Un suicidio ogni tre giorni. Solo il 34% dei detenuti lavora. La doppia condanna Ue all’Italia di Giacomo Galeazzi La Stampa, 27 gennaio 2022 Il Garante nazionale dei detenuti denuncia “la criticità della situazione in questo avvio dell’anno”. Studio negli istituti di pena dei ricercatori delle università Lumsa e Bocconi. Sos sovraffollamento carcerario. Inizio d’anno choc oltre le sbarre: un suicidio ogni tre giorni, numero dei detenuti in aumento e solo uno su tre lavora. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, denuncia “la criticità della situazione in questo avvio dell’anno” e segnala la “necessità di ritrovare un dialogo produttivo attorno al tema dell’esecuzione penale detentiva che sappia rispondere alla particolare difficoltà oggi vissuta negli istituti da parte di chi vi è ristretto e da parte di chi in essi opera quotidianamente”. Peggioramento - “La situazione nelle carceri italiane peggiora - evidenzia l’Osservatorio Diritti. Da una parte aumentano i suicidi. Dall’altra riprende a crescere il numero dei detenuti, calato nel 2020 per effetto della pandemia. Palma riassume la drammatica situazione relativa ai suicidi in prigione: “Ventiquattro diviso otto fa tre. Al 24 di gennaio i suicidi in carcere nell’anno sono stati otto: uno ogni tre giorni. È un dato che non può essere né sottovalutato né, tantomeno, ignorato”. Per Palma, “anche se è evidente che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di fattori e di malesseri della persona e non può essere ricondotto solo al carcere, tuttavia, l’accelerazione che ha caratterizzato le prime tre settimane del 2022 non può non preoccupare e interrogare l’amministrazione che ha la responsabilità delle persone che sono a essa affidate”. Aggiunge il Garante dei detenuti: “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”. Il numero dei suicidi negli istituti di pena italiani ha avuto una lieve diminuzione l’anno scorso. Nel 2021, infatti, secondo Ristretti Orizzonti sono stati 54 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. Nel 2020, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ci sono stati invece 61 suicidi. Allarme - In Italia lavora solo un detenuto su tre. Allarme carceri: testimonianze e proposte oltre le sbarre. Secondo Giovanni Maria Flick il sovraffollamento è un problema che non si vuole risolvere”. E i detenuti “sono spostati come le mucche di Mussolini”. Il magistrato antimafia Bernardo Petralia dirige il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “A volte non dormo per quello che vedo. Acqua calda e water sono un lusso nelle carceri”, racconta Petralia. Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle ammende, esorta a “uscire dalla legge del contrappasso”. E considera i giovani “più aperti al dialogo”. Sovraffollamento - Giustizia riparativa. Sovraffollamento. E riforme in tempo di pandemia. Questi i temi affrontati nel convegno in Università Lumsa per la presentazione del libro “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi”. Per due volte l’Italia è stata condannata per il sovraffollamento delle carceri. “Nonostante questo tutto è rimasto come prima. Ciò ricorda quello che accadeva quando Mussolini andava in visita nel sud Italia. Come allora venivano spostate le mucche da una campagna all’altra. Così oggi si spostano i detenuti per non mostrare l’evidente problema di sovraffollamento”, sottolinea il professor Giovanni Maria Flick. Aggiunge il presidente emerito della Corte Costituzionale: “L’altra soluzione frequentemente proposta è la costruzione di nuove carceri. A prescindere dal tempo che questo richiederà. E a prescindere dal fatto che ridurre il carcere a mura e a spazi è un modo di concepire la pena che prima o poi finirà per affidarne la gestione ai geometri del catasto. E non ai giudici di sorveglianza”. Aggressività - Puntualizza il professor Flick: “Si è affermata la tendenza a ricorrere sempre più al diritto penale e al carcere. Accogliendo certe istanze molto demagogiche e molto populiste che fanno leva sulle reazioni e sull’aggressività delle persone. Per arrivare a teorizzare un carcere del quale non si conosce assolutamente il contenuto e la realtà”. Temi approfonditi nel libro “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” da Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni. Docenti e ricercatori di management delle università Lumsa e Bocconi. Un percorso di ricerca di quattro anni sulle carceri in Italia. Condotto attraverso interviste nei penitenziari milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Con l’obiettivo di indagare i fattori organizzativi che influenzano la capacità degli istituti di pena di perseguire il fine costituzionale. Logica del contrappasso - Tra gli interventi, anche quello di Gherardo Colombo, presidente Cassa delle ammende, Secondo il quale “i ragazzi sono tra i più aperti al dialogo”. Disposti a “rivedere le proprie posizioni sui temi di pene detentive e giustizia riparativa”. Afferma Colombo: “È necessario cambiare la prospettiva. E uscire dalla logica di legge del contrappasso. Sono quindici anni che porto il tema all’attenzione dell’opinione pubblica. E in questo periodo l’atteggiamento delle persone è profondamente cambiato. Inizialmente non si poteva neppure affrontare”. Le nuove generazioni sono “più disponibili a entrare nel dialogo”. Pur partendo generalmente da una certezza assoluta. Ossia che “è giusto punire chi ha commesso un reato”. Per questo, evidenzia Colombo, è “necessario affrontare continuamente il tema con la società civile. A partire proprio dalle scuole”. Recupero - Bernardo Petralia, capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, evidenzia il ruolo del lavoro nel processo di recupero dei detenuti. “In Italia lavora solo il 34% dei detenuti - precisa. Ma il lavoro non dipende solo dall’amministrazione penitenziaria. Che può offrirlo nei limiti e tra le mura del carcere. Bisogna estendere l’offerta che viene dall’esterno. Il lavoro, per i detenuti, è l’unico modo per attivare e stimolare nelle loro menti una vibrazione di libertà”. Parlando delle condizioni di vita nelle carceri, Petralia non nasconde il proprio coinvolgimento personale. Spiega: “Sono addolorato e intristito. Non posso dire di essere soddisfatto. Di aver raggiunto degli obiettivi. E nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana. L’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso. E delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo. Detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Effetto pandemia - “Il Covid dentro le mura carcerarie è la proiezione nel microcosmo di quello che accade nella società civile. E quindi in tutto il resto del Paese. Nella società libera - osserva il responsabile del Dap. Possiamo aggiungere che per certi aspetti siamo già rodati. I numeri sono più alti rispetto allo scorso anno a causa della nuova variante. Ma il numero dei sintomatici e dei ricoverati è molto minore. Questo grazie anche a una vaccinazione di massa ottenuta con una sinergia complessa ma riuscita con l’autorità sanitaria. Forse non in tutte le regioni ma in gran parte. Abbiamo somministrato oltre 100 mila dosi ai detenuti. E questo ci ha concesso di avere un tasso di gravità molto contenuto che si estende anche al personale”. La Cedu condanna l’Italia, ma c’è il rischio di tornare ai manicomi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 gennaio 2022 Il superamento degli Opg è stata una vera rivoluzione, ma senza una riforma radicale ci potrebbe essere un ritorno a una logica manicomiale. E da un anno giace la proposta di legge di Riccardo Magi di +Europa. La sentenza della Corte Europea di Strasburgo che ha condannato l’Italia per aver trattenuto in carcere un ragazzo con problemi psichiatrici è sicuramente significativa, ma quando parla di “cura” si pensa subito all’internamento. Il rischio è che le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) non diventino più l’extrema ratio, ma la prassi. Senza una riforma radicale contro la non imputabilità e il doppio binario del Codice fascista Rocco, si rischia di ritornare alla logica dei manicomi. Questo lo sa bene Franco Corleone, ex commissario unico per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), che ha fin da subito posto il problema del codice penale invariato e dei nodi e le contraddizioni che da sempre caratterizzano la misura di sicurezza detentiva psichiatrica. Il superamento degli Opg è stata una grande conquista perché ha messo fine ad una storia di violenze, spoliazioni e condizioni di vita inumane, relazionate dall’allora Commissione d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del sistema sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino. La riforma degli Opg prevede un nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei” - La riforma che ha superato gli Opg, istituisce un nuovo sistema di presa in carico dei “folli rei” (le persone che hanno commesso un reato dichiarate “inferme di mente” e prosciolte), in cui le Rems dovrebbero rappresentare l’anello ultimo e residuale nelle offerte di cura da prestarsi di norma sul territorio. Le Rems, dunque, non rappresentano dunque la sostituzione degli Opg, poiché, nello spirito della riforma, la misura di sicurezza detentiva dovrebbe essere una extrema ratio. Ma è proprio qui sta uno dei punti critici della riforma, poiché questo principio cardine, che segna la netta discontinuità con il modello precedente, appare ben poco applicato. Sì, perché i dati dimostrano che è cresciuto il numero di applicazioni delle misure di sicurezza presso le Rems. Il principio di extrema ratio della misura detentiva è largamente disatteso - Accade quindi che il numero delle persone in lista d’attesa aumenta e la soluzione prospettata da più fronti sarebbe quella di aumentare il numero dei posti nelle Rems. Ma è sbagliato. Le Rems si differenziano dai precedenti Opg per alcune caratteristiche: il principio di territorialità, il numero chiuso, la messa al bando della contenzione e la gestione affidata al Servizio sanitario, senza la presenza di Polizia penitenziaria. In più, la misura di sicurezza detentiva in Rems ha un limite temporale. La gestione sanitaria di queste residenze, col rispetto rigoroso del numero massimo di posti previsti per ciascuna struttura, ha garantito cure adeguate e programmi di reinserimento efficaci. La presenza delle liste di attesa non è imputabile alla carenza di posti nelle Rems, né tantomeno alla gestione sanitaria che impone il numero chiuso per rispettare la qualità delle cure prestate; ma piuttosto al principio di extrema ratio della misura di sicurezza detentiva che la legge ha sancito, ma largamente disatteso nella pratica giudiziaria. Franco Corleone: è necessario intervenire su imputabilità e doppio binario - Per Franco Corleone c’è bisogno di intervenire tramite una riforma che decostruisca “quel fondamento, quella logica di fondo, di derivazione criminologico-positivista del nesso tra malattia mentale, pericolosità sociale e custodia”. L’ex commissario sottolinea che “la psichiatrizzazione dei comportamenti e degli stati di salute nella migliore delle ipotesi conduce ad interventi di paternalismo solidarista, quando non scivola in un paternalismo a vocazione autoritaria”. Per questo è importante riconoscere le contraddizioni e affermare la necessità di intervenire su due nodi: quello dell’imputabilità e il doppio binario. La proposta di legge di Riccardo Magi riconosce piena dignità al malato di mente - Ma una soluzione c’è, ed è quella di approvare la proposta di legge a firma del deputato Riccardo Magi di +Europa, depositata l’11 marzo del 2021. Ed è frutto di un’elaborazione collettiva, sostenuta da un manifesto-appello indirizzato alla società civile, promosso da La Società della ragione, l’Osservatorio sul superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, il Coordinamento delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza e dei dipartimenti di salute mentale (Dsm) e Magistratura democratica e firmato da giuristi, avvocati, operatori nel campo psichiatrico e militanti delle associazioni per la riforma della giustizia. L’idea centrale della proposta di legge a firma di Magi, è quella del riconoscimento di una piena dignità al malato di mente, anche attraverso l’attribuzione della responsabilità per i propri atti. Il riconoscimento della responsabilità cancellerebbe una delle stigmatizzazioni che comunemente operano nei confronti del folle. La capacità del folle di determinarsi non sarebbe completamente annullata in ragione della patologia e si verrebbe a rompere una volta per tutte quel nesso follia-pericolo che è stato alla base non solo delle misure di sicurezza, ma anche dei manicomi civili. L’abolizione della nozione di non imputabilità è stata sostenuta da alcuni psichiatri e attivisti per la salute mentale, proprio come forma di riconoscimento di soggettività al malato di mente, in questo caso autore di reato. Il riconoscimento della responsabilità è anche ritenuto essere un atto che può avere una valenza terapeutica. “Dopo cinque anni dalla chiusura degli Opg è necessario un passo ulteriore. Occorre rispondere alle spinte regressive, che mettono in discussione alcuni dei capisaldi della Legge 81/2014, come il numero chiuso nelle Rems e il principio di territorialità delle strutture, proseguendo nella direzione della riforma e superando il “doppio binario” pena-misura di sicurezza”, sottolinea il deputato Magi come introduzione della proposta di legge. Tra i vari punti della proposta, è degno di nota il punto 4, ovvero la “Predisposizione di misure atte a evitare la carcerazione per il detenuto con disabilità psicosociale”. Per rendere effettivo e celere l’interessamento del dipartimento di salute mentale e, di conseguenza, la possibilità dell’imputato di accedere a misure cautelari non detentive, il punto interviene sull’articolo 73 del codice di procedura penale prevedendo che il giudice possa chiedere al dipartimento di salute mentale di relazionare sulle condizioni di salute dell’imputato e di predisporre un programma di cura e di assistenza individualizzato, in cui siano delineati i percorsi terapeutici più adeguati, con particolare attenzione a quelli non detentivi. Si prevedono misure alternative ad hoc per chi è affetto da patologia psichiatrica - Per scongiurare l’ingresso in carcere di una persona con disabilità psicosociale, che durante il processo sia rimasta in libertà o sia stata sottoposta a una misura cautelare non detentiva e che abbia potuto accedere a una misura