Destra, sinistra, giornali. Il patto anticostituzionale per salvare l’ergastolo ostativo di Alessandro Barbano huffingtonpost.it, 24 gennaio 2022 Questa barbarie sta piantata nel cuore del nostro ordinamento. È un diritto penale “altro”, giustapposto allo Stato di diritto. Sul destino del quale si regola un braccio di ferro tutto interno alla magistratura. Che strano Paese quello che discute della pena di morte fuori dallo spazio pubblico, e si pretende ancora uno Stato di diritto. Eppure, da Amartya Sen a Salvatore Veca, studiosi autorevoli ci ricordano che a distinguere la democrazia dai regimi è proprio la possibilità per i cittadini di confrontarsi, con opinioni diverse, sulle questioni decisive per le sorti di una comunità. Non lo è forse la pena di morte? Conosco a questo punto l’obiezione. Il supplizio capitale è stato abolito in Italia, prima nazione d’Europa, fin dal 1889, per merito del ministro Zanardelli, con l’eccezione di un ripristino di quattordici anni per mano del fascismo. Ma che cos’è, se non una pena di morte a lenta esecuzione, quella che costringe un essere umano in carcere dalla condanna fino all’ultimo respiro, senza un solo giorno, una sola ora, un solo minuto di libertà? Questa sorte è riservata in Italia a 1250 detenuti sui circa 1800 ergastolani, cioè due su tre. Non mancano condannati, ancora diciottenni, alla pena perpetua. Per i quali deve considerarsi quasi una fortuna che l’aspettativa di vita dietro le sbarre sia più breve che nel mondo dei liberi. Poiché altrimenti la morte liberatrice arriverà dopo cinquanta o sessanta anni. Sono gli ergastolani del cosiddetto regime ostativo. Per la Corte europea dei diritti dell’uomo un trattamento degradante e inumano. Per la Corte Costituzionale contrario al principio per cui ogni pena deve tendere alla rieducazione del condannato, un principio che accompagna da duecentocinquanta anni il cammino della democrazia. Anche un bambino capirebbe che il “fine pena mai” e la rieducazione sono agli antipodi. Il primo racconta lo stato di natura, il secondo la civiltà. La Consulta ha dato un anno di tempo al Parlamento per modificare la legge, salvaguardando le esigenze della sicurezza. Altrimenti, ha detto, intervengo io. La politica e gli uomini del diritto ne discutono da mesi, senza che i cittadini ne vengano informati, perché nessun quotidiano a larga diffusione e nessun tg se ne occupano. Il detenuto all’ergastolo ostativo non vedrà mai la luce del sole perché, al momento dell’arresto, non si è pentito e non ha fornito delazioni che il pm ritenesse, a suo insindacabile giudizio, utili alle indagini. Poco conta che si sia dissociato dai vincoli criminali, che abbia tenuto una buona condotta in carcere, che abbia compiuto un percorso sincero di redenzione, che magari abbia preso a studiare e che abbia rifondato il suo universo morale. Poco conta che sia un uomo del tutto diverso da quello che si è macchiato del crimine per cui è stato condannato. Se ha scelto di non accusare nessuno, magari per non esporre la propria famiglia a una vendetta trasversale, o se, questo il paradosso, non aveva nessuno da accusare - poiché, come si dice in gergo, la collaborazione era inesigibile - si getterà la chiave della cella. Nella quale è riservato a circa trecento detenuti anche il cosiddetto regime carcerario duro. Vuol dire isolamento assoluto, sorveglianza continua, appena due ore aria, limitazione dei colloqui familiari, controllo della posta, rifiuto di disporre perfino di penne, quaderni e altri oggetti ritenuti pericolosi per la sicurezza. Per capire che cosa si intenda per “pericolosità”, basti pensare che a un condannato è stato negato il libro di Marta Cartabia intitolato “Un’altra storia inizia qui”. Motivando il rifiuto, il magistrato di sorveglianza ha scritto che il possesso di quel testo, in cui la guardasigilli s’intrattiene sul magistero dell’arcivescovo Carlo Maria Martini, avrebbe “aumentato il carisma criminale agli occhi degli altri detenuti”. Questa barbarie sta piantata nel cuore del nostro ordinamento da un quarto di secolo. È un diritto penale “altro”, giustapposto allo Stato di diritto. È la legge dei cattivi, l’eccezione che s’impone alla regola, il simbolo di un gigantesco apparato normativo, giudiziario e burocratico che rappresenta una potente macchina di dolore umano non giustificato: l’Antimafia. Chi lo difende contro ogni obiezione utilizza due argomenti: il primo è che si tratta di una disciplina che l’Europa ci invidia. Ma non si capisce perché, se così è, nessun paese abbia pensato di applicarla. Il secondo è che dismetterlo vorrebbe dire indebolire la lotta per la legalità. E, di converso, chi osa criticarlo fa il gioco della mafia. Capite che quest’ultimo avvertimento metterebbe chiunque con le spalle al muro. L’ex procuratore Giancarlo Caselli l’ha mosso perfino alla Corte Costituzionale, criticata per aver chiesto alla politica di abolire l’automatismo per cui chi non collabora con il pm muore dietro le sbarre. E l’ha mosso al Parlamento, a cui ha chiesto di non arretrare di un centimetro rispetto al rigore di questa norma, se non vuole offrire alla mafia “un trampolino di lancio”. È il caso di dire che il Parlamento l’ha preso in parola. Anziché spezzare il do ut des tra pm e imputato, l’ha rafforzato. Nessuno sconto di pena, nessuna liberazione dopo ventotto anni, concessa agli ergastolani comuni, se non dicono ciò che sanno e magari ciò che non sanno. Come nella migliore tradizione di una giustizia che sopravanza la verità con la delazione. Il testo di legge, su cui convergono con uguale soddisfazione destra securitaria e sinistra giustizialista, subordina la cessazione del regime ostativo alla prova, richiesta al condannato, di non fare più parte di alcuna organizzazione criminale, al parere obbligatorio del prefetto, e al parere obbligatorio e di fatto vincolante del pm. Se il pm la pensa come Caselli, il condannato non ha nessuna chance di superare il muro di divieti che la legge gli alza di fronte. A nulla servirà la sua buona condotta, perché - come obbietta il noto magistrato antimafia - “il mafioso è obbligato dal suo giuramento a non dare fastidio in carcere”. A nulla varrà un percorso rieducativo, perché “il mafioso è abilissimo nel fingere una redenzione”. Quanto alla dimostrazione di non essere più mafioso, si tratta appunto di una probatio diabolica, poiché per Caselli “la mafia non muore mai”. Vuol dire che il mafioso non cesserà mai di essere padre, figlio, fratello, amico di mafiosi, e perciò mafioso anche lui per sempre. L’unica mossa che può spezzare il determinismo di questo paradigma criminale è il pentimento. Anche quest’ultimo, se valgono i presupposti fin qui esposti, sarà certamente finto, ma varrà per quello che il condannato offrirà al pm, poiché solo l’offerta di una delazione ritenuta soddisfacente giustificherà lo scambio contrattuale con il premio di una liberazione anticipata. In tal caso la circostanza che il condannato uscito dal carcere dopo 28 anni sia ancora un mafioso non preoccupa la magistratura antimafia. Ciò che conta è che a decidere sulla vita e sulla morte del condannato sia il pm, e non il magistrato di sorveglianza che pure dovrebbe accertare l’avventura rieducazione. Anche se il primo della traiettoria di vita di quel detenuto sa poco o niente, perché le sue informazioni sono datate venti o trent’anni fa. Riguardano un uomo che potrebbe essere tutt’altra persona da quella che lui ha fatto condannare. Qui si comprende come sul destino dell’ergastolo ostativo si regoli un braccio di ferro tutto interno alla magistratura. Privilegiare la delazione alla redenzione vuol dire sottomettere il giudice di sorveglianza al pm. Voi credete, cari lettori, che si stia parlando di giustizia. Vi sbagliate. Qui si parla di potere. Di potere parla il procuratore generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando dice che “la collaborazione resta la principale prova della cesura dei rapporti con l’organizzazione mafiosa e tale prova non può essere limitata alla buona condotta nel carcere”. Di potere parla ancora il Pg, quando sfiducia i magistrati di sorveglianza, cui non basterà riferirsi a “comportamenti carcerari di cooperazione o non scorretti”. Poiché la certezza di “una cessazione di legami attuali e potenziali con le organizzazioni criminali può venire solo dai procuratori distrettuali e dal procuratore nazionale antimafia”. L’assist del Pg all’Antimafia è l’adesione a una chiamata alle armi in nome di un codice corporativo. C’è nel Paese una magistratura inquirente che non intende rinunciare alla funzione di tutela che la politica gli ha assegnato in una stagione di emergenza. Con questa magistratura aggressiva le istituzioni sentono di dover trattare. Anche a costo di fare propria la falsificazione demagogica di una pena inumana che serve a combattere la mafia e che invece viene è irrogata anche a chi mafioso non è. Poiché gli ergastolani mafiosi nelle carceri sono poco più di duecento. Tutti gli altri in regime ostativo, un migliaio, non sono detenuti per reati di mafia. È questa la grande dissimulazione di un sistema securitario, proprio di un regime: dietro il paravento della lotta alla mafia, la democrazia italiana punisce i reati più gravi con una pena di morte differita, a lenta esecuzione. Perché il carcere sia il luogo dove simbolicamente confiniamo tutto il male del mondo, per non vederlo più. Di ergastolo ostativo non sentirete parlare, perché la giustizia in Italia è diventata un non luogo, di cui vergognarsi e da cui girare al largo. La schivano i grandi grandi quotidiani, anche a costo di trasformarsi in rotocalchi dove la morte naturale di un’ex modella fa più notizia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. E se pure i talk show se ne occupano, la riducono alla guerra tra magistrati e politici, occultando così la tragedia di una giustizia che tradisce le sue più autentiche premesse: verità e pacificazione. “Giustizia lenta, gestione da cambiare. Riflettiamo su amnistia e indulto” di Beppe Boni Il Resto del Carlino, 24 gennaio 2022 Roberto d’Errico, presidente della Camera penale di Bologna. “Mafia, non c’è infiltrazione organica”. Era presente all’inaugurazione dell’anno giudiziario, giornata in cui i magistrati di Corte d’Appello danno la fotografia dell’anno passato e quella dell’anno che verrà. L’avvocato Roberto D’Errico, toga di lungo corso e presidente della Camera penale di Bologna, riflette sui nodi posti sul tappeto nella mattinata di Palazzo Baciocchi, a Bologna. È d’accordo col