Sovraffollamento: Cartabia ripete che il problema è grave, ma nulla cambia di Viviana Lanza Il Riformista, 21 gennaio 2022 Il sovraffollamento ha raggiunto numeri allarmanti. A Poggioreale si sono superati i 2.200 detenuti, in Campania la popolazione detenuta sfiora le sette mila persone. Che il numero di detenuti rinchiusi in strutture inadeguate sia eccessivamente e preoccupante alto lo ha ammesso anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia. “Il primo e più grave tra tutti i problemi continua ad essere il sovraffollamento: ad oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%”, ha affermato elencando i dati a livello nazionale. “È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assai più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. I garanti, i penalisti, gli architetti, gli operatori e in generale i garantisti sensibili al tema delle carceri lo dicono da tempo. Voci inascoltate in un deserto di iniziative che per anni si è esteso attorno alle mura carcerarie. L’intervento della ministra di ieri in Aula al Senato, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia, sottolinea una condizione che dura da ormai troppo tempo. L’unica via è quella delle misure alternative. “Con l’attuazione della legge delega in materia penale - sottolinea la Guardasigilli - si svilupperanno le forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi. E questo darà sollievo anche alle troppo congestionate strutture penitenziarie”. Perché il rischio di carceri sovraffollate e di detenuti a cui non si è in grado di fornire alcun percorso di responsabilizzazione non è altro che la violenza. Una violenza che può sfociare nei drammi di chi si suicida o nelle tensioni che degenerano in torture. Il caso di Santa Maria Capua Vetere ne è il tragico esempio, tanto da spingere la Cartabia a dire “mai più violenze, serve strategia complessa, a più livelli”. Salute, relazioni, autostima: l’impatto del lavoro in carcere redattoresociale.it, 21 gennaio 2022 I risultati di uno studio realizzato negli istituti penitenziari di Torino, Padova e Siracusa: coinvolti oltre 300 detenuti, tra chi non lavora e chi lavora per cooperative e amministrazione penitenziaria. Un’indagine per valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere: l’hanno realizzato negli istituti penitenziari di Torino, Padova e Siracusa la Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e Fondazione Zancan, con il patrocinio del Ministero della Giustizia. Oggi, nel corso di un convegno, la presentazione dei risultati dello studio che ha tenuto conto di quattro aree specifiche (organico-funzionale, cognitivo-comportamentale, socio ambientale e relazionale, valoriale e spirituale) e coinvolto oltre 300 detenuti nei tre istituti penitenziari, circa un terzo dei quali lavoratori alle dipendenze di cooperative, un terzo lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (A.P.), un terzo non lavoranti. Dopo circa un anno, quasi l’80% (262) delle persone convolte ha nuovamente risposto alle domande degli osservatori. L’età media di chi lavora alle dipendenze di cooperative dell’Amministrazione Penitenziaria è di oltre 44 anni e due terzi dei partecipanti allo studio sono nati in Italia. “I detenuti che non lavorano sono i più ‘giovani di detenzione’ - spiegano gli osservatori - perché anche in carcere i più giovani sono svantaggiati nell’accesso al lavoro, per scarsità di offerta”. Il benessere fisico e mentale “Fisicamente - si legge - il peso medio dei detenuti incontrati oscilla intorno agli 80 chilogrammi. Gli obesi sono tra chi non lavora il 14,4%, tra chi lavora per l’Amministrazione il 15,5%, tra chi lavora per le cooperative il 7,8%”. Inoltre “i ‘depressi’ e gli ‘scoraggiati’ sono il 20% di chi lavora per cooperative, il 25% circa di chi lavora per l’A.P., il 55% di chi non lavora”. Secondo gli osservatori “chi lavora per le cooperative è più propenso a pensare di ‘valere almeno quanto gli altri’: lo pensa l’88,9% di tutti gli intervistati, ma con una differenza di oltre 14 punti tra chi lavora per l’A.P. (82,0%) e chi lavora per le cooperative (96,1%). Inoltre chi lavora per le cooperative ha più frequentemente un atteggiamento positivo verso se stesso (95,2%), con un divario di quasi 17 punti rispetto a chi lavora per l’A.P. (78,4%)”. Desiderano più rispetto i detenuti che non lavorano (73,6%) in confronto ai lavoranti per l’Amministrazione (63,9%) e ai lavoratori per le cooperative (61,4%). Il 18,6% dichiara di pensare “a volte di essere un buono a nulla”: lo pensa il 26,9% di chi non lavora, il 20,4% di chi lavora per l’Amministrazione e il 9,5% di chi lavora per le cooperative. La pena è considerata giusta dal 30,8% dei detenuti che non lavorano, dal 39,8% dei lavoranti per l’A.P. e dal 41,2% dei lavoratori per cooperative. Differenze analoghe emergono dall’espressione “malgrado le restrizioni del carcere mi sento libero”: in media, meno di un terzo (31,3%) dei detenuti incontrati si sentono liberi, ma la percentuale varia significativamente tra chi non lavora (il 15,4% si sente libero), chi lavora per l’A.P. (36,1%) e per le cooperative (40,8%). Considerando le macro dimensioni (salute psico-fisica, autostima, capacità, valori e relazioni) gli studiosi rilevano “una condizione di staticità esistenziale”. “È la condizione della vita istituzionalizzata, non solo sospensione della libertà (contenzione fisica) ma anche contenzione interiore - sottolineano. Ma su questo aspetto emerge un quadro più favorevole per quanti lavorano alle dipendenze delle cooperative. I ‘vantaggi’ per i lavoratori delle cooperative in termini di variazioni positive nel tempo riguardano soprattutto la sfera dell’autostima, dell’orientamento valoriale e dei legami vitali”. Importante aiutare le famiglie. Per quasi tutti i detenuti (oltre il 90%, a prescindere dalla condizione lavorativa/non lavorativa) emerge l’importanza di “amare i propri cari” e dare valore alla famiglia. È il punto di riferimento che “dà speranza”. Le persone intervistate descrivono l’aiuto che riescono a dare alla propria famiglia, in particolare ai figli (per farli studiare,...) con il lavoro. Per i detenuti lavoratori, la possibilità di aiutare significa dignità che nasce dal “non pesare” sui propri cari e di essere utile alla “società”. Considerando le cooperative nei tre istituti penitenziari, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa. Parte della ricchezza prodotta si traduce (al netto degli sgravi fiscali e contributivi) in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno per cooperativa in media). Le cooperative coinvolte impiegano, mediamente, un’altra “persona non detenuta” ogni 2 detenuti impiegati. La produzione delle cooperative sociali conta su un “indotto” per altre aziende, clienti e fornitori (in media oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa). Lo studio ha preso in considerazione benefici “diretti e misurabili nel breve periodo” da cui emergono indicazioni significative. La differenza si fa con la quantità e qualità del lavoro, durante la detenzione per evitare la condanna ad una “vita immobile”, dove il “dopo” non viene preparato. “È una vita che non riabilita, che ‘contiene la persona’ con elevati tassi di sofferenza umana. I cambiamenti ‘in miglioramento’ riguardano soprattutto i lavoratori delle cooperative”. Tra i benefici un maggiore controllo sanitario durante il lavoro. “Si vede nel differenziale, tra lavoratori per le cooperative e lavoranti per l’A.P., sul ‘numero di farmaci consumati’ (il valore mediano è pari a 3 per i primi e 5 per i secondi) e al ‘numero di visite interne’ (con valori mediani pari a 1 e a 4)”. “Complessivamente sono soddisfatto di me stesso”: il 75,3% lo è, ma con una differenza di quasi 11 punti tra dipendenti dell’Amministrazione (70,1%) e dipendenti delle cooperative (81,0%). La positività dell’ascoltare gli altri ricorre maggiormente tra chi lavora per le cooperative (84,8%) rispetto a chi lavora per l’Amministrazione (75,0%) e chi non lavora (75,6%). “Sono molte le indicazioni ‘operative’ e nello stesso tempo ‘politiche’. - commentano gli osservatori - I risultati parlano di condizioni organizzative per meglio gestire la condizione di detenzione e le sue finalità. Le organizzazioni solidaristiche e imprenditoriali che partecipano a questa sfida ‘dentro’ e fuori’ il sistema penitenziario con il loro impegno prefigurano i vantaggi di scelte necessarie e misurabili a favore delle persone detenute, di chi gestisce la detenzione, delle famiglie, delle imprese che offrono lavoro, delle comunità di riferimento”. Quegli scafisti, vittime dei trafficanti, che finiscono in carcere al 4 bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 gennaio 2022 Sono migranti che guidano piccoli gommoni. Arrestati in Italia con l’accusa di “favorire l’immigrazione clandestina”, considerati al pari della criminalità organizzata e sottoposti al regime ostativo. Vengono considerati pericolosissimi, favoreggiatori dell’immigrazione clandestina e al pari della criminalità organizzata. Tanto che nei loro confronti, soprattutto da parte dei pubblici ministeri siciliani, si usa un duro approccio antimafia. D’altronde i loro reati rientrano nel 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ovvero quelli ostativi ai benefici. Parliamo dei cosiddetti “scafisti”, coloro che conducono l’imbarcazione carica di migranti con cui ha attraversato il Mediterraneo. Spesso questi presunti scafisti sono in realtà persone normali, non appartenenti a nessuna organizzazione, ma che sono state costrette a guidare una barca dai veri trafficanti. Eppure finiscono in carcere, in regime ostativo. Gli studi sul diverso approccio antimafia per i soggetti deboli - L’argomento è stato oggetto di studi internazionali. A partire da una interessante pubblicazione del 2020 da parte del “Center for International Criminal Justice”, redatto insieme alle giovani ricercatrici Flavia Patanè ed Helena Kreiensiek. Lo studio ha mostrato le conseguenze significative che i migranti devono affrontare dopo essere stati perseguiti per traffico di esseri umani. Sono spesso esclusi dai centri di accoglienza e hanno difficoltà ad accedere alle procedure di asilo. Quando riescono a chiedere asilo, agli scafisti gli viene puntualmente negata la protezione a causa della loro condanna. Quando non possono essere espulsi, possono finire in un limbo legale, dovendo fare affidamento su uno status umanitario temporaneo con forti limitazioni. Nella ricerca menzionata, c’è un capitolo riguardante il diverso approccio da parte dei magistrati, che cambia a seconda della zona. In Sicilia stessa, secondo lo studio emerso da interviste fatte a campione, emerge una differenza sostanziale tra la procura di Catania e quella di Palermo. Mentre nel primo caso si è scelto di cessare l’uso della custodia cautelare nei confronti dei presunti scafisti indagati, nel caso di Palermo i magistrati userebbero un approccio durissimo. Sempre nella ricerca pubblicata da “Center for International Criminal Justice”, si legge di un avvocato che ha assistito 20 casi di scafisti a Palermo, oltre a Catania e Siracusa. Ed ha affermato di aver vissuto un approccio giudiziario molto più duro a Palermo che in altri distretti: “Mentre a Siracusa i reati commessi da conducenti occasionali sono stati considerati reati minori e i pubblici ministeri hanno riconosciuto molti scafisti come migranti, a Palermo le accuse sono estremamente gravi e i pm agiscono in uno stato di emergenza permanente, che non consentono loro di distinguere tra i reali trafficanti e le persone vulnerabili come gli altri migranti. Questi ultimi scappano dalla guerra e dalla disperazione, vengono qui per un futuro migliore e invece inciampano nel nostro sistema, che a volte schiaccia le loro vite”. La pubblicazione italiana: garanzie processuali spesso negate - A ottobre scorso è stata pubblicata una ricerca italiana che ha per la prima volta analizzato dal punto di vista quantitativo gli arresti di migranti accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Parliamo di una analisi quantitativa di dati, raccolta da tre associazioni non governative: Arci Porco rosso, Borderline Europe e Alarmphone. La ricerca ha mostrato che in Italia, negli ultimi anni, sono stati usati i sistemi della direzione nazionale antimafia, potenti strumenti di indagine e metodi imponenti per individuare i richiedenti asilo e migranti appena arrivati nel paese che avevano condotto le imbarcazioni, accusandoli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, un reato che prevede pene fino a quindici anni di carcere e milioni di euro di multa. Eppure, secondo Maria Giulia Fava, operatrice legale che ha collaborato alla stesura del report, si tratta di processi politicamente condizionati. Denuncia che nella caccia allo scafista, capro espiatorio a cui addossare ogni responsabilità, “le garanzie processuali vengono meno e quei princìpi su cui dovrebbe fondarsi ogni procedimento penale sono violati con leggerezza”. Molti degli