Un suicidio ogni 3 giorni e per il Covid ci sono le nuove restrizioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 gennaio 2022 Nuove restrizioni in carcere per far fronte al dilagare del Covid, ma queste nuove limitazioni creano disagi e tensioni senza garantire un “ristoro” a chi sta pagando una ulteriore pena. Questo e altro ancora si è affrontato, martedì pomeriggio, in una riunione on line promossa dalla Conferenza nazionale del volontariato della giustizia alla quale hanno partecipato i rappresentanti di enti, associazioni e gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia in generale e all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari, e numerosi garanti territoriali. Nel corso della riunione sono intervenuti anche il Garante nazionale, Mauro Palma, e il Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa. La riunione è stata convocata dalla presidente della Cnvg, Ornella Favero, per discutere le criticità nelle carceri italiane durante questa quarta ondata pandemica e le conseguenti misure rilevate da alcune associazioni di volontariato, quali le nuove limitazioni per i colloqui con i familiari in alcuni istituti. Al centro della discussione ci sono stati anche gli esiti dei lavori della commissione ministeriale presieduta dal professor Marco Ruotolo e le misure urgenti che possono dare seguito agli impegni presi, e ribaditi in più occasioni, dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per la riforma del sistema penitenziario. Si sono ripromessi di avere nuovi incontri con i vertici dell’amministrazione penitenziaria e con la stessa ministra, per gli interventi urgenti da adottare in questa emergenza Covid e quelli per la riforma più generale dell’esecuzione penale. I numeri delle infezioni nella nuova ondata sono importanti, ma grazie alla diffusione della campagna vaccinale anche in carcere per ora non hanno conseguenze gravi dal punto di vista sanitario. Ciò nonostante, la nuova emergenza ha riproposto rigidità e limitazioni che pesano sulle esigenze d’incontro tra le persone ristrette e i propri familiari e nello svolgimento di attività a fini rieducativi. Secondo il Garante nazionale, Palma, non è pensabile che si ricorra a una situazione di totale chiusura, semplicemente per garantire le distanze all’interno degli istituti penitenziari. “Sarebbe un modello assolutamente regressivo che va contrastato”, ha detto Palma il quale ha inoltre posto l’accento sulla “necessità di un provvedimento normativo che in qualche modo riconosca che la quotidianità scontata in carcere in queste condizioni ha avuto e ha un carico di penalizzazione ben superiore a quello della quotidianità della detenzione normale e che quindi che lo riconosca sotto forma di ristoro”. “L’emergenza Covid - ha detto Anastasìa - ha mostrato i limiti del sistema penitenziario, ma rappresenta l’occasione per ripensarlo, a partire dalla riduzione delle presenze, dall’utilizzo delle risorse del Pnrr per il suo adeguamento alla normativa vigente in materia di igiene e prevenzione, dall’investimento sulla digitalizzazione, così come indicato dalla commissione Ruotolo, e da una maggiore integrazione con i servizi sociosanitari territoriali”. Nel frattempo emerge un dato impressionante: nel 2022 appena iniziato, nelle carceri c’è la media di un suicidio ogni tre giorni. “Al 24 gennaio i suicidi in carcere nell’anno sono stati otto: uno ogni tre giorni. È un dato che non può essere né sottovalutato né, tantomeno, ignorato”. L’allarme è stato lanciato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “Anche se è evidente che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di fattori e di malesseri della persona e non può essere ricondotto solo al carcere, tuttavia, l’accelerazione che ha caratterizzato le prime tre settimane del 2022 non può non preoccupare e interrogare l’Amministrazione che ha la responsabilità delle persone che sono a essa affidate”, ha evidenziato. Il Garante nazionale delle persone private della libertà intende segnalare la criticità della situazione in questo avvio dell’anno, proprio “per ribadire la necessità di ritrovare un dialogo produttivo attorno al tema dell’esecuzione penale detentiva che sappia rispondere alla particolare difficoltà oggi vissuta negli Istituti da parte di chi vi è ristretto e da parte di chi in essi opera quotidianamente”. Infine il Garante conclude: “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”. Odissea Covid nelle carceri di Fausto Biloslavo Panorama, 26 gennaio 2022 Migliaia di contagi tra detenuti e agenti, dispositivi di protezione solo per pochi, tensioni che si avvicinano pericolosamente a quelle d’inizio pandemia. Negli istituti di pena la situazione è tornata esplosiva. E le misure previste dal ministro Cartabia non sembrano poter davvero incidere. Il 6 dicembre i detenuti positivi in tutta Italia erano appena 196. Un mese e mezzo dopo sono 2.625 nonostante 100 mila vaccini somministrati. La variante Omicron sta “decimando” anche gli agenti della polizia penitenziaria e gli amministrativi, che lavorano negli istituti di pena, con 5.593 casi. “I contagi Covid in carcere in questo momento sono tantissimi” ammette in Senato il 19 gennaio il ministro della Giustizia, Marta Cartabia. Un direttore di penitenziari di lunga esperienza riflette a Panorama: “Un istituto di pena è un po’ come una casa di riposo. Parti da una situazione di vantaggio perché sei chiuso alle relazioni normali del mondo esterno, ma se entra il virus sei fregato. Come fai a isolare i positivi?”. Gli spazi sono già insufficienti per 53.669 detenuti, molte strutture cadono a pezzi e certo non sono state costruite pensando a una pandemia. All’emergenza Covid si aggiungono mascherine Ffp2 insufficienti, green pass obbligatorio anche per familiari e avvocati solo dal 20 gennaio e violenze scatenate dal virus. Il 20 dicembre a Orvieto un cittadino marocchino, condannato per rapina aggravata, “pretendeva dal medico del carcere di ottenere il green pass rafforzato nonostante avesse ricevuto una sola dose di vaccino anti Covid-19” denuncia Fabrizio Sonino del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). Il detenuto, che ha dato in escandescenze, all’arrivo delle guardie ha tirato fuori una lametta e si è scagliato contro gli agenti. “Disarmato, è riuscito a tirare una testata a un sovrintendente. E alla fine ha incendiato il materasso della cella” denuncia il sindacalista. Le violenze in carcere sono all’ordine del giorno, ma la novità è che scaturiscono dal Covid. Nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere “il tampone positivo a un detenuto in partenza è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso” rivela il Sappe. “Gli stranieri del terzo piano hanno inscenato una sommossa devastando la corsia della sezione detentiva e aggredendo due agenti”. Alla pandemia si aggiungono i cinque suicidi da inizio anno e le violenze che nel carcere di San Vittore a Milano si susseguono con episodi ripetuti. “Fare il poliziotto penitenziario è sempre più pericoloso e noi ci sentiamo abbandonati da tutti” denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe, a Panorama. “Se gli attuali vertici ministeriali, dipartimentali e regionali non sono in grado di garantire la nostra incolumità fisica devono dimettersi tutti”. E sul Covid snocciola le cifre dei focolai del 19 gennaio: “Oggi 150 contagiati a Poggioreale, 140 a Secondigliano, 100 a Santa Maria Capua Vetere. Dicono che sono in gran parte asintomatici, ma se andiamo avanti così tutte le carceri si contageranno e pure il personale. La situazione è pericolosa”. Il 16 gennaio è scoppiato un focolaio ad Augusta. Due giorni prima Michele Cireddu della Uilpa Polizia penitenziaria denunciava dalla Sardegna che “i casi di contagi stanno aumentando in maniera vertiginosa nelle carceri dell’isola”. II 7 gennaio record a Verona che, con 95 positivi in cella, ha superato Asti con 84 casi. La prima fornitura d’emergenza di mascherine Ffp2 della struttura commissariale del generale Francesco Paolo Figliuolo, 6 mila pezzi, è insufficiente. “Se si considera che in carcere sono presenti oltre 54 mila detenuti e più di 41 mila operatori fra appartenenti alla polizia penitenziaria (36 mila) e altre figure professionali, significa una mascherina ogni 16 persone e 30 per ogni carcere” fa di conto Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa. Gli agenti le acquistano da soli ogni giorno. Il green pass rafforzato era obbligatorio per le guardie dal 15 dicembre, ma familiari dei detenuti, avvocati, periti e magistrati potevano accedere al carcere senza lasciapassare verde. Solo dal 20 gennaio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha stabilito che tutti dovranno esibire il pass all’ingresso, ma basterà quello base. Il ministro Cartabia in Senato ha ammesso che alcuni penitenziari “non sono degni del nostro Paese e della nostra storia. Sono stata al carcere di Sollicciano, a Firenze, e ho potuto vedere di persona le condizioni indecorose di questo come di altri istituti, nonostante la manutenzione straordinaria in atto. Indecoroso e avvilente per tutti”. In aula il senatore di Fratelli d’Italia Franco Zaffini ha evidenziato il mai risolto problema dell’organico: “Quello che in passato veniva svolto da 4/5 agenti oggi è svolto da un solo agente e tutto questo per stipendi che a volte non raggiungono i 1.500 euro al mese”. Cartabia ha replicato che a breve prenderanno servizio 1.650 allievi agenti, altri 1.479 arriveranno dal concorso bandito lo scorso ottobre e si prevede di bandirne un altro per circa 2 mila posti quest’anno”. Il Sappe ha però il dente avvelenato con il ministro e assieme ad altre sigle sindacali vuole indire per metà febbraio una manifestazione di protesta a Roma. “Abbiamo adottato uno slogan: Res non verba” annuncia Capece. “Dal ministro continuiamo a sentire molte parole e pochi fatti. Siamo una polizia di questo Paese e vogliamo essere parificati alle altre forze dell’ordine”. Il rappresentante degli agenti non può credere che “siano emerse idee per formare sindacati dei detenuti. Purtroppo dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere (i pestaggi in carcere dello scorso anno, ndr) nessuno ci vuole tutelare. Siamo l’anello debole della catena”. Obiettivo del sindacato il lavoro della “commissione Ruotolo” sull’innovazione del sistema penitenziario istituita dal ministero della Giustizia. Cartabia ha indirizzato la formale lettera di auguri natalizi a magistrati, direttori delle carceri e personale giudiziario omettendo gli agenti. In Parlamento il ministro ha puntato il dito contro la “logica di contrapposizione tra le esigenze di detenuti e personale penitenziario”. Sul campo, intanto, è un bollettino di guerra: nel primo semestre del 2021 sono stati registrati 5.290 atti di autolesionismo, 6 suicidi e 738 sventati dalla polizia penitenziaria, 3.823 colluttazioni e 503 ferimenti. Un agente pestato a sangue a Nuoro, un coltello puntato alla gola a Cremona, sequestrati a Benevento un ordigno esplosivo finto e alcuni telefoni cellulari, scoperta una distilleria di grappa a Sollicciano, scoppiata una rissa nella sala colloqui ad Avellino, un incendio appiccato a Frosinone. La lista di violenze e illegalità dentro gli istituti è ancora lunga. Per questo Franco d’Ascenzi e Piero Pennacchia, rappresentanti degli agenti penitenziari, hanno lanciato un grido d’allarme: “Basta, non siamo carne da macello”. Bisogna capire chi lo vorrà ascoltare davvero. Finito l’effetto pandemia? Torna a crescere la popolazione detenuta redattoresociale.it, 26 gennaio 2022 Sono oltre 54 mila i detenuti nelle carceri italiane al 31 dicembre 2021. Un dato che inverte, anche se lievemente, la tendenza innescata dalla pandemia che ha visto crollare le presenze da marzo 2020 in poi. Diminuiscono gli stranieri. Puglia e Lombardia maglia nera per sovraffollamento. Nel 2021 la popolazione penitenziaria torna a crescere, anche se lievemente. Dopo il calo repentino registrato nei primissimi mesi della pandemia - a febbraio 2020 si contavano oltre 61 mila detenuti, contro i poco meno di 54 mila di aprile - al 31 dicembre 2021, nelle carceri italiane ci sono 54.134 persone. Al 31 dicembre 2021 erano 53.364. A crescere lievemente nell’ultimo anno, inoltre, è la capienza regolamentare degli istituti dichiarata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Complessivamente, dai 43 mila posti del 2008 si è arrivati ai 50,8 mila posti disponibili nel 2021. Un dato che ancora una volta mostra l’assottigliarsi del divario tra presenze e capienza degli istituti. Tuttavia, il sovraffollamento, risulta essere ancora critico in alcune regioni e in alcuni istituti di pena: le regioni maglia nera anche nel 2021 sono la Puglia (con 3.760 detenuti presenti al 31 dicembre contro una capienza regolamentare di 2.907 posti) e la Lombardia (con 7.838 detenuti presenti al 31 dicembre contro una capienza regolamentare di 6.129 posti). I dati aggiornati al 31 dicembre 2021 confermano il costante calo della popolazione detenuta straniera, con circa 17 mila detenuti stranieri, contro i 19,9 mila di fine 2019 e i 20,2 mila del 31 dicembre 2018. Un dato, quello di fine 2021, che rispecchia il trend nazionale e segna un ritorno al 2015. Anche la presenza di donne in carcere segue l’andamento generale della popolazione penitenziaria e nel 2021 fa segnare una lieve diminuzione: al 31 dicembre 2021 sono 2.237 le donne in carcere contro le 2.663 del 2019 e le 2.576 presenze del 31 dicembre 2018. Il trend del 2021 riguarda anche i numeri registrati tra i reati che producono carcere, come la violazione delle leggi sugli