alternativa nella prima fase dell’esecuzione, la proposta di legge prevede una sospensione dell’ordine di esecuzione ad hoc. Si prevedono, inoltre, misure alternative ad hoc per la persona affetta da patologia psichiatrica, sulla falsariga di quanto previsto per i tossicodipendenti. Per accedere a queste misure alternative la condizione di salute della persona deve essere accertata dal dipartimento di salute mentale, che provvede anche alla predisposizione di un programma di cura e di assistenza. All’istanza di misura alternativa deve essere allegata la certificazione da parte del Servizio sanitario nazionale. Parliamo in generale, di una proposta di legge che valorizza le Rems, ma riconvertendole in strutture ad alta integrazione sociosanitaria, quali articolazioni dei Dipartimenti Salute Mentale. Le carceri non sono luoghi di cura ma non serve invocare più Rems di Michele Miravalle* Il Riformista, 27 gennaio 2022 Nel percorso di superamento degli Opg molto ha funzionato, qualcosa va corretto. Vanno immaginati nuovi modelli per la salute mentale. E le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza devono essere luoghi di passaggio. Chi si occupa della questione della cura/controllo delle persone con patologia psichiatrica autori di reato (i folli-rei, li definisce il linguaggio novecentesco del codice penale) sapeva che il 2022 si sarebbe aperto con almeno tre decisioni importanti: due della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, il caso Sy e il caso Ciotta, e una della Corte Costituzionale, a seguito dell’Ordinanza 131/2021 su impulso della questione sollevata dal giudice di Tivoli. Lunedì è arrivata la prima delle tre decisioni (Sy contro Italia), le altre sono attese a stretto giro. Nel merito, ci sono alcune differenze, ma sarà opportuno leggere i tre provvedimenti con uno sguardo “politico”, per capire che impatto avranno e quali sono gli interventi di indirizzo che vanno messi in campo. Il tema è “fare un tagliando” al percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, capendo ciò che ha funzionato, ed è molto, e ciò che invece va corretto. È stato un percorso tortuoso, iniziato con la riforma della sanità penitenziaria nel 1999 e passato attraverso la vergogna pubblica delle immagini di degrado e abbandono girate nei sei Opg italiani dalla Commissione d’inchiesta del Senato nel 2012. Concluso solo nel maggio 2017 con la chiusura degli “ultimi manicomi” italiani, in applicazione della legge 81/2014. Un percorso che ha portato alla creazione di una trentina di residenze sanitarie (le Rems), capillarmente diffuse sul territorio e con un limite massimo di venti posti fissato per legge. I dati ufficiali - confusi e difficilmente accessibili - parlano di circa 550 persone ricoverate nelle Rems (pari al numero massimo di posti disponibili). Al di fuori delle Rems, ci sono poi quasi 4.000 persone sottoposte a misure di sicurezza non custodiali, su tutte la “libertà vigilata” che si svolge principalmente in forma residenziale nelle molte comunità che costellano il territorio italiano. Ma la riforma ha inciso su due punti fondamentali: da una parte ha reciso la cinghia di trasmissione che collegava il carcere alle misure di sicurezza. Oggi, dunque, nel sistema delle misure di sicurezza non si possono più “scaricare” le persone dichiarate capaci di intendere e volere, le cui condizioni psichiche si aggravano durante la loro detenzione. Queste persone devono essere “gestite” in carcere o affidate ai servizi di salute mentale del territorio, che sono però spesso refrattari, per molte ragioni, ad accogliere paziente provenienti dal circuito penale. Dall’altra parte, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il sistema del “numero chiuso”. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una “lista di attesa” di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere. Su quanti siano e come vengano gestite dalle singole Regioni e Aziende sanitarie le liste d’attesa c’è poca chiarezza: poche decine o centinaia? Le informazioni divergono a seconda delle fonti e questo non aiuta la comprensione. Sono queste, in estrema sintesi, le due questioni su cui la Cedu è intervenuta e su cui la Corte Costituzionale è chiamata a fare chiarezza. Il futuro dunque deve partire da due principi ineludibili, di diritto e di umanità. Il primo, le carceri non sono luoghi di cura per la presa in carico di patologie psichiatriche gravi, vanno dunque immaginati nuovi modelli per la salute mentale, in stretto contatto con i servizi territoriali. È quello che vediamo tutti i giorni durante le visite dell’Osservatorio sulle condizioni detentive. Anche la gestione ibrida - un po’ carceri, un po’ luoghi di cura - di sezioni “speciali” per pazienti con patologie psichiatriche diventa, nei fatti una soluzione che enfatizza gli aspetti punitivi a scapito di quelli terapeutici. Se davvero “servono” luoghi dentro le mura del carcere dove promuovere la salute mentale, come ribadiscono ad ogni livello gli operatori penitenziari, allora occorre immaginare soluzioni del tutto nuove. L’esperienza delle sezioni “a custodia attenuata” per madri detenute o per il trattamento delle tossicodipendenze possono diventare esempi da imitare? Il secondo principio è che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) devono essere luoghi di “passaggio”, uno dei luoghi dove il paziente psichiatrico autore di reato può essere destinato, ma non l’unico. Esistono altre soluzioni, di tipo comunitario o residenziale, che vanno prese in considerazione. Questo significa non rassegnarsi alla “istituzionalizzazione” e a ricoveri molto lunghi, con continui passaggi da un luogo all’altro (Rems, comunità e ritorno). È un principio cardine della riforma, ma che fatica ad essere messo in pratica dai giudici, soprattutto per mancanza di dialogo con i servizi di salute mentale. Il peggio che può avvenire alla luce di queste tre decisioni delle Alte Corti, è limitarsi a dire “servono più Rems”. Sarebbe un errore grave ed un’occasione mancata, che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne. *Coordinatore Osservatorio sulle carceri di Antigone Consulta e 41-bis: la tutela del diritto di difesa negli altri ordinamenti di Mauro Mazza* Il Dubbio, 27 gennaio 2022 La Corte costituzionale italiana, con l’importante sentenza n. 18 del 24 gennaio 2022, ha stabilito la contrarietà con il diritto costituzionale alla difesa della previsione, contenuta nell’art. 41-bis, comma 2- quater, lett. c) della legge 26 luglio 1975, n. 354, che dispone in tema di ordinamento penitenziario (ed esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). La norma contemplava la necessità del visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti, in regime di “carcere duro” (c. d. 41-bis), con il proprio difensore. Secondo i giudici della legittimità costituzionale, chiamati a pronunciarsi su richiesta della Prima Sezione penale della Corte di cassazione, vi è contrasto sia con alcune norme della nostra Costituzione (articoli 3, 15, 24, 111 e 117), sia anche con l’art. 6 della Convenzione europea sui diritti umani. In effetti, la persona detenuta ha bisogno di comunicare con il proprio legale, per conoscere i propri diritti, per approntare le difese, anche per tutelarsi rispetto a possibili abusi da parte delle autorità penitenziarie. Ciò vale, evidentemente, anche per coloro che sono sottoposti a un regime detentivo speciale (aggravato). È pur vero che il detenuto in regime di 41-bis potrebbe avvalersi delle comunicazioni scritte al legale per fare pervenire all’esterno messaggi indirizzati a organizzazioni criminali, ma al riguardo valgono due possibili obiezioni. Per un verso, il detenuto può comunque avere colloqui personali con il difensore, al di fuori di ogni controllo sul contenuto della comunicazione orale. Per altro verso, si finirebbe per gettare una luce sfavorevole sulla stessa attività defensionale, prospettandosi una “presunzione di collusione” tra difensore e imputato/ condannato francamente inaccettabile in uno Stato di diritto. Le suggestioni che provengono dal diritto comparato sono di conforto alla decisione dei nostri giudici costituzionali, con riferimento al right to counsel e alla protezione dell’attorney- client privilege nel processo penale. Le discipline nazionali relative alla tutela della segretezza delle comunicazioni nel rapporto difensore/ cliente, sia in Paesi europei come Germania, Olanda, Spagna, Portogallo, Svizzera e Regno Unito, sia anche asiatici, come il Giappone, sia soprattutto gli Stati Uniti d’America [ da epoca risalente, a partire dalla sentenza della Corte suprema federale Upjohn Co. v. United States, 449 U. S. 383 (1981)], tutelano efficacemente il fondamentale diritto alla difesa e alla riservatezza nel procedimento penale. La comparazione orizzontale, tra ordinamenti nazionali, si integra utilmente con la comparazione verticale, nell’ottica del costituzionalismo multilivello. Vengono in considerazione, da quest’ultimo punto di vista, i principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (in materia di diritti umani), e inoltre la direttiva 2013/ 48/ UE (del Parlamento europeo e del Consiglio), relativa al diritto di avvalersi di un difensore nel procedimento penale. Le tradizioni costituzionali nazionali si armonizzano, così, a livello europeo. La decisione costituzionale italiana potrebbe anche innescare nuove considerazioni sull’ulteriore profilo della natura confidenziale del rapporto difensore/ cliente. Con l’affermarsi della c. d. Giustizia 2.0, infatti, è sempre più frequente l’utilizzo delle misure investigative elettroniche, con implicazioni sul piano della riservatezza delle comunicazioni del legale con il proprio cliente. Tale ultima problematica ha anche una dimensione transnazionale, poiché talvolta le informazioni/ conversazioni acquisite digitalmente in uno Stato sono poi utilizzate in un’altra giurisdizione. Mancano, a volte, discipline nazionali, oppure esse presentano lacune, mentre d’altro canto le normative interne sulle prove acquisite all’estero possono anche essere molto diverse nei vari ordinamenti. In definitiva, l’impatto negativo sulla protezione dei diritti fondamentali che derivava dalla norma espunta dall’ordinamento grazie all’intervento della Corte costituzionale ha rafforzato la tutela dell’attorney-client privilege nella versione italiana, ma resta molto da fare, non soltanto nella dimensione interna ma anche nella dimensione della giustizia transnazionale, in tema di ammissione, e regole di esclusione, delle prove. *Professore associato di Diritto pubblico comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza ‘ Università di Bergamo La Corte Costituzionale non è giustizialista e tutela il diritto alla difesa di Guido Stampanoni Bassi linkiesta.it, 27 gennaio 2022 La Consulta ha stabilito con una sentenza che i detenuti al regime di carcere duro possono scrivere al loro legale senza che le loro missive vengano censurate. Si è ribadito la centralità del ruolo della difesa e l’impossibilità di identificarla con i crimini che vengono contestati all’assistito. È stata da poco depositata una importante sentenza della Corte Costituzionale sul cd. carcere duro (art. 41-bis) relativa - più nello specifico - alla sottoposizione a censura della corrispondenza del detenuto, senza esclusione di quella indirizzata ai difensori. A dubitare della legittimità della disposizione era stata la Corte di Cassazione, secondo la quale la previsione generalizzata del visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis costituirebbe una irragionevole compressione tanto del loro diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, quanto di quello alla difesa e al giusto processo. Nel ritenere la questione fondata - risparmieremo ai lettori i profili più tecnici - la Corte Costituzionale svolge alcune considerazioni sul ruolo del difensore che appaiono particolarmente importanti in un periodo - qual è quello attuale - nel quale è sempre più diffusa la cattiva abitudine di identificare l’avvocato con il crimine che viene contestato all’assistito. I giudici della Consulta prendono le mosse osservando come, in termini generali, la sottoposizione a censura della corrispondenza di chi si trovi detenuto al 41-bis risponda a una precisa (e condivisibile) logica: quella di impedire che il detenuto possa continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza e possa, dunque, continuare a ricoprire un ruolo attivo all’interno di tale organizzazione impartendo o ricevendo ordini o istruzioni. Se questa è la logica che si trova alla base di questa misura (come delle altre previste del regime del 41-bis), la Corte compie poi un passaggio ulteriore osservando come - sempre in astratto - tali ordini o istruzioni ben potrebbero essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore, il che porta alla conseguenza che - ancora sempre in astratto - sottoporre a censura le comunicazioni con i difensori potrebbe essere una misura funzionale a ridurre il rischio di comunicazioni verso l’esterno. Se queste conclusioni non possono seriamente essere messe in dubbio, la Corte Costituzionale si chiede però se la sottoposizione a censura della comunicazione con i difensori - se letta alla luce delle altre misure che caratterizzano il regime penitenziario - appaia effettivamente idonea a raggiungere tale scopo. Nel rispondere a tale domanda, si ricorda come il temuto passaggio di informazioni tra difensori e detenuti potrebbe, in realtà, già avvenire nell’ambito dei colloqui visivi o telefonici - i quali sono consentiti - rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo. Se così stanno le cose - e a prescindere dagli altri profili tecnici di illegittimità della disposizione - la Corte si chiede che senso abbia continuare a imporre una misura così incisiva quale la sottoposizione a censura della corrispondenza (misura che può arrivare addirittura a impedire che talune comunicazioni giungano al proprio difensore). Ed è qui che si innesta il passaggio della sentenza che merita di essere evidenziato. Secondo la Corte la sottoposizione a censura della corrispondenza con i difensori “si fonda su una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Si mette poi in evidenza un altro delicato aspetto relativo al diritto, del detenuto, di potersi tutelare da eventuali abusi della autorità: “Il ruolo del difensore, per essere davvero effettivo, richiede che chi si trova in stato di detenzione possa comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge che si siano, in