Un morto ogni 2 giorni in carcere, grandi focolai e il sovraffollamento resta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2022 Sono quasi 5.000 i positivi al Covid tra agenti penitenziari e detenuti, al carcere di Torino sono oltre 200 i reclusi contagiati. Siamo arrivati a 3.287 detenuti e 1.670 operatori penitenziari, per un totale di ben 4.957 positivi al Covid-19 nelle carceri italiane. Soprattutto fra i detenuti, con un aumento di 662 affetti da Covid in soli tre giorni, il virus continua ad accelerare la sua corsa in maniera esponenziale. “Quello che procura più sconcerto è che si stia facendo pochissimo o niente per contrastarlo. In alcuni istituti penitenziari si assecondano, o lo si è fatto nei giorni scorsi, le richieste dei detenuti e si consente la convivenza fra positivi e non, talvolta anche a celle costantemente aperte pure di notte. Una sorta di lockdown al contrario di cui non si comprende il senso, a meno di non volerlo leggere come una sostanziale resa dello Stato”. Queste le forti dichiarazioni di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, in esito all’ultimo report sui contagi da Sars-CoV-2 in carcere. De Fazio poi aggiunge: “Riteniamo, per di più, sia per risultanze dirette sia per l’incrocio con altri bollettini diramati dalle articolazioni territoriali della stessa amministrazione penitenziaria, che i dati forniti dall’Ufficio Attività Ispettiva e di Controllo del Dap siano incompleti o, comunque, disallineati ed errati. Per tale motivo, che denunciamo da tempo senza tema di smentita, pensiamo che il numero dei detenuti affetti da Coronavirus sia significativamente più alto di quello indicato”. Numerosi sono i focolai e alcuni di vastissime proporzioni fra i detenuti: 204 positivi al Covid a Torino, 171 a Firenze Sollicciano, 168 a Napoli Poggioreale, 160 a Busto Arsizio, 146 a Napoli Secondigliano, 124 a Milano San Vittore, 119 a Pavia, soffermandoci solo ai penitenziari dove si sfonda il tetto dei 100 (ma a Torino persino quello dei 200). “Tutto ciò - prosegue il Segretario della Uilpa PP - nell’impossibilità di garantire il distanziamento e, talvolta, persino un reale isolamento per i positivi, con un protocollo di sicurezza sanitario vecchio e inadeguato e senza sufficienti dispositivi di protezione individuale. Dopo la prima (sic!) dotazione di 6mila mascherine Ffp2 annunciate dal ministero della Giustizia il 10 gennaio scorso, non abbiamo mai avuto notizie di una seconda”. Infine il sindacalista conclude: “Vorremmo poter udire qualche bisbiglio di concretezza: sinora abbiamo ascoltato solo vuote parole. Del resto, lo sappiamo già: i ministri e i governi passano, le carceri, gli operatori e i detenuti rimangono, con i loro problemi sempre più gravi”. Il sovraffollamento persiste, in meno di un mese siamo arrivati già a 5 suicidi su un totale di 10 morti. Dall’inizio dell’anno, di fatto, nelle patrie galere c’è un decesso ogni due giorni. “Il carcere non può essere solo un serbatoio di uomini colpevoli di reati”. “I luoghi di pena devono essere visti come “ospedali da campo” per sanare le ferite, offrendo ai ristretti percorsi riabilitativi attraverso le molteplici attività, culturali artistiche e lavorative, per liberarli dall’ozio e dai pericoli di autolesionismo e dai suicidi”, ha affermato l’ispettore dei cappellani delle carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi, facendo riferimento alla relazione della ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha messo in luce, sul mondo del carcere, “questioni irrisolte da lungo tempo”. E il pg Salvi sorprende ancora: “41-bis ed ergastolo ostativo non sono carcere duro” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 gennaio 2022 Il procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “La collaborazione resta la prova della cesura dei rapporti con l’organizzazione”. “L’ergastolo ostativo e il 41-bis non sono carcere duro ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992”. Non si comprende se le parole espresse ieri dal procuratore generale di Cassazione Giovanni Salvi, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, siano una esortazione al legislatore affinché il fine pena mai e il 41-bis vengano riformati in senso più umano o se per lui sia accettabile lo status quo. Come sappiamo, il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura ha invitato le nostre autorità “ad avviare una seria riflessione sul regime detentivo speciale detto 41-bis”. Per questo particolare tipo di regime è dovuta intervenire la Corte Costituzionale persino per togliere il divieto di cucinare il cibo, ritenendolo contrario al senso di umanità. Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della Commissione Diritti umani del Senato, non vuole però pensar male. Ci dice infatti: “Voglio intendere la frase del dottor Salvi nel suo significato letterale, per cui il regime di 41-bis deve essere interpretato e applicato secondo quanto vuole la legge, ossia esclusivamente come uno strumento destinato a impedire qualsiasi tipo di relazione tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Questa e solo questa è la finalità della norma. Nei fatti, lo sappiamo bene, è tutt’altro, è un regime speciale che aggiunge afflizione ad afflizione, pene accessorie e trattamenti inumani. Il risultato è che il 41-bis viene spesso applicato con modalità illegali e anti-costituzionali. Diventa così quel “carcere duro” che tanti auspicano e che viola lettera e scopo della norma”. Ad essere incostituzionale è anche il fine pena mai, come ha detto la Consulta; tuttavia Salvi, a leggere questa sua ulteriore dichiarazione, spera che la norma in discussione alla Camera si configuri sostanzialmente come un “nuovo ergastolo ostativo”, di matrice pentastellata: “Ci auguriamo che l’attuazione della sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo conservi i principi fondamentali che la Corte stessa ha indicato: la collaborazione resta la strada principale di prova della cesura dei rapporti con l’organizzazione mafiosa e tale prova non può essere limitata alla buona condotta nel carcere, ma estesa alla insussistenza effettiva di quei rapporti e alla impossibilità che possano essere ripristinati”. Ed infatti riceve subito il plauso del presidente della Commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni del M5S: “Le parole del procuratore generale Salvi sull’ergastolo ostativo e il 41-bis sono opportune e condivisibili. In momenti come questo, pur nel rispetto dei principi costituzionali, non bisogna cedere nella lotta contro la criminalità mafiosa né indebolire gli strumenti utilizzati per contrastarla, a differenza di quanto emerge da alcune forze politiche”. E poi Salvi sembra sfiduciare i magistrati di sorveglianza che “potrebbero essere chiamati a svolgere un ruolo, questo sì, se non diabolico, assai difficile da assolvere, per la necessità di disporre di dati non meramente su comportamenti carcerari di cooperazione o non scorretti, ma tali da fondare il giudizio di cessazione dei legami attuali e potenziali con l’organizzazione di appartenenza”. Ma nessun problema, rassicura Salvi: “Un ruolo importante nel fornire un quadro probatorio quanto possibile completo sarà certamente svolto dal circuito dei procuratori distrettuali e dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo”. Forse non ha letto la nostra intervista al nuovo coordinatore del Conams, Giovanni Maria Pavarin, che su questi timore ci aveva risposto: “Anche nell’attualità abbiamo ogni giorno a che fare con la gestione della pena inflitta agli appartenenti alla criminalità organizzata e siamo dunque chiamati al difficile esercizio della nostra discrezionalità in tema di concessione delle misure alternative alla detenzione, cui oggi possono comunque aspirare i condannati cui sia stata riconosciuta l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione con la giustizia”. Infine il Pg Salvi, oltre a proteggere il 41-bis e l’ergastolo ostativo, evoca anche la costruzione di nuove carceri: “Il sovraffollamento è cosa diversa dal ricorso massiccio al carcere. Esso è causato dalle carenze delle strutture ed è dunque su queste carenze che occorre innanzitutto intervenire”. Salvi blinda 41-bis ed ergastolo ostativo di Angela Stella Il Riformista, 22 gennaio 2022 “Non sono carcere duro, servono a impedire ai mafiosi di comandare dal carcere” dice il pg della Cassazione. Da Cartabia e Ermini, tutti evocano la riforma del Csm. E il primo presidente ammonisce sui dati delle assoluzioni. Ieri al Palazzaccio, per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario, è andata in scena l’ultima uscita di Mattarella quale Presidente della Repubblica, durante una cerimonia ancora all’insegna delle limitazioni da Covid 19. “L’anno che si è appena concluso - ha detto la Ministra Cartabia - è stato per l’amministrazione della giustizia, così come per tutto il Paese, complesso e difficile, segnato da grandi sfide e continui imprevisti”. Ora, ha ribadito la Guardasigilli, “è necessario affrontare la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. “Ineludibile” davvero, come Lei, signor Presidente della Repubblica, ha più volte sottolineato, interpretando l’animo di molti. E per quel che conta, anche mio”. Tale auspicio è stato anche espresso dal vice-presidente del Csm David Ermini: “Ci attendiamo che sia portata al più presto a compimento l’attesa riforma dell’ordinamento giudiziario, del funzionamento del Csm e del suo sistema elettorale” aggiungendo: “abbiamo sofferto in questi anni - la magistratura nel suo complesso e il suo organo di governo autonomo - una crisi di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica forse senza precedenti. Ed è ai cittadini che la magistratura deve guardare, non al proprio interno”. Anche il Procuratore Generale di Cassazione, Giovanni Salvi, si è augurato che “il Parlamento, nel porre mano alle riforme ordinamentali, sappia restituire al Consiglio il ruolo che la Costituzione ha disegnato e che per tanti anni ha fatto del governo autonomo un modello di riferimento in Europa”. Inoltre per Salvi “la magistratura non può inseguire il consenso e occorre che la sua azione sia ispirata all’alto insegnamento del Presidente della Repubblica: “Le sue decisioni non devono rispondere alla opinione corrente né alle correnti di opinione, ma soltanto alla legge”“. Tuttavia ha blindato ergastolo ostativo e 41 bis che “non sono carcere duro ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992. Chi dimentica la propria storia è destinato a riviverla”. Per questo ha ricevuto il plauso del pentastellato Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia della Camera: “Le parole del Procuratore generale Salvi sull’ergastolo ostativo e il 41-bis sono opportune e condivisibili. In momenti come questo, pur nel rispetto dei principi costituzionali, non bisogna cedere nella lotta contro la criminalità mafiosa né indebolire gli strumenti utilizzati per contrastarla, a differenza di quanto emerge da alcune forze politiche”. Per il Primo Presidente di Cassazione, Pietro Curzio, riconfermato solo due giorni fa al vertice di piazza Cavour, dopo una istruttoria lampo del Csm, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato “l’analisi dell’amministrazione della giustizia in Italia mostra, come del resto il Paese nel suo complesso, un quadro in chiaroscuro”. Se è vero che le pendenze sono diminuite sia nel settore civile (-6,5%) che in quello penale (-3,8%), tuttavia “i tempi di definizione dei processi rimangono troppo elevati”. Un altro punto significativo della sua relazione riguarda il tema delle assoluzioni: “circa il 50% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero (54,8% nell’anno giudiziario 2020/2021) si conclude con l’assoluzione, sicché, tenuto conto che la citazione diretta rappresenta, a sua volta, oltre i due terzi del carico di lavoro del tribunale monocratico, deve concludersi per la necessità di un rinnovato impegno dell’ufficio del pubblico ministero nello svolgimento di indagini complete e di un serio ed effettivo filtro giurisdizionale per evitare un inutile dispendio di energie e di costi, oltre che, in primis, la pena derivante dal semplice fatto di essere sottoposti a processo”. Anche per questo il Presidente Curzio evidenzia che “negli snodi del processo penale, bisognerà applicare con rigore i nuovi criteri di giudizio in sede di archiviazione, di udienza preliminare e di udienza filtro, in modo che il dibattimento si svolga solo se gli elementi acquisiti nelle indagini consentano una ragionevole previsione di condanna ed a tal fine sarà necessario riequilibrare il rapporto tra il numero dei PM e dei GIP”. È sui numeri relativi alle assoluzioni che arriva la stoccata del deputato di Azione Enrico Costa: “Curzio dice che ‘circa il 50% dei processi di primo grado introdotti dalla citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero si conclude con l’assoluzione’. Salvi dice invece che ‘i processi che si definiscono con le assoluzioni reali negli ultimi tre anni sono poco oltre il 21% delle sentenze. Tali risultati medi non mutano neppure nelle ipotesi di citazione diretta’. Purtroppo nessuno si accorge che i due vertici della Cassazione dicono uno il contrario dell’altro. Perché sono tutti impegnati a complimentarsi a vicenda”. Ci pare però significativa la chiusura della relazione di Curzio: “I magistrati nella loro larghissima maggioranza hanno le risorse umane e professionali per riannodare il rapporto di fiducia con i cittadini, nella consapevolezza che, come scrive Voltaire, “l’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare i propri errori”. Finiscono di scontare la pena, escono, ma li rinchiudono al Cpr di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 gennaio 2022 Il report delle ong Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone fotografa la situazione degli immigrati che avrebbero bisogno di assistenza legale per la protezione internazionale e il permesso di soggiorno. “Durante gli anni dietro le sbarre ce l’ha messa tutta per essere una persona migliore una volta uscito dal carcere. Ma ad attenderlo non c’era una seconda possibilità, ma una volante che lo accompagnava a un centro per il rimpatrio (Cpr)”. È una delle tante testimonianze riportate dal report elaborato dalle ong Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone, che individua un problema enorme di tanti detenuti stranieri: una volta scontata la pena, passano