stupefacenti. Al 31 dicembre 2021, sono 18.942 i detenuti per aver violato la normativa sulle droghe. Nel 2019 erano oltre 21 mila, con un trend in costante crescita dal 2015 al 2019. Stabile rispetto al 2020 il numero di detenuti per associazione di stampo mafioso (416bis): a fine 2021 si contano 7.274 detenuti, lo stesso del 2020 e sempre 2 mila in più rispetto ai 5.257 del 2008. Di carcere si può morire. In lieve diminuzione il numero dei suicidi negli istituti di pena italiani. Al 31 dicembre 2021, secondo Ristretti Orizzonti, sono 54 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere. Nel 2020, secondo il Dap, ci sono stati invece 61 suicidi. Fine pena mai. Torna a crescere anche il numero dei detenuti condannati all’ergastolo in via definitiva, nonostante la flessione registrata lo scorso anno per la prima volta dal 2006. Se nel 2020 c’erano 1.784 detenuti all’ergastolo, nel 2021 i detenuti con questa condanna sono 1.810. Negli ultimi 14 anni, il dato ha fatto segnare soltanto una battuta d’arresto tra gli anni 2012 e 2014, con circa 1.580 ergastolani detenuti, ma dal 2016 il dato è tornato a salire fino a superare quota 1.800 durante il 2019. Dal 2009 al 2017 cresce in maniera costante la presenza dei volontari in carcere. Nel 2017 sono 16,8 mila i volontari impegnati in diverse attività. Nel 2009 erano circa 8,5 mila. Nel 2018, invece, il dato è pressoché stabile rispetto all’anno precedente. Secondo i dati del Dap, quindi, ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma i dati raccolti dall’Osservatorio di Antigone nel corso delle visite agli istituti di pena italiani mostrano un impegno maggiore da parte del volontariato. Secondo Antigone, negli istituti visitati il rapporto detenuti/volontari è pari a 7, ovvero un volontario ogni 7 detenuti. Con la nuova sentenza sui detenuti “ostativi” la Consulta richiama i deputati all’ordine di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2022 Il nodo “collaborazioni inesigibili”. La Corte costituzionale sa essere tanto più sottile quanto più scomposte rischiano di rivelarsi le reazioni alle sentenze. Lo dimostra anche con la decisiva pronuncia depositata ieri in materia di accesso al beneficio dei permessi premio per i detenuti “ostativi”. Da una parte infatti la Consulta ribadisce la necessità di verifiche più stringenti nei confronti di quei reclusi che per scelta deliberata non collaborano; dall’altra, non solo chiarisce di nuovo che persino questi ultimi possono essere ammessi al beneficio, ma consolida il principio per cui la “collaborazione inesigibile” è di per sé un dato sufficiente a evitare che il condannato debba sottostare a verifiche identiche. Oltre a consolidare la propria giurisprudenza, la Corte mette oggettivamente di fronte al fatto compiuto i deputati della commissione Giustizia: i quali hanno adottato, di recente, un testo base di orientamento del tutto opposto proprio riguardo alle collaborazioni impossibili, e si preparavano così ad approvare una legge assai diversa da quella che la Consulta aveva “suggerito” loro in materia di liberazione condizionale degli “ostativi”. Più nel dettaglio, la nota diffusa ieri dalla Corte costituzionale spiega che “per presentare una richiesta ammissibile di permesso- premio (una richiesta che possa, cioè, essere esaminata nel merito), il condannato per “reati ostativi” deve sottostare a regole dimostrative più o meno rigorose, a seconda delle ragioni per cui non ha collaborato con la giustizia. Queste regole”, spiega il giudice delle leggi, “sono più rigorose per chi sceglie di non collaborare, pur potendolo fare; meno rigide, invece, quando la collaborazione è impossibile (in quanto i fatti criminosi sono già stati integralmente accertati) o inesigibile (a causa della limitata partecipazione a tali fatti), e sarebbe quindi priva di utilità per la giustizia”. La sentenza depositata ieri è la numero 20 del 2022 (redattore Nicolò Zanon): vi si esclude che la differenziazione di trattamento determini una lesione del principio di uguaglianza e perciò si dichiarano non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal magistrato di sorveglianza di Padova. È corretto, insomma, distinguere “la posizione di chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole” (silente per sua scelta), da quella di chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado)”. La Corte ha richiamato anzitutto la propria sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima - limitatamente alla concessione dei permessi premio - la presunzione assoluta di pericolosità a carico dei detenuti che scelgono di non collaborare (pur essendo nelle condizioni di farlo). Con quella pronuncia si è stabilito che, affinché la loro richiesta di accesso al beneficio sia ammissibile, è necessario acquisire elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti dei detenuti in questione con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Il magistrato di sorveglianza di Padova, proprio a seguito della sentenza n. 253, riteneva privo di giustificazione e lesivo del principio di uguaglianza il diverso regime probatorio vigente per i detenuti la cui collaborazione con la giustizia è oggettivamente impossibile o inesigibile, in cui deve essere valutata la sola insussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso. Di qui la censura di illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1 bis, dell’ordinamento penitenziario, con l’intenzione di parificare la posizione delle due categorie di condannati. La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le censure, ha osservato che il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce - secondo dati di esperienza - un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Quando, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. La Corte conclude che questa differenziazione non appare irragionevole. E perciò rigetta la questione, “senza dimenticare che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (68 del 1995, 357 del 1994 e 306 del 1993), tese appunto a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile”. I detenuti che non collaborano non sono tutti uguali di Adriano Sofri Il Foglio, 26 gennaio 2022 La Corte costituzionale si è pronunciata contro l’assolutezza del criterio che esclude il detenuto non “collaborante” dall’accesso ai benefici carcerari. “Il silente ‘per sua scelta’ non equivale al silente ‘suo malgrado’“. Ma in Parlamento questa linea non passa. Seguendo un pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nel maggio scorso la Corte costituzionale, trattando dell’ergastolo cosiddetto ostativo, per delitti di contesto mafioso e detenuti che avessero scontato già 26 anni, aveva sentenziato che la mancata “collaborazione” non potesse più essere intesa come una condizione assoluta, tale da impedire ogni altra valutazione circa la pericolosità perdurante del detenuto, dimostrandone automaticamente il mancato distacco dalla criminalità organizzata (art. 4-bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario). Quella condizione assoluta eliminava il detenuto non “collaborante” - qualunque ne fosse il movente, compresa la paura di conseguenze sui propri famigliari, o l’eventualità che non disponesse di informazioni utili - dall’accesso ai benefici carcerari, fino alla liberazione condizionale. Così stabilendo, la Corte decideva tuttavia di evitare un intervento puramente demolitorio, e in nome delle esigenze di sicurezza collettiva rinviava al Parlamento una correzione che, compensando l’eliminazione della “collaborazione” come conditio sine qua non, contemplasse ulteriori valutazioni, come l’emergere di specifiche ragioni della mancata collaborazione o l’introduzione di prescrizioni particolari per il periodo di libertà vigilata del soggetto. Correzione che il Parlamento deve attuare entro il 10 maggio 2022, data nella quale sarà riesaminata la legittimità costituzionale. Era una decisione insieme coraggiosa, nel cancellare l’assolutezza di un criterio per molti versi opinabile - “lasciate ogni speranza” - e prudentissima nel sottoporla a ulteriori vincoli legislativi. Il Parlamento, nei ritagli di tempo, sta adoperandosi per svuotare di ogni contenuto la decisione della Corte, tra gli anatemi di importanti autorità giudiziarie: ultima, per me davvero sorprendente, l’affermazione di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, secondo cui ergastolo ostativo e 41 bis non sono “carcere duro”. Ieri, 25 gennaio, la Corte costituzionale ha pubblicato un’altra sentenza (n. 20 del 2022, relatore Nicolò Zanon) la quale stabilisce che: “I detenuti che non collaborano con la giustizia non sono tutti uguali: il silente ‘per sua scelta’ non equivale al silente suo malgrado”. Il tema era la legittimità della distinzione, rispetto al principio di uguaglianza. Il magistrato di sorveglianza di Padova che aveva ricorso alla Corte sosteneva che fosse arbitrario distinguere fra chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole collaborare” (silente per sua scelta), da chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado). Il giudice sottolineava che “l’atteggiamento soggettivo dei due gruppi di detenuti potrebbe essere identico, poiché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile non solo potrebbe non voler collaborare (se lo potesse fare), ma potrebbe rivelare, addirittura, una maggiore pericolosità rispetto a colui che abbia volontariamente scelto di serbare il silenzio, mosso ad esempio da timori per la propria e l’altrui incolumità”. “La Corte, nel dichiarare non fondate le censure, ha tuttavia osservato che il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei a escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Quando, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, ai fini del superamento del regime ostativo può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata”. La Corte conclude che “questa differenziazione non appare irragionevole”. Tanto è stato sufficiente per rigettare la questione, “senza dimenticare - aggiunge la sentenza - che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte, tese appunto - nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante - a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile”. Come si vede, si tratta di confini labili, e drammaticamente ambigui. Specialmente delicata è la categoria (e la sua vasta gamma di circostanze materiali e morali: l’esistenza o no di un pericolo attuale per l’incolumità di altre persone, per esempio) di “chi, potendo collaborare, non vuole”, anche quando la rottura con i legami criminali sia pienamente avvenuta. Ho una postilla tragicomica. Anche a me, così inadeguato alla criminalità organizzata, e così inflessibile nel ricordarmi non colpevole, si rimproverò da passeggere autorità di non mostrarmi pentito e di non collaborare. Se collabori te la cavi, perfino se sei innocente. “Innocenti assoluti”: quei 18 bambini in carcere con le loro madri di Laura Pertici La Repubblica, 26 gennaio 2022 Mentre la politica rivela, ancora una volta, la sua torpida impotenza e la maggioranza dei “grandi elettori” si comporta come se avesse appena scoperto che: oddio, oggi c’è da votare il Presidente! e cerca un qualche accordo, si susseguono gli esempi di questa drammatica crisi del sistema democratico. E la crisi si mostra con maggiore brutalità proprio nelle situazioni estreme, laddove le contraddizioni sono più acute e dolorose e la mediazione più difficile e delicata. E ciò emerge con tanta maggiore chiarezza quanto più le soluzioni possibili sembrano davvero possibili e quasi a portata di mano. Ecco due casi particolarmente significativi. Al 31 dicembre scorso, nel sistema penitenziario italiano, si trovavano 18 bambini, “innocenti assoluti” reclusi con le proprie madri: uno scandalo e un oltraggio, prima ancora che per il livello di civiltà giuridica del nostro paese, per il comune buon senso. Una riforma della materia giace alla Camera dei Deputati ed è richiesta da tanti. Ma anche solo un provvedimento amministrativo sarebbe in grado di cancellare, o quasi, un simile obbrobrio. Una legge del 2011 prevede, infatti, in alternativa alla reclusione in cella, l’istituzione di case famiglia protette destinate alle madri con figli minori, in presenza di una serie di condizioni. Proprio a causa di queste ultime, spesso interpretate in maniera macchinosa e restrittiva, l’applicazione della legge è stata assai complessa: ne è conseguito che, nell’ultimo decennio, alcune centinaia di minori hanno trascorso in una cella i primi anni della loro vita. Un anno fa erano 29 e, al 31 dicembre del 2018, 52. Come si vede, numeri che, se si considera l’intero territorio nazionale, sono esigui: eppure, a fronte di questo, le case famiglia protette attualmente attive in Italia sono appena due: una a Roma e una a Milano. Certo, è comunque necessaria una riforma della legge che renda più agevole l’accesso a queste strutture alternative, ma ciò che colpisce è anche altro. È proprio il fatto che non vi siano posti disponibili a sufficienza. Eppure, calcoli recenti molto affidabili dimostrano che con una cifra complessiva intorno al milione e mezzo di euro è possibile - concretamente e fattivamente - realizzare, attraverso adeguate opere di ristrutturazione, il numero di case famiglia protette (cinque-sei) necessarie a “liberare” quei bambini. Non troppo diversa è la situazione dei detenuti affetti da disturbi psichici. A settembre del 2021, le persone illegittimamente recluse in un carcere, nonostante lo stato di salute mentale, erano 12, anche se a queste vanno sommati quei pazienti che si trovano “scaricati” nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc). Consideriamo una vicenda, seguita dalle avvocate Valentina Cafaro e Giulia Borgna dello studio Saccucci & Partners, che ha avuto un esito positivo. Un paziente psichiatrico affetto da un disturbo bipolare è rimasto a lungo nel carcere di Rebibbia, a Roma, nonostante il magistrato di sorveglianza avesse applicato nei suoi confronti una misura di sicurezza, che tuttavia non aveva trovato esecuzione. Due giorni fa, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), per aver protratto per due anni la detenzione del ricorrente in regime carcerario ordinario senza garantirgli un adeguato trattamento psichiatrico, in violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti garantito dall’art. 3 della Convenzione europea. Inoltre, l’Italia è stata condannata per illegittimità della detenzione in carcere in violazione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza personale previsti dall’art. 5 della stessa Convenzione. Ciò in ragione delle condizioni materiali degradate vissute in cella, della mancata somministrazione di cure adeguate alla situazione personale e in ragione del mancato trasferimento in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), dovuto alla ingiustificabile mancanza di posti disponibili. Almeno in questa circostanza è forse utile astenersi dai discorsi generali e “di sistema” e fermarsi sul dato numerico. Nel caso dei pazienti psichiatrici reclusi in carcere, si tratta di 12 persone e, pure se probabilmente arrivano al doppio o più, il fenomeno è di dimensioni ridotte. Anche qui, secondo valutazioni attendibili, la spesa richiesta per ovviare alla carenza di posti non supera i due milioni di euro. È chiaro: per sottrarre gli “innocenti assoluti” e i “matti” al carcere è necessaria una politica intelligente e razionale; e sono necessari interventi normativi e investimenti economici, decisioni pubbliche e misure istituzionali. Ma alla resa ultima dei conti, servono tre milioni e mezzo di euro. È questo il costo di due riforme semplici semplici che potrebbero cancellare due ingiustizie assolute. Quei pm antimafia fuori dalla Costituzione di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 gennaio 2022 I vertici della magistratura italiana sono in larga parte fuori dalla Costituzione e dallo Stato di diritto, in guerra esplicita contro l’Alta Corte e le sue sentenze. Le recenti inaugurazioni dell’Anno giudiziario 2022 sono state veri campi di battaglia. Alla testa dello squadrone si è messo il procuratore generale della Corte di Cassazione, quel Giovanni Salvi ormai soprannominato “lo smemorato”, da quando non ricorda più dove ha messo il telefonino, o anche “il pentito”, dopo che ha capovolto la propria posizione sull’ergastolo ostativo per allinearsi a presenti e passati procuratori “antimafia”. Quello dell’ergastolo ostativo, uno dei temi più ignorati dalla grande stampa, non è una faccenda tecnico-giuridica, pane e formaggio per barbosi giuristi o perditempo “garantisti pelosi”, come dicono i tagliagole, è semplicemente qualcosa che fa la differenza tra la vita e la morte. Tra la civiltà giuridica dei Paesi liberali e democratici e la barbarie degli Stati totalitari e vendicativi che mantengono la pena capitale. In quale contesto sta l’Italia, dal momento che le decisioni della Corte Costituzionale, oltre che quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, vengono combattute proprio da chi dovrebbe applicarle? E lo stesso Parlamento viene minacciato se non obbedirà ai diktat dei pm “antimafia”? Se qualcuno domandasse al procuratore generale Salvi se è favorevole alla pena di morte, stiamo certi che risponderebbe sdegnato di no, come, crediamo, se qualcuno lo avesse accusato di essere a favore della schiavitù o della tortura. Infatti, pochi mesi fa, in quel mese di marzo 2021 in cui si era in attesa della decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, si era un po’ sbilanciato a dirsi contrario al “fine pena mai”. Ma era in un ambiente rilassato, un dibattito culturale un po’ fuori contesto rispetto alla necessità di indossare elmetto e giubbotto antiproiettile per la “lotta” alla mafia, come se questa spettasse ai magistrati. L’inaugurazione dell’anno giudiziario è altra cosa, e allora si deve mandare un messaggio brutale e dire che il “fine pena mai” e il “carcere duro” sono utili, perché servono a “impedire che i boss comandino dal carcere”. Lo squillo di tromba partito da un vertice così autorevole è indirizzato a due interlocutori altrettanto elevati: la magistratura e il Parlamento. Si deve decidere chi comanda. La Corte Costituzionale e il potere legislativo o quello illegittimo del Partito deiPm? Bisogna spostarsi da Roma a Palermo per trovare la carta assorbente su cui depositare il messaggio. In terra di “trattativa” ritroviamo, tra gli orecchi musicali più sensibili allo squillo guerriero partito dal vertice della magistratura, un vecchio gruppo di toghe che pare uscito dalla fotografia ingiallita della “vicenda Scarantino”. La storia di quel falso pentito coltivato amorevolmente dagli inquirenti siciliani, dopo che era stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, fino a che era riuscito a mandare in galera una quindicina di innocenti accusando falsamente anche se stesso per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Un bell’esempio di “pentito”, cui non sappiamo si siano ispirati anche il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario i tre ex pm che di Scarantino si erano occupati, e che poi hanno fatto belle carriere. Parliamo di Nino Di Matteo, Dino Petralia e Anna Maria Palma. Il primo, oggi membro del Csm, ritiene che, se si mette in discussione il fatto che per accedere ai benefici penitenziari si debba per forza essere delatori, “si fa il gioco della mafia”, “si attua il programma di Totò Riina”. Ecco sistemata l’ Alta Corte, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, dando al Parlamento un anno di tempo, che scadrà il prossimo maggio, per attuare le riforme necessarie ad adeguare le norme emergenziali varate nel 1992 agli articoli 3 e 27 della Costituzione. Di Matteo, pur facendo parte di un organismo di alta giustizia come il Csm, si ribella ai principi cardine della Legge delle leggi come ribaditi dall’Alta Corte. Preferisce usare il palcoscenico di Palermo per invitare la magistratura a proseguire la ricerca “dei mandanti delle stragi del 1992”. Come se la sconfitta nel processo “trattativa” non dovesse ancora bruciargli sulla guancia. Allineatissima la procuratrice generale facente funzioni Anna Maria Palma, che chiede in modo esplicito “non si abolisca l’ergastolo ostativo”. Dino Petralia ha invece dismesso l’abito del pm “antimafia”, indossando a tutto tondo quello di capo del Dap, cioè di amministratore delle carceri. Vedere qualche prigione gli è servito, e forse anche la contaminazione con “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione di cui ha anche partecipato al congresso dello scorso dicembre. Vogliamo trattenere come vera perla la sua seguente affermazione: “La Costituzione parla di pena e non necessariamente di carcere”. Lasciamola lì, senza commentarla. Torniamo invece all’aggressione violenta che alcuni vertici della magistratura hanno sferrato contro la Costituzione. Ci sono quelli del passato, la cui opinione è però sempre autorevole sui quotidiani (non solo sul Fatto), come Giancarlo Caselli, che fu ai vertici di Magistratura democratica, ma soprattutto procuratore capo di Palermo. Ed è questa seconda veste che gli è rimasta appiccicata addosso anche da pensionato. Un altro è Roberto Scarpinato, che ha lasciato la toga da poco, con una sorta di testamento il cui leitmotif risuona delle parole di Di Matteo sull’uso dei “pentiti”, il timore che con le riforme garantistiche e costituzionali diminuiscano i collaboratori di giustizia. Sempre con l’ossessione dei “mandanti occulti” delle stragi, cioè di una sorta di trattativa continua tra la mafia e lo Stato. Neanche la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha bocciato questa tesi viene rispettata. La verità è che questo partito dei pm “antimafia” sta giocando una propria partita di potere anche all’interno della magistratura, con la sponda di alcuni partiti in Parlamento. Non è un caso che, non appena sentite le parole di Salvi e di Di Matteo alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario, gli esponenti del Movimento cinque stelle si siano svegliati con un sussulto, proponendo che la riforma del Parlamento disattenda subito la richiesta della Corte Costituzionale. In molti modi. Prima di tutto azzerando le competenze dei giudici e tribunali di sorveglianza territoriali, gli unici che conoscono il percorso rieducativo di ogni detenuto, per accentrare le valutazioni a Roma. E poi scaricando sul singolo prigioniero l’onere di dimostrare di aver rescisso ogni legame con gli ambienti criminali e affidando al procuratore nazionale antimafia e al pm che aveva condotto le prime indagini il compito della decisione finale. Il che significa una cosa sola: inchiodare ogni detenuto alla fotografia di venti-trent’anni prima, al momento della commissione del reato. Quindi negarne ogni possibilità di cambiamento (del resto Caselli l’ha detto chiaro: dalla mafia non si esce mai!) e condannarlo a morte. Si, morte, morte sociale, stillata goccia a goccia, ogni giorno e ogni notte. Ma i magistrati non dovrebbero essere obbligati alla fedeltà costituzionale? E i membri del Parlamento? Giustizia sbilanciata, sempre più pm e pochi giudici di Alfredo Sorge Il Riformista, 26 gennaio 2022 Gli interventi in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario a Napoli, tornata a svolgersi nello splendido Salone dei Busti in Castelcapuano, permettono alcune riflessioni. Nel silenzio assordante dovuto alle misure sanitarie ancora in atto, davanti agli sguardi dei grandi avvocati che quel Salone testimonia per sempre, il presidente della Corte d’Appello De Carolis ha ribadito ancora una volta le doglianze per la obiettiva penuria di uomini e mezzi che affligge l’apparato giudicante e segnatamente l’organico della Corte d’Appello. I dati offerti suggeriscono una prima riflessione integrata dal sempre più grande divario di uomini e di mezzi - e dunque di risorse - tra la magistratura inquirente e quella giudicante. Le Procure, in particolare quella di Napoli, forte di 112 pubblici ministeri (ed oltre cento viceprocuratori onorari) e della Dda, costituisce un complesso apparato dotato di uomini e strumenti investigativi notevoli, se si considera anche la polizia giudiziaria al suo servizio e che la spesa per le indagini, in primis per le intercettazioni (telefoniche, ambientali, informatiche), resta molto elevata. Eppure, l’inquirente presenta risultati quantomeno contraddittori rispetto a simile schieramento di forze, se è vero che circa il 50% dei procedimenti con indagati “noti” termina con una richiesta di archiviazione, spesso al termine di indagini ben poco approfondite. Il dato deve far riflettere: non parliamo dei procedimenti a carico di ignoti (furti etc.) bensì di reati denunciati da privati o dalla polizia giudiziaria che hanno dato luogo a un’iscrizione a carico di un ben individuato indagato. Come si spiega questo dato che risulta, peraltro, in costante aumento? La tematica merita un approfondimento per conoscere le ragioni di negare qualsivoglia approfondimento anche in relazione a fatti che segnano pesantemente la vita della persona offesa che si è rivolta al pm per veder tutelati i propri diritti personali e patrimoniali. Altra assenza di rilievo nei dati della Procura è costituita dai procedimenti in tema di responsabilità da reato dell’ente ex D.Lvo 231/01, modello organizzativo che va invece promosso ed incentivato (e perciò perseguito in sua assenza) proprio per meglio valutare la serietà delle aziende. Altro dato su cui riflettere è l’ingresso di alcuni istituti legati al Pnrr. In particolare, nel corso della relazione del presidente Giuseppe De Carolis di Prossedi, si è discusso del disposition time per la definizione degli affari civili e penali. Ben vengano tutti gli aiuti e le risorse per colmare le lacune degli organici della magistratura e del personale amministrativo (si pensi alla situazione drammatica in cui versa il Tribunale di Sorveglianza, problematica gravissima quanto trascurata nelle relazioni) ma certamente non è accettabile che lo stesso rappresenti un altro ostacolo per un accertamento giudiziario che deve essere condotto in modo sereno e completo nel corso dei procedimenti di primo grado e di appello. Sotto questo profilo, va ricordato come la pandemia abbia già determinato una serie di limitazioni al sistema delle garanzie e al diritto di difesa, addossando all’avvocato una serie di ulteriori compiti e responsabilità come l’essere il destinatario delle comunicazioni del processo anche per la parte che rappresenta, il dover presentare tempestive richieste per ottenere che il processo venga celebrato non da remoto o in una inaccettabile forma scritta, per non parlare della espulsione dell’imputato detenuto dall’aula e dell’assenza del pubblico che è il primo momento di controllo democratico: non si dimentichi che la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano che da due anni è assente per legge dal processo. Insomma, già la difesa non è presente durante le indagini e in fase cautelare non si muove certo alla pari rispetto alla pubblica accusa ma almeno nella fase dibattimentale non può vedersi sottratto l’accertamento istruttorio in nome di un cronometro; fare in fretta è un concetto che