ipotesi, ivi consumate”. Si diceva dell’importanza di una pronuncia che, soprattutto in un’epoca quale quella attuale, abbia ribadito la centralità del ruolo del difensore e l’impossibilità di identificarlo con i crimini che vengono contestati all’assistito. Che si tratti di un tema realmente avvertito lo conferma, a strettissimo giro, la prima pagina del “Fatto Quotidiano” (guarda caso…), che così titola: “La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”. Si tratta delle ennesime affermazioni disarmanti - alle quali, probabilmente, sarebbe ormai più opportuno non replicare - che sono l’esatto opposto di una corretta informazione e che non fanno altro che confermare una palese insofferenza verso il diritto di difesa e tutto ciò che si contrappone alla visione giustizialista e populista che le genera. Sebastiano Ardita: “Dal carcere i boss danno ordini. È giusto vagliare le loro lettere” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2022 Per la Consulta è illegittimo il visto di censura della corrispondenza tra mafiosi al 41-bis e i loro avvocati. “Mi sarei aspettato che la Corte distinguesse tra controllo di una corrispondenza chiusa e trattenimento di una corrispondenza aperta e pericolosa”. La Corte costituzionale ha dichiarato nei giorni scorsi illegittimo il visto di censura della corrispondenza tra detenuti mafiosi al carcere speciale, il 41-bis, e i loro avvocati, come chiesto dalla Cassazione. Il diritto di difesa, si legge, “comprende il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore”. Abbiamo chiesto in merito un’opinione a Sebastiano Ardita, consigliere togato del Csm, ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap. “Ho letto la sentenza e non vi ho trovato nulla di nuovo sui principi generali, perché era noto a tutti e da tempo che la corrispondenza con i difensori, anche di 41-bis, non deve essere sottoposta a controllo. Ma temo che il caso concreto abbia poco a che fare con il controllo della corrispondenza e che il nodo centrale non sia stato affrontato dalla Corte”. In che senso? Nel caso specifico affrontato dalla Corte, nessuno ha preteso di aprire una busta destinata a un difensore per cercare eventuali messaggi. Risulta, invece, che un detenuto del carcere di Opera ha consegnato agli agenti una bozza di telegramma, da cui emergeva con evidenza un testo suscettibile di contenere un messaggio pericoloso. La Corte non avrebbe centrato il tema? La questione era un’altra. Quella di distinguere tra controllo preventivo - ossia ricerca della possibile comunicazione illecita - e trattenimento di una comunicazione aperta che già appariva ambigua. Non ho letto il telegramma, ma se è vero che il testo si prestava a comunicazioni cifrate o pericolose il trattenimento, alla luce dell’intero sistema normativo, avrebbe potuto considerarsi legittimo se non addirittura doveroso. La Corte, dunque, avrebbe dovuto differenziare? Mi sarei aspettato che la Corte distinguesse tra controllo di una corrispondenza chiusa e trattenimento di una corrispondenza aperta e pericolosa. In questo secondo caso andavano a mio avviso messi in raffronto i due beni che venivano in conflitto: da un lato il pericolo concreto per i cittadini che parta dal carcere un ordine di commettere un delitto, dall’altro il diritto di comunicare con il difensore, che non tollera controlli, ma non può spingersi fino a impedire il trattenimento di un testo da cui risulti già evidente che possa derivare un danno. La Corte riconosce che il diritto alla riservatezza in certi casi “non è assoluto”, ma ritiene il controllo in questione inutile al fine di impedire ai boss di comandare dal carcere, dato che hanno diritto a colloqui riservati con i legali... Questo argomento non è pertinente al caso concreto venuto all’attenzione della Corte. Ribadisco che qui non si tratta del problema del controllo delle comunicazioni. Una volta che è palese la pericolosità di un testo aperto, sarei molto cauto nel dire che non si possa trattenere solo perché è diretto a un difensore. La censura della corrispondenza, dice la Corte, essendo prevista “anche in assenza di qualsiasi elemento concreto” di pericolo, presuppone una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore”... Non c’è nessuna offesa né al ruolo dei difensori né al diritto di difesa. Ma così ragionando, si potrebbe arrivare alla conclusione che la matricola avrebbe dovuto inoltrare il telegramma anche se ci fosse stato un messaggio con l’ordine di commettere un omicidio. Quando era al Dap si è imbattuto in lettere sospette di boss ad avvocati? Non ricordo di lettere ai difensori sottoposte a censura quando stavo al Dap, perché mai si è avallata questa prassi. Credo che il ruolo degli avvocati vada rispettato e tutelato, ma ciò non esclude la pervasività delle organizzazioni criminali mafiose nel tentativo di mandare messaggi all’esterno. Ricordo la lettera che un avvocato lesse a nome dei suoi assistiti, capi del clan dei Casalesi e imputati nel processo, che con intento intimidatorio accusavano la Corte di lasciarsi influenzare dalle opinioni di Roberto Saviano e di Raffaele Cantone. Riforma del Csm, le correnti si confrontano sul sorteggio di Valentina Stella Il Dubbio, 27 gennaio 2022 Da stamattina alle 8 fino alle 17 di domani gli iscritti all’Anm saranno chiamati a votare per il referendum consultivo su due quesiti afferenti al sistema elettorale del Csm di prossima, si spera, modifica legislativa. Nel primo si chiede agli associati se vogliano il sorteggio, nel secondo se prediligono un sistema a ispirazione maggioritaria o proporzionale. Tale consultazione è stata fortemente voluta dalla corrente Articolo 101. Per il loro esponente in Anm, il dottor Andrea Reale, “c’era già stato nel 2016 un referendum su iniziativa di 300 iscritti, ma questa è la prima volta che lo indice il Comitato direttivo centrale. Questa è la novità importante non solo per il momento storico che stiamo vivendo, ma soprattutto per il contenuto dei quesiti. Troppe volte il metodo del sorteggio è stato tacciato di incostituzionalità: invece per la prima volta i magistrati potranno esprimersi. Noi riteniamo che attualmente sia l’unico modo per cercare di recidere qualunque genere di legame delle correnti all’interno del Csm”. Tuttavia, sembra che non passerà: “Ne siamo consapevoli. Ma siamo forti del fatto che l’Anm non potrà dire più che la magistratura non vuole il sorteggio perché, anche se minoranza, c’è una parte di essa che lo appoggia. Fino a poco fa era un tabù poter discutere di sorteggio nell’Anm: oggi lo abbiamo posto come tema di tipo culturale e di politica giudiziaria associativa sia al suo interno sia soprattutto all’esterno, atteso che anche la politica ha recepito questa proposta riformista. Ci auguriamo che possa farla propria, anche a prescindere dall’esito del referendum Anm. È l’unica concreta possibilità di reale cambiamento auspicabile per il governo autonomo della magistratura”. Contrario al sorteggio ma soddisfatto per il dibattito interno è Angelo Piraino, Segretario di Magistratura Indipendente: “Premesso che il metodo referendario è sempre importante perché consente di avere un dialogo diretto con la base, tuttavia, in questo caso, la mia perplessità nasce dal fatto che si tratta di un tema complesso ridotto a quesiti molto essenziali. Comunque, al di là dell’esito, è stata una occasione per innescare al nostro interno un confronto e rilanciare lo spirito associativo, come luogo di riflessione congiunta intervenendo in un momento di stanchezza dell’attività, in quanto diversi magistrati non nutrono più grande fiducia nell’Anm”. Sul merito dei quesiti, dice Piraino, “non si può però rinunciare ad una libertà fondamentale, come quella di candidarsi. Quindi bisogna trovare un’altra strada, diversa da quella del sorteggio. Noi siamo favorevoli ad un sistema maggioritario che preveda collegi più piccoli per dar voce ai territori e non soltanto alle correnti in sede centrale, il cui eccessivo interventismo nella scelta dei candidati sarebbe agevolato, invece, da un sistema proporzionale che prevede necessariamente delle liste”. Anche per il consigliere del Csm Giuseppe Marra, di Autonomia e Indipendenza, “è sicuramente ottima l’iniziativa del referendum consultivo. Il risultato credo possa rappresentare una indicazione molto utile per la politica visto che è in una situazione di stallo, considerato anche che la proposta Cartabia non ha suscitato piena condivisione neanche all’interno delle forze di maggioranza”. I pronostici dicono che il sorteggio non passerà. Se così sarà, dice Marra, “fare una legge con la contrarietà della gran parte della magistratura associata sarebbe un grosso errore politico”. Nel merito dei quesiti Marra si dice “contrario al sorteggio”. A suo giudizio, inoltre, “il vero punto cruciale è il collegio unico nazionale che non consente a chi non ha l’appoggio del gruppo organizzato di poter essere eletto”. Tra un sistema a ispirazione maggioritaria o proporzionale, “il secondo è quello migliore perché garantisce la rappresentatività delle varie anime della magistratura. Ove non si potesse arrivare al proporzionale, il modello migliore sarebbe quello maggioritario, con un recupero proporzionale, però su un distretto piccolo, dove anche il magistrato che non ha l’appoggio di un gruppo può concorrere alla pari”. Per Mariarosaria Savaglio, Segretario nazionale Unicost, “il sorteggio, anche nella sua forma temperata, della componente togata del Csm appare incostituzionale, ma al di là di questo appare una soluzione avvilente che andrebbe a minare ancor di più la credibilità del corpo giudiziario; una resa incondizionata a coloro che ritengono che il potere giudiziario non debba essere indipendente e autonomo, a garanzia di tutti i cittadini, ma tenuto sotto controllo dal potere esecutivo. Inoltre, il voto è responsabilità, per l’eletto e l’elettore, è proprio in tempo di crisi occorrerebbe rifuggire da qualsiasi soluzione semplicistica che deresponsabilizzi. Quello della formula elettorale da prediligere è un discorso più complesso, anche perché sono diverse le variabili che entrano in gioco e fanno la differenza. Di certo l’opzione proporzionale esprime l’esigenza, che è propria dell’organo, che tutte le diverse anime della magistratura siano rappresentate. Un buon sistema elettorale è quello che tiene innanzitutto conto delle esigenze dell’organo e non mira, invece, a fini eterogenei e di parte”. Il Coordinamento di Area Democratica per la Giustizia si è espresso tramite una nota: “Si tratta di una scadenza importante per la magistratura, per l’effetto che l’esito della consultazione potrebbe avere sulla scelta che il Parlamento sarà chiamato ad effettuare in merito proprio alla modifica del sistema elettorale del Consiglio. Sarà fondamentale che l’esito del referendum non si presti alle strumentalizzazioni, che parte del mondo politico è pronto a mettere in atto, al fine di ridimensionare il ruolo del Csm e ridurre di conseguenza l’autonomia di cui gode la magistratura”. Nel merito, aggiunge AreaDg, “riteniamo che il sorteggio, comunque temperato o edulcorato, oltre ad essere incostituzionale, sia il peggior sistema possibile. Scegliere tale opzione equivarrebbe ad ammettere che i magistrati non sono in grado di designare i propri rappresentanti nell’organo di governo autonomo”. Si dicono “contrari alla scelta in favore di sistemi maggioritari, come quello vigente e come quello proposto dalla Ministra Cartabia” e “invece favorevoli a sistemi di tipo proporzionale o che, comunque, contemplino un forte recupero della rappresentanza in chiave pluralistica”. D’accordo con il proporzionale anche l’esecutivo di Magistratura Democratica che rivolge agli associati un appello pubblico: “A febbraio sono al vaglio della Consulta, tra gli altri, i referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e sulla separazione delle carriere. Il Consiglio di Stato azzera, una settimana prima della inaugurazione dell’anno giudiziario, le nomine dei vertici della Cassazione. I compromessi politici, che hanno pesato sulla riforma della giustizia, hanno prodotto delle soluzioni che non ci hanno visto stimati quali interlocutori, senza, tuttavia, che il nostro impegno sia scemato nella voglia di elaborare nuovi spazi di intervento per utilizzare ogni risorsa che ci sarà consegnata. Aleggia su di noi la possibile nomina di un Capo dello Stato, Presidente del Consiglio superiore della magistratura, che avrà le fattezze di chi ci vuole “geneticamente modificati”. Nello scenario delle proposte politiche, esterne ed interne alla magistratura, avanza come soluzione il sorteggio dei candidati al Csm, quale unico antidoto al metodo delle chat e del carrierismo”. Per questo dicono “no al sorteggio, sì al proporzionale”. Altro che “perdonismo”, da Consulta e Cassazione le uniche risposte alla mafia di Aldo Varano Il Dubbio, 27 gennaio 2022 Con i vecchi stereotipi rischiamo di rendere invincibili le cosche. E la sentenza sulle comunicazioni reclusi-avvocati è una vera lezione. In una notevole intervista resa sulle colonne di questo giornale il 28 novembre 2021, lo storico Salvatore Lupo ha detto cose importanti sul versante del contrasto alla mafia e delle ideologie che ne stanno a fondamento. La questione, per così dire, ideologica - ossia l’identificazione delle regole giuridiche, sociali, morali che orientano la lotta alle cosche - costituisce uno snodo importante del dibattito che sta agitando le acque tutto sommato mai troppo navigate di questa discussione. La cosiddetta cultura dell’antimafia si è eretta, in questo ultimo decennio soprattutto, a monolite totalitario, troppe volte insofferente a qualunque critica e sospettoso verso ogni obiezione. A quanti, ai pochi che osano sollevare dubbi e suggeriscono riflessioni aggiornate o distinguo a grana fine, si contrappone facilmente l’accusa di voler far retrocedere la soglia della repressione, di essere sensibili a istanze pacificatorie o, peggio ancora, di essere conniventi con i clan. E siccome in questo delicato snodo della vita collettiva le parole pesano come pietre, in molti tacciono, qualcuno sospira, qualcuno ancora si occupa d’altro ritenendo tutto sommato che il variegato pantheon che compone la galassia antimafia sia un territorio infido da cui è meglio stare lontani e che non è mai conveniente inimicarsi. Insomma, è problematico criticare. Ma Salvatore Lupo ha, con l’onestà intellettuale che gli appartiene, puntato l’indice non sulle carriere, su quelli interessati al circuito dell’emergenza, sulle