direttamente ai Cpr. Spesso hanno bisogno di assistenza legale specifica - È frequente il fatto che i detenuti stranieri, per ogni tipo di reato, vengono trasferiti nei Cpr a fine pena. Il report spiega che le difficoltà sono legate alla specializzazione degli avvocati che difendono queste persone. Spessissimo, l’unico difensore con cui un detenuto si interfaccia è un avvocato che si occupa per lo più degli aspetti penali. I detenuti stranieri, però, necessitano di un’assistenza legale anche per la richiesta di protezione internazionale e per il permesso di soggiorno e di un difensore che sia pronto a intervenire e a partecipare a eventuali udienze in caso di detenzione amministrativa nei Cpr. Gli estensori del report hanno rilevato che gli avvocati penalisti spesso non seguono i loro assistiti dal punto di vista amministrativo: perché non ne hanno le competenze, oppure perché hanno perso i contatti con loro non appena la condanna è diventata definitiva. Alcune carceri hanno creato un iter abbastanza agevole per la richiesta di protezione internazionale - Il problema a monte è costituito dalla diversità di prassi seguite nelle diverse carceri: se la richiesta di protezione viene presentata durante il periodo di detenzione, c’è una possibilità che venga applicata la procedura accelerata senza una vera possibilità per l’avvocato di preparare bene il richiedente per l’audizione davanti la Commissione Territoriale. D’altro canto - evidenza il report - se la domanda viene presentata solo dopo la scarcerazione, il richiedente arriva al giorno di uscita senza un permesso di soggiorno in mano e può essere portato in Cpe, oppure lasciato in strada con una notifica di respingimento differito. Alcune carceri - come quelle di Catania e Palermo - nel tempo hanno creato un iter che permette di manifestare la volontà per chiedere accedere alla protezione internazionale in modo abbastanza agevole. Mentre altri istituti penitenziari non sanno come accettare e procedere con le richieste asilo, anche quando i detenuti stessi cercano di presentare la domanda alla matricola. Il caso emblematico di un migrante trattenuto al Cpr di Potenza - Il report di Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone riporta un caso emblematico. Si tratta di A., un migrante attualmente trattenuto al Cpr di Potenza. Entrato in Italia a fine 2017 e condannato per favoreggiamento all’ingresso clandestino, è stato portato in Cpr lo stesso giorno della sua scarcerazione dal carcere di Siracusa, nonostante abbia parenti regolarmente soggiornanti nel territorio italiano e abbia manifestato la volontà di chiedere asilo prima dell’uscita. Il trattenimento all’interno del Cpr è stato convalidato non solo sulla base della condanna, ma anche perché il trattenuto non ha presentato la domanda precedentemente negli anni della sua detenzione. Come il report ha evidenziato, ci possono essere vari motivi per i quali la domanda non è stata presentata prima, inclusi gli ostacoli del carcere stesso. Il problema riguarda anche i detenuti stranieri regolari - Come Il Dubbio già denunciò, il problema riguarda anche i detenuti stranieri regolari. “Come si può parlare di reinserimento quando a noi, durante la detenzione, scade il permesso di soggiorno e, una volta usciti, finiamo nella clandestinità?”. È stata una delle tante domande che i detenuti posero ai giudici della Consulta nel film di Fabio Cavalli sul “Viaggio nelle carceri della Corte Costituzionale”. La difficoltà di rinnovare il permesso di soggiorno durante il periodo di detenzione, è uno dei tanti ostacoli che si trovano di fronte i detenuti immigrati. Per questo motivo occorre, da una parte, consentire al cittadino straniero titolare di permesso di soggiorno di poter richiedere il rinnovo del suo documento proprio durante il trattenimento nell’istituto penitenziario, ma soprattutto bisogna metterlo nelle condizioni di venire a conoscenza dei propri diritti e doveri. In passato il rinnovo dentro il carcere era più facile, perché avveniva attraverso l’opera degli educatori e degli agenti dell’ufficio matricola del carcere: successivamente questa pratica è stata di fatto inibita, rendendo quindi tutto più difficile. Il detenuto deve affrontare tutto ciò da solo, soprattutto con il numero ridotto di mediatori culturali e altre figure importanti per garantire i diritti dei soggetti più vulnerabili. L’anno giudiziario si apre all’insegna dello scontro tra poteri di Giulia Merlo Il Domani, 22 gennaio 2022 Il momento più solenne per la giurisdizione che nel 2022 si apre di nuovo all’insegna della crisi della magistratura - con lo scontro tra Csm e Consiglio di Stato per la nomina del primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio - e dello stallo nella politica - con l’assenza ancora della riforma dell’ordinamento giudiziario. Si è svolta oggi la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, il momento più solenne per la giurisdizione che nel 2022 si apre di nuovo all’insegna della crisi della magistratura - con lo scontro tra Csm e Consiglio di Stato per la nomina del primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio - e dello stallo nella politica - con l’assenza ancora della riforma dell’ordinamento giudiziario. Curzio, che ha aperto i lavori, ha potuto farlo con piena legittimità grazie alla riconferma della sua nomina, annullata da una sentenza amministrativa, nel plenum di un Csm non senza polemiche. Su tutto, poi, c’è l’ombra dell’incertezza sul Quirinale. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha partecipato per l’ultima volta alla cerimonia e il giorno prima, al plenum del Consiglio, ha ribadito il suo no ad una rielezione. Tutti gli interventi hanno fatto riferimento e lo hanno ringraziato per la vicinanza al mondo giudiziario. Tra i temi principali, la crisi della magistratura e la necessità di un rinnovamento, le aspettative per l’ufficio del processo previsto dalla riforma penale e gli auspici per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Il primo presidente Pietro Curzio ha presentato i dati dell’attività del 2021. Nel settore civile nell’ultimo anno vi e? stato un incremento delle definizioni dei processi rispetto all’anno precedente, con una crescita del 9,8 per cento. Le nuove iscrizioni sono anch’esse cresciute, ma in modo meno intenso, pari all’1,9 per cento. Le pendenze sono diminuite del 6,5 per cento in confronto all’anno precedente: si e? passati da 3.321.149 a 3.106.623 procedimenti pendenti. “E? un dato sicuramente positivo soprattutto se si considera che dieci anni fa le cause civili pendenti superavano i 5 milioni. Ma i tempi di definizione dei processi rimangono troppo elevati”, ha detto Curzio. Nella giustizia penale la durata dei processi e? generalmente in crescita anche se in misura non univoca tra i diversi uffici giudiziari. La pendenza complessiva e? di 2.540.674 processi (con una variazione del 3,8 per cento in meno rispetto all’anno precedente). Quanto ai reati, nel 2021 sono leggermente cresciuti rispetto al 2020, anno di forte calo a causa della pandemia, ma si sono ridotti del 12,6% rispetto ad un anno “normale” quale il 2019. Curzio ha fatto riferimento al preoccupante aumento dei femminicidi (118 donne, di cui 102 assassinate in ambito familiare/affettivo ed in particolare 70 per mano del partner o ex partner). “Questo tipo di suddivisione e? costante negli ultimi anni, si inquadra in un preoccupante incremento dei reati all’interno della famiglia ed e? sintomo evidente di una tensione irrisolta nei rapporti di genere, di un’uguaglianza non metabolizzata”. Curzio ha poi fatto riferimento alle riforme, confermando l’attenzione del ministero. In particolare, ha sottolineato le potenzialità dell’ufficio del processo, che però sarà utile solo in funzione della capacità dei magistrati di “applicare le nuove norme ed impiegare al meglio le risorse disponibili”. Ha poi ricordato la costante carenza dei numeri dei magistrati, che non si colma nemmeno con i concorsi che continuano a lasciare posti vacanti. In conclusione ha parlato di quello che è stato definito un “assedio alla Corte di Cassazione”, ovvero alla grande quantità di cause in grado di legittimità e che ora si trova in affanno. Questa mole di contenzioso “non consente di svolgere il suo compito prioritario, che e? quello di portare ad unita? e coerenza l’interpretazione delle norme (nomofilachia), cosi? garantendo l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge”. Impossibile da adempiere decidendo circa 80mila cause ogni anno. “Sino a che questo nodo non verra? sciolto, la via da seguire e? quella di razionalizzare nei limiti del possibile il sistema, rafforzando il piu? importante dei filtri, che e? costituito da un giudizio di appello fatto bene”. Il vicepresidente del Csm, David Ermini, ha esordito non nascondendo che la sua è stata “una consiliatura ferita da dolorosissime vicende disvelatrici di degenerazioni e condotte inaccettabili risalenti nel tempo, che hanno incrinato in profondità il rapporto fiduciario tra la magistratura ordinaria e il suo organo di governo autonomo e, cosa assai più grave, tra la magistratura e i cittadini, che è alla base e legittima l’agire giurisdizionale”. Ma, ha sottolineato, “abbiamo reagito, la magistratura ha reagito. Grazie alla guida salda, ai fermi richiami”, del presidente della Repubblica. Nel ribadire che “abbiamo traghettato l’attività consiliare oltre le secche di scandali ed emergenze organizzative”, Ermini ha ribadito la necessità della riforma dell’ordinamento giudiziario. Una riforma che dovrà rafforzare “l’immagine di indipendenza e imparzialità del magistrato e rilancino il prestigio del Consiglio”, “da un lato non degradando a livello di discrezionalità meramente tecnica la discrezionalità amministrativa, il cui pieno esercizio è imprescindibile per assicurare la fedele attuazione del disegno costituzionale”, e dall’altro “preservando il valore irrinunciabile del pluralismo nella rappresentanza consiliare e la presenza senza preconcette preclusioni dei componenti laici quale contrappeso a tentazioni corporative e autoreferenziali”. Il riferimento, seppur velato è al contrasto tra Consiglio di Stato e Csm, con l’annullamento della nomina proprio del presidente Curzio e della aggiunta Margherita Cassano. Ermini ha difeso implicitamente le prerogative del Csm: “Voglio ribadirlo con forza: nella marcata natura discrezionale delle scelte rientranti nelle competenze che la Costituzione gli assegna riposa la stessa ragion d’essere del Consiglio e della sua articolata composizione”. L’intervento di Cartabia, stringato come richiede la situazione pandemica per mantenere l’evento entro un’ora di durata, si è aperto con un dato positivo: “È stato un anno complesso e difficile, segnato da sfide e imprevisti ma anche ricco di opportunità e spinte al rinnovamento”. Cartabia ha ricordato le riforme varate, “riforme di sistema per far fronte ai cronici problemi della giustizia, legati soprattutto ad arretrato e tempi del processo, che sono causa di erosione di fiducia” e a sottolineato che “tutte le riforme previste sono state tutte approvate entro il 2021: crisi d’impresa, processo penale e processo civile ora sono parte dell’ordinamento e stiamo elaborando i decreti attuativi che sono un passaggio delicato”. Ha poi fatto riferimento alle difficoltà di approvarle, una sottolineatura che rimarca anche alcune difficoltà anche politiche che continuano a presentarsi. “Quella del ministero della Giustizia è una funzione di servizio ed è con questo intendimento che si è attuato un complesso di riforme e progetti tutt’altro che agevoli, anzi a tratti molto scomodo e impopolari. Ci siamo mossi con lo sguardo sempre rivolto agli alti principi costituzionali e de europei e al contesto storico dato, per poter imboccare le strade concretamente e realisticamente percorribili”. Solo alla fine ha elencato le due riforme necessarie per il 2022, ma non ha speso parole ulteriori: “Occorre intervenire sul sistema penitenziario, il Pnrr prevede riforma della giustizia tributaria e prima ancora quella dell’ordinamento giudiziario e del csm, ineludibile davvero”. Su questa nota quasi sospesa si è chiuso il suo intervento. Lo stop alla riforma dell’ordinamento giudiziario, infatti, è causato dal limbo in cui palazzo Chigi ha lasciato gli emendamenti già presentati da Cartabia al governo. Tutto rimandato, quindi, a dopo le elezioni al Quirinale. Il procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, ha parlato di riforme, plaudendo all’intervento della ministra: “Per la prima volta, riforme ordinamentali, processuali e sostanziali sono accompagnate da importanti interventi strutturali e dall’impegno finanziario che questi richiedono. Sembra finito, dunque, il tempo delle riforme a costo zero”. Tuttavia, ha parlato anche dell’ufficio del processo e si è augurato “che presto anche le Procure generali possano utilizzare questo potente strumento di organizzazione, senza il quale sarà difficile che esse possano contribuire allo sforzo richiesto al giudice, rendendolo ancora più gravoso”. Ha poi sottolineato i rischi di illegalità connaturati nell’arrivo dei fondi del Pnrr: “Preoccupazione che viene innanzitutto dal Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e dal circuito delle Direzioni distrettuali antimafia, a causa dei rischi che derivano dalle opportunità che il Piano offre alla criminalità organizzata”. Deciso è stato il suo riferimento al 41bis e il 4bis, il cosiddetto carcere duro per i mafiosi che il parlamento dovrà riformare dopo una pronuncia della Corte costituzionale. “L’ergastolo ostativo e il 41-bis non sono carcere duro ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992”, “la collaborazione resta la strada principale di prova della cesura dei rapporti con l’organizzazione mafiosa e tale prova non può essere limitata alla buona condotta nel carcere, ma estesa alla insussistenza effettiva di quei rapporti e alla impossibilità che possano essere ripristinati”. Infine, è intervenuto anche sulla crisi della magistratura: “Un peso notevole ha però avuto anche il discredito caduto sul governo autonomo a causa di degenerazioni del sistema delle correnti, maturate quando la dialettica fra posizioni diverse non è stata più espressiva del pluralismo culturale, ma è sconfinata in contrapposizioni corporative. Il Consiglio ha cercato di reagire anche con una sin troppo dettagliata limitazione