personaggio in fondo banale, un travet senza fascino di questa epoca di illiberalismi populisti di gran moda su tutte le sponde, quando la proliferazione di larvate tirannidi sembra in grado di avvantaggiarsi sulle forze democratiche colpevolmente in declino o complici per interesse. Le Terze vie miracoliste - Questo avviene più lentamente in Paesi di antica tradizione liberale, in modo rapido in quelli più fragili e recenti come la Tunisia. Le “rivoluzioni legali”, “il popolo che diventa sovrano”, che “ha sempre ragione”, le Terze Vie miracoliste: quante volte purtroppo abbiamo sentito in un mondo di falsari queste bugie balbuzienti? In una rivoluzione dei gelsomini precocemente appassita nell’affarismo e nella corruzione inefficiente, irrompe il solito prepotente che proclama di esser l’unico capace di impedire che il popolo diventi ozioso, avido e lassista, ma che vuole semplicemente governare sul Paese da padrone, come se fosse a casa sua. Che si può fare in questa epoca incerta, tribolata, senza principi di inoppugnabile certezza? Come minimo non dar loro un dottorato e la mano. L’Isis e l’attacco al carcere in Siria: un incubo che ritorna (anche per l’Italia) di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 gennaio 2022 Da maggio il contingente italiano a Erbil (circa 1.100 uomini) assumerà il comando dei circa 5.000 soldati del corpo di spedizione internazionale. Il Califfato non è morto. A tre anni dalla loro sconfitta nell’ultima roccaforte di Baghouz, nella Siria nord-orientale, i fanatici jihadisti di Isis tornano a colpire forti e agguerriti. Lo dimostrano i sei giorni di furiosi combattimenti con le forze curde terminati solo poche ore fa per il controllo del grande carcere Gweiran, alla periferia della città di Hasakeh, nella regione autonoma che i curdi siriani chiamano Rojawa. “Oltre un migliaio di guerriglieri di Isis giovedì scorso avevano fatto irruzione nel carcere, erano ben armati e con parecchie munizioni. A loro si sono unite alcune centinaia tra i prigionieri. I testimoni raccontano di episodi di violenza gravissima, incluse le prese di ostaggi tra i prigionieri minorenni da parte dei jihadisti con l’intento di utilizzarli come scudi umani”, ci spiega un giornalista locale. I miliziani delle Forze Curde Democratiche, le unità militari di Rojawa, erano intervenute con rapidità. Ma si sono resi subito conto di essere di fronte ad una vera e propria operazione di guerra, ben pianificata, tanto che hanno ben presto chiesto l’aiuto del contingente americano acquartierato in Iraq. Resta incerto il numero delle vittime. L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, basato in Gran Bretagna, riporta almeno 124 morti di Isis, una cinquantina tra le forze curde e 7 minorenni. Ma fonti locali segnalano che i numeri potrebbero essere ben più gravi, con oltre 200 vittime tra i prigionieri, la grande maggioranza militanti di Isis. La battaglia si era anche allargata al nucleo urbano dell’intera Hasakeh, dove la presenza di cellule dormienti aveva costretto i comandi curdi ad imporre un rigido coprifuoco. Del resto, erano pronti. Già più volte in passato i militanti di Isis avevano cercato di liberare i loro circa 4.000 compagni chiusi nelle celle, inclusi i circa 600 minorenni. L’episodio riporta alle cronache, tra l’altro, la questione dei volontari stranieri di Isis, che i Paesi d’origine rifiutano di riaccogliere in patria. Nel grande campo limitrofo di Al Hol, decine di migliaia tra donne e bambini restano chiusi in un limbo fatto di freddo e privazioni. E l’intera questione del riproporsi della minaccia di Isis interessa anche l’Italia. Da maggio prossimo il contingente italiano basato a Erbil, nell’Iraq curdo settentrionale (circa 1.100 uomini), con una piccola presenza a Baghdad, assumerà infatti il comando dei circa 5.000 soldati del corpo di spedizione internazionale. Intanto le operazioni di Isis si intensificano nelle regioni irachene sunnite sino a Mosul. Di recente 11 soldati iracheni sono stati uccisi nel sonno dalle cellule di Isis che operano nel deserto sul confine tra Iraq e Siria, dove è appena stato in visita anche il premier iracheno Mustafa al Kadhimi.