procuratore generale reggente, Lucia Musti, secondo cui l’Emilia Romagna va considerata un distretto di mafia? “Mi pare una rappresentazione eccessiva, anche se rispetto l’interpretazione della dottoressa Musti. Le infiltrazioni e le condotte penalmente rilevanti ci sono, i procedimenti lo testimoniano. Ma sono episodi che non comportano dal punto di vista storico, politico, culturale e giudiziario un controllo sulla società da parte delle cosche, come in altre parti d’Italia”. È una valutazione azzardata? “I magistrati fanno bene ad indagare in tema di mafia. Ma poi serve prudenza nel dare giudizi che possono in via teorica creare disagio all’economia e alla società in generale”. Si è parlato di condivisione mafiosa da parte di colletti bianchi e imprenditori... “Ci sono legali o commercialisti finiti al centro di inchieste, come anche imprenditori. Ma non credo sia generalizzata la condivisione di un metodo mafioso”. È un’ottica giudiziaria o anche della società? “La magistratura a volte fotografa le situazioni in modo esagerato e fornisce, pur in buona fede, una lettura ingigantita perché inquadrata da un unico punto di osservazione. Ma forse bisogna porre più attenzione ad altre consorterie di malavita organizzata, come quella albanese che muove enormi interessi nel traffico internazionale di droga”. Giustizia lumaca. Ogni anno stesso ritornello? “È un problema semplice e complesso nello stesso tempo. Che ha necessità di un duplice intervento. Ma risolvibile”. Esponga la sua formula... “Punto numero uno. Ci sono fatti penalmente rilevanti che potrebbero essere risolti in via amministrativa. Serve una depenalizzazione. Numero due. Il presidente della Corte d’Appello Oliviero Drigani è stato chiaro nel dire che servono rinforzi altrimenti il sistema si inceppa”. Nel merito? “Il nostro è un distretto giudiziario che pare dimenticato. Sono previsti meno magistrati che a Firenze. Non è ammissibile”. Allora che fare? “Va snellita l’organizzazione. Come ha rilevato la dottoressa Musti per nominare il capo della procura servirà un anno. Poi mancano altri giudici in organico. Tempi troppo lunghi”. Dove bisogna intervenire? “Serve il coraggio di dare all’amministrazione della Giustizia una gestione più manageriale”. Cosa può fare la politica? “Deve porre più attenzione nella Giustizia per un miglioramento strutturale. Se il sistema funziona male, il Paese arretra”. L’Associazione magistrati? “Può aiutare nel dibattito. Ma deve fare un bagno di umiltà e liberarsi da aspetti corporativi”. La pandemia quanto ha rallentato la dinamica giudiziaria? “L’intasamento è enorme, giudici e avvocati fanno il possibile ma serve una svolta. Bisogna rompere un tabù e riflettere sulla possibilità di un indulto o di una amnistia”. Perché Bologna è maglia nera della devianza minorile? “Forse negli anni passati il Tribunale dei minori non è stato ben gestito. Ma i fenomeni di devianza vanno affrontati fin dall’inizio con prevenzione ed educazione. Spesso i protagonisti sono giovani stranieri che, come nelle banlieue francesi scaricano il disagio nella violenza. Servizi sociali, giudici e forse dell’ordine devono lavorare insieme”. Servono più avvocati? “No, c’è già sovrabbondanza rispetto alle esigenze. Un numero eccessivo rischia di abbassare l’offerta di qualità, mentre bisogna alzare preparazione, competenza e senso deontologico”. La giustizia lenta è una ragnatela che imprigiona di Luigi Labruna La Repubblica, 24 gennaio 2022 Motivata da lodevole pietas, la ministra Cartabia ha riferito martedì al Senato sulla giustizia iniziando con il leggere una lettera di un’anziana madre di un autista di Napoli morto sul lavoro cinque anni fa, disperata per la “impossibilità di veder celebrato in tempi ragionevoli” il processo, continuamente rinviato, e “sicura di morire prima di vederne la fine e sapere come e da chi è stato ucciso il figlio e fare a tempo ad andare sulla sua tomba per dirgli che la giustizia terrena ha fatto il suo corso”. Ne scrivo qui non solo per solidarietà con la povera madre, ma anche per ricordare a quanti si arrabattano per mandare un inquilino degno al Colle, che fra le tante gatte da pelare che aspettano i responsabili del nuovo assetto istituzionale con l’elezione del Capo dello Stato - anche presidente del Csm - una delle più brutte è la giustizia. Che incide quotidianamente sulla vita degli uomini ed è divenuta ormai - e, peggio, è percepita dai più - come una sciagura, dalla quale rifuggire per non rimanere invischiati per decenni (vittime, innocenti o colpevoli che si sia) in una ragnatela surreale di guai e anomalie, dalla quale è difficile districarsi anche quando queste ultime riguardano non i singoli ma le istituzioni giudiziarie. Com’è stato nel caso della “decapitazione” della Cassazione da parte del Consiglio di Stato che, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, ha dichiarato illegittime le nomine del primo presidente Curzio e dell’aggiunta Cassano decise nel 2020 dal Csm. Ora, ha ragione il mio amico Verde nel sottolineare la natura tecnico-giuridica di quel terremoto, ma ai cittadini esso è apparso, e non poteva non apparire, come un ulteriore episodio della guerra tra le correnti dei magistrati, nel Csm, in Anm, nelle Procure, nei tribunali amministrativi e ovunque, per le nomine, le promozioni, i trasferimenti dei propri affiliati sostenuti da varie fazioni politiche. E tale sensazione non è stata attutita (anzi!) dalla fulmineità stra-eccezionale della “rinomina”, con riscritte motivazioni, da parte del Csm dei due presidenti defenestrati. Il 21 l’inaugurazione dell’anno giudiziario al Palazzaccio si è potuta tenere e la Cartabia ha potuto ancora una volta dire: “La riforma del Csm è “davvero” ineludibile!”. Ma non è stato un “bel principio”, né un “lieto fine”. Anno giudiziario, Cartabia a Reggio Calabria: “Investire sui giovani contro le mafie” gnewsonline.it, 24 gennaio 2022 “Per la prima volta un ministro sceglie questo distretto per inaugurare l’anno giudiziario, segno di grande sensibilità e attenzione al territorio”. Con queste parole, il Presidente della Corte di appello di Reggio Calabria, Luciano Gerardis ha accolto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che per la consueta inaugurazione dell’anno giudiziario nelle Corti di appello ha scelto proprio il distretto calabrese. “Ho accolto con piacere l’invito caloroso ad essere qui oggi, la prima volta come ha sottolineato il presidente Gerardis, perché penso che sia giusto che lo Stato, il Ministero, il Governo sia presente proprio laddove la giustizia attraversa le sfide più impegnative” - ha sottolineato la Guardasigilli - “la prima volta a Reggio Calabria, ma per due anni di seguito, il ministro ha scelto proprio la Calabria per la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nelle Corti di Appello, per esprimere e rinnovare da qui una particolare vicinanza a questa terra che è splendida, ma che sappiamo essere attanagliata da un giogo che la grava, ma anche da un percorso virtuoso di riscatto nei confronti della ‘ndrangheta e dal suo insidioso contagio criminale”. Ripercorrendo i vari problemi sul fronte giustizia, la Ministra ha affrontato il tema dei vuoti di organico, soprattutto di personale amministrativo e di dirigenti che rendono più difficoltoso il lavoro di tutti, specialmente nel distretto calabrese: “Conosco i numeri sulle scoperture (15% a Reggio Calabria), così come conosco il bisogno di rinforzi di magistrati, che si avverte in questo distretto impegnato - come quello di Catanzaro - anche in importanti processi contro la criminalità organizzata. I rinforzi arriveranno” - ha tenuto a specificare. Ma è riferendosi ai giovani, alle nuove generazioni che la ministra Cartabia ha posto l’accento sul rinnovamento futuro, sia sull’innovazione che saranno in grado di portare i nuovi addetti all’ufficio per il processo che dal 24 febbraio entreranno negli uffici giudiziari, che sui ragazzi che in terra calabra “hanno trovato il loro percorso di studi o la loro occupazione lavorativa, magari dopo anni di sbandamento di smarrimento”. Sui primi, sono 208 gli addetti Upp previsti per il distretto di Reggio Calabria che affiancheranno i giudici nel loro percorso. Relativamente ai secondi, la Guardasigilli che nella serata di ieri ha avuto modo di incontrare alcuni giovani reggini, radunati in un immobile confiscato alla criminalità organizzata e seguiti da una associazione che si propone di accompagnarli nel percorso della ricerca della propria strada nel mondo, ha tenuto a specificare: “ho visto giovani che stanno realizzando i loro sogni professionali, che hanno trovato il loro percorso di studi o la loro occupazione lavorativa, volti sorridenti. Ragazzi che sanno farsi compagnia e sanno trasmettersi il gusto di restituire agli altri il tanto che hanno ricevuto. Giovani coppie con i loro figli che si affacciano ora nel mondo: tocca a noi preparare le condizioni per un futuro che possano essere una vera possibilità per loro”. “In mezzo a questi giovani, si respira il ‘fresco profumo della libertà” - ha poi aggiunto ricordando le parole di Paolo Borsellino - “questi ragazzi sono il primo baluardo contro l’illegalità e la malavita, perché hanno scoperto un’alternativa ben più affascinante e convincente dei modelli oppressivi imposti dalla ‘ndrangheta. Questa è la più grande opera di prevenzione: intercettare le inquietudini dei giovani e accompagnarli nella ricerca del loro posto nel mondo significa strapparli dalla rete della criminalità organizzata, indebolendone la presa sul territorio. E loro - i giovani - sono i veri destinatari del piano di ripresa del Paese in atto, che è appunto il Next Generation Ue. Insieme alle indispensabili indagini, ai presidi di sicurezza, insieme alle necessarie risposte di giustizia dei processi, insieme all’accertamento delle responsabilità per i crimini e ai ristori per le vittime, non si interrompa mai - per un radicale ed effettivo contrasto ad ogni forma di criminalità organizzata - quel lento, delicato ma fondamentale lavoro di semina di una cultura diversa che passa attraverso la formazione dei giovani, vero argine alla malattia della corruzione, del sotterfugio e del sopruso”. Dopo essere intervenuta all’inaugurazione dell’anno giudiziario, la ministra della Giustizia Marta Cartabia accompagnata da Paolo Brunetti, sindaco f.f. di Reggio Calabria ha sottoscritto un protocollo d’intesa che consentirà di riprendere i lavori finalizzati alla realizzazione del nuovo Palazzo di Giustizia. Con la firma della convenzione