Mettere insieme le forze, le risorse, gli sguardi sull’esecuzione delle pene a cura della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 23 gennaio 2022 In tanti, fra Garanti dei diritti delle persone private della libertà ed esponenti del Volontariato e del Terzo Settore, si sono collegati, martedì 18 gennaio, all’incontro online indetto dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia insieme ai Garanti per monitorare la ripresa nelle carceri delle attività in presenza, cercare di evitare chiusure repentine e spesso poco utili, rilanciare l’azione del volontariato, sostenere le realtà territoriali più deboli, cercare di rafforzare le uniche cose buone “regalate” dal Covid, cioè l’uso massiccio delle tecnologie per sostenere i legami affettivi e i percorsi rieducativi. E per lavorare perché dalle tante parole spese sulle condizioni delle carceri si passi alla concretezza dei provvedimenti, a partire da quelli che richiedono semplici azioni amministrative. Anche perché si respira tra i detenuti un clima di perdita di speranza, di fatica, di rabbia, reso più pesante dal fatto che i colloqui avvengono ancora con il divisorio in plexiglas e le famiglie non riescono in alcun modo a rendere meno dolorose le vite dei loro cari dentro carceri sempre più isolate dal mondo. Nel corso dell’incontro, condotto dalla presidente della CNVG, Ornella Favero, con il Garante Nazionale Mauro Palma e il portavoce della Conferenza dei Garanti Territoriali Stefano Anastasia, hanno preso la parola numerosi garanti territoriali e referenti degli enti del terzo settore. Unanime la preoccupazione per la situazione degli istituti di pena, pesantemente condizionata dal sovraffollamento e aggravata dalla forte ripresa della pandemia, che ha già indotto parecchie direzioni a chiudere le attività trattamentali, talvolta con scarne comunicazioni e drastiche sospensioni “sine die”. Tutto questo esattamente nella stessa maniera in cui è avvenuto nella drammatica fase iniziale del Covid, come se non fosse stato fatto tesoro degli errori, anche comunicativi, compiuti in quei giorni. Non é chiaro, tra l’altro, quanti operatori penitenziari e quanti detenuti siano effettivamente vaccinati con le modalità indicate per la popolazione, e si tratta di dati importanti da conoscere se si vuole che non si sollevino allarmi ingiustificati sul rischio di una diffusione dei contagi, nonostante attualmente nelle carceri le persone effettivamente malate gravi siano, per fortuna, un numero molto ridotto. Chi ha partecipato all’incontro ha condiviso la valutazione della necessità che dai vertici dell’Amministrazione penitenziaria giungano direttive chiare, anche (ma non solo) sulle prassi collegate al contrasto della diffusione del contagio da mettere in atto in modo omogeneo negli istituti. In un incontro organizzato in videoconferenza lo scorso anno, subito dopo il lockdown, avevamo parlato della necessità di far funzionare stabilmente la collaborazione tra Ufficio del Garante nazionale, Garanti territoriali delle persone private della libertà e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e sue articolazioni regionali. Poniamoci allora realmente come obiettivo un reciproco coinvolgimento stabile nella progettazione e programmazione dei percorsi di reinserimento dal carcere al territorio, a partire dall’esigenza di riportare al centro della vita detentiva la Costituzione, e quell’articolo 27 che vale per tutti, nessuno escluso, e ha come obiettivo non la costruzione del “bravo detenuto, che sa farsi la galera”, ma il rientro e l’inclusione nella società. Forte é la richiesta che la Ministra metta in atto ogni sforzo per migliorare in modo sostanziale la vita detentiva a partire sia da ciò che può essere fatto immediatamente per via amministrativa (per esempio rendendo estesa in tempi e orari la possibilità di telefonare e/o videochiamare i propri famigliari, anche per chi non lavora e non ha risorse personali). Ma servirebbe subito un provvedimento urgente di concessione di liberazione anticipata speciale, anche per compensare le enormi difficoltà e sofferenze a cui la popolazione detenuta é stata sottoposta dall’inizio della pandemia. Se si iniziasse con un po’ di coraggio un percorso virtuoso di “compensazione” del troppo dolore di questi due anni di galera+virus con una liberazione anticipata speciale, un giorno di libertà restituito per ogni giorno vissuto nel carcere della pandemia, i numeri del sovraffollamento scenderebbero in modo significativo, e allora si potrebbe davvero cominciare a “rivoluzionare” un sistema, che è immerso in una crisi sempre più profonda. Pensare di cambiare alcune norme non basta però, sono le persone che quelle norme le hanno applicate e le dovranno applicare che prima di tutto devono mettere in discussione il loro modo di porsi di fronte alla realtà nella quale vivono e operano, partendo da un’analisi seria dei motivi che in questi anni hanno paralizzato le necessarie riforme, fra i quali quell’assenza di efficaci strumenti di controllo, che ha permesso che un Ordinamento, che ha più di quarant’anni, sia in buona parte ancora disatteso. Nella convinzione che oggi è fondamentale mettere insieme le forze, le risorse, gli sguardi rispetto a questi temi, chiederemo un incontro urgente in videoconferenza ai vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per iniziare un confronto, che deve diventare un momento stabile di verifica di quello che si può e si deve fare per avviare un cambiamento significativo dell’esecuzione delle pene. Amnistia e indulto, è ora di riportare il carcere nei binari della Costituzione di Vincenzo Comi Il Dubbio, 23 gennaio 2022 L’appello dei penalisti romani: i giudici del Distretto non restino insensibili al grido di dolore dei detenuti. “Solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata”. Pubblichiamo l’intervento del presidente della Camera Penale di Roma, avvocato Vincenzo Comi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto della Corte di Appello di Roma. I giudici del Distretto non restino insensibili al grido di dolore dei detenuti e rispettino l’articolo 27 della Costituzione. A nome degli avvocati penalisti romani - pur consapevole delle numerose e gravi criticità che viviamo quotidianamente sulla nostra pelle - desidero rivolgere il pensiero e l’attenzione in questa occasione ai 5.548 detenuti negli istituti del nostro distretto. Il livello di sviluppo di una società si misura sulla condizione degli ultimi, di coloro che vivono nella situazione più difficile. Noi avvocati penalisti romani siamo tra i testimoni più diretti delle condizioni dei detenuti negli istituti di Regina Coeli, di Rebibbia e degli altri penitenziari del nostro distretto. Ed è a loro che rivolgiamo il nostro pensiero insieme all’invito più convinto al presidente della Corte di Appello Dott. Giuseppe Meliadò, al Procuratore Generale dott. Antonello Mura, a tutti i magistrati del distretto a impegnarsi ad assicurare loro le garanzie e i diritti, a non trascurare l’umanità dell’esecuzione penale a rifuggire la concezione populista del processo penale. Ricordiamoci sempre che ogni detenuto è un essere umano. Non possiamo restare muti rispetto al grido di sofferenza che proviene da donne e uomini che, già privati della libertà personale, vivono oggi una condizione inumana e degradante. Non possiamo tollerare che le condizioni di sovraffollamento carcerario, il deficit di personale amministrativo, di polizia penitenziaria e di magistrati di sorveglianza impediscano il perseguimento dello scopo della pena e determinino la violazione lacerante del dettato costituzionale. La situazione si è ancora più aggravata a causa dell’emergenza sanitaria che ha pregiudicato i rapporti dei detenuti con il mondo esterno e prima di tutto con le famiglie e con i difensori. Il numero dei positivi in carcere cresce vertiginosamente in queste ultime settimane (35 positivi oggi a fronte di 17 della scorsa settimana). È aumentato drammaticamente negli ultimi anni il numero dei suicidi in carcere (54 in Italia nel 2021 e 5 già nel 2022) ed è solo di pochi mesi fa la notizia di una madre che è stata costretta a partorire in una cella del carcere di Rebibbia, episodio sul quale la nostra Commissione Carcere ha effettuato approfondimenti e verifiche. Nei giorni scorsi i detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Viterbo hanno attuato forme non violente di protesta per le condizioni di abitabilità e di riscaldamento delle celle e degli spazi comuni, come ha riscontrato il dott. Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a privazione della libertà personale della Regione Lazio. Mancano idonee strutture per garantire la custodia e le cure dei detenuti affetti da malattie fisiche e psichiche e le REMS purtroppo restano solo una soluzione sulla carta a causa del numero di posti troppo esiguo rispetto alle richieste. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia quasi un terzo della popolazione carceraria del Lazio è in attesa di giudizio e un terzo è reclusa per scontare una pena inferiore a cinque anni. Questo solo dato dovrebbe costituire oggetto di riflessione per la Magistratura: appare evidente che la custodia cautelare in carcere sia divenuta di fatto una sorta di anticipazione della pena, piuttosto che l’extrema ratio disegnata dal legislatore. Abbiamo il dovere di mettere al centro del nostro dibattito culturale - prima che giudiziario - il tema delle condizioni dei detenuti, dell’esecuzione della pena e delle misure cautelari a Roma e nel Lazio. Dopo il fallimento, nel 2018, degli “stati generali dell’esecuzione penale” è il momento di lavorare per una riforma innovativa e nel rispetto dei diritti fondamentali dei condannati. La sensibilità culturale e politica del Ministro della Giustizia Marta Cartabia rende maturi i tempi per un intervento non più procrastinabile; è il momento di ripensare alle modalità di esercizio del potere fisico dello Stato sui cittadini, rientrando nel solco tracciato dalla Costituzione. Serve subito un provvedimento emergenziale che restituisca legalità all’esecuzione penale: ogni ora persa su questo terreno è un danno ingiusto che lo Stato infligge a soggetti di cui dovrebbe avere la cura e la custodia. Amnistia e indulto, che vengono evocati da tempo come possibili rimedi, restano la strada maestra. Ma se le maggioranze politiche non consentissero di percorrerla, si batta almeno la via della liberazione anticipata speciale, magari affidando la decisione alle direzioni delle carceri, come propone il partito Radicale, da sempre in prima linea per le battaglie a difesa dei diritti dei detenuti. La Camera Penale di Roma ha già deliberato - non appena sarà possibile - l’organizzazione di una iniziativa sul carcere nel Lazio che coinvolga la società civile, le numerose associazioni che si occupano dei detenuti, gli operatori penitenziari, la Polizia Penitenziaria e la magistratura di Sorveglianza. Il carcere non deve restare una discarica sociale di cui è meglio non parlare, ma deve diventare l’oggetto centrale dell’attenzione collettiva che si plasmi sulla sensibilità e sulla consapevolezza dei principi costituzionali che ispirano la finalità della pena. Non possiamo assistere alla perdita della speranza dei detenuti, non possiamo tollerare una visione carcerocentrica della pena e non possiamo accettare le condizioni disumane in cui vivono molti detenuti. Basta con le parole, non c’è più tempo. E non vogliamo più morti in carcere, sofferenze o violenze. Noi vogliamo che sia garantito il rispetto dei principi contenuti nell’articolo 27 della nostra carta costituzionale. Solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata. Nei tribunali è l’ora del confronto sulle riforme di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2022 Politica e magistratura. Cartabia: “Lo status quo ha dato pessima prova di sé”. Negli uffici giudiziari le valutazioni sui progetti del Governo. Se “è sotto gli occhi di tutti che lo status quo non ha dato buona prova di sé”, come ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia intervenendo ieri a Reggio Calabria, allora le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario, tradizionale appuntamento utile a fare il punto anche sui rapporti, il più delle volte pessimi o almeno critici, tra politica e giustizia, hanno rappresentato ieri un punto di svolta. O almeno di crescita di consapevolezza. Perché nei vari uffici giudiziari, oltre a non essere segnalate all’esterno forme di protesta, alle quali si era in qualche modo abituati, emerge la volontà, negli interventi dei protagonisti della giurisdizione (dai magistrati agli avvocati), di affrontare in maniera costruttiva una fase realmente nuova. Quella di riforme che investono i vari settori del diritto, dal civile al penale, corroborate, anche sul piano organizzativo, dalle risorse del Pnrr. Dove la fuoriuscita dall’emergenza sanitaria che ha investito anche l’amministrazione della giustizia si intreccia a una crisi della magistratura, ancora ieri qualificata, da Firenze, come uno “tsunami” dal vicepresidente del Csm David Ermini e che trova eco in numerosi interventi della giornata. In quello del Procuratore generale di Napoli Luigi Riello, per esempio, per il quale occorre dire “basta con i giudizi secondo cui tutti i magistrati sono un incrocio tra Carnelutti e Calamandrei: in tal modo, ci troviamo di fronte a capi degli uffici magistrati non dirado inadeguati, qualche volta non propriamente equilibrati”. E per la Pg di Milano Francesca Nanni, è necessario “il rifiuto da parte di tutti gli operatori di ogni forma di ideologia, intesa come sistema concettuale e interpretativo che costituisce la base politica di un movimento o di un gruppo sociale; sistema che spesso ha fortemente condizionato l’agire in giudizio così come i rapporti fra le diverse categorie impedendo o quantomeno rendendo difficile una valutazione obiettiva delle circostanze”. È questa piuttosto la “stagione dei doveri” e dell’“impegno incondizionato”, come sottolineato dal Pg di Roma, Antonio Mura, che invita a interventi in grado di assicurare qualità ed efficienza, senza arretramenti sul piano delle garanzie. Dove peraltro Mura ricorda che sono proprio gli uffici del pubblico ministero ad essere trascurati dal piano di interventi pubblici. E certo, nel merito, sulle misure già approvate gli accenti sono diversi e, a volte molto, duri. Se a Milano l’improcedibilità, faticoso punto di equilibrio raggiunto in estate dalla maggioranza di Governo per dare un po’ più di certezza alla durata dei procedimenti penali, non è ragione di particolari allarmismi, a pochi chilometri di distanza il Pg di Torino Francesco Saluzzo invece attacca: “l’improcedibilità si comporterà come se in un pronto soccorso venisse fissato un tempo massimo di permanenza. O si viene chiamati e curati entro quel termine oppure si torna a casa a spegnersi senza cure”. Ma centrale è anche il tema del personale, dove la scommessa sull’Ufficio del processo, generalmente accolta con favore dalla magistratura, si accompagna all’allarme per la situazione di forti scoperture in organico, con uffici giudiziari come quello di Monza dove toccano il 30%, cui potranno, ma solo in parte, porre rimedio i concorsi in via di svolgimento, peraltro con fortissime difficoltà a selezionare candidati con livelli adeguati di preparazione soprattutto nelle prove scritte. Del resto, lo scarso numero di magistrati, ma anche di personale amministrativo, è una criticità segnalata anche dal Presidente della Cassazione Pietro Curzio che ha ricordato come in Italia il personale impiegato nel sistema giustizia è sensibilmente inferiore a quello di altri paesi europei. Il confronto con la Germania, per esempio, è impietoso: in Italia ogni 100.000 abitanti ci sono 11 giudici affiancati da 37 amministrativi; 3 pubblici ministeri affiancati da 14 amministrativi; 388 avvocati. In Germania ogni 100.000 abitanti ci sono 24 giudici affiancati da 65 amministrativi; 