scafisti sono “migranti - capitani forzati” - Ma chi sono gli scafisti? La maggior parte di loro, rientra nella categoria del “migrante - capitano forzato”. Dal report italiano, emerge che - soprattutto nelle partenze dalla Libia dal 2014 in poi - il ruolo del capitano è stato spesso svolto da persone con pochissime, o quasi inesistenti, conoscenze del mare, costrette poco dopo la partenza a guidare l’imbarcazione. Nell’organizzazione del “business” dell’immigrazione, si tratta di persone totalmente esterne alla rete aziendale-lavorativa, che non percepiscono nessuna remunerazione per il pericoloso compito; anzi, spesso gli imputati si lamentano che hanno pagato il prezzo del viaggio come tutti gli altri passeggeri, e si sentono truffati nell’aver avuto una responsabilità così alta, con altrettanto elevate conseguenze penali che sono seguite. Gli scafisti in carcere: i benefici penitenziari negati - È particolarmente arduo capire quanti stranieri siano detenuti per reati connessi al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il sito del ministero di Giustizia riporta che le persone detenute per reati connessi al Testo Unico sull’immigrazione sono 1.267. Questa cifra però include non solo il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ma anche tanti reati che non riguardano le persone al centro del report. Di fatto, la criticità della condizione degli scafisti non concerne soltanto il trattamento riservato loro dentro le aule di tribunale, ma anche la loro vita in prigione alla luce della discriminazione posta in essere dal sistema carcerario nei confronti dei detenuti stranieri. Ci si scontra, per esempio, con il paradosso per cui adottare una linea difensiva forte, volta a contrastare le false accuse rivolte nei confronti dei capitani spesso porta ad un prolungato periodo di detenzione cautelare in attesa di un giudizio definitivo. Ma c’è un ulteriore aspetto della legge che contribuisce alla carcerazione degli scafisti, cioè l’ostatività delle condanne. Si sa che il 4 bis, articolo emergenziale nato durante il periodo delle stragi mafiose, è stato “normalizzato” e come una calamita attrae i reati che, a seconda i periodi storici, diventano emergenziali. Si legge nel report italiano, che nell’aprile 2015 - per contestualizzare, proprio all’inizio del periodo più intenso della criminalizzazione degli scafisti - è stata introdotta l’ostatività dell’articolo 12, comma 1 e 3. Questo vuol dire che anche quando una persona condannata come scafista arriva a una pena definitiva e possiede anche la disponibilità di una struttura o di una casa che lo può accogliere, il giudice di sorveglianza può negare l’accesso ai domiciliari sulla base del presupposta pericolosità sociale, a meno che siano emersi degli elementi tali da escludere che il condannato sia in collegamento con la criminalità organizzata o da far ritenere non abbia collaborato con la giustizia a causa della sua limitata partecipazione alla commissione del reato. Dai risultati della ricerca, emerge con tutta chiarezza come l’obiettivo politico - troppo spesso visto come imprescindibile - di scovare lo scafista, venga utilizzato per giustificare la violazione dei più basilari diritti umani. Vengono facilmente messi da parte dinnanzi alla necessità di trovare un colpevole. Grimaldi (ispettore cappellani): non si può più accettare violenza, disagi e sovraffollamento agensir.it, 21 gennaio 2022 “Il carcere non può essere solo un serbatoio di uomini colpevoli di reati. I luoghi di pena devono essere visti come ‘ospedali da campo’ per sanare le ferite, offrendo ai ristretti percorsi riabilitativi attraverso le molteplici attività, culturali artistiche e lavorative, per liberarli dall’ozio e dai pericoli di autolesionismo e dai suicidi”. Lo ha affermato l’ispettore dei cappellani delle carceri d’Italia, don Raffaele Grimaldi, facendo riferimento alla relazione della ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha messo in luce, sul mondo del carcere, “questioni irrisolte da lungo tempo”. “Disagi tante volte da noi stessi denunciati - ricorda don Grimaldi -. La violenza nelle carceri, tra le mura dei nostri istituti, è da condannare, non si può più accettare che uomini e donne siano zittiti con azioni di assurde violenza”. C’è poi il “gravoso problema del sovraffollamento” e le “pessime condizioni di molte case di reclusione”. “Perciò - afferma l’ispettore dei cappellani -, nel rispetto della dignità della persona, non dobbiamo tacere quando in molti istituti non sono garantiti l’igiene e il decoro delle strutture come ha ricordato il Papa il 14 settembre all’udienza per i cappellani delle carceri, la polizia, il personale penitenziario e i volontari”. È necessario, inoltre, “riqualificare i diversi spazi trattamentali esistenti, spesso abbandonati e inutilizzati” e aumentare il personale “affinché le attività possano decollare”. Bisogna poi “investire sulla formazione permanente” della polizia penitenziaria”. Don Grimaldi ringrazia anche Papa Francesco per il suo intervento di ieri nel quale ha detto: “Non possono esserci condanne senza finestre di speranza. Qualsiasi condanna ha sempre una finestra di speranza. Pensiamo ai nostri fratelli e alle nostre sorelle carcerati, e pensiamo alla tenerezza di Dio per loro e preghiamo per loro, perché trovino in quella finestra di speranza una via di uscita verso una vita migliore”. Il Parlamento promuove la Cartabia ma chiede la riforma del Csm di Angela Stella Il Riformista, 21 gennaio 2022 Il Parlamento ieri ha promosso la relazione annuale della Ministra della Giustizia Marta Cartabia, auspicando però che si faccia in fretta sul tema delle carceri e sul Consiglio Superiore della Magistratura. Come ha detto l’onorevole Walter Verini (Partito Democratico): “La riforma del Csm è necessaria e urgente per contribuire a quella “rigenerazione” della Magistratura. A nostro giudizio la guida del Presidente della Repubblica è stata un riferimento puntuale e unificante, così come lo è stato il mandato svolto quotidianamente dal Vicepresidente Ermini, che ha guidato in mezzo alla tempesta il Consiglio tenendo come riferimento la sua autonomia e la Costituzione. Ora si deve voltare pagina. Auspichiamo che gli emendamenti sottoposti alla valutazione politico-istituzionale del Consiglio dei Ministri arrivino quanto prima in Commissione”; e sul contrasto con il Consiglio di Stato ha rilanciato l’idea di Luciano Violante: “La costituzione di una sorta di “Alta Corte” che definisca le questioni disciplinari