saranno affidati direttamente al ministero della Giustizia sia il cantiere incaricato delle opere di completamento sia la gestione economica del progetto. Fanfani: “Csm preda delle correnti, l’unica speranza è il sorteggio tra chi è a fine carriera” di Luca Proietti Il Riformista, 24 gennaio 2022 “Le correnti sono astute. Molto astute: hanno una grandissima capacità di adattamento. Il legislatore può anche fare tutte le modifiche elettorali possibili, ma esse troveranno sempre il modo di mandare i propri rappresentanti al Consiglio superiore della magistratura per condizionarne l’operato”. A dirlo è Giuseppe Fanfani, avvocato penalista e nipote del celebre Amintore. Fanfani, attuale Garante dei detenuti in Toscana, è stato componente laico del Csm in quota Pd dal 2014 al 2018. La consiliatura, per intenderci, di Luca Palamara, l’ex zar delle nomine, quella dove la “degenerazione” correntizia avrebbe toccato vette mai esplorate prima. Onorevole Fanfani, ieri c’è stata l’inaugurazione dell’Anno giudiziario in Cassazione. A sentire i discorsi degli intervenuti sembra che il peggio sia passato... Credo che la cacciata di Palamara non abbia restituito alcuna verginità al Csm. Il “sistema”, come ha scritto Palamara nel suo libro, è sempre quello. Le correnti sono vive e vegete? È pacifico. Guardi, il sistema delle correnti si autoalimenta. È una realtà diffusa che io ho toccato con mano. Come funziona? Come i partiti. Le correnti sono uguali. I partiti hanno necessità di rendere favori per consolidare il proprio consenso. Così le correnti. Ed in questo sono aiutate dal sistema elettorale per i componenti togati del Csm con il collegio unico nazionale, dove il magistrato per essere votato da Aosta a Trapani deve per forza avere una corrente alle spalle che lo sostiene. Ora però la ministra della Giustizia Marta Cartabia vuole rendere più difficoltoso questo meccanismo... Impossibile: le correnti si adatteranno subito. Si può mettere il doppio, il triplo turno, il proporzionale, il maggioritario, ma le correnti pur di sopravvivere necessariamente piegheranno qualsiasi sistema elettorale ai propri interessi. Le correnti devono dare un senso alla loro presenza. Per raggiungere lo scopo devono farsi conoscere dai magistrati, facendogli sapere quali nomine hanno votato. Così si garantiranno i voti alle prossime elezioni. Cosa dovrebbe fare la politica? Una crasi netta fra correnti e Csm. L’unica speranza è sorteggiarne i componenti. L’hanno già proposto… Quello proposto non va bene. Le correnti riuscirebbero comunque ad agganciare i sorteggiati. E che sorteggio serve? Il sorteggio fra i magistrati che sono arrivati alla fine della carriera e che non devono più chiedere favori a nessuno. Magistrati prossimi alla pensione, persone libere. I colleghi capirebbero che è inutile raccomandarsi. È l’unica strada. Poi? Una modifica costituzionale con il potere del capo dello Stato, che è il presidente del Csm, di nominare 3 o 4 membri del Plenum fra persone note di grandissime capacità e doti morali. Aumenterebbe sicuramente la qualità della discussione. Il capo dello Stato è vittima delle correnti? Oggi ha un solo potere di moral suasion. Ripeto, il corretto funzionamento del Csm è fondamentale per garantire un corretto “servizio giustizia” ai cittadini. La mancanza di credibilità della giustizia è mancanza di credibilità dello Stato. I magistrati spesso non si rendono conto della loro funzione Comunque sono tutte riforme di difficile attuazione… Ho in mente un sistema ideale, platonico. Alla mia età penso mi sia concesso immaginare sistemi ideali. In questo sistema ideale, cosa altro modificare? Il disciplinare: non è pensabile che i magistrati siamo giudicato dai loro colleghi. Quando era al Csm ne ho visti tanti assolti che non avrei assolto. È naturale condiscendenza dovuta ad un rapporto di colleganza. È difficile non essere indulgenti con chi fa il tuo stesso lavoro e commette i tuoi stessi errori. Affiderei il disciplinare ad un soggetto terzo, come la Corte Costituzionale. Ultima domanda: c’è un nuovo Palamara all’orizzonte? Non so se esiste già. Però posso immaginare chi potrà prenderne il posto Chi è? Il più bravo. Come in Parlamento, fra tutti c’è sempre quello più bravo quando si devono tirare le fila e mediare fra le varie posizioni. Al Csm il più bravo è quello in grado di gestire i rapporti fra le varie correnti. Molise. Troppi detenuti, pochi agenti. Ma la situazione delle carceri migliora primonumero.it, 24 gennaio 2022 Il sovraffollamento cala ma rimane e si unisce alle poche guardie carcerarie a Larino e Campobasso. Il report della Garante Leontina Lanciano mette in evidenza anche carenze di personale sanitario già segnalate all’Asrem. Carenze di personale di polizia penitenziaria e di medici oltre al solito sovraffollamento in due dei tre istituti. È il quadro che emerge dagli incontri istituzionali all’interno delle carceri molisane che si sono svolti prima di Natale per volere della Garante regionale delle persone private della Libertà personale Leontina Lanciano. Proprio la Garante ha diffuso un report delle visite istituzionali che si sono svolte dal 15 al 17 dicembre nelle case circondariali di Larino, Campobasso e Isernia. In tutti e tre gli incontri è stata accompagnata dall’assessora al Sociale della Regione Molise, Filomena Calenda, mentre nel penitenziario di via Cavour erano presenti anche le consigliere regionali Micaela Fanelli e Patrizia Manzo e nel carcere pentro il consigliere Andrea Greco. Larino e Campobasso fanno registrare una situazione simile in tema di sovraffollamento. Nella Casa circondariale frentana sono 137 i detenuti presenti su 117 posti disponibili. Nel capoluogo invece su 106 posti a disposizione ci sono 127 reclusi. Ma Larino è messa molto peggio in quanto a personale di guardie carcerarie. Dovrebbero essercene 133 e invece sono solo 101 gli effettivi. Va leggermente meglio a Campobasso, dove su 112 posti a disposizione sono soltanto 100 sono gli agenti in ruolo. Ma per l’istituto di contrada Arcano è ancora più grave il fatto che manchi un comandante della polizia penitenziaria. A Isernia invece, si registra addirittura qualche agente in più rispetto a quanto prevede la struttura: 43 invece che 40. Non vanno dimenticate chiaramente le note positive della struttura guidata da Rosa La Ginestra. Innanzitutto il lieve calo del sovraffollamento rispetto al recente passato e poi i tanti servizi proposti. “All’interno della struttura carceraria di Larino sono attivi corsi scolastici per alfabetizzazione e scuola media, corsi per ‘diploma’ presso l’Istituto alberghiero ed agrario e percorsi universitari presso la Facoltà di Scienze Turistiche dell’Università degli Studi del Molise. Molte sono, poi, le attività ricreative che vengono portate avanti, tra cui un laboratorio di teatro che vede la partecipazione attiva di numerosi detenuti, che mettono in scena diversi spettacoli aperti alla cittadinanza” si legge nel documento redatto dalla Garante. In tutti e tre gli istituti di pena Lanciano sottolinea la carenza di medici H24 e in particolare una inadeguata copertura del SerD. Tutte carenze più volte segnalate all’Asrem. Per il carcere campobassano la Garante rileva come la struttura sia vecchia e bisognosa di manutenzione. “L’edificio, datato ed obsoleto (costruito nel 1830, ndr), situato all’interno del contesto urbano, al centro della città, necessita di interventi di manutenzione continua. La soluzione ideale sarebbe quella di realizzare una struttura ex novo, in una zona periferica”. Pochi gli spazi a disposizione dei detenuti nel carcere guidato dalla Direttrice facente funzioni Antonella Di Paola e poche anche le celle dotate di docce. A Isernia, Casa circondariale più piccola del Molise uno dei maggiori problemi è il muro di cinta “che da anni necessita di interventi di manutenzione, non è stato ancora messo in sicurezza nonostante le numerose richieste da parte della Direzione e dalla sottoscritta alla centrale Amministrazione penitenziaria”. C’è poi l’inagibilità del campo sportivo che non può essere utilizzato dai detenuti. “Ad oggi richiede un urgente intervento di riqualificazione, come sottolineato dalla Direttrice facente funzioni, Dottoressa Maria Antonella Lauria, e dal Comandante Maria Elisa Finauro nel corso della visita istituzionale effettuata”. Un altro problema comune nei tre penitenziari è la carenza di corsi di formazione di pubblica utilità per i quali adesso i consiglieri regionali hanno garantito il proprio impegno. “Volendo tracciare un bilancio complessivo delle visite programmate e svolte, va evidenziato che gli incontri sono stati particolarmente importanti dal momento che hanno consentito ad Assessori e Consiglieri regionali, e ancora una volta a questo Garante, da una parte di verificare sul campo le tante questioni che necessitano di soluzioni ed interventi, dall’altra di delineare un quadro preciso e veritiero dell’attuale condizione in cui versano le tre strutture penitenziarie molisane”. Salerno. Giovane rapper suicida in carcere, ipotesi di “falso” nell’indagine per due funzionari salernotoday.it, 24 gennaio 2022 C’è un’indagine per ipotesi di reato quale falso a carico di due dirigenti del carcere di Salerno-Fuorni. La Procura ha chiesto già l’archiviazione per l’iniziale ipotesi di istigazione al suicidio. Suicidio in carcere del giovane rapper Giovanni Cirillo, c’è un’indagine per ipotesi di reato quale falso a carico di due dirigenti del carcere di Salerno-Fuorni. La Procura ha chiesto già l’archiviazione per l’iniziale ipotesi di istigazione al suicidio. Nel mirino della Procura ci sono degli atti con potenziali alterazioni che sarebbero successive ai fatti, utili a “sistemare” dal punto di vista documentale, in attesa di riscontro e verifica da parte del pm. In precedenza il lavoro d’inchiesta era partito con l’ipotesi di una istigazione al suicidio, smentita dai fatti e non riscontrata, con il continuo approfondimento chiesto dai familiari del ragazzo, tra richieste di accesso agli atti e approfondimenti: il giovane rapper, in arte Johnny, morto sucida nel carcere di Salerno nel mese di luglio 2020, era detenuto per una serie di evasioni seguite all’imposizione della misura domiciliare, collegata ad una rapina commessa a gennaio dello stesso anno. Dopo la morte, la Procura aveva aperto il fascicolo e presentato la richiesta di archiviazione del caso. Il 23enne di origini somale, adottato da una famiglia di Scafati, era stato arrestato per una rapina ai danni di una farmacia, con scarcerazione