vestali di cerimonie e commemorazioni spesso popolate di soggetti impresentabili agli occhi delle stesse vittime, ma ha puramente e semplicemente affermato che tutto questo mondo vive in una visione culturalmente arretrata, da ancien regime. Recita lo storico: “L’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono”, molti in perfetta buon fede, sia chiaro. La questione è cruciale perché mette in discussione l’egemonia ideologica che ha sostenuto le scelte e le indicazioni di tutto questo importante fronte politico, sociale e istituzionale. Privati della convinzione per cui sussistono ancora le condizioni che hanno giustificato una certa visione della società, della politica, dell’economia e, quindi, della mafia, importanti spezzoni dell’antimafia si troverebbero sprovvisti di ogni riferimento “alto”, di ogni degna rappresentazione delle dinamiche sociali che considerano il piedistallo, anche etico, delle proprie ragioni. Rappresentazione che non era un inganno, ma che anzi era stata loro consegnata in decenni da una pubblicistica, però, divenuta nel tempo scadente, da serie televisive orgiastiche, da convegni parolai, da analisi adagiate anzi supine verso le risultanze processuali. Se, effettivamente, l’antimafia è diventata “nostalgica”, come dice Lupo, di un mondo che è venuto meno ed è incapace di leggere le coordinate più recenti della complessità, il problema è grave assai e proprio perché prolunga indefinitamente la sconfitta delle cosche nel Terzo millennio. Come quella impostazione - che ha radici lontane e nobili nella storia del paese - è stata indispensabile per la lotta senza quartiere sferrata dallo Stato dopo le stragi del 1992-1993; così la mancanza di un aggiornamento dei modelli interpretativi della società e dei suoi mille rivoli sta compromettendo ogni possibilità di vittoria verso le nuove manifestazioni dell’attività mafiosa che vengono solo mediaticamente declamate per qualche dollaro di pubblicità (il Covid-19, il Pnrr, i bitcoin, addirittura l’Isis). Qualcuno soffre di una perenne “annuncite” cui non seguono azioni concrete, processi, documenti, testimonianze. Ormai si ipotizza soltanto che la mafia abbia connessioni con la politica, con l’economia, con l’universo mondo, ma non si dispone un modello ideologico adeguato per approntare - e ci vorranno anni - una risposta di contrasto moderna e aggiornata. Così si vive imbalsamati in un tetro museo delle cere, in un parco della rimembranza da cui non si ha il coraggio di uscire per sfidare il nuovo che da qualche parte pur ci sarà o almeno dovrebbe esserci. Scrive Lupo: “Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine”. Si è incapaci di cogliere il segnale profondo che la Consulta sta consegnando al paese, anche in questi giorni. Importanti plessi istituzionali, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sul caso Contrada), la Corte costituzionale (con il warning lanciato a proposito dell’ergastolo ostativo e con un’altra sentenza in tema di permessi premio di pochi giorni or sono), la Corte di cassazione (con la decisione a Sezioni unite in materia di riti di affiliazione) non stanno svolgendo alcuna pericolosa opera di “revisionismo”, né sono ispirate da un mellifluo “perdonismo”. Il punto è che stanno venendo meno - uno a uno - i baluardi ideologici di una certa antimafia. Un complesso di stereotipi, di generalizzazioni, di precomprensioni, talvolta di pregiudizi che costituivano il retroterra culturale e ideologico di un preciso orientamento interpretativo delle norme dell’emergenza e della società in generale, si sta sgretolando sotto i colpi di una diversa visione della società e degli uomini. Un’antropologia moderna, scevra da preconcetti (del tipo: “o ti penti o resti mafioso a vita” oppure “i figli dei mafiosi sono mafiosi in erba”), vuole semplicemente togliersi dal groppone (per citare il memorabile Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena?”) una retorica della mafia o una interpretazione della mafia che ritiene sia stantia, superata, parruccona, addirittura inconcludente. Tanto da ostacolare la vittoria sulle cosche, mica niente. Ecco perché le parole spese dalla Corte costituzionale nella sentenza che ha cancellato il visto di censura sulla corrispondenza tra avvocati e detenuti di mafia in regime di 41-bis, non è il viatico rilasciato da giudici “molli” per far consumare nuove efferatezze e dipanare nuove trame, ma la mera constatazione che non è proponibile in termini assoluti e generali lo stereotipo dell’avvocato complice, del consigliori del Padrino che sussurra all’orecchio. Scrive la Consulta che, certo, “non può escludersi in assoluto che tali ordini o istruzioni possano essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore; sicché l’estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento”. E, poi, nella traiettoria di quanto sopra detto, la Corte assesta il più micidiale dei colpi all’ideologia di cui si diceva: “La disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione - già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 - di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate”. Si infrange così un altro totem, va in frantumi un altro dei molti corollari che sono stati eretti a giustificazione della cultura egemone dell’emergenza antimafia e si squaderna la fallacia degli stereotipi e dei pregiudizi che la alimentano. Una nuova lampada di Diogene che cerca nel buio di comprendere dove l’uomo mafioso si sia davvero nascosto. Nuove accuse a Pittelli. La sua colpa? Essere avvocato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 gennaio 2022 Nella relazione che i Ros hanno depositato al processo Rinascita Scott alcuni collaboratori di giustizia parlano delle pressioni che avrebbe fatto per condizionare l’esito di un processo. Non solo fungeva da raccordo tra la mafia e la società civile, ma aggiustava anche i processi in combutta con i magistrati. Non si sa se ci sono anche i nomi dei giudici felloni, nella relazione che gli uomini dei Ros hanno depositato al processo Rinascita Scott con una nuova accusa contro Giancarlo Pittelli. Sicuramente ci sono quelli dei “pentiti”, secondo il costume delle inchieste di mafia più fallimentari, quelle in cui le indagini non si fanno sul territorio ma in ufficio o in caserma, ad abbeverarsi ai racconti dei collaboratori. O, a volte, addirittura suggerendo loro quel che devono dire. Come dimenticare i 17 “pentiti” di camorra, ospitati tutti nella stessa caserma a concordare le false versioni contro Enzo Tortora? E le torture con cui si convinse nel carcere di Pianosa Enzo Scarantino ad accusare una quindicina di innocenti per l’omicidio Borsellino? Nelle duecento pagine dei Ros non manca proprio nessuno, c’è il fior fiore delle famiglie di ‘ndrangheta di tutta la Calabria, dalla Sila all’Aspromonte, coste comprese. Inutile fare i nomi, ci ha già pensato la Gazzetta del sud. Interessanti però sono come sempre i virgolettati, le parole dei “pentiti” che come da copione hanno sempre l’oro in bocca, come le ore del mattino. Giancarlo Pittelli “avrebbe funto, mediante condotte corruttive, da elemento di connessione con una parte debole della magistratura che di conseguenza avrebbe agevolato la risoluzione delle diverse vicende giudiziarie”. Niente nomi di toghe sporche, però. Il che è grave, oltre che strano, perché il reato di corruzione ha sempre due corni, chi compra e chi si fa comprare. Chi sono questi giudici “deboli” che si fanno comprare? Se la relazione dei Ros è stata depositata al processo Rinascita Scott è un atto pubblico. Quindi, o i nomi sono altrove, in un altro fascicolo coperto, oppure questi “pentiti” conoscono solo una parte del reato, e un solo responsabile, l’avvocato Pittelli. E su di lui vanno giù pesanti, cercano di inchiodarlo. Uno dice che lui era “il legale in grado di avvicinare alcuni magistrati addivenendo alla soluzione di problemi giudiziari”. Un altro spiega che “Pittelli veniva nominato perché aveva conoscenze tra i giudici e una grande influenza su di loro”. Chissà come mai, vien da dire allora, solo il legale è in carcere da due anni a svolgere il ruolo di ciliegina sulla torta di un processo che si chiama “Rinascita Scott” e che, fin dalla prima conferenza stampa del procuratore Gratteri nel dicembre del 2019, avrebbe coinvolto non solo picciotti mafiosi, ma politici, imprenditori e alte sfere istituzionali? Di tutta questa crème non c’è traccia nella maxi-aula bunker di Lamezia Terme. C’è solo il soldato Pittelli, tanto amico dei magistrati da essere rimasto l’unico prigioniero di quella che i pubblici ministeri chiamano “area grigia”, cioè la famosa connessione tra le due società (non quelle di Asor Rosa), quella delle ‘ndrine e quella dei “signori”. Questa nuova accusa, che a quanto pare potrebbe far parte di un nuovo filone d’inchiesta che, se riguarda magistrati per esempio di Catanzaro dovrebbe esser subito trasferita a Salerno, colpisce una volta di più Giancarlo Pittelli nel suo ruolo di avvocato. E dovrebbe preoccupare tutta quanta la categoria, perché mette in discussione lo stesso ruolo del difensore nei processi penali. C’è un clima di sospetto che porta a identificare non solo l’indagato e l’imputato con il reato di cui sono accusati, ma lo stesso legale con la “colpa” attribuita al suo assistito. Si va a spulciare nelle intercettazioni per rimarcare il fatto che il boss dà dei voi all’avvocato, come se questo fosse sintomo di grande intimità, o sottolineare come complicità il fatto che la moglie dell’assistito chieda al legale come stia la sua famiglia. Due giorni fa si è reso necessario un intervento della Consulta per stabilire come sia illegittimo censurare la corrispondenza tra l’avvocato e l’imputato (o condannato) anche se questi è detenuto nel regime del carcere impermeabile, cioè il 41-bis dell’ordinamento penitenziario. In realtà esistevano già delle circolari del Dap al riguardo, ma la decisione della Corte Costituzionale era stata stimolata da una questione di legittimità sollevata dalla Cassazione. Ed è entrata nel merito con decisione. Una bella lezione per chi, con la solita volgarità, come Marco Travaglio, si è affrettato a dare del mafioso agli avvocati, tutti compresi. Ecco il testo del quotidiano: “La consulta cancella la censura sulla corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”. Non varrebbe neanche la pena di citare un tale letamaio, se non fossimo certi del fatto che purtroppo il direttore del Fatto non è mai solo in queste nefandezze, ma il suo pensiero è spesso accovacciato sotto qualche toga da cui trae ispirazione. O a volte la dà. A costoro sarà utile leggere quel che scrive l’Alta Corte? Anche a coloro che continuano a costruire, mattoncino sopra mattoncino, le accuse contro Giancarlo Pittelli? Inizino a leggere, intanto. Il riferimento è al fatto specifico che ha dato origine alla decisione, un telegramma non consegnato. “In effetti, la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Permessi, legittima la distinzione tra chi non può collaborare con la giustizia e chi non vuole di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2022 Per presentare una richiesta ammissibile di permesso-premio (una richiesta che possa, cioè, essere esaminata nel merito), il condannato per “reati ostativi” deve sottostare a regole dimostrative più o meno rigorose, a seconda delle ragioni per cui non ha collaborato con la giustizia. Queste regole sono più rigorose per chi sceglie di non collaborare, pur potendolo fare; meno rigide, invece, quando la collaborazione è impossibile (in quanto i fatti criminosi sono già stati integramente accertati) o inesigibile (a causa della limitata partecipazione a tali fatti), e sarebbe quindi priva di utilità per la giustizia. La sentenza n. 20 del 2022 depositata oggi (redattore Nicolò Zanon) esclude che questa differenziazione di trattamento determini una lesione del principio di uguaglianza e perciò dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Padova. È corretto, insomma, distinguere “la posizione di chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta), da quella di chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado)”. La Corte ha richiamato anzitutto la propria sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima - limitatamente alla concessione proprio dei permessi premio - la presunzione assoluta di pericolosità a carico dei detenuti che scelgono di non collaborare (pur essendo nelle condizioni di farlo). Con quella pronuncia si è stabilito che, affinché la loro richiesta di accesso al permesso-premio sia ammissibile, è necessario acquisire elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti dei detenuti in questione con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Il magistrato di sorveglianza di Padova, proprio a seguito della sentenza n. 253 del 2019, riteneva privo di giustificazione e lesivo del principio di uguaglianza il diverso regime probatorio vigente per i detenuti la cui collaborazione con la giustizia è oggettivamente impossibile o inesigibile, in cui, come si è detto, deve essere valutata la sola insussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso. Di qui la censura di illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1 bis, dell’ordinamento penitenziario, con l’intenzione di parificare la posizione delle due categorie di condannati. A sostegno di questa richiesta, il giudice sottolineava che l’atteggiamento soggettivo dei due gruppi di detenuti potrebbe essere identico, poiché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile non solo potrebbe non voler collaborare (se lo potesse fare), ma potrebbe rivelare, addirittura, una maggiore pericolosità rispetto a colui che abbia volontariamente scelto di serbare il silenzio, mosso ad esempio da timori per la propria e l’altrui incolumità. La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le censure, ha tuttavia osservato che il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce - secondo dati di esperienza - un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Pre, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, ai fini del superamento del regime ostativo può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La Corte conclude che questa differenziazione non appare irragionevole. Tanto è stato sufficiente per rigettare la questione, “senza dimenticare - aggiunge la sentenza - che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto - nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante - a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile”. Inammissibile