7 pubblici ministeri affiancati da 14 amministrativi e 198 avvocati. E Cartabia ieri ha ricordato come in questo contesto, il compito del ministero “è essenzialmente quello di assicurare più risorse e più strumenti a tutti gli uffici giudiziari, perché possano svolgere sempre al meglio la loro altissima funzione”. Un nuovo corso per la giustizia, le toghe fanno mea culpa di Valentina Stella Il Dubbio, 23 gennaio 2022 Processi lunghi, edilizia a pezzi e risorse scarse. Dopo la cerimonia di ieri in Cassazione, oggi si inaugura l’anno giudiziario in tutte le Corti di Appello d’Italia. Meliadò: “Un’alleanza tra magistratura e avvocatura per salvare i diritti”. Per il presidente della Corte di Appello di Roma, il dottor Giuseppe Meliadò, “i dati danno atto della forte ripresa dell’attività giudiziaria presso tutti gli uffici del distretto e confermano come non fosse velleitaria la previsione della possibilità di riavviare, in tempi ravvicinati, le strategie di riduzione dell’arretrato perseguite dalla magistratura romana”. Certamente, prosegue Meliadò, “in presenza di dati che confermano come a tutt’oggi l’arretrato della Corte di appello di Roma costituisce quasi il 20% dell’arretrato nazionale civile e penale, trasformando il problema dei tempi del processo a Roma in una questione giudiziaria nazionale, non pare contestabile che l’aumento degli organici della corte di appello capitolina rappresenti uno dei principali snodi del cambiamento dell’organizzazione giudiziaria italiana”. In questo contesto, “che non rassicura, ma non consente di guardare indietro, nell’anno che si è chiuso e proseguita nel nostro distretto l’azione comune fra la magistratura e l’avvocatura che si è rivelata decisiva per proseguire l’attività giudiziaria, garantendo la tutela dei diritti, in una situazione inedita ed eccezionale” ha aggiunto. Ma nello specifico di quali dati parliamo? Per quanto concerne il settore civile “la Corte di Appello di Roma ha diminuito del 5% le pendenze, con un aumento delle definizioni del 18%, e soprattutto che in un solo anno è riuscita a contrarre del 18% le pendenze ultrabiennali, e che il Tribunale di Roma ha ridotto le pendenze del 3%, con un aumento delle definizioni pari al 18%, nonostante un aumento delle sopravvenienze del 10%. Il dato complessivo del distretto per il settore civile evidenzia, in sintesi un aumento delle definizioni nella misura del 9% e un abbattimento delle pendenze nella misura dell’8%.”. I dati del settore penale, invece, si rilevano “più problematici ma non in controtendenza. Le pendenze presso la Corte non hanno, tuttavia, subito, un ulteriore aggravamento e sono rimaste sostanzialmente inviariate (48066 processi finali a fronte dei 48133 dell’anno scorso; ma erano ben 52482 appena tre anni fa), mentre presso i Tribunali ordinari si registra una diminuzione del 6,7% delle pendenze del dibattimento monocratico, ma un aumento del 4,7% di quelle collegiali”. Non poteva mancare un focus sull’Ufficio per il Processo: “Sta creando ampia apprensione fra i capi degli uffici, specie per i problemi logistici che induce, a fronte di una edilizia giudiziaria spesso insostenibile, e di cui Roma costituisce esempio fra i più vistosi. Ma anche fra non pochi magistrati per il cambio di mentalità che comporta. […] Sull’Ufficio per il Processo, presso la Corte di Appello di Roma è stata operata una scelta chiara, senza attendere il Pnrr” costituendo l’Upp presso tutte le sezioni civili e penali. La conclusione non poteva non prendere in considerazione la crisi che ha investito la magistratura: “Non posso che auspicare che la magistratura possa ritrovare fiducia in sé stessa, nei suoi ‘valori di sempre’, orgogliosa per il contributo prezioso che ha dato in questi anni al Paese per la tutela della democrazia e della legalità, ma consapevole al tempo stesso della necessità di una profonda autocritica per le cadute etiche e comportamentali che hanno minato la credibilità e che impongono modifiche necessarie, che, senza pregiudicare l’autogoverno e il pluralismo ideale confortino e sostengano quanti hanno operato e operano - e sono la stragrande maggioranza dei magistrati - con trasparenza e indipendenza e spirito di servizio, per tutelare i diritti e promuovere l’eguaglianza, così come vuole la nostra Costituzione”, ha concluso Meliadò. Invece nel capoluogo siciliano il Presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, nel suo intervento ha sottolineato come “la lunghezza ingiustificata del processo penale, oltre a essere già una pena per gli imputati, colpevoli o innocenti che siano, una sofferenza per le parti offese, un rischio per la formazione della prova, un pregiudizio alla funzione rieducativa della pena, ha prodotto altri effetti distorsivi nel sistema, spostando il baricentro, anche mediatico, dal processo alla fase delle indagini preliminari, nelle quali si prova a recuperare la celerità che manca nel primo, così come nelle misure cautelari si tende a individuare un effetto anticipatorio della pena. E si trascura, invece, che un processo dalla durata ragionevole concorre anche a rafforzare la credibilità della fase investigativa”. A Palermo è intervenuto anche il consigliere del Csm, Nino Di Matteo: “Dovete coltivare la pretesa che il Consiglio Superiore della Magistratura funga da scudo contro quegli attacchi all’indipendenza della magistratura che vengono mossi dall’esterno e dall’interno dell’ordine giudiziario. Mi impegnerò fino all’ultimo giorno del mio mandato cercando di fare la mia parte per rendere l’attività consiliare più lineare e trasparente ed affrancarla dagli impropri condizionamenti di tipo politico o correntizio che ancora talvolta la caratterizzano” e poi una critica alla riforma sul processo penale: “Va segnalato il parere reso in tema di riforma del processo penale: la cosiddetta “riforma Cartabia”. Il Consiglio ne ha anche evidenziato i numerosi e rilevanti profili di criticità sia di ordine sistematico che di possibile frizione con principi di rango costituzionale con particolare riferimento all’istituto della improcedibilità per superamento dei termini di ragionevole durata del giudizio di impugnazione”. “La ricerca del consenso a tutti i costi è e deve rimanere un atteggiamento estraneo allo svolgimento dell’attività giudiziaria, compreso ovviamente l’operato del pubblico ministero, soggetto processuale sensibile ma non condizionato dalle esigenze e dalle richieste delle parti”: è stata invece questo un passaggio dell’intervento del Procuratore Generale di Milano Francesca Nanni, riferendosi a uno dei “rischi per la giurisdizione, accompagnati secondo la prevalente narrazione mediatica da generale perdita di prestigio nell’opinione pubblica conclamata”. Un altro significato estratto della relazione del magistrato è il seguente: “è scorretto e pericoloso ritenere che l’esito della attività giudiziaria sia direttamente ed esclusivamente collegato a compiti di prevenzione generale che coinvolgono anche altri elementi della formazione individuale, dalla scuola, alla famiglia. La vera prevenzione deriva non tanto dalla severità della pena, ma dalla certezza della medesima, anzi dalla percezione di certezza della punizione che i singoli possono avere”. Sulla certezza della pena intervengono diversi fattori: “sicuramente la presenza di decisioni puntuali e motivate, ma anche un procedimento che conduca entro tempi ragionevoli a una decisione definitiva, un efficiente sistema di esecuzione della sanzione, una informazione corretta e non sensazionalistica”, aggiunge il procuratore generale che ritiene la lunghezza dei procedimenti “una piaga del nostro tempo, anzi la negazione stessa del servizio che siamo chiamati a rendere”, ha concluso Francesca Nanni. Un altro monito è altresì giunto dal Presidente della Corte d’Appello di Milano Giuseppe Ondei: “Il nudo efficientismo senz’anima rischia di piegare i nobili orizzonti costituzionali verso un inaccettabile modello di magistrato burocrate preoccupato più della sua carriera che della tutela dei cittadini”. A Firenze invece è intervenuto il vice presidente del Csm David Ermini: “Non vi siete liberati di me… tra alcuni mesi mi vedrete di nuovo in queste aule giudiziarie, con la mia borsa da lavoro e la mia toga. Spero non mi troverete cambiato. Questi anni sono stati difficili e spesso amari; anni trascorsi non senza sofferenza, ma vissuti anche con entusiasmo e nel rispetto delle istituzioni. Non credo che mi abbiano cambiato, e spero voi ne possiate presto essere buoni testimoni”. Insieme a lui ha preso la parola il Procuratore generale di Firenze, Marcello Viola, che ha auspicato che “il tempo che verrà possa consegnarci, o forse consentirci di recuperare, una figura virtuosa di magistrato, che costituisca modello per il presente e che soprattutto sia possibile offrire anche alle future generazioni”. La Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha partecipato invece all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Reggio Calabria: “Quella che stiamo vivendo è una fase difficile, piena di sfide, ma è anche una fase di rinnovati slanci e molteplici opportunità, in un momento in cui l’intero Paese è in fermento e progetta la sua ripresa, intorno al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Proprio in questo contesto di emergenza, sono state avviate alcune riforme strutturali a lungo termine, ‘riforme di sistema’, per far fronte ai cronici problemi richiamati tante volte da tanti anni nelle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario: la durata dei processi e il fardello dell’arretrato, prima di tutto. Mali divenuti nel tempo, insieme ai gravi fatti emersi negli ultimi anni, causa di una progressiva e dannosa erosione di fiducia da parte dei cittadini, degli operatori economici e degli osservatori internazionali”. Tra le riforme di sistema quella dell’improcedibilità che è stata bocciata dalla Procuratrice generale facente funzioni di Bologna, Lucia Musti, durante il suo intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Per quanto riguarda la peculiare situazione della Corte di appello di Bologna, con diciottomila processi penali in attesa di fissazione in appello, la nuova disciplina della improcedibilità provocherà conseguenze nefaste. Anche la cosiddetta disciplina transitoria, complicata, servirà a molto poco. Numerosissimi saranno i processi che saranno dichiarati improcedibili. Più coerente - ha detto nella sua relazione per l’anno giudiziario - sarebbe stato mettere mano a una generosa amnistia (soluzione che poco mi soddisfa) ovvero ad una seria depenalizzazione invocata, invano, sin dall’ottobre 1989, all’alba dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale”. Dal capoluogo piemontese ha parlato invece il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo che nel suo intervento ha espresso “preoccupazione fortissima l’idea che si possa sopprimere la facoltà di appello del pubblico ministero”. Ha aggiunto: “La complessa realtà della giustizia ha bisogno di una riforma organica, sostanziale e processuale e non di singoli interventi disomogenei e di proclami. Così come è necessario procedere senza indugi alla riforma della legge elettorale del Consiglio superiore con un netto mio no al meccanismo del sorteggio, neppure se temperato”. Il legame necessario tra riti e sapienza nell’esercizio del potere di Stefano G. Guizzi Il Domani, 23 gennaio 2022 L’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione avviene con l’ombra lunga del conflitto tra Consiglio di Stato e Csm, risolto dal consiglio frettolosamente. Ogni “rito” è importante in uno stato costituzionale di diritto, ma esso vive, soprattutto, di sapienza, giacché è nell’accorto e prudente esercizio del potere che ogni Istituzione trova, in ultima analisi, la sua principale fonte di legittimazione. “Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono vestiti da pagliacci, come non osano neppure gli alti prelati. Chi sono? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario”. Sono trascorsi esattamente cinquant’anni - era il 1972 - da quando l’acuminata penna di Luigi Pintor così descriveva, dalle colonne de “Il Manifesto”, la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Un’invettiva, quella rivolta dal grande giornalista - in un articolo intitolato, significativamente, “I mostri” - ad una magistratura che gli appariva, allora, del tutto sclerotizzata, giacché ancora sorda alle istanze di trasformazione dell’ordinamento giuridico (e, ancor prima, del tessuto civile e sociale della Repubblica), tratteggiate dalla Carta costituzionale. Un ordine giudiziario, in definitiva, agli occhi di Pintor, soltanto capace di assicurare una giustizia “di classe”. Mezzo secolo, tuttavia, non è trascorso invano. I cambiamenti - La magistratura, al pari del Paese, si è modernizzata, aprendosi ad un autentico pluralismo di idee e di valori. E ciò conformemente al disegno tracciato dalla Costituzione, basato sulla tutela delle formazioni sociali intermedie tra individuo e Stato, sulla promozione delle autonomie locali, sulla moltiplicazione dei livelli di governo della cosa pubblica, sulla valorizzazione in ogni ambito - civile, sociale e politico - dell’aggregazione tra individui. In una parola, sull’espansione degli spazi di democrazia e di libertà. Di pari passo con tale cambiamento, al quale l’ordine giudiziario, come detto, non è stato affatto estraneo (e che, anzi, ha concorso a plasmare), è mutata inevitabilmente la percezione, nell’opinione pubblica, dei suoi appartenenti. Non più, dunque, le creature mostruose evocate dal fondatore del quotidiano comunista, ma i titolari del potere, delicatissimo, di amministrare giustizia “in nome del popolo”. A contribuire a tale rinnovata legittimazione dei magistrati sono stati, certamente, l’abnegazione e il coraggio dimostrati da molti di essi - persino oltre la soglia dell’estremo sacrificio - nel contrastare, dapprima, il terrorismo di matrice politica e, poi, la criminalità di tipo mafioso. Senza tacere delle speranze in una rigenerazione, anche morale, della classe dirigente italiana, che l’azione della magistratura ebbe a suscitare, ormai un trentennio fa, in quella che è passata alla storia come la stagione di Mani pulite. Ma quell’onda che appariva impetuosa si è, poco alla volta, trasformata in risacca. Fino ad arrivare all’attuale congiuntura, in cui gli scandali che hanno investito la magistratura associata - disvelando una fitta rete di rapporti di “vassallaggio” tra pochi “patroni” e moltissimi “clientes”, con ricadute sullo stesso funzionamento del Csm - hanno incrinato, nell’opinione pubblica, la fiducia nell’ordine giudiziario. Il rito immutabile - A non mutare, invece, da quell’ormai lontano 1972, è stata la ritualità - e non potrebbe essere altrimenti, giacché il diritto vive di “riti e sapienza”, secondo l’insegnamento di un indimenticato maestro del pensiero giuridico, Franco Cordero - dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. A partire da quella celebrata nelle aule, austere, della Corte di Cassazione, e poi presso le diverse Corti Appello, dislocate lungo l’intero territorio nazionale. Quella di oggi, però, è stata - in Cassazione - una cerimonia diversa. E non per il persistere, purtroppo, dell’emergenza pandemica, che già lo scorso anno aveva imposto un drastico ridimensionamento delle presenze e degli interventi, conferendo all’inaugurazione un tono, per così dire, “minore”. La singolarità dell’odierna celebrazione è data dal fatto che, nel giro di neanche una settimana, i vertici della Suprema Corte (il primo presidente e il presidente aggiunto), dapprima “azzerati” da due sentenze del Consiglio di Stato, essendo stata accertata l’illegittimità delle relative nomine, sono stati repentinamente “reintegrati”, nelle rispettive posizioni, dall’organo di governo autonomo della magistratura. Questione, indubbiamente, assai complessa, che poco si presta ad analisi immediate e scarsamente approfondite. E ciò non solo per