regolamentare della propria discrezionalità, ben oltre ciò che prevede la legge, ma ciò, con eterogenesi dei fini, ha aperto la strada a incertezze e a un contenzioso infinito, a sua volta causa di delegittimazione”, ha detto. Il riferimento, anche in questo caso, è chiaro al caso della sentenza del Consiglio di Stato e allo scontro con il Csm. La neopresidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, è intervenuta all’indomani della sua nomina ufficiale (nell’ultimo anno aveva ricoperto la carica come facente funzioni) insieme a quella dei due neo vicepresidenti Patrizia Corona e Francesco Greco. Masi ha ricordato il periodo di difficoltà causato alla pandemia e ha chiesto un intervento: “Urge, e oggi più che mai, che le norme siano almeno chiare, perché, soprattutto se dettate da condizioni emergenziali, l’interpretazione errata può valere più della lettera delle stesse e condizionarne l’attuazione”. L’intervento ha toccato tre punti. Si è rivolta al governo, chiedendo “perché protrarre di un ulteriore anno lo stato di emergenza solo per la Giustizia, perché non consentire ai Tribunali e ai suoi operatori di riappropriarsi della funzione e dell’attività che gli è propria senza rinnovati limiti o condizionamenti che alimentano problemi e non individuano le soluzioni”. Rivolta alla magistratura, invece ha sottolineato come “le note vicende e i fatti accaduti in questi mesi, in questi giorni, che pure in questa importante occasione echeggiano e che non possono lasciarci indifferenti rendono, forse non solo necessaria ma prioritaria, un’inversione di rotta e di valutazione, anche da parte dell’avvocatura”. Ha infine sottolineato che la crisi è anche dell’avvocatura “che oggi è anche e soprattutto una crisi identitaria, imputabile sicuramente alla sua endemica resistenza al cambiamento, ma soprattutto a riforme inique e confuse che puntualmente mirano a mettere in discussione la sua funzione di carattere pubblico”. Giustizia in piena emergenza, crescono i tempi dei processi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 gennaio 2022 Anno Giudiziario. La relazione del primo presidente della Cassazione Curzio, ultima uscita di Mattarella. Allarme per la prescrizione e dubbi sull’efficacia della riforma Cartabia. Reati in calo, ma non gli omicidi in famiglia delle donne. Rimesso in sella a tempo di record dal Csm, che lo ha nominato per la seconda volta in diciotto mesi al vertice della magistratura italiana dopo che il Consiglio di Stato ne aveva clamorosamente annullato la nomina la settimana scorsa, il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio ieri mattina era al suo posto in toga rossa ed ermellino nell’aula magna del Palazzaccio per la relazione di apertura dell’anno giudiziario. Davanti a lui e al centro delle poche autorità ammesse a una cerimonia ridotta per la pandemia, Sergio Mattarella alla sua ultima uscita pubblica prima che lunedì alla camera comincino le votazioni per il suo successore. L’inizio di 2022 è un momento di passaggio non solo per alcuni dei protagonisti delle istituzioni, lo è anche per il sistema delle leggi. Le riforme dei codici di procedura della ministra Marta Cartabia - anche lei non si può escludere sia di passaggio, da via Arenula a palazzo Chigi, nel caso di elezione di Draghi al Quirinale - hanno fissato obiettivi ambiziosi in termini di riduzione dei tempi dei processi, meno 40% nel civile e meno 25% nel penale entro il giugno 2026. Ma vanno ancora tradotte in concreto nei decreti legislativi (il governo ha tempo tutto l’anno). Intanto dalla sintesi della relazione letta da Curzio e ancor più dalle trecento pagine del testo scritto si ricava un’indicazione preoccupante. I tempi della giustizia stanno nel frattempo crescendo. Le statistiche non sono aggiornatissime, colpa evidentemente di quella scarsa “cultura del dato” che Cartabia ha indicato come un altro dei problemi da affrontare. Nel 2020 rispetto al 2019 (che è l’anno di riferimento per gli obiettivi promessi nel Pnrr, visto che è l’ultimo pre pandemia) i tempi dei processi civili di primo grado sono aumentati del 29% e di appello del 27%. Ancora peggio nel penale: tempi su del 31% in primo grado e del 42% in appello. In media il processo civile dura 449 giorni in primo grado e 799 in appello. Quello penale 516 giorni in primo grado, 1.035 in secondo (quindi quasi tre anni, rispetto ai due indicati dalla legge come limite ragionevole) e 237 in Cassazione. Tutto questo a fronte di un calo inarrestabile dei reati (nel 2021 c’è stato in realtà un piccolo aumento rispetto al 2020, ma quell’anno di piena pandemia fa poco testo e rispetto al 2019 la diminuzione dei reati è stata del 12,6%). Non tutti i reati diminuiscono proporzionalmente. Aumentano, ed è comprensibile in pandemia, i crimini informatici, le violenze e le minacce, significativamente quelle contro giornalisti e amministratori pubblici. Aumentano ancora gli infortuni sul lavoro, specie mortali. Invece gli omicidi volontari diminuiscono ancora e sono a un livello tra i più bassi in Europa: 295 in un anno ed è notevole che ormai di sette su dieci si accerti l’autore. Ma quando la vittima dell’omicidio è una donna, come nel 2021 è accaduto 118 volte, nell’86% dei casi l’assassino è un familiare e nel 69% dei casi è il partner o ex partner. Dalla relazione del primo presidente si conferma anno dopo anno il peso del l’arretrato sulla lentezza dei processi. In Italia ci sono oggi quasi sei milioni di cause pendenti, 3.106.623 civili e 2.540.674 penali. Questo malgrado una lieve inversione di tendenza. Sia nel civile, grazie a una maggiore velocità di definizione dei procedimenti, sia nel penale, a causa di minori iscrizioni. Tutto questo ha effetti sulla prescrizione, problema attorno al quale hanno litigato tre maggioranze diverse in questa legislatura e che è stato poi (si vedrà se) risolto da Cartabia con l’introduzione del criticatissimo istituto della improcedibilità. Criticato sottotraccia (più nella relazione scritta che in quella letta) da Curzio, pienamente approvato invece dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi che dopo la riforma dell’anno giudiziario interviene a conclusione della cerimonia. Quanto alle prescrizioni dichiarate nel 2020, il 37,1% sono intervenute nella fase delle indagini preliminari, il 35,8% durante il primo grado, il 25,1% in appello e appena lo 0,5% in Cassazione. Eppure con la riforma Cartabia (lei chiede di non chiamarla così, forse perché non pienamente soddisfatta dell’innesto sul vecchio testo Bonafede) nulla cambierà fino al grado di appello, lasciando dunque irrisolto il cuore del problema. Dopo la sentenza di primo grado la prescrizione adesso si blocca, salvo l’improcedibilità che interviene a cancellare i processi che durano troppo. Qui cade la critica di Curzio, in linea con le proteste dell’Associazione magistrati e le osservazioni del Csm: “È da chiedersi se una scelta così radicale fosse l’unica strada percorribile o non fosse possibile rendere più duttile la risposta, prevedendo risposte differenziate una congrua riduzione di pena per il condannato, un giusto indennizzo e la rifusione delle spese legali”. Secondo il primo presidente la riforma della procedura penale potrà avere successo solo se si ridurrà assai il numero dei processi e “il dibattimento si svolga solo se gli elementi acquisiti nelle indagini consentano una ragionevole previsione di condanna”. Perché accada “sarà necessario riequilibrare il rapporto tra il numero dei pm e giudici”. Prima ancora andrebbe aumentato il numero di magistrati, Curzio propone un paragone imbarazzante con la Germania: “In Italia ogni 100mila abitanti vi sono 11.6 giudici, 37.1 amministrativi, 388.3 avvocati. In Germania 24.5 giudici, 65.1 amministrativi, 198.5 avvocati”. Ma quando si fanno i concorsi di magistratura, pochi candidati vanno avanti “facendo sorgere il ragionevole dubbio che molti corsi universitari non riescano a fornire le basi”. Infine torna la critica per la riforma del 2017 che ha tolto la possibilità di fare appello ai richiedenti asilo che si vedono respinta la prima richiesta. Una soluzione firmata Pd per scoraggiare le richieste di asilo - decreto Minniti-Orlando - che ha finito per caricare direttamente sulla Cassazione oltre 10mila ricorsi l’anno. Risolti, tagliando corto, con una dichiarazione di ammissibilità in oltre il 50% dei casi. Il legame necessario tra riti e sapienza nell’esercizio del potere di Stefano G. Guizzi Il Domani, 22 gennaio 2022 L’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione avviene con l’ombra lunga del conflitto tra Consiglio di Stato e Csm, risolto dal consiglio frettolosamente. Ogni “rito” è importante in uno stato costituzionale di diritto, ma esso vive, soprattutto, di sapienza, giacché è nell’accorto e prudente esercizio del potere che ogni Istituzione trova, in ultima analisi, la sua principale fonte di legittimazione “Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono vestiti da pagliacci, come non osano neppure gli alti prelati. Chi sono? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario …”. Sono trascorsi esattamente cinquant’anni - era il 1972 - da quando l’acuminata penna di Luigi Pintor così descriveva, dalle colonne de “Il Manifesto”, la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Un’invettiva, quella rivolta dal grande giornalista - in un articolo intitolato, significativamente, “I mostri” - ad una magistratura che gli appariva, allora, del tutto sclerotizzata, giacché ancora sorda alle istanze di trasformazione dell’ordinamento giuridico (e, ancor prima, del tessuto civile e sociale della Repubblica), tratteggiate dalla Carta costituzionale. Un ordine giudiziario, in definitiva, agli occhi di Pintor, soltanto capace di assicurare una giustizia “di classe”. Mezzo secolo, tuttavia, non è trascorso invano. I cambiamenti - La magistratura, al pari del Paese, si è modernizzata, aprendosi ad un autentico pluralismo di idee e di valori. E ciò conformemente al disegno tracciato dalla Costituzione, basato sulla tutela delle formazioni sociali intermedie tra individuo e Stato, sulla promozione delle autonomie locali, sulla moltiplicazione dei livelli di governo della cosa pubblica, sulla valorizzazione in ogni ambito - civile, sociale e politico - dell’aggregazione tra individui. In una parola, sull’espansione degli spazi di democrazia e di libertà. Di pari passo con tale cambiamento, al quale l’ordine giudiziario, come detto, non è stato affatto estraneo (e che, anzi, ha concorso a plasmare), è mutata inevitabilmente la percezione, nell’opinione pubblica, dei suoi appartenenti. Non più, dunque, le creature mostruose evocate dal fondatore del quotidiano comunista, ma i titolari del potere, delicatissimo, di amministrare giustizia “in nome del popolo”. A contribuire a tale rinnovata legittimazione dei magistrati sono stati, certamente, l’abnegazione e il coraggio dimostrati da molti di essi - persino oltre la soglia dell’estremo sacrificio - nel contrastare, dapprima, il terrorismo di matrice politica e, poi, la criminalità di tipo mafioso. Senza tacere delle speranze in una rigenerazione, anche morale, della classe dirigente italiana, che l’azione della magistratura ebbe a suscitare, ormai un trentennio fa, in quella che è passata alla storia come la stagione di Mani pulite. Ma quell’onda che appariva impetuosa si è, poco alla volta, trasformata in risacca. Fino ad arrivare all’attuale congiuntura, in cui gli scandali che hanno investito la magistratura associata - disvelando una fitta rete di rapporti di “vassallaggio” tra pochi “patroni” e moltissimi “clientes”, con ricadute sullo stesso funzionamento del Csm - hanno incrinato, nell’opinione pubblica, la fiducia nell’ordine giudiziario. Il rito immutabile - A non mutare, invece, da quell’ormai lontano 1972, è stata la ritualità - e non potrebbe essere altrimenti, giacché il diritto vive di “riti e sapienza”, secondo l’insegnamento di un indimenticato maestro del pensiero giuridico, Franco Cordero - dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. A partire da quella celebrata nelle aule, austere, della Corte di Cassazione, e poi presso le diverse Corti Appello, dislocate lungo l’intero territorio nazionale. Quella di oggi, però, è stata - in Cassazione - una cerimonia diversa. E non per il persistere, purtroppo, dell’emergenza pandemica, che già lo scorso anno aveva imposto un drastico ridimensionamento delle presenze e degli interventi, conferendo all’inaugurazione un tono, per così dire, “minore”. La singolarità dell’odierna celebrazione è data dal fatto che, nel giro di neanche una settimana, i vertici della Suprema Corte (il primo presidente e il presidente aggiunto), dapprima “azzerati” da due sentenze del Consiglio di Stato, essendo stata accertata l’illegittimità delle relative nomine, sono stati repentinamente “reintegrati”, nelle rispettive posizioni, dall’organo di governo autonomo della magistratura. Questione, indubbiamente, assai complessa, che poco si presta ad analisi immediate e scarsamente approfondite. E ciò non solo per l’estremo tecnicismo della materia, ma anche per il doveroso rispetto dovuto ai protagonisti di questa vicenda, tutte personalità - chi ha agito innanzi al giudice amministrativo, il Presidente titolare della Terza Sezione Civile, Angelo Spirito, non meno dei due alti magistrati, le cui nomine sono state, viceversa, caducate - di eccezionale caratura, umana prima ancora che professionale. Tuttavia, alla legittima soddisfazione, in chi qui scrive, di vedere - come magistrato di cassazione - sollecitamente ripristinata la piena funzionalità della Corte, non è disgiunto un sentimento di perplessità, come semplice appartenente all’ordine giudiziario (anzi, prima ancora, quale cittadino). La raffica di annullamenti - Sebbene non siano mancate, neppure in passato, decisioni del giudice amministrativo di annullamento di nomine relative a importanti uffici giudiziari, nel corso di questa consiliatura si è assistito, purtroppo, ad un crescendo, che deve indurre a qualche riflessione. Questo Csm, infatti, ha visto annullare, dopo la nomina del procuratore della Repubblica di Roma, quella dei componenti della Scuola Superiore della Magistratura (l’organismo chiamato a provvedere alla formazione dei neo-magistrati, e all’aggiornamento professionale di tutti gli altri), fino alla recente decisione che ha interessato, appunto, i primi di due magistrati giudicanti