ed i ricorsi che riguardano tutte le Magistrature, anche quella amministrativa”. Il responsabile giustizia di Azione, Enrico Costa, ha accolto invece “positivamente l’istituzione del Dipartimento della transizione digitale e della statistica ma esso dovrà coniugarsi con il fascicolo di performance del pubblico ministero e contenere dati fino ad ora sconosciuti come gli avvisi di garanzia emessi”. La senatrice Grazia D’Angelo (M5S) ha espresso “soddisfazione per l’istituzione dell’Ufficio per il Processo” ma ha chiesto maggiore impegno per l’esecuzione penale: “Desidero ricordare a tutti noi le parole pronunciate oggi (ieri, ndr) da Papa Francesco a proposito delle persone detenute nelle nostre carceri: “è giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore ma altrettanto giusto che chi ha sbagliato possa redimersi. Non può esserci condanna senza finestre di speranza”. È un dovere dello Stato tenere sempre aperta quella finestra di speranza. Il carcere deve essere un luogo di reintegrazione sociale, di elaborazione degli errori e delle regole che disciplinano la nostra convivenza. Questo oggi non avviene ovunque e serve il massimo sforzo per eliminare questo grave vulnus”. “Una relazione puntuale e puntigliosa” l’ha definita la senatrice di +Europa Emma Bonino per cui “le proposte dettagliate vanno sostenute e aiutate”, tuttavia “se lei pensa che si possano affrontare i temi che adesso elencherò con l’accordo di tutti, si sbaglia. Mi riferisco alla separazione delle carriere, alla responsabilità civile dei magistrati, all’obbligatorietà dell’azione penale”. Sulla stessa scia la senatrice della Lega Giulia Bongiorno: “Noi con forza sosteniamo la separazione delle carriere. Voteremo a favore ma le chiediamo coraggio”. A favore anche Giuseppe Luigi Cucca (Italia Viva): “Credo che mai la magistratura abbia attraversato un periodo di difficoltà estrema come quello che sta attraversando adesso. Anche se ci sono ovviamente delle differenze di visuale (come lei stessa ha detto), è evidente che noi di Iv-Psi, voteremo convintamente a favore della sua relazione, pregandola però di metter mano in tempi brevissimi a quelle criticità emerse”. La bocciatura, invece, arriva dall’opposizione di Fratelli d’Italia, con il senatore Alberto Balboni: “La sua - rivolto alla Ministra - è una maggioranza talmente ampia da contenere tutto e il contrario di tutto e questo comporta spesso compromesso a ribasso, le riforme di cui lei ha parlato sono riforme a ribasso. Lei è una giurista e non può non rendersi conto che per tenere insieme tutto e il contrario di tutto poi alla fine si arriva a soluzioni inadeguate”. Per i Promotori del Referendum Cannabis “la Ministra Cartabia ha ragione, il sovraffollamento delle carceri è il maggiore problema, ma dobbiamo valutare le cause: il 34% dei detenuti si trova in carcere per reati riguardanti il Testo Unico sulle Droghe”. Portare al più presto in Cdm le proposte di riforma del regolamento penitenziario della Commissione Ruotolo è la richiesta di Antigone. Cartabia: la relazione “fuffa”, il nulla su Csm ed ergastolo per i boss di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2022 Le polemiche per la mancata riforma delle toghe ancora bloccata a Palazzo Chigi: Draghi attende il voto per il Colle. È il giorno della solita cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, quest’anno, però, preceduta dal brivido dell’illegittimità delle nomine dei suoi vertici dichiarata dal Consiglio di Stato una settimana fa e ripristinata ieri dal Csm alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. A larghissima maggioranza sono stati riconfermati il presidente Piero Curzio e la presidente aggiunta Margherita Cassano. Oggi al “Palazzaccio” ci sarà anche la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che sogna il Quirinale almeno da quando fu nominata presidente della Corte costituzionale. Arriverà dopo la sua relazione al Parlamento, sullo stato della Giustizia, mercoledì, dove ha portato la riforma penale più criticata dai tempi di Berlusconi e il fallimento della mancata riforma del Csm, che avrebbe voluto far varare al governo prima di Natale, per spendersela anche come biglietto da visita come candidata più che papabile al Quirinale, ma che Mario Draghi, che al Colle vuole andare, ha bloccato a Palazzo Chigi. D’altronde, si ragiona nei palazzi della politica, la riforma è troppo divisiva e ogni voto per il capo dello Stato pesa. Ed è in questo contesto che si comprende perché Cartabia ha messo da parte il suo stile ecumenico e si è tolta, durante la relazione, un sassolino il cui destinatario è Draghi. La ministra ha confermato quanto raccontato nella nostra newsletter Giustizia di Fatto e cioè che la sua riforma è pronta ma bloccata: “Gli emendamenti sono all’attenzione del governo” e lei si impegnerà “al massimo nel sollecitare il governo”. Alla Camera l’ex membro laico del Csm Pierantonio Zanettin, Forza Italia, le dà man forte: “È questione assai grave se, da oltre un mese, questi emendamenti non sono stati esaminati dal Consiglio dei ministri. Credo che qualche spiegazione sia dovuta al Parlamento”. La relazione della ministra è stata approvata da tutti i partiti, con l’eccezione di Fdi e Alternativa C’è (i fuoriusciti M5S). Ed è Andrea Colletti, ex pentastellato, che ha messo il dito nella piaga della improcedibilità penale, in Appello e Cassazione, mentre in primo grado è rimasto il blocco della prescrizione della legge Bonafede. Colletti, riferendosi all’apertura della relazione della ministra, che ha letto la lettera di una madre che ha perso il figlio in un incidente sul lavoro, dice: “Ho ascoltato chiacchiere convincenti, ma chiacchiere da candidata in panchina, magari, alla Presidenza della Repubblica. Lei dovrebbe avere il coraggio di dire a quella madre che qualora il processo d’Appello dovesse durare più di due anni potrebbe essere cancellato dalla sua riforma sulla improcedibilità. Ho difeso (come avvocato, ndr) la famiglia di una neonata morta per malasanità, è arrivata la prescrizione in Appello, ma se ci fosse stata in vigore la Bonafede, il processo sarebbe finito con una condanna, se ci fosse stata in vigore la sua riforma sarebbe stato dichiarato improcedibile”. Colletti ha anche criticato la ministra perché ha citato Falcone e Borsellino per ricordare un’altra riforma che la ministra, assicura, vorrebbe concludere, ed è quella sull’ergastolo ostativo e i benefici per i mafiosi detenuti, obbligata da una sentenza della Corte, che ha