La Conferenza Volontariato della giustizia incontra i Garanti dei detenuti garantedetenutilazio.it, 25 gennaio 2022 Al centro del dibattito le nuove restrizioni introdotte in alcuni istituti penitenziari, a causa della quarta ondata pandemica. Si è svolta martedì pomeriggio una riunione on line promossa dalla Conferenza nazionale del volontariato della giustizia alla quale hanno partecipato i rappresentanti di enti, associazioni e gruppi impegnati in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia in generale e all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari, e numerosi garanti territoriali. Nel corso della riunione sono intervenuti anche il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, e il Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa. La riunione è stata convocata dalla presidente della Cnvg, Ornella Favero, per discutere le criticità nelle carceri italiane durante questa quarta ondata pandemica e le conseguenti misure rilevate da alcune associazioni di volontariato, quali le nuove limitazioni per i colloqui con i familiari in alcuni istituti. Al centro della discussione ci sono stati anche gli esiti dei lavori della commissione ministeriale presieduta dal prof. Ruotolo e le misure urgenti che possono dare seguito agli impegni presi, e ribaditi in più occasioni, dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per la riforma del sistema penitenziario. Ci si è ripromessi di avere nuovi incontri con i vertici dell’amministrazione penitenziaria e con la stessa ministra, per gli interventi urgenti da adottare in questa emergenza Covid e quelli per la riforma più generale dell’esecuzione penale. I numeri delle infezioni nella nuova ondata sono importanti, ma grazie alla diffusione della campagna vaccinale anche in carcere per ora non hanno conseguenze gravi dal punto di vista sanitario. Ciò nonostante, la nuova emergenza ha riproposto rigidità e limitazioni che pesano sulle esigenze d’incontro tra le persone ristrette e i propri familiari e nello svolgimento di attività a fini rieducativi. Secondo il Garante nazionale, Palma, non è pensabile che si ricorra a una situazione di totale chiusura, semplicemente per garantire le distanze all’interno degli istituti penitenziari. “Sarebbe un modello assolutamente regressivo che va contrastato”, ha detto Palma il quale ha inoltre posto l’accento sulla “necessità di un provvedimento normativo che in qualche modo riconosca che la quotidianità scontata in carcere in queste condizioni ha avuto e ha un carico di penalizzazione ben superiore a quello della quotidianità della detenzione normale e che quindi che lo riconosca sotto forma di ristoro”. “L’emergenza Covid - ha detto Anastasìa - ha mostrato i limiti del sistema penitenziario, ma rappresenta l’occasione per ripensarlo, a partire dalla riduzione delle presenze, dall’utilizzo delle risorse del Pnrr per il suo adeguamento alla normativa vigente in materia di igiene e prevenzione, dall’investimento sulla digitalizzazione, così come indicato dalla commissione Ruotolo, e da una maggiore integrazione con i servizi sociosanitari territoriali”. Nel 2022 un suicidio ogni 3 giorni nelle carceri agenpress.it, 25 gennaio 2022 La preoccupazione del Garante nazionale: “Ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo”. “Al 24 gennaio i suicidi in carcere nell’anno sono stati otto: uno ogni tre giorni. È un dato che non può essere né sottovalutato né, tantomeno, ignorato”. L’allarme è stato lanciato, stasera, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (Gnpl). “Anche se è evidente che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di fattori e di malesseri della persona e non può essere ricondotto solo al carcere, tuttavia, l’accelerazione che ha caratterizzato le prime tre settimane del 2022 non può non preoccupare e interrogare l’Amministrazione che ha la responsabilità delle persone che sono a essa affidate”, evidenzia il Gnpl. Il Garante nazionale delle persone private della libertà intende segnalare la criticità della situazione in questo avvio dell’anno, proprio” per ribadire la necessità di ritrovare un dialogo produttivo attorno al tema dell’esecuzione penale detentiva che sappia rispondere alla particolare difficoltà oggi vissuta negli Istituti da parte di chi vi è ristretto e da parte di chi in essi opera quotidianamente”. “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”, conclude il Gnpl. Disagio psichico e 41-bis, quei messaggi sul carcere di Luca Liverani Avvenire, 25 gennaio 2022 Due sentenze che accendono un faro su due delle molte criticità del sistema penitenziario. La Corte costituzionale ha definito illegittima la censura sulla corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e i loro difensori. Nella stessa giornata in cui la Corte Europea per i diritti umani ha condannato l’Italia per la detenzione in un carcere ordinario di un detenuto con gravi problemi psichiatrici. Uno stato di sofferenza del pianeta carcere confermato anche dalla denuncia del Garante per i detenuti: da inizio anno già otto suicidi in carcere, uno ogni tre giorni. A pochi mesi dalla scadenza dell’ultimatum al Parlamento sull’ergastolo ostativo - se entro maggio non sarà modificato verrà dichiarato incostituzionale - la Consulta torna a intervenire sul regime del carcere duro per mafiosi e terroristi. E a eliminare un’altra restrizione: si tratta del “visto di censura”, dell’esame preventivo della corrispondenza tra i detenuti e i loro legali. Secondo la Corte, con sentenza n. 18 depositata ieri, è incostituzionale perché viola il diritto di difesa. A sollevare la questione di legittimità era stata la Cassazione. Nel diritto di difesa rientra quello di comunicare in modo riservato con il proprio avvocato. E ne è titolare pure chi è in carcere, anche per potersi tutelare da eventuali abusi delle autorità penitenziarie, sottolinea la sentenza redatta dal giudice Francesco Viganò. Se è vero che non si tratta di un diritto assoluto - e che i detenuti al 41 bis sono già sottoposti a restrizioni di diritti fondamentali per impedire contatti con i clan - per la Corte la censura sulla corrispondenza tra detenuto e avvocato è inutile per questo fine, ma è solo una irragionevole compressione del diritto di difesa. Il detenuto infatti può sempre avere colloqui personali col proprio legale, senza limiti e al riparo da controlli. Ma la Corte dice anche che il visto di censura opera automaticamente, anche in assenza di elementi che facciano ipotizzare condotte illecite dell’avvocato: una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato”. L’altro rimprovero al sistema penale arriva dalla Corte Europea dei diritti umani (Cedu) che ha condannato l’Italia per aver trattato in modo inumano un detenuto con gravi problemi psichiatrici. Il giovane è stato rinchiuso in una prigione ordinaria nonostante i tribunali nazionali, e poi anche la Corte stessa, ne avessero ordinato il trasferimento in un centro dove potesse essere curato. la Cedu ha stabilito che l’Italia dovrà versargli 36.400 euro per danni morali. Al centro della vicenda c’è Giacomo Seydou Sy, nato nel 1994, che soffre di turbe della personalità e bipolarismo. Accusato di molestie alla sua ex compagna, resistenza a pubblico ufficiale e furto, è considerato “socialmente pericoloso”, ma anche parzialmente irresponsabile degli atti che commette. E soprattutto il suo stato di salute non è compatibile con la detenzione in una prigione ordinaria. Ma ha passato due armi in carcere, a Rebibbia. L’uomo è figlio di Loretta Rossi Stuart, sorella dell’attore Kim, che ha raccontato la vicenda a Radio Radicale. A confermare la criticità del sistema penitenziario arriva l’allarme del Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma: “Al 24 di gennaio i suicidi in carcere nell’anno sono stati otto: uno ogni tre giorni. È un dato che non può essere né sottovalutato né ignorato - ha sottolineato -. Anche se è evidente che la decisione di porre fine alla propria vita si fonda su un insieme di fattori e di malesseri della persona e non può essere ricondotto solo al carcere, tuttavia, l’accelerazione che ha caratterizzato le prime tre settimane del 2022 non può non preoccupare e interrogare l’Amministrazione che ha la responsabilità delle persone che sono a essa affidate”. Quando il lavoro è utile ai detenuti e alla società di Antonella Barone gnewsonline.it, 25 gennaio 2022 Sono stati presentati nel corso di un convegno svoltosi a Roma, nella sala ACRI - Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio Spa i risultati dello studio multicentrico “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere”, promosso dalle fondazioni Emanuele Zancan, Compagnia di San Paolo, Con Il Sud e Cariparo - Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia. La ricerca ha coinvolto oltre 300 detenuti degli istituti di Torino, Padova e Siracusa (un terzo dei quali è occupato presso cooperative, un terzo dipendente dell’Amministrazione Penitenziaria, un terzo inattivo) con l’obiettivo di valutare i benefici diretti e misurabili nel breve periodo del lavoro durante la detenzione. I dati emersi dallo studio attestano, per quanto riguarda le condizioni psicofisiche, una significativa diminuzione della depressione tra chi lavora (tra il 20 e il 25 %) rispetto a chi è inattivo (55%), una minore incidenza dell’obesità (7% tra i dipendenti delle cooperative rispetto al 14,4% tra i disoccupati), una diminuzione dei farmaci consumati e delle visite mediche. Diverso l’atteggiamento anche nei confronti della pena: solo il 30,8% dei detenuti che non lavora considera giusta la propria condanna, percentuale che sale al 39,8 tra i lavoranti per l’amministrazione penitenziaria e al 41,2% tra gli assunti dalle cooperative. Dati ritenuti utili a spiegare la riduzione dei rischi di violenza nelle carceri e di recidiva. Negli istituti penitenziari italiani lavorano 15.827 detenuti alle dipendenze dell’amministrazione e 2.130 sono dipendenti di cooperative esterne, per un totale di 17.957, come ha ricordato il Capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, intervenuto in apertura dei lavori. Le caratteristiche dei rapporti di lavoro e delle mansioni svolte all’interno di ognuna delle due tipologie presentano differenze soprattutto qualitative. Dalla ricerca emerge un quadro complessivamente più favorevole per i detenuti dipendenti dalle cooperative, soprattutto per quanto concerne “la sfera dell’autostima, dell’orientamento valoriale e dei legami vitali”. La prima parte del convegno è stata dedicata alla presentazione e alla discussione dei dati emersi grazie agli interventi e ai contributi dei responsabili delle realtà che hanno collaborato nella realizzazione del progetto, ‘Tiziano Vecchiato (Fondazione Emanuela Zancan), Francesco Profumo (ACRI), Carlo Borromeo (Fondazione con il Sud) e Gilberto Muraro (Fondazione Cariparo). Evidenziato dai relatori anche l’interesse di ‘tutte le parti in gioco’, detenuti, imprenditori e contribuenti: “Parte della ricchezza prodotta si traduce, al netto degli sgravi fiscali e contributivi - riporta lo studio - in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’IVA, stimabile in oltre 100 mila euro l’anno per cooperativa in media)”. Si evidenzia, inoltre, come la produzione delle cooperative sociali conti su un indotto per altre aziende, clienti e fornitori. Alla tavola rotonda “Sfide e traguardi per la cooperazione sociale” coordinata da Giorgio Righetti, direttore generale ACRI, sono intervenuti i detenuti coinvolti nelle attività lavorative, insieme a rappresentanti delle tre cooperative ‘campione’, Nicola Boscoletto (Giotto), Valentina D’Amico (l’Arcolaio, Siracusa) e Gianluca Boggia (Extraliberi, Torino). I lavori sono stati conclusi da interventi di Marco Ruotolo, ordinario Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, e del giurista Vladimiro Zagrebelsky. “Dallo studio emerge una positiva ricaduta economica sulle aziende, sui detenuti e sui contribuenti - commenta Tiziano Zancan - nonché un miglioramento dello stato psico fisico di chi è occupato, con una maggiore accettazione della pena e comprensione del suo significato. La forza dei dati testimonia la doppia redditività, economica e umana, del lavoro così come gestito nel campione analizzato. Un risultato che attua nel concreto il dettato costituzionale sulla funzione della pena”. Il rapporto completo dello studio sarà pubblicato a breve su www.fondazionezancan.it. La condanna Cedu: quel ragazzo con gravi problemi psichici non può stare in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2022 La Corte europea condanna l’Italia perché ha trattenuto in carcere un ragazzo con gravi problemi psichici nonostante i tribunali e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo avessero ordinato il trasferimento in un centro dove potesse essere curato. Il nostro Paese ha violato l’art. 3 della Convenzione Europea, ovvero per trattamenti inumani e degradanti. Ma