l’estremo tecnicismo della materia, ma anche per il doveroso rispetto dovuto ai protagonisti di questa vicenda, tutte personalità - chi ha agito innanzi al giudice amministrativo, il Presidente titolare della Terza Sezione Civile, Angelo Spirito, non meno dei due alti magistrati, le cui nomine sono state, viceversa, caducate - di eccezionale caratura, umana prima ancora che professionale. Tuttavia, alla legittima soddisfazione, in chi qui scrive, di vedere - come magistrato di cassazione - sollecitamente ripristinata la piena funzionalità della Corte, non è disgiunto un sentimento di perplessità, come semplice appartenente all’ordine giudiziario (anzi, prima ancora, quale cittadino). La raffica di annullamenti - Sebbene non siano mancate, neppure in passato, decisioni del giudice amministrativo di annullamento di nomine relative a importanti uffici giudiziari, nel corso di questa consiliatura si è assistito, purtroppo, ad un crescendo, che deve indurre a qualche riflessione. Questo Csm, infatti, ha visto annullare, dopo la nomina del procuratore della Repubblica di Roma, quella dei componenti della Scuola Superiore della Magistratura (l’organismo chiamato a provvedere alla formazione dei neo-magistrati, e all’aggiornamento professionale di tutti gli altri), fino alla recente decisione che ha interessato, appunto, i primi di due magistrati giudicanti della Suprema Corte. Una pronuncia, questa adottata del Consiglio di Stato, che appare - sia detto senza infingimenti - come il più preoccupante sintomo delle crescenti difficoltà che l’organo di governo autonomo della magistratura incontra, da tempo, nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica. Tanto da far levare voci, all’interno dello stesso ordine giudiziario, in favore di interventi legislativi che rendano più obiettivi (o meglio, “misurabili”, nella loro concreta applicazione) i criteri per il conferimento degli incarichi di direzione degli uffici giudiziari. Da tanti anni, infatti, si insiste - per frenare la deriva verso un diritto sempre più “incalcolabile” - sulla necessità di rendere “prevedibili” le decisioni dei magistrati, ma non meno “prevedibili” dovrebbero essere gli esiti relativi ad un’attività (qual è quella del Csm) di alta amministrazione, trattandosi, pur sempre, di dare “esecuzione alle legge”, allorché si adottino quei provvedimenti di organizzazione degli uffici, che delle decisioni giudiziarie costituiscono, in qualche misura, il presupposto. La rapidità nel decidere - Ma ciò che ancor di più sorprende, di queste convulse giornate che hanno preceduto l’inaugurazione dell’anno giudiziario, è la rapidità del percorso decisionale del Csm. L’annullamento disposto dal giudice amministrativo ha determinato la necessità che il Consiglio Superiore della Magistratura operasse una nuova comparazione tra il candidato - che il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimamente pretermesso - e i già nominati, sui quali è nuovamente caduta la scelta del Csm. Sarà, eventualmente, il giudice amministrativo ad esprimersi, ancora una volta, sulla legittimità di tali deliberazioni, stabilendo se esse siano state il risultato di una adeguata ponderazione dei profili professionali, oppure l’elusione del giudicato in favore del presidente Spirto. Non si può, tuttavia, sottacere come la fretta di arrivare ad una deliberazione, che non lasciasse la Cassazione sguarnita dei suoi vertici in occasione della cerimonia odierna, sebbene comprensibilmente ispirata alla necessità di evitare un vuoto di potere, ha costretto il Csm a dover emendare, in sede di plenum (e al cospetto del Capo dello Stato, che lo presiedeva), la proposta relativa alla nomina del Presidente Aggiunto della Corte, correggendo una serie di refusi ed imprecisioni. Tra i quali, in particolare, il riferimento all’acquiescenza, di tutti i candidati diversi dal presidente Spirito, alla delibera annullata, per non averla essi impugnata, stante, invece, la perdurante pendenza di almeno un ulteriore giudizio amministrativo radicato (e destinato a definizione, nel prossimo mese di febbraio) da parte di altro magistrato di legittimità. Gli errori - Espressione di questa stessa fretta è, inoltre, l’affermazione - che si legge nell’allegato alle due proposte consiliari - relativa alla “rinnovazione” del concerto della Ministra Guardasigilli. Così come “nuove”, e non semplicemente “rinnovate”, sono le due deliberazioni del Csm, avendo esso proceduto a riesercitare il suo potere di comparazione e scelta tra i candidati, e non semplicemente a espungere, dai provvedimenti adottati in precedenza, i vizi da cui erano affetti, “nuovo” (e non meramente “rinnovato”) non può che essere pure il concerto espresso dalla Ministra della Giustizia. Una finissima costituzionalista come l’attuale titolare del dicastero di Via Arenula ne è, naturalmente, consapevole, sicché la concitazione di questi giorni deve aver tradito l’attenzione dei più stretti suoi collaboratori. Il concerto non è un mero “visto”, apposto dal Guardasigilli all’operato del Csm, ma - come ben sa la Ministra Cartabia - “un elemento essenziale del procedimento”, giacché l’interlocuzione, in tale ambito, tra il Ministro e l’organo di governo autonomo della magistratura, si traduce in “un modulo procedimentale volto al coordinamento di una pluralità di interessi, spesso eterogenei e imputabili ad autorità distinte”, esigendo che si ponga in essere “una discussione e un confronto realmente orientati al superiore interesse pubblico”, destinata a tradursi in “un esame effettivo ed obiettivo, dialetticamente svolto, di tutti gli elementi ai fini della copertura di quel determinato incarico direttivo” (Corte cost., sent. n. 379 del 1992). Nessuno dubita che tanto sia avvenuto nei casi in esame, ma l’espressione secondo cui il concerto viene “rinnovato” non appare, forse, la più consona a darne attestazione. Quale, dunque, la morale di questa storia? Ogni “rito” è importante in uno stato costituzionale di diritto, giacché ad esso appartengono anche momenti simbolici, indispensabili a consolidarne la sua “religione civile”. Ma esso vive, soprattutto, di sapienza, giacché è nell’accorto e prudente esercizio del potere - qualunque ne sia la natura - che ogni Istituzione trova, in ultima analisi, la sua principale fonte di legittimazione. “Macché riforme: vendetta del potere contro i giudici” di Gianni Barbacetto e Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2022 Critiche alla politica che si vuole “vendicare” della magistratura con riforme e referendum “discutibili”. Autocritica per “il male oscuro” del carrierismo che ha pervaso le toghe. Nino Di Matteo, consigliere del Csm, non fa sconti a nessuno e non le manda a dire sullo stato della giustizia in occasione dell’inizio dell’anno giudiziario, che ieri si è aperto nelle Corti d’appello italiane. Il magistrato era nella sua Palermo, dove per 18 anni è stato tra i protagonisti di inchieste e processi contro Cosa Nostra e sulla trattativa Stato-mafia. Sulla politica giudiziaria, Di Matteo denuncia: “Stiamo vivendo una profonda crisi di credibilità nella quale parte del potere politico, economico, finanziario vuole oggi approfittare per avviare un vero e proprio regolamento di conti contro quella parte di magistratura che ha inteso esercitare a 360 gradi il controllo di legalità”. Per il consigliere si tratta di “un regolamento di conti con chiare finalità di vendetta da un lato e di prevenzione dall’altro, con il malcelato scopo di rendere l’organo giudiziario, anche attraverso progetti di riforma e iniziative referendarie assai discutibili, collaterale e servente rispetto agli altri poteri”. Sulla riforma penale della ministra Marta Cartabia, Di Matteo ricorda che il Csm “ha anche evidenziato i numerosi e rilevanti profili di criticità sia di ordine sistematico che di possibile frizione con principi di rango costituzionale, con particolare riferimento all’istituto della improcedibilità” in appello e Cassazione se si superano i tempi prestabiliti per il giudizio. E ai suoi colleghi magistrati chiede di coltivare “la pretesa che il Csm funga da scudo contro quegli attacchi all’indipendenza della magistratura che vengono mossi dall’esterno e dall’interno dell’ordine giudiziario”. Cosa niente affatto scontata, dato che “quello che è appena trascorso non è stato un anno facile. Il Csm sta ancora affrontando l’onda lunga dei ripetuti scandali emersi, a partire dall’inchiesta della Procura di Perugia (sullo scandalo Palamara, ndr), che rappresentano uno spaccato di una patologia che si è diffusa come un cancro, con la prevalenza di logiche di clientelismo, appartenenza correntizia o di cordata, collateralismo con la politica”. Critiche alla riforma Cartabia sono arrivate anche dai due distretti calabresi. Il presidente della Corte d’appello di Catanzaro Domenico Introcaso sostiene che “è necessario intervenire sul ‘sistema giustizia’ e non su un singolo parametro, il tempo, con un intervento estraneo e formale di risoluzione delle criticità fatto con l’accetta”. Cento chilometri più a sud, a Reggio Calabria, è intervenuto il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, con in prima fila il ministro della giustizia Marta Cartabia. Ardita ha criticato la riforma del Csm, “una complessa e pericolosa sfida per governo e Parlamento”. Poi si è scagliato contro “l’adozione di un sistema maggioritario uninominale o binominale con collegi medio-piccoli” che genererebbe “bipolarismo, conflittualità e un governo politico della giustizia” e consegnerebbe “la vita professionale dei magistrati al sistema di potere delle correnti”. Cartabia, da parte sua, ha auspicato che la riforma del Csm arrivi “al più presto” alle Camere, pur dichiarandosi disponibile all’ascolto “di critiche propositive e non meramente demolitorie”. Il riferimento è proprio ad Ardita che, invece, attacca anche sulla presunzione di innocenza: senza mai nominarlo, critica il decreto che a dicembre ha di fatto messo il bavaglio ai procuratori e alla stampa: “C’è bisogno di garantismo, ma deve essere un garantismo che parta dal basso, che riguardi i più deboli, che non si presti a essere utilizzato da chi comanda nella dimensione del crimine mafioso, della grande finanza, o delle responsabilità pubbliche e istituzionali”. Un punto toccato anche dal pg di Genova Roberto Aniello, secondo cui quella sulla presunzione d’innocenza “non è una legge bavaglio”, ma “probabilmente incorre in un eccessivo irrigidimento delle modalità di comunicazione”. A Milano, la cerimonia è apparsa quasi surreale: dentro il palazzo di giustizia che vide, 30 anni fa, la nascita di Mani pulite, si è consumato negli ultimi mesi un conflitto mai visto prima. Ma ieri sembrava di essere, tuttalpiù, a un tranquillo convegno giuridico. La relazione del presidente della Corte d’appello, Giuseppe Ondei, trabocca di inutili riferimenti colti, da Husserl a Lyotard, e di panglossiani entusiasmi per le riforme in corso oggi, “momento kairologico”, con l’arrivo salvifico dei soldi del Pnrr (ma neanche un euro per le Procure che fanno le indagini, ha ricordato il procuratore generale Francesca Nanni, e bavaglio all’informazione - aggiungiamo - travestito da “presunzione d’innocenza”). Entusiasmo appena scalfito dalle dure cifre (per esempio: il 42% della popolazione carceraria qui è composto da stranieri). Solo la rappresentante del Csm, Alessandra Dal Moro, osa rompere l’incanto, citando la drammatica crisi morale della magistratura dopo il caso Palamara, il correntismo da battere e i problemi reali da risolvere, con il 13% dei posti da magistrato scoperti e con una riforma (Cartabia) che crede di abbreviare i processi cambiando il nome della prescrizione in improcedibilità. “Una norma che decreta la morte del processo”, ha detto a Torino il pg Francesco Saluzzo. Aggiungendo: “Penso e spero che la Corte costituzionale avrà modo di interloquire su questo istituto”. Anno giudiziario, ennesima odiosa passerella dei magistrati vestiti a festa di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 23 gennaio 2022 A noi avvocati penalisti, si sa, le Cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario non sono mai piaciute. Da sempre combattuti se accettare o meno gli striminziti inviti a parteciparvi seduti su uno strapuntino, infine decidemmo (or sono 15 anni) di organizzarcele per nostro conto. Già la ostentata solennità di quelle cerimonie ci è parsa da sempre incomprensibile: magistrati costretti ad indossare, con evidente sacrificio personale, toghe e tocchi implausibili, ed infatti mai usati nei rimanenti 364 giorni dell’anno, sfilano con malcelato imbarazzo, senza - essi per primi - comprenderne la ragione. Peraltro, di questi tempi e con questi chiari di luna, questi pomposi cortei sarebbe proprio il caso di risparmiarseli, cogliendo così virtuosamente l’occasione per definitivamente archiviarli: non un solo essere umano dotato di raziocinio li rimpiangerebbe. Spogliate da queste pomposità del tutto fuori luogo, le inaugurazioni dell’Anno Giudiziario (sia territoriali che nazionali) avrebbero tuttavia un senso preciso, come occasione e luogo per fare un bilancio della vita giudiziaria, analizzarne le criticità, individuare soluzioni, ove però fossero concepite ed organizzate diversamente. Sarebbe infatti necessario, innanzitutto, cancellare l’idea, davvero odiosa, che vi siano dei padroni di casa, vestiti a festa, che invitano degli ospiti; ai quali, per di più, vengono offerte informazioni acquisite, organizzate e selezionate in totale, indisturbata autonomia ed esclusività. Noi pensiamo infatti che Giudici e Procuratori non siano i padroni di casa, o certamente non gli esclusivi, nei Tribunali e nelle Corti di Appello (e nella Suprema Corte di Cassazione). Ne sono i responsabili amministrativi, certamente, ma l’esercizio della giurisdizione è affidato alla responsabilità di tutti i suoi indispensabili attori, tra i quali l’avvocatura assolve un compito almeno pari a quello della controparte, cioè i Magistrati dell’Accusa. La rappresentazione scenica - che nelle cerimonie però è sostanza - racconta invece tutt’altro. Presidenti (di Corte di Appello o di Cassazione) e Procuratori (Generali) agiscono e si propongono come i padroni di casa; l’Avvocatura è ospite, giusto chiamata a portare un qualche breve indirizzo di saluto. Un quadro francamente inaccettabile. Quanto alle statistiche, che sono poi il cuore di queste cerimonie, e ne rappresenterebbero anche la indiscutibile utilità, il punto è che esse sono gestite, come dicevo, in modo totalmente unilaterale dalla Magistratura, che decide in via esclusiva quali dati raccogliere, e quali statistiche comunicare. I dati statistici non sono certamente neutri, e meno che mai la lettura che se ne può dare. D’altronde, questa della inaccessibilità pubblica dei dati statistici dell’amministrazione giudiziaria è questione che poniamo da tempo; così come da tempo abbiamo dimostrato, con le nostre indagini in collaborazione con l’Istituto Eurispes, che la giustizia penale la si racconta a seconda dei dati che si sceglie di raccogliere. Insomma, come avete ben compreso, ce ne è quanto basta per non farci appassionare - sia detto con il massimo rispetto - a cerimonie così concepite. Preferiamo organizzarcele per nostro conto, facendone sempre occasione di ricco ed approfondito confronto e dibattito con la Magistratura locale e nazionale, non meno che con l’Accademia. Quest’anno saremo a Catanzaro, per esempio, a discutere su quanto la tutela forte del diritto di difesa sia indispensabile non solo quale garanzia per i diritti primari della persona indagata o imputata, ma altrettanto -e per certi versi ancor di più- come garanzia per il giudice, per la sua indipendenza, e per la forza e la credibilità del suo giudizio agli occhi della pubblica opinione; la quale ultima non potrà che diffidare di una sentenza pronunciata all’esito di un giudizio celebrato con un difensore debole, intimidito, minacciato nella sua libertà morale. Tutti