dato come scadenza per legiferare maggio 2022. Ma, ha detto Colletti, “il suo sottosegretario ha bloccato i lavori perché non avete ancora a disposizione i pareri”. Ci risulta che ieri era atteso il parere della ministra in commissione Giustizia della Camera, non è ancora pronto e quindi se ne riparlerà dopo il voto per il Quirinale. Un anno fa, all’inaugurazione c’era Alfonso Bonafede, agli sgoccioli come ministro della Giustizia, perché si stava preparando il “Governo dei Migliori”: il Conte-2, che godeva di larga popolarità, fu fatto cadere e saltò pure la relazione annuale che Bonafede aveva pronta, incentrata grazie al Pnrr sugli investimenti nel settore Giustizia. Ermini: “Sono stati anni dolorosi, riforma irrinunciabile” di Errico Novi Il Dubbio, 21 gennaio 2022 Dal vicepresidente il senso di una giustizia sospesa, che peserà oggi all’inaugurazione di piazza Cavour. È una fase di passaggio. Con destinazioni ancore da chiarire. Il clima che il plenum di ieri ha sancito descrive una magistratura e una giustizia sospese. È l’impressione di affacciarsi su un futuro incerto difficilmente scomparirà stamattina all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Forse la bocciatura dei vertici della Cassazione e la loro immediata rinomina firmata ieri dal Csm avranno effetti imprevedibili. Potrebbero rafforzare chi reclama una più sicura autonomia dell’organo di autogoverno, in vista della riforma Cartabia. È un’idea evocata, nel dibattito di ieri a Palazzo dei Marescialli, da un laico scelto nell’accademia su indicazione dei 5 Stelle, Alfonso Maria Benedetti: “Serve un intervento del legislatore che metta ordine sul regime di impugnazione delle delibere del Csm, in modo coerente con le sue funzioni di rilievo costituzionale”. In altre parole, il potere di censura che il Consiglio di Stato detiene va ridimensionato, secondo Benedetti e gran parte degli attuali consiglieri. Ma in che modo? È impossibile immaginare quale sarà l’equilibrio nell’ordine giudiziario. Gli orizzonti della riforma restano incerti. Ieri il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ha assicurato che i tempi di approvazione del ddl sul Csm saranno rispettati: entro marzo dunque l’aula di Montecitorio dovrebbe licenziare il testo. Sisto ha aggiunto che ci sarà una sintesi fra le proposte della commissione Luciani e le soluzioni su cui si sono confrontati la guardasigilli e i partiti. Contorni ancora non facili da intuire. Dopo un travaglio come quello degli ultimi giorni, dopo l’annullamento delle nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano da parte del Consiglio di Stato e la loro immediata conferma, ci sono due strade. La prima consisterebbe nell’irrigidire i criteri per la scelta dei capi. L’alternativa è limitare quei criteri all’essenziale e lasciare che Palazzo dei Marescialli eserciti la propria discrezionalità entro un perimetro chiaro ma ampio. Nel primo caso saremmo di fronte a un atto di sfiducia, forse comprensibile, di governo e Parlamento verso le toghe. Nessuno ne sarebbe sorpreso. In un documento diffuso ieri, la storica corrente di Magistratura democratica è arrivata a parlare di “piccole e grandi miserie” alimentate in questi anni dall’autogoverno, di una gestione del “potere” attuata in modo addirittura “orrido”. Poi sì, i giudici di sinistra dicono: giù le mani dal Csm e anche dall’Anm. Ma l’ammissione così netta del declino fa capire quanto sia dura la risalita. Rilanciare viceversa un’ampia discrezionalità del Csm nelle nomine dei capi, dalla Cassazione alla più periferica delle Procure, significherebbe scommettere su una magistratura in grado di guarire in fretta. Scelta rischiosa, ma che potrebbe essere favorita proprio dal conflitto sulle nomine di Curzio e Cassano. Fatto sta l’incertezza sul futuro del Csm e della magistratura è assoluta. E a dirlo con parole sincere, autentiche, è stato ieri il vicepresidente David Ermini: “Sono stati tre anni e mezzo assai difficili, travagliati, dolorosi, per questo Consiglio superiore e per la magistratura”. Poi ha cosi descritto il Csm prossimo alla scadenza: “Un Consiglio di transizione, che ha visto deflagrare fatti lasciati per troppo tempo sotto la polvere”. Non un’attenuante, ma un dato di realtà. Fino all’ultima invocazione: “Ci attendiamo ora le riforme, indifferibili e irrinunciabili”. Ed è tutto qui il senso di un tempo sospeso per l’ordine giudiziario. Se ne avrà certamente un segno anche all’inaugurazione di oggi a piazza Cavour, dove il primo presidente Curzio potrà condurre la cerimonia, a cui interverranno anche il pg di Cassazione Giovanni Salvi, la ministra Cartabia, la presidente del Cnf Maria Masi - eletta proprio ieri, dopo due anni in cui è stata al vertice dell’avvocatura come facente funzioni con uno straordinario spirito di servizio - l’avvocato generale dello Stato Gabriella Palmieri Sandulli e, appunto Ermini. Il quale non ha potuto fare a meno di esprimere ieri in plenum, tutta la propria gratitudine a Sergio Mattarella: “Lei, signor presidente, per me e il Consiglio è stato in questi anni guida saggia e autorevole, esempio di etica istituzionale e fermo sostegno nei frangenti più amari”. Con ogni probabilità non sarà più Mattarella a esercitare questa guida. Chiunque dovrà farlo, si caricherà di un peso davvero impressionante. “Da Cartabia eccesso di ottimismo: rischiamo la deriva efficientista” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 gennaio 2022 Secondo Eugenio Albamonte, segretario di “AreaDg”, dietro i toni “trionfalistici” della ministra Marta Cartabia si nascondono diverse criticità: le misure messe in campo addirittura potrebbero allungare i tempi dei processi, e persiste, nonostante le rassicurazioni della guardasigilli, il timore per un abbassamento della qualità delle decisioni a causa della iperproduttività reclamata dall’Europa. La relazione della ministra offre l’occasione per un bilancio del suo operato. Lei come lo vede? Sicuramente si sono aperti molti cantieri e bisogna dare atto alla ministra di aver messo in piedi, in un breve periodo di tempo, molte iniziative. Tuttavia credo si sia dato per scontato che attraverso tali iniziative i problemi siano già risolti o comunque seriamente avviati a soluzione. Invece siamo ben lungi dall’aver conseguito i risultati descritti, ma anche dalla certezza che si raggiungeranno in futuro. Quindi, in sintesi, ho trovato l’esposizione della relazione eccessivamente trionfalistica. A cosa si riferisce in particolare? Ad esempio al tema dei tempi