l’Italia è condannata anche per la violazione dell’articolo 5 comma 1, riguardante il periodo di detenzione illegittima; la violazione dell’articolo 5 comma 5, relativamente al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento); dell’articolo 6 comma 1 (diritto a un processo equo) e l’articolo 34 (diritto di ricorso individuale). Parliamo di uno dei tanti casi di persone trattenute illegalmente in carcere, nonostante i giudici avessero disposto trasferimento verso luoghi di cura idonei. Al centro di questa vicenda c’è Giacomo Seydou Sy, nato nel 1994, residente a Mazzano Romano, che soffre di turbe della personalità e bipolarismo. Il ragazzo, figlio di Loretta Rossi Stuart, sorella dell’attore Kim che si è battuta molto contro questo abuso, è stato accusato in vari momenti di molestie alla sua ex compagna, resistenza a pubblico ufficiale e furto. I giudici hanno ritenuto che il suo stato di salute non è compatibile con la detenzione in una prigione ordinaria. Ma nonostante questo, e due decisioni dei tribunali nazionali, Giacomo si trova ancora recluso nel carcere romano di Rebibbia da due anni. Per giustificare il mancato rispetto delle decisioni dei giudici, le autorità hanno fatto sapere di non essere in grado di trovare un’alternativa alla sua detenzione in carcere. L’Italia dovrà versargli 36.400 euro per danni morali “La decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è solo uno dei tanti casi simili pendenti che riguardano la questione delle persone con patologie psichiatriche nel circuito penale. E a giorni si aspetta anche la sentenza della Corte Costituzionale (ordinanza 131/ 2021)”, ricorda Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, il cui lavoro, insieme a quello della società civile in generale, è stato molto intenso sul tema e viene esplicitamente citato dalla Corte nella sua decisione. “È un provvedimento importante, che non contiene solo la risoluzione di un singolo caso, ma dà indicazioni su un percorso che governo e Parlamento devono seguire per evitare altre condanne e nuove violazioni dei diritti fondamentali”, sottolinea ancora Gonnella. “La Cedu afferma due principi importanti: il primo, le carceri non sono luoghi di cura per la presa in carico di patologie psichiatriche gravi, vanno dunque immaginati nuovi modelli per la salute mentale, in stretto contatto con i servizi territoriali. È quello che vediamo tutti i giorni durante le visite dell’Osservatorio sulle condizioni detentive ed è ciò che la Cedu ribadisce. Il secondo principio è che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) sono uno dei luoghi dove il paziente psichiatrico autore di reato può essere destinato, ma non sono l’unico”, afferma ancora il presidente di Antigone. Secondo Gonnella, esistono altre soluzioni, di tipo comunitario o residenziale, che vanno prese in considerazione, perché è ciò che ribadisce la legge. Per questo, secondo il presidente dell’associazione, è necessario che giudici e servizi di salute mentale si confrontino da subito e trovino soluzioni condivise. “Antigone è pronta a fare la propria parte, mettendo a disposizione le proprie osservazioni e le proprie competenze. È importante che si legga attentamente la sentenza (e le altre che arriveranno), evitando le semplificazioni ossia limitarsi a dire che servono più Rems. Sarebbe un errore interpretativo grave che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne”, conclude Patrizio Gonnella. “Vietato il carcere ai malati psichici”: la Cedu condanna l’Italia di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 gennaio 2022 La sentenza della Corte di Strasburgo per un uomo che non aveva trovato posto nelle Rems. “Spetta al governo garantire le cure”. Antigone: “Ora un altro modello per la salute mentale”. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. Per Giacomo Seydou Sy, classe 1994, sofferente di disturbo della personalità e disturbo bipolare, accusato di molestie nei confronti della sua ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni, il Gip di Roma aveva disposto già nel gennaio 2019 il suo “immediato collocamento” per un anno in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), le strutture che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non aveva però trovato posto nelle Rems (di competenza del ministero della Salute) per il giovane malato. Eppure, sottolinea la Corte di Strasburgo, Sy “non ha beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per la gestione della sua patologia, e questo, in un contesto caratterizzato da cattive condizioni carcerarie”. Nella stessa giornata di ieri - mentre il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma denunciava un suicidio ogni tre giorni tra i detenuti dall’inizio del 2022 e chiedeva di “ridurre le tensioni” nelle carceri e “ridefinire un modello detentivo” - la Corte costituzionale con la sentenza n. 18 (redattore Francesco Viganò), accogliendo la questione sollevata dalla Cassazione, ha dichiarato illegittima la censura sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al 41 bis con il proprio avvocato difensore. Secondo la Consulta, il diritto alla difesa può essere “circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità, purché non sia compromessa l’effettività della difesa”. Mentre la censura della corrispondenza con il proprio legale, anche per i detenuti sottoposti al “carcere duro”, è una “irragionevole compressione del diritto di difesa”. Tanto più perché, ricordano i giudici costituzionalisti, le circolari del Dap in vigore dal 2017 escludono già questo tipo di controlli sulla corrispondenza dei detenuti in 41 bis. Due sentenze che ci ricordano quanto sia deficitaria la salvaguardia dei diritti dei detenuti nelle carceri italiane. La condanna della Cedu per trattamento inumano e degradante, spiega Patrizio Gonnella, “dimostra un cortocircuito istituzionale nel nostro Paese inaccettabile”. “È solo uno dei tanti casi simili pendenti che riguardano la questione delle persone con patologie psichiatriche nel circuito penale - ricorda il presidente dell’Associazione Antigone - E a giorni sul tema si aspetta anche la sentenza della Corte Costituzionale”. Secondo l’organismo del Consiglio d’Europa, nel caso di Giacomo Seydou Sy, al tempo detenuto nel carcere romano di Rebibbia, l’Italia ha violato gli articoli 3 (trattamenti inumani e degradanti), 5 (comma 1, detenzione illegittima; comma 5, mancato riconoscimento del diritto al risarcimento), 6 (comma 1, diritto a un processo equo) e l’articolo 34 (diritto di ricorso individuale). Era infatti dovere del “governo italiano” trovare un posto nelle Rems o “un’altra soluzione adeguata, come peraltro la Corte aveva espressamente indicato nel provvedimento provvisorio” emesso da Strasburgo il 7 aprile 2020. Allora, il governo italiano (Conte II) rispose che non era in suo potere decidere alcun’altra collocazione per l’uomo - considerato socialmente pericoloso - se non le Rems, come disposto dal Gip, dove però “nonostante le ripetute richieste, nessun posto si è liberato”. “La nuova condanna Cedu è un’ulteriore macchia per il Paese che fu di Beccaria e conferma le nostre denunce”, commenta il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa che suggerisce, “senza ricorrere a improbabili nuovi studi”, di “ripartire dalle proposte scaturite dai lavori degli Stati generali dell’esecuzione penale del 2016 (voluti dall’allora ministro Orlando, ndr) e attuarne la parte pertinente, purtroppo poi irresponsabilmente cestinata dai governi (Renzi, Gentiloni, ndr)”. Attenzione però, avverte Gonnella: “La Cedu dà indicazioni su un “percorso” che governo e Parlamento devono seguire per evitare altre violazioni”: immaginare nuovi modelli per la salute mentale, in modo da prendere in carico anche i detenuti con patologie psichiatriche gravi, ed “evitare la semplificazione di chiedere più Rems - sottolinea il presidente di Antigone - sarebbe un errore interpretativo grave che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne”. “È incapace, non doveva stare in cella”: Italia condannata di Mario Consani Il Giorno, 25 gennaio 2022 Lo Stato dovrà versagli 36mila euro. Nelle carceri lombarde almeno venti casi simili, il prossimo giudizio su un ex recluso di San Vittore. Il prossimo giudizio riguarderà un ex detenuto di San Vittore. Ieri la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per maltrattamenti nei confronti di un recluso laziale 27enne che soffre di turbe della personalità e bipolarismo. Era destinato per sentenza a una Rems, strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari, invece l’hanno tenuto in cella perché nelle Rems non c’era posto. Così adesso lo Stato dovrà versargli un risarcimento di 36.400 euro per detenzione illegittima. Chi ha problemi psichiatrici riconosciuti dai giudici, infatti, in cella non può stare. Ma quanti sono, solo nelle carceri lombarde, i reclusi con questo tipo situazione? “Una ventina”, è la stima di Francesco Maisto, Garante per i diritti delle persone private della libertà del comune di Milano. Alcuni di loro sono in carcere da mesi, qualcuno anche da un tempo superiore. La giustificazione è sempre la stessa: nelle rems c’è la lista d’attesa. Ma poi, a parte i casi conclamati, c’è un numero sempre maggiore di detenuti con problemi psichiatrici evidenti, anche se all’epoca dei processi ritenuti non incapaci di mente. In Regione sono quasi 900 sui 7.800 reclusi. Nella relazione di metà mandato del garante milanese, presentata ad agosto, si denunciava proprio che “la maggiore criticità attuale in tutte le nostre carceri è rappresentata dalla grave carenza di assistenza psichiatrica”. Una realtà, quella dei detenuti con disturbi mentali, che è andata peggiorando negli ultimi anni. Il peggiore è stato il 2020, l’inizio della pandemia. “É evidente - osservava Maisto - come l’impatto dei disturbi psichiatrici e del comportamento sia decisamente importante rispetto alla difficile gestione dei detenuti che viene, da più parti, rappresentata”. A livello regionale, si leggeva nella relazione Maisto, ad agosto erano ben 880 le persone con problemi di patologie psichiatriche (672) o con disturbi del comportamento (208). Eppure in Regione sono solo due i reparti all’interno delle carceri destinati a reclusi con questi problemi, a Monza e a Pavia. In realtà, una recente sentenza della Corte costituzionale darebbe modo anche a questi detenuti di scontare la propria pena in detenzione domiciliare per motivi di salute. Il problema è che dovrebbero stare in case famiglia o comunità per persone con problemi psichiatrici. Ma il posto, naturalmente, non si trova quasi mai. E così c’è anche chi, nell’attesa, in cella si toglie la vita: in Lombardia 5 detenuti l’anno scorso, tra gennaio e novembre. Detenuto in 41-bis, illegittima la censura della corrispondenza con il difensore di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2022 La Corte costituzionale, con la sentenza n. 18, ha accolto la questione posta dalla Cassazione. Viola il diritto di difesa sancito dalla Costituzione la norma, contenuta nell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che - secondo l’interpretazione della Corte di cassazione - impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” e il proprio difensore. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 18 depositata oggi (redattore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla stessa Cassazione. La sentenza osserva che il diritto di difesa comprende - secondo quanto emerge dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo - il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie. È vero che questo diritto non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità - purché non sia compromessa l’effettività della difesa - qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in una irragionevole compressione del suo diritto di difesa. Da un lato, infatti, il detenuto può sempre avere - per effetto della sentenza della Corte del 2013, n. 143 - colloqui personali con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti dei colloqui stessi da parte delle autorità penitenziarie. Dall’altro, il visto di censura previsto dalla norma ora esaminata dalla Corte opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato. Ciò riflette, ha osservato la Corte, una “generale e insostenibile presunzione […] di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Peraltro, nella motivazione della sentenza viene sottolineato che le circolari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) in vigore dal 2017 avevano interpretato l’attuale normativa escludendo la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i propri difensori, anticipando così gli effetti di questa pronuncia di illegittimità costituzionale. Illegittimo censurare la posta tra avvocato e detenuto al 41-bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2022 La Cassazione ha accolto il ricorso di un recluso sollevando la questione di legittimità alla Corte costituzionale. È incostituzionale censurare la corrispondenza tra il detenuto sottoposto al 41 bis e il proprio difensore. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 18, redattore Francesco Viganò, accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione. La Corte Suprema, sezione prima penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41- bis, in riferimento a taluni articoli della Costituzione, anche in relazione all’art. 6 della Cedu nella parte in cui prevede, per i detenuti sottoposti al 41- bis, la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, senza escludere quella indirizzata ai difensori. Il ricorso alla Cassazione è stato proposto da un condannato in primo grado alla pena di venticinque anni perché ritenuto esponente di vertice di un’associazione di stampo mafioso, e attualmente detenuto al 41 bis. Con decreto del 12 maggio 2020, il Presidente del Tribunale di Locri aveva disposto il trattenimento di un telegramma indirizzato dal detenuto al proprio difensore di fiducia. Con ordinanza del 9 luglio 2020 il Tribunale aveva rigettato il reclamo del detenuto avverso tale decreto, ritenendo la sussistenza di un “pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, connesso all’ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza”. Il detenuto aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, lamentando l’illegittimità della motivazione con cui il Tribunale aveva confermato il provvedimento. La Cassazione ha accolto il ricorso sollevando la questione di illegittimità costituzionale. L’associazione “Italiastatodidiritto” ha presentato alla Consulta un’opinione scritta in qualità di amicus curiae. Argomentando a sostegno della fondatezza nel merito delle questioni sollevate, ha evidenziato in particolare come “il profilo più grave” della normativa censurata sarebbe costituito dalla presunzione di pericolosità del difensore sulla quale essa parrebbe fondarsi: presunzione che non solo mortificherebbe solennità e valenza del giuramento forense, ma sarebbe anche irragionevole nella misura in cui riguarda la categoria forense e non altre figure, prive di analoghe stringenti prescrizioni deontologiche e professionali, quali i membri del Parlamento, per i quali il visto di censura non opera. La sentenza della Consulta osserva che il diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie. È vero che questo diritto non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità - purché non sia compromessa l’effettività della difesa - qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza. Tuttavia, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in una irragionevole compressione del suo diritto di difesa. Da un lato, infatti, il detenuto può sempre avere - per effetto della sentenza della Corte del 2013 - colloqui con il proprio difensore, senza alcun limite quantitativo e al riparo da ogni controllo sui contenuti dei colloqui stessi da parte delle autorità penitenziarie. Dall’altro, il visto di censura previsto dalla norma esaminata dalla Corte opera automaticamente, anche in assenza di qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte dell’avvocato. Ciò riflette, ha osservato la Corte, una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Peraltro, nella motivazione della sentenza viene sottolineato che le circolari del Dap in vigore dal 2017 avevano interpretato l’attuale normativa escludendo la legittimità di ogni controllo sulla corrispondenza tra detenuti in 41 bis e i difensori, anticipando così gli effetti della pronuncia di illegittimità costituzionale. Censura delle lettere con l’avvocato. bocciato il 41-bis. Manes: “Importantissimo” di Angela Stella Il Riformista, 25 gennaio 2022 Per i giudici costituzionali il visto sulla corrispondenza è illegittimo. “Si riconosce che il legale prima di difendere le persone difende il diritto”, spiega il professore. “Messaggio a chi viola il divieto di intercettazioni”. Viola il diritto di difesa sancito dalla Costituzione la norma, contenuta nell’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, che impone il visto di censura sulla corrispondenza tra il detenuto sottoposto al “carcere duro” e il proprio difensore: lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 18 depositata ieri (redattore Francesco Viganò), accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione. La sentenza osserva che il diritto di difesa comprende - secondo quanto emerge dalla costante giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo - il diritto di comunicare in modo riservato con il proprio difensore e sottolinea che di questo diritto è titolare anche chi stia scontando una pena detentiva. E ciò anche per consentire al detenuto un’efficace tutela contro eventuali abusi delle autorità penitenziarie. È vero che questo diritto scrive la Corte - “non è assoluto e può essere circoscritto entro i limiti della ragionevolezza e della necessità - purché non sia compromessa l’effettività della difesa - qualora si debbano tutelare altri interessi costituzionalmente rilevanti. Ed è anche vero che i detenuti in regime di 41 bis sono ordinariamente sottoposti a incisive restrizioni dei propri diritti fondamentali, allo scopo di impedire ogni contatto con le organizzazioni criminali di appartenenza”. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il visto di censura sulla corrispondenza del detenuto con il proprio difensore “non sia idoneo a raggiungere questo obiettivo e si risolva, pertanto, in una irragionevole compressione del suo diritto di difesa”. Ne parliamo con il professore avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Bologna. Professore perché è importante questa decisione della Consulta? Ritengo che sia importante da due prospettive: quella del detenuto e quella del difensore. In merito alla prima: quale che sia il regime a cui è assoggettato, e senza distinzioni tra imputato e condannato, costui conserva sempre il diritto di avere diritti. Quali sono? La propria dignità personale, ossia quel diritto che non si acquista per meriti e non può mai perdersi per demeriti. E ovviamente, in posizione preminente per chi si trova in una posizione di particolare vulnerabilità, come quella del detenuto, il diritto di difesa, nella sua particolare articolazione di diritto a colloquiare con il difensore. Invece perché è pregevole per la prospettiva del difensore? La Corte Costituzionale riconosce irragionevole, ma prima ancora - mi sentirei di dire - eticamente inaccettabile, una norma che prevede un visto di censura sulle comunicazioni tra l’avvocato e il proprio assistito. La norma impugnata nascondeva un gravissimo fraintendimento della funzione difensiva, gettando un’ombra di sospetto o persino una presunzione di collusione tra il difensore e il proprio assistito, tanto da imporre un monitoraggio dell’autorità. Come del resto aveva già riconosciuto una circolare del Dap nel 2017. Lei fa riferimento al paragrafo 4.4.2 della sentenza quando leggiamo: “La disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione - già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 - di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”... Esatto. Finalmente si riconosce - in tempo di populismo penale, di retorica giustizialista, di discorso becero che addirittura tende a vedere nell’avvocato un sodale del proprio assistito - che l’avvocato prima di difendere cause e persone - prima e più in alto - difende il Diritto. Quindi, tornando alla sua domanda iniziale, questa sentenza della Consulta è importantissima perché qui in gioco c’era il diritto di difesa in uno dei suoi contenuti essenziali, quello di comunicare liberamente con il proprio assistito, senza alcuna inibizione, come riconosciuto anche dalla Corte Mi sembra di aver capito che questo visto di censura sia irragionevole sotto più punti di vista... Il punto centrale della decisione è l’irragionevolezza sul piano dei valori della norma anche se poi la Consulta unisce a questo argomento anche una irragionevolezza sul piano degli scopi. Considerato che il difensore può avere dei colloqui liberi e non intercettati con il detenuto, limitare la corrispondenza non varrebbe ad impedire il tramite con le organizzazioni criminali di appartenenza. Vorrei aggiungere un’altra considerazione. Prego… Il messaggio di questa sentenza dovrebbe irradiarsi a tanti altri ambiti dove il rapporto tra assistito e difensore è oggetto di pericolose intrusioni, e di ingerenze illegittime. Penso innanzitutto alle intercettazioni telefoniche tra l’assistito e il difensore in spregio ad una regola, espressamente codificata all’articolo 103 comma V cpp, che vieta non solo l’intercettazione ma anche la sua trascrizione. Invece spesso la regola viene trasgredita nella prassi. Ad essere conseguenti con le affermazioni di questa importante decisione, la rubrica attuale dell’articolo 103 cpp, che è ‘Garanzie di libertà del difensore’, dovrebbe essere riscritta così: ‘Garanzie di libertà nello Stato di Diritto’ o ‘Garanzie a tutela dello Stato di diritto’. Non si tratta di privilegi del difensore, ma di prerogative in uno Stato di Diritto. Professore il 41 bis è stato spesso oggetto di decisioni della Corte Costituzionali. Per alcuni si tratta di un regime illegale e incostituzionale, che va oltre l’obiettivo per cui è nato. Che ne pensa? Tutti gli istituti derogatori rispetto ai principi vanno confinati in chiave di stretta eccezionalità, riferiti a contesti emergenziali davvero tali. Quando questa eccezionalità tende a trasformarsi in regola chiaramente la frizione con i principi costituzionali tende ad acutizzarsi. Ufficio del processo, mancano le postazioni per i neo assunti di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 25 gennaio 2022 A Milano si rischia di dover ricorrere al lavoro da remoto, a Napoli l’ex segretario dell’Anm Cilenti perplesso per la destinazione delle risorse: “Squilibri fra primo e secondo grado”. Partenza in salita per il neonato Ufficio del processo. Sono tanti, infatti, i problemi da risolvere, sia per l’aspetto logistico sia per il profilo d’impiego dei tanti ragazzi che dovranno aiutare, da questo mese e fino al 2026, i magistrati nelle attività propedeutiche o collaterali alla decisione. Ma andiamo con ordine. I circa 16.500 laureati, anche con laurea triennale in materie giuridiche o economiche, chiamati in ausilio delle toghe stanno arrivando in questi giorni nei vari uffici giudiziari. Previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, “l’Ufficio per il processo offrirà un contributo decisivo, per il rispetto degli impegni presi con l’Europa e per un rinnovamento del metodo di lavoro giudiziario”, ha detto recentemente la ministra della Giustizia Marta Cartabia. I ragazzi che arrivano nei tribunali avendo superato una selezione per titoli ed esami, hanno avuto una formazione di base da parte del ministero per quanto riguarda l’uso degli applicativi, da completare poi in sede con l’aiuto dei magistrati “affidatari”. Sono tutti equiparati ai dipendenti amministrativi, potendo accedere anche ai registri di cancelleria, e avranno un compenso di 1.700 euro mensili per una durata di circa tre anni. Per loro l’amministrazione si è riservata la possibilità di stabilire “particolari forme di organizzazione e di svolgimento della prestazione lavorativa, con riferimento al lavoro agile e alla distribuzione flessibile dell’orario di lavoro”. Secondo una circolare del ministero, gli addetti all’Ufficio del processo potranno partecipare anche alle udienze e, in questo modo, permetteranno che le stesse possano tenersi anche di pomeriggio. Ma il problema principale, come detto, è essenzialmente logistico: non c’è spazio per tutti. Al Palazzo di giustizia di Milano, uno degli uffici giudiziari più grandi e importati d’Italia, sono stati assegnati quasi 700 addetti al nuovo “Upp”. Purtroppo, come si prevedeva, non ci sono postazioni sufficienti. L’unica soluzione rimane, allora, il lavoro da remoto, anche per le camere di consiglio, essendo normalmente gli spazi molto angusti, tanto che spesso non se trova per i “Mot”, i neo magistrati in tirocinio. Per ovviare alla carenza di spazio, sempre a Milano, si era ipotizzato di affittare dei locali nei pressi del tribunale. Ma ad oggi non ci sono i fondi per le locazioni e sarà quindi necessario trovare soluzione alternative. Anche sulla distribuzione di questo personale si segnalano criticità. “A Napoli si registrano squilibri tra le risorse umane assegnate al primo grado e agli uffici di appello: se lo scopo è elevare la produttività, non può essere una soluzione spostare l’arretrato dal primo al secondo grado del processo. Fa riflettere inoltre il fatto che, dopo avere investito in tempo, energie e luoghi di lavoro, questo personale, formato e organizzato, andrà via perché a tempo determinato”, afferma Edoardo Cilenti, consigliere della Corte di appello del capoluogo campano ed ex segretario