l’appello depositato tramite la Pec del difensore se è privo della firma digitale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2022 Viola inoltre le regole tecniche di creazione del documento informatico la “scannerizzazione” di un atto del procedimento. Il deposito digitale di un atto del procedimento privo della firma digitale, ne determina l’inammissibilità. La ragione “tecnica” dell’obbligo di apporre la firma digitale o la firma elettronica qualificata non è superabile da altri elementi che possano affermare la paternità dell’atto come proveniente dal difensore. Indizi sulla paternità del difensore dell’atto del procedimento potrebbero invece rimediare all’assenza della firma in calce all’atto, ma solo quando questo è cartaceo. Come la firma sulla procura speciale contenuta in unico atto insieme al ricorso non firmato. La Cassazione con la sentenza n. 2874/2022 respinge il ricorso contro l’ordinanza di inammissibilità dell’atto di impugnazione in appello, che era stato trasmesso alla cancelleria del giudice via pec, ma senza firma digitale. Inoltre, il deposito telematico di un atto del procedimento nella forma di documento informatico può sostanziarsi solo in un file di testo trasformato in pdf e non nella scannerizzazione di un atto cartaceo pur firmato a mano dall’avvocato. Ciò che contrasta alla possibilità di considerare valido e proveniente dal difensore l’atto del procedimento, nella forma di documento digitale, è non solo l’assenza della firma digitale, ma anche la formazione stessa del documento creato nella forma di immagine scaricata. Non rileva che la foto dell’atto di impugnazione venga trasmessa nel formato pdf, lo stesso che si richiede per il documento informatico valido. In quanto la validità si sostanzia nel processo di creazione. E quindi nel rispetto della regola tecnica di trasformazione di un file di testo in formato di pdf, come prescrive il Dl 137/2020. La Cassazione fa rilevare che la modalità della scannerizzazione del documento analogico è legittima per gli allegati, ma non per gli atti del procedimento. Infatti, l’atto del procedimento deve integrare la natura di documento originale mentre la foto resa in formato pdf dell’atto redatto in forma cartacea non lo fa uscire dal dominio di chi lo ha prodotto. Per cui solo l’allegato può assumere la forma di un’immagine scaricata e scambiata via Pec. Infatti, l’allegato deve rispondere alla natura di documento conforme all’originale, a differenza dell’atto del procedimento che va depositato come originale. L’assoluta e insormontabile necessità che il documento digitale composto nel rispetto della procedura di trasformazione imposta dalla legge sia corredato da una forma qualificata di firma digitale si evince anche dall’impossibilità per il giudice di avvalersi del deposito telematico per il quale l’ordinamento non ha previsto la firma digitale degli atti del procedimento di sua competenza. Toscana. Nelle carceri adottato protocollo per contenere il Covid redattoresociale.it, 27 gennaio 2022 Le misure di sicurezza contenute in un Protocollo elaborato dai responsabili della Salute in carcere delle tre Aziende Sanitarie della Toscana e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Sono contenute in un Protocollo elaborato dai responsabili della Salute in carcere delle tre Aziende Sanitarie della Toscana e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, le misure di sicurezza messe in atto per il contenimento e la gestione dell’emergenza Covid-19 negli Istituti Penitenziari della Regione. Il documento è aggiornato periodicamente sulla base dell’andamento delle condizioni epidemiologiche ed è stato declinato e condiviso con le Direzioni delle Carceri nei diversi Istituti penitenziari. In particolare per il Carcere di Prato il protocollo prevede sia le misure per la prevenzione dell’infezione da Sars-CoV-2 all’interno dell’Istituto che quelle per il contenimento e la gestione di un focolaio epidemico. Nell’ex-Polo universitario è prevista l’individuazione di un reparto Covid nel quale sono ospitati i soggetti positivi ed in caso di insufficienza dei locali viene organizzata la suddivisione in compartimenti delle sezioni, in modo da permettere l’isolamento dei soggetti positivi e dei contatti stretti di questi dai soggetti negativi con la contestuale limitazione di alcune attività (passeggiate, docce, campo sportivo), in modo da circoscrivere il focolaio epidemico. Tutti gli interventi previsti dal Protocollo sono stati adottati tempestivamente dal comparto sanitario in stretta sinergia con la Direzione dell’Istituto penitenziario. I soggetti sintomatici sono stati sottoposti, in tempo reale, a test antigenico rapido per intercettare i soggetti positivi e procedere all’isolamento. Per valutare le dimensioni del focolaio sviluppato, sono stati effettuati tamponi rinofaringei molecolari o antigenici alle persone detenute. Il complesso intervento, articolato per sezione detentiva e concordato con la Direzione del Carcere si è esaurito nell’arco di una settimana dalle prime avvisaglie della comparsa dei primi casi. Una tempistica adeguata anche in considerazione della pressione sul Laboratorio di Prato a seguito dell’aumento consistente dei contagi a livello di tutta la provincia. Sempre per contenere la diffusione dell’infezione è stato anche attivato un servizio quotidiano per effettuare i test antigenici rapidi per i detenuti che lavorano e per i dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria. Milano. In crisi il modello di lavoro nel carcere di Bollate vita.it, 27 gennaio 2022 L’allarme della cooperativa bee.4 Altre menti: “Dopo oltre 15 anni si conclude in modo opaco il percorso progettuale avviato dall’operatore telefonico H3G e proseguito con la società WindTRE Italia”. Meno di un anno fa per poter continuare il lavoro lo smartworking era entrato in cella. Se la situazione non cambia la prospettiva è la cassa integrazione. La nota che arriva dalla cooperativa bee.4 Altre menti, impresa sociale fondata nel 2013 per avvicinare il percorso di detenzione alla finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione e che lavora offrendo servizi alle imprese di Business process outsourcing nel carcere di Bollate e che solo lo scorso anno era riuscita a portare lo smart working in cella (ne avevamo parlato qui) è un grido di allarme. “Il 31 marzo prossimo, a seguito di una proroga contrattuale tecnica necessaria alla gestione della transizione delle attività, si andrà a concludere il progetto di collaborazione che per tanti anni ha visto legati il carcere di Bollate e l’operatore telefonico H3G prima e WindTRE a seguire. Un progetto avviato nel corso del 2007 con l’obiettivo di promuovere percorsi di qualificazione professionale e inserimento lavorativo per le persone presenti all’interno dell’istituto di Bollate”. Marco Girardello, direttore risorse umane della cooperativa bee.4 altre menti spiega: “Abbiamo provato a costruire un’interlocuzione con Windtre Italia per ragionare sulle conseguenze legate alla conclusione del progetto che da oltre 15 anni stavano realizzando all’interno di Bollate, purtroppo ad oggi nonostante numerosi tentativi di contatto non abbiano ricevuto risposte alle nostre richieste di confronto se non richiami alle difficoltà che l’azienda stava incontrando a causa del suo non positivo andamento commerciale alla luce dell’importante numero di clienti persi nel corso degli ultimi anni, difficoltà che imponevano l’interruzione obbligata ed immediata della collaborazione con il carcere di Bollate”. A nulla sono valsi i tentativi fatti tanto dalla cooperativa bee.4 titolare della commessa di lavoro, quanto dalla direzione della II Casa di Reclusione di Milano Bollate e dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia per riallacciare un dialogo con l’azienda che mettesse al centro la valutazione degli impatti che tale decisione avrebbe determinato tanto sui trenta operatori interni coinvolti dalla commessa, quanto sui professionisti esterni, e più in generale sugli equilibri gestionali del microcosmo carcerario. La vicenda legata alla conclusione della collaborazione tra la società WindTRE e il carcere di Bollate - osservano dalla cooperativa - apre uno spazio di riflessione rispetto alle ricadute ed ai costi sociali ed economici che talune decisioni assunte da imprese private concorrono a determinare sulle nostre comunità territoriali. “Abbiamo chiesto all’azienda un po’ più di tempo per poter individuare delle modalità utili a calmierare gli impatti devastanti derivanti da questa decisione” continua Girardello. “Ci siamo chiesti con che spirito e con che logica una grande impresa potesse mettere in atto pratiche di questo tipo consapevole del fatto che nel corso degli ultimi tre mesi del 2021 abbiamo dovuto avviare nove nuovi inserimenti per far fronte alla mole di lavoro che ci veniva assegnata e che doveva essere gestita nel pieno rispetto degli standard di servizio. Facciamo proprio fatica a capire” insiste. “Ora non ci resta altro che dichiarare lo di “crisi aziendale” atto dovuto per poter formulare la richiesta di cassa integrazione straordinaria al fine di tutelare le persone che ora sono prive di lavoro. Restiamo fiduciosi e convinti di poter superare questa brutta situazione individuando nuove collaborazioni con aziende sensibili e vogliose di spendersi in una collaborazione capace di determinare un forte valore aggiunto. Il nostro punto di forza è rappresentato dalle competenze e dalla voglia di lavorare e di impegnarsi dei nostri operatori, questi fattori rappresentano delle solide fondamenta per ricominciare”. Anche la città di Milano è direttamente coinvolta in questa situazione avendo manifestato la propria intenzione nel volersi impegnare al fine di tutelare un modello di esecuzione penale fondato sul lavoro e sulla possibilità di svolgere percorsi di reinserimento seri nel quadro di attività autenticamente qualificanti. Tanto l’assessore al Welfare Bertolé, quanto l’assessore al lavoro Cappello hanno manifestato il loro interesse ad essere parti attive di questa vicenda, così come il Garante Comunale per le persone private della libertà personale Francesco Maisto. Cagliari. Carceri minorili, Irene Testa: “Puntare sulla rieducazione e non sulla segregazione” sardegnalive.net, 27 gennaio 2022 Il Partito Radicale e Don Ettore Cannavera hanno incontrato la ministra Cartabia che presto farà visita alla comunità “La Collina” di Serdiana. Nel pomeriggio di oggi si è tenuto l’incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e la delegazione del Partito Radicale, composta dal segretario Maurizio Turco, la tesoriera Irene Testa, e Don Ettore Cannavera della Diocesi di Cagliari. Al centro dell’incontro la situazione delle carceri minorili in Italia e, in particolare, l’interesse ad approfondire e fornire i dati raccolti dal Partito Radicale e da Don Ettore durante la visita in tutti i 17 istituti presenti nel territorio nazionale alla ministra. Dall’analisi dei dati e dai sopralluoghi è emersa “l’inutilità del carcere minorile dimostrata dalla recidiva del 70%” e la necessità di individuare una soluzione diversa dal carcere, che sia basata sulla rieducazione e non sulla segregazione. “Entrare nel minorile significa avere una specie di ergastolo assicurato”, spiega Irene Testa che porta all’attenzione l’esempio della comunità “La Collina” di Serdiana, fondata più di vent’anni fa un gruppo di persone animato da Ettore Cannavera, un sacerdote che non pensa al Vangelo come dottrina astratta, ma come pratica da esercitare ogni giorno nella vicinanza agli emarginati. E che non ha mai creduto che il carcere sia la risposta da offrire ai giovani che hanno violato la legge. “Il carcere alternativo proposto dalla Comunità risolve il problema del rispetto dei diritti umani assieme a quello della recidiva - sostiene il Partito Radicale -. Può diventare un caso di scuola che dimostra la praticabilità di un carcere rieducativo e non puramente segregativo come quello attuale. La Comunità non chiede soldi per il mantenimento dei detenuti, ma solo per la rieducazione; per questo costa meno del carcere attuale. C’è bisogno di un cambiamento di paradigma riguardo il carcere e il paradigma dev’essere la rieducazione”. Il segretario Maurizio Turco, la Tesoriera Irene Testa e Don Ettore Cannavera, che hanno invitato la ministra Cartabia a venire in Sardegna per visitare la comunità “La Collina”, non propongono di chiudere il carcere, ma di farlo funzionare secondo quanto richiesto dalla Costituzione”. “Anche la comunità è un carcere - hanno detto infine, ma è un carcere che funziona secondo il dettato costituzionale”. Genova. Convenzione tra Csi e Uepe per il reinserimento dei detenuti nella società genova24.it, 27 gennaio 2022 Un paio di anni fa ad esempio nel carcere di Marassi ci fu una splendida iniziativa, in collaborazione con l’educatore Federico Ghiglione, per far giocare a rugby i papà detenuti con i loro figli. Ormai da molti anni l’Uepe, l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Tribunale di Genova, ha stipulato una convenzione con il comitato territoriale del Centro Sportivo Italiano. Il sistema giuridico italiano, ispirato dall’articolo 27 della Costituzione che afferma con forza il fine rieducativo della pena, prevede, come modalità di esecuzione della condanna, sia la detenzione in istituti penitenziari sia le misure alternative, se si è in possesso di determinati requisiti oggettivi e soggettivi. La finalità del reinserimento nella società, secondo le ultime ricerche, viene raggiunta meglio quando l’esecuzione della pena avviene all’esterno del carcere. La recidiva è del 70% per le persone ristrette negli istituti penitenziari e del 30% per coloro che hanno beneficiato di misure alternative. Per oltre 10 anni Adriano Bianchi, indimenticabile dirigente del Centro Sportivo Italiano scomparso alcuni mesi fa, è stato il referente per il CSI dell’UEPE ed ha dato la possibilità a decine di uomini e donne di svolgere lavori socialmente utili sia presso la sede di vico Falamonica 1 sia soprattutto presso la struttura diocesana polisportiva di S. Desiderio, gestita dalla Cooperativa Sport Service Family: cooperativa di cui Adriano fu uno dei fondatori nel settembre 2000. Molti comitati territoriali del CSI da parecchio tempo hanno un’attenzione particolare per il sostegno ai detenuti con progetti specifici e promuovendo soprattutto l’idea di sport come educazione alle regole, socializzazione ed autostima. Un paio di anni fa ad esempio