ben difficilmente si declina con il fare bene e mai con il fare giustizia. La vera novità di cui s’è detto nelle relazioni è l’ufficio del processo, si sa che ci sarà ma nessuno sa a quali compiti sarà concretamente destinato. Rinviando a fasi successive ogni valutazione, auguriamoci soltanto che non si tratti, come purtroppo è stato detto nel corso della cerimonia, di persone cui affidare il compito di studiare il processo e di scrivere la sentenza lasciando al giudice il compito di decidere. È bene dirlo subito: se si intende assegnare all’ufficio del processo il compito più importante del giudizio, ovvero la motivazione dei provvedimenti giudiziari - atto che per costituzione e per legge il giudice deve porre a base della sua decisione -, la scelta sarebbe inaccettabile: non può essere giusto il verdetto emesso da un giudice che per legge vede lo studio di altri e la motivazione da altri ancora. Tutti d’accordo, invece, sull’atto di accusa al Csm da parte del procuratore generale Luigi Riello: a fronte di una serie di vicende che hanno messo alle corde l’organo di autogoverno chiamato dalla Costituzione ad assicurare autonomia ed indipendenza della magistratura, è del tutto mancato quel profondo esame di coscienza collettivo ed è stato così inferto un danno grave alla credibilità dell’intera magistratura. In particolare, ha detto il pg, nulla di concreto risulta essere stato fatto per arginare lo strapotere delle correnti interne alla magistratura che era ed è alla base del malessere di cui è emersa soltanto la punta di un iceberg e le cui dimensioni sono ancora ignote. “Che ci sta a fare un Csm così?”, ha chiesto, retoricamente, Riello. In conclusione, il presidente del Consiglio dell’Ordine di Napoli Antonio Tafuri ha fatto bene ad evidenziare il cospicuo numero dei procedimenti e delle sanzioni disciplinari che il Consiglio distrettuale di disciplina, con rinnovata energia, ha portato avanti con tempismo. L’augurio più grande, dunque, lo dirigo ai colleghi avvocati, perché non si deve mai dimenticare che il conto più salato della pandemia lo ha pagato proprio l’avvocatura (come tutti i lavoratori autonomi), costretta a lavorare tra mille difficoltà a causa delle penalizzanti misure sanitarie, delle perduranti carenze organizzative e della diffusa crisi economica. Gli insulti del Fatto agli avvocati e il “sogno” della giustizia sommaria di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2022 Sul quotidiano di Marco Travaglio insinuano la collusione dei difensori con gli assistiti mafiosi. L’insulto è nel titolo sulla sentenza con cui la Consulta ha bocciato le “intrusioni” nelle lettere fra reclusi al 41 bis e avvocati. Più che reagire all’offesa, va colto il vero segnale: l’insofferenza per lo Stato di diritto e la segreta aspirazione a una giustizia autoritaria. Anche se sono sacrosante le reazioni di diverse voci dell’avvocatura: dall’editore del Dubbio a Ocf, Aiga e Anf. Sì, non è la prima volta. Già in passato altri avevano insinuato che gli avvocati dei detenuti per reati di mafia fossero istitutivamente collusi con i loro assistiti. Ma un titolo apparso oggi sul Fatto quotidiano (incoerente anche rispetto alla correttezza dell’articolo) trapassa qualsiasi limite: “La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi”. In pratica si attribuisce ai difensori dei reclusi al 41 bis uno stigma di mafiosi di default: se assistete i boss, siete pure voi certamente pronti a tutto, collusi o “colludibili”. Forse non vale neppure la pena di soffermarsi troppo nel replicare. Non è il caso di ricordare, a chi ha superato un esame da giornalista professionista, e conosce dunque senz’altro le basi del diritto costituzionale, il contenuto dell’articolo 24. È più interessante un’analisi sociologica. A partire da un interrogativo: perché? Come si può scrivere una cosa del genere? Non veniteci a raccontare che quello 0,001 per mille di casi in cui si è ravvisata e provata una effettiva collusione di un avvocato con un assistito mafioso basti a giustificare quel titolo. È evidente che non è così: il Fatto allude implicitamente a una moltitudine di casi, quindi non ha agganci col reale. È solo un insulto a casaccio. All’intera classe forense. La risposta al “perché” è altrove. E per trovarla va citato un altro titolo offensivo apparso oggi sulle pagine palermitane di Repubblica in cui in pratica si descrive la classe forense come un esercito che “se ne approfitta”: “Avvocati in coda: è qui la festa del gratuito patrocinio”. Nell’articolo, anche qui corretto, si segnala che il capoluogo siciliano è il Foro in cui si registra il maggior numero di richieste per il beneficio (che, andrebbe ricordato, non è “gratuito” ma appunto a carico dello Stato). Nella titolazione c’è un disprezzo un filo meno sguaiato di quanto visto su Fatto. Ma si può scorgere lo stesso fastidio per il diritto di difesa, il sogno di una giustizia sommaria, rapida e autoritaria in cui, come in Ritorno al futuro, l’avvocato viene semplicemente “abolito”. È un’insofferenza non per la categoria degli avvocati ma per il diritto. Nel caso di Repubblica, per il diritto dei non abbienti a essere difesi in giudizio, che per un giornale progressista dovrebbe essere un valore. Perciò forse non c’è neppure da offendersi. Ma da interrogarsi su quanto sia radicata nel nostro paese una cultura autoritaria, del diritto e non solo, con cui sarà sempre difficilissimo confrontarsi. Le reazioni dell’avvocatura - Sono certo più che giustificate le reazioni di diverse voci dell’avvocatura. Da segnalare innanzitutto la replica, serafica, dell’editore del Dubbio: “L’avvocatura è grata a Travaglio per averla promossa al rango di criminale”. Se sono indignati, liquidatori ma non privi di un rimando a querele per diffamazione i toni dell’Ucpi (di cui vi diamo conto in altro servizio, nda), sconcertato ma più “piano” è il comunicato di Ocf: quella della Consulta, osserva l’Organismo forense, è una sentenza “ineccepibile” e perciò “stupiscono certi commenti secondo cui in questo modo si favorirebbe la mafia e i boss al 41 bis potrebbero così più facilmente aggirare le restrizioni continuando a gestire i clan dal carcere, magari ordinando la commissione di reati. Non solo. Questo genere di sottolineature”, fa notare l’Ocf, “gettano il discredito su un’intera categoria, quella forense, che per il solo fatto di assicurare il diritto costituzionalmente garantito a un boss recluso, automaticamente si presterebbe a veicolare gli ordini della criminalità organizzata”. L’Aiga è ancora più esplicita nell’esprimere “il proprio fermo dissenso” per le parole del Fatto: che, secondo il presidente dell’Associazione giovani avvocati, Francesco Paolo Perchinunno, sono “gravissime e irricevibili”. Parole che “mancano di rispetto a tutta l’avvocatura e in particolar modo a quei colleghi, ancora vivi nella nostra memoria come Fulvio Croce e Serafino Famà, che hanno pagato con la vita quel dovere di indipendenza che ogni avvocato assume con il giuramento. Non si può paragonare l’avvocato ad un favoreggiatore o complice del condannato, così si mortifica la funzione difensiva, svolta con grande passione, competenza e dedizione da migliaia di colleghi. Sarebbe il caso di ricordare al Fatto quotidiano, come il diritto alla difesa sia uno dei cardini della Costituzione e di come certi commenti non facciano nient’altro che portare l’Italia verso una deriva giustizialista”. Su un registro non diverso da quello molto aspro della nota Ucpi è la replica dell’Associazione nazionale forense: “Grave, offensiva e inopportuna affermazione del Fatto Quotidiano nei confronti dell’intera categoria degli avvocati”. Il giornale, ricorda il presidente dell’Anf Giampaolo Di Marco, “si è lanciato in un’affermazione vergognosa e imbarazzante. Gli avvocati non sono messaggeri di criminalità o corrieri, ma professionisti a cui le persone, anche coloro che sono stati condannati per reati gravissimi, affidano il loro destino affinché ottengano il trattamento più giusto ed equo previsto dall’ordinamento”. Di Marco aggiunge: “L’inaccettabile affermazione non può essere considerata una battuta o una semplificazione e neppure una legittima opinione, ma un attacco giustizialista che mina le basi dello Stato di diritto e non rende un buon servizio alla percezione del sistema Giustizia nel nostro Paese, anche perché con il suo intento acchiappa-like dirotta l’attenzione da quanto correttamente scritto dalla Corte, ovvero che vi sia una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”“. Csm, Magistratura democratica contro il sorteggio: ecco perché di Errico Novi Il Dubbio, 26 gennaio 2022 Il segretario di Magistratura Democratica, Stefano Musolino: “Ci meritiamo di più di un giro di dadi a cui affidare le sorti della nostra indipendenza, della autorevolezza dell’organo che ci governa e rappresenta”. Il proporzionale come sistema migliore per l’elezione dei membri togati del Csm, perchè “espressivo della varietà e complessità, nella magistratura, di idee, funzioni e territori” e il rifiuto di ogni forma di sorteggio, perché “incostituzionale”. Magistratura democratica ha deciso di affidare ad un breve video le proprie posizioni sui quesiti del referendum promosso dall’Associazione nazionale magistrati che si terrà il 27 e 28 gennaio prossimi. Nel video si ascoltano le riflessioni di quattro magistrati (Cecilia Pratesi, Roma; Giulia Locati, Torino; Claudio Castelli, Brescia, Emilio Sirianni, Catanzaro) provenienti da esperienze e territori diversi, sul valore della rappresentanza, sul Consiglio superiore della magistratura come organo costituzionale in cui autorevolezza e qualificazione devono prevalere su “effimere suggestioni disgregatrici”. “È un momento in cui la magistratura è chiamata a guardarsi - dice il segretario di Md, Stefano Musolino - a definirsi, a dire, prima di tutto a se stessa, chi è e che futuro vuole immaginare. I gravi errori del passato, la sfiducia e la frustrazione che ne sono conseguiti, hanno fatto immaginare ad alcuni tra noi che siamo incapaci di scegliere i nostri rappresentanti nell’auto-governo. Ma non è sulla paura e la frustrazione che si costruisce un futuro migliore. Pur con i nostri molti limiti, ci meritiamo di più di un giro di dadi a cui affidare le sorti della nostra indipendenza, della autorevolezza dell’organo che ci governa e rappresenta. Ripartire da questa rinnovata consapevolezza - conclude il giudice - sarà l’inizio di una nuova stagione in cui ogni singolo magistrato potrà, se lo vorrà, partecipare alla costruzione di una casa comune e di vetro come vorremmo che fosse il Csm negli anni a seguire”. Santa Maria Capua Vetere. Torture in carcere, scontro sulle associazioni nel processo casertanews.it, 26 gennaio 2022 Il giudice prende tempo sulle ammissioni delle parti civili: gli avvocati sollevano eccezioni sulla genericità. Il dubbio sulla doppia veste del Ministero. Altre 6 tra associazioni e detenuti chiedono di entrare nel processo per i pestaggi al carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenuti il 6 aprile del 2020. È quanto accaduto nel corso dell’udienza preliminare all’aula bunker dove il gup Pasquale D’Angelo ha deciso di prendersi una settimana di tempo per decidere se ammettere o meno le richieste avanzate dai legali che rappresentano persone fisiche, sodalizi o enti che hanno in qualche modo interesse a costituirsi in giudizio contro i 108 imputati, per la maggioranza agenti della polizia penitenziaria protagonisti di quella che venne definita “un’orribile mattanza”. Si torna in aula la prossima settimana. Sulla scrivania del giudice per l’udienza preliminare oltre 90 richieste di ammissione. Se ci sono pochi dubbi su quelle dei detenuti che hanno subito i pestaggi (circa un’ottantina su oltre 200 parti offese individuate dalla Procura ma c’è tempo per la costituzione fino all’apertura del dibattimento) diversa è la posizione delle associazioni a tutela dei diritti delle persone recluse su cui le difese degli imputati hanno sollevato eccezioni ritenendo generica la richiesta di ammissione al processo. Dubbi sono stati sollevati anche sulla costituzione del garante per i detenuti Samuele Ciambriello, le cui denunce hanno acceso i riflettori degli inquirenti su quanto accaduto durante la settimana Santa del 2020 al penitenziario “Francesco Uccella”. Ha presentato richiesta di ammissione tra le parti civili anche l’Asl di Caserta per un danno d’immagine subito per il comportamento di due medici che avrebbero redatto falsi certificati medici sulle condizioni dei detenuti dopo i pestaggi. Infine, il magistrato per l’udienza preliminare dovrà dirimere i dubbi sulla posizione del Ministero della Giustizia. L’Avvocatura di Stato ha presentato richiesta per l’ammissione come parte civile ma i difensori dei detenuti maltrattati vorrebbero citare il dicastero di via Arenula come responsabile civile. Questione su cui dovrà esprimersi il Gup d’Angelo che potrebbe ammettere il Ministero anche in doppia veste: parte civile contro gli agenti e responsabile, al tempo stesso, delle loro condotte contro i detenuti. Padova. La Cgil: “Mancanza di personale e difficoltà, la situazione è grave” padovaoggi.it, 26 gennaio 2022 Il sindacato denuncia la grave carenza di personale tra la Polizia penitenziaria e il fatto che al Due Palazzi arrivino detenuti con pena definitiva inferiore ai 7 anni o in attesa di giudizio, creando problemi. La situazione in carcere diventa sempre più complessa. A denunciarlo è la Fp Cgil: nell’organico della polizia penitenziaria mancherebbero 54 agenti. E con la pandemia le cose si sono aggravate. “Oltre alla mancanza di