generale dell’Anm. Sul fronte delle dotazioni informatiche, indispensabili per il processo civile telematico, i pc starebbero per arrivare, senza bisogno di prenderli al personale amministrativo già in servizio. Come segnalato dal Corriere della sera lo scorso fine settimana, poi, non essendo stato equiparato il periodo prestato nell’Ufficio del processo ai tirocini formativi in essere ai fini dei titoli preferenziali per il concorso in magistratura, sarebbero in atto in queste ore molte rinunce. Per risolvere i dubbi interpretativi è intervenuta una circolare ministeriale che equipara le due attività. Ma senza una legge la circolare rischia di creare confusione all’atto del futuro concorso. “Se quell’Ufficio deve essere la struttura portante della riforma della giustizia civile che è ormai indispensabile, visto che la fiducia dei cittadini è crollata al 32 percento, non può nascere in un ginepraio di liti tra precari insoddisfatti che farebbero ostruzionismo”, è stato il commento di Antonio de Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale Camere civili. “Se si vuole la efficienza della giustizia, bisogna per prima cosa riuscire a motivare chi deve farla, magistrati, avvocati e personale amministrativo compresi. L’efficienza della giustizia dipende dalla organizzazione, non dal rito: se non cambieranno i comportamenti, non ci sarà codice che potrà farla funzionare bene”, ha concluso de Notaristefani. Piemonte. Su 4mila detenuti oltre mille sono stati positivi al Covid cr.piemonte.it, 25 gennaio 2022 “Su 3.700 posti e una presenza reale di oltre 4.000 persone, sono stati più di 1.000 i positivi da Covid nelle carceri piemontesi. Oggi sono 188 a Torino in lieve calo, 44 a Vercelli, 2 ad Asti con una forte discesa, 13 ad Alessandria, 20 a Biella, 33 a Ivrea. La maggior parte sono asintomatici o paucisintomatici”. Sono questi i numeri che il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della regione Piemonte, Bruno Mellano, ha fornito durante l’audizione in Commissione Legalità (presidente Giorgio Bertola). “La questione sanitaria è un’utile cartina di tornasole per capire come stanno andando le carceri piemontesi - ha proseguito - che hanno avuto più difficoltà a fare il salto di innovazione fatto in altri settori della società. Registriamo una difficoltà di dialogo tra ministero della Giustizia e ministero della Sanità, tra amministrazione carceraria e Asl. Torino, con le sue difficoltà strutturali, è stato tra i luoghi italiani con più problemi, come riportato anche dalle cronache. Nelle strutture più chiuse e ad alta sicurezza, come Asti, Saluzzo e Cuneo, sono esplosi i primi focolai. Non c’è stata una vera ristrutturazione del servizio e a questo va aggiunta, in particolare per il capoluogo, la necessità di profonde ristrutturazioni degli ambienti. Queste difficoltà sono state riscontrate anche nella campagna di vaccinazione: abbiamo chiesto di intervenire per aumentare la consapevolezza dell’importanza dell’immunizzazione. Fino al 31 dicembre non avevamo un quadro definitivo della copertura, oggi abbiamo un report ogni 15 giorni e dati in crescita”. La Commissione ha audito anche la Garante della Città di Torino, Monica Gallo, che ha sottolineato come “siamo arrivati a questa seconda grande ondata che non ha fatto tesoro dell’esperienza passata. Il padiglione adibito a reparto Covid non ha una presenza costante di un medico, per cui quando i contagi sono aumentati bruscamente le persone sono rimaste in sezione in cella chiusa per tutta la durata della malattia, con conseguente paura e disagio per il malato e la famiglia. Rispetto al caso del Sestante, che è arrivato alle cronache locali e nazionali dopo l’articolo di Susanna Marietti, ho più volte sollecitato la chiusura della struttura. Adesso è cominciata la ristrutturazione, ma il problema si è spostato in un’altra sezione: è la gestione dei detenuti con disturbi comportamentali o psichiatrici che va rivista completamente”. “La maggior parte dei problemi segnalati - ha aggiunto - sono relativi a problemi legati alla gestione sanitaria all’interno dell’istituto penitenziario: lunghissime attese per visite ed esami, errori, 250 persone che aspettano una protesi dentaria. L’11% della popolazione, circa 160 persone, sono giovani con problemi di tossicodipendenza, a cui talvolta si aggiungono disturbi comportamentali, che necessitano di percorsi dedicati”. Sono intervenuti per chiarimenti i consiglieri Monica Canalis e Diego Sarno (Pd), Sarah Disabato (M5s), Francesca Frediani (M4o), Marco Grimaldi (Luv). Genova. Muore in ospedale il detenuto che si era impiccato in cella il 2 gennaio genovaquotidiana.com, 25 gennaio 2022 Il detenuto era stato trasferito al San Martino Rianimazione, ma non ce l’ha fatta. È il secondo uomo che muore quest’anno nelle carceri liguri. Un altro detenuto era morto al Villa Scassi dopo aver respirato il fumo nella sua cella, nel carcere di Sanremo, a cui lui stesso aveva dato fuoco. Il trentatreenne, con fine pena nel 2025 per reati di estorsione e lesioni personali, si è appeso alle grate della finestra utilizzando un lenzuolo. È successo nella sesta sezione a Marassi, al piano terra. I poliziotti erano immediatamente entrati, avevano staccato il cappio e avevano iniziato le prime manovre di primo soccorso, sottraendolo - solo momentaneamente, purtroppo - a morte certa. Un altro detenuto era morto all’ospedale Villa Scassi il 7 gennaio scorso, dopo venti giorni di agonia. Il 18 dicembre aveva dato fuoco al materasso della sua cella nel carcere di Sanremo. Si trovava in isolamento perché positivo alla tubercolosi. È stato proprio per protestare che il trentanovenne aveva dato fuoco alla cella. Cinque gli agenti che, gettandosi al salvataggio, erano rimasti intossicati. Ivrea (To). Covid: 33 contagiati in carcere, morto un detenuto positivo La Sentinella del Canavese, 25 gennaio 2022 Sulla situazione sta vigilando il garante dei detenuti di Ivrea Raffaele Orso Giacone. In carcere a Ivrea 33 positivi al Covid-19. Una persona è morta: aveva rifiutato di farsi vaccinare. Su oltre duecento detenuti al momento sono una trentina quelli che sono risultati positivi e hanno mostrato i sintomi del Coronavirus, mentre uno di loro, che aveva scelto di non vaccinarsi come un’altra decina di detenuti, è deceduto in ospedale lo scorso 21 gennaio in seguito a complicanze legate al contagio. Gli altri contagiati, risultato positivi dopo il tampone, per precauzione sono stati spostati al secondo piano della casa circondariale al fine di limitare al massimo la possibilità di infezione per gli altri detenuti. Sulla situazione sta vigilando il garante dei detenuti di Ivrea Raffaele Orso Giacone: “Attualmente la casa circondariale di Ivrea ha due sezioni chiuse per quarantena e i detenuti, una trentina, non possono comunicare con l’esterno. Inoltre, sono in pochi a presentare sintomi del virus, mentre tutti gli altri, che sono anche vaccinati, sono tutti asintomatici”. Anche prima delle feste di Natale erano stati riscontrati alcuni casi, in particolare tra il personale della struttura: “Prima di Natale c’erano stati alcuni casi di positivi tra il personale, mentre nessun detenuto era risultato infetto. Ora, al contrario, il personale è tutto negativo, per cui si presuppone che il virus abbia ricominciato a circolare a causa di una visita esterna, che potrebbe essere stata fatta da un parente come da un avvocato - continua Orso Giacone - Ho notato la massima attenzione da parte del personale medico e mi auguro che tutto si risolva a breve e senza peggioramenti. Il detenuto che è venuto a mancare nei giorni scorsi, purtroppo, ha avuto problemi gravi di respirazione, per cui è stato necessario ricoverarlo, ma non ce l’ha fatta a sconfiggere la malattia”. Pavia. Tra suicidi e degrado, il carcere simbolo dell’emergenza penitenziaria di Marco Fattorini linkiesta.it, 25 gennaio 2022 Nell’istituto lombardo, tre detenuti si sono tolti la vita nel giro di un mese. La situazione è sempre più difficile e mancano medici e agenti. Le infiltrazioni e la muffa rendono inagibili gli spazi per la socialità. L’associazione Antigone denuncia: “I colloqui coi familiari si svolgono in corridoio perché nella sala piove dal soffitto”. Lo hanno soprannominato il carcere dei suicidi. Qui nel giro di un mese, tra fine ottobre e fine novembre, tre persone si sono tolte la vita dietro le sbarre. Avevano 47, 37 e 36 anni. Uno di loro sarebbe uscito nell’aprile 2023: gli mancava poco più di un anno. “Mentre camminavamo per le sezioni, un ragazzo ha fatto il gesto del cappio al collo”, racconta il deputato di Forza Italia Alessandro Cattaneo. Pochi giorni fa, insieme a una delegazione di avvocati delle Camere Penali, ha visitato la casa circondariale di Pavia: “La situazione è seria”. Nel 2021 i suicidi nei penitenziari italiani sono stati 54. A gennaio il conto dei decessi è già a quota otto: uno ogni tre giorni. La pandemia ha accentuato tutte le fragilità delle patrie galere. Un contesto segnato da mille problemi, in cui la rieducazione diventa sempre più difficile. Il dato dei suicidi è clamoroso. Poi c’è una quotidianità fatta di degrado e carenze. Così Pavia diventa l’esempio di un’emergenza che da Nord a Sud coinvolge molti istituti di pena. A dicembre nel penitenziario lombardo i detenuti hanno organizzato lo sciopero del carrello, rifiutando il cibo per protestare contro le condizioni precarie della prigione. Celle fredde, spazi di socialità inagibili e mancanza di medici. La casa circondariale “Torre del Gallo” di Pavia, 575 ospiti presenti su 518 posti regolamentari, è un luogo “fermo e abbandonato”. Lo descrive così, al telefono con Linkiesta, il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. “Questa è la premessa per situazioni di abbrutimento”. Muffa alle pareti, pioggia dal soffitto. Chi ha visitato la prigione lombarda nelle ultime settimane ha trovato una struttura sporca e fatiscente, a eccezione di un’ala costruita nel 2013. I disagi sono concentrati nel vecchio padiglione dove capita che manchino acqua calda e riscaldamento. “Quando siamo entrati a dicembre - racconta Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia - gli incontri dei detenuti con i familiari si svolgevano nei corridoi perché nella sala colloqui piove dal tetto”. Chiusi anche la palestra e il teatro, mentre la cappella è accessibile solo in parte per gravi infiltrazioni. “E pensare che, quando ero sindaco, in questi locali avevamo organizzato il concerto di Ron”, racconta Alessandro Cattaneo che ha chiesto più risorse per la struttura e ottenuto la promessa di un sopralluogo del sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Il Covid è l’ultimo dei problemi in ordine di tempo, ma ha evidenziato ancora di più le debolezze del sistema carcerario. Degli otto medici che c’erano a Pavia, oggi ne restano soltanto tre. “A volte è difficile garantire la copertura h24”, spiegano da Antigone. Un vaccinatore guadagna più di un dottore che lavora in carcere. Indossare un camice dietro le sbarre non è conveniente, soprattutto in un periodo in cui gli operatori sanitari sono richiesti ovunque. Eppure a Pavia c’è bisogno di assistenza medica. Oltre a un centinaio di detenuti positivi al Covid, il penitenziario gestisce un reparto dedicato a chi ha problemi di salute mentale. Patologie psichiatriche, tossicodipendenze, malattie comuni. In prigione le fragilità si sommano. Nei mesi scorsi sono stati diversi gli episodi di autolesionismo. Il contesto è delicato, a partire dalla popolazione carceraria. Torre del Gallo ospita una sezione protetta riservata a persone che possono essere oggetto di ritorsioni da parte di altri detenuti. Ma nelle celle pavesi ci sono anche detenuti trasferiti da altri penitenziari per motivi di ordine e sicurezza. Gli operatori raccontano di tensioni e risse. “Meglio lavorare al 41bis”, ha confidato un agente durante una visita. La situazione è difficile per tutti: l’organico della Polizia Penitenziaria è sguarnito del 45 per cento, secondo le stime della Uilpa. Come se non bastasse, chi conosce Torre del Gallo aggiunge un dettaglio non secondario: per diverso tempo nel 2021 è mancata la direttrice. “L’assenza dei dirigenti ha rallentato la vita del carcere, che oggi oscilla tra sciatteria e mancanza di progettualità”, spiegano da Antigone. Intanto chi opera dietro le sbarre fa quel che può. Come il cappellano don Dario Crotti che con le parrocchie della città ha avviato una raccolta di generi di prima necessità per i detenuti. Quello di Pavia è uno degli esempi, spesso ignorati, di un sistema carcerario in grave difficoltà. La ministra della Giustizia Marta Cartabia lo ha riconosciuto parlando in Senato: “Alcune carceri non sono degne del nostro Paese, sono in condizioni indecorose e avvilenti per tutti. Vivere in un ambiente degradato di sicuro non aiuta i detenuti nel delicato percorso di risocializzazione”. A Pavia ne sanno qualcosa. San Gimignano (Si). I drammatici racconti dei detenuti vittime di violenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 gennaio 2022 Le testimonianze al processo sui fatti del 2018 che vede imputati 5 agenti penitenziari, altri 10 sono già stati condannati in rito abbreviato. “Ci lasciavano in mutande per giorni nelle celle lisce, con qualsiasi condizione climatica. I vestiti venivano portati in magazzino e per poterli riavere dovevamo continuare a subire ingiurie e umiliazioni”. Un altro racconta che “dormiva con il materasso per terra e metteva la branda davanti alla porta a mo’ di protezione per paura che le guardie entrassero durante la notte per picchiarlo; la vita nel reparto di isolamento di San Gimignano era terribile, un andirivieni continuo di squadrette che si presentavano ad ogni minima richiesta o azione pacifica che facevamo (battitura) per attirare l’attenzione quando avevamo bisogno di qualcosa visto che in isolamento non si ha quasi niente. Arrivavano quasi sempre in branco e terrorizzavano, umiliavano e qualche volta picchiavano tutti”. L’associazione Yairaiha Onlus si è costituita parte civile - Sono le testimonianze dei detenuti durante l’udienza di venerdì scorso. Parliamo del processo sul caso delle torture al carcere di Ranza a San Gimignano ai danni di un recluso di nazionalità tunisina. Fatti che risalgono nell’ottobre del 2018. Il processo si svolge a porte chiuse ed è interdetto l’accesso alla stampa. Ma grazie alle avvocate Simonetta Crisci e Caterina Calia, legali dell’associazione Yairaiha Onlus costituitasi parte civile, possiamo conoscere le testimonianze dei detenuti i quali hanno ricostruito la loro vita nel reparto di isolamento di San Gimignano. I detenuti parlano di vero e proprio “metodo sistematico di intervento violento e vessatorio” - “Dai loro racconti - commenta l’associazione - è emerso chiaramente come la vessazione e i trattamenti inumani e degradanti fossero la norma anche prima dell’ottobre del 2018”. I detenuti parlano di vero e proprio “metodo sistematico di intervento violento e vessatorio” finalizzato a terrorizzare e addomesticare i detenuti. “Una violenza gratuita e sistematica che non è in alcun modo giustificabile e che i giudici non dovrebbero avere difficoltà a configurare come tortura visto che per poter essere dimostrato il reato di tortura deve essersi manifestato più volte e non in un unico episodio. D’altra parte crediamo che il dibattito sulla tortura dovrebbe essere riaperto al fine di arrivare a contemplare tutte le forme di tortura che vengono perpetrate sulle persone private della libertà, o comunque in situazione di minorata difesa, da parte di pubblici ufficiali (pensiamo ai centri di identificazione per migranti, le rsa per anziani, le caserme)”, commenta Sandra Berardi, presidente dell’associazione. A febbraio scorso sono già stati condannati per tortura i 10 agenti penitenziari - Aggiunge che le leggi da sole non bastano, ed “è necessario che il carcere, fin quando esisterà, diventi effettivamente trasparente, accessibile a tutti i difensori dei diritti umani oltre che ai garanti, sì da poter monitorare costantemente il rispetto dei diritti delle persone private della libertà”. Ricordiamo che a febbraio scorso sono stati condannati per tortura i 10 agenti penitenziari del carcere di San Gimignano, compreso il risarcimento di 80 mila euro nei confronti della vittima. Sono coloro che, a differenza dei cinque tuttora sotto processo, hanno scelto il rito abbreviato. Nella sentenza di condanna viene individuata la fattispecie autonoma di reato. Il giudice ci ha tenuto a sottolinearlo. Non è un dettaglio di poco conto. La legge sul reato di tortura, secondo alcuni, potrebbe indurre a proporne la diversa lettura della norma in termini di fattispecie autonoma di reato. In estrema sintesi, la tortura da parte di pubblici ufficiali è inserita al secondo comma e c’è il rischio che venga considerata come una fattispecie aggravata, invece che come reato autonomo. Questo non è accaduto. Tutto partì da una lettera di denuncia dei detenuti, testimoni dell’accaduto - Ricordiamo che è stata l’associazione Yairaiha a segnalare per la prima volta i presunti pestaggi grazie a una lettera di denuncia da parte dei detenuti, testimoni dell’accaduto. Lettera che Il Dubbio pubblicò in esclusiva a pochi giorni dai fatti e con successivi approfondimenti. Dopo la lettera, il Garante nazionale delle persone private della libertà si è subito attivato segnalando il caso al provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria che, a sua volta, ha informato formalmente il Dap di allora. Da lì le interlocuzioni tra quest’ultimo e la direzione dell’istituto penitenziario. Ma c’è voluto un anno, affinché si predisponesse la sospensione degli agenti e i provvedimenti disciplinari, per poi interromperli in attesa dell’esito delle indagini della procura. Bari. Covid, protestano i detenuti dopo l’aumento dei contagi: 126 positivi nella struttura baritoday.it, 25 gennaio 2022 Nella mattinata i reclusi hanno battuto oggetti vari contro le sbarre, senza volere provocare danni, per i continui spostamenti di cella a cui sono costretti viste le tante positività. Protesta dei detenuti nel carcere di Bari dopo l’aumento dei casi Covid all’interno della struttura in via Petroni. Intorno a mezzogiorno i carcerati della prima sezione hanno iniziato a battere oggetti vari contro le sbarre del carcere, senza l’intenzione di provocare danni, ma per tenere alta l’attenzione per la gestione delle infezioni. Ad oggi sono infatti 126 i positivi accertati tra i detenuti, ma si è in attesa dell’esito dei tamponi di controllo su 70 di loro, che costringe quasi quotidianamente a trasferimenti tra celle per separare i positivi dai contatti stretti e questi dai negativi. Regole sanitarie comuni a tutte le carceri d’Italia ma che, in presenza di focolai particolarmente estesi come quello di Bari, con 126 positivi su circa 430 detenuti, provocano problemi e insofferenze. Il penitenziario di Bari, tra l’altro, vive da tempo una situazione strutturale complessa, con alcune zone inagibili che limitano ulteriormente la disponibilità di spazi e difficoltà nella gestione dell’assistenza sanitaria, trattandosi di un centro clinico, perché mancano medici e infermieri. Cagliari. Ex detenuti in cerca di una nuova vita, al via il progetto “A foras” cagliaripad.it, 25 gennaio 2022 Due percorsi sono stati già avviati in aziende cagliaritane: il primo come aiuto cuoco, il secondo con il ruolo di manovale. Un’opportunità per imparare un mestiere, per ritrovare la fiducia in se stessi e fare progetti per il futuro. Questi, gli obiettivi del progetto “A foras”, appena partito nelle aziende cagliaritane. Finanziato dalla Città metropolitana di Cagliari, con avviso pubblico “I.So.La. - Inclusione sociale lavoro” in attuazione degli interventi compresi nel Patto per la Città metropolitana di Cagliari a valere sul Fondo per lo Sviluppo e Coesione (FSC), vede come ente capofila Solidarietà Consorzio, mentre sono partner Elan, Servizi Sociali Soc. Coop.Soc. e Uniform Servizi come ente di formazione. Il progetto si rivolge alle persone disoccupate residenti o domiciliate nel territorio della Città Metropolitana di Cagliari, sottoposte a provvedimenti detentivi, ex detenuti o sottoposte a misure alternative alla detenzione. Quindici i posti messi a disposizione per altrettanti tirocini all’interno di aziende ospitanti, parte di un progetto personalizzato e cucito su misura del destinatario. Al termine del periodo di inserimento, pari a sei mesi, le aziende potranno decidere se trasformarli in contratti di lavoro a tempo determinato oppure indeterminato, ricevendo per questo un bonus per l’assunzione. Due percorsi sono stati già avviati in aziende cagliaritane: il primo, come aiuto cuoco presso Il Circolo dei buoni e cattivi; il secondo, con il ruolo di manovale all’interno della ditta Kimera Società Cooperativa sociale, attiva nel settore dell’edilizia. Due nuovi percorsi saranno attivati nelle prossime settimane. Sono ancora disponibili undici posti per l’inserimento socio-lavorativo, in altrettante aziende sul territorio della Città Metropolitana. Oltre ai percorsi di inserimento socio-lavorativo, il progetto “A foras” prevede anche tre posti per l’autoimprenditorialità, destinati quindi alle persone che desiderano avviare un’impresa in proprio. In questo caso, le persone interessate usufruiranno di un supporto di 70 ore, tra azioni formative in aula e una consulenza individuale e personalizzata. “Il progetto punta a migliorare le condizioni di occupabilità e a favorire processi di autonomia e inclusione dei beneficiari, attraverso l’attivazione di un sistema integrato di interventi volti, da un lato, all’accompagnamento professionale, psicologico e relazionale dei destinatari e, dall’altro, a sensibilizzare le imprese sulla responsabilità sociale all’inclusione lavorativa e all’economia civile”, afferma Cristina Sanna, presidente di Solidarietà Consorzio. “I beneficiari acquisiranno le competenze tecnico professionali specifiche della mansione ricoperta - aggiunge Carla Carboni, responsabile Inserimenti del progetto per conto del partner Elan Società cooperativa sociale - , saranno supportati dal tutor aziendale che li guiderà nell’apprendimento dell’attività lavorativa; condivideranno le giornate di tirocinio in compagnia di colleghi e superiori creando relazioni sociali utili per lo sviluppo dell’autostima e il riconoscimento del proprio ruolo all’interno del contesto aziendale”. Milano. Detenuti di Bollate volontari al Memoriale di Cooperativa Sociale Art. 3 mosaico-cem.it, 25 gennaio 2022 In occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio 2022 e di nuovo domenica 30 gennaio, un gruppo di persone detenute presso la II Casa di Reclusione di Milano Bollate presterà servizio volontario al Memoriale della Shoah di Milano nella gestione dell’accoglienza dei visitatori. La presenza delle persone detenute è promossa dalla Cooperativa Sociale Articolo 3 in accordo con il Memoriale della Shoah, nell’ambito del progetto Restart Bollate (finanziato da Regione Lombardia sul POR FSE 2014-2020) la cui finalità generale è la realizzazione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa, attraverso vari interventi multidisciplinari. Tra questi anche azioni di sensibilizzazione della società civile sulle tematiche dell’esecuzione penale, nonché di conoscenza e di incontro tra carcere e comunità esterna. Articolo 3 promuove quindi eventi e giornate in cui le persone detenute che lo desiderano (e che abbiano le condizioni giuridiche e personali per avere misure esterne) si possano mettere a disposizione per svolgere attività utili alla comunità, a titolo volontario, con l’obiettivo di proporsi sotto una diversa luce, come singoli individui consapevoli rispetto al danno prodotto dai reati, ma portatori di storie e di capacità e competenze, che possono quindi provare a riparare e ricostruire legami sociali spezzati, offrendosi invece come risorse per la collettività. Altrettanto importante è che i cittadini abbiano occasioni per incontrare persone provenienti dal circuito penale, perché è solo attraverso la conoscenza e l’incontro che possono essere superati i pregiudizi e viste le persone reali dietro la dimensione spersonalizzante della detenzione. La presenza al Memoriale in questa occasione appare particolarmente importante e significativa per la dimensione simbolica del Giorno della Memoria, di ricordo delle vittime di persecuzioni e crimini orrendi e di contrasto alla perdita e rimozione della memoria e all’indifferenza. Si ringrazia il Direttore della C.R. Milano Bollate Giorgio Leggieri e la Magistratura di Sorveglianza per il sostegno all’iniziativa. Manconi, Crosetto, Pisapia, Pecorella: quei candidati garantisti e impossibili di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 gennaio 2022 Guida immaginaria al presidente ideale: fuori dalla giostra delle candidature al Colle e trasversali agli schieramenti politici, difenderebbero più di chiunque altro i principi fondanti dello Stato di diritto. Noi del Dubbio si sa, viviamo ossessionati dai diritti e siamo marci di garantismo, abbiamo un’idiosincrasia per la giustizia sommaria, per i processi mediatici, per le gogne pubbliche. Crediamo cioè nei fondamenti dello Stato democratico, espressi e protetti dalla nostra Costituzione ma quotidianamente bullizzati dal populismo penale così in voga nelle segreterie dei partiti e nelle redazioni di giornale. . Così per l’elezione del presidente della repubblica, che tra le altre cose è anche il capo del Csm, abbiamo provato in modo semiserio a sottrarci dalla giostra della politica di palazzo e a scovare in tutti gli schieramenti i candidati “belli e impossibili”, quelle figure cioè che difendono i principi garantisti in maniera più o meno diretta ma che non hanno praticamente nessuna possibilità di approdare al Quirinale. Luigi