nel carcere di Marassi ci fu una splendida iniziativa, in collaborazione con l’educatore Federico Ghiglione, per far giocare a rugby i papà detenuti con i loro figli. Fu un’esperienza umanamente bellissima, alla quale partecipai anche io, con una quindicina di ragazzi che interagirono per un paio di ore con i loro genitori in un contesto gioioso, all’aria aperta, ben diverso dall’asettica sala- colloqui della casa circondariale. La “Festa del papà in carcere” venne sostenuta dal Centro Sportivo Italiano anche nell’ambito della campagna “Il mio campo libero” che vede sempre più lo sport come strumento per socializzare, creare autostima per combattere ansia, depressione ed aggressività. Il Comitato di Genova del CSI alcuni anni fa si fece promotore di un’altra iniziativa a favore delle persone detenute, “Una mano amica oltre le sbarre”: la raccolta, insieme ad altre associazioni regionali, di beni di prima necessità per l’igiene e pulizia personale. Un altro progetto portato avanti da Adriano Bianchi che ripeteva spesso “Anche chi sbaglia merita un’altra possibilità e può sempre riscattarsi”. L’istituto della messa alla prova è stato introdotto con una legge del 2014 per i reati puniti con una sola pena pecuniaria o con una pena detentiva non superiore ai quattro anni. Consiste nella sospensione del procedimento prima del giudizio e nella predisposizione, da parte dell’UEPE, di un così detto programma di trattamento, finalizzato a riparare le conseguenze dannose o pericolose del reato, che prevede, come condizione necessaria, lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Il Tribunale di Genova ha una lista di enti e strutture che il singolo individuo può contattare: se c’è disponibilità dall’ente viene inviata una lettera all’UEPE che la gira al giudice. A questo punto vengono stabilite le ore che la persona deve fare, come misura alternativa al carcere. Adriano Bianchi è scomparso prematuramente il 16 marzo 2021 ed il suo successore, come referente CSI per l’UEPE, è Andrea Pedemonte, Direttore di Altum Park. “Indirizziamo le persone messe alla prova, salvo rare eccezioni, ad Altum Park di S. Desiderio. Attualmente possiamo gestirne contemporaneamente un massimo di 15, fino a qualche anno fa erano 7. Dopo che riceviamo dal giudice la lettera con le ore che la persona deve svolgere attiviamo l’Inail - dice Andrea Pedemonte - per avere la copertura assicurativa. È un iter abbastanza lungo che dura anche mesi. Mediamente ogni persona ha un “carico “di 90 ore, 6 ore settimanali e cerchiamo di concentrarle nel fine settimana. La maggior parte dei lavori sono pulizia della struttura che è grande più di tre ettari, la cura del bosco, la raccolta foglie”. Il lavoro di pubblica utilità, nell’ambito della messa alla prova, è un’attività non retribuita, materiale o intellettuale, che può essere svolta presso tutti coloro che abbiano sottoscritto una convenzione con il Tribunale. L’esito positivo della messa alla prova comporta l’estinzione del reato. Prato. Covid, nel carcere della Dogaia positivi 131 detenuti su 540 notiziediprato.it, 27 gennaio 2022 Assunta una serie di provvedimenti per contenere il focolaio. Sul fronte delle vaccinazioni, l’87 per cento dei reclusi è vaccinato con seconda e terza dose. Continuo monitoraggio sul personale dipendente: in media, ciascun operatore, è stato sottoposto a nove controlli tra tamponi e test seriologici e rapidi. Cento trentuno detenuti positivi al Covid su un totale di 540 reclusi nel carcere di Prato; nessuno dei positivi ha, al momento, condizioni di salute che necessitano di cure ospedaliere. Questa la situazione attuale alla Dogaia relativamente al focolaio che si è sviluppato e che è stato fortemente stigmatizzato dai sindacati. Anche nella casa circondariale di Prato, come negli altri istituti penitenziari toscani, è in vigore il protocollo elaborato dai responsabili della salute in carcere delle tre aziende sanitarie della Toscana e dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, con le misure di sicurezza messe in atto per il contenimento e la gestione dell’emergenza Covid. Per il carcere di Prato il protocollo prevede sia le misure per la prevenzione dell’infezione all’interno dell’Istituto che quelle per il contenimento e la gestione del focolaio epidemico. Nell’ex-polo universitario è previsto l’allestimento di un reparto Covid nel quale sono ospitati i soggetti positivi ed in caso di insufficienza dei locali viene organizzata la suddivisione in compartimenti delle sezioni, in modo da permettere l’isolamento dei soggetti positivi. Per valutare le dimensioni del focolaio sviluppato, sono stati effettuati tamponi rinofaringei molecolari o antigenici alle persone detenute. Il complesso intervento, articolato per sezione detentiva e concordato con la direzione del carcere, si è esaurito nell’arco di una settimana dalle prime avvisaglie. Sempre per contenere la diffusione dell’infezione è stato anche attivato un servizio quotidiano per effettuare i test antigenici rapidi per i detenuti che lavorano e per i dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Contestualmente a queste attività è stato rafforzato il servizio di monitoraggio dei soggetti positivi per verificare in maniera continua la situazione clinica ed una eventuale valutazione medica. Valutazione che riguarda, naturalmente, anche il personale in servizio con un monitoraggio costante: dall’inizio della pandemia ad oggi sono stati praticati al personale dell’Istituto 428 tamponi molecolari, 877 test antigenici rapidi e 929 test sierologici (una media di circa 9 esami per ogni dipendente). Gli operatori del presidio sanitario del carcere hanno confermato il loro impegno sul versante della campagna vaccinale. I dati ad oggi: 641 prime dosi; 590 seconde dosi; 287 terze dosi. La percentuale di detenuti vaccinati (con seconda e con terza dose) è pari all’87 per cento (469 vaccinati su 537 detenuti), se si considerano anche le prime dosi la percentuale sale al 91. La campagna vaccinale è stata estesa anche al personale della polizia penitenziaria e del comparto:110 sono le terze dosi somministrate al personale di polizia, 58 quelle al personale del comparto. Cesena. Avvocati di strada, giustizia per gli ultimi di Francesca Siroli Il Resto del Carlino, 27 gennaio 2022 Un anno intenso per l’associazione cittadina che offre supporto legale e umanitario alle persone senza fissa dimora. Non si ferma l’impegno dell’associazione ‘Avvocato di strada’ dedita alla tutela legale gratuita ai senzatetto per difenderne i diritti e promuoverne l’integrazione. Un servizio che restituisce dignità a coloro che restano ai margini della società. La mancanza di una dimora costituisce infatti un handicap gravissimo dal punto di vista della vita sociale: senza un domicilio non è possibile avere documenti, iscriversi alla lista delle case popolari, avere piena assistenza sanitaria al di là del pronto soccorso. A Cesena lo sportello è attivo dal maggio 2019 nella sede della Caritas diocesana, in via Don Minzoni 25, dove i volontari ricevono ogni secondo e quarto giovedì del mese. Nel 2021 sono state 33 le persone che hanno usufruito di una consulenza legale, la stragrande maggioranza (22) sono straniere. Le pratiche giudiziali seguite sono state dieci: sei riguardanti problematiche di diritto penale, tre di diritto civile e una di diritto all’immigrazione. “Ci occupiamo prevalentemente di problemi di residenza e permessi di soggiorno - spiega Emmanuele Andreucci, coordinatore di ‘Avvocato di strada’ -. Sul piano penale abbiamo seguito, tra gli altri, casi di aggressione nei confronti dei senza fissa dimora, c’è poi chi ha ha perso la patria potestà e vorrebbe recuperare il rapporto con i figli e la famiglia di origine, e una pratica inerente la separazione dal coniuge”. La Onlus, che collabora in sinergia con l’Amministrazione comunale, è composta da una dozzina di avvocati e avvocate, tra cui alcuni praticanti, e da due medici. La sua attività non è limitata solo all’assistenza legale, ma è promotrice di varie iniziative, come la ‘mascherina sospesa’ che consiste nella raccolta, nelle farmacie aderenti, di mascherine e gel igienizzati da destinare agli homeless nel periodo della pandemia. Inoltre, in città i volontari stanno mettendo a punto un ambulatorio medico di strada. “Il progetto, nato su impulso della Caritas, sarà finalizzato ad assicurare le cure a chi non ha un alloggio stabile. Siamo fiduciosi che possa partire a breve. La nostra ambizione è che possa essere implementato con altri servizi, come le cure dentistiche o le terapie fisioterapiche”, afferma Andreucci. In passato gli avvocati dell’associazione si sono scontrati contro il Decreto sicurezza voluto dal leader della Lega Matteo Salvini quando era ministero dell’Interno del primo governo Conte, che impediva ai richiedenti asilo l’iscrizione all’anagrafe comunale. In quel caso hanno sconfitto più volte il Comune di Cesena, vincendo tutti i ricorsi presentati. Modena. “Ariaferma per raccontare l’altro volto della vita in carcere” di Alberto Morsiani Gazzetta di Modena, 27 gennaio 2022 Interessante incontro ieri alla Sala Truffaut con il regista Leonardo Di Costanzo “Mi sono divertito a mettere fuori ruolo sia Toni Servillo che Silvio Orlando”. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e benissimo accolto dalla critica, “Ariaferma” è il terzo lungo di finzione di Leonardo Di Costanzo e la prima volta insieme sullo schermo di Toni Servillo e Silvio Orlando: la storia di un carcere in via di dismissione, in cui il tempo dell’attesa scioglie lentamente le regole e i confini tra agenti di custodia e detenuti. Il regista ieri era ospite alla sala Truffaut per presentare la pellicola. Il carcere è un luogo di violenza, ma nel suo film non c’è violenza… Sì, faccio fatica a mostrare la violenza, non saprei neppure farlo. Mi interessa di più far vedere il prima e il dopo della violenza. C’è un certo immaginario convenzionale del carcere, non volevo mettere cose che lo spettatore già sa e si aspetta. Io lavoro in un dialogo costante con le aspettative dello spettatore. Non volevo un film sulla violenza, ma in cui ci fosse un’eco della violenza, le sue motivazioni. Nel film non c’è una distinzione chiara tra guardie e carcerati, non c’è bianco e nero ma una sorta di grigio Nei miei film i personaggi abitano una zona grigia della società, stanno ai limiti del dentro e del fuori, del bene e del male. È questa la zona che mi interessa, sono questi i personaggi più interessanti da analizzare. Faccio vedere l’individuo all’interno di una realtà sempre più confusa, complicata, complessa. Non mi interessano i buoni e i giusti, la realtà è troppo sfumata per tentare divisioni manichee”. Ancora un luogo chiuso, come nei tuoi film precedenti. C’è una ragione? “Quando scrivo un film mi capita di restringere l’azione in un luogo singolo, separato. C’è sempre un luogo in cui tutto appare più chiaro, potrebbe essere una scuola, un ufficio. Forse ciò mi deriva dalla mia esperienza nel documentario. Un luogo, in questo caso un carcere, simile a un teatro, in cui le cose accadono e si vedono più chiaramente. Se vuoi rappresentare il potere, vai nell’ufficio del sindaco e ci trovi tutto. Io sono un tipo un po’ sparagnino, pigro, faccio tesoro di questo mio vizio”. Il cinema è fatto di rapporti economici con le cose, la creazione è anche un fatto di economia, di risparmio. Oggi si filma troppo, ci sono troppe immagini in giro. Per la prima volta lavori con un cast di professionisti e non professionisti… “Ho accettato una situazione di rischio, di conflitto. Ho messo assieme due forme di collaborazione artistiche molto diverse. I detenuti veri del film conoscono benissimo il carcere, ci hanno passato 20 anni. L’attore deve invece immaginare, interpretare. Volevo una certa distanza, un livello più alto rispetto al semplice realismo. Nel film non volevo solo verismo, ma un naturalismo più staccato. Una situazione astratta, non realistica. Dissemino il film di tanti piccoli segnali per far capire allo spettatore questo. Non potevo chiedere ai veri detenuti di recitare come Servillo, ma potevo chiedere a lui e agli altri professionisti di asciugare la loro recitazione, di avvicinarsi col corpo. Li ho anche messi fuori ruolo, Servillo fa il buono e Orlando il cattivo, Toni è il tipo compassionevole mentre Silvio è quello minaccioso. Nati nello stesso quartiere, è lo stesso personaggio scisso in due”. Il film è stato realizzato durante il lockdown. Doppia segregazione, dunque… “Il lockdown è stato funzionale a creare un’atmosfera calda e comunitaria sul set. Il cast era sempre riunito assieme a fare le prove. Si mangiava assieme, c’era passaggio di informazioni, chiacchiere, scambio di esperienze. Una situazione bellissima per tutti. Quando sei in una comunità per cause di forza maggiore, o ti scanni o diventi amico. È stato questo il caso”. L’alternanza scuola-lavoro forma futuri lavoratori ubbidienti e sottopagati di Francesca Fornario Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2022 Lorenzo Parelli, studente all’ultimo anno di scuola superiore, è morto schiacciato da una trave d’acciaio in un’azienda di costruzioni meccaniche. “È uscito per andare a scuola e non è più tornato”, si dispera la madre. Lorenzo è morto in orario scolastico, durante le ore di alternanza che dovrebbero preparare gli studenti al mondo del lavoro. Ossia, all’insieme delle attività e delle funzioni “che concorrono al progresso materiale e spirituale della società”. Dunque, alla produzione di beni e servizi e all’organizzazione di questa produzione. Avete però mai avuto notizia di studenti e studentesse che, durante le ore di alternanza scuola-lavoro, svolgano mansioni manageriali? Che assistano gli azionisti mentre si spartiscono i dividendi? Che affiancano gli amministratori delegati mentre ristrutturano le aziende proponendo scivoli in uscita ai lavoratori tutelati dall’articolo 18 per assumerne di nuovi con contratti precari? Notizie di studenti che imparino dai direttori del personale a stabilire i turni di lavoro, che partecipino ai consigli di amministrazione dove si decidono fusioni e delocalizzazioni sulla pelle dei lavoratori? Studenti che affianchino il management aziendale mentre organizza la produzione sub-appaltando gli appalti? Che affianchino i delegati sindacali nelle vertenze e nella stesura dei contratti? No. Perché l’alternanza scuola-lavoro non si è data lo scopo di preparare davvero le ragazze e i ragazzi al mondo del lavoro - di aiutarli a comprendere e un