a Catanzaro, dunque, o collegati con noi, l’11 e il 12 febbraio. Oltretutto, non ci sarà bisogno di indossare pellicce di ermellino. Giustizia, da Cartabia un nuovo appello per la riforma del Csm: “Va fatta al più presto” di Liana Milella La Repubblica, 23 gennaio 2022 La ministra all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Reggio Calabria ribadisce l’invito al Parlamento a raggiungere rapidamente un accordo tecnico e politico sul futuro del Consiglio superiore della magistratura. “Lo status quo al Csm non ha dato buona prova di sé, confido che al più presto possano arrivare alle Camere anche gli emendamenti per la riforma “. Da Reggio Calabria, dove ha scelto di inaugurare l’anno giudiziario dei distretti italiani, la Guardasigilli Marta Cartabia lancia di nuovo, dopo averlo fatto mercoledì alla Camera e al Senato, e ancora ieri in Cassazione, l’invito a raggiungere al più presto in Parlamento un accordo tecnico e politico sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura. Una riforma sollecitata più volte, come ha ricordato la stessa Cartabia, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e che è imposta dalla contingenza, e anche dal rinnovo di questo Csm che scade il prossimo luglio. Si apre l’anno giudiziario nei singoli distretti giudiziari dopo la cerimonia in Cassazione e, come ogni anno, è l’occasione per una panoramica sui mali e sulle emergenze della giustizia italiana. Dal Covid, al sovraffollamento nelle carceri, al discredito stesso sulla magistratura dopo il caso Palamara, che rende indispensabile la riforma del Csm. E di questo parla Marta Cartabia che però, nel suo speech a Reggio Calabria, privilegia anche il capitolo delle riforme per garantire una buona giustizia. A partire dall’ufficio del processo, l’arrivo di una task force di 16.500 giovani che saranno gli ausiliari di pm e giudici. Ma dal discorso di Cartabia conviene trarre queste righe emblematiche di come la legalità, attraverso un percorso di giustizia, possa cambiare il volto dell’Italia: “Ieri sera ho avuto il privilegio di cenare con alcuni giovani qui a Reggio, radunati in un immobile confiscato alla criminalità organizzata, intorno a una associazione che si propone di accompagnarli nel faticoso, e spesso insidioso percorso della ricerca della propria strada nel mondo. Giovani coppie con i loro figli che si affacciano ora nel mondo: tocca a noi preparare le condizioni per un futuro che possano essere una vera possibilità per loro. Uno di loro raccontava di essere stato letteralmente salvato, miracolato diceva, dall’incontro con questa realtà e strappato dalla sua rabbia, che lo stava indirizzando verso la via della malavita. In mezzo a questi giovani, si respira il ‘fresco profumo della libertà’, per prendere in prestito le parole di Paolo Borsellino”. Il vicepresidente del Csm David Ermini sceglie invece la sua regione, la Toscana, e Firenze. Il Csm scade a luglio, forse sarà necessaria una proroga di un paio di mesi per via della legge elettorale ancora in itinere, ma ormai i quattro anni previsti in Costituzione stanno per scadere. Ed ecco Ermini rivolto alla platea di toghe e avvocati: “Non vi siete liberati di me… tra alcuni mesi mi vedrete di nuovo in queste aule giudiziarie, con la mia borsa da lavoro e la mia toga. Spero non mi troverete cambiato. Questi anni sono stati difficili e spesso amari; anni trascorsi non senza sofferenza, ma vissuti anche con entusiasmo e nel rispetto delle istituzioni. Non credo che mi abbiano cambiato, e spero voi ne possiate presto essere buoni testimoni”. Ermini, dal ruolo di vice di Mattarella al Csm e di ex deputato del Pd, nonché anche responsabile Giustizia, ha sollecitato più volte come improrogabile, anche nei tempi, la riforma del Consiglio. La riforma è stata uno dei tempi più gettonati perché legata alla immagine in crisi della magistratura. A Napoli ecco la provocazione lanciata dal Pg Luigi Riello che chiede “riforme serie perché altrimenti tanto vale abolire il Csm e dare al ministro il potere di nominare i capi degli uffici, come avviene per prefetti e questori”. E a Bari è il presidente della Corte di Appello Franco Cassano, che ha competenza anche su Trani e Foggia, a parlare di “cronache quotidiane che ci consegnano una realtà devastante di magistrati arrestati, inquisiti, condannati per fatti di corruzione, e che testimoniano una questione morale che non può essere sempre sottovalutata”. Una crisi per cui alla fine i magistrati sono avvertiti come un corpo impenetrabile all’innovazione, fondamentalmente autoreferenziale, preoccupato più di esercitare un potere che di rendere un servizio”. E da Milano la Pg Francesca Nanni richiama i pm con parole dure: “La ricerca del consenso a tutti i costi è e deve rimanere un atteggiamento estraneo allo svolgimento dell’attivita’ giudiziaria, compreso ovviamente l’operato del pubblico ministero, soggetto processuale sensibile, ma non condizionato dalle esigenze e dalle richieste delle parti”. Ma Nanni riserva un capitolo importante della sua relazione per magistrati e giornalisti, e per tutta l’informazione italiana in materia giudiziaria, sulla recente legge sulla presunzione di innocenza: “Fermo restando che le modalità di diffusione della notizia devono evitare di indicare la persona indagata o imputata come colpevole in via definitiva, sarebbe preferibile una normativa meno restrittiva nelle fasi non coperte da segreto istruttorio o almeno per le fasi che si svolgono in udienze aperte al pubblico, anche per garantire la necessaria trasparenza delle decisioni assunte dopo la chiusura delle indagini”. E siamo alla riforma del processo penale, chiusa tra agosto e settembre alla Camera e al Senato e ora nella fase dei decreti legislativi. Una riforma che ha diviso la maggioranza almeno alla Camera e che adesso vede un atteggiamento critico nella magistratura. A partire da quello di Nino Di Matteo, l’ex pm di Palermo oggi componente togato del Csm. “Il Consiglio - dice Di Matteo - ha evidenziato i numerosi e rilevanti profili di criticità della riforma, sia di ordine sistematico che di possibile frizione con principi di rango costituzionale, con particolare riferimento all’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di ragionevole durata del giudizio di impugnazione”. Norma di cui si lamenta, a Torino, anche il Pg Francesco Saluzzo che parla addirittura di “morte del processo”. Il dramma dei morti sul lavoro - La carrellata nei distretti italiani ci dà il polso delle emergenze italiane e dei problemi sempre aperti della giustizia. A partire, quest’anno, dai morti sul lavoro. A Genova il Procuratore generale Roberto Aniello documenta che “in Liguria sono cresciuti gli infortuni e le morti”. A Firenze ne parla il Pg Marcello Viola citando i venti morti registrati in Toscana che “destano particolare preoccupazione”. Il sovraffollamento nelle carceri - Ma ecco l’emergenza delle carceri, a Firenze Viola ricorda “l’allarmante situazione di Sollicciano”, mentre a Milano il presidente della Corte di Appello Giuseppe Ondei cita i 6.189 detenuti del suo distretto, “una cifra che a giugno era tra le più elevate sull’intero territorio nazionale con un indice di affollamento in media del 122% in aumento rispetto al già alto 120,14% dello scorso anno”. I tempi lunghi del processo - Ma è con i tempi tuttora lunghi del processo che conviene chiudere questa rapida carrellata. Il presidente della Corte di Appello di Roma Giuseppe Meliadò ricorda l’arretrato della sua Corte che “costituisce quasi il 20% di quello nazionale civile e penale, trasformando il problema dei tempi del processo in questa città in una questione giudiziaria nazionale, al punto che non pare contestabile come l’aumento degli organici rappresenti uno dei principali snodi del cambiamento dell’organizzazione giudiziaria italiana”. Emilia-Romagna. Un detenuto su 4 è imputato in attesa di giudizio corriereromagna.it, 23 gennaio 2022 Nelle carceri dell’Emilia-Romagna un detenuto su quattro è imputato, gli altri tre invece stanno scontando una condanna definitiva. È la fotografia che emerge dalla relazione stilata dal presidente della Corte d’appello di Bologna, Oliverio Drigani, per l’apertura dell’anno giudiziario. Al 30 giugno 2021 erano presenti 764 imputati e 2.428 condannati. Gli stranieri presenti erano 1.520 (il 46,77% del totale della popolazione detenuta), con il picco nella Casa circondariale di Piacenza: 62,47%. La percentuale regionale dei detenuti tossicodipendenti si è al 42,46%, in leggero aumento rispetto al 2020 (36,83%), mentre la media nazionale è del 27,47%. Sempre al 30 giugno, nei penitenziari della regione erano presenti 181 ergastolani, 26 detenuti con pena superiore a 20 anni, 446 con pena fino a un anno, 413 con pena da uno a due anni e dieci donne con figli (nell’arco di un anno). Dai dati acquisiti dall’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna di Bologna le misure alternative in corso nel distretto sono 4.027 a cui occorre aggiungere 440 libertà vigilate; si registra una decisa prevalenza dell’affidamento in prova al servizio sociale, che riguarda 2.186 soggetti. La relazione di Drigani dà poi conto del fatto che “la pianta organica dei magistrati degli Uffici di sorveglianza del distretto non è interamente coperta, stante la vacanza di quattro posti presso l’Ufficio di Bologna e di un posto presso l’ufficio di Reggio Emilia. Tale situazione pone il Tribunale e l’Ufficio di sorveglianza di Bologna in condizioni di oggettiva grave difficoltà operativa, che si cerca di contenere attraverso l’applicazione dei colleghi dell’Ufficio di sorveglianza di Modena”. Milano. Carceri, con il sovraffollamento è peggio anche il virus di Mario Consani Il Giorno, 23 gennaio 2022 Una media di presenze pari al 122 per cento dei posti letto regolamentari. E la pandemia ha ridotto colloqui e permessi esterni. Tutti gli anni la stessa musica stonata. A fine giugno scorso “la popolazione carceraria degli Istituti del distretto (detenuti 6.189) era tra le più elevate sull’intero territorio nazionale con un indice di affollamento in media del 122%, in aumento rispetto al già alto 120,14% dello scorso anno”. Così ripete il presidente della Corte d’appello Giuseppe Ondei, che pure l’anno scorso aveva illustrato lo stesso concetto, ribadendo stavolta che “si tratta di dati allarmanti che denotano l’esistenza di situazioni detentive non conformi alla capienza regolamentare e all’esigenza di una carcerazione adeguata alle norme vigenti”. Si crea dunque “l’esigenza - ha spiegato - di una costante vigilanza degli istituti penitenziari da parte dei magistrati preposti”, dato il “consistente numero di reclami contro la carcerazione disumana e degradante per violazione dell’art. 3 Cedu”. Eppure nel periodo dell’emergenza sanitaria, osserva nel suo intervento la pg Francesca Nanni, quasi tutte le procure del distretto “hanno operato una valutazione maggiormente selettiva degli arresti in flagranza e delle successive richieste di applicazione delle misure custodiali in carcere”. Non è servito. E poi la diffusione del virus e ha comportato “una netta riduzione dell’attività trattamentale svolta nelle varie case circondariali”. E ovviamente ulteriori disagi per i detenuti, oltre al sovraffollamento. “Sono stati sospesi i permessi, i colloqui in presenza e le attività extracarcerarie proprio per evitare il rischio di assembramenti”. Fortunatamente - ha aggiunto Nanni - “la capillare campagna vaccinale sta consentendo la graduale riorganizzazione e riapertura delle attività trattamentali sia interne che esterne”. C’è poi il grosso problema dei detenuti con problemi psichici che in carcere non dovrebbero proprio stare ma che, spesso, non trovano posto nelle Rems, le residenze per le misure di sicurezza che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. “Recentemente - spiega la procuratrice generale - è stato sottoscritto un protocollo” tra i vertici di Palazzo di Giustizia, Avvocatura e Regione Lombardia “per individuare soluzioni alternative”. “Comunque - conclude Nanni - il problema della indisponibilità di posti nelle Rems dove allocare i soggetti sottoposti a misura di sicurezza, permane”. Genova. Metà dei processi finisce con un’assoluzione di Alessandra Pieracci La Stampa, 23 gennaio 2022 L’inaugurazione dell’anno giudiziario a Genova. Aumentano incidenti sul lavoro e violenze in famiglia. Più inchieste legate alla pandemia, sui decessi sia per Covid che per vaccinazioni, sui Green Pass falsificati e sulle violenze dei no vax, comprese le minacce a Bassetti e Toti e le aggressioni a chi sollecitava a indossare la mascherina, ma anche un aumento più generale di reati come i casi di stalking, i maltrattamenti in famiglia e gli omicidi rispetto all’anno precedente, mentre lo spaccio di droga vede sempre più coinvolti i minori (il 28,71% rispetto alle segnalazioni complessive, media nazionale 17%) e l’età della prima assunzione scende a 11 anni. Sono in crescita gli infortuni e le morti sul lavoro. Però quasi la metà dei processi si conclude con un’assoluzione. In parallelo, nel distretto della corte d’appello di Genova si registra una “diffusa e in molti casi grave carenza di personale amministrativo che in tutte le procure oscilla tra il 30 e il 40% dei posti in organico, tranne quella di Genova dove la carenza è del 26% circa”. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento delle carceri. È il quadro della giustizia in Liguria tracciato dal presidente vicario della Corte d’Appello Alvaro Vigotti e dal procuratore generale Roberto Aniello all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario, oggi a Genova. In particolare nell’anno appena trascorso ci sono stati 297 casi di stalking (a fronte di 238 nel 2020), 547 maltrattamenti in famiglia (429) e 41 omicidi (16). Aumentate anche le misure cautelari nei confronti di uomini violenti, che però molto spesso le violano. Crescono i sequestri preventivi per indebita percezione del reddito di cittadinanza. La durata media di un procedimento penale è di 474 giorni a fronte dei 324 del 2020. 