della Suprema Corte. Una pronuncia, questa adottata del Consiglio di Stato, che appare - sia detto senza infingimenti - come il più preoccupante sintomo delle crescenti difficoltà che l’organo di governo autonomo della magistratura incontra, da tempo, nell’esercizio della propria discrezionalità tecnica. Tanto da far levare voci, all’interno dello stesso ordine giudiziario, in favore di interventi legislativi che rendano più obiettivi (o meglio, “misurabili”, nella loro concreta applicazione) i criteri per il conferimento degli incarichi di direzione degli uffici giudiziari. Da tanti anni, infatti, si insiste - per frenare la deriva verso un diritto sempre più “incalcolabile” - sulla necessità di rendere “prevedibili” le decisioni dei magistrati, ma non meno “prevedibili” dovrebbero essere gli esiti relativi ad un’attività (qual è quella del Csm) di alta amministrazione, trattandosi, pur sempre, di dare “esecuzione alle legge”, allorché si adottino quei provvedimenti di organizzazione degli uffici, che delle decisioni giudiziarie costituiscono, in qualche misura, il presupposto. La rapidità nel decidere - Ma ciò che ancor di più sorprende, di queste convulse giornate che hanno preceduto l’inaugurazione dell’anno giudiziario, è la rapidità del percorso decisionale del Csm. L’annullamento disposto dal giudice amministrativo ha determinato la necessità che il Consiglio Superiore della Magistratura operasse una nuova comparazione tra il candidato - che il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittimamente pretermesso - e i già nominati, sui quali è nuovamente caduta la scelta del Csm. Sarà, eventualmente, il giudice amministrativo ad esprimersi, ancora una volta, sulla legittimità di tali deliberazioni, stabilendo se esse siano state il risultato di una adeguata ponderazione dei profili professionali, oppure l’elusione del giudicato in favore del presidente Spirto. Non si può, tuttavia, sottacere come la fretta di arrivare ad una deliberazione, che non lasciasse la Cassazione sguarnita dei suoi vertici in occasione della cerimonia odierna, sebbene comprensibilmente ispirata alla necessità di evitare un vuoto di potere, ha costretto il Csm a dover emendare, in sede di plenum (e al cospetto del Capo dello Stato, che lo presiedeva), la proposta relativa alla nomina del Presidente Aggiunto della Corte, correggendo una serie di refusi ed imprecisioni. Tra i quali, in particolare, il riferimento all’acquiescenza, di tutti i candidati diversi dal presidente Spirito, alla delibera annullata, per non averla essi impugnata, stante, invece, la perdurante pendenza di almeno un ulteriore giudizio amministrativo radicato (e destinato a definizione, nel prossimo mese di febbraio) da parte di altro magistrato di legittimità. Gli errori - Espressione di questa stessa fretta è, inoltre, l’affermazione - che si legge nell’allegato alle due proposte consiliari - relativa alla “rinnovazione” del concerto della Ministra Guardasigilli. Così come “nuove”, e non semplicemente “rinnovate”, sono le due deliberazioni del Csm, avendo esso proceduto a riesercitare il suo potere di comparazione e scelta tra i candidati, e non semplicemente a espungere, dai provvedimenti adottati in precedenza, i vizi da cui erano affetti, “nuovo” (e non meramente “rinnovato”) non può che essere pure il concerto espresso dalla Ministra della Giustizia. Una finissima costituzionalista come l’attuale titolare del dicastero di Via Arenula ne è, naturalmente, consapevole, sicché la concitazione di questi giorni deve aver tradito l’attenzione dei più stretti suoi collaboratori. Il concerto non è un mero “visto”, apposto dal Guardasigilli all’operato del Csm, ma - come ben sa la Ministra Cartabia - “un elemento essenziale del procedimento”, giacché l’interlocuzione, in tale ambito, tra il Ministro e l’organo di governo autonomo della magistratura, si traduce in “un modulo procedimentale volto al coordinamento di una pluralità di interessi, spesso eterogenei e imputabili ad autorità distinte”, esigendo che si ponga in essere “una discussione e un confronto realmente orientati al superiore interesse pubblico”, destinata a tradursi in “un esame effettivo ed obiettivo, dialetticamente svolto, di tutti gli elementi ai fini della copertura di quel determinato incarico direttivo” (Corte cost., sent. n. 379 del 1992). Nessuno dubita che tanto sia avvenuto nei casi in esame, ma l’espressione secondo cui il concerto viene “rinnovato” non appare, forse, la più consona a darne attestazione. Quale, dunque, la morale di questa storia? Ogni “rito” è importante in uno stato costituzionale di diritto, giacché ad esso appartengono anche momenti simbolici, indispensabili a consolidarne la sua “religione civile”. Ma esso vive, soprattutto, di sapienza, giacché è nell’accorto e prudente esercizio del potere - qualunque ne sia la natura - che ogni Istituzione trova, in ultima analisi, la sua principale fonte di legittimazione. La giustizia sempre più lontana dai cittadini di Carlo Nordio Il Mattino, 22 gennaio 2022 All’inaugurazione dell’anno giudiziario, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha definito la riforma del Csm “necessaria e ineludibile”. Sono parole dure e sacrosante, rese più severe dalla presenza del Capo dello Stato, che presiede il Csm, e dei titolari delle due massime cariche della Cassazione, che ne sono membri di diritto. E tuttavia neanche questa riforma sarebbe sufficiente a riportare tra i cittadini la fiducia nel nostro sistema giudiziario. Un sistema che attualmente si avvia allo sfascio, e che nemmeno gli straordinari sforzi della pur bravissima Guardasigilli sembrano in grado di salvare, L’ultima prova di questa debacle è costituita proprio dal conflitto sorto tra lo stesso Csm e il Consiglio di Stato, che una settimana fa aveva dichiarato illegittima la nomina sia del Presidente della Cassazione, che ha officiato la cerimonia di ieri, sia della sua vice che gli sedeva accanto. Nomine che, secondo il giudice amministrativo, erano sorrette da una motivazione “irragionevole e gravemente carente”: un giudizio drastico, e quasi offensivo, che ci induce a tre considerazioni. Qui non si tratta del vecchio e annoso conflitto tra pretori di provincia sulla liceità del topless sulle spiagge. Qui abbiamo di fronte due organi essenziali del nostro sistema: quello che controlla i giudici, e quello che controlla l’amministrazione. Va detto che il Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbe godere di una sorta di supremazia, vista la sua rilevanza costituzionale e la sua prestigiosa composizione. Ma così non è. I suoi provvedimenti sono atti amministrativi, come tali impugnabili al Tar e successivamente al Consiglio di Stato, al pari della bocciatura di un alunno o della revoca di una licenza di caccia. In teoria il giudizio sulla loro validità dovrebbe limitarsi alla cosiddetta illegittimità, ma in pratica si estende al merito, cioè al loro contenuto. Nel caso in esame, definendo “irragionevole” la motivazione delle due nomine, il massimo organo della giurisdizione amministrativa ha rivolto al Csm le stesse censure espresse in varie altre occasioni, ultima quella per l’assegnazione della Procura di Roma al dottor Prestipino. In quel caso il Csm aveva riveduto il suo giudizio, ed aveva nominato il dottor Lo Voi. Ora invece ha insistito nella risoluzione precedente. È probabile che il caso ritorni ancora al Consiglio di Stato, e così via chissà per quanto tempo. Logorato da tanta sottigliezza, il paziente lettore avrà già perso il filo del discorso. Di sicuro ha perso gran parte di fiducia nel sistema. Secondo. Questo conflitto tra Csm e Cds non nasce da rivalità istituzionali. Esso trae origine proprio da iniziative degli stessi magistrati. I giudici amministrativi infatti non procedono di ufficio, ma in quanto investiti di ricorsi da parte di concorrenti che si ritengono ingiustamente scartati, Nel caso di specie, un alto magistrato aveva impugnato le nomine degli altri due aspiranti, secondo lui meno titolati e meritevoli. A questo punto il cittadino, nella sua sgomenta rassegnazione, sì domanda come sia possibile che i giudici facciano la guerra prima ai propri colleghi, e poi addirittura all’organo che li rappresenta e li tutela. E questo ci porta alla terza considerazione: che il Csm non è proprio quel consesso di impeccabili giuristi che abbiamo prima ipotizzato. Lo scandalo Palamara ha rivelato una baratteria di cariche tra correnti che un autorevole commentatore ha definito “un verminaio”, e un ex superprocuratore antimafia “mercato delle vacche”. In effetti, dopo quelle rivelazioni, alcuni suoi membri erano stati indotti alle dimissioni, e il Csm si avviava all’epilogo della sinfonia degli addii di Haydn, dove gli orchestrali se ne vanno uno alla volta finché il primo violino spegne l’ultima candela. Poi lo stesso Csm ha radiato Palamara sperando che tutto finisse lì. Ma così non sarà, perché al processo contro l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, dovranno sfilare come testi decine di suoi ex colleghi, e, come lo stesso Palamara ha detto, potrebbe esser un bagno di sangue. Dal canto suo l’Anm pare stia mettendo sotto accusa una settantina di iscritti, che rischiano l’espulsione per le frequentazioni con Palamara e la violazione del codice deontologico. In ogni caso la credibilità e il prestigio del Csm, come ha detto commosso il vicepresidente Ermini nel suo saluto a Mattarella, “sono stati colpiti in profondità”. È ovviamente un verecondo eufemismo, perché a questo punto il cittadino, esausto e scoraggiato, si domanderà dove siano finite la certezza e la dignità del diritto. Ieri, durante la solenne cerimonia, la maggior disfunzione della nostra giustizia è stata individuata più o meno da tutti nella lunghezza dei processi. Una patologia peraltro assai antica, visto che Amleto annoverava, tra i dardi dell’oltraggiosa fortuna, anche “the law’s delay”, il ritardo della legge. Oggi assistiamo a qualcosa di molto peggio: è il “the law’s decay”, il decadimento del nostro intero sistema giuridico. Il povero principe di Danimarca esitava a darsi la morte per paura dell’oltretomba. Noi invece abbiamo già un Paese che, dalla culla del diritto, ne è diventato la bara. Appello solo per l’imputato, il Parlamento ci riprova di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 22 gennaio 2022 Presentato dai senatori di FI un ddl che lascia solo alla persona condannata, e non più anche al pm, il diritto alla revisione di merito della sentenza. “Tutti i Trattati internazionali e la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo prevedono che l’appello sia un diritto riconosciuto al solo imputato”. A dirlo è il senatore di Forza Italia Franco Dal Mas che, unitamente al capogruppo azzurro in Commissione Giustizia Giacomo Caliendo e ai colleghi Fiammetta Modena, Nazario Pagano, Luigi Vitali ed Enrico Aimi, ha presentato nei giorni scorsi un ddl al riguardo. La riforma prevede la modifica degli articoli 428 (Impugnazione della sentenza di non luogo a procedere), 593 (Casi di appello) e 606 (Casi di ricorso) del codice di procedura penale. Scopo dichiarato del ddl è quello di consentire solo alla persona condannata, e non all’accusa, il diritto a una revisione della sentenza. La modifica proposta, in particolare, segue quanto era emerso dai lavori della Commissione sulla riforma del processo penale e presieduta da Giorgio Lattanzi. La Commissione, nominata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia all’atto del suo insediamento, aveva infatti suggerito di intervenire in questa direzione, temperando la non impugnabilità da parte del pm con la possibilità del giudizio di legittimità formale. Una norma simile, va detto, era stata già introdotta con la legge Pecorella del 2006, ma la Corte Costituzionale, all’epoca presieduta da Giovanni Maria Flick, disarticolò poco dopo con la famosa sentenza numero 26 del 2007, ritenendo che si potesse violare il principio di parità delle parti fra accusa e difesa. “Da allora sono trascorsi 15 anni, e siamo di fronte a un quadro molto differente”, ricorda sul punto Dal Mas. “Forza Italia - ha poi aggiunto il senatore azzurro ha fatto questo passo, confido che anche le altre forze politiche che si ispirano al garantismo e rifiutano il populismo giustizialista possano convergere”. La Corte costituzionale nel 2007 si premurò di affermare che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi non poteva abilitare di per sé sola il legislatore, in nome di un’esigenza di ‘ riequilibrio’, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell’ambito di tutte le successive fasi. “Dopo trent’anni dall’introduzione della riforma in senso accusatorio - ricorda invece Giorgio Lattanzi - il tempo è ormai maturo per ripensare alla funzione da attribuire all’appello nell’innovata architettura del contraddittorio”. In tale ottica, allora, ben si inserisce, per gli indagati e imputati, la concreta possibilità di riconoscere loro la presunzione di innocenza fino a quando non ne sia stata legalmente provata la colpevolezza. Senza trascurare, ovviamente, quale debba essere il ruolo assunto dal pubblico ministero: “Cerbero della legalità” o “avvocato dell’accusa”, come affermato qualche tempo addietro da Alberto Macchia, professore di diritto processuale penale alla Luiss. Il giusto sigillo della Consulta sulla modifica dell’abuso d’ufficio di Antonella Trentini* Il Dubbio, 22 gennaio 2022 È di tre giorni fa la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha ritenuto ragionevole e per nulla eccentrica la norma che ha riformato l’abuso d’ufficio previsto dall’art. 323 del codice penale, in vigore dal 16/07/2020 (art. 23, DL n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, convertito in L. n. 120/ 2020). In una precedente breve riflessione (Il Dubbio del 30/07/2020), si era osservato che l’intenzione del legislatore mirava a “realizzare un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture”, soprattutto in un periodo di “straordinaria” devastazione economica e sociale quale quello imposto dal Covid 19. E che siffatto lodevole intento non poteva che prendere atto di due esigenze: la semplificazione delle procedure d’appalto ed edilizie senza compromissione delle esigenze di legalità da un lato, e dall’altro, poiché “semplificare” significa “agevolare, facilitare una procedura” - che in taluni settori rimane compressa sotto la cappa del timore di sbagliarne