personale di polizia penitenziaria si deve aggiungere anche il periodo di pandemia che ha colpito e colpisce sia il risicato personale di polizia che detenuti, seppur siano stati vaccinati - dicono Gianpietro Pegoraro e Alessandra Stivali, rispettivamente coordinatore regionale Fp Cgil Veneto per la polizia penitenziaria e segretaria provinciale Fp Cgil - Questa situazione ha ripercussioni negative sui diritti soggettivi di chi svolge il servizio di sicurezza. Le difficoltà maggiori il personale le deve affrontare quando si verificano casi di piantonamento ospedaliero di detenuti, che comporta in alcuni casi al fine di garantire il ricovero e la sicurezza della popolazione la soppressione di alcuni posti di servizio, maggior carico di lavoro e maggior responsabilità per chi rimane, in alcuni casi più estremi viene revocato il riposo settimanale al poliziotto. L’integrazione delle unità mancanti alla reclusione è bloccata da una Legge del 2015, Madia, che stabilisce a livello Distrettuale (Triveneto) un certo numero di unità oltre alle quali la dotazione organica risulta essere completa, nonostante che il numero dei detenuti risulta sia aumento. Ad aggravare poi la situazione della Casa di Reclusione di Padova è la mancata applicazione, da parte dell’amministrazione penitenziaria della legge in materia di differenziazione dei circuiti di sicurezza, associando anche detenuti o che non hanno pene definitive oltre i 7 anni o che ancora sono in attesa di giudizio. Detenuti questi seppur seguiti dal personale educativo e dai poliziotti creano non pochi problemi di varia natura, ad esempio hanno problemi psichiatrici oppure perché extracomunitari ma non riescono a comunicare con il personale o che hanno paura di essere espulsi”. La richiesta del sindacato è di rivedere la legge Madia e l’applicazione della norma riguardante i circuiti di differenziazione dei detenuti. Vicenza. Aumentano i detenuti, cala il personale Corriere del Veneto, 26 gennaio 2022 I sindacati: “In carcere situazione sempre più preoccupante”. Il sovraffollamento, nel carcere di Vicenza, rimane una costante, ma quello che non passa inosservato nella relazione dell’anno giudiziario, è il numero dei cosiddetti “eventi critici” e cioè di suicidi, riusciti o tentati, e di episodi di autolesionismo. In “preoccupante aumento” si legge, forse anche per le conseguenze del Covid, tra queste la sospensione di attività e visite. Il penitenziario Dal Papa, in Veneto, è tra quelli che sfora maggiormente in quanto a numero di detenuti, così come quello Veronese: al 30 giugno 2021 si contavano 390 “ospiti” quando la capienza regolamentare è di 273. Situazione simile a Montorio dove l’estate scorsa gli utenti erano 477 contro i 335 previsti. Il carcere di San Pio X è anche l’unico, a livello regionale, ad aver registrato due suicidi, per uno dei quali è anche stata aperta un’inchiesta della procura con due agenti indagati (il caso era quello di un vicentino accusato di omicidio). Un unico decesso invece è avvenuto nelle strutture di reclusione di Padova, Montorio e Rovigo. Sempre al Dal Papa, non sono riusciti 22 tentativi di farla finita mentre si sono contati nel corso dell’anno scorso oltre 93 casi in cui i detenuti si sono inferti delle ferite. Dati che fanno riflettere. Segnalati anche dal Garante nazionale delle persone private della libertà che fa sapere come al 24 gennaio i suicidi in carcere nel 2022 sono stati otto: uno ogni tre giorni. “È un dato che non può essere né sottovalutato né, tantomeno, ignorato” sostiene il Garante per il quale serve un dialogo per richiamare l’attenzione su una situazione di difficile gestione. “Nell’ultima visita fatta, a novembre, l’indice di sovraffollamento era del 137%, un totale di 366 detenuti e una carenza di organico di 90 unità come da dati del Dipartimento” fa sapere Leonardo Angiulli, segretario interregionale del sindacato di polizia penitenziaria Uspp. Che spiega come a Vicenza arrivino detenuti di altri penitenziari che non ricevono nuovi carcerati e questo porta ad “una difficile gestione del reparto”. E i numeri sono addirittura in crescita. “C’è stato un incremento del 5% degli utenti e una diminuzione del 4% del personale legata anche alla malattia” prosegue Angiulli che a nome del sindacato intende dare il benvenuto al nuovo direttore in missione, Bernardo Ponzetta, vice direttore della casa di reclusione di Padova. Quanto agli “eventi critici” il referente dell’Uspp motiva in parte quel preoccupante aumento per la presenza di un “reparto a regime chiuso dove vengono ristretti utenti di difficile adattamento arrivati anche da altri istituti d’Italia”. Lo sguardo di Šalamov che visse nell’inferno di Federico Varese La Repubblica, 26 gennaio 2022 Quarant’anni fa la morte del grande autore russo rinchiuso da Stalin nei gulag della Siberia. Nel lager, diceva, il male regna incontrastato. Arlam Šalamov, l’autore de “I racconti della Kolyma”, muore a Mosca il 17 gennaio di quarant’anni fa, nel 1982. L’ultimo periodo della sua vita non è felice. Ormai sordo e cieco, vive a Mosca in una camera dell’ospizio dei letterati Literaturnyj Fond, al terzo piano, nella stanza numero 244. In questo edificio “impregnato di un odore di vecchiaia impotente e indifesa” (come racconta una sua amica), ha trovato una sistemazione che teme di perdere in ogni momento. Le ansie non gli lasciano tregua: quando arriva il cibo si getta avidamente su di esso perché teme che altri lo possano precedere, nasconde le lenzuola e le federe sotto il materasso, porta legato al collo l’asciugamano. Questi erano beni preziosissimi nei campi, difficili da trovare e da proteggere. Anziano e prossimo alla morte, rivive le fobie della vita quotidiana del lager. Ma sono anche gli anni in cui la sua fama cresce e i riconoscimenti internazionali cominciano ad arrivare: nel 1980 esce a Parigi il primo volume dei Racconti e vince un premio del Pen Club, nel 1981 è la volta della traduzione inglese, parziale, della sua opera principale. Un gruppo di ammiratori comincia a manifestare in suo favore, ma lui teme che la piccola fama raggiunta diventi un buon motivo per arrestarlo di nuovo, una terza volta, e così tornare nella Kolyma (“io vengo dall’inferno” è una sua frase celebre). Nel gulag ci aveva passato quasi vent’anni. Giovane studente di giurisprudenza a Mosca, viene arrestato una prima volta nel 1929 per aver partecipato ad un gruppo che domanda la pubblicazione del testamento di Lenin e viene spedito al campo della Višera, nella regione di Perm’ (su quell’esperienza scriverà Višera. Antiromanzo, pubblicato solo nel 1989). Liberato nel 1931, torna a Mosca dove lavora come giornalista e pubblica diversi racconti e poesie. Nel 1937 il nuovo arresto, per “attività antirivoluzionaria trotzkista”. La lettera T (che indicava i troskisti) aggiunta al suo dossier equivale ad una condanna a morte. Infatti, gli tocca uno dei campi più pericolosi, detto “il crematorio bianco”, nell’estremo Nord-Est russo-asiatico, dove la temperatura arriva fino a cinquanta gradi sottozero. La regione prende il nome dal fiume che l’attraversa, Kolyma, un nome che grazie a Šalamov diventerà sinonimo delle repressioni staliniane. Qui vi sono giacimenti d’oro, e i carcerati vi lavorano come mano d’opera forzata. Šalamov prima viene impiegato nelle miniere di carbone, ma quando è sull’orlo della fine per assideramento e fame, viene salvato da un medico che lo assume come infermiere al reparto di chirurgia dell’Ospedale per detenuti, sulla “riva sinistra” del fiume Kolyma (questo è anche il titolo di una sezione dei Racconti). Viene liberato nel 1951, ma rimane confinato in Siberia fino al 1956. Una volta ritornato nella capitale russa, scopre che la moglie lo ha lasciato e la figlia non vuole più vederlo. Un rientro non certo da eroe. Inizia a scrivere I Racconti della Kolyma nel 1954. L’opera contiene 145 racconti ordinati in sei raccolte, ma è un libro organico, con temi e personaggi che si rincorrono. È anch’esso un anti-romanzo, che contiene frammenti, brani di epistolario, storie individuali, memorie e confessioni sulla sua incapacità di ricordare esattamente. Šalamov non credeva che il lager insegnasse nulla, che gli anni passati là producessero una Epifania, una redenzione. È semplicemente un luogo dove il male regna incontrastato. La morte era l’esito più probabile per il carcerato e Varlam si salva solo grazie al caso, attraverso un medico-detenuto che lo assume in infermeria. Mentre Solzhenitsyn ha l’aspirazione a catalogare i fatti e misfatti avvenuti nel gulag, Šalamov dichiara: “Il ricordo non serve a nulla”. Dopo il gulag, Auschwitz e la bomba atomica, l’arte ha perso il diritto di predicare. Nella grande frattura che attraversa la letteratura russa, il Nostro sta dalla parte di Dostoevskij, contro Tolstoj. Come ha scritto un altro autore sopravvissuto al Gulag, Gustaw Herling, “Šalamov è innanzi tutto un grande scrittore”. La recezione di Šalamov in Italia fu non lineare. Diversi editori si rifiutarono di pubblicare le traduzioni dello slavista Piero Sinatti, che pubblicò una raccolta nel 1976 presso la casa editrice della nuova sinistra Savelli. Oggi disponiamo di un’eccellente edizione Einaudi in due volumi, e di opere tradotte da Adelphi. Anche in punto di morte non vi fu redenzione per Šalamov. Il 15 gennaio 1982 viene trasferito a forza in manicomio, internato benché non avesse alcun disturbo psichico. La direzione dell’ospizio era preoccupata della sua crescente fama di dissidente e per le manifestazioni a suo favore. Regge solo due giorni e muore, appunto, il 17 gennaio di quaranta anni fa. La violenza svela il malessere dell’Italia che resta ai margini di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 26 gennaio 2022 La disgregazione si concentra nelle periferie delle nostre grandi città, dimenticate nei due anni di pandemia. E il risultato è stato il distacco dal voto alle Amministrative. La cronaca nera, a leggerla con buone lenti, offre talvolta scorci di sociologia politica. Quella degli ultimi mesi e soprattutto delle settimane più recenti, da Capodanno a oggi, dalle aggressioni sessuali di massa in piazza Duomo fino alle guerriglie “etniche” delle gang di quartiere, delinea una sfida gravosa anche per il futuro presidente della Repubblica: ricucire l’Italia, divisa ormai in un Paese di Sopra e un Paese di Sotto, uno che ce la fa e l’altro che ha smarrito persino la voglia di farcela e s’è rassegnato a sprofondare. Quattro anni or sono, ad esempio, lo stragista Luca Traini ci svelò l’intolleranza xenofoba di una comunità spaventata dalle migrazioni fuori controllo: non c’era nulla da giustificare ma molto da correggere a monte del raid razzista con cui terrorizzò Macerata e l’Italia. Le violenze di questa recente stagione, compiute da giovani nordafricani o italiani di seconda generazione con famiglia immigrata, sovente mischiati a ragazzi autoctoni in un unico brodo periferico di sottocultura machista, rap, Islam fai-da-te e rivolta social, sono una spia non meno potente di un altro cortocircuito: in atto dentro angoli della società dove abbiamo smesso di guardare per paura di scoprire ciò che non ci piace, confortati dall’alibi del Covid che tutto ha sigillato sottovuoto. È curioso, ma forse anche significativo, che l’analisi più interessante di questo periodo non sia venuta da un sociologo, ma da un carabiniere, anzi, dal loro capo, il comandante dell’Arma. In un’intervista a La Stampa, il generale Teo Luzi ha posto l’accento sul malessere sociale (che per molti soloni sarebbe invece solo una giustificazione da accantonare), sottolineando che la pandemia ha creato disparità economiche, amplificato il disagio giovanile e ha cambiato luoghi e modi di trovarsi dei ragazzi anche per la nota, difficile situazione scolastica: da Roma alla Versilia, da Milano a Torino, le bande giovanili, un mix di emarginazioni e frustrazioni, richiedono lavoro di analisi e prevenzione. Dunque, proviamo a guardare un po’ più da vicino in quell’angolo buio, superando il primo riflesso di imbarazzo, dovuto all’origine nordafricana di buona parte dei protagonisti delle ultime violenze (gli assalti sessuali di Capodanno, così simili, se non per dimensioni per modalità, a quelli di sei anni prima contro le donne di Colonia); un riflesso dettato dal comprensibile timore di fornire propellente a una propaganda razzista che già troppi danni ha fatto al nostro Paese. Come scrive un’esperta di integrazione quale Karima Moual, bisogna invece proclamare senza timore che la subcultura di provenienza di questi ragazzi è intrisa di sopraffazione maschile già nel modello familiare. E proprio in quel modello, nel ghetto etnico dei padri, si rifluisce di fronte all’integrazione mancata. Ma se l’integrazione è il problema, aggravato peraltro da una pessima legge sulla cittadinanza che ancora non considera connazionali centinaia di migliaia di adolescenti e giovani nati da noi e cresciuti nelle nostre scuole, è ragionevole domandarsi quanta integrazione ci possa davvero essere in un contesto disgregato tanto per gli italiani quanto per gli stranieri, che mostra crepe profonde e che non è stato certo ancora risanato dai pur lodevoli intenti del Pnrr (peraltro ancora, come si dice, da “mettere a terra” in gran parte). I ragazzi delle gang, nordafricani o autoctoni, sono solo un pezzo del Paese di Sotto: il più rabbioso e visibile. Le diseguaglianze col Paese di Sopra erano già assai accentuate prima della pandemia. Secondo il rapporto Disuguitalia 2021 di Oxfam, allo scoppio dell’emergenza sanitaria più del 40% degli italiani non aveva risparmi sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, “sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi”. La ricchezza del 5% più ricco degli italiani era superiore a tutta la ricchezza detenuta dall’80% più povero. A fine estate 2020, il 20% delle famiglie con minori sotto i 14 anni ha ridotto o abbandonato il lavoro per accudire i figli e le donne sono state come sempre le più penalizzate. Gli interventi compensativi di questi anni non hanno avuto (e non potevano avere) carattere strutturale di contrasto alle diseguaglianze. Secondo la Fondazione Moressa, in una crisi che ha toccato soprattutto i precari e le filiere del lavoro stagionale, gli stranieri in proporzione sono stati colpiti maggiormente: è loro un terzo dei 456 mila posti di lavoro persi nel 2020. Gli aumenti generalizzati e l’inflazione risorta in questi mesi andranno a infierire su un tessuto già assai provato, al netto dei tentativi di sterilizzare il caro-bollette, di bonus e sussidi. Non è difficile capire come la quota più significativa di questo malessere trasversale si concentri nelle periferie delle nostre grandi città, particolarmente dimenticate in questi due lunghi anni. L’ultimo serio lavoro di ascolto e comprensione del loro contesto si deve a una Commissione parlamentare della passata legislatura, che dopo un anno di sopralluoghi dichiarò di avere “scoperto un’Italia di serie B” e snocciolò una potente ricetta di interventi strutturali, mai seguita nella legislatura corrente. Il risultato è stato, alle Amministrative dello scorso autunno, un clamoroso distacco dal voto, chiaro messaggio alla politica tutta contro la marginalità percepita, il tasso di disoccupazione, l’abbandono scolastico, il tempo richiesto per ottenere la riparazione di un ascensore rotto nelle case di edilizia popolari. La risposta del mondo degli irrilevanti ha prodotto nelle periferie da Roma a Milano, da Torino a Napoli, toccando persino Bologna, affluenze appena sopra il 40%. Questa Italia sommersa, e che mantiene la testa sott’acqua, rischia di rammentare antiche distinzioni tra Paese legale e Paese reale, in questo caso con un Paese reale che, quando può votare, si mostra convinto che il suo voto non serva a nulla e comunica un rancore che può diventare violenza di piazza. Intendiamoci: il Pnrr coi suoi miliardi può fare molto, ammesso che riusciremo a spenderli bene e in tempo. Ma anche se così fosse, i soldi non risolveranno tutto. Un simile squarcio nella grande tela nazionale si può ricucire solo ripristinando ciò che Gramsci chiamava “connessione sentimentale” con questa parte, tanto rilevante, di comunità smarrita. È auspicabile e, chissà, persino plausibile, che, al netto della cultura di provenienza e delle alleanze determinanti alla sua elezione, la più alta autorità morale del Paese possa sentire in un prossimo futuro il bisogno di partire proprio da lì. Violenza a orologeria di Elena Loewenthal La Stampa, 26 gennaio 2022 Guarda caso. Guarda caso succede che alla vigilia del Giorno della Memoria, un bambino di dodici anni venga aggredito perché è ebreo. È capitato a Venturina Terme: due ragazzine poco più grandi di lui lo hanno insultato e picchiato, gli hanno sputato addosso e minacciato di spedirlo nei forni crematori. I genitori hanno sporto denuncia ai carabinieri della vicina Livorno - e che paradosso che sia successo proprio lì, in una delle pochissime città d’Europa che in quanto porto franco non ha mai rinchiuso gli ebrei in un ghetto. Guarda caso, ma purtroppo non è affatto un caso, ormai da molti anni a questa parte intorno al 27 gennaio si assiste a un’altissima concentrazione di episodi di antisemitismo. Guarda caso, a dispetto del Giorno della Memoria, il report annuale sull’antisemitismo registra il 2021 come l’anno peggiore del decennio in quanto a incidenti di questo genere. Al di là dell’orrore successo a Venturina Terme, del provare a mettersi nei panni non solo di quel bambino ma anche dei suoi genitori, dei suoi nonni, di chiunque abbia vissuto sulla propria pelle ed è ancora qui con noi a veder succedere cose del genere, non ci si può non porre delle domande. Scomode e fastidiose, ma necessarie. È mai possibile, insomma, che a diciassette anni dall’istituzione di questa ricorrenza l’educazione alla memoria pare aver fatto un buco nell’acqua invece di spazzar via il pregiudizio? Da diciassette anni a questa parte il Giorno della Memoria entra nelle scuole, fa sentire le voci dei testimoni (sempre meno perché il tempo passa e i sopravvissuti pian piano ci abbandonano), rimbalza sui mezzi di comunicazione. Ogni anno che passa escono sempre più libri sull’argomento: una specie di valanga editoriale che per quantità non ha nulla da invidiare alla stagione delle strenne natalizie. Eppure, tutto questo impegno nel conoscere, diffondere, educare, sortisce uno straniante effetto opposto. Sui social così come nella vita reale, purtroppo, e anche a spese di un bambino come è successo a Venturina Terme, parte puntualmente una infame campagna di odio e violenza. Perché? Come è possibile? Che cosa si può fare? Domande difficili, ma che devono trovare una risposta, altrimenti il 27 gennaio diventa inutile. Peggio: dannoso. Il punto è che purtroppo non è difficile avvertire intorno a questa ricorrenza un equivoco di fondo che va spazzato via prima possibile per invertire la rotta di un pregiudizio millenario così radicato da attecchire nei modi più imprevedibili. Bisogna insomma che sia chiaro che il 27 gennaio non è un atto di omaggio ai sei milioni di ebrei morti nella Shoah e nemmeno una sorta di tormentato mea culpa collettivo. È, invece, la commemorazione di un capitolo di storia che appartiene all’Europa e all’Italia, la presa di coscienza che quella storia è parte del passato comune. Per assurdo, del passato di tutti fuorché degli ebrei: in quanto progetto di annientamento volto a rendere tutto il continente Judenfrei, la Shoah è proprio la negazione della storia ebraica. È, invece, l’affermazione di una storia che l’Europa e l’Italia non possono e non devono rinnegare bensì riconoscere come propria, per quanto vergognosa e insopportabile. Non potrà funzionare come antidoto al pregiudizio finché, foss’anche con le migliori intenzioni, si continuerà a puntare il dito verso gli ebrei e dire “questa è storia vostra, ci dispiace per voi, vi rendiamo omaggio e ricordiamo, il 27 gennaio”. Né stornerà quello spettro che inquietava Primo Levi: siccome è successo, può succedere di nuovo. Stranieri, per il reddito di cittadinanza serve permesso di soggiorno di lungo periodo Il Sole 24 Ore, 26 gennaio 2022 La Corte costituzionale, con la sentenza n. 19, ha respinto le questioni di costituzionalità sollevate dal tribunale di Bergamo. Il reddito di cittadinanza non è una semplice misura di contrasto alla povertà ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. Poiché il suo orizzonte temporale non è di breve periodo, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non è un requisito privo di collegamento con la ragion d’essere del beneficio previsto. È, questo, un passaggio della sentenza n. 19 depositata oggi (redattrice Daria de Pretis), con cui la Corte costituzionale ha dichiarato in parte inammissibili e in parte infondate le questioni sollevate da Tribunale di Bergamo, sezione lavoro, sulla disciplina del reddito di cittadinanza, che, fra i diversi requisiti necessari per ottenere questa provvidenza, richiede agli stranieri il “possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo” (articolo 2, primo comma, lettera a, n. 1 del decreto-legge 4/2019). Il giudice di Bergamo contestava la norma in quanto esclude dal reddito di cittadinanza i titolari di permesso unico di lavoro previsto dall’articolo 5, comma 8.1, del Dlgs 286/1998, o di permesso di soggiorno di almeno un anno previsto dall’articolo 41 del Dlgs 286/1998, per violazione degli articoli 2, 3, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 14 CEDU e agli articoli 20 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Secondo il Tribunale, infatti, l’asserita natura di prestazione essenziale del reddito di cittadinanza - diretto a soddisfare bisogni primari della persona umana - comporterebbe l’incostituzionalità di qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti. Il Tribunale lamentava inoltre l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di lungo periodo e le situazioni di bisogno per le quali la prestazione è prevista. La Corte ha dichiarato infondate entrambe le censure. Il reddito di cittadinanza non si risolve in una mera provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma presenta un contenuto più complesso di misura di politica attiva del lavoro, che comprende un percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale. A questa sua prevalente connotazione si collegano la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che si accompagni a precisi impegni dei destinatari. In questo contesto la Corte ha ricordato che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali stabiliti negli articoli 2, 3 e 38, primo comma, della Costituzione, garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla sopravvivenza dignitosa e al minimo vitale, ma che tuttavia nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito legittima la Corte stessa a “convertire” verso questo obiettivo una misura cui il legislatore assegna finalità diverse. La Corte ha pertanto ritenuto che, considerati la durata del beneficio (18 mesi, con possibilità di rinnovo) e il risultato perseguito (l’inclusione sociale e lavorativa), non irragionevolmente il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, abbia destinato la misura agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. Giovani e alcolismo. Il vecchio mito del diavolo in corpo di Grazia Zuffa Il Manifesto, 26 gennaio 2022 “Teneri alcolisti”: così si intitola il lungo report sui consumi di alcol nella generazione del dopo millennio, uscito a fine dicembre scorso sul Longform di Repubblica. Il titolo non è che un assaggio del menu: si tratta di giovani “divorati ogni notte da un consumo di alcol in età sempre più precoce”; sedotti da prodotti alcolici dedicati a basso prezzo; che non ricercano il piacere ma (irrazionalmente e irresponsabilmente, è implicito) la perdita di controllo. Lo sballo per lo sballo, insomma. Il bere non è solo sinonimo di alcolismo e di danni cerebrali irreversibili (bastano due mesi di ubriacature a “spegnere le aree della memoria”, si legge); è anche la porta d’accesso alle droghe illegali, al “poliabuso di sostanze stupefacenti di cui l’alcol è la gateway drug”. Anche se alcuni esperti citati dicono cose diverse (si vedano le riflessioni sulla dipendenza di Federico Tonioni), tuttavia l’approccio terroristico del servizio è inequivocabile, in un intreccio di luoghi comuni sui giovani e di “miti” storici sulle droghe, legali e illegali. L’immaginario sulle giovani generazioni in genere oscilla fra il diavolo e l’acqua santa, l’uno elidente l’altra. E infatti il pezzo si concentra sulle fiamme dell’inferno alcolico (che ai più vecchi ricorda tanto la “gioventù bruciata” - da sesso, alcol e quant’altro - dei lontani anni cinquanta): dimenticando gli angeli dei Fridays for future, impegnati di giorno a salvare il pianeta, ma che presumibilmente sono gli stessi “divorati” di notte dall’alcolismo precoce. Quanto al mito del “flagello alcol”, antecedente storico del “flagello droga”, basti ricordare il Movimento della Temperanza, che in America lottò vittorioso per la proibizione dell’alcol: con la motivazione della escalation inevitabile, da una birra alle tante birre e al whiskey, dall’uso moderato alla dipendenza. Stessa storia per tutte le droghe: dall’alcol alla cannabis, dalla cannabis all’eroina. Agli inizi del Novecento, gli attivisti della Temperanza insegnavano nelle scuole ai bambini americani a recitare filastrocche edificanti, per convincere i padri all’astinenza, pena l’inevitabile destino di ubriaconi. Oggi, al ragazzo del Flaminio che dice di bere “tre birre e poi stop, altrimenti non riesco a guidare la moto”, si contrappone la profezia degli Alcolisti Anonimi: “È così che si inizia. Anzi è così che si scivola nella dipendenza”. Siamo al rilancio del famoso slogan guerresco “A drugfree world, we can do it”? Ciò che ostinatamente rimane fuori scena è il significato sociale del bere, la comprensione delle differenti culture, delle scelte che gli individui, giovani e meno giovani, operano, i criteri di razionalità che li ispirano. La questione “alcol e giovani”, come allarme per l’aumento dei consumi e i dilaganti “eccessi” nel bere, risale ad almeno quaranta anni fa. In una revisione delle ricerche qualitative lungo un ventennio (condotta da Franca Beccaria nel 2010), usciva smentita la immagine dei giovani italiani del tutto omologati al modello dello extreme drinking, “privi di valori e molto più attratti da comportamenti rischiosi rispetto alle generazioni precedenti”: invece, i ragazzi del duemila mostravano una nuova consapevolezza degli effetti ricercati nell’alcol, e anche del “posto” (temporale, sociale, psicologico) da riservare all’uso occasionale più intenso. Una ricerca toscana di pochi anni fa approfondisce i cosiddetti “policonsumi”, quali esito perlopiù “razionale” di abbinamenti utili a modulare gli effetti delle varie sostanze, mitigando quelli più rischiosi e spiacevoli (come l’uso rilassante della cannabis quando si è bevuto troppo). La stessa razionalità che durante il lockdown ha spinto molti consumatori a diminuire l’uso di alcol, venendo meno i contesti di socialità e non ritrovando “senso” nel bere solitario (come da una