137 le sentenze di prescrizione davanti al giudice monocratico, contro 51 del 2020. Quello degli infortuni sul lavoro “è un fenomeno - sottolinea Aniello - che rischia di incrementarsi anche perché le recenti normative che hanno introdotto agevolazioni finanziarie per le ristrutturazioni edilizie”, oltre agli effetti positivi, “hanno dato luogo a un proliferare di lavori edili che però non sempre sono assistiti dalle prescritte cautele”. In quanto alle carceri, ci sono 1.527 detenuti rispetto alla capienza di 1.296: a Genova la percentuale di sovraffollamento è 133.08% per Marassi e 143.16% per Pontedecimo. Dalla Corte d’Appello dove sono stati assolti Marco Cappato e Mina Welby, il procuratore generale si rivolge al Parlamento perché finalmente vari una legge sul fine vita. E forse è quel quasi 50% di assoluzioni a far dire al procuratore generale che non è una “legge bavaglio” “il divieto per le autorità pubbliche di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini o l’imputato fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili”. San Gimignano (Si). Calano detenuti e autolesionismo, ma l’acqua arriva ancora dai pozzi La Nazione, 23 gennaio 2022 Il presidente della Corte d’Appello si è soffermato su San Gimignano e sulla mancanza di rete idrica. Nella sua relazione, il presidente della Corte d’Appello si è soffermato con un ampio approfondimento sulla situazione presente nelle nostre carceri. Al momento nel carcere di San Gimignano sono presenti 267 detenuti, dieci in meno dell’anno passato, mentre in quello di Siena sono 56, uno in meno del 2020. I due istituti penitenziari non sono stati esenti dagli eventi critici che si sono verificati in tutte le altre carceri della regione, inclusi gli atti di autolesionismo che, in fra i detenuti in tutta la Toscana sono aumentati dai 1.115 del periodo precedente ai 1.239 di quest’anno. A questa voce, il crollo, è stato registrato proprio a San Gimignano dove si è passati dai 46 dell’anno scorso ai 7 di quest’anno. Nella relazione è stata fatta menzione anche della perdurante e grave situazione del carcere di San Gimignano, privo di collegamento con l’acquedotto e legato all’approvvigionamento da tre pozzi. La loro acqua, in base alle analisi periodiche ha riscontrato spesso anomalie di valori, non costituenti comunque pericolo per la salute e una colorazione scura, legata all’età delle tubazioni. Il presidente della Corte d’Appello ha anche menzionato il procedimento penale a carico di 15 agenti di Polizia penitenziaria per fatti di violenza ai danni di un detenuto avvenuti all’interno dell’istituto nell’ottobre 2018, oggi in fase dibattimentale al tribunale di Siena. Tra le menzioni anche il lavoro svolto dall’università di Siena all’interno degli istituti penitenziari e in particolare in quello di San Gimignano, dove è allestita un’apposita sezione detentiva per studenti universitari. Milano. Dal carcere di Bollate al cantiere ex Expo: detenuti al lavoro per la rigenerazione urbana di Federica Olivo huffingtonpost.it, 23 gennaio 2022 Lendlease e Ministero della Giustizia rinnovano Programma 2121 per altri 3 anni. Ai partecipanti un tirocinio retribuito: “Più della metà riceve un’offerta di lavoro”. Le storie di Guido e Aldo raccontano come si abbattono gli stereotipi. Quando è arrivato per la prima volta nell’azienda in cui ha svolto per quasi due anni il tirocinio, Guido temeva di essere trattato con diffidenza. Era detenuto, nel carcere milanese di Bollate, ed era convinto che questa sua condizione avrebbe pesato. Che non avrebbero valutato la persona, il lavoratore, ma solo il condannato. Non è stato così e Guido, che intanto è uscito dal carcere e lavora nella ristorazione, racconta: “Mi aspettavo reticenza e invece sono stati tutti molto disponibili, affabili, nessuno ha mai chiesto perché fossi in istituto e mi è stato detto “per noi sei equiparato a ogni normale dipendente”; non pensavo sarebbe stato veramente così, invece è andata proprio in questo modo. Sono stato trattato con il massimo rispetto. Ho imparato che non bisogna mai giudicare le persone dall’apparenza”. Aldo, invece, non ha ancora finito il suo tirocinio. È ancora in carcere, ma le sue giornate non sono più monotone come prima. Ora sa che ha una mansione da svolgere, un lavoro da completare. Ma soprattutto, un futuro da costruire. Aver cominciato a lavorare, racconta, lo ha aiutato a riavvicinarsi anche alla famiglia. “Questo percorso - spiega - permette di gettare le basi per costruire delle certezze a lungo termine. Ho l’opportunità di svolgere un lavoro che vorrei fare anche un domani quando sarò libero quindi già adesso ho raggiunto un mio obiettivo. Se non avessi partecipato avrei fatto più fatica a porre fondamenta concrete e solide per il mio futuro e non avrei avuto l’opportunità di uscire ogni mattina”. Guido e Aldo - nomi di fantasia - sono due dei protagonisti del Programma 2121. Si tratta di un’iniziativa che ha coinvolto una trentina di detenuti delle carceri milanesi - la maggior parte venivano da Bollate - nata da una collaborazione tra il gruppo internazionale di rigenerazione urbana Lendlease, il Ministero della Giustizia, e una cordata di partner che include alcune imprese, la Regione Lombardia, l’Anpal e la fondazione Triulza. Il progetto - partito nel 2018 e confermato anche per il prossimo triennio - punta all’ inclusione sociale dei detenuti attraverso percorsi di formazione e, soprattutto, di lavoro. Non in un luogo ‘protetto’, come può essere il carcere stesso o un contesto curato da una cooperativa sociale, ma in un contesto lavorativo vero e proprio. Tutto è nato da un’idea: Lendlease è sviluppatore privato di Milano Innovation District (Mind), un progetto di riqualificazione dell’area ex Expo, che si trova vicino al carcere di Bollate. Qualcuno avrebbe potuto vedere in quella struttura un ostacolo, urbanistico e sociale, alla riqualificazione. I protagonisti di questa storia, invece, lo hanno visto come un punto di forza da valorizzare. E l’esperimento sembra essere riuscito, tanto che già si immagina di allargare il programma ad altre carceri lombarde e farlo diventare il punto di partenza di un progetto che coinvolga tutto il Paese. “Fino ad oggi abbiamo fatto tre cicli. Il primo anno sono stati coinvolti 10 detenuti, a seguire 11. L’ultimo ciclo è ancora in corso e prevedeva l’inserimento di 14 detenuti. In tutti i casi sono stati impiegati nel settore delle costruzioni da una delle 18 aziende che stanno lavorando al progetto Mind”, spiega ad Huffpost Nadia Boschi, Responsabile Sostenibilità per l’Italia e l’Europa Continentale di Lendlease, che ha fortemente voluto il progetto. Ai detenuti, selezionati tra quelli che possono essere ammessi al lavoro esterno attraverso dei colloqui, viene offerta innanzitutto una fase di formazione: “Lei pensi che tra i partecipanti ci sono persone in carcere, e quindi fuori dal mondo del lavoro, anche da dieci anni - continua Boschi - hanno bisogno di essere formati anche sull’aspetto tecnologico, oltre che su come funziona la quotidianità del posto di lavoro. Solo dopo aver ricevuto questo tipo di nozioni, passiamo alla formazione tecnica”. E così c’è chi ha imparato a fare il saldatore, chi a guidare il muletto, chi a occuparsi di sicurezza, di grafica o di contabilità. “C’era un signore che si è rivelato essere un ottimo ragioniere - prosegue Boschi - e così lo abbiamo aiutato a prendersi il diploma di ragioneria”. Ai detenuti viene offerto un tirocinio retribuito di sei mesi, rinnovabili per altri sei: “Si tratta naturalmente di un tirocinio retribuito - prosegue la responsabile di Lendlease - equiparato a quello che viene offerto ai neolaureati”. La cifra è modesta, 550 euro più i buoni pasto, ma per chi credeva che durante il periodo di detenzione non avrebbe potuto svolgere neanche un impiego, può essere un punto di partenza. O un primo passo per il lavoro vero e proprio: “Alla metà dei detenuti che hanno partecipato al primo ciclo è stato offerto un contratto, a tempo determinato o indeterminato. Per il secondo ciclo è andata ancora meglio. L’offerta è arrivata al 75% di loro”, dice ancora Boschi. Sull’ultimo ciclo non ci sono dati perché è ancora in corso. Il progetto sta dando i suoi frutti - e ha generato un valore sociale che, secondo un valutatore indipendente, supera i due milioni di dollari - ma ha dovuto fare i conti con la burocrazia. Perché il meccanismo di recluta non è dei più semplici. “Quando un’azienda inoltra a Bollate o a Opera la richiesta di inserimento, l’istituto attinge dal database i profili compatibili. A quel punto organizziamo i colloqui e la selezione”. I problemi iniziano dopo: “Abbiamo calcolato - continua Boschi - che dalla selezione all’inserimento passano 4 mesi, perché bisogna ovviamente chiedere il permesso alla magistratura di sorveglianza. Per tutto il processo sono necessari ben 18 passaggi. E sono troppi per l’industria”. L’obiettivo è provare a snellire questa fase del processo, ma non è cosa semplice, perché alcuni step tipici dell’esecuzione della pena sono necessari. Al di là degli aspetti da migliorare, resta la soddisfazione dei vari partner del progetto. E dei detenuti, che hanno avuto modo di riappropriarsi di un pezzo di vita quotidiana che il carcere, anche quello organizzato meglio, comunque ti toglie. “Programma 2121 non è un progetto filantropico - specifica Boschi - perché non prevede una donazione, staccare un assegno. Ogni partner e azienda ha investito delle risorse”. E tra i frutti raccolti non ci sono solo il cantiere che va avanti, i detenuti che aprono gli occhi verso una nuova prospettiva - grazie alla quale, quando usciranno dal penitenziario potranno sperare di trovare lavoro più facilmente - il valore sociale generato. C’è anche l’abbattimento degli stereotipi. “All’inizio del progetto - conclude Boschi - quando ho detto che saremmo dovuti andare a fare i colloqui in carcere, alcuni colleghi non mi hanno rivolto neanche la parola. Proprio gli stessi che, a tre anni di distanza, a ottobre 2021 hanno partecipato a una giornata di volontariato nel carcere di Bollate”. A dimostrazione del fatto che ad abbattere i muri ci vuole poco. Basta sapere che dall’altra parte non c’è un nemico ma una persona - come Guido, come Aldo e come tutti gli altri che hanno condiviso questa esperienza - che ha tutto il diritto di crearsi un futuro. E di guardare oltre i suoi errori. Bari. Carcere e teatro: “in scena” i detenuti delle scuole carcerarie di Mary Divella internationalwebpost.org, 23 gennaio 2022 Intervista al Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica Tommaso Minervini. Il “trattamento”, nei suoi molteplici aspetti, costituisce il sistema attraverso cui si realizzano, in carcere, percorsi per il recupero e la riabilitazione di ciascun detenuto. Senza di esso la pena perderebbe di significato e si ridurrebbe a semplice reclusione e restrizione di libertà. L’attività culturale realizzata all’interno degli istituti penitenziari svolge un importante ruolo di miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e di importante ponte tra la realtà carceraria e l’esterno, realizzando una moderna forma di comunicazione. Ravvisata pertanto la necessità di superare l’idea del carcere come luogo di pena per approdare ad una pratica dell’istituto rieducativo, la scuola e il teatro diventano un elemento fondamentale per una reale crescita del percorso di risocializzazione delle persone detenute: questo è il punto di partenza che ha indotto la scuola primaria 26 CD Monte S. Michele e la scuola secondaria di primo grado di 1 C.P.I.A.- Bari, insieme al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a promuovere l’iniziativa teatrale che è stata messa in scena nella Casa Circondariale di Bari, lo scorso 8 giugno. L’esperienza del teatro è di per sé, un’esperienza forte, vibrante e, fatta all’interno di un istituto carcerario, permette di vivere un vero e proprio laboratorio su se stessi. Il teatro consente un percorso di vita forte, un percorso totale. Per questo motivo è soprattutto una disciplina che esula dagli stessi contenuti del carcere, dalla vita reale. È una disciplina che ha alla base un grande rispetto per la propria persona, una voglia di autodeterminarsi e, quindi, mette in moto uno spirito di rivalsa, perché lo spazio creativo è l’unico predisposto per questo percorso. Il teatro è insomma molto di più sia di un momento ricreativo sia di un momento scolastico, perché con esso si imparano tecniche, si sperimentano toni e linguaggi, ci si mette alla prova. Con “Ricominci-Amo”, spettacolo co-diretto da Ida Caracciolo e Gianni Vezzoso che ha coinvolto le persone detenute, le docenti e gli attori esterni Gianni Vezzoso e Stefano Camposeo, sono andate in scena due opere che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra gioventù: “L’amante”di Harold Pinter e “I Promessi Sposi” di Alessandro Manzoni. Ma la narrazione tradizionale cede il posto a giocose parodie e ribaltamenti comici e grotteschi, ottenendo effetti comici che hanno divertito tutti. Lo spettacolo non si limita solo a “rifare il verso” ai grandi classici, ma fa molto di più: li trasforma nei più vari e disparati generi, dalla favola alla soap opera, dalle televendite ai monologhi teatrali, dal musical al varietà. Di più, “Ricominci-Amo” è come un “cubo di Rubik”, dove figure simmetriche, perfettamente incastonate le une dentro le altre, si fanno ripercorrere continuamente dagli occhi dell’osservatore, incapace di percepire il confine tra realtà e sogno, tra realtà e finzione. Il risultato? Sentimenti, emozioni e tante risate che vedono uniti, persone detenute, docenti, operatori e spettatori. Tutti insieme. Di seguito, nell’intervista fatta al Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica della Casa Circondariale di Bari, Tommaso Minervini, parleremo dell’importanza delle attività culturali nel recupero e nel reinserimento delle persone detenute. Tommaso Minervini è il Responsabile dell’Area Giuridico-Pedagogica della Casa Circondariale di Bari. Qual è la sua missione istituzionale e in che modo l’ha interpretata? La mia missione è quella di riuscire a trasformare i detenuti in singoli individui e calibrare, con l’aiuto dei tanti operatori che lavorano all’interno dell’Istituto, le opportunità che permettono alle persone detenute di capire il proprio passato e riuscire così a costruirsi nuove speranze. Quanto sono importanti i percorsi riabilitativi per abbattere la recidiva e favorire il reinserimento delle persone detenute? I percorsi riabilitativi, scuole e lavoro in primis, sono i fondamenti del trattamento penitenziario, con i quali offriamo opportunità ai detenuti e, allo stesso tempo, ne osserviamo i comportamenti. A rotazione, molti detenuti sono impegnati in lavori di manutenzione, come la cucina, le pulizie e abbiamo anche elettricisti e idraulici. Il lavoro e la scuola sono fondamentali per abbattere la recidiva e favorire il reinserimento, anche se in un momento di difficoltà economiche le opportunità diminuiscono. In carcere tutti gli attori istituzionali dovrebbero operare per favorire questo aspetto, anche per quel che riguarda il lavoro in esterno, dagli enti territoriali alle amministrazioni penitenziarie. Riguardo ai bisogni educativi, quali scuole ci sono e quanto vi aiuta il Ministero dell’Istruzione? Per quanto riguardo l’aspetto legato all’istruzione, nel carcere di Bari ci sono percorsi scolastici interni: sono presenti corsi di scuola primaria, essenziali soprattutto per l’alfabetizzazione e quindi l’apprendimento della lingua italiana per i detenuti stranieri e corsi di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ogni anno tantissimi sono i detenuti che prendono la licenza media. L’istruzione in carcere rientra nel programma di interventi che l’istituto e gli operatori devono attuare, ispirandosi al criterio di individualizzazione. Il fine ultimo dell’educazione è quello di promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale. Il progetto educativo e formativo s’inserisce a pieno titolo nell’ampio quadro dell’espiazione della pena, influendo in maniera decisiva sull’eventuale adozione di misure come permessi premio o riduzioni di pena. Il rapporto che il docente ha con lo studente è fondamentale per il buon esito dell’educazione e dell’insegnamento. Parlando di detenuti questo rapporto è di difficile instaurazione. Le chiedo quindi quali sono i metodi base per poter guadagnare la fiducia e l’interessamento delle persone detenute che frequentano la scuola? Sicuramente il fattore principale che deve appartenere a chiunque operi all’interno di un istituto penitenziario è la capacità di accoglienza e di accettazione della diversità. Questo vale ancor di più quando ci riferiamo ai docenti di una scuola carceraria, i quali, oltre alle competenze didattiche, è necessario che abbiano competenze relazionali. Perché riuscire a stabilire la giusta sintonia emotiva con le persone detenute che decidono di seguire i nostri corsi, diventa lo strumento per garantire lo stesso successo scolastico. Oltre alle scuole, quali altri percorsi riabilitativi sono previsti dal carcere di Bari? Oltre a scuole e lavoro, di cui abbiamo già parlato, il nostro carcere organizza molte attività culturali, come presentazioni di libri con la presenza stessa degli autori e attività sportive, le quali ultime sono molto gradite e, quindi fortemente frequentate, dai detenuti. Non ultime sono le tante attività di sostegno psicologico a cui sono preposti molti nostri operatori. La detenzione, infatti, influenza i livelli di autostima e la consapevolezza delle capacità delle persone detenute. Per questo motivo un buon supporto psicologico risulta fondamentale ed è per lo stesso motivo che la mancanza di un supporto esterno induce, nella maggior parte dei casi, l’ex detenuto a delinquere nuovamente, una volta in libertà. A seguito della sentenza Torreggiani, quali