e restrizione domiciliare, violazioni ripetute, con la famiglia impegnata nella battaglia per far emergere motivi ed eventuali omissioni nella struttura circondariale. Secondo gli elementi raccolti nelle fasi successive alla morte, Cirillo avrebbe chiesto aiuto più volte durante la reclusione: a gennaio del 2020 Johnny aveva eseguito un blitz in una farmacia di Scafati, seguiti da una condanna a quattro anni. Il giovane si tolse la vita nella mattinata del 26 luglio 2020. Nel corso della detenzione mostrò segnali critici per la sua condizione, con dei colloqui con lo psicologo disposti dalla direzione. Le indagini sul suicidio furono affidate agli uomini della Squadra mobile. Ivrea (To). Muore in carcere per Covid a 73 anni lanuovaprovincia.it, 24 gennaio 2022 È morto al carcere di Ivrea per complicanze legate al Covid che aveva contratto nelle scorse settimane Giuseppe Antenori, 73 anni, astigiano condannato per aver ucciso la sua convivente Alfonsina Bono nell’ottobre del 2009. Mancava solo qualche anno al suo ritorno in libertà: l’uomo era stato condannato a 12 anni di reclusione per l’omicidio che aveva confessato e doveva scontare altri due anni per un altro reato nel frattempo diventato definitivo. Il femminicidio si era consumato nell’alloggio popolare di via Dogliotti abitato da Antenori. La mattina del 31 ottobre 2009 l’uomo si era svegliato nello stesso letto in cui si trovava la donna priva di vita, strangolata con una cintura. Antenori si era costituito ai carabinieri confessando l’omicidio anche se non ha mai spiegato i motivi che avevano portato a quel gesto. Una vita ai limiti, sia quella vissuta da Antenori che quella vissuta dalla vittima ed è in un mondo fatto di emarginazione che rimarranno per sempre sepolte le ragioni della morte di Alfonsina. Antenori, durante il processo in primo grado in rito abbreviato, era stato sottoposto a perizia psichiatrica anche perché era portatore di una strana “disabilità”: nel suo cranio era rimasto conficcato un proiettile di piccolo calibro che lo aveva colpito durante un’aggressione e non era stato possibile rimuoverlo da parte dei chirurghi. Arteterapia in carcere, tra condivisioni emotive e vie di fuga di Caterina Simoncello ultimavoce.it, 24 gennaio 2022 Gianni Cagnoni, dottore in Psicologia clinica, ci regala delle riflessioni sulla sua esperienza di arteterapia in un carcere italiano. Esperienza raccolta nel suo libro “Arteterapia in carcere. Un particolare percorso di condivisione emotiva” e da cui scaturiscono considerazioni sul vero significato di riabilitazione carceraria. Iniziamo con una domanda a bruciapelo: perché l’arteterapia in carcere? Lei la chiama una vera e propria via di fuga. Espressione molto evocativa, soprattutto se inserita nell’ambiente carcerario... A dire il vero quando ho contattato per la prima volta la direzione della Casa Circondariale la mia intenzione era quella di mettermi a disposizione dei detenuti per dei colloqui di sostegno, alcuni anni dopo la mia laurea in Psicologia clinica. Fu la direttrice che mi spiegò che la strada per entrare e avere dei contatti con i detenuti poteva essere quella di presentare un progetto di arteterapia. Considerato che io ho sempre dipinto e realizzato mostre, l’ultima delle quali portava un titolo emblematico “Vie di fuga” mi sembrava utile proporre a loro le riflessioni che avevo fatto in quell’occasione. L’arte - parola molto impegnativa - è sicuramente una via di fuga dalla realtà. Non perché si ha paura di questa, ma per godere della libertà dai vari condizionamenti e sentirsi realizzati e in sintonia con quello che si produce. L’arte può essere una risposta alternativa possibile ai farmaci di cui oggi si fa forse fin troppo uso? Alternativa forse non è la parola giusta perché molti disturbi psichiatrici hanno bisogno anche del trattamento farmacologico in aiuto a quello psicoterapeutico. Sicuramente, però, dipingere o disegnare può essere di sostegno in certi casi lievi di disturbi dell’umore come le depressioni lievi (distimie o ciclotimie) o negli stati di ansia. Questo perché la pittura rappresenta un modo di comunicare ed esternare sulla tela tutta una serie di vissuti interni che solitamente vengo tenuti nascosti. E l’arteterapia in carcere era rivolta a questo. Quali sono state le sue paure prima di iniziare quest’esperienza? Nessuna paura. La serenità con la quale ho affrontato questo impegno è stata il mio punto di forza. I detenuti l’hanno immediatamente percepita e questo ha aiutato molto a stabilire dopo poco un rapporto empatico e di fiducia. Hanno capito che il mio atteggiamento non era giudicante ma del tipo “sospensione del giudizio” (epoché) nello stile degli scettici. Quali ostacoli burocratici ha incontrato? Direi abbastanza. Di certo i numerosi controlli cui sottostare prima di arrivare nell’area detentiva dove i detenuti hanno le celle. Gli ostacoli maggiori sono stati per me quelli di non poter utilizzare i colori e di dover sottoporre ogni fotocopia di appunti o articoli all’approvazione degli uffici dell’area trattamentale. Inoltre, la difficoltà di coordinamento dell’orario del laboratorio di arteterapia con gli orari degli altri servizi che i detenuti dovevano prestare. Continue interruzioni per notifiche di atti giudiziari o colloqui con i legali. Insomma l’attività di volontariato è, ovviamente considerata di seconda, terza o quarta classe! Spesso i detenuti approfittavano della sua presenza per porle domande sulla sessualità. Perché, secondo lei? È stata in un certo senso una sorpresa anche per me. Occorre considerare che i giovani detenuti puntano tutto il loro valore sulla forza fisica e sull’attività sessuale. Questa è considerata un punto di vantaggio rispetto ai rammolliti. Seppure giovani hanno molti figli e cambiano spesso compagne. Molti di loro al rientro a casa dopo una rapina pretendevano che la loro compagna fosse disponibile a fare sesso. Mi raccontavano che fare una rapina per loro era un grande piacere, indipendentemente dal ricco o povero bottino. Il sesso così completava l’opera. Questo perché il livello di adrenalina era, ovviamente, ancora alto. Il piacere era però fine a se stesso e il più delle volte slegato da un sentimento affettivo. Accanto a questa attività sessuale primordiale vi era una grande ignoranza nel funzionamento fisiologico dell’apparato riproduttivo e nella sua anatomia. Un detenuto rimase sorpreso quando ho spiegato che il sesso del nascituro è determinato dal maschio. Egli credeva che la responsabilità (per lui “colpa”) di aver avuto quattro femmine fosse della sua compagna. Che oltretutto aveva più volte rimproverato per non essere stata capace di dargli un figlio maschio. Qual è stato il momento in cui ha compreso di aver conquistato la loro fiducia? Direi abbastanza presto. Fissando un momento preciso, quando hanno chiesto al direttore della Casa Circondariale l’autorizzazione per dei colloqui individuali con me al termine del laboratorio di arteterapia. L’atteggiamento paranoico iniziale (tra l’altro di natura difensiva e normale anche in soggetti non ristretti) è stato subito sostituito da un sincero spirito di apertura e collaborazione. Anche il crescente numero di partecipanti era un segnale importante perché tale incremento era frutto di un passaparola con gli altri detenuti. Come ha usato le tecniche di arteterapia nel suo lavoro? Ho dovuto, ovviamente, adattarle al contesto formato da soggetti di età diversa, nazionalità straniere e con problemi psicologici più o meno gravi ma comunque differenti. L’art. 27 della Costituzione tratta della finalità della pena, la quale deve tendere alla rieducazione del condannato. Dopo questa esperienza, che idea si è fatto a riguardo? Una grande delusione. Da un lato perché l’organizzazione carceraria è tutta concentrata sulla sicurezza, per cui il comandante della polizia penitenziaria ha grande potere nelle decisioni sull’attività trattamentale. Dall’altro, la questione riguarda i responsabili delle iniziative deputate al detenuto. Preoccupati più degli aspetti burocratici che di quelli effettivamente efficaci al recupero psicologico dei detenuti. In modo da provocare una vera e propria conversione. D’altra parte occorre dire che l’unica preoccupazione del detenuto è quella di trovare la strada per accorciare la detenzione o avere permessi temporanei di uscita. Questo per iniziare ad assaporare una libertà che dalle statistiche dura poco visto che il 77% dei detenuti reitera il reato. La mancanza di volontà dei detenuti di avviare un percorso di recupero - supposto che nel carcere sia disponibile in maniera seria - impedisce qualsiasi miglioramento psichico. Le associazioni dei volontari che operano all’interno del carcere offrono un servizio di stampo assistenziale. Rivolto per lo più alle esigenze materiali (vestiti, pacchi ai familiari, raccomandazioni da buon padre di famiglia a sfondo religioso). Riportando la testimonianza di un detenuto nel testo si cita: “Spesso fisso l’angolo del soffitto e con la fantasia, corro nei miei prati verdi. Tutte le immagini di quel periodo sono vivide e fresche come l’aria al mattino”. Quando la libertà “esterna” è preclusa, è possibile mantenere uno spazio interiore nel quale rifugiarsi? La libertà “esterna” è sicuramente primaria. Perché “fuori” ci sono la famiglia, i figli, i genitori che premono sia economicamente sia affettivamente. Questi devono infatti nascondere o sminuire nei confronti di terzi la condizione socialmente umiliante del detenuto, qualsiasi sia il grado di parentela. Non sono in grado di rispondere se l’interiorità costituisca un luogo di rifugio per loro. Perché la caratteristica che domina ogni loro relazione, sia tra di loro che con gli esterni, è caratterizzata dalla menzogna. Quasi tutti attribuiscono la colpa al Giudice che ha sbagliato la sentenza o alla Polizia che ha falsificato le prove. Da quello che ho potuto capire non c’è alcun insight e autoconsapevolezza dei comportamenti criminali. Quale rapporto è emerso tra i detenuti e la loro idea delle regole e delle istituzioni? Le lamentele spaziano dalle regole di sicurezza perché troppo stringenti agli ambienti. Ma anche al cibo, agli orari, alle decisioni del Giudice di sorveglianza. Alle guardie, alla burocrazia, fino alle cure mediche, la mancanza di attività ludiche. Quali “identità” psicologiche ha maggiormente riscontrato tra i detenuti? Per quanto riguarda coloro con i quali ho potuto lavorare e dialogare direi che le patologie evidenti sono essenzialmente tre. Il disturbo asociale di personalità, il