applicazione/ interpretazione della stratificazione normativa che affastella la nostra vita quotidiana sino a rimanerne schiacciata - occorreva restringere la portata applicativa dell’ipotesi incriminatoria più dilatata (e quindi più temuta) dai pubblici funzionari ed amministratori, l’abuso d’ufficio. A distanza di oltre un anno da quelle riflessioni “a caldo”, la loro bontà è ora scolpita dalle motivazioni trasfuse dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 8 del 18/01/2022. La Consulta prende atto che non è sbagliato “dare fiducia” a chi si è dovuto difendere dall’astrattezza, soprattutto in un momento storico in cui l’interesse pubblico primario è ripartire e non andare a caccia di interpretazioni (magari) errate di norme oscure da parte della burocrazia e degli amministratori. Si rammenta che tale ipotesi incriminatoria ha spesso portato a procedimenti contro amministratori e dipendenti per lo più conclusi con assoluzioni e tanta tribolazione, sì da portare gli interpreti a coniare la categoria metagiuridica di “burocrazia difensiva”, per indicare forme di immobilismo protettivo, termine oggi fatto proprio dalla Consulta. Non si può tacere il fatto che da anni sono in “crisi” i due capisaldi della cultura giuridica, cioè il principio di legalità e il principio di certezza del diritto: dove la legge perde la sua tradizionale centralità, predomina l’incertezza delle regole giuridiche. Incertezza che in taluni Enti, ad esempio gli Enti Locali si avverte molto, dato che per dare risposte è necessario avere chiare le regole da applicare. Ma se la qualità della produzione normativa è scadente e le fonti del diritto sempre più stratificate (transnazionali, leggi, DL, DM, Authority, indicazioni “soffici”, ecc.), se la giurisprudenza oscilla tra decisioni di segno opposto anche su casi analoghi, come si può pretendere di accelerare procedimenti complessi, individuando senza margine di errore le regole da applicare ai casi concreti? È un fenomeno sconvolgente per gli enti locali, ancorati da sempre alle rassicuranti certezze e dogmi per i quali un ordinamento è tale in quanto per definizione è in grado di rinvenire all’interno di se stesso gli elementi che consentano di superare eventuali contraddizioni e antinomie o colmare possibili lacune. La Consulta ha ben compreso che lo strumento indispensabile per poter lavorare e di conseguenza far riacquistare a funzionari, amministratori, imprenditori, cittadini la fiducia e, con essa, l’impulso all’economia, è sì semplificare, ma soprattutto delineare le norme penali affinché sia chiaro il contorno del lecito da ciò che non lo è. Che la “certezza delle regole” rappresenti un fattore di sicurezza non è un quid novi; e se manca più facile è sbagliare per il cittadino, per il funzionario, per l’amministratore; ma se per il privato significa rimetterci in proprio, per la P. A. significa responsabilità erariale, amministrativa, e penale a carico dei responsabili, sui quali vengono troppo spesso riversati gli errori di normative troppo frettolose, di difficile applicazione, con passaggi troppo bruschi tra ‘ vecchi’ e ‘ nuovi’ regimi. Alla Consulta non è quindi parsa né “eccentrica”, né “assolutamente avulsa” la modifica operata dall’art. 23, d. l. 76/ 2020 che ha sostituito l’astratto reato di evento e a dolo intenzionale, con una fattispecie in cui l’evento ingiusto (vantaggio patrimoniale a proprio o altrui favore o l’ingiusto danno altrui), è conseguenza della violazione di regole di condotta specifiche e previste espressamente da leggi o atti equiparati, da cui non residuino margini di discrezionalità. Di conseguenza il funzionario/ amministratore non potrà essere perseguito ai sensi dell’art. 323 c. p. quando lo spazio di discrezionalità gli consenta di scegliere le concrete modalità per la realizzazione dell’interesse pubblico prefissato. La Consulta ha messo un punto fermo rilevante. *Presidente Unaep (Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici) Tenuità fatto esclusa per abitualità anche se i precedenti reati sono stati oggetto di patteggiamento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2022 Rileva la “commissione” di fatti punibili della medesima indole e non che per essi sia intervenuta un’effettiva condanna. La Cassazione conferma che il giudice non può riconoscere la tenuità del fatto se l’imputato ha patteggiato la pena per precedenti reati della stessa indole. Non è, infatti esclusa l’abitualità a reiterare le medesime condotte dalla circostanza che nel patteggiamento manchi la fase di accertamento, in conseguenza dell’accordo delle parti sulla pena da applicare. La finalità di economia processuale realizzata con l’accordo sulla pena, saltando la cognizione del giudice, presuppone un’ammissione di responsabilità espressa dalla volontà dell’imputato di patteggiare. Come spiega la Cassazione, con la sentenza n. 2484/2022, ciò che rileva è la “commissione” del fatto-reato. E nel patteggiamento esso è dato per presupposto. Quindi non è la “condanna” il sintomo della tendenza a reiterare il reato della stessa indole, ma la circostanza che l’imputato l’abbia comunque già commesso in passato. Infatti, la condanna può non sopraggiungere per diverse ragioni, compreso il caso in cui per il reato precedentemente commesso sia stata riconosciuta proprio la causa di non punibilità della tenuità del fatto. Nel caso risolto la Cassazione conferma la non applicabilità della causa di non punibilità ex articolo 131 bis del Codice penale, al ricorrente condannato per evasione dai domiciliari, perché aveva già patteggiato la pena in altri due casi di imputazione per il medesimo reato. Secondo il principio di diritto affermato dalla sentenza di legittimità, non è quindi sostenibile l’argomento difensivo dove afferma che in caso di patteggiamento non vi sia prova dell’avvenuta commissione del reato. Va ribadito che la Cassazione considera abituale il reato anche se per i precedenti reati della stessa indole sia stata riconosciuta la causa di non punibilità ex articolo 131 bis del Codice penale: l’abitualità riscontrata rende inutile l’esame della tenuità del fatto derivante dall’ultimo reato commesso. Il Gip che rigetta l’emissione di un decreto penale del Pm non può esprimersi su nuova richiesta di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 22 gennaio 2022 La mancata previsione dell’incompatibilità del giudice pone la norma (articolo 34, comma 2, del Cpp) in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, per violazione del principio di parità di trattamento e del diritto di difesa. Il Gip, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, è incompatibile a pronunciarsi su una nuova richiesta di decreto penale formulata dal Pm in conformità ai rilievi del giudice stesso. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 16 depositata oggi. La questione era stata sollevata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata secondo il quale è illegittimo l’articolo 34, comma 2, del Cpp, nella parte in cui non prevede “l’incompatibilità del GIP che abbia rigettato la richiesta di emissione di decreto penale per ritenuta diversità del fatto a pronunziarsi su nuova richiesta di emissione di decreto penale, avanzata dal PM in conformità ai rilievi precedentemente formulati dal giudice”. L’incidente di costituzionalità si innesta in un procedimento nel quale il giudice rimettente, chiamato dal pubblico ministero a emettere un decreto penale di condanna nei confronti di una persona imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, aveva rigettato la richiesta in ragione della mancata contestazione di una circostanza aggravante (l’imputato aveva provocato un incidente stradale), la cui sussistenza era desumibile dagli atti di indagine. In seguito a ciò, il pubblico ministero aveva formulato una nuova richiesta di decreto penale, con la contestazione dell’aggravante. Secondo il giudice di Macerata la mancata previsione dell’incompatibilità del giudice, in una simile ipotesi, pone la norma (articolo 34, comma 2, del Cpp) in contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione, per violazione del principio di parità di trattamento e del diritto di difesa. La Consulta ha accolto questa interpretazione ricordando che le disposizioni sulla incompatibilità del giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, hanno la finalità di tutelare i valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione (presidiati appunti dagli articoli 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione) ed evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione - ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto - “scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda”. L’imparzialità - prosegue la Corte - richiede che “la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto “terzo”, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia da decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasione di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza”. Pertanto, l’articolo 34 del Cpp - dopo aver regolato, al comma 1, la cosiddetta incompatibilità “verticale”, determinata dall’articolazione e dalla consecutio dei diversi gradi di giudizio - si occupa, al comma 2 (oggi censurato), della cosiddetta incompatibilità “orizzontale”, attinente alla relazione tra la fase del giudizio e quella che immediatamente la precede. In linea generale, l’incompatibilità presuppone una relazione tra due termini: una “fonte di pregiudizio” (ossia un’attività giurisdizionale atta a generare la forza della prevenzione) e una “sede pregiudicata” (vale a dire un compito decisorio, al quale il giudice, che abbia posto in essere l’attività pregiudicante, non risulta più idoneo). Per quanto riguarda la prima “sede pregiudicata” che l’articolo 34, comma 2, del Cpp individua nella “partecipa[zione] al giudizio” - la Corte sottolinea che per “giudizio” si deve intendere ogni processo che in base a un esame delle prove arriva a una decisione di merito. Non solo quindi il giudizio dibattimentale, ma anche il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti, l’udienza preliminare, l’incidente di esecuzione e anche il decreto penale di condanna. Sull’“attività pregiudicante”, la Corte include tra le possibili “fonti di pregiudizio” anche l’ordinanza con la quale il giudice del dibattimento, avendo accertato che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione, trasmette gli atti al pubblico ministero. Nel momento in cui accerta che il fatto è diverso da come descritto nell’imputazione, il giudice compie, infatti, una “penetrante delibazione del merito della res iudicanda”, simile a quella che, in mancanza di una valutazione della diversità del fatto, conduce alla definizione con sentenza del giudizio di merito. L’ordinanza di trasmissione degli atti dunque determinando la “regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari” rende necessario che dal punto di vista costituzionale il nuovo dibattimento o la nuova udienza preliminare siano attribuiti alla cognizione di altro giudice. Di conseguenza, anche nel caso specifico, la successiva riproposizione della richiesta di decreto penale apre a una nuova fase che va “gestita” da un giudice diverso. Marche. Sinistra Italiana: l’anno che verrà in carcere somiglia molto ai precedenti viveremarche.it, 22 gennaio 2022 Il 2022 si è aperto con molte conferme, e sono state quelle che temevamo. In carcere l’anno si è aperto con 5 morti nei primi 10 giorni. Divampano i focolai di Covid a Torino, Napoli Secondigliano, Napoli Poggioreale, Firenze Sollicciano, Busto Arsizio, Prato, e in quasi tutte le carceri marchigiane, come ha denunciato preoccupato il Garante avv. Giuliano Giulianelli giorni fa. Il 19 gennaio il Ministro della Giustizia Marta Cartabia conclude la sua relazione al Parlamento con le parole: “Continuerò a sollecitare l’esame della Riforma del Consiglio Superiore della Magistratura da parte dei competenti organi di governo”. Il Guardasigilli si rivolge al mondo politico che non sembra tenere affatto nella giusta considerazione la gravità di tutta la Giustizia Italiana, ed in particolare il sovraffollamento delle carceri (114%), né sia interessato all’attuazione dei provvedimenti, pur insufficienti, da lei messi in essere, cioè la riforma del codice penale, del codice civile e del regolamento penitenziario, e rischia di andare al rinnovo delle cariche del CSM a giugno con le vecchie regole, causa di infinite polemiche. Sinistra Italiana ritiene che l’affermazione costituzionale contenuta nell’art. 27 richieda l’abbandono del giustizialismo, l’investimento nelle misure e pene alternative, il pieno coinvolgimento del mondo del volontariato rappresentato dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Per sostenere queste affermazioni è sufficiente ricordare che nelle modifiche al regolamento di esecuzione penitenziario sono presenti, nel 2022, alcune proposte su Sanità e Organizzazione derivanti dal progetto “Punto d’Incontro” dell’Osservatorio permanente sulle carceri delle Marche, tenutosi nel 2003. Napoli. Sciopero della fame a Poggioreale, la protesta di detenuti e familiari di Rossella Grasso Il Riformista, 22 gennaio 2022 “Santa Maria Capua Vetere ce l’ha insegnato, il carcere è tortura di Stato. Diritto alla salute per i/le detenuti/e”. È questo lo striscione che i familiari dei detenuti hanno esposto fuori al carcere di Poggioreale dove hanno protestato per chiedere maggiori diritti per i loro cari reclusi, soprattutto per la tutela della salute. Intanto la protesta si svolge anche all’interno del carcere dove circa 100 detenuti stanno facendo lo sciopero della fame e del carrello contro le precarie condizioni in cui vivono. Uno sciopero in sostegno a quello già iniziato giorni fa da Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, a cui si sono associati alcuni detenuti del padiglione Firenze, in particolare gli esponenti di Forza Nuova tra cui Roberto Fiore, Giuliano Castellino, Luigi Aronica e Salvatore Lubrano. Sono stati proprio loro a scrivere alla Bernardini per invitarla per una visita in carcere, per vedere con i suoi occhi lo stato in cui versa uno dei penitenziari più sovraffollati d’Italia. “Io sto sfacendo lo sciopero della fame - racconta Rita Bernardini- Ne avevo già fatto uno di 25 giorni a dicembre adesso l’ho ripreso da 12 giorni e comincia ad essere pesante. Però da Poggioreale è successo il miracolo della non violenza: gli esponenti di Forza Nuova che dal punto di vista degli ideali sono quanto di più lontano da noi, mi hanno fatto sapere che hanno aderito allo sciopero della fame usando queste parole, ‘ammainando le nostre bandiere, sposando la legalità’ perché non vogliono strumentalizzare la lotta giusta dei detenuti”. Così alle 11 una delegazione di Nessuno Tocchi Caino con Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e i garanti dei detenuti della Regione Campania e del Comune di Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, sono entrati a Poggioreale. Intanto i familiari dei detenuti sono rimasti all’ingresso radunati in sit in. “Hanno sbagliato e stanno pagando il loro errore - precisa Maria una ragazza venuta a visitare suo padre - ma la pena non sia castigo. A mio padre ed a tutti i detenuti va comunque garantito il diritto alla salute. Questo virus ci sta mettendo in ginocchio. Stanno in 10 chiusi in una cella, tutti positivi, mi dite come faranno a guarire?” “Il sistema carcerario e anche la mancanza di personale fa aumentare il tempo che i detenuti sono costretti a passare in celle sovraffollate dove il distanziamento non esiste - continua un’altra mamma di un detenuto di 19 anni - Oggi siamo qui per chiedere alla ministra Cartabia di fare presto e di pensare a pene alternative per chi ha da scontare pene minime. Poggioreale - conclude - è una polveriera che prima o poi potrebbe esplodere. Io sono in pensiero tutti i giorni per mio figlio, è piccolo, io non vivo più con questa ansia”. “I detenuti contagiati oggi a Poggioreale sono 153 - rende noto Ciambriello - ai quali bisogna aggiungere 46 agenti di polizia penitenziaria. Per due detenuti è stato necessario il ricovero in ospedale mentre i detenuti contagiati in tutta la Campania sono 482 e 183 sono gli agenti”. Per non contare tutte le difficoltà che stanno vivendo nel carcere dove “manca tutto, anche la carta igienica - racconta un’altra familiare di un detenuto -le mascherine ffp2 mancano e non c’è adeguata assistenza sanitaria. In una cella c’è solo 1 termometro per 11 persone”. “Covid e carcere creano insicurezza e il sovraffollamento che registriamo a Poggioreale, con detenuti che continuano ad arrivare anche da fuori regione, non fa che peggiorare la situazione. Chiediamo - aggiunge Ciambriello - che il ministro provveda al più presto ad un decreto svuota carceri magari a partire dall’aumento dai giorni previsti per la scarcerazione anticipata”. Molti dei parenti giunti per incontrare i detenuti hanno appreso solo all’ingresso che il loro congiunto era contagiato o in isolamento. “Le lamentele di mogli, figlie e mamme - conclude il garante - sono del tutto legittime. Bisogna pensare ad una migliore informazione magari aprendo uno sportello telematico di informazione facendo il più possibile ricorso alle videochiamate”. Al termine della visita della delegazione il garante di Napoli Pietro Ioia ha così commentato su Facebook la visita: “Da poco usciti dal carcere di Poggioreale, grande ovazione e applausi dei detenuti per Rita Bernardini (io mi sono commosso) chiedendogli di sospendere lo sciopero della fame, perché la grande guerriera ci serve da viva”. Torino. Covid, al carcere Lorusso e Cutugno la maglia nera dei detenuti contagiati in Italia di Federica Cravero La Repubblica, 22 gennaio 2022 Un recluso su 7 positivo nonostante la campagna vaccinale dei mesi scorsi col 90 per cento di copertura: sotto accusa il sovraffollamento. Ci sono 204 positivi al Covid tra i 1400 detenuti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Si tratta del focolaio più grande d’Italia tra gli istituti penitenziari. I tamponi positivi sono in continua crescita e sono passati in tre giorni da 173 a oltre duecento, appunto, e questo sta creando grandi problemi di organizzazione all’interno di una struttura gravata da un serio sovraffollamento, visto che i reclusi sono il 32% in più rispetto al migliaio di posti previsti. La diffusione del contagio tra i detenuti è stata a Torino particolarmente estesa, nonostante l’istituto penitenziario del quartiere Vallette sia sempre stato attento a fronteggiare la pandemia. Qui infatti quasi un anno fa era iniziata la campagna vaccinale di detenuti e personale e per farlo si era persino creato un hub all’interno delle mura: questo ha permesso di arrivare a una copertura che supera il 90%, anche più elevata della media degli altri istituti penitenziari. Molti dei detenuti contagiati dal coronavirus sono asintomatici ma questo non elimina l’opportunità di isolarli dai compagni di cella e, in alcune sezioni particolarmente colpite dal virus, si è provveduto a isolare i pochi negativi mandandoli in infermeria mentre i tanti positivi sono rimasti nelle celle. Focolai di vaste proporzioni si sono anche verificati nelle altre città. Sono infatti 171 i casi a Firenze Sollicciano, 168 a Napoli Poggioreale, 160 a Busto Arsizio, 146 a Napoli Secondigliano, 124 a Milano San Vittore, 119 a Pavia. “Tutto ciò - osserva il segretario della Uilpa penitenziari Gennarino De Fazio - nell’impossibilità di garantire il distanziamento e, talvolta, persino un reale isolamento per i positivi, con un protocollo di sicurezza sanitario vecchio e inadeguato e senza sufficienti dispositivi di protezione individuale. Dopo la prima dotazione di 6mila mascherine Ffp2 annunciate dal ministero della Giustizia il 10 gennaio scorso, non abbiamo mai avuto notizie di una seconda”. Genova. Omicron dilaga nelle carceri, a Marassi la maggiore concentrazione di infettati di Roberto Bobbio farodiroma.it, 22 gennaio 2022 La corsa del Covid-19 non si arresta nelle carceri e continua ad aumentare vertiginosamente il numero dei detenuti positivi al virus: 2.625 detenuti contagiati con un aumento di oltre il 32 percento in soli quattro giorni. Sono evidenti i disallineamenti fra i numeri dei detenuti affetti da SARS-CoV-2 comunicati in sede territoriale e quelli indicati centralmente dal DAP, circostanza che ci fa temere che i positivi possano essere significativamente superiori a quelli censiti a Roma. Fabio Pagani, Segretario Regionale della UILPA Polizia Penitenziaria rileva una possibile controtendenza con quanto avviene nel Paese: mentre fra la restante popolazione la propagazione del virus sembra da qualche giorno decelerare, fra quella carceraria continua ad aumentare in misura esponenziale, esaminando i dati rilasciati dal DAP: fra i detenuti sono molti i focolai di vastissime proporzioni, come a Torino (173), Napoli Secondigliano (144), Firenze Sollicciano (128), Napoli Poggioreale (126), Busto Arsizio (120), Prato (110) e Pavia (103), a evidenziare solo quelli dove si sfonda il tetto dei cento. Pagani denuncia come sia il Carcere di Genova che preoccupa maggiormente, con 63 detenuti e 32 Poliziotti positivi. “Le nostre sollecitazioni alla Politica sono sinora rimaste inascoltate, forse distratta in queste ore dall’imminente elezione del Presidente della Repubblica, ma neppure oggi, conclude il Segretario della UILPA PP non possiamo rinunciare a rivolgere a tutti loro l’ennesimo appello affinché si corra ai ripari auspicando diventi obbligatoria la dotazione di mascherine FFP2 per operatori, detenuti e quanti a qualsiasi titolo accedano nelle carceri come sia aggiornato il protocollo di sicurezza sanitario, redatto quando si era alle prese con la prima sequenza del virus isolata a Wuhan e ormai, palesemente, inadeguato”. Avellino. I contagi fanno scoppiare la protesta a Bellizzi quotidianodelsud.it, 22 gennaio 2022 Nel carcere di Bellizzi, che in queste ore registra un focolaio con sessanta positivi, scoppia la tensione. Quella legata al mancato trasferimento di un detenuto risultato positivo da una Sezione. A raccontare i fatti riferisce Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria: “Forti tensioni da ieri sera presso la Casa Circondariale di Avellino, già teatro della duplice evasione di qualche giorno fa, dove a seguito dell’accertamento del contagio da Covid-19 di un altro detenuto, che si trovava allocato in una sezione diversa da quella destinata ai soggetti positivi al virus, si è innescata una protesta con l’incendio di alcuni materassi e un ristretto che, addirittura, avrebbe brandito un coltello. Da stamattina, poi, tutti i trentaquattro detenuti della sezione pretenderebbero di rimanere aperti, contravvenendo alle regole e agli orari stabiliti, così come è stato permesso ai circa 90 delle altre due sezioni in cui sono allocati detenuti affetti da Covid e in una della quale, peraltro, conviverebbero soggetti positivi e non”. E ha aggiunto: “in sostanza stiamo assistendo ad Avellino, ma abbiamo notizia che qualcosa del genere avvenga o sia avvenuta nei giorni scorsi anche in altri penitenziari, come ad esempio presso la Casa Circondariale di Catanzaro, a una sorta di lockdown al contrario, con una specie di ‘aperti tutti’ e con l’Amministrazione penitenziaria, abbandonata a se stessa dalla politica e dal Governo, costretta nei fatti a indietreggiare rispetto alle pretese, anche illegittime, illegali e, talvolta, probabilmente costituenti reato, dei detenuti. Ciò avviene sia per il timore che possano innescarsi tensioni più gravi o addirittura rivolte, come nel marzo del 2020, sia per l’insufficienza degli organici, decimati pure dal Covid, e degli equipaggiamenti”. Proprio sulla condizione di Bellizzi, è stato rivolto un appello al Ministro Marta Cartabia, quello da parte del Garante provinciale per i detenuti, Carlo Mele e dalla referente dell’Osservatorio Carceri della Camera Penale, Giovanna Perna. “Rivolgiamo un appello al Ministro della Giustizia, che più volte ha affermato che nel mese di gennaio il carcere sarebbe stato la sua priorità. In questi giorni ed in queste ore i contagi nella maggior parte degli Istituti Italiani stanno raggiungendo numeri importanti, ed anche sul nostro territorio la situazione desta molta preoccupazione. E’ in corso una forma di protesta pacifica nell’Istituto di Bellizzi Irpino, in cui i detenuti stanno osservando lo sciopero della fame evidenziando una forte preoccupazione per il sovraffollamento in una situazione di emergenza sanitaria”. Non solo i detenuti. “Purtroppo il numero dei contagiati sta creando molto disagio nella gestione anche da parte del personale penitenziario oramai stremato sia dal virus che dalle difficoltà operative. Si chiede, dunque, che la politica, ancora una volta, sorda dinanzi a problematiche di questa portata, adotti provvedimenti urgenti ed inevitabili per assicurare e preservare il diritto alla salute, anche per le persone private della libertà personale”. Il virus continua anche ad uccidere. Ieri mattina è morta al Moscati una 85enne di Conza della Campania. La donna era in cura nella terapia subintensiva del Covid Hospital, dove era ricoverata dal 18 gennaio scorso. Sono 69 le persone in cura presso gli ospedali irpini. Nelle aree Covid del Moscati sono ricoverati 36 pazienti: 2 in terapia intensiva, 22 nella degenza ordinaria/subintensiva del Covid Hospital, 10 nell’Unità operativa di Malattie Infettive, 1 nell’Unità operativa di Pediatria e 1 in quella di Ostetricia e Ginecologia della Città ospedaliera. Due pazienti ricoverati fino a ieri nella terapia intensiva del Covid Hospital sono stati estubati ed essendosi anche negativizzati sono stati trasferiti in Unità operative non Covid della Città ospedaliera. Presso l’Area Covid dell’Ospedale Frangipane di Ariano Irpino sono ricoverati 33 pazienti, di cui: 6 in degenza ordinaria; 10 in sub intensiva; 3 in Terapia Intensiva; 14 Medicina Covid. I casi di positività restano stabilmente su quota 500 da alcuni giorni. Santa Maria Capua Vetere. Mattanza in carcere, per il Gip l’udienza va avanti: nessuno stralcio di Viviana Lanza Il Riformista, 22 gennaio 2022 Nessuna ripartenza, nessun passo indietro. L’udienza per le violenze del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere proseguirà per tutti gli imputati a partire da martedì prossimo. Il giudice Pasquale D’Angelo ha respinto la richiesta di stralciare le posizioni di quattro agenti penitenziari, richiesta avanzata dalla difesa dei quattro imputati sulla base del fatto che i codifensori (legali che si sono aggiunti in un secondo momento ai difensori originari) non avevano ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Se la richiesta fosse stata accolta, il fascicolo per i quattro agenti sarebbe tornato alla Procura per ripetere una serie di passaggi formali. La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha depositato una memoria per sostenere che gli avvisi di conclusione indagine fossero validi, le difese si sono opposte. Alla fine il giudice non ha accolto le tesi dei pm, ma ha comunque ritenuto non valide le nomine dei codifensori in quanto non accettate dal sistema telematico in uso alla Procura di Santa Maria Capua Vetere, per cui i codifensori hanno comunque regolarizzato la loro posizione e potranno in futuro assistere i clienti mentre l’udienza procederà regolarmente per tutti i 108 imputati. Il giudice, infatti, ha optato per proseguire senza interruzioni, per cui la posizione dei quattro è stata nuovamente riunita a quella degli altri 104 imputati. Del resto, questo procedimento nasce con numeri da record: 108 imputati, oltre duecento avvocati, più circa ottanta parti civili con relativi avvocati. Un unicum anche per uno die reati contestati, la tortura, introdotto nel nostro ordinamento nel 2017. Tra i quattro imputati in questione c’è Angelo Bruno, in servizio il giorno delle violenze ma riformato per motivi di salute pochi mesi dopo. Bruno proprio ieri è tornato completamente libero su decisione del Riesame che gli ha revocato l’obbligo di dimora. Rovigo. Teatro Lemming, in carcere i detenuti recitano Shakespeare lapiazzaweb.it, 22 gennaio 2022 “Mi piacerebbe far vedere lo spettacolo ai miei figli perché sapessero cosa di buono fa loro padre qui dentro in carcere”. Queste le parole di uno dei quattro detenuti che ieri (martedì 17 novembre) alle 14,30, all’interno del carcere di Rovigo, in uno spazio solitamente utilizzato per le funzioni religiose, ha messo in scena ‘La tempesta’ di William Shakespeare a coronamento di un laboratorio condotto da maggio proprio nel carcere di Rovigo, in via Verdi, da Alessio Papa e Katia Raguso, trentacinquenni attori pugliesi del Teatro del Lemming di Rovigo. La compagnia teatrale del Lemming, di fama internazionale, è legata al nome del fondatore, regista e attore rodigino, Massimo