sono state le misure poste in essere in questo carcere? Innanzitutto, a seguito delle Novelle Legislative adottate nel nostro istituto si è potuta documentare una vistosa riduzione della popolazione detenuta. Inoltre, abbiamo potenziato le attività per consentire una maggiore permanenza dei detenuti fuori dalle celle. A cambiare è stata l’organizzazione interna: i detenuti non sono più chiusi in cella per l’intera giornata e liberi solamente nell’ora d’aria. Le celle restano invece aperte, per circa 8 ore, con la possibilità per i detenuti, di muoversi negli spazi comuni. Quali sono i progetti futuri della Casa Circondariale di Bari? Molti progetti sono programmati per prevedere azioni specifiche in grado di intercettare e trattare con tempestività stati di disagio psicologico e di disturbo psichico o altri tipi di fragilità, attivando un coordinamento funzionale delle diverse figure professionali presenti, con l’obiettivo di mettere in atto misure di contenimento del rischio suicidario e dei comportamenti autolesivi e dei suicidi da parte delle persone detenute ed internate. Inoltre, metteremo in cantiere percorsi di giustizia riparativa, oltre a progetti a forte impatto sociale che ben rispondono alla missione dell’attuale sistema carcerario che è quella di creare un legame sempre più saldo tra carcere e territorio. La favola nera di Lorenzo e lo Stato resta a guardare di Luigi Manconi La Stampa, 23 gennaio 2022 È una favola nera, questa: una sorta di cupa parabola - quasi ne avessimo bisogno - sul lavoro che uccide. Ma, in questo caso, i tratti biografici del diciottenne Lorenzo Parelli, assumono i segni di una fatalità crudele e di un accanimento del destino che ci dicono anche molto altro. Nella lingua raffinata dei sociologi anglosassoni e dei funzionari di quei governi, la formula Neither in Employment or in Education or Training (Neet) definisce i giovani non impegnati in alcuna attività di studio o di lavoro o di formazione. Una quota crescente delle giovani generazioni. Ma, poi, c’è un’altra quota che lavora, e lavora duro: fanno i cosiddetti “lavoretti”, tra precarietà e super sfruttamento, tra mansioni servili e incessante cambio di impiego. E, ancora, c’è l’universo dei Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), ovvero la vecchia Alternanza Scuola-Lavoro, dai confini incerti e dai connotati confusi. Un mondo complicato, astrattamente da tutti apprezzato, ma sul cui funzionamento e sulla cui utilità i pareri sono discordanti, così come controverse sono le valutazioni sui risultati conseguiti e sui rischi che si corrono. È giusto, per intenderci, che il tempo dedicato all’attività lavorativa, in genere poco o nulla remunerata, sia sottratto alle ore di studio e di formazione fin nell’età dell’adolescenza? Ma questo è un discorso generale che richiama, immediatamente, il grande tema dei diritti e delle tutele in un paese dove gli incidenti sul lavoro raggiungono i numeri propri di un conflitto bellico. Ieri, ancora due vittime: a Busano, nel torinese, il cinquantottenne Vincenzo Pignone; a Pomezia, in provincia di Roma, il sessantaquattrenne Salvatore Mongiardo. Ora incombe una domanda grande come una casa: come è potuto accadere che una putrella di acciaio piombasse sul corpo di uno studente-lavoratore, nel suo ultimo giorno di tirocinio, uccidendolo all’istante? C’è da credere che vi possano essere responsabilità dell’azienda e che, anche in questa circostanza, il sistema dei controlli sulla sicurezza non abbia funzionato. Ma, per una volta, proviamo ad andare oltre, anche per cercare di evitare che la sorte di Lorenzo Parelli si riduca alla nuda cifra di una contabilità macabra e si confonda nella scia di quelle croci - quasi mille e cinquecento nel corso del 2021 - che accompagnano la fatica, la nocività e la letalità del lavoro. Certo, Lorenzo Parelli è morto secondo una modalità - per così dire - classica. Verrebbe da pensare: come, mezzo secolo fa e oggi, gli operai della metalmeccanica e della siderurgia e come, ancora, gli stranieri addetti alle più pesanti mansioni nei comparti più arretrati del nostro sistema industriale. Ma Lorenzo aveva compiuto diciotto anni appena lo scorso novembre ed era uno studente iscritto al Bearzi di Udine, un istituto tecnico industriale informatico e meccatronico (la disciplina che studia l’interazione tra meccanica, elettronica e informatica). Era un giovane d’oggi: e questo ci dice, con limpida brutalità, che le generalizzazioni sono sempre fallaci e malvage. Che i giovani d’oggi sono, sì, gli “sdraiati” che si sottraggono allo studio e al lavoro per inerzia o per accidia, quando pure un lavoro c’è, e accade raramente. Che i giovani d’oggi sono, certo, quelli immersi nei social fino all’ottundimento e negli apericena fino alla sbornia. Quelli che rifiutano le regole e i divieti imposti dal Covid; e che, dalla trasgressione adolescenziale, possono facilmente trascorrere alla violenza. Tutto vero. Ma i giovani d’oggi sono anche quelli che continuano a studiare, a diplomarsi, a laurearsi in scuole e università che, in genere, offrono loro ben poco o nulla; sempre ai margini di un mercato del lavoro che, in settantacinque anni di sistema democratico, non ha saputo offrire canali di comunicazione e di scambio con le imprese, se non nella forma, ancora tutta da mettere a punto, rappresentata dai Pcto. Per questa ragione quello di Lorenzo non è solo un “omicidio bianco”. È anche una favola nera: perché si svolge e si conclude tragicamente in uno scenario di boschi, paludi e torbiere e tra borghi e frazioni dove il lavoro è ancora il cuore della vita comunitaria. E perché la sua gioventù stroncata dal peso assassino dell’acciaio richiama il mito antico della lotta impari tra l’uomo e la materia. E il fatto che la saggia e ambiziosa volontà di dominare la natura può risultare una povera cosa se non soccorrono l’intelligenza, l’esperienza e il principio di precauzione. E se a difendere quel giovane dall’insidia letale di un carico sospeso non intervengono tutele efficaci, protezione normativa e sindacale, solidarietà tra compagni di lavoro, tra giovani e anziani, tra apprendisti e competenti. Solo così, forse, questa parabola dell’orrore potrà affidarci una lezione da cui imparare qualcosa. Risse, molestie e rapine. La paura di Milano: “Ostaggio delle gang giovanili” di Piero Colaprico La Repubblica, 23 gennaio 2022 Le violenze sessuali di Capodanno al Duomo, l’agguato al vigile ai Navigli: “Il centro terra di conquista, non ci si sente più sicuri”. Il sindaco Beppe Sala ha chiesto al prefetto Renato Saccone di invitare il ministro - ed ex prefetto della metropoli - Luciana Lamorgese. Verrà a fine mese per ragionare sulla “profanazione di Milano”. L’ha chiamata così il procuratore aggiunto Alberto Nobili, il magistrato milanese che conosce “la strada” meglio di tutti. “Profanazione - dice - non solo per la gravissima violenza di genere avvenuta in piazza Duomo la notte dell’ultimo dell’anno, ma anche perché è stata attaccata la città nel suo cuore. Questi giovani sapevano come muoversi per colpire e hanno profanato il senso di sicurezza che proviamo quando siamo in quella piazza, che è l’anima di Milano”. Indietro da questa “profanazione” non sembra che si possa più tornare. Siamo - politicamente, sociologicamente - a un punto di svolta. Come avvenne nel 1999. Allora le cronache registrarono i “nove morti in nove giorni” che portarono Milano, e via Padova, alla ribalta mondiale. Da lì nacque l’idea di far pattugliare le città dai soldati. E le risposte al disagio e alla violenza si trovarono anche nelle associazioni di quartiere, con i preti di strada, immersi in un grande dibattito pubblico. Ma oggi possono valere le stesse risposte? La realtà dice che siamo dentro uno scenario profondamente mutato e che è profondamente mutato il mondo dei protagonisti delle violenze: “Due dei presunti violentatori di Capodanno, si sa, li abbiamo presi. Altri otto - rivela un ispettore della squadra Mobile - li andremo a prendere presto, e non solo a Milano”. Inchiesta conclusa? “Per certi versi sì. Sono già stati identificati. Eppure, più ne catturiamo e ne mandiamo a processo, più ci sentiamo dire che Milano è il Far West. Invece, questa città per noi detective è come una tovaglia tutta bianca, solo con qualche macchia nera”. Macchie che spiccano. Forse perché Milano oggi si è ridotta, causa pandemia, a essere una “Non-Milano”. Se moltissimi cittadini sono entrati in una sorta di volontario e stralunato lockdown, sotto le nostre finestre diventa più visibile, e meno contrastato, uno sciame sconosciuto: una sorta di giovane, rumorosa e spesso aggressiva “popolazione del rancore”. La prima macchia, ed è indelebile, è quella delle violenze in Duomo, ai danni di undici ragazze, tutte nate tra il 2001 e il 2003. Gli autori sono coetanei o poco più grandi. Il ministro Lamorgese parla di “una tecnica fatta a cerchi concentrici, in modo da isolare le vittime”. Violentatori organizzati di massa, giovani, mix di italiani e stranieri, che per la prima volta hanno colpito a Milano. Dopo il Duomo, ecco non lontano dai Navigli l’aggressione al vigile in borghese, sempre da parte di giovani e giovanissimi (questi ultimi in arrivo da Bolzano). Nel video clamoroso si vede partire il colpo dalla pistola del “ghisa” e ci si meraviglia del fatto che nessuno, nemmeno di rimbalzo, sia stato ferito dal piombo. C’è stata anche la retata che ha portato in cella o agli arresti domiciliari per rapine ai passanti due rapper del quartiere San Siro. Sono Neima Ezza e Baby Gang, che ieri in carcere a San Vittore si proclamava innocente. Infine, il borseggio subito dalla senatrice a vita Elena Cattaneo: percorreva con le stampelle un corridoio della metropolitana con lo zainetto sulle spalle; s’è accorta che una donna alle sue spalle armeggiava e, tentando di inseguirla, è avanzata di qualche metro; ha perso l’equilibrio ed è caduta (abbiamo visto il filmato Atm). E queste “macchie nere”, così come le troppe risse che spuntano ovunque, s’inquadrano dentro la tovaglia bianca delle strade svuotate: “Per noi è evidente - suggerisce un carabiniere di pattuglia - che queste violenze non si generano in città, ma si manifestano in città. Milano è il luogo dove sfogarsi. Si arriva da chissà dove, si colpisce e si sparisce”. Il centro del centro, come dimostrano piazza Duomo, ma anche i luoghi della movida, da corso Como al “distretto Arcobaleno” di Porta Venezia, sono diventati per le bande giovanili una specie di trofeo, di luogo di conquista. Esiste un dato di fatto che dalle cronache cittadine ancora non emerge: è vero che le rapine in strada sono ai minimi storici, ma nei week end aumentano vertiginosamente. “Quello che i rapper cantano nelle canzoni, come strappare una collanina, per molti giovani di origine non italiana che, a differenza dei genitori, non si vogliono integrare, è la vita che vale la pena di essere vissuta fregandosene delle regole, del lavoro, del rispetto degli altri. Contano il gruppo, i soldi, i vestiti alla moda”, aggiunge un investigatore. Ieri si sono celebrati in zona Comasina i funerali del vecchio e malato Pepé Flachi, ultimo dei gangster metropolitani: “Le retate degli anni ‘90, la reazione alle stragi palermitane, hanno schiantato i boss che sparavano per uno sguardo sbagliato. Adesso la mafia non uccide, si è nascosta, fa soldi e ricicla. E al cittadino medio non sembra più dar fastidio”. Gli danno infatti più fastidio i “casini in strada”, le bande multietniche, delle quali si ignora moltissimo: “Tra le undici vittime di Capodanno, una sola abita Milano. Una - raccontano a palazzo di giustizia - era partita in treno con amici nordafricani, i quali avevano appuntamento in Duomo con altri nordafricani. E come si chiamano? Non ne conosceva un nome. Questi ragazzi parlano sempre di amici. Ma allora che amici sono?”. Le due Italie della scuola, quanti danni ai ragazzi del Sud di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin Corriere della Sera, 23 gennaio 2022 Il Pnrr prevede 17.5 miliardi di euro sul capitolo istruzione, di cui 12 per le infrastrutture, È un’opportunità, ma manca una discussione sulla formazione che vogliamo per i prossimi 20 anni. La protezione della continuità scolastica in tempi di Covid è stato uno dei temi caldi degli ultimi due anni. Questo governo ha assunto una posizione chiara e condivisibile: la scuola aperta è una priorità del Paese perché la didattica a distanza penalizza gli studenti e aggrava le diseguaglianze in modo permanente. Nonostante ciò, il rientro dopo la pausa natalizia ha ancora visto una divisione nel Paese tra chi vuole chiudere la scuola in presenza e chi no. Questa discussione è comune ad altri Paesi ed è per certi versi comprensibile, ma ciò che più colpisce in Italia è il divario delle preferenze tra Nord e Sud. Nonostante il monito del governo e la normativa nazionale, diversi presidenti di Regione e sindaci del Mezzogiorno, facendosi interpreti di una visione che vede un bilanciamento tra il diritto alla salute e quello all’istruzione diverso rispetto al resto del Paese, hanno ordinato chiusure prolungate nel mese di gennaio. In Sicilia, ad esempio, 161 Comuni hanno emanato ordinanze di chiusura e solo lentamente la situazione si è normalizzata. Situazioni analoghe si sono registrate in tutto il sud Italia. La pandemia degli ultimi due anni ha colpito tutte le regioni in modo simile, ma gli effetti sulla scuola sono stati molto eterogenei. Save the Children riporta che, lo scorso anno scolastico, gli studenti di Bari e di Napoli, tra settembre e febbraio, hanno frequentato la scuola in presenza per un numero di giorni pari a circa la metà dei giorni degli studenti di Milano e Torino. Per capire il significato di questo dato, bisogna spacchettare i numeri. Gli effetti della chiusura delle scuole sono stati più accentuati in territori più fragili, dove i tassi di abbandono scolastico erano già in epoca pre-Covid attorno al 20 per cento. In particolare, i tassi più elevati si verificano nelle grandi città del Mezzogiorno dove le percentuali di dispersione e abbandono segnalati dai tribunali dei minori sono maggiori e alimentano l’esercito potenziale a servizio della criminalità organizzata. Le fragilità pre-esistenti, quindi, moltiplicano gli effetti delle chiusure legate al Covid. Dal 2019 al 2021, i tassi di dispersione implicita, cioè la percentuale degli studenti che termina il percorso di studio senza competenze di base minime, sono cresciuti dal 7 al 9.5 per cento nella media del territorio nazionale. Ma questo numero nasconde enormi differenze regionali: in Puglia è aumentata dall’ 8.9 al 16.2 %, in Campania dal 13.8 al 20.1 % mentre, nello stesso periodo, in Piemonte è diminuita dal 3 al 2.5 % e in Lombardia è rimasta più o meno costante, intorno al 1.7%. È inevitabile che questi due anni di pandemia abbiano effetti di lungo periodo per la vita lavorativa degli studenti delle regioni più colpite e di coloro che provengono da contesti socio-economici più svantaggiati. Il Pnrr prevede 17.5 miliardi di euro sul capitolo istruzione, di cui 12 per le infrastrutture (ad esempio nuove scuole ed asili, palestre e mense scolastiche, messa in sicurezza degli edifici) e i restanti per le competenze e le riforme come l’estensione del tempo pieno a scuola, la riforma degli istituti tecnici e il reclutamento degli insegnanti. La spesa sulle infrastrutture è già avviata e l’implementazione di diverse riforme è prevista negli anni a venire. È un’opportunità, ma manca una discussione sulla scuola che vogliamo per i prossimi 20 anni e forse anche un senso di urgenza della discontinuità di cui abbiamo bisogno, urgenza resa evidente dall’esperienza catastrofica della pandemia. Nonostante la ricchissima tradizione pedagogica italiana e l’impegno del governo, in questo periodo ci siamo abituati a parlare della scuola solo in termini emergenziali senza cogliere l’opportunità di riformarla. E riformarla significa anche ricostruire un tessuto