ricerca sui consumi durante la chiusura pandemica, in via di pubblicazione). I telegiornali vanno alla guerra di Vincenzo Vita Il Manifesto, 26 gennaio 2022 Mentre è in corso il voto per il futuro presidente della Repubblica, e mentre si infoltisce il Risiko sull’asimmetrica simmetria (la politica può questo e altro) tra Quirinale e Palazzo Chigi, una bella zona del mappamondo è in guerra. La tensione ai confini dell’Ucraina è estrema. Gli Stati Uniti con la Nato e buona parte dell’Europa stanno valutando l’invio di truppe. L’ex impero russo è a sua volta schierato. Il conflitto, in verità, è già in atto, avendo varcato il limite di guardia. Mutatis mutandis la situazione assomiglia a quella del 1962 con la crisi dei missili a Cuba. Tuttavia, allora il mondo occidentale si schierò a fianco di Washington contro l’ex Unione sovietica per la minaccia di armi così potenti collocate a pochi chilometri dal suolo americano. Oggi, invece, che eserciti di rito atlantico facciano mostra dell’implicita violenza dei corpi belligeranti sembra ovvio e naturale. Anzi, guai a dire alcunché: l’aria serena dell’Ovest non va turbata. E la guerra fredda non è mai davvero finita. Accade, poi, che di fronte all’urgenza quirinalizia dominante nei titoli dei telegiornali, solo negli ultimi giorni la vicenda dell’Ucraina abbia trovato maggiore spazio. La scorsa settimana il tema sembrava quasi un’esclusiva del Tg3 della Rai e de la7. Ora tiene banco anche altrove (nel Tg1, nel Tg5, nel Tg2). La quantità è aumentata, ma la qualità proprio no. La televisione sembra diventata perennemente embedded, quasi una voce monocorde con scarso contraddittorio. Bisogna salvare l’Ucraina, si sente ripetere. Ci mancherebbe. Ma non è necessario prima di ogni discorso offrire ai cittadini-utenti un quadro geo-politico preciso e approfondito? Televisione significa etimologicamente vedere lontano. Si vede, invece, solo ciò che si ritiene utile per evitare che magari ci si interroghi su cosa significhi stare nella Nato o su quale sia la linea estera di Bruxelles o, persino, dell’Italia. In verità, la capacità del video di entrare nell’immaginario delle persone non basta a spiegare i rischi. L’attuale aggiornata modalità manipolativa è in grado di passare ad una soglia superiore: la costruzione del desiderio della guerra, di una guerra purchessia. Non c’è neppure bisogno di ricorrere ai classici per comprendere gli effetti nefasti di una costante induzione nel linguaggio dell’informazione delle antiche polarità del buono e del cattivo, dell’amico e del nemico. Bianchi e rossi. Dobbiamo girare canale e cercare ogni volta che scoppia un caso internazionale le frequenze di Al Jazeera o di altre fonti internazionali? La televisione italiana continua ad avere un inguaribile peccato di chiusura e provincialità. Non sarà un caso se è finita in soffitta l’ipotesi di uno specifico canale in lingua inglese, volto a rompere un po’ di tabù in una concorrenza globale dove l’eccesso di zelo non paga. Tira una brutta aria per la pace, come afferma costantemente (e inascoltato) il Papa di Roma Francesco. La terza conflagrazione mondiale è in corso, pur se a pezzi. Non dimentichiamo mai, poi, che l’Italia si fa forza nelle esportazioni dell’industria delle armi, un inferno in cui tutte le vacche sono nere. Quando si spara e ci sono morti o feriti, qualcuno si arricchisce. Oltre agli strumenti offensivi classici o moderni sono entrati in scena ulteriori inquietanti protagonisti: il conflitto informatico a suon di hacker e di spionaggio dei e con i metadati, il ricorso massivo ai robot e all’intelligenza artificiale. La realtà ha da tempo, infatti, superato la fantascienza. Ecco perché la televisione generalista, che mantiene comunque una funzione fondamentale nella formazione dell’opinione pubblica, ha un potere enorme e delicatissimo nel costruire il discorso e l’argomentazione su territori che escono dal controllo della vita quotidiana. Stiamo parlando di un capitolo cruciale della crisi democratica, non solo di opinabili servizi unilaterali o molto faziosi. L’informazione non deve rispondere alla Casa Bianca o alla Nato, bensì agli articoli 11 e 21 della nostra Costituzione: il ripudio della guerra e la libertà di espressione senza condizionamenti. Turchia condannata dalla Cedu: “Violata la libertà dei media” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 26 gennaio 2022 Ankara dovrà risarcire il giornalista Deniz Yücel arrestato nel 2017 e poi cacciato dal Paese. Mentre una fortissima nevicata ha bloccato in queste ore l’aeroporto di Istanbul, un altro tipo di gelo ha avvolto la Turchia. Questa volta infatti non si parla di maltempo e nemmeno della preoccupante crisi monetaria che sta colpendo la lira turca ma della condanna arrivata sul regime di Erdogan da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu). La decisione è stata resa pubblica ieri e per Erdogan suona come l’ennesimo scontro con le istituzioni di Strasburgo. Ancora una volta ad essere messa sotto accusa è la politica turca in materia di libertà di espressione, a poche ore dall’arresto della giornalista Sedef Kabas per “oltraggio” al capo dello Stato. Si tratta del caso che ha coinvolto un altro giornalista, Deniz Yücel, che lavorava a Istanbul come corrispondente per il quotidiano tedesco Die Welt e che fu imprigionato nel 2017 e nel 2018. Una vicenda che contribuì non poco a esacerbare i già tesi rapporti tra Belino e Ankara. La Corte ha riconosciuto che Yücel venne ‘trattenuto in custodia cautelare in assenza di motivi ragionevoli per sospettarlo di aver commesso un reato’, ad essere stato violato è stato il suo ‘diritto alla libertà e alla sicurezza’, ‘il suo diritto alla riparazione in caso di detenzione illegale’ e ‘la sua libertà di espressione’. Ora la Turchia dovrà pagare al giornalista un risarcimento di 13.300 euro. I fatti si riferiscono al 2016 quando il giornalista stava coprendo a livello informativo il fallito colpo di stato contro Erdogan che diede il via alla stagione delle grandi purghe. I sui articoli spesso critici nei confronti del presidente turco non furono per nulla graditi alle autorità che proprio in quei mesi erano impegnate in un durissimo giro di vite contro qualunque voce non allineata. Yücel, come ha ricordato la Corte di Strasburgo, fu dunque incarcerato senza un motivo plausibile e privato del diritto alla difesa. Un anno dopo l’arresto, avvenuto nel 2017, il giornalista venne rilasciato e fu autorizzato a lasciare la Turchia per tornare in Germania, ma di fatto venne cacciato dal Paese. Nel maggio 2019, la stessa Corte costituzionale turca stabilì che il corrispondente turco- tedesco aveva subito una violazione del suo diritto alla libertà e alla sicurezza, nonché del suo diritto alla libertà di espressione e di stampa. Nel luglio 2020 però è arrivata un’altra doccia fredda, un tribunale di Istanbul infatti ha condannato Yücel in contumacia a due anni, nove mesi e 22 giorni di carcere per ‘ propaganda terroristica’, il capo di imputazione fittizio che negli ultimi sei anni ha colpito decine di migliaia di persone. La sua colpa sarebbe stata quella di essersi avvicinato, non si sa in quali forme, al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), considerato un gruppo ‘ terrorista’ da Ankara ma anche dai suoi alleati occidentali. Fu un processo a dir poco pretestuoso che scatenò nuove tensioni diplomatiche tra Turchia e Germania. Troppi dunque i precedenti nel corso degli anni per non far agire seppure lentamente la Cedu i cui giudici hanno spiegato dettagliatamente le ragioni della condanna emessa nei confronti di Ankara. ‘La privazione della libertà del giornalista è considerata un’interferenza nell’esercizio da parte di quest’ultimo del suo diritto alla libertà di espressione’ ha spiegato la Corte paneuropea che ha anche ricordato come ‘la detenzione preventiva di voci critiche crea molteplici effetti negativi, sia per la persona detenuta che per la società nel suo complesso’. Per l’organo giudiziario del Consiglio d’Europa ‘infliggere una misura che comporti una privazione della libertà produce inevitabilmente un effetto deterrente sulla libertà di espressione intimidendo la società civile e mettendo a tacere le voci dissenzienti’. Siria. Migliaia i minori reclusi nei campi del Nord del Paese in condizioni disperate di Flavia Carlorecchio La Repubblica, 26 gennaio 2022 L’allarme dell’Unicef: “Quei piccoli detenuti sono oltre tutto esposti alle violenze”. Una tentata evasione dalla prigione di Ghwayran mette in pericolo 850 ragazzini. Almeno 100 vittime e migliaia di sfollati dopo le violenze ad Al-Hasakah, nel Nord-Est della Siria. Gli atti brutali ci sono stati a seguito del tentativo di evasione della prigione di “Ghwayran”, lo scorso 21 gennaio. I disordini hanno messo a rischio la sicurezza di circa 850 bambini detenuti. Alcuni di loro hanno solo 12 anni e rischiano quotidianamente di essere picchiati e feriti, se non uccisi oppure reclutati con la forza. Lo afferma il rappresentante dell’Unicef in Siria, Bo Viktor Nylund, che in una nota chiede che siano rilasciati tutti i minori. “Lo stato di fermo per i bambini dovrebbe solo essere una misura di ultima istanza per il minor tempo possibile”, afferma Nylund. Diecimila donne e bambini in carcere. I piccoli vivono in condizioni impossibili anche nei campi di Al-Hol e Roj nel Nord-Est della Siria. Qui circa 10.000 madri e figli sono in centri di detenzione. Ai minori mancano i servizi essenziali: abiti caldi, cibo, istruzione, servizi igienici. Un rapporto pubblicato lo scorso settembre da Save the Children - “Quando inizierò a vivere?” - parla di 60.000 persone, di cui 40.000 minori. Sono presenti cittadini siriani e iracheni, molti fuggiti dopo l’espandersi dell’influenza militare del cosiddetto stato islamico (IS), oltre che donne e bambini provenienti da 60 Paesi. “Proteggere i bambini”. “L’Unicef chiede a tutte le parti in conflitto nel Nord-Est, e in ogni caso ovunque in Siria - dice Bo Viktor Nylund - di tenere i bambini lontani dai pericoli e proteggerli in ogni momento. Continuiamo a facilitare il coinvolgimento delle autorità locali, a sostenere la logistica del rimpatrio, a preparare i bambini e le loro madri a tornare a casa nei loro Paesi d’origine e ad aiutare alcuni dei bambini a reintegrarsi. Il tempo scorre. Ogni giorno conta e ora è necessaria una maggiore azione collettiva”. Il Kazakistan e l’ex presidente Nazarbayev: come affamare un popolo e diventare miliardari di Francesco Battistini e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 26 gennaio 2022 2221b Baker Street. Gli appassionati di gialli sanno che questo indirizzo nel centro di Londra è la casa di Sherlock Holmes. L’ultimo proprietario conosciuto del palazzo si chiamava Rakhat Aliyev: un ex ambasciatore che aveva sposato Dariga, la prima figlia del primo - e per 29 anni unico - presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev. Caduto in disgrazia e scappato in Europa, Aliyev aveva fatto appena in tempo a denunciare pubblicamente quanto corrotto fosse il regime dell’ex suocero. Nel 2014 lo arrestarono in Austria, con l’accusa d’aver assassinato due funzionari kazaki. E otto mesi dopo, mentre attendeva il processo, lo trovarono impiccato nella sua cella a Vienna. Proprietario di banche e raffinerie, si scoprì che Aliyev era l’intestatario del museo di Sherlock Holmes e di tutte le case di Baker Street che vanno dal civico 215 al 237: valore 215 milioni di dollari. Ma il patrimonio immobiliare complessivo a Londra è di ben 450 milioni di dollari. Ed è solo una goccia, nell’immenso mare d’oro del clan Nazarbayev. In Kazakistan, il 2 gennaio, è scoppiata una rivolta contro il caro vita così furiosa da convincere Putin a inviare l’esercito, in appoggio del governo amico. La più ricca ed estesa delle vecchie repubbliche sovietiche nell’Asia Centrale - con meno di 20 milioni d’abitanti - è anche il più grande esportatore mondiale d’uranio e ha il secondo giacimento petrolifero al mondo. Eppure il reddito familiare medio dei kazaki non arriva a 600 dollari mensili e la metà delle ricchezze nazionali è nelle mani soltanto di 162 persone. L’81enne padre-padrone del Kazakistan ha lasciato la presidenza tre anni fa e, dopo la rivolta popolare, sembra non controllare più la macchina del potere, ma il suo clan, una cinquantina fra nipoti e parenti, possiede ancora tutto: 40 miliardi di dollari solo in liquidità. Certo, le proteste per il rincaro del gpl avrebbero causato una perdita di circa 3 miliardi di dollari alla secondogenita di Nazarbayev, Dinara, e al di lei marito Timur Kulibaev: uno dei mille uomini più ricchi del mondo, proprietario del fondo sovrano, di tutti gli idrocarburi e di un bel po’ di banche kazake. Le banche, appunto. In Kazakistan, solo sei anni fa ce n’erano nove che controllavano il 78% del mercato: quattro sono sparite, le restanti sono finite nel portafoglio del clan. Jysan Bank è una delle più grandi, fa capo al genero di Nazarbayev, ed è considerata il suo bancomat personale, pur avendo in pancia un 44% di prestiti scaduti. C’è poi il caso di Tengri Bank, fondata dalla coppia più chiacchierata del clan, il finanziere Timur Kuanyshev e la moglie Alfiya: li chiamano “i ricchi in mutande” da quando furono ammanettati a Mosca con un milione di dollari non dichiarati e cuciti nella biancheria intima. Timur e Alfiya, amici del Principe Andrea, invitati di riguardo al matrimonio reale di William&Kate, in agosto hanno venduto ai cinesi le loro quote della Tengri: appena in tempo, prima che i dirigenti venissero arrestati per distrazione di fondi. Infine c’è l’Italian Connection: un ex ministro di Nazarbayev che ora da Parigi guida l’opposizione, Mukhtar Ablyazov, ha ricordato l’incredibile risiko bancario che portò anche il più grande istituto italiano, Unicredit, a strapagare 2,1 miliardi di dollari una banca (Atf) che apparteneva a Bulat Utemuratov, un affiliato di Nazarbayev. Sei anni dopo, nel 2013, la stessa Unicredit ha rivenduto l’Atf per 493 milioni a un nipote di Nazarbayev, Akhmetzhah Yessimov. Il quale a sua volta la girò al Jysan Bank, il bancomat di Nazarbayev. Un’operazione costata ad Unicredit la strabiliante cifra di 1,6 miliardi di dollari, che finì nelle tasche del dittatore. Perché la banca italiana accettò di perdere tanti soldi? In quei mesi il regime andava accusando l’Eni d’essere in ritardo con i contratti per lo sfruttamento dei pozzi di Kashagan e minacciava di farle pagare una maxi-penale. Dopo l’operazione Atf, miracolosamente, Nazarbayev tolse ogni pressione su Eni. È naturalmente il petrolio a dare profumo ai soldi di Nazarbayev. Questo figlio d’umili pastori, ex operaio siderurgico e capataz comunista, fu l’ultimo leader d’una repubblica sovietica a dichiarare l’indipendenza dall’Urss e il più lesto a fiutarne le opportunità. “Veniva a Mosca a chiedermi di spiegargli i segreti del business” ricorda l’ex ambasciatore americano Robert Strauss. Nel 1993, da poco diventato presidente, Nazarbayev già offriva in saldo all’Occidente centinaia di missili sovietici. Il Dipartimento americano della Giustizia ha indagato spesso l’ex presidente kazako per corruzione, mentre il suo amico banchiere James Giffen, lobbista a Washington, è stato anche arrestato per 78 milioni di tangenti incassate da grandi compagnie petrolifere. Famosa la mazzetta da un miliardo di dollari offerta da Nazarbayev in persona a James Baker, nel mezzo d’un incontro ufficiale col segretario di Stato americano, perché favorisse una pipeline. O la proposta a Bush jr, tre mesi dopo l’11 settembre, d’aderire alla lotta al terrorismo in cambio d’un aiutino per i guai giudiziari negli Stati Uniti. In una colazione al Rockfeller Center, Nazarbayev chiese alle compagnie petrolifere, in cambio di contratti, di versare l’obolo per un suo investimento immobiliare a New York. Un nipote di Nursutan, Aisultan, 29enne figlio ribelle di Dariga con problemi di droga, un giorno fuggì a Londra e rivelò tra le altre cose una tangente da 1,5 miliardi versata al nonno dai russi di Gazprom, su un conto a Singapore. “Sono la pecora nera, mi daranno del tossico e mi uccideranno” predisse il ragazzo pochi mesi prima di morire all’improvviso, e non è mai stato chiarito come. In trent’anni, dai conti del clan Nazarbayev in Svizzera e alle Isole Vergini sono usciti soldi un po’ per tutti. Trenta milioni finirono alla fondazione di Bill Clinton, che nel 2005 in visita nella capitale kazaka ne aveva tessuto pubbliche lodi. Altri nove a Tony Blair, assunto come advisor internazionale del regime. Nella lista dei consiglieri politici stavano anche Romano Prodi, l’ex cancelliere tedesco Schröder, quello austriaco Gusenbauer. Nell’elenco degli amici italiani c’era, soprattutto, Silvio Berlusconi. Il presidente Scalfaro conferì al dittatore l’onorificenza di Gran Croce. Del resto l’Italia è da anni il secondo partner d’affari europeo del Kazakistan. WikiLeaks nel 2012 rivela: le imprese italiane per lavorare sono obbligate a pagare il dittatore. La figlia Dariga controlla i media e il partito unico. E assieme al figlio Nurali, al suocero Aisultan, alle sorelle Dinara e Aliya, ai cognati Timur e Bolat, gestisce lo sterminato patrimonio immobiliare di famiglia. Un elenco difficile da aggiornare: il castello di Bellerive e la villa coloniale a tre piani ad Anières, sul lago di Ginevra (valutati in 190 milioni di dollari); la quota al Plaza Hotel che domina Central Park a New York (20 milioni); le case a Wall Street, nel New Jersey e in Florida (30 milioni); le proprietà inglesi a Chelsea, ad Ascot e nel Surrey (165 milioni); “La Tropicale” di Cannes (34 milioni); e poi la tenuta spagnola di Lloret de Mar, gli alberghi termali in Repubblica Ceca, altri 140 milioni sparsi in proprietà che la National Crime Agency britannica ritiene “acquistati con denaro di fonte illecita”. Dopo settimane d’assenza, finita la rivolta, Nazarbayev è comparso in pubblico per rassicurare che “non c’è lotta per il potere” e che il padrone è ancora lui. Forse no, ma certamente resta padrone di tutto quello che ha arraffato, mentre il Kazakistan che lascia in eredità fa fatica a pagare la bolletta del gas ed è al 113esimo posto (su 180) nella classifica di Transparency International dei Paesi più corrotti. Al 157esimo in quella della libertà di stampa. Ha pochi eguali per inquinamento da scorie nucleari e sostanze tossiche. I kazaki considerano il pane, “nan”, un alimento sacro e finito il pranzo, secondo tradizione, sulla tavola non ne deve mai avanzare. Il Leader della Nazione è stato il più bravo di tutti a non lasciare neanche una briciola. Afghanistan, tornano liberi i bimbi di strada di Kandahar di Nicola Pinna Il Messaggero, 26 gennaio 2022 Nel caos che sembra essere uscito dall’attenzione internazionale, una storia a lieto fine c’è. Sono occhi gonfi di lacrime e non sguardi da criminali, quelli che si prestano alla telecamera. Mani piccole e già segnate dalla fatica, corpicini malnutriti e coraggio da uomini con molte disavventure alle spalle. La paura di questi bambini non ha certo bisogno di essere raccontata con le parole: si vede da lontano, si capisce senza aggettivi, si scorge dalle espressioni terrorizzate, dalle mani livide e dalle guance piene di graffi. Dalla polvere sulle guance e da quella ricerca continua di conforto. Cresciuti senza affetti e senza una casa sicura, i più piccoli disperati di Kandahar si sono ritrovati in un luogo che non conoscevano. L’illusione che fosse un luogo per giocare, per loro, è durata poco, perché quello spazio polveroso dove ogni tanto si poteva anche correre era il cortile di un carcere. Un angolo circondato dalle grate e dal filo spinato, sul quale si affaccia la sofferenza e dove i bambini non ci dovrebbero mai essere. Nel caos dell’Afghanistan che sembra essere uscito dall’attenzione internazionale, dove si consuma un dramma umanitario che i media di tutto il mondo mostrano poco, una storia a lieto fine c’è. E merita di essere raccontata. Senza troppa enfasi, perché se è vero che i bambini di Kandahar sono finalmente usciti da quel carcere, di certo non si può dire che il loro futuro da ora in poi sia roseo e felice. Di buono c’è però che la loro vita non sarà più dietro alle sbarre. Almeno finché il governatore talebano della regione manterrà l’impegno che ha assunto con il team di Unicef, arrivato in quel carcere per assistere di persona al dramma dei bambini rinchiusi senza avere una colpa. Se non quella di essere stati abbandonati, di aver perso la famiglia e di essersi ritrovati in mezzo alla strada, costretti a cercare cibo tra i rifiuti e a bruciare la plastica per scaldarsi. La vita di quei piccoli da ieri è cambiata e dietro a questa buona notizia c’è qualcosa di italiano. Perché a raccontare la vita disumana dei bambini di strada, detenuti senza condanna a Kandahar, è stato l’inviato della Rai, Giammarco Sicuro. In quel penitenziario, il cronista del Tg2, ci è arrivato dopo una lunga trafila: a iniziare dall’autorizzazione del ministero dell’informazione messo in piedi dai talebani, che in cerca di riconoscimento internazionale hanno deciso di mostrarsi al mondo con un volto diverso da quello di un tempo. L’idea della troupe italiana era quella di mostrare i luoghi di detenzione e i volti di chi dentro un penitenziario senza diritti ci è finito per aver sostenuto gli americani (e i loro alleati) e chi invece è stato recluso semplicemente per non aver rispettato le regole del governo islamista. Ma una volta dentro è balzata agli occhi una brutta sorpresa: i bambini. Malnutriti, abbandonati a loro stessi, rassegnati all’illusione di potersi concedere il lusso di una corsa in mezzo alla polvere. “Passavano il tempo senza far nulla, abbandonati a loro stessi, anche se poi alcuni si occupavano di stendere le coperte e i panni degli altri carcerati - racconta il giornalista della Rai - Quando ho fatto il giro del penitenziario, dove erano ammassati tossicodipendenti, omosessuali e donne che non hanno rispettato le leggi imposte dai talebani, ero ossessionato da un’idea: capire la storia di quei bambini. Ce n’erano già tanti e quando noi eravamo lì dentro è arrivato un furgone che ne ha scaricati altri venti, tutti recuperati nel corso del rastrellamento settimanale lungo le strade della città. Appena ho finito di registrare le immagini autorizzate dalle istituzioni locali, ho tentato di sfruttare i minuti per registrare le immagini di quei piccoli”. Ma il direttore del carcere non ha gradito troppo e il tempo a disposizione per tenere la telecamera accesa è finito. Il servizio è andato in onda nei tg italiani e la storia dei bambini di strada di Kandahar ha avuto per fortuna un secondo tempo. L’attenzione dell’Unicef e una mediazione che è scattata quasi immediatamente. Il team delle Nazioni Unite che rivolge la sua attenzione al dramma dei più piccoli ha messo in campo subito tutte le sue capacità diplomatiche. E alla fine il governatore ha ceduto: le porte del carcere si sono riaperte e i bambini hanno ricominciato a vivere e giocare. Ospiti di una comunità, curati sotto lo sguardo attento dell’Unicef e con una piccola speranza in più. Senza genitori, ma liberi, con la speranza di correre e fare molta strada, lontano dal quadrato polveroso e puzzolente intorno alle celle. Niente pace per lo Yemen, sempre più lontani dialogo e trattative di Mario Giro Il Domani, 26 gennaio 2022 Il 2022 inizia in Yemen con una nuova escalation del conflitto. Sono ormai sette anni di guerra e negli ultimi due mesi un’escalation di attacchi aerei da parte dell’Arabia saudita sul fronte di Marib e di Hodeida sta intensificando il conflitto. Mentre gli houthi hanno rivendicato un attacco compiuto ad Abu Dhabi. I danni collaterali sui civili diventano ogni settimana più pesanti. L’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Hans Grundberg, ripete senza sosta che la guerra sta assumendo il volto della peggior catastrofe umanitaria, con gravi conseguenze per i civili. Anche la navigazione nel golfo di Aden e nel mar Rosso è divenuta pericolosa a causa degli eventi bellici. Il 2022 inizia senza iniziative di pace per la risoluzione del conflitto nello Yemen. Sono ormai sette anni di guerra e negli ultimi due mesi un’escalation di attacchi aerei da parte dell’Arabia saudita sul fronte di Marib e di Hodeida sta intensificando il conflitto. Le vittime si contano a centinaia per ogni giorno di combattimento. L’idea di Riad rimane quella di una soluzione militare che non pare lasciar molto spazio a eventuali negoziati. Gli houthi sono accusati di non aver accettato nessuna delle proposte di pace degli ultimi anni ma si tratta di un’accusa che può essere rivolta a tutte le parti in causa. Il 17 gennaio scorso gli stessi houthi hanno rivendicato un attacco compiuto ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti, in cui sono state uccise almeno tre persone, un cittadino pakistano e due indiani. A fine dicembre il portavoce della coalizione araba a guida saudita ha dichiarato contraddittoriamente che “la soluzione politica è la migliore opzione per la crisi in Yemen e lo strumento militare cerca di raggiungere tale obiettivo”. Le accuse di danni collaterali provocati dai bombardamenti sono numerose da parte delle Ong internazionali anche se Riad sostiene che la preservazione dei civili sono una priorità per la coalizione. Gli stessi combattimenti sul terreno stanno diventando sempre più micidiali, soprattutto nella provincia di Marib. Da anni entrambe le propagande non cambiano: da parte della colazione si annuncia la vittoria imminente; da parte houthi si fanno proclami di vendetta. Secondo fonti di Al-Monitor lo scenario attuale suggerisce che i due contendenti credono ancora in una vittoria sul campo, anche se nessuna soluzione militare rapida appare probabile. Man mano che la guerra si prolunga la crisi umanitaria peggiora. L’inviato delle Nazioni Unite in Yemen, Hans Grundberg, ripete senza sosta che la guerra sta assumendo il volto della peggior catastrofe umanitaria, con gravi conseguenze per i civili: tra bombe, povertà e fame la popolazione è intrappolata e senza vie di uscita. Anche se nelle ultime settimane le forze della coalizione filo-saudita sembrano aver avuto dei limitati successi nell’area fuori Marib, i ribelli houthi resistono nell’ampia parte di paese conquistata, compresa la capitale Sanaa. Ad ogni proposta di dialogo o tentativo di trattativa, gli houthi reagiscono sempre allo stesso modo: chiedendo la fine del blocco saudita dello Yemen, cosa che Riad non è disposta a concedere. Malgrado la loro origine di movimento rurale, con gli anni i ribelli hanno raffinato le loro tattiche militari con l’utilizzo di missili balistici e droni esplosivi forniti dall’Iran, capaci di colpire obiettivi in Arabia Saudita ed ora anche ad Abu Dhabi. La guerra ha un drammatico aspetto umanitario perché la coalizione araba impedisce quasi del tutto che giungano aiuti nell’area dei ribelli. Per rappresaglia il mese scorso questi ultimi hanno sequestrato una nave ospedale battente bandiera emiratina sostenendo che in realtà si tratti di un trasporto d’armi. La guerra ha moltiplicato le attività belliche anche nel mar Rosso e nel golfo di Aden, rendendo pericolosa la navigazione per tutti.