Manconi - L’ex senatore e attuale presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, sarebbe probabilmente il candidato ideale, un garantista di ferro ma anche un uomo colto e appassionato, un intellettuale libertario attento ai diritti civili, un laico convinto ma lontano dai furori giacobini, armato di compassione “cristiana” verso gli ultimi come dimostrano i suoi interventi sul mondo delle carceri, sui rom, sul dramma delle tossicodipendenze. Costituirebbe anche un argine alle derive più autoritarie che albergano in alcune frange della nostra polizia, altro dossier che tiene a cuore. Inoltre il temperamento mite e la capacità di mediare tra posizioni differenti ne farebbero un presidente quasi perfetto Guido Crosetto - Nel centrodestra italiano l’ex parlamentare di Fratelli d’Italia è la figura politica che più di tutti fa del garantismo una battaglia centrale, da disputare apertamente, con veemenza e senza interessi personali. Lo ha fatto con i suoi colleghi di partito ma anche con gli avversari finiti nel tritacarne delle procure e dei processi mediatici di cui ha sempre preso le difese. Sarebbe un presidente non ordinario, volitivo e vitaminico, avversario schietto della cultura giustizialista capace di lasciare un’impronta voluminosa almeno quanto la sua considerevole stazza fisica. Giuliano Pisapia - L’ex deputato di Rifondazione, sindaco di Milano e attuale europarlamentare del Pd è un avvocato e un fine giurista che, accanto alla carriera politica, ha saputo costruirsi una grande credibilità professionale e intellettuale. Difensore di Forlani e La Malfa durante Tangentopoli, del leader curdo Ocalan e della famiglia di Carlo Giuliani come parte civile, ha scritto saggi sul rapporto tra politica e magistratura, sull’antiproibizionismo e sul sistema carcerario. Come detto per Luigi Manconi il suo profilo di negoziatore, l’approccio pacato ai problemi e alle soluzioni, il rispetto che riscuote tra gli avversari politici ne farebbero un Capo dello Stato quasi perfetto per l’innato stile “quirinalizio”. Gaetano Pecorella - L’autore dell’omonima legge del 2006 che sanciva l’inappellabilità per le sentenze penali di assoluzione (in seguito parzialmente modificata dalla Corte costituzionale) è un garantista della prima ora, un avvocato penalista che ha difeso anarchici e fascisti, brigatisti rossi ed estremisti neri, fino ad arrivare all’ex premier Silvio Berlusconi da cui ha politicamente divorziato una decina di anni fa abbandonando Forza Italia. Anche se non possiede i tratti ecumenici di un Manconi o di un Pisapia la sua visione dello Stato di diritto è lucida e deliziosamente antiretorica. Ecco un passaggio di una sua recente intervista al nostro giornale: “La stessa espressione “garantismo” sia impropria. È semplicemente il diritto naturale, evocato dalla prima dichiarazione universale, da Voltaire, Beccaria”. Roberto Giachetti - L’esponente di Italia viva e del partito radicale transnazionale è un garantista da trincea, da duello rusticano, poca accademia e sempre in prima linea con tipico spirito “pannelliano”. Il diritto al giusto processo, la presunzione di innocenza, l’umanità e lo scopo rieducativo della pena per Giachetti contano più dell’appartenenza politica. Per passione e senso dello scontro vale il discorso fatto per Crosetto; non a caso i due, pur di sensibilità politiche opposte sono buoni amici e membri fondatori del sito presuntoinnocente.com, un portale che si batte contro l’invadenza della giustizia penale nella vita delle persone. Quirinale, la politica si rassegna a Draghi. Eppure Luigi Manconi sarebbe il presidente di tutti di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2022 I partiti non ci hanno pensato, o forse, se l’hanno fatto, non hanno pronunciato il suo nome. Tutti sanno che il prossimo Presidente della Repubblica sarà Mario Draghi. Tra milioni e milioni di italiani che potrebbero avere tutte le carte in regola per salire al Quirinale, la politica è stata capace solo di rassegnarsi al nome dell’ex banchiere. Super Mario sembra essere bionico, l’unico in grado di fare tutto. Eppure un nome diverso, un nome di una persona che ha veramente servito le istituzioni, che ha fatto della politica un luogo dove dare voce a chi non ce l’ha c’è: è Luigi Manconi. Il suo nominativo, in queste ore, sta circolando in Rete grazie ad una petizione (che ho firmato) su Change.org lanciata da Elena Stancanelli, Christian Raimo, Alessandro Bergonzoni, Vladimiro Zagrebelsky, Carlo Ginzburg, Fabrizio Gifuni, Anna Foa, Nicola Lagioia, Ilaria Cucchi, Valeria Parrella, Ascanio Celestini, Marino Sinibaldi, Paolo Virzì, Luca Zevi, Giuliano Giubilei, Adolfo Ceretti, Vittorio Emiliani, Marco Cappato, Goffredo Fofi, Giuseppe Di Lello, Federica Resta, Alessandro Portelli, Giacomo Giossi, Franco Lorenzoni, Sandro Veronesi. Manconi, già Senatore, Sottosegretario alla Giustizia, Presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, Direttore dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali e Presidente di A Buon Diritto Onlus, “rappresenta - cita il testo dell’appello - l’esempio più alto dell’impegno di una vita a difesa delle libertà e dei diritti contro ogni forma di discriminazione, di violenza, di abuso. Si è sempre battuto per il rispetto delle garanzie che rendono tale una democrazia, opponendo al populismo (anche penale) un progetto politico riformista nel metodo ma radicale nei contenuti. Ha impegnato tutta la sua vita per l’affermazione dei diritti civili e della pari dignità sociale”. Io lo ricordo perché come presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani ha promosso la prima mobilitazione intorno alla vicenda di Giulio Regeni ospitando la conferenza stampa dei genitori il martedì di Pasqua del 2016. Il suo volto è legato al mondo del carcere per la sua lotta a difesa dei diritti dei detenuti e della polizia penitenziaria. Manconi ha detto no allo scellerato referendum costituzionale promosso da Renzi. Ed è sempre lui ad aver iniziato lo sciopero della fame in occasione dell’approvazione dello ius soli. Inoltre è iscritto ad Amnesty International e all’Associazione Luca Coscioni. Certo non ha il curriculum di Draghi, ma nemmeno di quello di Berlusconi. Non è mai stato Presidente della Camera o del Senato. Non è una donna ma son certo che Manconi potrebbe essere il presidente di tutti gli italiani. E stavolta proprio tutti, anche quelli che non sono mai citati. Eutanasia. Se un figlio devoto uccide sua madre di Luigi Manconi La Stampa, 25 gennaio 2022 La vicenda di Giovanni Ghiotti, operaio di 53 anni di Piovà Massaia, in provincia di Asti, che confessa di aver ucciso la madre, novantaduenne invalida, per evitarle ulteriori sofferenze, lascia senza fiato. Il tribunale di Asti lo ha assolto “perché il fatto non sussiste”. È una storia che non sembra appartenere a una società capitalistica avanzata e secolarizzata, dove il valore della vita umana può perdere via via di significato e la qualità e la dignità dell’esistenza sembrano essere misurate secondo criteri salutistici e secondo parametri di prestazione, rendimento e produttività. È lo scenario, questo, dove le categorie di vita e di morte tendono a una certa banalizzazione: e l’eutanasia può apparire a qualcuno come la scorciatoia per evitare quel destino “umano, troppo umano” che è la decadenza del corpo e dello spirito. Ma è questo il caso di Giovanni Ghiotti che ha somministrato alla madre una quantità eccessiva di sonniferi e poi ha premuto il cuscino - “lievemente”, secondo il medico legale, sul suo volto? No. Qui l’ambientazione e la temperie, sembrano di tutt’altra natura. Piovà Massaia si trova nelle dolci colline del Monferrato e conta 588 anime e il gesto di Ghiotti, piuttosto, sembra affondare, quasi a un migliaio di km più a sud, in quell’antica pratica che si vorrebbe sia stata presente in Sardegna, raccontata da Michela Murgia nel suo Accabadora. Qui alcune donne portavano alla morte (dallo spagnolo acabar: porre fine) quelle persone che si trovavano in uno stato di salute terminale e in condizione di acuta sofferenza. Ma penso anche all’ultima scena - siamo nella Parigi contemporanea - del film di Michael Haneke, dove l’anziano Jean-Louis Trintignant soffoca la moglie, Emmanuelle Riva, con la stessa motivazione di Ghiotti. Il film, struggente e colmo di pietà, ma anche di una sua incredibile serenità, è intitolato “Amour”. Vengono in mente le parole del difensore Marco Dapino, che ha definito quello del suo cliente “un estremo atto d’amore”. Intervistato dalla Stampa, il vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, ha parole sensibili e prudenti, ma si ribella a quella definizione, perché - dice -: “L’amore è far nascere. Amare davvero una persona è tirare fuori tutto il bene possibile da lei e dalla relazione”. Giusto, ma interrompere una sofferenza, far cessare un dolore, sottrarre al male che degrada l’organismo e mortifica la persona, non può essere, anch’essa, un’azione ispirata a principi etici? Non si esprime anche così - in maniera certo disperata e impotente - una relazione intensamente affettiva? Chi è ostile all’eutanasia per ragioni morali dovrebbe prendere in considerazione come la dolente complessità della vita e della morte, possa portare a situazioni senza via d’uscita, dove il diritto e la legge, la tradizione e i valori devono arrendersi davanti all’inconcepibile: e riconoscere che, in quel punto, spetta solo alla misericordia far sentire la propria voce. Tanto più quando, come nel caso di Piovà Massaia, l’atto eutanasico si manifesta nella sua assoluta “purezza”, e l’autore sceglie - motivato solo dalla sua coscienza - di confessare. Poi c’è tutto il resto. La materia, nonostante i reiterati richiami della Corte costituzionale, non è normata. Di conseguenza, ci si muove in una zona grigia che rischia di accentuare la discriminazione tra chi, disponendo di risorse di esperienza e conoscenza trova soluzioni e chi, invece, può solo buttarsi, letteralmente, dalla finestra. Ma la persistenza di una zona grigia ha anche l’effetto di affidare alla discrezionalità di un giudice decisioni che richiedono, piuttosto, norme semplici e chiare, circostanze definite e limiti precisi. È il compito del legislatore ma la stragrande maggioranza della classe politica, davanti al terribile atto d’amore di Giovanni Ghiotti, se la dà a gambe levate. Non capisce che lì, - proprio lì nella sofferenza senza requie della novantaduenne invalida e nella coscienza senza riposo di suo figlio - risiede né più né meno che il cuore della politica. Giornata della Memoria: perché ciascuno di noi può essere un Giusto contro il Male di Gabriele Nissim* Corriere della Sera, 25 gennaio 2022 Non c’è altra responsabilità possibile verso le vittime se non quella di raddrizzare il nostro mondo, come dice l’espressione ebraica Tikkun Olam. È l’invito a “non voltare la testa dall’altra parte” il messaggio che ci viene dai Giardini dei Giusti in occasione della Giornata della Memoria dalle Shoah che si celebra giovedì 27 gennaio. “Se troverò un tedesco buono mi prenderò cura di lui e avrò ancora fiducia nell’umanità e in un mondo senza odio”. Così scrisse Etty Hillesum nei suoi diari, prima di venire deportata ad Auschwitz. E il tedesco buono lo trovò Moshe Bejski a Cracovia, quando fu salvato da Oskar Schindler nella sua fabbrica assieme ad altri 1200 prigionieri. Da quella vicenda è nato il Giardino dei giusti di Gerusalemme, perché il giudice della Corte costituzionale israeliana Moshe Bejski volle ricercare tutti coloro che non avevano voltato la testa dall’altra parte ed erano andati in soccorso degli ebrei. Piantare un albero in loro onore non fu soltanto un atto di gratitudine, ma un messaggio morale di grandi implicazioni. Significava che tutti avevano la possibilità di scegliere di fronte al nazismo, ma pochi avevano sentito la voce della loro coscienza. Con quel giardino si coglieva il senso fondamentale (ma anche scomodo) della Giornata della memoria della Shoah che viene ricordata in molti, ma non ancora in tutti i Paesi del mondo. Ciò che era accaduto era dipeso dall’indifferenza degli uomini, perché chi aveva provato ad aiutare gli ebrei era riuscito nel suo piccolo a diventare un argine nei confronti del nazismo. Era quindi possibile salvare, non era un male ineluttabile come l’eruzione vulcanica del Vesuvio di cui fu tragico testimone Plinio il Vecchio a Pompei. Con questa stessa filosofia Gariwo ha dato vita con il Comune di Milano, quasi 20 anni fa, al Giardino dei giusti sul Monte Stella, con l’intento di mostrare che ieri come oggi ogni essere umano, se ci mette la faccia, il coraggio, la determinazione, ha la possibilità di fermare non solo un genocidio ma ogni forma di odio, di prevaricazione verso qualsiasi essere umano, ebreo e non ebreo, che si mostri nella società. Dopo la Shoah per merito di Raphael Lemkin, un giurista ebreo polacco, sfuggito allo sterminio che aveva colpito tutta la