domani a gestirne le dinamiche, a migliorare i processi produttivi, a garantire la sicurezza e i diritti dei lavoratori. Si è data lo scopo di fornire alle imprese mano d’opera gratuita nei mesi obbligatori di alternanza e di formare - o meglio, deformare - i lavoratori e le lavoratrici di domani rendendoli ubbidienti e docili, spedendoli a svolgere le mansioni più basse senza stipendio e senza tutele sindacali, pronti per adattarsi al mondo del lavoro che li aspetta: quello del lavoro precario e sottopagato dove 9 contratti su dieci sono a termine e un lavoratore su quattro è povero nonostante la Costituzione preveda che non lo sia nessuno. Ciascun lavoratore avrebbe infatti diritto a una retribuzione che sia “in ogni caso sufficiente a assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Eppure, 5 milioni di lavoratori guadagnano meno di 10mila euro lordi l’anno e il 60 per cento di chi è entrato nel mondo del lavoro negli anni 90 avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà. È a questo sfruttamento legalizzato che prepara l’alternanza scuola-lavoro. Dopo la morte di Lorenzo, migliaia di studenti sono scesi in piazza per protestare contro il governo e contro il sistema dell’alternanza così come concepita dal governo Renzi. Hanno reclamare il diritto a una scuola che sia sicura e che formi i cittadini e i lavoratori di domani, che insegni loro a far valere i propri diritti e a organizzare la produzione dei beni e servizi in modo da assicurare il benessere materiale e spirituale della società. Gli studenti che reclamavano il rispetto dei diritti costituzionali sono stati accolti dalle forze dell’ordine che li hanno manganellati e feriti. Immagino che per Lamorgese fossero le ore di alternanza scuola-stato di diritto. Segnalo che mentre il nostro governo migliore carica in assetto antisommossa le studentesse e gli studenti che chiedono il rispetto della Costituzione, in Cile nasce un governo socialista in larga parte composto dai leader delle lotte studentesche che hanno determinato il risultato elettorale. Un governo socialista con 14 donne su 24 ministri. In Italia sarebbe impossibile. Trovare 24 socialisti. Giornata della Memoria. Le carceri luoghi della memoria e della solidarietà di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 gennaio 2022 Nella mappa dei luoghi in cui si consumò la violenza nazista, le carceri di Regina Coeli a Roma di San Vittore a Milano occupano un posto di triste rilievo. Durante l’occupazione tedesca nel famigerato terzo braccio della prigione romana controllato dal comando tedesco, e nel sesto, riservato ai prigionieri politici, furono rinchiusi partigiani e persone anche solo sospettate di opporsi ai nazifascisti. Da Regina Coeli, oltre che dalla prigione di Via Tasso, il 24 marzo 1944 fu prelevata la maggior parte degli uomini uccisi alle Fosse Ardeatine mentre tre dei raggi di San Vittore, soggetto alla giurisdizione nazista tra il settembre 1943 e aprile 1945, furono destinati a prigionieri politici e a ebrei. Oggi, fra le oltre 70.000 pietre d’inciampo installate nei marciapiedi di tutta Europa, nei pressi dei posti in cui le vittime del nazismo furono fatte prigioniere o uccise, ve ne sono alcune davanti a questi luoghi dove in tanti sostarono prima di essere di inviati nei campi di sterminio. Come Jean Bourdet, partigiano di origine francese, deportato nel 1944 dalla stazione Tiburtina e morto nel lager di Ebensee, e come l’antifascista Paskvala Blesevic scomparso a Mauthausen poco prima del termine della guerra. A loro sono dedicate le due pietre d’inciampo deposte nel 2014 in via della Lungara, 19 a pochi metri dall’ingresso di Regina Coeli. Due agenti di custodia in servizio a San Vittore, Sebastiano Pieri e Andrea Schivo, deportati perché scoperti dai nazisti a recapitare messaggi ai parenti di antifascisti ed ebrei detenuti, sono invece ricordati da pietre deposte nel 2020 e nel 2021 davanti al portone di Via Filangieri, 2. La senatrice Liliana Segre, ha suggerito quest’anno la posa di una pietra dedicata a un altro nome legato al carcere milanese, Ermanno Fontanella, un conoscente che cercò di rassicurare suo padre Alberto e lei, al tempo tredicenne, al loro ingresso a San Vittore dove restarono mesi prima di essere deportati ad Auschwitz. Liliana Segre ha raccontato l’episodio nel corso della conferenza stampa di presentazione delle iniziative dedicate al Giorno della Memoria ricordando anche come uscirono dal carcere tra l’indifferenza generale diretti al famigerato binario 21 da dove partivano i convogli per i campi di concentramento. “Solo i detenuti degli altri raggi - ha detto la senatrice - incarcerati per chissà quale motivo, furono capaci di pietà, facendoci coraggio, rassicurandoci che ce l’avremmo fatta, lanciandoci una arancia, del pane, una sciarpa”. Giornata della Memoria. Le celebrazioni che scivolano nella retorica e non danno risultati di Lucetta Scaraffia La Stampa, 27 gennaio 2022 Capire quanto è accaduto e opporsi alla cancel culture serve a sostenere il “mai più”. Oggi è la più importante delle “giornate della memoria”, la giornata della memoria per eccellenza, cioè il giorno in cui si commemora la Shoah con l’intenzione soprattutto di educare le giovani generazioni. Le parole che ricorrono ovunque sono “mai più”, ma meno chiaro è a cosa si riferisca questo mai più: mai più violenze e eccidi in generale, o mai più antisemitismo e sterminio del popolo ebraico? È opinione diffusa che le celebrazioni e la commozione, gli omaggi a ormai pochi sopravvissuti, ci mettano al sicuro dal ripetere questa tragedia, costituiscano un efficace insegnamento alle giovani generazioni alle quali specialmente sono rivolte. Celebrazioni e memorie, invece, scivolano facilmente nella retorica, nel sentimentalismo e non ottengono il risultato voluto. È necessario piuttosto specificare come e perché questo sterminio è avvenuto, cioè passare dalla memoria alla storia. Perché solo la storia ci porta a ragionare, a comprendere colpe e responsabilità, a capire di cosa siano capaci gli esseri umani in alcune circostanze. La memoria invece è per definizione soggettiva, quindi facilmente manipolabile, e può diventare grimaldello per nuove ideologie o, come minimo, scorciatoie per l’ignoranza. Nella frase “mai più”, cioè nella utilizzazione superficiale della memoria, si nasconde infatti la possibilità di pensare che la tragedia è accaduta solo perché c’erano dei cattivi - fascisti e ancor peggio nazisti - e quindi rassicurarci: noi non siamo nazisti, anzi li combattiamo, quindi siamo buoni. È un modo sbrigativo per evitare di porsi domande, per evitare - scrive Ugo Volli nel suo recente libro sulla giornata della memoria - la fatica di cercare i segnali che possono spiegare il genocidio fra i propri tratti culturali. Per rispondere a questa domanda serve la storia, proprio quella materia che oggi nelle scuole è quasi scomparsa - diventando in molti casi un orribile ibrido, la geostoria, che vuol dire non sapere più niente né di storia né di geografia - che permette di ricercare nel passato i segni che hanno permesso e spiegano questa catastrofe. Spiegare cioè che il popolo ebraico è stato per secoli l’unica minoranza - perché l’identità religiosa costituiva l’aspetto fondamentale dell’identità di un gruppo - diversa presente nei paesi europei, se pure in forme e quantità differenti. Questa convivenza con il diverso, che spesso ha dato origine a varie forme di antigiudaismo, si è intrecciata, dopo la parificazione degli ebrei voluta dalla rivoluzione francese e esportata in tutta Europa, con una forte invidia sociale. Gli ebrei, ormai liberi di scegliere le professioni che volevano e di abitare dove volevano, raggiungevano rapidamente posizioni di spicco nei nuovi settori emergenti, come il giornalismo, la politica, la vita intellettuale in generale, aggiungendo così questi nuovi traguardi a quelli tradizionali della finanza intessuta attraverso legami sovranazionali. Su questa situazione già carica di tensione che rischia di scoppiare al minimo accenno - basti ricordare il caso Dreyfuss - si aggiunge, nei primi decenni del 900, la scienza, cioè una scienza allora molto stimata, l’eugenetica, che stabilisce che gli ebrei appartengono a una razza inferiore. Sì, proprio quella scienza che oggi con i vaccini ci sta salvando dal Covid, che troppo spesso amiamo credere buona per definizione ma che, quando si serve delle ricerche per costruire nuove ideologie, può diventare anch’essa un’arma disumana. Se non riflettiamo su questi aspetti storici, se non vogliamo capire come mai siamo arrivati a quel punto di disumanità, è difficile credere che il “mai più” sia qualcosa di meglio di una vana speranza. Esagerare nella memoria celebrativa porta a sopravvalutare la memoria, e su questo si basa anche un altro pericolo. Pensare la memoria senza la storia, infatti, è oggi l’atteggiamento base del movimento woke, di quella cancel culture che porta ad abbattere statue, a censurare opere d’arte letterarie, a distruggere o cancellare dipinti e disegni, così come alle azioni vandaliche che compiono i talebani. Può portare a distruggere invece di porsi domande, invece di cercare di capire, invece di cercare veramente di diventare migliori riflettendo sul passato. La vera tragedia è che i sostenitori della cancel culture oggi stanno esercitando una non trascurabile influenza nelle università, cioè nei luoghi in cui si preparano gli insegnanti di domani. Dobbiamo esserne consapevoli ogni volta che non ci opponiamo alla loro prepotenza, ogni volta che accettiamo i loro diktat per paura di essere additati al ludibrio dei social, per paura di non essere abbastanza moderni. E ogni volta che scegliamo la memoria - via più facile e “di effetto” - invece della storia. Gelo della ragione e fine dei migranti di Francesca Paci La Stampa, 27 gennaio 2022 Dicono che possano volerci anche parecchie ore prima che il corpo ceda definitivamente al freddo. Il cuore rimbalza, il respiro singhiozza, gli occhi febbricitano, braccia e gambe via via più rigide diffondono un torpore livido. È così che lunedì notte sette giovani bengalesi sono morti a poche miglia di mare da Lampedusa. È così che a novembre un bambino siriano di appena un anno ha perso la vita nella foresta ghiacciata lungo il confine bielorusso, a un passo dalla Polonia e dalla libertà. È ancora così che tre settimane fa una mamma proveniente dal lontano Afghanistan si è fermata per sempre al confine tra Iran e Turchia, sepolta lì, nella neve, dopo essersi sfilate le calze per avvolgervi le mani assiderate dei figli e scaldarsi il cuore. Che se ne parli oppure no, i migranti continuano a partire, a rischiare, a morire. Nel Mediterraneo, nell’Egeo, lungo la rotta balcanica, a distanza ravvicinatissima da quella fortezza Europa su cui tutti puntano la posta più alta. Mentre l’Italia aspetta il nome del prossimo presidente della Repubblica la Geo Barents, la nave di ricerca e soccorso di Medici Senza Frontiere, chiede da giorni un porto sicuro dove sbarcare le 439 persone scappate dalla Libia per arrestarsi nel limbo da cui le coste siciliane appaiono vicinissime e irraggiungibili. Quante volte abbiamo raccontato questa storia? Quante volte abbiamo cercato i volti dietro i numeri asettici degli sbarchi per sminare con una narrazione differente la retorica securitaria? Quante volte abbiamo umanizzato l’immigrazione perché facesse meno paura a una Ue su nulla tanto compatta quanto sul blindarsi dall’invasione dei disperati? Bisogna dire basta. Non possiamo fermare i migranti ma possiamo provare a fermare il gioco a somma zero in cui la politica perde sistematicamente e i barconi affondano. C’è un solo modo per affrontare il problema su scala europea ed è la revisione del regolamento di Dublino. Curiosamente l’Italia se ne interessa poco, quasi fosse un dibattito astratto, lontano, impantanato nella burocrazia. Invece non lo è. Sia pur con tempi dilatati la Commissione ha inviato al Consiglio e al Parlamento una proposta di riforma che è ora in discussione alla commissione competente, la LIBE. Ed è una proposta che, peggiorando di molto quella votata dal Parlamento di Strasburgo nel 2017 e stoppata in Consiglio, va in direzione antitetica tanto ai principi umanitari di cui pontifica l’Europa dei diritti quanto agli interessi dell’Italia. La questione è la ripartizione più equa dei richiedenti asilo che gravano sui Paesi di primo approdo, la risposta è un meccanismo facoltativo (non più obbligatorio come prima), in cui i governi che non vogliono prendere la loro quota di profughi possono alternativamente investire soldi in paesi terzi disposti a fermare i flussi o finanziare il rimpatrio degli irregolari. Poniamo per dire che la Polonia rifiutasse di accogliere la sua parte di rifugiati: avrebbe comunque la chance di compensare l’Italia aiutandola economicamente a rimandarli a casa. Sembra tutto molto noioso, vero? Per questo ce ne interessiamo poco. Occhio però, che la riforma, oltre a mercificare la solidarietà, aumenta il carico sui Paesi di primo ingresso come noi e le frecce nell’arco dei sovranisti. Oggi, checché martellino gli spacciatori di paura, l’Italia è lontana da cifre emergenziali di sbarchi. Oggi, però. Intanto si muore di freddo in mezzo al mare. Sarebbe ora che il nostro governo, forte anche dell’autorevolezza di cui gode in questa fase, prendesse in mano la riforma di Dublino. Per ogni mamma senza calze, per ogni bambino senza guanti, perché le loro vite non servano sul breve termine a bagnare di lacrime la cattiva coscienza europea e sul lungo termine a seminare l’odio da cui germogliano i muri. Ucraina, così resiste la terra di nessuno di Roberto Travan La Stampa, 27 gennaio 2022 Da otto anni la città Avdiivka vive sospesa, a ridosso del fronte, in attesa dell’invasione russa l’acquedotto è ostaggio dei separatisti, i bimbi giocano in strada tra le case murate per paura. Se c’è una parola che meglio di ogni altra, meglio di mille altre, può descrivere questa città, Avdiivka, ecco, quella parola è semplicemente “resilienza”. Perché tutto e tutti, qui, in questo agglomerato incolore sprofondato nel cuore del Donbass, si sono dovuti adattare per sopravvivere alla guerra che va avanti da oltre otto anni. In ventimila non ce l’hanno fatta, hanno gettato la spugna, sono andati ad ingrossare la marea degli sfollati - più di due milioni - tracimata dalla Crimea, Donetsk, Lugansk, incalzati dai ribelli armati e comandati da Mosca. Ne sono rimasti almeno trentamila e tutti i santi giorni fanno i conti con un destino