sociale attorno ad essa che tenga conto della percezione - pregressa - che i territori hanno di un sistema educativo che ha largamente fallito nella sua missione di combattere la povertà educativa, promuovere i talenti, formare i ragazzi alla cittadinanza e che due anni di chiusure hanno ulteriormente sfiduciato. Non vi è solo un problema di offerta - nuove scuole, asili nido, tempo pieno a scuola - ma anche di domanda di istruzione da parte di una società che, specialmente nel Mezzogiorno, nella scuola crede poco perché ha smesso da tempo di essere veicolo di promozione sociale. Bene fare della riapertura delle scuole una priorità nazionale, è un segnale importante. Tuttavia, l’approccio centralizzato - che condividiamo - si scontra con le pulsioni chiusuriste locali e con i protocolli di messa in quarantena delle classi la cui applicazione non è sempre omogenea sul territorio nazionale perché la società ha preferenze diverse. La politica locale asseconda queste preferenze esasperando i divari che non riguardano solo il reddito, ma anche la cultura e le norme di comportamento. Questo porta ad una discrepanza tra le leggi nazionali e la loro attuazione e interpretazione. In altre parole, tra ciò che è de jure e ciò che è de facto. Se da un lato la politica locale è l’espressione della cultura e delle norme di comportamento della società, dall’altro, non la rappresenta tutta. C’è una parte della società civile che da anni produce esperienze innovative, che non ha rinunciato ma che non ha voce. Una politica nazionale con una forte visione sul futuro del Mezzogiorno e dei territori più fragili deve basarsi su queste esperienze, aggregarle e reinterpretarle facendole sue. C’e’ da sempre, tra chi si occupa di divari territoriali e di Mezzogiorno, una divisione tra chi crede in un approccio centralizzato e chi invece vuole dare più potere ai territori. È una discussione inutile. Le istituzioni - e qui ne parliamo in senso largo, intendendo cultura e norme - non si costruiscono né dai vertici alla base né dando voce esclusivamente alla base. I processi virtuosi sono il frutto di una visione che in parte è ispirata da esperienze locali, ma che le reinterpreta e le rende pragmatiche e congrue ad un progetto nazionale. Senza questi binari incrociati non ci saranno mai riforme, ma solo veline da presentare in Europa. E senza dare voce al meglio che la società esprime non si arresterà il progressivo divario del Mezzogiorno italiano e del nostro Paese dall’Europa. Libia. “Haftar o Gheddafi? Spero in una visione più ampia dei cittadini” di Giulia Cannizzaro Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2022 Dopo il rinvio del voto, aumentano sempre di più le incertezze sulla data della chiamata alle urne per un’elezione che deve rappresentare la svolta per il Paese devastato da 10 anni di guerra civile. La rappresentante per il Sahel dell’Ue spiega a Ilfattoquotidiano.it che, in questo momento, le priorità sono due: “Riforma della Costituzione e una nuova legge elettorale più equa”. Il governo di Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, l’imprenditore di Misurata diventato primo ministro e che deve traghettare la Libia verso le elezioni che dovrebbero sancire la svolta verso una definitiva pacificazione e la ricostruzione, scricchiola sotto i colpi di un gruppo di parlamentari che chiede la formazione di un nuovo governo di transizione. Dopo il primo rinvio delle elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso 24 dicembre, si naviga più che mai a vista e la situazione di fibrillazione nel Sahel complica ulteriormente il quadro. Emanuela Del Re, rappresentante speciale dell’Unione europea per il Sahel, esperta di Africa, analizza l’attuale scenario in un’intervista a Ilfattoquotidiano.it. Il consigliere del segretario generale delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, ha parlato di elezioni in Libia entro il 30 giugno. Vista la situazione di instabilità attuale, che probabilità ci sono che si tengano effettivamente entro questa data? Le elezioni sono state rimandate perché non sono state adeguatamente preparate. Io direi che forse nei prossimi 15 giorni, dopo la sessione parlamentare che verrà convocata da Aguilah Saleh (il Presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk, ndr), si verificherà uno di questi due scenari. O si andrà verso un nuovo governo con un primo ministro che non sia Dbeibeh e che potrebbe essere, per esempio, Fathi Bashagha (ex ministro dell’interno libico del governo al-Sarraj, ndr) o qualcun altro. Oppure che Dbeibeh riesca a rimanere primo ministro. Quello che è necessario fare prima di tutto è ridefinire la Costituzione, motivo per il quale le elezioni sono state rimandate. Poi fare chiarezza su alcuni punti del processo elettorale. É necessario, ad esempio, stabilire criteri chiari per la partecipazione alle elezioni. Basti pensare al nodo della partecipazione dei militari. É una fase di transizione molto complicata. Un gruppo di parlamentari chiede la formazione di un nuovo governo di transizione che vada a sostituire quello di Dbeibeh, accusato dai suoi avversari politici di corruzione. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite per la Libia, Stephanie Williams, invece, ha detto che il Paese ha bisogno solo di un “orizzonte politico stabile”. Come interpreta queste parole? Dbeibah rimane al suo posto nonostante non si possa più definire una figura garante? Avere un governo che sia solido e che sia capace di traghettare il Paese verso le elezioni senza ulteriori scossoni può essere ragionevole. Se vogliamo evitare che in Libia venga dimenticato l’obiettivo elettorale, bisogna continuare a sostenere le parti che vedono ancora le elezioni come un traguardo fondamentale. Dbeibeh vuole conservare la prospettiva elettorale e questo va assolutamente nella direzione delle Nazioni Unite. É anche vero che le parti in causa chiedono che nella legge elettorale venga messo per iscritto che l’attuale primo ministro non possa candidarsi alle elezioni perché altrimenti avrebbe una posizione di eccessivo vantaggio. Allo stesso tempo, però, la transizione prevede anche l’opzione di mantenere questo primo ministro per poter accompagnare il processo elettorale. É indubbiamente un momento molto delicato e complesso per la Libia. Nel caso in cui si decidesse di creare un nuovo governo di transizione, ci potrebbe essere il rischio di un nuovo rinvio delle elezioni oltre giugno? Potrebbe anche accadere, nel senso che bisogna affrontare due questioni fondamentali: costituzione e legge elettorale. La legge elettorale attuale sicuramente non è una buona legge perché favorisce alcuni poteri in particolare, ad esempio quello del presidente. Inoltre, è necessario evitare una forma di presidenzialismo troppo forte proprio perché la Libia già di per sé è molto frazionata e ha già vissuto in passato lotte per il potere. Secondo me, ad un certo punto, si arriverà ad un accordo di condivisione del potere, ad una formula di equilibrio. Sono processi non facili. Come si può garantire la legittimità del voto e il rispetto del risultato elettorale, visto il caos derivato dalla valutazione delle candidature (quella di Dbeibah su tutti) e lo scontro sulla legge elettorale? È ragionevole pensare che ci saranno degli sconfitti che non accetteranno il voto? É questo il vero problema. Ecco perché alcuni osservatori si interrogano sull’opportunità di andare oltre l’obiettivo elettorale che però - sia chiaro - rimane fondamentale. La situazione è da anni molto complicata sia sul piano politico che sul piano sociale. Si ha la percezione che ci sia una certa nostalgia per Gheddafi e questo vuol dire che evidentemente dai tempi del Raìs è rimasto un vuoto che deve essere ancora colmato. Peraltro, c’è la regione meridionale del Paese (il Fezzan, ndr) che è forse l’area più instabile. É necessario fare in modo che il governo che verrà sia un governo di unità nazionale che riesca anche a ricomporre questo mondo così variegato e che restituisca la dignità alle popolazioni del sud che si autopercepiscono emarginate dal potere centrale. Considera Haftar (per le azioni militari intraprese in passato) e Gheddafi (ricercato per crimini di guerra) dei candidati accettabili? Se le candidature rispondono a dei criteri legali e condivisi, chiaramente non posso dire che non si possano candidare. Il vero problema è portare la popolazione libica ad allargare gli orizzonti perché per adesso c’è una polarizzazione. Il popolo libico è un grande popolo, di grande acume politico. Ho un’enorme fiducia nella popolazione. Vista la presenza ancora pressante degli attori internazionali in territorio libico, Turchia e Russia in primis, quali possibilità reali ci sono che si possa compiere il processo elettorale ed arrivare ad una stabilità post-elezioni? Nei prossimi 15 giorni vedremo cosa accadrà. La cosa veramente importante è vedere se si riuscirà ad agire sulla questione costituzionale e della legge elettorale. La questione della presenza di altri attori internazionali, come Turchia e Russia, ha una sua importanza ma non è tanto questo il problema, quanto trovare una convergenza di interessi. In questo momento sulle elezioni c’è una certa convergenza. Non credo che questo fattore possa essere l’unico determinante tutto l’esito del processo. Ucraina - Russia, falsi allarmi e fughe: dentro la psico-guerra di Putin di Francesco Battistini Corriere della Sera, 23 gennaio 2022 Gli Usa mandano armi e sgomberano l’ambasciata mentre a Kiev e nel resto del Paese si moltiplicano le telefonate che annunciano bombe: 300 solo a gennaio. “Happy New War”, buona guerra a tutti. L’augurio è ancora lì. E dice che all’Ocean Plaza, in mezzo alle tangenziali di Kiev, almeno la prendono con ironia: “Sono due anni che ogni tanto telefonano per avvertire d’una bomba - racconta una commessa, Maryna Kovalenko, 24 anni -. E ogni volta dobbiamo evacuare il centro commerciale. L’ultimo mese è stato un incubo: chiamano di continuo. Non sarà un 2022 tanto allegro…”. I botti, se ancora non si sentono, intanto s’annunciano. Dal primo gennaio, un po’ in tutta l’Ucraina, i falsi allarmi sono stati un bombardamento. Più di trecento in tre settimane. Gente che parlava russo, numeri del Donbass, perfino di Mosca. E mica roba di mitomani: “La psico-guerra di Putin comprende anche questo - dicono al ministero della Difesa -: alzare la tensione, tenerci sulle spine”. Finora, il governo ha dovuto evacuare 150 scuole. In un solo giorno, una decina di supermercati. La settimana scorsa, è toccato alla stazione centrale di Kiev e all’aeroporto internazionale. “Ora metteremo a punto un sistema più sofisticato d’allarmi per evitare la psicosi”, ha promesso il ministro Oleksiy Reznikov: “Le sirene suoneranno solo quando l’allerta sarà reale”. Quando? Dimmi che è già un’invasione senza dirmi che è già un’invasione. A Shulaka, una quindicina di km dalla capitale, l’ambasciata Usa ha dato ordine di fare gli scatoloni: domani, il “personale non essenziale” e centinaia di familiari americani prenderanno un volo sola andata per New York, via Francoforte. Anche i tedeschi starebbero per sgomberare. Una relazione dei servizi inglesi fa addirittura i nomi d’un possibile governo filorusso che Putin sarebbe pronto a insediare a Kiev, presidente l’ex deputato Yevhen Murayev e ministri i vecchi arnesi del regime di Viktor Yanukovich, deposto nel 2014. “Reazioni esagerate”, s’irrita il presidente ucraino Volodimir Zelensky, che al panico occidentale contrappone il fatalismo d’un popolo ormai abituato a sette anni di trincea. “La guerra è lontana e nella capitale non si sente - sembra d’accordo Nicola Rizzoli, 50 anni, l’ex arbitro italiano chiamato da qualche mese a istruire i suoi colleghi ucraini -, la paura è più all’estero che qui”. Perché se ci sarà da combattere, è da un pezzo che ci si prepara. Nei vecchi palazzoni sovietici si ripuliscono i rifugi antiaerei, che negli ultimi trent’anni servivano per la spazzatura. Un grande studio legale, una trentina d’avvocati, sta spostando i suoi affari a Praga e a Budapest, “sono anni che s’aspetta il peggio e in quest’incertezza chi fa causa in tribunale?”. Il weekend, nei boschi intorno a Kiev si radunano scapoli, ammogliati e casalinghe disperate per imparare l’arte dell’autodifesa popolare, passo del leopardo e tiro al bersaglio, in corpi di buona volontà chiamati “Legione Ucraina” o “Patria Libera”. Su 40 milioni di civili, ce n’è un milione e mezzo che possiede un’arma - e non si parla di fucili da caccia -, oltre che un mezzo milione con un passato nell’esercito. Zelensky punta anche su di loro e ha chiesto alla Germania d’avere “con urgenza” 100mila fra giubbotti antiproiettile ed elmetti, da distribuire. La disparità coi russi schierati sul campo è enorme: 250mila soldati contro 850mila, 50mila paramilitari contro 250mila, 206 aerei contro 2.478, 164 elicotteri contro 2.087, 2.596 tank contro 12.420, 12.303 blindati contro 30.122, 3.107 bocche di fuoco contro 14.145, 490 lanciarazzi mobili contro 3.391, 38 fregate contro 605. La voglia d’armarsi, altrettanto grande: ieri sono sbarcate dagli Usa le prime 90 tonnellate di munizioni e missili antitank Jevelin, ultima tranche da 200 milioni di dollari d’un finanziamento in armi che, dal 2014, ha raggiunto i 2,7 miliardi. Lo stesso stanno facendo inglesi (sette aerei pieni d’anticarro Stinger), canadesi (addestratori), baltici (Javelin), turchi (droni), spagnoli e olandesi (navi), in un’insolita corsa della Nato a soccorrere un Paese che della Nato, ancora, non è. “Caro Jens Stoltenberg”, scrive un piccolo imprenditore di Kirivohdraska Oblast, tale Demian Hamul, in una lettera aperta al segretario dell’Alleanza atlantica pubblicata da tutti i giornali: “Ho 5 ettari di terra ricevuti in eredità. Io non li uso. Te li regalo. La base della Nato, puoi farla lì. Meglio le tue truppe di quelle di Putin”. Colombia. La Corte contro Duque: “La coca non si combatte spargendo glifosato” di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 23 gennaio 2022 Sentenza storica dei giudici costituzionali contro la politica del governo e voluta dagli Stati Uniti: le comunità locali non sono state coinvolte, ma è su di loro che pesano i danni a salute e ambiente. Duro colpo per il presidente colombiano di estrema destra, Iván Duque, che il prossimo 13 marzo punta a essere riletto. Il 19 gennaio la Corte costituzionale colombiana ha imposto lo stop alla ripresa delle fumigazioni aeree sulle zone del Paese in cui si coltiva la pianta di coca (da cui poi si ricava la cocaina). Interventi unici al mondo, con la Colombia unico Paese ad accettare questa strategia voluta dagli Usa, iniziati nel 1978 contro le piantagioni di marijuana, nel 2000 formalizzati e militarizzati con la firma del Plan Colombia per poi fermarsi nel 2015. A rimetterli in campo tre anni dopo, sotto ricatto statunitense (pena la perdita degli aiuti economici), è lo stesso Duque che appena eletto concorda il suo nuovo piano antidroga e di sicurezza nazionale con l’allora presidente americano Donald Trump, facendone un progetto politico. Guerra senza quartiere non solo contro i cartelli, ma anche contro i consumatori e, soprattutto, rimessa in discussione degli accordi di pace sottoscritti dal suo predecessore con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), il principale gruppo ribelle del Paese. Per le Nazioni unite, la Colombia è il primo produttore al mondo di cocaina. Nel tentativo di arginare quei raccolti, per decenni, su intere aree rurali e comunità indigene sono stati spruzzati dal cielo milioni di litri di erbicidi a base di glifosato. Provocando, secondo organizzazioni non governative e istituti di ricerca indipendenti, danni ambientali ed effetti collaterali sulla salute delle persone (bambini compresi). Rivelandosi a lungo termine del tutto inefficaci nell’interrompere la produzione della cocaina, molto richiesta e consumata nei mercati illegali occidentali (e non solo). E provocando migrazioni