ragionevoli del processo. Non mi esprimo sul civile, che non conosco. Sicuramente per quel che concerne il penale le misure messe in campo non accelerano i tempi dei procedimenti, che rischiano addirittura di potersi allungare in alcuni passaggi. Proprio con lei, in una recente intervista, abbiamo parlato del rischio che l’iperproduttività reclamata dall’Europa infici la qualità delle decisioni. La ministra ha assicurato che non sarà così... Io invece continuo a essere molto preoccupato per questo aspetto. Se si mette mano solo alle accelerazioni dei tempi e non anche alla quantità degli affari giudiziari, è inevitabile che la qualità scemerà. D’altronde ne abbiamo avuto un esempio nella giurisprudenza della Cassazione: quando si è cercato di accelerare i tempi di definizione dei ricorsi, abbiamo ottenuto un risultato positivo in termini di riduzione della durata ma un altro, non altrettanto positivo, nella difficoltà di mantenere alta la qualità di tutte le decisioni. Le riforme non sono le migliori possibili ma sono frutto di compromessi, ha ammesso la ministra... Ci sono delle mediazioni alte e dei compromessi bassi. A me sembra che per alcuni passaggi, come quello sull’improcedibilità, siamo nel campo dei compromessi bassi. La domanda è se questo dipenda dalla ministra o dall’incapacità dei partiti di maggioranza di rinunciare alle loro propagande in materia di giustizia. La risposta che mi do è che tale responsabilità non sia da attribuire alla guardasigilli. Sul capitolo tanto importante della riforma del Csm, Cartabia ha ricordato solo a che punto siamo... Comincio a disperare che si possa mettere effettivamente mano alla riforma. Ormai siamo a ridosso della scadenza del rinnovo del Consiglio e neanche abbiamo la nuova legge elettorale. Figuriamoci per tutto il resto della riforma quanto sarà complicato discuterne in Parlamento, con i tempi stretti che si hanno dinanzi. Sarà complesso esercitare la delega. L’impressione è che il tema sia stato accantonato perché divisivo, in un momento così delicato che ci avvicina all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. A proposito di legge elettorale, si avvicina il referendum sul sorteggio voluto da Anm: Area cosa dice? Voteremo no al sorteggio, anche a quello temperato. Ieri il Csm ha confermato Curzio e Cassano. Come legge la presenza di Mattarella? Traggo il significato della sua presenza dalle sue stesse parole, ossia l’apprezzamento per la tempestività con cui la V Commissione ha riformulato le proposte e il plenum ha assunto le deliberazioni, che anche io ho personalmente approvato. Dunque sono contento che sia giunta anche da parte di Mattarella la condivisione di questo scatto di orgoglio del Consiglio. Però alcuni consiglieri hanno votato contro... La decisione del Consiglio di Stato, che ha dimostrato di essere un po’ invadente nelle competenze del Consiglio, scivolando da una valutazione di legittimità a una di merito, non poteva che essere quella di invitare il Csm a motivare diversamente le proprie scelte. Il Consiglio questo ha fatto: mi sorprende che anche chi in precedenza aveva votato queste nomine oggi (ieri, ndr) abbia deciso di esprimersi diversamente. Non vorrei che da parte di qualcuno, soprattutto da chi ha votato contro, ci sia la condivisione di una strategia, che viene un po’ dal mondo della politica, da quello della comunicazione e da alcune rappresentanze minoritarie della magistratura, che vuole ridurre progressivamente il ruolo e l’importanza istituzionale del Csm. Gli annullamenti possono rappresentare l’occasione buona per portare avanti questa strategia, e chi la supporta lo fa per una ragione politica, che è quella di ridurre anche dall’interno la credibilità del Csm. “Non si è usciti dal tunnel della prescrizione, serve più coraggio sul carcere” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 gennaio 2022 L’avvocato Beniamino Migliucci, past president dell’Unione Camere penali, boccia la relazione della ministra Cartabia al Parlamento. Vediamo perché. Qual è il bilancio che si può tracciare sull’ operato della guardasigilli? Certamente rispetto all’attività del precedente governo c’è stato un cambio di passo significativo. Tuttavia la relazione mi è parsa uno sterile bilancio consuntivo senz’anima. Probabilmente la parte più persuasiva e convincente riguarda l’ordinamento penitenziario, quando si sottolinea la necessità di investire per avere carceri dignitose. Tuttavia sul carcere non si è raggiunto alcun obiettivo... Proprio per questo parlavo di relazione senz’anima. Nonostante una puntuale fotografia dell’oggi, ad esempio riguardo al sovraffollamento, e alle belle affermazioni di principio per cui le carceri non devono essere “contenitori stipati di uomini”, quale indicazione specifica si è offerta per porre rimedio all’emergenza? Le proposte sul tavolo ci sono: quella di Roberto Giachetti, della radicale Rita Bernardini e del Partito democratico... Esatto. Ma perché non riparlare anche di amnistia e indulto, se ci sono queste situazioni indecorose, testimoniate dalla stessa ministra che è andata in visita a Sollicciano? Mi sarei aspettato che quella sensibilità che la guardasigilli ha verso il carcere potesse tradursi in proposte concrete, in politiche coraggiose, anche a dispetto di una maggioranza eterogenea. La ministra dovrebbe avere la forza di imporre alcune prospettive in linea con il proprio pensiero. Il compromesso politico ha ostacolato la possibilità di arrivare a riforme migliori? Certo, il compromesso non consente mai di raggiungere i risultati migliori, e in materia di giustizia ne abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione. La ministra ha fatto accenno nelle premesse alla necessità di un accordo tra i partiti: così i risultati raggiunti con la riforma del penale non sono stati i migliori possibili, anzi. Ad esempio è stata riformata ancora una volta la prescrizione per ragioni politiche, strumentali, senza andare alla radice del problema, cioè l’eccessivo numero di condotte sanzionabili penalmente. L’obiettivo sembra essere stato più quello di ottenere fondi dall’Europa che fare una riforma davvero organica e significativa. Cuore della riforma, come la ministra ha sottolineato, è limitare la lunghezza dei processi: quelli irragionevolmente lunghi rappresentano un vulnus per tutti, sia per i condannati che per gli innocenti... Ma basta la sua riforma per scongiurare questo? Purtroppo no. Non basta avere una prospettiva di efficienza, ma occorre il coraggio di