che da un momento all’altro potrebbe capovolgerne per sempre l’esistenza: l’invasione russa. E sanno bene di cosa si tratti, l’hanno già toccata con mano, purtroppo. Perché i separatisti nel 2014 occuparono la città per tre mesi seminando morte e distruzioni prima di essere ricacciati indietro. Tornarono nel 2017 - il termometro di notte precipitava a meno venti - la assediarono per trenta giorni lasciando gli abitanti senza luce, acqua, riscaldamento ma poi si ritirarono nuovamente sconfitti. Avdiivka non ha alcun fascino, solo schiere di edifici tutti uguali, scrostati, tristi. Il grigio in tutte le sue sfumature, insomma: quello che si libera, denso e copioso, dall’immensa e arrugginita raffineria alle porte della città; e quello impalpabile del carbone che il vento solleva dalle miniere e soffia fin qui. La guerra è ovunque, si insinua in tutte le pieghe della giornata, dall’alba al tramonto ammesso che la notte si riesca a chiudere occhio. Perché il suo rumore è costante, imprevedibile, logorante. A patto di imparare a conviverci. Nei sobborghi meridionali il crepitare delle mitragliatrici e i tonfi dei mortai si odono netti, appena ovattati dalla neve. Si combatte poco distante, oltre la ferrovia che un tempo portava a Donestk ora interrotta da pesanti blocchi di cemento, le linee elettriche stappate, i binari divelti. Si sentono gli spari eppure i bambini continuano a giocare sulla neve, gli adulti non cercano ripari, le auto non invertono marcia. Non sono impazziti, hanno semplicemente imparato a selezionare la paura, per quanto possa sembrare impossibile. A orecchio riconoscono i calibri dalle detonazioni; distinguono il fuoco “amico” da quello “nemico” individuando i luoghi degli scoppi; sanno cogliere la differenza tra un colpo in partenza e uno in arrivo, tra uno isolato e uno che potrebbe preannunciarne altri, come le batterie dei letali razzi Grad russi. Il resto, ovviamente, è solo azzardo perché in guerra non v’è alcuna certezza, tutto è sempre appeso a un filo, a una traiettoria, a un posto o un a un momento sbagliato. Hanno però trovato un equilibrio, una sorta di accettabile compromesso tra rischio, disperazione ed esistenza riuscendo anche a conciliare la parola “futuro”. Perché in città i giovani continuano a mettere su famiglia, le mamme trascinano i piccoli infagottati sugli slittini. E frotte di ragazzi sciamano tutti i giorni dalla scuola Numero 2, quella con le ampie vetrate andate in frantumi chissà quante volte a causa delle esplosioni, ma sempre rimessa in sesto “perché senza scuola non ci sono bambini, senza bambini non c’è futuro”, spiega Irina, 23 anni, insegnante. È anche diventato normale mettersi in coda ogni giorno per fare scorta di acqua potabile, come i soldati nelle trincee, perché l’acquedotto è rimasto intrappolato nella “terra di nessuno”, tra i due schieramenti, ostaggio dei separatisti che continuano a colpirlo per mettere in ginocchio la città. Avdiivka non è imbandierata, nelle strade non ci sono gigantografie con immagini eroiche e frasi patriottiche per montare gli animi e sciogliere le paure. Anche la presenza dei militari è discreta, ordinata. Nulla, dunque, di quanto racconta la propaganda russa che continua a dipingere l’Ucraina un covo di pericolosi criminali nazionalisti appartenenti alla peggior feccia fascista, efficace montatura, purtroppo, della non meno devastante guerra ibrida. La principale via è ancora intitolata a Karl Marx, ma il monumento a Lenin è stato abbattuto per allontanare l’ingombrante eredità sovietica. Tram sgangherati riversano qui ogni giorno, puntuali, decine di persone che giungono dai sobborghi per affollare il mercato e i piccoli negozi che espongono nelle vetrine appannate mercanzie di ogni tipo. Sui marciapiedi donne anziane arrotondano le magre entrate vendendo semi di girasole, marmellate, verdure per pochi spiccioli, quanto basterà, sperano, per pagare il gas sempre più caro e superare il lungo inverno. Lontana, al limite della periferia Sud, splende la cupola dorata di Santa Maria Maddalena, la chiesa ortodossa. Le sue mura celesti la rendono una visione quasi mistica, sfolgorante. Nulla a che vedere con il mostruoso Mig che poco distante svetta, minaccioso e verticale, sul monumento ai caduti nella Seconda Guerra mondiale e nella campagna in Afghanistan. Si combatte a neanche a tre chilometri da qui - a Spartak, Opytne, Pisky - e appare veramente miracoloso che nulla abbia fino ad ora scalfito questo luogo pacifico cinto su due lati dai campi minati. Qui finisce la città, le sue ultime case svettano alte verso il fronte, il nemico da tempo è alle porte. Tutte portano i segni di questo dannatissimo conflitto: le facciate devastate dalle cannonate, i tetti sventrati, le finestre rattoppate con assi di legno, teli di plastica, lamiere. Qualcuno sui davanzali ha messo sacchi sabbia. Altri, ancora, hanno rinunciato alla luce del giorno murando tutte le aperture verso i campi di battaglia pur di non abbandonare le proprie case, la propria terra. “La guerra è colpa degli americani e degli inglesi”, tuona Aleksandr, anziano della minoranza russa, uscendo dalla sua abitazione sbrecciata dai carri armati separatisti. “Abbiamo sempre vissuto insieme ma abbiamo mentalità differenti: questo è il mio Paese, l’Ucraina” sostiene Viktor, 59 anni, insegnante di inglese che adesso per campare sparge sale sui marciapiedi incrostati di ghiaccio. Convivono a stento le due comunità, ma soffrono insieme anche se parlano lingue differenti. Te ne accorgi al supermercato dove le cassiere alternano gli “spasibo” al “dyakuyu” per ringraziare i clienti in russo o in ucraino. La resilienza, dunque. Che nel Donbass è anche eroica resistenza. Il Messico è stato condannato per l’omicidio di Digna Ochoa di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 27 gennaio 2022 La sentenza della Corte interamericana dei diritti umani. L’avvocata venne assassinata a 37 anni con un colpo alla testa nell’ottobre del 2001 La procura parlò di “suicidio” e chiuse l’inchiesta ignorando i ricorsi della famiglia. Digna Ochoa era una donna tosta e coraggiosa, un’avvocata che difendeva i diritti della parte più emarginata e debole della società messicana: campesinos, oppositori politici, sindacalisti. Cause difficili, ostacolate da avversari potenti e senza scrupoli e che le sono costate la vita. A oltre vent’anni dal suo omicidio, di cui ancora non si conoscono sicari e mandanti, il Messico è stato condannato dalla Corte interamericana dei diritti umani (l’equivalente della nostra Cedu) per non aver assicurato la protezione della donna per negligenza nell’inchiesta sulla sua uccisione e per aver violato il diritto della sua famiglia a conoscere la verità. Lo scorso maggio l’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad) in collaborazione con l’avvocata della vittima Karla Michel Salas aveva presentato un ricorso Amicus curiae (ovvero da parte non in causa) presso la Corte interamericana in cui si sottolineavano i ripetuti errori commessi autorità giudiziarie nel corso dell’inchiesta e i gravi pregiudizi subiti dalla famiglia. Per questo gli alti giudici della Corte interamericana impongono al Messico di “garantire maggiore protezione ai difensori dei diritti umani come giornalisti, attivisti e avvocati”, e di “individuare gli autori dell’omicidio di Ochoa”. C’è da dire che il nuovo presidente Obrador in primavera aveva ammesso pubblicamente le gravissime responsabilità di magistrati, poliziotti e della stessa classe politica chiedendo la riapertura delle indagini. Digna Ochoa è stata assassinata il 19 ottobre del 2001 nello studio legale in cui lavorava, a città del Messico. Aveva soltanto 37 anni. L’hanno trovata stesa sul pavimento con un proiettile in testa. A caldo il procuratore Bernardo Bàtiz aveva evocato la pista dell’omicidio politico, il che era del tutto logico, ma dopo pochi giorni cambiò radicalmente versione, ipotizzando addirittura un “suicidio”. Perché questa repentina conversione? Il sospetto, peraltro mai dimostrato, che Bàtiz avesse subito pressioni dall’alto, appare più che verosimile, considerando che tra i nemici dell’avvocata figuravano importanti imprenditori, governatori, membri delle forze armate e della polizia. Il clima era terribile e l’impunità di cui godevano pressoché assoluta. Tra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 decine di esponenti dell’esercito messicano sono stati infatti denunciati per violazioni dei diritti umani, specialmente nei confronti dei campesinos che lottavano contro i programmi di disboscamento promossi dai diversi presidenti, da Vicente Fox a Enrique Peña Nieto, passando per Felipe Calderón. Inoltre la stessa autopsia stabilì che il proiettile è entrato nella tempia sinistra mentre la donna era notoriamente destrimane. Una circostanza del tutto ignorata dalla procura che ha chiuso frettolosamente l’inchiesta, appoggiata dal quotidiano ultraconservatore El Universal e dalla sua campagna denigratoria nei confronti della famiglia e degli avvocati di Ochoa. E poi perché mai avrebbe dovuto togliersi la vita? Digna Ochoa era nota a tutti per la passione civile e per l’entusiasmo con cui difendeva i suoi clienti, molto spesso a titolo gratuito. Aveva scelto di essere un’avvocata dopo il sequestro del padre, un contadino sindacalista rapito e torturato dalla polizia militare che non aveva mezzi economici per potersi permettere assistenza legale. Nel corso degli anni ha subito costanti minacce e ben tre sequestri di persona da parte di gruppi paramilitari ma anche per mano di membri regolari dell’esercito. L’hanno picchiata, l’hanno violentata e intimidita e nel gennaio 2000 è stata costretta a lasciare il Messico per trasferirsi negli Stati Uniti in quanto lo Stato non era più in grado di garantirle protezione, ammesso che l’abbia mai fatto. Un “esilio” che dura solo 12 mesi, il richiamo della giustizia sociale è troppo forte per rimanere confinata negli Usa e restarsene con le mani in mano. Nel 2001 ritorna in Messico per difendere dei militanti ecologisti nello Stato di Guerrero. Pochi mesi dopo sarebbe stata uccisa. Iran. Turista francese condannato a otto anni di carcere di Laura Pertici La Repubblica, 27 gennaio 2022 Français Benjamin Brière è stato arrestato nel maggio 2020 per aver scattato “fotografie di aree vietate” con un drone in un parco naturale in Iran. È l’unico detenuto occidentale nel Paese a non avere il doppio passaporto. La sorella: “È un ostaggio politico”. L’appello a Parigi. Dopo più di un anno e mezzo di detenzione in Iran, il francese Benjamin Brière è stato condannato a otto anni e otto mesi di reclusione per “spionaggio” e “propaganda” contro il regime, decisione definita “politica” dalla sua famiglia e dal suo avvocato che ha lanciato un appello al governo francese. Brière, 36 anni, che si è sempre presentato come un turista, è stato arrestato nel maggio 2020 per aver scattato “fotografie di aree vietate” con un drone in un parco naturale in Iran. È detenuto nella prigione di Valikabad, a Mashhad (Nord-Est) e dalla fine di dicembre è in sciopero della fame per protestare contro le sue condizioni di detenzione. È comparso in tribunale a Mashhad oggi giovedì, in un’udienza non aperta al pubblico, secondo attivisti iraniani in esilio. “Benjamin Brière ovviamente non ha mai beneficiato di una forma di equo processo davanti a giudici imparziali. Non ha beneficiato di alcun diritto di difesa, di accesso agli elementi dell’accusa, di alcuna possibilità di preparare e presentare una difesa dinanzi a i giudici del tribunale rivoluzionario”, ha dichiarato il suo avvocato Philippe Valent in un comunicato inviato all’Afp, esprimendo allarme per lo stato di salute del suo cliente. “La famiglia di Benjamin Brière si appella oggi alle autorità francesi affinché vengano prese immediatamente misure per consentirne il rimpatrio”, ha aggiunto, sottolineando che il suo cliente contesta energicamente le accuse ed “esorta le autorità francesi a far sì che questo incubo finalmente finisca. La sorella: “Mio fratello è un ostaggio politico” - Alla richiesta, il ministero degli Esteri francese non ha reagito immediatamente. Blandine Brière, sorella del francese, dal suo canto definisce suo fratello fosse un “ostaggio politico”. “È chiaro che questo è un processo politico utile per l’Iran che invia un messaggio al governo francese”, ha detto all’Afp. “Non siamo niente di fronte a queste lotte, è difficile dire che siamo pedine” in un gioco diplomatico, ha aggiunto, mentre Teheran e le grandi potenze sono impegnate in trattative estremamente delicate per rilanciare l’accordo nucleare del 2015, che dovrebbe impedire a Teheran di acquisire armi atomiche, fatto saltare dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel 2018. I colloqui a Vienna sull’accordo sul nucleare - I colloqui, in corso a Vienna, si trascinano, ma per la prima volta lunedì scorso sono stati presi in considerazione colloqui diretti tra Iran e Stati Uniti, mentre Teheran aveva finora ha rifiutato qualsiasi contatto diretto con Washington. I detenuti occidentali in Iran con doppio passaporto - L’Iran detiene più di una decina di titolari di passaporti occidentali, per lo più cittadini con doppia cittadinanza, in quella che le ong condannano come una politica di presa di ostaggi progettata per estorcere concessioni a potenze straniere. In carcere o agli arresti domiciliari, i detenuti con doppio passaporto sono oggetto di accuse che le loro famiglie considerano assurde, come spionaggio o attacco alla sicurezza dello Stato. Brière è l’unico occidentale detenuto in Iran a non avere un passaporto iraniano. Come lui, almeno altri due detenuti sono in sciopero della fame, l’ingegnere iraniano-britannico Anoosheh Ashoori, 67 anni, e l’uomo d’affari iraniano-austriaco Kamran Ghaderi, 58 anni. Gli altri detenuti francesi in Iran - La ricercatrice franco-iraniana Fariba Adelkhah è detenuta da giugno 2019 ed è stata condannata a maggio 2020 a cinque anni di carcere per violazione della sicurezza nazionale. Ai domiciliari da ottobre 2020, a metà gennaio è stata reincarcerata con l’accusa di aver violato le regole dei suoi arresti domiciliari. Il suo compagno Roland Marchal, anche lui ricercatore, era stato trattenuto con lei prima di essere rilasciato nel marzo 2020, dopo che Parigi aveva liberato l’ingegnere iraniano Jallal Rohollahnejad, la cui estradizione gli Stati Uniti cercavano di violare le sanzioni americane contro l’Iran. Negli ultimi anni la Repubblica Islamica ha effettuato diversi scambi di detenuti con l’estero.