disturbo borderline di personalità e la dipendenza da alcool e sostanze. Ci sono poi alcuni detenuti che presentano tratti narcisistici e depressivi sotto soglia. Una frase del testo “Arteterapia in carcere” mi ha particolarmente colpita: “Molti psicologi sono convinti che la loro attività di sostegno debba servire a migliorare la vita della gente. Questa è una grande illusione […]”. Qual è quindi stato il suo ruolo all’interno del carcere? Quello di presentare un modello di pensiero alternativo al loro mantenendo sempre un atteggiamento sincero e non giudicante. Questa è stata la mia chiave per entrare in alcuni casi in contatto con loro, anche una volta finita la detenzione. Nel testo è presente un punto che potrebbe richiamare il fanciullino pascoliano. Scrive infatti di essere stato lei stesso a stupirsi dell’effetto terapeutico che ha suscitato il fatto di rendersi conto di avere ancora un bambino dentro di loro in grado di divertirli... È vero. Ho notato che i detenuti, in particolare quelli giovani, hanno un aspetto e un modo di ragionare da persone anziane. La maggior parte di loro non ha vissuto una fanciullezza e adolescenza serena e allegra. Hanno spesso saltato delle tappe evolutive per cui quando riesci a riportarli a quell’età mostrano un’allegria interna e una gioia mai provate prima. I loro sogni sono sogni tristi, preoccupanti, quasi incubi. Scoprire che disegnano come i bambini li ha divertiti. L’arteterapia in carcere ha permesso loro di recuperare un po’ di spazio del loro sviluppo che non conoscevano. La sorpresa per loro è stata grande. Ciò che per me è stato positivo è che non si sono spaventati nello scoprire questa dimensione. Anzi si sono sentiti arricchiti avendo uno strumento in più con il quale “giocare”. “Disegna l’animale che più ti rappresenta” è la tecnica da lei utilizzata che forse racchiude più di tutte il suo lavoro. Può parlarcene? Ho fatto comprendere loro sin dall’inizio che il laboratorio non era un corso di disegno e che io non ero un insegnante dell’Accademia delle Belle Arti. Nulla in ciò che disegnavano doveva rispettare canoni estetici. Nessun giudizio doveva essere espresso, nessun voto, nessuna bocciatura e nessuna promozione. L’idea di modificare il disegno cieco classico in un disegno cieco senza benda è nata dal fatto che in Carcere non si possono usare bende. Troppo pericolose! Ho pensato, allora, di far disegnare le loro rappresentazioni interne, in particolare di animali. La scelta dell’animale è stata pensata perché avevo notato che nei loro racconti c’era sempre un riferimento alla forza, alla furbizia, alla scaltrezza. Direi sicuramente che è stato il lavoro più interessante. Perché il disegno dell’animale è stato per ciascuno di loro un’occasione per pensare a se stessi. Così come alle loro caratteristiche e in alcuni casi ai loro desideri. Dal disegno dell’animale sono partiti dei racconti meravigliosi della loro infanzia o vita adulta con allargamento alla famiglia e agli altri affetti. Direi che nel libro questa è la parte non solo centrale (30 storie) ma anche più interessante, perché ha svelato dei vissuti ai più sconosciuti. Così, da manuale di arteterapia in carcere, si è trasformato, grazie a questi racconti, in un percorso di condivisione emotiva commovente. L’idea era quella di concludere questa intervista sull’arteterapia in carcere con una domanda diretta. Cosa si fosse sentito di aver lasciato nella vita di questi uomini. Ma credo di averla trovata in una lettera di uno di loro. Una lettera di ringraziamento seguente alla scarcerazione nella quale D.1 scrive: “Volevo e lo confermo, ringraziarla per quanto mi ha trasmesso ed avermi aperto nuovi orizzonti pur se nuovo sapere aggiunge spazi, in cui è più facile smarrirsi […]”. Così si scopre che sì, è possibile aprire nuovi spazi anche dentro mura che stanno strette. Creare incontri sinceri anche dove si è sotto sorveglianza continua. Spazi che certo fanno paura, nei quali è facile smarrirsi ma necessari se si vuole veramente parlare di riabilitazione nelle carceri. Covid: il bisogno di tornare a una vita normale di Walter Veltroni Corriere della Sera, 24 gennaio 2022 Il Paese è stremato: dobbiamo estendere le vaccinazioni e rafforzare la struttura sanitaria diffusa, rimuovendo anche qualche prescrizione di troppo, o contraddittoria con altre. Psicologicamente si sta facendo strada un sentimento di rinuncia alla vita collettiva, alla condivisione del tempo e delle esperienze. Abbiamo compiuto molte legittime forzature per contrastare la pandemia. Lo abbiamo fatto come e più di altri Paesi. Abbiamo ottenuto risultati che ci hanno consentito di frenare il virus. Non credo si possa rimproverare ragionevolmente nulla a chi ha avuto la ventura di affrontare questa sfida. E si è sforzato, nello stesso tempo, di garantire sostegni economici e di promuovere il recupero di prestigio europeo e internazionale dell’Italia. È stato questo il senso del lavoro di Sergio Mattarella e Mario Draghi. Un patrimonio per il Paese che sarebbe assurdo e pericoloso disperdere. Ma è stato decisivo anche lo sforzo generoso di milioni di italiani, capaci di rimboccarsi le maniche e di rispettare le regole. Così il nostro Paese ha sopportato e ha reagito alla sfida più dura dal dopoguerra. Ma forse ora è il momento di accompagnare allo sforzo di arginare l’epidemia una più chiara e determinata volontà di ritrovare urgentemente la normalità. Il Paese è stremato. Lo sono gli operatori sanitari, in primo luogo, capaci di sopportare questo tsunami che si è ripetuto a ondate molte, troppe volte in questi ventiquattro mesi. Tanti ne sono ormai passati, dal paziente zero. Ventiquattro mesi. Un periodo troppo lungo, che ha seminato di morte, ansia e fatica la vita dell’intero Paese, che ha portato alla perdita di un numero spropositato di vite umane - ogni giorno è come se cadesse un aereo - e alla scomparsa di posti di lavoro e di imprese, due dimensioni la cui comunità di destino è apparsa evidente in questo terremoto. I negozi con le saracinesche abbassate ormai dipingono di grigio il panorama urbano, trasmettono quel senso di svuotamento della nostra vita quotidiana che si è impadronito di noi. Le città si vanno spegnendo, anche senza lockdown. Psicologicamente si sta facendo strada un sentimento di rinuncia alla vita collettiva, alla condivisione del tempo e delle esperienze, una propensione a definire lo spazio imposto, la casa, come l’ambito in cui tutto si consuma: il lavoro, l’intrattenimento, la formazione. Come scrivemmo all’inizio della pandemia, misureremo sulla lunga distanza gli effetti di questa dimensione aliena del vivere sui ragazzi e sugli adolescenti. Perdere le prime esperienze di socialità, dalla scuola all’amore, è una ferita la cui portata i genitori e gli insegnanti misurano ogni giorno. I ragazzi che hanno scelto di ripararsi nella dimensione dell’hikikomori, la separazione dal vivere sociale nel bozzolo della propria casa, stano crescendo a dismisura. Stime parziali parlano di centomila persone ormai sparite dal vivere comunitario. Si moltiplicano tra gli adolescenti i disturbi del sonno, dell’alimentazione, del comportamento fino al limite dell’autolesionismo. Lo riporta drammaticamente una ricerca dell’Università Cattolica di Milano: “Il 40,7% degli adolescenti intervistati ha difficoltà a dare un senso a ciò che prova, il 34% afferma di non essere in grado di controllare il proprio comportamento quando è turbato, il 50% si arrabbia con sé stesso, il 69,3% degli adolescenti afferma che il Covid è diventato parte della propria identità, il 34,7% dice di fare fatica ad addormentarsi”. La perdita della integrità dell’esperienza scolastica, il suo frazionamento e l’incertezza sistemica che ha accompagnato questi due anni hanno pesato non poco. E bene ha fatto il premier Draghi a opporsi tenacemente al ricorso troppo facile alla Dad. Dice giustamente Stefano Vicari, responsabile della neuropsichiatria al Bambino Gesù: “Continuiamo a pensare che la scuola sia solo didattica: questo è un errore gravissimo. La scuola non può essere vista come luogo di preparazione al mondo del lavoro ma come luogo di formazione del carattere e della conoscenza. All’interno della scuola si cresce culturalmente, ma non solo. Ci si riscatta, ci si afferma. Anche chi appartiene a contesti umili, tramite la scuola può studiare e riscattarsi. Se la scuola non c’è, l’affermazione di sé passa attraverso valori negativi: le risse per strada, l’autolesionismo, i litigi violenti, con compagni e genitori. I giovani hanno necessità di ribellarsi, ma più riduciamo gli spazi di possibile “deragliamento”, gli spazi in cui possono infrangere le regole sotto lo stretto controllo dell’adulto - come appunto, le scuole - più queste ribellioni diventano violente”. Le città spente, i negozi chiusi, l’angoscia del lavoro, il turbamento dei giovani. Ora tutti insieme, con lo stesso coraggio con cui si sono imposte le necessarie restrizioni, dovremo affrontare la priorità del ritorno alla normalità. Altri Paesi stanno sperimentando vie che consentano di mettere la testa fuori dal tunnel. Studiamole e applichiamole. Anche rimuovendo qualche prescrizione di troppo, o contraddittoria con altre, e qualche farraginosità. Dobbiamo estendere le vaccinazioni, rivelatesi decisive, sostenere la scelta delle cure e rafforzare la struttura sanitaria diffusa. Ma dobbiamo accelerare verso la normalità. Verso il ritorno a una vita vivibile. Deve essere questo l’obiettivo di un Paese unito. Ogni misura che verrà assunta di qui in avanti deve essere decisa tenendo conto di questo essenziale parametro. Anche questa è un’emergenza. Dovremo convivere con questo virus. Abituiamoci a farlo. Seguendo le regole, ma senza rinunciare a vivere. I giovani e il Covid: ricostruiamo la fiducia nei nostri figli di Massimo Recalcati La Repubblica, 24 gennaio 2022 Ecco l’urgenza più grande: non sottrarsi all’appello dei ragazzi, saper rispondere al loro grido. Non lasciarli da soli e credere nelle loro risorse. Le vecchie generazioni devono dismettere gli abiti del paternalismo e del giudizio moralistico per imparare dalla forza inesausta della primavera. Esisterà una generazione Covid? I danni procurati dall’epidemia saranno paragonabili a quelli di un trauma? I nostri figli saranno destinati a essere le vittime delle brutali ferite aperte dalla pandemia? La compressione inevitabile della libertà che abbiamo dovuto subire in questo tempo prolungato di emergenza sanitaria è stata per loro indubbiamente più oppressiva che non per