rivedere la norma sulla prescrizione. L’Ucpi giustamente aveva proposto di ritornare semmai alla Orlando, evitando questo meccanismo attuale che consente comunque di dilatare i tempi del processo di primo grado. Un processo per corruzione oggi può durare anche vent’anni. Ora poi stanno emergendo altre criticità: l’Ucpi ha organizzato proprio di recente un convegno per capire se l’inammissibilità prevalga sull’improcedibilità... Lei ha colto un tema che io ho spesso sollevato. Mi auguro che non sia così, ma il timore giustificato esiste. Ora dobbiamo vigilare anche sui decreti attuativi della riforma del penale: mi auguro che alle indagini venga assegnato un termine perentorio e non ordinatorio. L’Ucpi poi ha dato indicazioni anche per l’ampliamento del patteggiamento, per una rivisitazione dell’udienza preliminare, per la depenalizzazione. Questi sono i temi che bisognerebbe affrontare per rendere ragionevole la durata dei processi, e nulla hanno a che vedere con l’Ufficio per il processo, tanto enfatizzato nella relazione della Ministra. Non le piace il nuovo istituto? Si sarebbero dovuti assumere più amministrativi e magistrati togati. Ho molti dubbi sui compiti che vengono affidati a questi giovani laureati. Io sono tanto legato all’idea che il giudice debba essere quello naturale, ed è lui che deve approfondire, studiare i fascicoli e redigere le minute, non altri. Ultima domanda: anche sul Csm la ministra si è limitata, più o meno, a fare la descrizione dello stato dell’arte. Eppure il Csm è stato per l’ennesima volta travolto da una bufera... Su questo aspetto la relazione è davvero debolissima e molto deludente: la guardasigilli ha fatto un breve riferimento al tema, non tenendo conto della crisi evidente della magistratura. Ho avuto l’impressione che si sia voluto stendere un velo su quello che è sotto gli occhi di tutti: sembra quasi che con Palamara quale capro espiatorio, si sia voluto chiudere la questione. Pare che tutto vada bene e non ci sia urgenza di una riforma strutturale e ordinamentale della magistratura. Forse questo governo non sente la necessità di un cambiamento radicale dell’organo di governo autonomo della magistratura. A meno che non si voglia lasciare tutto com’è, con il gran favore dell’Anm. E Mattarella scarica lo scandalo giustizia sul suo successore di Luca Fazzo Il Giornale, 21 gennaio 2022 Il saluto al Csm. Rinominati in Cassazione i vertici bocciati dal Consiglio di Stato. Una ri-nomina fatta in fretta e furia, senza affrontare davvero i motivi per cui la nomina precedente era stata azzerata del Consiglio di Stato: a descrivere così la delibera con cui il Consiglio superiore della magistratura si ostina a nominare il giudice Pietro Curzio alla presidenza della Cassazione e la sua collega Margherita Cassano come sua vice sono le uniche voci che ieri si levano in Csm per denunciare l’anomalia della corsa contro il tempo che ha rimesso le due toghe (una di sinistra, una di destra) sulle poltrone di vertice della giustizia italiana, e che permetterà così a Curzio di presiedere oggi la cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario. Unici voti contrari, i consiglieri Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita e il leghista Stefano Cavanna. “È mancata una discussione approfondita e completa”, dice Ardita. “Le nuove motivazioni si limitano a riproporre in forma diversa le stesse argomentazioni di quelle originarie”, attacca Cavanna. In sostanza, i tre accusano il Csm di avere aggirato la sentenza del Consiglio di Stato. E anche se la versione ufficiale è che “non esiste nessuno scontro tra istituzioni” la sostanza è che il voto di ieri mette due organismi chiave dello Stato in rotta di collisione. L’atto cruciale di questo scontro senza precedenti avviene alla presenza del Capo dello Stato. Sergio Mattarella ieri sceglie di presiedere personalmente il Csm, per rimarcare la delicatezza del passaggio. Assiste alla votazione senza prendere la parola, il suo commento finale suona come un avallo pieno alla decisione di mantenere Curzio e la Cassano ai loro posti: Mattarella fa gli auguri a entrambi, e ringrazia il Csm per “la tempestività” con cui ha assicurato “la piena operatività dell’esercizio delle funzioni di rilievo per l’ordinamento giudiziario”. Ma se nello scontro con il Consiglio di Stato il Csm incassa la benedizione di Mattarella, il Presidente è assai più parsimonioso nell’appoggiare i propositi di riforma enunciati dal vicepresidente, il pd David Ermini. Ermini fa un discorso lungo e accorato, dice che la colpa del disastro è di quelli che c’erano prima (siamo stati, dice, “un consiglio di transizione che ha visto deflagrare fatti lasciati per troppo tempo innescati sotto la polvere”), rivendica di avere agito “nel solo rispetto della Costituzione e delle leggi” e promette rinnovamento. Mattarella risponde asciutto facendo gli auguri al Csm “per l’attività che continuerà a svolgere nei prossimi mesi con la presidenza di un nuovo capo dello Stato”. Io ho finito, tra poco se la sbrigherà un altro, dice Mattarella. E chissà se nella sua asciuttezza conta anche il fatto che Ermini sia lo stesso Ermini la cui designazione a vicepresidente fu varata da una cena tra Luca Palamara, Cosimo Ferri e Giuseppe Fanfani e festeggiata con un messaggio da Palamara e Ermini dopo la consacrazione “Godo! Insieme a te!”. Quanto all’azzeramento della Cassazione, la benedizione di Mattarella alla ri-nomina di Curzio difficilmente chiude la partita, perché il candidato sconfitto, Angelo Spirito, presenterà nuovamente ricorso. D’altronde le nuove motivazioni del Csm a favore di Curzio, che aveva un’esperienza in Cassazione molto inferiore a Spirito, sono basate solo sulla carriera-lampo del candidato della sinistra: carriera “particolarmente rapida nelle sue tappe, che conferma la completa padronanza delle funzioni di legittimità nella sua massima intensità possibile tale da non potersi ipotizzare alcun ulteriore arricchimento determinato da un ulteriore decorso del tempo. Il che vale a giustificare la sua equivalenza con il dottor Spirito, pur a fronte di esperienze temporali così consistentemente diverse”. Cassazione, i vertici non cambiano. Il Csm aggira il Consiglio di Stato di Michela Allegri Il Messaggero, 21 gennaio 2022 Non è passata nemmeno una settimana da quando il Consiglio di Stato, con due sentenze gemelle, ha decapitato i vertici della Cassazione, annullando le nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano rispettivamente a primo