sua famiglia, le Nazioni Unite approvarono nel 1947 una risoluzione che per la prima volta nella storia dell’umanità chiamava le nazioni a prevenire i genocidi. Lemkin non solo aveva inventato la parola genocidio, un ibrido dal greco genos (stirpe) e dal latino -cidium (da caedere = tagliare, uccidere), ma aveva chiamato il mondo intero a unirsi contro ogni forma di male estremo, come appunto era stata la Shoah. I Giardini dei giusti che da Milano si sono poi costruiti in ben centocinquanta città d’Italia e d’Europa e che hanno portato per opera del sindaco di Milano Gabriele Albertini e del compianto presidente del parlamento europeo David Sassoli a istituire la Giornata europea dei giusti del 6 marzo, in ricordo della grande intuizione di Moshe Bejski, morto in quella data nel 2007, hanno proprio la funzione culturale di ricordare come la memoria abbia un senso, come aveva capito Lemkin, solo se il suo fine è quello della prevenzione del male nel tempo in cui viviamo. Non c’è altra responsabilità possibile verso le vittime, se non quella di raddrizzare il nostro mondo, come dice l’espressione ebraica Tikkun Olam. Ricordando i nomi e le storie delle persone che ovunque hanno difeso la dignità dell’uomo si può trasmettere un messaggio di speranza, anche dall’esperienza più tragica del Novecento. Ogni essere umano ha la possibilità di diventare arbitro del proprio destino e di diventare una diga contro il male. Per questo invitiamo la società non solo a visitare i Giardini dei giusti questo giovedì, 27 gennaio, Giornata della memoria, ma ad aiutarci a scoprire con noi tutte le storie dei giusti dimenticate e a riportarle alla ribalta per mostrare che il nuovo comandamento “non commettere un genocidio” può segnare il nostro futuro di esseri umani in un pianeta sempre pericoloso. Il “mai più” così non è più retorica, ma una possibilità concreta alla portata di tutti. *Fondatore e presidente di Gariwo L’Europa in trincea contro il nemico inventato di Manlio Dinucci Il Manifesto, 25 gennaio 2022 Il Dipartimento di Stato, “quale misura precauzionale contro una possibile invasione russa dell’Ucraina”, ha ordinato l’evacuazione dei familiari e di una parte del personale dall’Ambasciata Usa a Kiev, che con 900 funzionari è tra le maggiori in Europa, e ha elevato a livello 4 di rischio, il massimo, l’avvertimento ai cittadini statunitensi di non andare in Ucraina. Subito dopo il Foreign Office ha annunciato, con la stessa motivazione, il ritiro del personale dall’Ambasciata britannica a Kiev. Queste operazioni di guerra psicologica, miranti a creare allarme su una imminente invasione russa dell’Ucraina e delle tre repubbliche baltiche, preparano una ulteriore e ancora più pericolosa escalation Usa-Nato contro la Russia. La Casa Bianca ha annunciato che il presidente Biden sta considerando di “dispiegare diverse migliaia di soldati Usa, navi da guerra e aerei nei paesi Nato del Baltico e dell’Europa Orientale”. Si prevede che inizialmente arriveranno 5.500 soldati Usa che, unendosi ai 4.000 già in Polonia e seguiti da altre migliaia, estenderanno al Baltico il loro schieramento permanente, come ha richiesto la Lettonia. Speciali convogli ferroviari stanno già trasportando carrarmati Usa dalla Polonia all’Ucraina, le cui forze armate sono da anni addestrate, e di fatto comandate, da centinaia di consiglieri militari e istruttori Usa affiancati da altri della Nato. Washington, che l’anno scorso ha fornito a Kiev armi per l’ammontare ufficiale di 650 milioni di dollari, ha autorizzato Estonia, Lettonia e Lituania a trasferire all’Ucraina armamenti Usa in loro possesso, in particolare missili Javelin. Altri armamenti sono forniti dalla Gran Bretagna e dalla Repubblica Ceca. La Nato comunica che i paesi europei dell’Alleanza stanno mettendo le loro forze armate in stato di prontezza operativa e inviando altre navi da guerra e aerei da combattimento agli schieramenti in Europa Orientale. L’Italia, con i cacciabombardieri Eurofighter, ha preso il comando della missione Nato di “polizia aerea potenziata” in Romania. La Francia è pronta a inviare truppe in Romania sotto comando Nato. La Spagna sta inviando navi da guerra nelle forze navali Nato e cacciabombardieri in Bulgaria. L’Olanda si prepara a inviare caccia F-35 in Bulgaria. La Danimarca invia caccia F-16 in Lituania. Ieri è iniziata nel Mediterraneo la grande esercitazione navale Nato Neptune Strike ‘22 sotto il comando del viceammiraglio Eugene Black, comandante della Sesta Flotta con quartier generale a Napoli Capodichino e base a Gaeta. All’esercitazione, che dura 12 giorni, partecipa la portaerei nucleare Usa Harry Truman col suo gruppo di battaglia, comprendente 5 unità lanciamissili pronte all’attacco nucleare per “rassicurare gli Alleati europei soprattutto sul fronte orientale minacciato dalla Russia”. Subito dopo la Nato Neptune Strike ‘22, si svolgerà in febbraio l’esercitazione Mission Clemenceau 22 che vedrà impegnate, in una “Operazione di tre portaerei”, la francese Charles de Gaulle a propulsione nucleare col suo gruppo di battaglia, comprendente anche un sottomarino da attacco nucleare, che entrerà nell’Adriatico; la Harry Truman col suo gruppo di battaglia e la portaerei italiana Cavour con a bordo gli F-35. Anche questa esercitazione, ovviamente, è diretta contro la Russia. Mentre la Nato intima alla Russia di “de-escalare”, avvertendola che “qualsiasi ulteriore aggressione comporterà un alto costo per Mosca”, i ministri degli Esteri dell’Unione Europea (per l’Italia Pietro Benassi in sostituzione di Luigi Di Maio) - riuniti a Bruxelles e collegati in teleconferenza col segretario di stato Usa Blinken - hanno decretato ieri altre misure contro la Russia. L’Unione Europea dei 27, di cui 21 appartengono alla Nato sotto comando Usa, riecheggia l’avvertimento Nato alla Russia, dichiarando che “qualsiasi ulteriore aggressione militare contro l’Ucraina avrebbe pesantissime conseguenze per la Russia”. In tal modo la UE partecipa alla strategia della tensione, attraverso cui gli Usa creano fratture in Europa per mantenerla sotto la loro influenza. Egitto. Colloquio di Draghi e Cartabia con i genitori di Giulio Regeni a sei anni dal rapimento di Giacomo Galeazzi La Stampa, 25 gennaio 2022 In discussione le iniziative per dare seguito, nel modo più efficace all’ordinanza del Gup di Roma. L’azione online di Amnesty Italia per ricordare il ricercatore torturato e assassinato in Egitto nel 2016 e chiedere giustizia. Questa mattina alle 11.30 il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro della Giustizia Marta Cartabia hanno incontrato Paola e Claudio Regeni, genitori di Giulio e l’avvocato Alessandra Ballerini in modalità di videoconferenza. Al centro del colloquio le possibili iniziative per dare seguito, nel modo più efficace, all’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare (Gup) di Roma. Azione online - “Domani saranno passati sei anni esatti dal rapimento di Giulio Regeni al Cairo. Anche quest’anno vi invitiamo a unirvi all’iniziativa della famiglia Regeni: postate una foto con qualcosa di giallo usando #veritaegiustiziapergiulio #popologiallo #6annisenzagiulio #6annipergiulio”, così Amnesty Italia invita a partecipare all’azione online del 25 gennaio, in cui ricordare il ricercatore italiano torturato e assassinato in Egitto nel 2016 e chiedere giustizia. Appello - A sei anni esatti dalla scomparsa di Giulio Regeni da Il Cairo, il comune di Fiumicello (Udine) rinnova la richiesta di verità e giustizia per il giovane ricercatore friulano nel corso dell’evento “Pensieri, parole e musica per Giulio” con i genitori, Paola e Claudio Regeni, e l’avvocato Alessandra Ballerini. Prevista la partecipazione, tra gli altri, di Pif, Luciana Littizzetto, Stefano Accorsi, Ascanio Celestini, Gianni Cuperlo, Vinicio Capossela. L’evento, in programma nella Sala Bison dalle 17.30, sarà trasmesso in streaming. Nel paese friulano è attesa anche una delegazione di Articolo 21, con il presidente Giuseppe Giulietti, per consegnare alla famiglia Regeni, a Ballerini e al Governo dei Giovani, di cui Giulio è stato sindaco, una targa e la tessera onoraria dell’associazione. Un incontro in memoria di Giulio Regeni e Gino Strada, a cui parteciperanno in streaming anche Paola e Claudio Regeni e Alessandra Ballerini, è stato promosso alle 16.45 anche dall’Almo Collegio Borromeo, l’Università di Pavia ed Emergency. Repressione infinita - Il 25 gennaio del 2011 i venti di rivoluzione che soffiavano per le strade e nelle piazze del mondo arabo si raccolsero nel cuore del Cairo, piazza Tahrir: a distanza di 11 anni cosa è rimasto di quel periodo di rivolte sociali e dei sogni di un Egitto più libero e democratico? Quella piazza oggi è stata cambiata da una costosa e controversa ristrutturazione voluta dal presidente Abdel Fattah al-Sisi: per molti critici la nuova veste non è un tentativo di emulazione delle piazze europee bensì una precisa volontà di allontanare il popolo e cancellare ogni memoria della rivoluzione. Da allora, Giulio Regeni è stato ucciso, decine di migliaia di persone sono state imprigionate, torturate e, nel migliore dei casi, esiliate. Il paese è il terzo al mondo per numeri di giornalisti incarcerati e sono più di mille gli oppositori politici scomparsi. Egitto. Ecco la “storia gemella” di quella di Patrick Zaki. Ma con un finale peggiore di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 25 gennaio 2022 L’hanno chiamata la “storia gemella” di quella di Patrick Zaki: entrambi studenti presso università europee, entrambi arrestati (rispettivamente nel febbraio 2020 e nel febbraio 2021) una volta rientrati in Egitto per trascorrere qualche giorno con le famiglie, entrambi indagati per reati inesistenti legati alla loro attività di ricerca, entrambi rinviati a giudizio. Ma se Patrick Zaki è stato posto in libertà provvisoria dopo 22 mesi di carcere e attende la prossima udienza, il 1° febbraio, del processo che lo vede imputato di “diffusione di notizie false”, ad Ahmed Samir Santawy, studente presso l’Università centrale europea di Vienna, è andata persino peggio. Dopo cinque giorni di sparizione forzata dal momento dell’arresto, il 6 febbraio 2021 è comparso di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato ed è stato interrogato su fatti di terrorismo, sulla base di indagini segrete condotte dall’Agenzia per la sicurezza nazionale i cui atti non sono mai stati esaminati dai suoi avvocati. Da allora, per questa inchiesta, è stato posto in detenzione preventiva. Poi, il 22 maggio, la Procura ha aperto una nuova inchiesta su presunti post pubblicati sui social e ha ordinato il suo rinvio a giudizio con l’accusa di “diffusione di notizie false allo scopo di minacciare lo stato, gli interessi nazionali e l’ordine pubblico e di seminare panico tra la popolazione”. Il 22 giugno Ahmed Samir Santawy è stato condannato a quattro anni di carcere da un tribunale d’emergenza, di quelli che non prevedono appello. È attualmente detenuto nel noto e famigerato carcere di Tora, in isolamento. C’è una storia che precede quella di Patrick e quella di Ahmed: nel marzo 2018 Walid Salem, dottore di ricerca presso l’Università di Washington, era stato arrestato al rientro in Egitto. Liberato un anno dopo, tuttora non riesce a riavere il passaporto e dunque non è in grado di riprendere gli studi. Perché fa così paura all’Egitto l’attività accademica all’estero dei suoi ragazzi? *Portavoce di Amnesty International Italia Gran Bretagna. Assange atto terzo: potrà rivolgersi alla Corte suprema di Giovanna Branca Il Manifesto, 25 gennaio 2022 Ieri la sentenza che consente ai legali del fondatore di Wikileaks di presentare un appello contro l’estradizione negli Stati Uniti. Julian Assange potrà fare richiesta per presentare appello contro l’estradizione negli Stati uniti davanti alla Corte suprema britannica - un successo parziale ma pur sempre un successo, come ha osservato la compagna del fondatore di Wikileaks Stella Morris commentando la sentenza emessa dall’Alta corte lunedì: “Adesso la Corte suprema dovrà decidere se ascoltare l’appello ma, sia chiaro, oggi in corte abbiamo vinto”. A garantire ad Assange la possibilità di presentare un appello alla Corte suprema è la stessa Alta corte di Londra che lo scorso dicembre, ribaltando la sentenza di primo grado, aveva accolto la richiesta di estradizione negli Usa, dove l’attivista rischia fino a 175 anni di carcere per aver pubblicato migliaia di documenti classificati fra il 2010 e il 2011 - “Se ci fosse giustizia, i crimini che Julian ha esposto, crimini di guerra e l’omicidio di civili innocenti, non sarebbero messi in discussione”, ha aggiunto ieri Morris. In quell’occasione i giudici si erano ritenuti “soddisfatti” delle assicurazioni statunitensi sul fatto che Assange non sarebbe stato detenuto in un carcere di massima sicurezza, né sottoposto all’isolamento prolungato, e avevano così stabilito che non sussistevano