gli adulti. Tutto questo lascerà inevitabili strascichi psicopatologici? Ho già espresso in più occasioni pubbliche il mio giudizio: non ci sarà nessuna generazione Covid a meno che gli adulti non favoriscano questa tetra identificazione. Ma questo non significa affatto negare che il mondo dei giovani stia vivendo un momento estremamente difficile. Lo sanno bene coloro che come me si occupano direttamente della loro cura. Abbiamo visto e vediamo crescere il loro disagio e accentuare le sue manifestazioni più radicali: autolesionismo, somatizzazioni, ritiro sociale, dipendenze patologiche, panico e depressioni. Abbiamo visto e vediamo crescere anche il loro smarrimento e la rabbia, insieme all’angoscia e all’impotenza. Questo disagio diffuso deve essere intercettato e accolto. Non solo dagli psicoterapeuti, ma anche dalle istituzioni. Penso soprattutto alle famiglie e alla Scuola. Quale posizione tenere di fronte a questo malessere? In ogni sintomo adolescenziale è importante leggere un messaggio in cerca di destinatario. È quello che spesso accade anche nei passaggi all’atto autolesivi, nella rabbia che scatena la violenza, nell’uso smodato di sostanze o nei disturbi dell’apprendimento. Tutti questi sintomi di disagio sono come grida, invocazioni, messaggi, appunto, in cerca di un destinatario in grado di riceverli e di decifrarli. È questo un compito che spetta alle vecchie generazioni: bisogna provare a costituirsi come destinatari. Significa innanzitutto assumere la responsabilità di rispondere. I genitori sanno per primi quanto sia difficile. Ma anche gli insegnanti e gli educatori sono investiti dal dramma di questo appello tanto silenzioso quanto pressante. Ecco l’urgenza più grande alla quale questo tempo traumatico ci confronta: dare segno di ricevuta, non sottrarsi a questo appello, saper rispondere al loro grido. Significa in primo luogo non lasciare i nostri figli da soli. Nelle famiglie ma anche nella Scuola. Si tratta di ricostruire la fiducia nella relazione laddove la fiducia è stata brutalmente incrinata dalla violenza della pandemia che ci ha obbligati a interrompere le relazioni. È una emergenza psichica: gli obiettivi “didattici” della formazione devono essere subordinati alla cura particolare della relazione. Perché la relazione non è solo l’involucro esteriore della didattica, ma il suo stesso fondamento. Avere cura della relazione non significa affatto attribuire a questa generazione un destino fatalmente contrassegnato dai vissuti traumatizzanti della pandemia. Tutto il contrario: avere cura della relazione significa provare a fare diventare l’esperienza sconvolgente del Covid un’esperienza altamente formativa. È un passaggio di discorso necessario. Lo dobbiamo ricordare innanzitutto a noi stessi: l’ostacolo che diventa prova è il nucleo di ogni percorso di formazione. È quello che deve accadere anche oggi. Ma perché questo avvenga gli adulti devono avere anche fiducia nelle risorse inestimabili dei lori figli. Non a caso sono stati proprio loro a lasciare agli intellettuali angosciati dal vaccino e ai giornalisti televisivi che si improvvisano virologi le elucubrazioni No Vax, mostrando di avere inteso molto meglio delle vecchie generazioni il significato profondo della vaccinazione di massa come strumento fondamentale per rendere possibile, nei tempi più brevi, un ritorno collettivo alla libertà. Nessun vissuto complottista, nessun sospetto paranoide, nessuna farneticazione dietrologica, nessuna incertezza. La spinta alla vita di tornare alla vita si è rivelata nelle nuove generazioni assai più forte della nostra paura. È qualcosa che le vecchie generazioni dovrebbero sempre imparare dalle nuove: dismettere gli abiti del paternalismo e del giudizio moralistico per imparare dalla forza inesausta della primavera. Messico, il muro dei miliziani di Trump di Alberto Simoni La Stampa, 24 gennaio 2022 Viaggio fra le migliaia di disperati che cercano di entrare negli Stati Uniti. Il loro sogno si infrange nei campi profughi lungo il muro pattugliato da vigilantes in armi. La traversata dell’America centrale di Gualter si infrange al punto di frontiera di Nogales dove l’Arizona si mescola con il Messico. Qui migliaia di uomini, donne e bambini smarriscono le chiavi del proprio destino firmando la richiesta d’asilo per gli States. Un pezzo di carta stropicciato è la preziosa ricevuta. La domanda resta congelata in attesa che a Washington si trovi un modus per gestire la pressione ai confini meridionali dell’America. Gualter, 38 anni, ha impiegato quattro mesi per raggiungere Nogales. È partito dall’Honduras con la moglie 29enne e tre bambini, 9, 7 e 4 anni. “Abbiamo camminato, preso bus, auto, ci siamo accomodati alla meglio su cassoni di pick up, percorso sentieri con i bimbi in braccio o sulle spalle”. Tutto per poi trovarsi nel limbo di Nogales. Ospiti dell’Albergue San Juan Bosco, un rifugio-ostello messo in piedi oltre 40 anni fa da Gilda con la sua famiglia che si regge sulla generosità delle donazioni e sul lavoro senza sosta dei volontari. Un grande cartello “Bienvenidos” è il biglietto da visita; dentro ci sono camere con letti a castello, un piccolo refettorio e una cappella con una gigantografia del Santo e al momento 49 ospiti. “Non abbiamo mai rifiutato nessuno”, dice Gilda. Gli Stati Uniti stanno a una manciata di chilometri, 30 minuti a piedi, nulla in confronto alle migliaia di passi fatti per arrivare alla porta del sogno. Gualter lo racconta così il viaggio della speranza: “Ci spostavamo di villaggio in villaggio, trovavo un lavoro e mettevo insieme qualche spiccio che serviva per la tratta successiva”. Il puntino sulla cartina geografica che una sera ha indicato ai bimbi, “andremo a vivere lì”, è nel Mississippi: ci sono delle conoscenze, qualche aggancio. Ma la sbarra che divide le bodeguitas di tortillas a Placa Pesqueirra e il McDonald’s che troneggia da una collinetta al di là del confine, resta abbassata. Fabrizio Ordoñez non conosce Gualter, ma il suo destino potrebbe non essere diverso da quello del connazionale fermo a Nogales. Ordoñez fa parte di 300 honduregni partiti il 13 gennaio nella prima carovana dei migranti del 2022. “Fuggiamo da crisi economica e sicurezza”, dice con un sms a un volontario. Gli appelli di Biden (“Non venite”) scorrono via inascoltati. La marcia dall’America centrale e dal Sud America verso quella del Nord non conosce pause, fra carovane e viaggi della disperazione di famiglie e gruppuscoli vari. “Sono soprattutto honduregni, guatemaltechi e salvadoregni quelli che si spingono verso gli Stati Uniti”, spiega Silvia Dallatomasina, responsabile delle operazioni di Msf in Messico e America centrale. Ma stanno aumentando - aggiunge - haitiani, venezuelani e cubani. “Afghani, pachistani e africani invece sbarcano in Cile o in Brasile dove le regole di ingresso sono più leggere e da lì poi provano la traversata verso Nord”, dice la dottoressa. Per tutti l’approdo è lo stesso: sia deportazione, arresto, o lunga attesa nei campi di accoglienza, ormai sovraffollati lungo gli oltre tremila chilometri di confine, il sogno americano è una sbarra abbassata o un muro invalicabile o una traversata nel deserto che finisce fra le grinfie delle Guardie di frontiera statunitense o nelle mani di pattuglie di vigilantes armati messisi in proprio per “proteggere i confini”. Nell’anno fra settembre 2020 e 2021 ben 1,72 milioni di migranti sono stati intercettati dalle Guardie di frontiera statunitensi e 1,4 milioni sono stati espulsi immediatamente nei loro Paesi. I voli di rimpatri verso 19 Paesi sono aumentati rispetto al 2020 del 5%. Approfittando della pandemia, infatti, Donald Trump nel marzo del 2020 ha invocato il Titolo 42, un provvedimento che ha consentito, per motivi di salute pubblica, di snellire le deportazioni e le espulsioni: chi chiede asilo lo deve fare stando al di là del confine. Come Gualter. Biden non è riuscito a scostarsi da questo approccio, noto come “Remain in Mexico Protocol” cui ha chiesto nuovamente alla Corte suprema di esprimersi sulla legittimità. La sinistra del suo partito lo attacca per non aver affrontato di petto la situazione e aver seguito l’onda trumpiana sulla questione. Non basta per i liberal lo stop alla costruzione del muro lungo il confine decisa subito dopo l’insediamento. Attorno alla barriera si gioca anche la battaglia politica, almeno in Arizona, in vista delle Midterm elections. La candidata alla carica di governatore, Kari Lake, star della Fox News di Phoenix votatasi alla causa trumpiana, ha promesso che, se eletta, “finirà subito il bel muro di Trump”. Il piastrellista 29enne Orlando viene dallo Stato di Michoacan ed è nel limbo di Nogales da 6 mesi. Fugge dalle minacce di morte dei narcos. Ma anche il suo nome e quello della famiglia sono solo uno scarabocchio anonimo su una richiesta d’asilo. La tentazione di fare il salto nel buio, sfidare le guardie di frontiera, provare a balzare nel recinto statunitense da illegale ogni tanto lo inziga. Conosce qualcuno che l’ha fatto, tutti qui a Nogales conoscono qualcuno che ci ha provato. Tutti conoscono anche qualcuno che è morto al di là della barriera. Gilda racconta la storia di una coppia e della traversata nel deserto dell’Arizona. “Uno mi ha telefonato un giorno, ha detto che era a Houston. Solo”. Ma l’epilogo più drammatico non è un disincentivo scorrendo l’elenco di arresti, fermi e deportazioni. In novembre i “fermi” al confine sono stati 166 mila. Nella sola Yuma, Ovest dell’Arizona, sono state bloccate fra settembre e novembre 65 mila persone. Se Nogales è frastuono, negozi, schiamazzi, traffico, fervida confusione, a Sasabe, il più piccolo punto di frontiera dell’Arizona, nascosto ai grandi flussi ma non ai drammi, invece regna il silenzio. La barriera di sicurezza è alta 9 metri, i pannelli conficcati nel deserto formano un serpentone senza epilogo, si arrampicano sulle montagne seguendone il profilo e spariscono alla vista. La zona è elettrificata ma solo poche luci funzionano di sera dando all’area un aspetto spettrale. Giorno e notte le pattuglie delle Guardie di frontiera sfrecciano con pick up e furgoni lungo la lingua di asfalto. Il centro di detenzione è a poche centinaia di metri dal confine. Prima di Natale un gruppo di 116 migranti è stato preso e portato qui. Fra loro c’erano tantissimi bambini, il più piccolo aveva appena nove anni. Poche ore dopo erano oltre confine. Dinanzi al piccolo spaccio del paesino di 54 anime che ha una pompa di benzina, un bar che apre solo il sabato pomeriggio, una