interne, proteste di massa e il disboscamento di nuove aree forestali. Per i giudici, le istituzioni colombiane interessate dovevano consultare le popolazioni locali prima di ricominciare a irrorare nuovamente dal cielo, cosa che non hanno fatto, nonostante l’anno di tempo che gli era stato concesso. Una “sentenza storica”, per le organizzazioni e gli esperti di diritti umani. “La decisione della Corte - spiega al manifesto Pedro Arenas di VisoMutop, think thank che dal 2012 promuove riforme delle politiche sulla droga in tutta la Colombia - tutela il diritto di quelle 104 municipalità, che erano nel piano irrorazioni del governo nazionale, di essere informate preventivamente, nell’ambito di un processo di partecipazione e tutela dei diritti delle comunità locali”. Sulla stessa linea Martin Jelsma, direttore del programma Droga e Democrazia dell’olandese Transnational Institute (Tni) che già nel 2001 denunciava gli scarsi risultati ottenuti negli anni Novanta: “Oltre 300mila ettari di campi di coca colombiana e papavero da oppio sono stati irrorati dagli aerei con tre milioni di litri di prodotto - ricorda riportando quei dati di oltre vent’anni fa - ma la coltivazione della coca in Colombia è triplicata da quando sono iniziate le fumigazioni. L’inquinamento colpisce gli esseri umani, gli animali e la vegetazione, distruggendo i mezzi di sussistenza delle comunità contadine e indigene”. Anche per questo, nel 2015, l’allora presidente di centro-sinistra, Juan Manuel Santos, aveva cambiato strategia, incrinando le relazioni con gli Usa. Stop alle fumigazioni e accordo di pace con le Farc. Anche perché nel frattempo il glifosato usato per le irrorazioni era stato classificato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come probabile o possibile agente cancerogeno per l’uomo. Il piano di Santos prevedeva un programma nazionale con fondi statali per la sostituzione delle colture. Essendo antieconomico, causa assenza di infrastrutture, coltivare in quelle remote aree montuose e forestali altri prodotti (ad esempio il cacao o il caffè al posto della coca), lo Stato avrebbe messo a punto un programma che sovvenzionava quelle famiglie. Arriviamo così al 2018: in Colombia viene eletto Duque, fin dall’inizio contrario all’accordo con le Farc e che oggi potrebbe contare su appena il 4% dei piani di sviluppo per la Colombia rurale completati, tra quelli previsti entro il 2021. La produzione di coca intanto cresce e su spinta Usa il governo colombiano studia un nuovo piano di fumigazioni. “Per riprenderle - assicura Arenas - ora il governo deve riavviare nuovamente l’iter per l’ottenimento dell’autorizzazione ambientale e sanitaria nel rispetto delle prescrizioni disposte dalla Corte costituzionale. Tale processo richiederà quasi un anno e molti esperti ritengono che in ogni caso l’amministrazione Duque non può avvelenare dall’aria il suolo, i raccolti e la foresta pluviale, con il pretesto di perseguire i narcotrafficanti”. Intanto, anche alla Casa Bianca, almeno pubblicamente, la politica sembra essere cambiata. La nuova amministrazione statunitense, guidata dal democratico Joe Biden, non ha fatto cenno alle fumigazioni nella dichiarazione congiunta del Gruppo di lavoro bilaterale antidroga Colombia-Stati uniti del 24 settembre. L’ong britannica Human Rights Watch (Hrw), in vista della visita in Colombia del sottosegretario di Stato Usa, Antony J. Blinken, gli ha ugualmente ricordato pubblicamente che “gli agricoltori hanno segnalato sintomi da esposizione al glifosato che includono irritazione della pelle, lesioni cutanee, allergie, problemi respiratori e vomito”, in aggiunta alle “prove che il glifosato può alterare il sistema endocrino umano e causare gravi danni agli occhi”. Arresti e torture, la Cina vince le Olimpiadi della paura di Fabrizio Gatti L’Espresso, 23 gennaio 2022 Pechino pronta a ospitare i Giochi invernali, mentre la repressione colpisce anche donne e bambini. Ma il presidente del Coni boccia il boicottaggio: “Il mio ruolo è solo sportivo”. Il regime nazionalcomunista cinese è pronto per il ritorno sul palcoscenico globale. Venerdì 4 febbraio lo stadio nazionale di Pechino ospiterà in mondovisione la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali. È il primo appuntamento internazionale con la Cina, a due anni esatti dallo scoppio della pandemia. L’Italia sportiva parteciperà ai massimi livelli, a cominciare dal presidente del Coni, Giovanni Malagò. E la discesista azzurra Sofia Goggia, campionessa olimpica nel 2018, sarà la portabandiera e la trascinatrice delle ambizioni nazionali. C’è però un’altra olimpiade al femminile che le dirette televisive e la retorica dei Giochi non mostreranno: è la gara quotidiana con la vita che decine e decine di coetanee di Sofia disputano ogni giorno nelle celle della dittatura rinforzata dal presidente Xi Jinping, nelle camere delle torture, nell’immenso arcipelago gulag contemporaneo che gran parte dei governi democratici, in cambio di contratti e fatturati, fingono di non vedere. La questione ci riguarda da vicino, perché alla cerimonia di chiusura il 20 febbraio, nel passaggio di consegne con le prossime Olimpiadi invernali italiane, i sindaci di Milano e Cortina d’Ampezzo stringeranno quelle stesse mani insanguinate che guidano la repressione contro gli studenti di Hong Kong, i musulmani dello Xinjiang, i citizen-journalist che avevano banalmente documentato lo scoppio dell’epidemia a Wuhan, gli avvocati, gli attivisti per i diritti umani, i sindacalisti indipendenti, i loro genitori, i mariti, le mogli, i fratelli, le sorelle, perfino i bambini. Sotto la lente digitale del controllo totale, non è difficile passare per oppositori. A differenza delle Olimpiadi del 1936 a Berlino, nella capitale della più armata e oscena dittatura dell’epoca, oggi nessun atleta, nessun funzionario del Comitato olimpico internazionale, nessun politico può avere l’alibi dell’ignoranza. Amnesty International, Human Rights Watch, Chinese Human Rights Defenders, Uyghur Tribunal e numerose altre organizzazioni non governative hanno riempito la Rete con migliaia di pagine di rapporti. È stato perfino denunciato il commercio di organi dei detenuti politici condannati a morte o uccisi apposta per l’espianto. “Quello cinese è un totale inverno dei diritti umani”, dice Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty International: “Grazie alla legge sulla sicurezza nazionale, a Hong Kong è stata messa a tacere ogni forma di dissenso e anche Amnesty International ha dovuto chiudere il suo ufficio; nella regione autonoma dello Xinjiang, è proseguita la campagna di indottrinamento politico, detenzioni arbitrarie di massa, tortura e assimilazione culturale ai danni dei musulmani. Tutta la situazione dei diritti umani in Cina ha continuato a deteriorarsi: avvocati e attivisti sono stati condannati per il mero esercizio del diritto alla libertà d’espressione e per essersi occupati di casi sensibili”. Per Giulio Regeni, torturato e ucciso dai servizi segreti del Cairo, e Patrick Zaki, ancora sotto processo in Egitto, si è giustamente mobilitata l’Europa. I casi di Julian Assange e Edward Snowden sono diventati famosi in tutto il mondo. Ma quando una ragazza, una madre, una donna cinese vengono picchiate o violentate sulla sedia della tigre, un seggiolone in acciaio in cui il corpo è legato caviglie-schiena-polsi, le loro storie restano rinchiuse nei dossier e si continua a far finta di niente. Esattamente come accadrà a Pechino, tra uno slalom e una partita a curling. Due anni fa, il 3 febbraio 2020, Zhang Zhan, 38 anni, ex avvocata, arriva a Wuhan per documentare su Twitter e YouTube cosa sta accadendo nella prima città colpita dall’epidemia di polmoniti. Scompare il 14 maggio. Viene dichiarata in arresto il 19 giugno e condannata a quattro anni di reclusione il 28 dicembre a Shanghai, la sua città, con l’accusa di aver diffuso notizie false. Ora è in gravi condizioni per lo sciopero della fame che ha cominciato per protesta e l’alimentazione forzata, imposta attraverso un sondino nasale manovrato dalle sue compagne di cella. Li Qiaochu, 31 anni, si occupa di diritti delle donne. A inizio 2020 informa gli abitanti di Pechino sui rischi dell’epidemia a Wuhan e distribuisce mascherine al personale sanitario. La arrestano il 16 febbraio. Viene rilasciata su cauzione il 18 giugno. Ma torna di nuovo in carcere il 15 marzo 2021 dopo aver rivelato che il suo compagno arrestato il 15 febbraio 2020, l’attivista per i diritti umani e insegnante dell’Università di Pechino, Xu Zhiyong, aveva subito torture. Il professor Xu per oltre una settimana è stato immobilizzato dieci ore al giorno alla sedia della tigre, con gli arti legati così stretti da respirare a fatica. Adesso anche Li Qiaochu è accusata, come il suo compagno, di incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato. La blogger Liu Yanli, 45 anni, aveva invece aperto centosessanta gruppi sulla piattaforma cinese WeChat per sensibilizzare i suoi lettori ai temi di giustizia sociale. Il 22 aprile 2020, con l’accusa di aver provocato liti e disturbo, viene condannata a quattro anni di reclusione. L’elenco di donne e uomini imprigionati potrebbe proseguire per molte pagine. Non sempre si riesce a conoscere in diretta quello che accade, nelle prigioni tenute spesso segrete ai familiari, nei campi di detenzione dove l’apparato di Xi Jinping sta annientando la fede della minoranza musulmana e perfino nelle stazioni di polizia. I resoconti a volte arrivano con anni di ritardo, quando le vittime una volta liberate riescono a ottenere l’asilo in nazioni sicure. Un paziente lavoro di documentazione, raccolta di testimonianze e costruzione della memoria lo sta svolgendo a Londra l’organizzazione indipendente Uyghur Tribunal. Sulla base di queste indagini, il 9 dicembre scorso il “tribunale” ha concluso che nella regione autonoma dello Xinjiang, il Partito comunista cinese è responsabile di crimini e di genocidio contro i musulmani uiguri e kazaki. Si stima che un milione di cittadini cinesi, uomini e donne, siano detenuti senza processo in centri di rieducazione e i loro bambini siano stati deportati e affidati a scuole di Stato. Una campagna di repressione fisica e culturale che si aggiunge ai disegni del regime contro il Tibet, Hong Kong, i numerosi aderenti del movimento spirituale Falun Gong e i netizen, i cittadini che cercano di comunicare liberamente sui social. Sono le testimonianze dei sopravvissuti fuggiti all’estero a rivelarci oggi cosa accade dietro la cortina cinese. “Mi hanno portata all’aperto”, racconta Ying D., 48 anni, che in Cina era proprietaria di un supermercato: “Quattro o cinque guardie mi hanno tenuta giù e hanno messo un tubo rigido dentro il mio naso fin quando ha sanguinato. Poiché il tubo non raggiungeva lo stomaco, mi hanno infilato un cacciavite tra i denti perché tenessi aperta la bocca. Poi hanno messo un pezzo di bambù appuntito nel palato e mi hanno alimentata forzatamente, con cibo e un condensato di acqua e sale. Venivo alimentata con la forza ogni due o tre giorni. Il dottor Zhou del centro di detenzione usava un grande cacciavite per obbligarmi a tenere aperta la bocca. Ho perso due denti”. “Ho visto alimentare la signora Xue Aimei con olio al peperoncino e peperoncino macinato”, continua Ying D.: “Quando è tornata nella cella, il naso e la faccia erano insanguinati ed era ricoperta di peperoncino, olio e cibo. Rifiutavamo di indossare la divisa del campo di detenzione. Allora una dozzina di guardie ha spogliato nude venti donne. Le hanno spinte fuori dalla cella per mostrarle agli uomini detenuti e umiliarle. Dovevamo fare anche lavori manuali. Facevamo scarpe di pelle. Le nostre dita erano ricoperte di vesciche, erano deformi. Questi prodotti venivano esportati negli Stati Uniti, in Europa e in altri Paesi. Eravamo obbligate a lavorare dalle 7.30 a mezzanotte e a volte fino all’una, senza nessun giorno di riposo. Eravamo trenta donne in una cella di trenta metri quadri”. Ying D. ora è quasi cieca: “Una guardia ha ordinato a tre criminali detenuti di tenermi a terra e con un manganello elettrico mi ha dato delle scosse su tutte le parti sensibili per trenta o quaranta minuti. Piangevo miseramente. Sentivo come se il cuore si dovesse strappare. Da un occhio ho perso completamente la vista. Dall’altro quasi del tutto”. Arrestato per aver promosso la lingua uigura quando aveva quarant’anni, Ayup A., musulmano di Kashgar, la città più occidentale dello Xinjiang, viene sottoposto allo stesso trattamento riservato a molte donne: “Sono stato portato in una buca, spogliato e le guardie hanno dato l’ordine a venti criminali e loro l’hanno fatto. Non ho menzionato prima il mio stupro perché l’interprete era una donna e io a lei non potevo dirlo”, si legge tra le tante testimonianze raccolte dall’organizzazione Uyghur Tribunal. Li J., 44 anni, ex dipendente della Shanghai Airlines, racconta che il padre è morto dopo un pestaggio in un campo di lavoro del governo a Chongqing. “Almeno dieci ore dopo la morte, io e altri familiari siamo andati all’obitorio. Quando hanno tirato fuori mio padre dalla cella frigorifera, il suo corpo aveva molte cicatrici ma era ancora caldo sotto la narice e al torace. I suoi denti superiori mordevano forte il labbro inferiore. L’espressione sulla sua faccia era piena di dolore. Questo è ciò che la nostra famiglia ha visto all’obitorio. Abbiamo protestato ad alta voce. I poliziotti ci hanno allontanati con la forza e mio padre, che ancora dava evidenti segni di vita, è stato nuovamente rinchiuso nel congelatore”, dichiara la figlia. Chen H., 54 anni, fa le pulizie al Parlamento australiano. In Cina era la manager di un’industria tessile. “Una donna di cognome Zou è stata portata nel campo di lavoro. I suoi occhi fissavano nel vuoto, come se fosse in trance”, rivela Chen H.: “Ho visto che le sue mani erano tutte nere e viola. Le ho chiesto cosa fosse successo. All’improvviso è scoppiata a piangere. Mi ha detto che era stata imprigionata in un luogo sconosciuto. Era stata costretta a sedere su una sedia elettrica e le mani erano nere per le torture con gli aghi elettrici... Nel 2016 ho poi saputo che Yixi Gao e sua moglie, che abitavano nella provincia di Heilongjiang, erano stati presi dalla polizia la mezzanotte del 19 aprile. Lui è morto il 29 aprile. È rimasto nell’ospedale della polizia per quarantatré ore e lo hanno sottoposto a controlli ed esami prima che morisse. Il suo corpo era stato dissezionato”. Quasi tutti i prigionieri politici rilasciati e fuggiti all’estero raccontano di essere stati sottoposti a ecografie, prelievi di sangue, test genetici durante la detenzione. Il sospetto è che gli esami servano ad alimentare il traffico di organi nel caso di morte eventuale o a richiesta. È famosa la vicenda di un paziente di 35 anni in un ospedale dell’esercito cinese a Nanchino. Soltanto per lui sono stati espiantati e buttati via sette reni, perché al momento dell’intervento risultavano incompatibili con il ricevente. All’ottavo tentativo, grazie a un nuovo rene prelevato a un detenuto condannato a morte, il trapianto ha avuto successo. Australia, Canada, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti guidano lo schieramento che ha già annunciato il boicottaggio diplomatico: a Pechino ci saranno gli atleti, non i rappresentanti dei governi. Il presidente del Coni assicura invece che assisterà sia alle Olimpiadi sia alle Paralimpiadi: “Il mio ruolo è sportivo, non politico”, ricorda Giovanni Malagò. Ma che fine hanno fatto gli obblighi di fair play che vincolano i contratti tra comitati sportivi, delegazioni e sponsor? Il sindaco di Cortina, Gianpietro Ghedina, non risponde. Il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, fa gentilmente sapere che non rilascia commenti sulle Olimpiadi. Durante i Giochi dell’antichità si fermavano le guerre. Oggi si sospendono i diritti: le coraggiose ragazze della primavera cinese possono attendere. Ovviamente in carcere.