più i pericoli per la salute dell’attivista (secondo gli psicologi sentiti dal tribunale a rischio suicidio e autolesionismo) che avevano portato, in primo grado, a deliberare contro l’estradizione. Ma proprio l’affidabilità delle garanzie offerte dagli Stati uniti - alquanto “pelose” come fa notare Amnesty International: ci si riserva infatti di sbattere Assange in un carcere di massima sicurezza o in isolamento qualora ex post lui “ne dia motivo” - è la “questione di diritto” sollevata dalla difesa del giornalista per poter ricorrere davanti alla Corte suprema che ieri l’Alta corte ha accolto, negando però un appello “diretto” e lasciando ai giudici la scelta se sentire o meno il caso. Le “questioni di diritto” (points of law: argomenti di rilevanza pubblica generale e non limitati al caso in questione) sollevate dalla difesa di Assange erano però tre, e riguardavano anche la valutazione del rischio di tortura e maltrattamenti in un paese come gli Usa dove sono in vigore pratiche carcerarie bandite in Europa. Per questo Massimo Moratti di Amnesty International Europa ritiene la sentenza una vittoria solo parziale: “Anche se ci rallegriamo della decisione dell’Alta corte di certificare uno dei problemi relativi alle garanzie statunitensi - scrive in un comunicato - ci preoccupa che i giudici abbiano scansato la loro responsabilità di far sì che questioni di pubblica importanza siano esaminate nella loro interezza dalla magistratura”. “La tortura e altri maltrattamenti, fra cui l’isolamento prolungato, sono tratti fondamentali della vita di molte persone nelle prigioni federali Usa, fra cui detenuti sulla base di accuse simili a quelle di Assange”. Sulla stessa lunghezza d’onda la reazione di Cpj (Committee to Protect Journalists), che “accoglie con cautela” la decisione di ieri, ed esorta il Dipartimento di giustizia Usa a interrompere i procedimenti per l’estradizione e a far cadere le accuse contro Assange: “L’azione penale contro il fondatore di Wikileaks negli Stati uniti stabilirebbe un precedente legale profondamente dannoso che consentirebbe la persecuzione dei giornalisti, e deve essere fermata”. Ora i legali del fondatore di Wikileaks - in carcere da tre anni nella prigione londinese di Belmarsh in attesa di conoscere il suo destino, dopo aver trascorso sette anni rinchiuso nell’ambasciata ecuadoregna - hanno due settimane di tempo per presentare la loro istanza alla Corte suprema. “Non dimentichiamo che ogni volta in cui vinciamo, finché questo caso non verrà archiviato, finché lui non verrà liberato, Julian continuerà a soffrire”, ha dichiarato ieri Morris. “Ma siamo ancora lontani dall’avere giustizia in questo caso, perché Julian è stato prigioniero per tantissimo tempo, mentre non avrebbe dovuto passare un solo giorno in prigione”. Siria. 850 bimbi in trappola nel carcere preso dall’Isis ansa.it, 25 gennaio 2022 Unicef e Save The Children lanciano l’allarme, oltre 150 i morti. E’ appesa a un filo la sorte di centinaia tra bambini e adolescenti siriani, iracheni e di molte altre nazionalità, tra cui occidentali, da quattro giorni intrappolati in un carcere nel nord-est della Siria preso d’assalto da miliziani dell’Isis e ancora in queste ore teatro di scontri tra i jihadisti asserragliati all’interno e le forze curde locali appoggiate dagli Stati Uniti. Il Fondo Onu per l’infanzia (Unicef) ha lanciato il grido d’allarme, per la presenza di 850 minori, anche di appena 12 anni di età, nel carcere di Gweiran, alla periferia meridionale della città petrolifera siriana di Hasaka, al confine con l’Iraq. Nella prigione che è teatro da giovedì scorso di scontri armati senza precedenti da quando l’Isis era stato dichiarato “sconfitto” nel 2019 da curdi e americani. Un commando di miliziani era riuscito nella notte tra mercoledì e giovedì a penetrare con autobomba nel perimetro del superaffollato centro di detenzione, dove da anni sono rinchiusi migliaia di sospetti appartenenti all’Isis. In una sezione si trovano dal 2019 centinaia di minori, rimasti nel limbo del carcere in attesa di essere giudicati, rimpatriati nei rispettivi Paesi, che però - secondo le organizzazioni umanitarie - fanno di tutto per non riconoscerli e accoglierli. “Chiediamo l’immediato rilascio dei minori”, afferma l’UNICEF. “Il rischio che possano essere vittima degli scontri o che possano essere reclutati con la forza aumenta col prolungarsi dei combattimenti”, si legge nel comunicato. L’Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria afferma che finora, nonostante gli sforzi militari delle forze curde e degli Stati Uniti, un braccio del carcere rimane sotto controllo dei miliziani jihadisti. E che il bilancio provvisorio dei sanguinosi combattimenti è di più di 150 uccisi, 102 dei quali tra le file dell’Isis, almeno 25 tra i miliziani curdi, e 7 civili. Ma si tratta di cifre poco accurate e che andranno verificate al termine della mattanza. In queste ore si attende il via libera all’“operazione finale” da parte delle forze curde: l’aviazione della Coalizione anti-Isis a guida Usa continuano a sostenere sul terreno e dall’alto l’opera delle milizie del Pkk siriano, mentre giungono notizie della resa di “decine” di jihadisti evasi da giovedì a Hasaka e nei dintorni. I media curdi riferiscono dell’uccisione da parte dei jihadisti di almeno cinque civili, ma di questo non si hanno conferme indipendenti. L’Ufficio Onu per il coordinamento umanitario (OCHA) ha reso noto che migliaia di abitanti dei quartieri di Hasaka investiti dagli scontri sono fuggiti verso nord. Le forze curde hanno imposto il coprifuoco in tutta la città, i cui abitanti versano in condizioni umanitarie difficili a causa dell’assenza di elettricità e delle basse temperature invernali. Intanto Sonia Khush, direttrice del programma Siria per Save the Children, organizzazione umanitaria internazionale, ha affermato che “quello che sentiamo dalla prigione di Guweiran è profondamente angosciante. Le notizie di bambini uccisi o feriti sono tragiche e oltraggiose”. Colombia. “Avvocati difensori dei diritti umani, per questo vengono perseguitati” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 gennaio 2022 Ieri la giornata di riflessione sui legali della Colombia organizzata dall’Oiad “Minacce, aggressioni e attentati quando ci si occupa dei dossier sensibili”. In occasione della “Giornata mondiale dell’avvocato in pericolo”, dedicata quest’anno alla Colombia, si è svolta ieri una conferenza, moderata da Alfredo Irujo, con testimonianze molto toccanti sulle condizioni in cui versano i legali del Paese sudamericano. In collegamento, nonostante i diversi fusi orari, avvocati da tutto il mondo: dalla Colombia, dal Nicaragua, dalle Filippine, dalla Spagna, dalla Francia e, ovviamente, dall’Italia. In Colombia gli avvocati e le avvocate vengono uccisi o fatti sparire se il loro operato è inviso alle organizzazioni criminali e alle istituzioni. Per una strana “dottrina della mistificazione” possono essere considerati sovversivi e perseguitati. La Giornata mondiale degli avvocati che rischiano la vita vede protagonista il Cnf, che nel 2016 ha fondato, con il Consiglio nazionale forense francese, l’Ordine degli avvocati di Parigi e il Consiglio generale dell’avvocatura spagnola, l’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo (Oiad) con sede a Parigi. L’iniziativa viene organizzata il 24 gennaio di ogni anno. Data non casuale. In questo giorno, nel 1977, si verificò il “massacro di Atocha”: quattro avvocati ed un loro collaboratore furono assassinati a Madrid, nel loro ufficio in Calle Atocha 55. In Colombia ci sono circa 335mila avvocati, ma manca un’istituzione ufficiale della professione forense. Tutto ciò significa assenza quasi totale di garanzie e di tutele per chi indossa la toga. “I nostri colleghi colombiani - ha detto l’avvocato Francesco Caia, presidente dell’Oiad - subiscono minacce, aggressioni e attentati quando si occupano dei dossier sensibili, quelli che riguardano la restituzione delle terre ai contadini vittime di spoliazioni illegali, le esecuzioni extragiudiziali, la difesa dell’ambiente naturale e i casi portati davanti alla giurisdizione speciale per la pace. Le rappresaglie contro gli avvocati aumentano quando denunciano presunti legami tra gruppi paramilitari, guerriglieri e autorità”. L’emergenza sanitaria ha impedito un appuntamento in presenza, ma l’attenzione sugli avvocati minacciati sarà sempre alta. “Nonostante le difficoltà legate alla crisi sanitaria internazionale - ha commentato Caia -, il nostro impegno a sostenere i colleghi minacciati, a causa dell’esercizio della loro professione, non è venuto meno e, grazie anche all’adesione di nuovi membri all’Osservatorio, abbiamo potuto ampliare le nostre attività. La pandemia ha aumentato le diseguaglianze, ma non ha di certo fermato le violazioni dei diritti umani in tante parti del mondo, realizzate con macroscopiche violazioni delle regole dello Stato di diritto e del giusto processo. Ciò ci induce a perseguire con sempre maggiore determinazione i nostri scopi. Gli avvocati, in Colombia come in tante altre parti del mondo, sono colpiti in quanto naturali difensori dei diritti umani. Per tentare di ridurli al silenzio spesso vengono identificati con i loro clienti da governi autoritari che non esitano ad arrestarli e condannarli ingiustamente”. Caia si è soffermato sulle numerose iniziative poste in essere dall’Oiad. “Nel 2021- ha evidenziato - l’Osservatorio ha presentato un ricorso amicus curiae per sostenere, dinanzi alla Corte Costituzionale colombiana, il ricorso presentato con riferimento al caso Dilan Cruz, un giovane ucciso da un membro della polizia nazionale, durante le manifestazioni in occasione dello sciopero nazionale colombiano del 2019. Era stata ritenuta la competenza della giurisdizione penale militare, ma la Corte costituzionale, il 17 giugno 2021, ha ribadito che la competenza della giustizia penale militare è limitata ed eccezionale e ha stabilito che il procedimento penale debba essere trasferito alla Giurisdizione ordinaria, per garantire i diritti fondamentali anche delle vittime”. Diego García- Sayán (relatore speciale Onu sull’indipendenza dei giudici e degli avvocati) ha evidenziato le difficoltà che affrontano gli avvocati nei Paesi con un deficit democratico in cui i media spesso giocano un ruolo rilevante. “Solidarietà - ha affermato - alle colleghe e ai colleghi che hanno sofferto anche per attacchi ingiusti da parte della stampa. Attacchi mediatici volti ad offuscarne il valore professionale. Gli avvocati che indagano sulla corruzione, reato internazionale, sono spesso vittime di aggressioni mortali. L’avvocato spesso viene identificato con il proprio cliente e molte volte per colpire quest’ultimo il difensore viene considerato il soggetto da eliminare”. Secondo Franklin Castañeda, avvocato e presidente del Comitato di solidarietà ai prigionieri politici (Cspp), la più antica organizzazione colombiana dedita alla tutela dei diritti umani, il massacro di Atocha indica uno spartiacque. “Oggi possiamo sensibilizzare maggiormente l’opinione pubblica grazie all’impegno di organizzazioni come l’Oiad. L’accordo di pace, raggiunto in Colombia del 2016, per porre fine allo scontro tra Farc e Stato, ha aperto una fase di speranza per la tutela dei diritti umani. Purtroppo, il popolo colombiano ha scelto un governo che si è opposto agli stessi accordi di per ridurli ai minimi termini. La Colombia è ritornata in una situazione di conflitto con un salto indietro di vent’anni. Nel 2021 più di trecento persone sono state uccise in oltre trenta stragi. In Colombia la figura dell’avvocato viene ostracizzata. Viene considerata la parte legale delle organizzazioni militari. Le istituzioni che si curano poco del rispetto dei diritti e delle libertà civili e certa stampa diffamano il nostro lavoro. Siamo di continuo il bersaglio di aggressioni e attentati. Nel 2021 sei avvocati sono stati uccisi. La situazione della Colombia merita l’attenzione della comunità internazionale”. L’avvocato Germán Romero ha posto l’accento sulla sua condizione di esiliato in Spagna. Interessanti contributi sono giunti da Lina Peláez (avvocata dei diritti umani specializzata nella difesa delle vittime delle proteste sociali a Cali), Daniel Mendoza (avvocato colombiano rifugiato in Francia) e Joel Hernández (commissario e relatore per la Colombia della Commissione interamericana dei diritti dell’uomo). Prima della conclusione della conferenza sono state presentate ai Governi ed alle istituzioni internazionali alcune richieste e raccomandazioni per proteggere la vita degli avvocati colombiani. “Si esortano - è scritto nel documento finale - l’Unione europea ed i suoi Stati membri, nonché la comunità internazionale, ad utilizzare le loro relazioni con la Colombia per rafforzare la protezione degli avvocati e dei difensori dei diritti umani secondo gli obblighi internazionali della Stato colombiano”.