chiesetta e una scuola elementare, quattro uomini indossano una mimetica senza mostrine, distintivi, riferimenti a qualcosa di istituzionale. Fanno rifornimento alla pompa di benzina ai due pick up senza scritte, poi si allontanano fra le strade polverose del deserto nella riserva naturale Buenos Aires che costeggia il muro schivando ogni richiesta di spiegazione su cosa stiano facendo. “Just lunch”, solo un pranzo è la laconica risposta. Il 20 dicembre però il Southern Poverty Law Center ha diffuso un report in cui denunciava le operazioni di pattugliamento e di violenze contro i migranti da parte di vigilantes privati, organizzati in milizie. Battono il deserto palmo a palmo in cerca di gruppi di migranti capaci di sgattaiolare fra qualche crepa dal Messico, li fermano e li consegnano agli agenti dello Us Customs and Border Protection. Spesso li attirano verso falsi punti di ristoro fra Sasabe e il primo villaggio Arivaca e li braccano. Le operazioni delle milizie non sono una novità ma nel 2020 hanno ripreso nuovo slancio sull’onda delle teorie cospirazioniste di QAnon e “l’invasione degli stranieri”. A Sasabe scende il buio, da qualche parte gli uomini in mimetica danno la caccia ai migranti. A Nogales, intanto, Gualter si appresta ad accompagnare i bambini alla mensa. S’incunea fra le spalle, alza gli occhi e incrocia le dita. “Spero di entrare presto negli Estados Unidos. Con tutta la famiglia”, dice. Sul viso è dipinto il sorriso amarissimo di chi sa che il destino non è nelle sue mani. Turchia. Sfida Erdogan con un proverbio: reporter finisce in manette di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 24 gennaio 2022 Sedef Kabas aveva recitato il detto in tv e su Twitter. Tre massimi esponenti dell’Akp l’hanno attaccata. Poi l’arresto per insulti al presidente. “C’è un proverbio molto famoso che dice che la testa coronata diventa più saggia. Ma vediamo che non è vero. Il bue non diventa re entrando nel palazzo, ma il palazzo diventa una stalla”. Per aver citato questo proverbio circasso, in diretta sul canale della tv dell’opposizione Tele1, la nota giornalista turca Sedef Kabas è stata arrestata venerdì scorso. L’accusa è di “aver insultato il presidente Recep Tayyip Erdogan”, la stessa imputazione che dal 2014, anno di elezione del “Sultano”, è stata usata altre 160 mila volte contro i cittadini turchi ed ha prodotto 12.881 condanne. A prendere di mira Kabas - che aveva anche pubblicato il motto sul suo account Twitter, dove ha quasi 900.000 follower - sono stati tre massimi esponenti dell’Akp, il partito di governo. “Una cosidetta giornalista sta insultando clamorosamente il nostro presidente su un canale televisivo che non ha altro obiettivo che diffondere l’odio” ha cinguettato il portavoce di Erdogan Fahrettin Altun. “Maledico le brutte parole che prendono di mira il nostro presidente”, ha scritto sui social il ministro della Giustizia Abdulhamit Gül. “Insultare il presidente eletto della nostra nazione con espressioni brutte e volgare è un attacco alla volontà nazionale” è il tweet di Numan Kurtulmus, vice capo dell’Akp. Kabas è stata prelevata dalla sua abitazione in piena notte e detenuta in un hotel fino alla mattina di sabato quando è apparsa in tribunale. Lei, davanti al giudice, ha negato ogni addebito. Se condannata rischia fino a quattro anni di prigione. In sua difesa è scesa in campo l’opposizione. In primis la leader del Partito Buono Meral Aksener che ha lanciato un hashtag su Twitter pro-Kabas. “Questo andazzo finirà e la giustizia tornerà di nuovo in Turchia” ha scritto. Indignato anche il direttore di Tele1, Merdan Yanardag: “Arrestare una persona in piena notte per un proverbio è del tutto inaccettabile - ha detto - questo è un tentativo di intimidire i giornalisti, i media e la società”. Per il sindacato dei giornalisti della Turchia Tgs “l’arresto di Sedef Kabas per insulti al presidente è un grave attacco alla libertà d’espressione”. Nata a Londra nel 1970 Kabas ha lavorato per la Cnn International ad Atlanta e, nel 1998, ha ricevuto il premio per la migliore notizia di economia. È stata creatrice e conduttrice di programmi tv per Ntv, Atv, Tv8, SkyTurk e Trt2. Nel 2007 ha fondato la Sedef Kabas Communication & Consultancy, che offre, tra le altre cose, consulenza e corsi di formazione a imprenditori e politici. La legge che punisce il vilipendio nei confronti del presidente della Repubblica ha attirato le critiche della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha più volte definito illegittime le detenzioni sancite dai tribunali turchi nei confronti di imputati in attesa di processo per reati di opinione. Da tempo le ong denunciano violazioni della libertà di stampa che si sono fatte ancora più frequenti dopo il golpe fallito del 2016 quando sono stati arrestati decine di giornalisti e chiusi molti media giudicati ostili. Nella classifica del 2021 di Reporters sans frontières la Turchia è al 153simo posto su 180 Paesi. Nel mirino, però, non ci sono solo i giornalisti. Proprio in questi giorni l’autorità di controllo della radio e della televisione in Turchia, RTÜK, ha messo al bando la canzone della regina del pop turco Sezen Aksu “Vivere è una cosa meravigliosa” a causa di una frase su Adamo ed Eva, figure sacre anche per l’Islam. A criticare il brano era stato proprio Erdogan: “Nessuno può diffamare sua eccellenza Adamo, è nostro dovere spezzare queste lingue” aveva detto. Congo. Nell’inferno dimenticato di Ituri: l’eterna fuga di 70mila disperati di Michele Farina Corriere della Sera, 24 gennaio 2022 La vita per la gente dell’Ituri negli ultimi decenni è stata un’eterna fuga per la sopravvivenza. La testimonianza e il lavoro di Medici Senza Frontiere. Le immagini e le storie che Medici Senza Frontiere manda al Corriere vengono da un luogo di cui non si parla mai. Ha un nome che sembra sardo, e una storia che gronda dolore a ogni filo d’erba. Ituri è una rigogliosa e martoriata provincia nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo. Appena sopra quella del Nord Kivu, dove l’anno scorso è stato ucciso il nostro ambasciatore Luca Attanasio. La stessa natura lussureggiante dell’Equatore, una violenza se possibile ancora più fitta e persistente. Eppure Ituri non è quasi mai sulle mappe della diplomazia e della comunicazione, da lì di rado partono immagini e appelli che diventano virali su Instagram e Twitter. Ituri è un dimenticato inferno sulla Terra, dove i contrasti etnici tra Hema (pastori) e Lendu (agricoltori), alimentati prima dai colonizzatori europei e poi dai potenti di turno che si sono succeduti nella capitale Kinshasa, fanno da sostrato a conflitti per bande che partono da una grande radice (la guerra che ha fatto oltre 5 milioni di vittime alla fine degli anni Novanta, con il coinvolgimento di diversi Paesi africani) e che sfugge a ogni logica se non a quella del controllo caotico e capillare delle risorse minerarie. La vita per la gente dell’Ituri negli ultimi decenni è stata un’eterna fuga per la sopravvivenza: si scappa dalla propria capanna, dalla chiesa dove si è cercato inutilmente rifugio, persino dai campi di sfollati che non riescono a garantire sicurezza neppure se sorgono accanto a una base di Caschi Blu dell’Onu. Vampate di violenza, esodi di massa, emergenze sanitarie, anelli di una catena senza fine. Da cinque anni, denuncia Msf (attiva in Congo dal 1977), sono in aumento le violenze nel territorio di Djugu, nella provincia di Ituri. Gli ultimi scontri sono stati quattro attacchi consecutivi tra il 12 e il 28 novembre 2021 che hanno colpito le zone di Tché, Drodro, Paroisse, Luko e Ivo. Milizie armate hanno attaccato anche i campi profughi. L’ultimo, quello dove hanno trovato rifugio i civili in fuga, è il campo di Rhoe da cui arrivano queste immagini. Un rifugio precario con tante persone e poche risorse. “Io e i miei figli siamo ammalati da quando siamo arrivati qui” racconta Suzanne, una contadina di 52 anni di Dhedja, costretta a scappare per la seconda volta con i suoi tre figli. Suzanne ha visto persone morire per colpi di arma da fuoco e i suoi vicini venire attaccati con i machete. Solo negli ultimi mesi il campo di Rhoe ha contato 40.000 nuovi ingressi, che hanno portato a quasi 70.000 il totale della popolazione sfollata. Un susseguirsi di tende e prefabbricati che dalle foto aeree appare come una bianca città in mezzo a verdi colline. E’ a terra che si registrano le difficoltà. L’area nel distretto sanitario di Blukwa è di non facile accesso, e le organizzazioni umanitarie hanno una presenza ridotta a causa dei ricorrenti problemi di sicurezza. Chi cerca di recuperare cibo o legna fuori dal campo viene spesso attaccato a colpi di machete. “Le persone hanno dovuto affrontare molte traversie: il freddo, la mancanza di ripari e latrine. Gli scontri tra gruppi armati hanno portato a sfollamenti di massa, anche gli operatori sanitari sono stati costretti a fuggire afferma il dott. Benjamin Safari di MSF che era operativo a Drodro. “I bisogni sanitari sono enormi. Abbiamo avviato diverse attività per rafforzare la nostra risposta, in particolare per i minori sotto i 15 anni”. In origine, nel campo di Rhoe era stata allestita una semplice clinica, che trasferiva all’ospedale più attrezzato nella città di Drodro i pazienti bisognosi di cure intensive. Ma a seguito degli ultimi scontri, che hanno distrutto una parte del villaggio di Drodro e costretto le persone a rifugiarsi nel campo di Rhoe, le équipe di Msf hanno trasformato la clinica in un ospedale da campo. Nelle scorse settimane, i team di Msf hanno effettuato oltre 800 consultazioni a settimana, assistito 35 parti e offerto supporto psicologico a decine di pazienti. Team di promozione della salute hanno condotto attività di sensibilizzazione con l’obiettivo di rilevare casi di malnutrizione acuta, malattie con potenziale epidemico e fornire informazioni sui servizi per le vittime di violenza sessuale. “Anche se c’è qualcuno che sta iniziando a tornare a casa, per via della fragile calma delle ultime settimane, i bisogni rimangono elevati e il nostro accesso alle persone è limitato” afferma Davide Occhipinti, capo progetto di Msf a Drodro. “Non saremo in grado di seguire queste persone a Drodro a causa delle condizioni di sicurezza. E chi resta a Rhoe non ha un posto stabile dove vivere. Le comunità sono trascurate da troppo tempo e non risolveremo i loro problemi con bende e medicinali. Il governo congolese e i suoi partner internazionali devono assumersi la responsabilità di invertire questo circolo vizioso che