Munaro, che ha seguito lo spettacolo come spettatore definendolo toccante: “È in posti come questo che si può vedere come l’espressione teatrale diventa esigenza”. Grande soddisfazione anche da parte di Katia Raguso e Alessio Papa, che ha spiegato: “All’inizio erano quasi una dozzina a partecipare al laboratorio, poi, a causa di trasferimenti, detenuti usciti e chi per varie ragioni ha smesso, sono rimasti in quattro. Con uno stereo e pochi pezzi di carta, materiali poverissimi, posto che si era deciso di rappresentare ‘La tempesta’, le scene sono maturate insieme, loro hanno manifestato una grande voglia di fare partendo dall’improvvisazione”. Papa spiega perché è stata scelta proprio questa commedia scritta nei primi del 1600 da Shakespeare: “L’isola in cui furono esiliati Prospero e Miranda può essere anche riletta come una metafora del carcere”. Entusiasti dell’esperienza anche gli attori. “Quel che è sicuro è che anche quando sarò fuori ce la metterò tutta per fare quello che mi capiterà di fare con il massimo dell’entusiasmo perché anche chi finisce a terra, come noi, in carcere, ha il diritto e il dovere di fare di tutto per provare a rialzarsi”, questo il commento di un detenuto che nello spettacolo si esibisce a più riprese con danze che richiamano molto la capoeira, dimostrando abilità di ginnasta non comuni. “A me piacerebbe continuare a fare teatro anche fuori di qui, quando uscirò andrò a cercare Katia e Alessio”, ha detto un altro, rigenerato del lavoro svolto. Carcere, la sua gestione e organizzazione in un libro e un convegno Vita, 22 gennaio 2022 “Il carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” questo il titolo del volume nato dalla ricerca di tre docenti Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni delle Università Bocconi e Lumsa. Il volume e le proposte per un modello carcerario efficace saranno presentati nel corso di un convegno dall’omonimo titolo in programma martedì 25 gennaio a Roma. Come deve essere gestito e organizzato un carcere per essere un luogo orientato alla rieducazione e al reinserimento dei detenuti, e quali caratteristiche deve presentare il sistema penitenziario per perseguire efficacemente l’obiettivo costituzionale? A queste domande cerca di rispondere la ricerca di tre docenti delle Università Bocconi e Lumsa, che ha dato vita al libro “Il Carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” scritto da Filippo Giordano, Carlo Salvato ed Edoardo Sangiovanni. Il volume contiene i risultati di un percorso di 4 anni di ricerca degli autori, docenti e ricercatori di management di Università Bocconi e Università Lumsa, condotto attraverso interviste nelle carceri milanesi di Bollate, Opera e San Vittore. Il testo, edito da Egea, contiene la prefazione di Marta Cartabia- prima donna a presiedere la Corte Costituzionale e attualmente ministra della Giustizia-, la presentazione di Vittorio Coda - economista aziendale e professore emerito dell’Università Bocconi - e l’introduzione di Pietro Buffa, provveditore amministrazione penitenziaria per la Lombardia. La missione del carcere è molto complessa, ed è quella di conciliare sicurezza e rieducazione: due obiettivi contrapposti che creano forti tensioni organizzative negli istituti. Il sistema penitenziario italiano, infatti, registra una recidiva molto alta (stimata al 68,5% nel 2011): un’evidenza del fatto che la risposta organizzativa a questa missione sfidante da parte delle carceri italiane, e dell’amministrazione nel suo complesso, presenta ad oggi rilevanti criticità. Il libro riflette quindi sia su aspetti di sistema (quali il ruolo del carcere nella società contemporanea, i diversi modelli di carcere, le caratteristiche dei principali sistemi penitenziari a livello internazionale), sia sugli aspetti organizzativi su cui in ogni carcere si dovrebbe lavorare affinché diventi un’ambiente abilitante al cambiamento delle persone detenute. Per quanto riguarda gli aspetti di sistema, è utile ricordare che l’obiettivo della rieducazione accomuna tutti i sistemi penali dei Paesi occidentali ma è perseguito con modelli organizzativi che portano ad esiti differenti. Molti Paesi sono stati attraversati da processi di riforma in senso progressista, al fine di contrastare la recidiva con la riabilitazione, l’affollamento con misure alternative e, più in generale, il crimine con la socialità, il lavoro, l’istruzione e la responsabilità. Tutti i Paesi i cui sistemi hanno intrapreso questo tipo di riforme hanno registrato dei miglioramenti nelle condizioni carcerarie e, conseguentemente, nel recupero dei detenuti. Gli esempi della Norvegia e di alcuni Paesi come Germania e Spagna dimostrano come sia effettivamente possibile contrastare la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi e una gestione del sistema penitenziario caratterizzato da un modello di management che consideri i detenuti come fruitori di un servizio. In questi Paesi la maggior parte dell’organico impiegato nell’attività di custodia non porta armi e viene formato attraverso corsi specializzati che toccano anche temi di psicologia e sociologia. È importante sottolineare come i Paesi portati a esempio siano passati attraverso importanti riforme giuridiche che hanno reso possibile un’organizzazione normativa e un’allocazione delle risorse più funzionale, semplificando la burocrazia e allineando le amministrazioni alla missione. Proprio il tema dell’allineamento tra missione, modelli organizzativi e comportamenti individuali è il fulcro della riflessione manageriale sviluppata nel volume con riferimento all’organizzazione carcere. La prospettiva manageriale fa riflettere su come sviluppare modelli gestionali per orientare il carcere italiano verso il perseguimento dei fini costituzionali. Il testo, infatti, è il primo scritto in Italia ad adottare un approccio economico-aziendale e di management allo studio del carcere. Il volume vuole offrire un punto di osservazione nuovo con l’obiettivo di contribuire al dibattito sul ruolo del carcere nella società contemporanea e l’importanza di creare valore per la comunità perseguendo efficacemente il fine riabilitativo. Il convegno “Il Carcere. Assetti istituzionali e organizzativi” in programma martedì 25 gennaio a partire dalle ore 17,30 sarà l’occasione per presentare l’omonimo libro e approfondirne i temi. L’evento è ibrido: in presenza a Roma nell’aula Giubileo della Lumsa e in diretta streaming sul canale Youtube Lumsa Referendum cannabis: cura per la giustizia di Antonella Soldo* Il Riformista, 22 gennaio 2022 Eliminare le pene detentive per le condotte legate alla cannabis inciderebbe positivamente sul sistema giudiziario e carcerario. Si smetterebbe di intasare tribunali, riempire le prigioni e togliere tempo prezioso alle forze dell’ordine. “Il mio obiettivo è garantire tempi ragionevoli per i processi”. La Ministra Cartabia ha ragione, ma per ottenere questo nobilissimo risultato bisogna prima valutare le cause dei rallentamenti del nostro sistema giudiziario e il Referendum Cannabis si pone l’obiettivo di risolvere parte di questi impedimenti, raggiungendo così gli scopi tanto desiderati non solo dalla Ministra ma anche da milioni di cittadini italiani. Durante l’introduzione della relazione sull’amministrazione della giustizia al Senato e alla Camera, la Guardasigilli ha infatti esposto la lettera di una anziana vedova il cui sogno è quello di vedere celebrato il processo del figlio defunto sul posto di lavoro. Nonostante siano passati già quattro anni dalla scomparsa e sebbene il processo rientri tra quelli a trattazione prioritaria, il tribunale non riesce a tenere l’udienza a causa della mancanza di aule ben attrezzate e della carenza di risorse e personale. Una triste realtà che per troppi cittadini italiani è diventata una consuetudine forzata che amaramente si finisce per accettare. Oggi possiamo finalmente dire che una soluzione c’è che pone fine a questo continuo calvario giudiziario: il Referendum Cannabis. La pandemia ha purtroppo aggravato la situazione carceraria in Italia: ad oggi, con 47.418 posti effettivi e 54.329 detenuti, le carceri italiane hanno una percentuale di sovraffollamento del 114%. Una condizione che dipende in gran parte anche dalle nostre leggi sulle droghe. Una persona su tre, esattamente il 34% dei detenuti, si trova in carcere per reati riguardanti il Testo Unico sulle Droghe ma la quasi totalità di questi sono “pesci piccoli”, spacciatori minori o consumatori, spesso con problemi di tossicodipendenza e il carcere non rappresenta sicuramente l’ambiente più adeguato per il recupero di soggetti con tali problematiche. Invece, i grandi trafficanti restano liberi e continuano a sacrificare le proprie piccole pedine per alimentare indisturbati un mercato illegale che vale oltre 16,2 miliardi di euro. Ancor peggio, sono moltissimi i minori che vengono fermati nelle scuole e i pazienti che si ritrovano a sostenere processi per uso di cannabis medica. Eliminando le pene detentive per le condotte legate alla cannabis, il Referendum riuscirebbe ad apportare un impatto positivo sul sistema giustiziario e quello carcerario, smettendo di intasare tribunali, di riempire carceri e di occupare il tempo prezioso delle forze dell’ordine che andrebbero così impiegate per dei crimini veri. I dati presentatati ogni anno dalla Relazione al Parlamento sul fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia dimostrano che la cosiddetta “guerra alla droga” è di fatto una battaglia contro un’unica sostanza: la cannabis. Nel 2019, le operazioni antidroga condotte dalle Forze di Polizia sono state 25.876 ma oltre la metà erano rivolte al contrasto del traffico della cannabis e solamente un terzo di queste operazioni hanno coinvolto sostanze pesanti come la cocaina. Con le attuali leggi, la cannabis resta infatti la sostanza più “perseguitata” nel nostro Paese con oltre l’80% dei sequestri delle quasi 55 tonnellate di sostanze stupefacenti sequestrate nel medesimo anno. Salute pubblica, sicurezza, possibilità di impresa, lotta alle mafie, ricerca scientifica e libertà individuali: sono tantissime le ragioni che hanno spinto oltre mezzo milione di cittadini italiani a sottoscrivere il Referendum Cannabis e tra queste ovviamente non può mancare la giustizia. Che lo si voglia o no, il quesito referendario che decriminalizza la cannabis è l’unica proposta di riforma sul tavolo dopo decenni di stallo del legislatore e questo significherebbe poter superare, in modo strutturale, il sovraffollamento delle carceri, l’ingolfamento del sistema giudiziario e lasciare che le forze dell’ordine siano occupate in altre emergenze ben più serie e pericolose. Anche se ignorata, oggi una soluzione c’è. *Comitato Referendum Cannabis Siria. L’Isis va all’assalto del carcere dei jihadisti. Oltre sessanta i morti di Gabriella Colarusso La Repubblica, 22 gennaio 2022 Il penitenziario di Al Sinaa ha la più alta concentrazione di terroristi detenuti nell’area. Centinaia di evasi, molti sono stati ricatturati. Un attacco era stato sventato in novembre. Sconfitto tre anni fa con una massiccia campagna di combattimenti di terra e bombardamenti, lo Stato Islamico è tornato a farsi sentire, ieri, in Siria, in quella che secondo gli osservatori più attenti è stata la maggiore operazione militare del gruppo terroristico dalla battaglia di Baghuz, sua ultima ridotta. Nella notte tra giovedì e venerdì, decine di jihadisti, secondo fonti curde, hanno assaltato la prigione Al Sinaa di Gweiran, un paio di chilometri a Sud della città di Hassakeh, nel Nord-Est della Siria: è una scuola che era diventata base dell’Isis e poi è stata convertita in carcere dai curdi delle Sdf, le Forze democratiche siriane, che da quasi tre anni gestiscono con pochi mezzi circa 12mila prigionieri jihadisti. Ad Al Sinaa ce ne sono più di 3mila, è la prigione con la più alta concentrazione di terroristi in Medio Oriente, vivono ammassati in celle senza servizi igienici né spazi adeguati, isolati dal mondo, in attesa di processi che non si sa se saranno celebrati e da chi. Sono per lo più stranieri, francesi, britannici, tunisini, sauditi, ma sono politicamente radioattivi e nessun governo li rivuole indietro. Già a novembre i curdi avevano sventato un tentativo di assalto per liberarli. L’operazione di venerdì è stata meglio organizzata. I jihadisti hanno piazzato un’autobomba davanti al carcere mentre i detenuti all’interno inscenavano una rivolta. A centinaia sono riusciti a fuggire, non è chiaro quanti, le Sdf dicono di averne ri-catturati 110. Per tutta la giornata di ieri sono andati avanti combattimenti tra curdi e miliziani dell’Isis nascosti in decine di abitazioni civili nei quartieri a ridosso della prigione, ci sono voluti i raid aerei della Coalizione per liberare molte case. Il bilancio delle vittime è ancora incerto, secondo l’osservatorio siriano per i diritti umani con sede in Gran Bretagna sarebbe di almeno 67 morti, 23 tra le forze di sicurezza curde, 39 tra militanti dell’Isis e cinque tra i civili. Più o meno nelle stesse ore dell’attacco ad Hassakeh, un’altra cellula assaltava una caserma dell’esercito a nord di Baghdad, in Iraq, uccidendo 11 soldati iracheni. Le Sdf e la coalizione anti-Daesh a guida americana hanno spazzato via la pretesa fanatica di costruire uno Stato islamico, ma non l’ideologia jihadista. In diverse zone della Siria e dell’Iraq resistono decine di cellule dormienti e negli ultimi mesi hanno intensificato gli attacchi. Per gli esperti di antiterrorismo, uno di problemi principali sono proprio i miliziani detenuti nelle prigioni. L’attacco a Sinaa è un messaggio ai “fratelli”: l’Isis non si è dimenticato di voi, tornerà per liberarvi. Tra il 2012 e il 2013, l’allora Stato Islamico dell’Iraq condusse una pressante campagna per liberare dalle prigioni irachene decine di miliziani, si chiamava “Abbattere i muri”. Fu il preludio alla conquista di Mosul e alla nascita del cosiddetto Califfato che ha ridotto in povertà e macerie vaste zone dell’Iraq e della Siria prima di essere sconfitto. Siria. L’Isis assalta il carcere, prigionieri in rivolta: nel Rojava è battaglia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 gennaio 2022 Attacco coordinato nel nord est siriano: dentro gli islamisti detenuti danno fuoco alle celle e si impossessano delle armi, fuori autobombe e lanciarazzi. Decine i morti. I 91 evasi ricatturati dalle Sdf con il sostegno della coalizione. Mentre la