porta a un numero sempre maggiore di morti, feriti e sfollati” conclude Occhipinti di MsF. I disperati dell’Ituri sono sfiniti. Il campo di Rhoe, a circa 50 chilometri dal capoluogo Bunia, oggi ha lo stesso numero di abitanti di una città come L’Aquila o Pavia (con 35 mila minori e un bagno-latrina ogni 1.300 persone). Un paio di anni fa all’ospedale di Bunia, un ragazzo chiamato Batsi Lokana aveva rilasciato una testimonianza all’Economist. Prima di perdere conoscenza per le ferite, Batsi aveva visto gli assalitori “tagliare a fette” la testa di sua madre. “Quando mi sono svegliato, il suo corpo non c’era più. O l’hanno mangiata, o l’hanno gettata nel fiume”. Alcune bande armate dell’Ituri sono dedite al “cannibalismo rituale”. Il gruppo principale, che un paio di anni fa si è diviso in diverse fazioni, si chiama come un consorzio agrario: Codeco, Cooperativa per lo sviluppo economico del Congo. Era nato con altre intenzioni nel 1977. Oggi il suo nome suona come una beffa atroce. Il nome di una grande cooperativa di morte. Afghanistan. Le prigioni di Kandahar di Francesca Mannocchi La Stampa, 24 gennaio 2022 Viaggio nella città simbolo del Mullah Omar tornata sotto il controllo dei taleban. Liberati i leader jihadisti, oggi in cella vengono rinchiusi i consumatori di oppio. Fazal Mohammed vive nel distretto di Zhari, lungo la strada che da Laskargah arriva a Kandahar, con la moglie e i suoi cinque figli. La casa è umile, sono di fango e paglia le mura delle stanze così come le scale che conducono alle strutture dove Fazal tiene i frutti del suo raccolto. Quando un razzo ha colpito la stalla in cui teneva il bestiame, uccidendo tutte le mucche che aveva, Fazal che non aveva soldi per ricomprarle, né risparmi per mandare avanti la famiglia, ha cominciato a coltivare papaveri d’oppio. Più economico, più sicuro. Da quando i taleban controllano la città è tornato a riposare. Non ci sono più attentati lungo la strada, e può spostarsi fino a Kandahar anche quando cala il sole, i suoi figli giocano nel terreno senza il timore di essere uccisi da un razzo e poi non deve più pagare i soldati ai check point. La tariffa mensile che i contadini e i pastori dovevano ai soldati dell’esercito regolare, fino allo scorso agosto, era di 400 afgani al mese, a cui si aggiungeva un quarto del raccolto, a ogni raccolto. Nessuno dei figli di Fazal frequenta la scuola ora, né la frequentava prima. Il prima, qui, nei villaggi del sud dell’Afghanistan, è un concetto appeso alle categorie della cronaca, che non sono quelle della storia. La storia, qui, ha chiuso il cerchio, riconsegnando ai taleban la loro capitale spirituale, la città simbolo in cui il Mullah Omar ha dato vita al gruppo nel 1994, capitale che non hanno mai lasciato, costantemente in contatto con i leader esiliati della shura di Quetta, in Pakistan. Gli effetti della guerra Fazal li ha sul muro di casa distrutto dall’RPG e li trattiene nella memoria. Hanno le sembianze di soldati statunitensi che fanno irruzione nel villaggio, spostano le donne e i bambini su un lato della strada e gli uomini dall’altro, con i polsi legati, soldati che bloccano i villaggi per tutta la notte, in cerca di informazioni, nascondigli, sospetti collaboratori, e poi vanno via, caricando sui veicoli militari una manciata di uomini. Fazal non è stato mai portato via ma, dice, ricorda il pianto dei figli e l’umiliazione delle donne, esposte allo sguardo di sconosciuti. Per questo oggi, quando vede la bandiera talebana in strada, non è solo sollevato, è felice. Non è complicità, la sua, non è (solo) sostegno al gruppo. È soprattutto il desiderio di sicurezza ad animarlo. Anche la strada che conduce a Kandahar, la National Highway 1, porta i segni della guerra, sull’asfalto ci sono ancora le voragini causate dalle esplosioni degli ordigni che i taleban piazzavano per colpire i mezzi della coalizione e dell’esercito regolare afgano. Una strada pensata per unire cinque province, Kabul, Wardak, Ghazni, Zabul e Kandahar e costata agli americani 300 milioni di dollari che si è trasformata nel tempo in quella che gli afgani chiamano “la strada della morte”. Oggi, sui resti degli attentati che l’hanno segnata e che hanno ucciso oltre ai soldati, centinaia di cittadini afghani, sventolano le bandiere dell’Emirato Islamico. All’entrata della città, circondata da torri di guardia e da un anello di barriere di cemento sormontate da filo spinato, c’è la prigione di Sarposa. Fino ad agosto i 1000 detenuti erano quasi tutti taleban, oggi la prigione ospita quasi solo consumatori di droga. La prigione di Sarposa segue e spiega la storia del movimento, nel 2008, due attentatori suicidi taleban si fecero saltare in aria davanti al cancello uccidendo 15 guardie. Furono 1.200 i detenuti evasi, quasi tutti combattenti e comandanti taleban. Dopo l’attentato il complesso fu fortificato e illuminato, protetto da tre check point e cancelli, per impedire un’altra fuga di massa. Invano. Tre anni dopo, nel 2011, 500 uomini fuggirono attraverso un tunnel di 300 metri che collegava l’ala dei prigionieri politici, cioè i taleban, alla strada principale, cioè “la strada della morte” Kabul-Kandahar. Un’operazione pianificata per mesi e impossibile senza la complicità delle forze di sicurezza della prigione. Dopo la colossale evasione, Zabiullah Mujahid, che era già allora portavoce del movimento disse: “Avevamo il supporto di professionisti qualificati per scavare il tunnel, avevamo soprattutto il supporto della nostra gente”. Gli “amici”, spiegò, facendo riferimento ai soldati dell’esercito afghano informati e conniventi, avevano fornito non solo copertura per mesi ma anche le copie delle chiavi delle celle da cui i taleban detenuti erano usciti cinque alla volta per evitare il rumore. Alla fine del tunnel, disse Mujahid, c’era un gruppo di attentatori suicidi pronti a farsi saltare in aria se qualcosa fosse andato storto. Dopo l’attacco del 2011 la prigione rimase quasi svuotata, gli evasi ripresero le armi e ricominciarono a combattere contro le forze della Nato. Lo scorso agosto, quando i taleban hanno ripreso la loro capitale spirituale, la prigione di Sarposa è stato il primo edificio a essere conquistato. Hanno sostituito la bandiera afghana con quella del gruppo e liberato i prigionieri, cioè i loro combattenti. Nell’offensiva di agosto che li ha portati alla guida del Paese, hanno seguito la stessa modalità ovunque: prima assediare i distretti, i villaggi e le città, e una volta dentro liberare per primi i membri del gruppo, persone esperte che avrebbero rafforzato i ranghi dei combattimenti successivi. Una classica strategia operativa jihadista: prendere di mira le prigioni per liberare i leader dalla detenzione ma anche alimentare la propaganda contro gli avversari, rigenerare la forza armata, e comunicare ai taleban detenuti, spesso membri di alto valore, che i taleban combattenti non li avevano lasciati soli. Operazioni, dunque, a basso costo e massima ricompensa. Ecco perché la storia del gruppo, la sua longevità e la sua forza, si scrive anche sulla storia delle prigioni. Dagli assalti alla sola prigione di Sarposa, a Kandahar, in 5 anni tra il 2008 e il 2015, furono liberati 2000 combattenti, tra loro le figure di spicco che hanno tenuto saldo il consenso e pianificato la battaglia. Oggi all’entrata di Sarposa c’è una scritta che recita: “Non accettiamo la dipendenza dalle droghe, qui dentro sarai curato e un giorno potrai essere di nuovo utile alla società”. All’interno ci sono 600 detenuti per dipendenza dalle droghe, e qualche decina di criminali comuni. I detenuti politici di allora, i taleban, non ci sono più, perché sono al comando della città. A dirigere la prigione il molavi Mansour, avvolto dal suo patu grigio, il capo coperto dal turbante bianco, mentre cammina nello spiazzale i detenuti gli baciano le mani e lui non li frena, ha lo sguardo ruvido e aggressivo di chi si muove tra le celle perché ne ha familiarità. Non quella del capo, ma quella del detenuto. Mansour è stato detenuto nella prigione della base statunitense di Bagram per cinque anni. Secondo Human Rights Watch, a Bagram prigionieri erano incatenati, tenuti intenzionalmente svegli per lunghi periodi di tempo, bagnati ripetutamente con acqua gelida d’inverno, presi a calci e pugni per convincerli a parlare. Nelle celle di Bagram sono stati reclusi, per anni, anche duecento bambini. Ecco perché quando il molavi Mansour dice “so cosa significhi essere un prigioniero” le sue parole lasciano nell’aria la scia del desiderio di vendetta. La terra intorno Kandahar, i chilometri che conducono alle case di fango e paglia, sono la prova che qui sia la geografia a fare la storia. Villaggi inconquistabili, e per questo inconquistati, dalla Pax Americana, dove i combattenti sono fuggiti, tornando alla vita rurale, aspettando il tempo giusto per regolare i conti e vincere la guerra, mentre intorno franava il progetto della costruzione delle istituzioni afghane che si trasformavano in un’élite avida, in un pozzo senza fondo di denaro alla mercé dei signori della guerra, delle loro ruberie e dei guadagni degli appaltatori internazionali. “Il Paese ha resistito, i nemici sono fuggiti dal Paese, e finalmente abbiamo ottenuto la nostra indipendenza”, Ahmed Saed è il responsabile del dipartimento Cultura e Informazione istituito dai taleban a Kandahar, ha una bandiera talebana attaccata al muro con quattro pezzi di scotch, un mappamondo sulla scrivania e i libri, ordinati, sugli scaffali, un block notes su cui scrive a mano le autorizzazioni richieste. Tutto restituisce l’immagine di modestia e onestà che il gruppo vuole trasmettere, quella su cui ha costruito il consenso, come quello di Fazel Mohammed, il pastore diventato coltivatore d’oppio “oggi la nostra gente vive al sicuro, questa è la cosa più importante, se lo ricordino quelli che per anni hanno invocato i diritti, facendo incursione di notte nelle nostre case, e uccidendo la nostra gente. Quelli che dicono di aver portato denaro di cui la nostra gente non ha beneficiato”. Le donne, lungo le strade di Kandahar non ci sono, dice la cronaca. Non c’erano neanche prima, dice la storia. E lo conferma Saed: questa è l’applicazione della legge islamica, è così che abbiamo governato, è così che continueremo a farlo, in nome di Allah e sostenuti dalla gente. Osserva il mappamondo sulla scrivania, scrive a mano il foglio che consente agli stranieri di lavorare e fare domande. E ne concede una, l’ultima. Cos’è, Saed, la democrazia? Sorride, poi dice: “Guantanamo”.