Turchia colpisce i rinforzi curdi. Un assalto durato tutta la notte, tra giovedì e venerdì, e proseguito ieri: è il peggiore da anni l’attacco realizzato dallo Stato islamico alla prigione di Sina’a, nel quartiere di Ghiweiran ad Hasakah, nord est siriano. Un attacco coordinato, tra dentro e fuori, tra i prigionieri islamisti detenuti dalle Forze democratiche siriane (Sdf) e le cellule ancora libere di operare. E un attacco che ha visto mobilitarsi tutti gli attori in campo, plastica rappresentazione del più ampio conflitto che ruota intorno al Rojava. Perché ieri, mentre i combattenti delle Sdf, delle unità curde Ypg/Ypj e delle Asaysh (le forze di sicurezza interne curde) lottavano per mettere in sicurezza i civili e impedire una maxi evasione - anche con il sostegno aereo della coalizione a guida Usa - droni turchi bombardavano i rinforzi delle Sdf diretti ad Hasakah. La prigione di Sina’a è in mezzo a uno dei quartieri della città. Accanto ci sono case, civili. Ospita da anni tra i 3.500 e i 5mila miliziani islamisti, tra cui membri della leadership, catturati dalle Sdf e tuttora nel nord-est della Siria nonostante il peso di migliaia di detenuti (tantissimi stranieri) non sia più sopportabile dall’Amministrazione autonoma. L’attacco è iniziato giovedì sera. Dentro e fuori. All’interno i prigionieri hanno dato fuoco a coperte e materassi e si sono impossessati di armi e munizioni, mentre fuori un’autobomba colpiva l’ingresso principale del carcere. Altre esplosioni a poca distanza, tre camion di benzina, hanno sollevato in aria una fitta coltre di fumo nero - secondo fonti da noi raggiunte nel Rojava - rendendo la visione impossibile a droni ed elicotteri della coalizione. Da lì lo scontro si è esteso a terra: combattenti delle Sdf contro gli islamisti armati di fucili e lanciarazzi. Gli stessi miliziani avrebbero ucciso sette prigionieri islamisti che avevano optato per la resa. E si è esteso ai civili: islamisti si sono nascosti in alcune case nelle vicinanze, con la forza. Sarebbero cinque i civili uccisi, secondo il Rojava Information Centre (Ric), uno di loro sarebbe stato decapitato. Le Sdf hanno chiesto la collaborazione della popolazione: non date rifugio agli evasi, avvertiteci. Sopra, hanno iniziato a volare gli Apache e i droni statunitensi: nel primo pomeriggio di ieri hanno bombardato la prigione e la facoltà di economia, poco distante, uno dei rifugi scelti dai miliziani. Poco prima il quartiere era stato evacuato: in centinaia si sono allontanati dalla città a piedi, mentre veniva imposto il coprifuoco. “La scorsa notte gli Apache hanno illuminato la zona per assistere meglio le Sdf e le Asaysh sul terreno - ci hanno spiegato dal Ric - e hanno sparato con fucili automatici contro gli assalitori e gli evasi”. E ieri truppe statunitensi sono arrivate a bordo di veicoli blindati. Nelle stesse ore, affatto defilata, è entrata in scena la Turchia, occupante illegittimo di un pezzo di Rojava, che amministra con le sue truppe e con milizie islamiste alleate. Il suo contributo: con un drone ha colpito un veicolo delle Sdf partito da Tel Temer e diretto ad Hasakah. Due i morti. Intanto i giornalisti dell’agenzia Anha riportavano del volo a bassa quota di droni turchi nel distretto di al-Darbasiyah, ad Hasakah. Secondo le nostre fonti, 91 evasi sarebbero stati catturati dopo la fuga. In serata il comandante delle Sdf, Mazloum Abdi, ha twittato: sono stati tutti ricatturati. Circa 40 gli islamisti uccisi, di cui un cinese: un video della Ronahi Tv mostra corpi a terra, alcuni con addosso cinture esplosive, altri nelle divise arancioni dei prigionieri. Due i combattenti delle Sdf morti, 15 i feriti, secondo fonti curde, mentre l’Afp parla di 23 uccisi. In serata gli scontri sono proseguiti fuori dalla città, dopo la ritirata degli islamisti. Un attacco coordinato che svela ancora una volta la capacità dello Stato islamico di infiltrare prigioni e campi di detenzione gestiti con difficoltà e in solitudine dalle Sdf. Lo ha ribadito ieri all’agenzia Anf Abdulkarim Omar, co-presidente delle relazioni internazionali dell’Amministrazione della Siria del nord-est: “Questi eventi sono il risultato dell’incapacità della comunità internazionale di compiere il proprio dovere. Deve avviare processi contro i membri dell’Isis e ogni paese deve riprendere i propri cittadini (foreign fighters, ndr). Il terrorismo dell’Isis è ancora attivo, le sue cellule colpiscono di continuo, mentre la nostra regione è sotto assedio ed embargo”. Un assedio perpetrato dalla Turchia, forza occupante, che ha mostrato di nuovo ieri l’opacità del proprio ruolo, una falsa indifferenza verso l’Isis che si traduce nel sostegno necessario a farlo sopravvivere. Yemen. Bombe sul carcere: duecento tra morti e feriti Avvenire, 22 gennaio 2022 Colpita la struttura nella città di Saada, roccaforte dei ribelli Houthi. Il raid aereo della coalizione militare a guida saudita segna un’ulteriore escalation della guerra. Ennesima strage in Yemen. Almeno duecento persone sono rimaste uccise o ferite la notte scorsa nel nord del Paese in seguito ad un raid aereo della coalizione militare a guida saudita, che segna l’ulteriore escalation di una guerra che ha già causato la morte di centinaia di migliaia di persone. Nel silenzio del mondo. Il bilancio è ancora parziale. I caccia hanno preso di mira vari obiettivi controllati dagli insorti Huothi filo-iraniani, come hanno riferito fonti sul posto. Difficili anche le comunicazioni, visto che il Paese è rimasto senza alcun collegamento internet, proprio a causa del bombardamento contro installazioni nella città portuale di Hudayda, sul Mar Rosso. Nella stessa città, secondo quanto ha riferito Save the Children, tre bambini sono stati uccisi mentre giocavano in un campetto da calcio, quando un missile ha colpito un impianto di telecomunicazioni nella zona. Ma la vera carneficina è stata registrata più a nord, nella città di Saada, dove le bombe della coalizione hanno raso al suolo una prigione, causando, secondo l’organizzazione umanitaria Medici senza Frontiere, la morte di almeno 70 persone e il ferimento di almeno altre 140. La stessa fonte ha precisato che si tratta di dati parziali, poiché provengono da solo uno degli ospedali di Saada, mentre “anche altri due (ospedali) in città hanno ricevuto molti feriti e tra le macerie sono ancora in corso delle ricerche” per vedere se vi sono sopravvissuti, feriti o vittime. I ribelli Houthi hanno prontamente diffuso filmati raccapriccianti che mostrano corpi tra le macerie e cadaveri maciullati, affermando che si tratta di vittime dall’attacco alla prigione. Sono stati però probabilmente proprio i ribelli a causare questa nuova escalation della violenza, mettendo a segno lunedì e poi rivendicando un attacco compiuto con i droni contro installazioni nella capitale degli Emirati Arabi Uniti, Abu Dhabi, che ha provocato la morte di tre persone. Già il giorno dopo la coalizione, di cui gli Emirati fanno parte, ha reagito con un raid contro la regione della capitale Sanaa, in cui sono morte 14 persone. Oggi la drammatica e più vasta replica. Questo è avvenuto solo nell’ultima settimana, ma sono sette anni che la guerra civile in Yemen va avanti causando un’ondata di milioni di sfollati, oltre ad una crisi umanitaria che l’Onu definisce la peggiore al mondo. Per non parlare delle vittime. Sempre secondo le Nazioni Unite, la guerra finora ha provocato la morte di oltre 377.000 persone, sia direttamente che indirettamente, a causa della fame e delle malattie. Frattanto il Consiglio di sicurezza dell’Onu, riunito su richiesta degli Emirati Arabi Uniti che ne è membro non permanente, ha condannato all’unanimità quelli che ha definito gli “efferati attacchi terroristici degli Houthi ad Abu Dhabi, così come in altri siti dell’Arabia Saudita”. Allo stesso tempo, la Norvegia, presidente di turno dei Quindici, ha commentato i nuovi raid in Yemen definendoli “inaccettabili”. Viaggio all’inferno con i tossici di Kabul: “Dal gulag talebano non c’è ritorno” di Pietro Del Re La Repubblica, 22 gennaio 2022 L’Emirato si è trasformato nel leader globale dell’export di droga. E la povertà fa aumentare i consumi locali. Sono lerci, smagriti, coperti di piattole e pidocchi. Alcuni hanno il viso gonfio, altri al contrario le guance incavate e coperte di una barba polverosa. Straziati dal freddo e dalla fame, gli oltre duemila tossicodipendenti rinchiusi nel centro di recupero di Ibn Sina, in periferia di Kabul, vorrebbero soltanto scappare. “Ma siamo sorvegliati da trenta talebani armati che non esiterebbero ad aprire il fuoco al primo tentativo di fuga”, dice Khairul Bashar, 24 anni, catturato mentre fumava “crystal met”, la metanfetamina in cristalli prodotta in Iran, che qui non costa nulla. “Sono disoccupato dallo scorso agosto, dalla caduta di Kabul. Con la droga sopportavo anche la fame”, aggiunge il ragazzo. La tossicodipendenza è una delle piaghe che funestano l’Afghanistan e i talebani hanno deciso di sanarla. A modo loro, però, con retate pianificate nelle principali città del Paese per riempire fino all’inverosimile i malconci san Patrignano locali, dove manca tutto: vestiti, cibo, carbone per le stufe, metadone e altri farmaci. “Sono rinchiuso in questo gulag da più di due mesi, sempre con gli stessi abiti, inadeguati al gelo dell’inverno. Ci danno una tazza di tè e un pugno di riso al giorno e siamo costretti a dormire in due o tre per branda. Ogni giorno, almeno cinque di noi muoiono di stenti”, dice ancora Bashar, scoprendo l’addome per mostrarci i morsi degli insetti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, in Afghanistan il problema della tossicodipendenza riguarda il 10 per cento della popolazione, ossia 4 milioni di persone che consumano soprattutto metanfetamine, eroina e oppio. Se sono così tante è per via di una guerra durata quarant’anni che ha creato disperazione, miseria e disoccupazione, ma anche a causa della grande disponibilità di stupefacenti, in buona parte prodotti in loco. Ora, la grave crisi economica che negli ultimi mesi colpisce il Paese sta peggiorando questi dati agghiaccianti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d’ora. “Qui riceviamo uomini che hanno tra i 18 e i 65 anni, l’80 per cento dei quali assumeva droghe chimiche”, dice Ahmad Zahir Sultani, chirurgo ortopedico e direttore di Ibn Sina, il quale conferma che il suo centro ospita molti più “pazienti” dei mille previsti. Sultani illustra poi la giornata tipo all’interno del lazzaretto: “Sveglia alle 5 per la preghiera, poi alle 6 la prima colazione e la distribuzione dei farmaci. Alle 12 pranzo e alle 18 cena con altri farmaci. Alle 22 si spengono le luci”. Il direttore ammette però di non avere i mezzi necessari per disintossicare i drogati: “Per esempio, per gli eroinomani e per i dipendenti dall’oppio non abbiamo abbastanza metadone e per quelli che prendevano metanfetamine non abbiamo nulla. Cerchiamo perciò di curare altrimenti i sintomi dell’astinenza: antiemetici contro vomito, calmanti per dolori muscolari e antidepressivi per chi ha crisi di ansia. Il problema è che qui scarseggiano anche questi farmaci”. Per questo motivo, sebbene il protocollo sanitario preveda una permanenza di 45 giorni in questa ex base militare, a una decina di chilometri dal centro della capitale, la maggior parte dei disperati che incontriamo è rinchiusa qui dentro da molto più a lungo. Ali Wardaak, 30 anni, operaio disoccupato, si lamenta perché le scarpe che gli hanno fornito quand’è arrivato sono delle vecchie ciabatte ormai sfasciate. “Non ho neanche un paio di calze, e rischio di morire di freddo. Sto male, sono affamato e ho la febbre da settimane”, dice. Accanto al suo letto è disteso il ventottenne Abdul Rakman, ex poliziotto, eroinomane che ormai non peserà più di trenta chili e che emana l’odore nauseante tipico della malattia. Ha occhi acquosi e inespressivi, e pronuncia parole difficilmente comprensibili, con cui sembra chiedere scusa alla sua famiglia per essere diventato schiavo dell’eroina. Da quando il nuovo regime ha deciso di estirpare il flagello della droga non è più il ministero della Salute a gestire i problemi legati alla tossicomania, bensì quello dell’Interno. Come spiega il dottor Nazir Sharifi, uno dei promotori dell’iniziativa, al momento si tratta di un progetto sperimentale. “Se funziona, riceveremo altri fondi con cui fornire ai centri farmaci a sufficienza”. Dal suo ufficio all’ultimo piano di una palazzina che domina Kabul, Sharifi ci dice che esistono due tipi di tossici: “Quelli che accettano di farsi curare su base volontaria e che si recano da soli nei centri di recupero; e quelli che invece vanno catturati e trattati contro la loro volontà. Purtroppo questi ultimi sono la grande maggioranza”. A Kabul ma anche a Herat, Mazar-e-Sharif e Kandahar, a prelevarli come cani randagi per la strada o sotto i ponti sono uomini armati a bordo di pick-up che li perseguitano nei loro più segreti nascondigli. Le retate sono programmate ogni mese e mezzo, anche se non è ancora terminata la terapia per i tossici dell’infornata precedente, il che spiega il sovraffollamento dei centri. Era metà novembre quando gli studenti del Corano hanno cominciato “a ripulire le città dai drogati”, sostenendo che trattare le dipendenze avrebbe permesso “di eliminare il traffico di droga in Afghanistan”. In pochi giorni, furono prelevate dalla strada tremila persone. Allora, Saeed Khosti, portavoce del ministero dell’Interno, sentenziò: “Piano piano li scoveremo tutti. E in giro non rimarrà più un solo tossicodipendente”. Il paradosso è che lo stesso mese la raccolta di cannabis raggiungeva livelli da primato, rendendo l’Afghanistan, oltre che di oppio, il primo produttore al mondo di hashish e marijuana. Tutta merce che costituisce la prima fonte di reddito del regime talebano, e che ovviamente i mullah vorrebbero destinare soltanto all’esportazione. Rientrati verso il grande bazar, basta affacciarci dai ponti che attraversano il Kabul per scorgere i prossimi tossici che saranno agguantati e rinchiusi al centro di Ibn Sina. Si nascondono appena sulle rive del fiume che in questa stagione è poco più che un rigagnolo di fogna. Ma è sotto un ponte un po’ più lontano dal centro che scopriamo l’orrore: una mezza dozzina di uomini che fuma e inala “crystal met” accanto a otto cadaveri di sventurati probabilmente morti di overdose, o forse uccisi dal gelo mentre erano sballati.