presidente e presidente aggiunto della Suprema corte. Da quel momento, per il Csm è stata una corsa contro il tempo per trovare un accordo prima di stamattina, quando ci sarà la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. E ieri Palazzo dei Marescialli si è espresso: il Csm ha ribadito la scelta di Curzio e della Cassano, durante un plenum presieduto, non a caso, dal Capo dello Stato. Le motivazioni, ovviamente, sono state riscritte, in modo da superare i rilievi dei giudici di Palazzo Spada. I consiglieri parlano di clima disteso e respingono le ipotesi di scontro con il Consiglio di Stato, che poco tempo fa aveva annullato anche la nomina di Michele Presti pino a capo della Procura di Roma. Ma non tutti sono d’accordo. I voti favorevoli alla scelta di Curzio e della Cassano sono stati sono 19. Gli astenuti sono stati 3, e altri 3 consiglieri hanno votato contro. Alla precedente tornata, nel 2020, sì era sfiorata l’unanimità, con un unico astenuto. A presiedere la seduta è stato il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per l’ultima volta nelle vesti del presidente del Csm, visto che da lunedì comincerà il voto per il nuovo presidente della Repubblica. E stato lo stesso Mattarella a ricordarlo, esprimendo gli auguri a tutti i componenti “per l’attività che il Consiglio svolgerà con la presidenza di un nuovo Capo dello Stato”. La presenza di Mattarella ha un peso e mette un sigillo alla decisione: il presidente si è complimentato con i magistrati confermati e ha ringraziato il plenum e la Commissione Direttivi per la “tempestività” con cui hanno agito, “assicurando la piena operatività dell’esercizio delle funzioni di rilievo per l’ordinamento giudiziario”. A ringraziare Mattarella, il vicepresidente David Ermini: “Per me e il Consiglio - ha detto - è stato in questi anni guida saggia e autorevole, esempio di etica istituzionale e fermo sostegno nei frangenti più amari”, che sono stati parecchi: Palazzo dei Marescialli è stato travolto dallo scandalo delle nomine pilotate venuto a galla con l’inchiesta sull’ex pm Luca Palarnara, che ha portato diversi consiglieri a dimettersi dall’incarico. Ermini ha anche sottolineato il momento di crisi di Palazzo dei Marescialli, parlando di una “perdita di credibilità” che rende necessaria al più presto una riforma. Non tutti sono stati d’accordo con la decisione di ribadire le nomine di Curzio e della Cassano. Per il laico della Lega, Stefano Cavanna, che nel 2020 fu l’unico ad astenersi e che ieri ha votato contro insieme ai togati indipendenti Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo - ad astenersi, tutto il gruppo di Unicost i tempi sono stati troppo rapidi: si è discusso e deliberato di scegliere i massimi vertici della magistratura in soli “4 giorni, domenica compresa”. Il consigliere, insieme ad Ardita, lamenta anche i contenuti della nuova delibera: le motivazioni riproporrebbero le stesse argomentazioni di due anni fa, senza rispondere ai rilievi del Consiglio di Stato. La maggioranza, però, sottolinea che era necessario agire in tempi strettissimi perché non era possibile lasciare scoperte “funzioni cruciali”, soprattutto in vista della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. I rilievi di Palazzo Spada, inoltre, sarebbero stati recepiti. Morti sul lavoro, una strage senza giustizia di Maurizio Franco micromega.net, 21 gennaio 2022 Scarsità di aule, carenza di personale, impedimenti e lungaggini burocratiche. Se a morire è un lavoratore - 5mila infortuni mortali negli ultimi 14 anni - la giustizia diventa una chimera. Per dimezzare i tempi dei procedimenti serve una Procura nazionale del lavoro. Pretendere giustizia per la morte del proprio caro. Andare davanti a un giudice e intentare una causa perché la perdita del parente è avvenuta durante l’orario di lavoro e per assenza delle tutele fondamentali di salvaguardia. Trascinare poi per anni il dramma della propria solitudine nelle aule di tribunale. Con il rischio di vedersi prescrivere un dolore che, giorno dopo giorno, aumenta. Questa è l’incipit di una storia tutta italiana. “Sono sicura che morirò prima di vedere la fine di questo processo, anche prima della fine del primo grado, chiudendo per sempre gli occhi senza poter sapere come e da chi è stato ucciso mio figlio”. È l’estratto della lettera che Annunziata Cario, 75 anni, ha scritto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il figlio è morto nel 2017, a 32 anni: dipendente di una ditta di autotrasporti, è rimasto schiacciato da una balla di bottiglie di plastica mentre la caricava sul camion. Il processo, secondo quanto scrive Cario, è a stento iniziato. La ministra, nella sua relazione annuale al Senato, ha letto le parole di disperazione della donna. “Da persona umile, forse perché non conosco la materia, mi chiedo a cosa serve discutere di riforme quando un tribunale della Repubblica non è in grado di far celebrare un processo per una morte sul lavoro perché non ha le aule adeguate né è in grado di attrezzarne una all’esterno e perché i giudici hanno un carico di lavoro che non consente loro di rinviare a breve le udienze”, scrive l’anziana signora. I morti sul lavoro sono una tragedia, anche questa, con una specificità tutta italiana. Il bollettino di guerra tricolore è compilato dall’Inail: le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Istituto tra gennaio e novembre sono state 502.458 e “1.116 delle quali con esito mortale”. Nella sezione open-data, l’Inail mostra un incremento rispetto al 2020 delle patologie di origine professionale denunciate: 50.804, il 24,1 per cento in più. Il confronto, però, con l’anno precedente “richiede cautela” perché i dati sono “profondamente influenzati dalla pandemia”. Nel computo della strage silenziosa, è assente il resoconto di dicembre. Soltanto una giustizia nuova sanerà la dignità calpestata di Roberto Saviano Corriere della Sera, 21 gennaio 2022 Dedicato a Silvia ed Enzo Tortora. La foto che ho scelto questa settimana è una foto radiosa, ritrae Enzo Tortora con le figlie Gaia e Silvia. Sarebbe bello se il calore umano di questo scatto potesse cancellare le foto immonde di Enzo ammanettato, di Enzo rasato nel cortile del carcere. Scusarsi con chi l’ha amato ha un valore enorme ancora oggi, 39 anni dopo. La cultura dei diritti dovrebbe appartenere a tutti e da tutti essere condivisa, perché un diritto negato diventa automaticamente un privilegio per pochi o, peggio, una concessione; perché siano chiari, una volta per tutte, i ruoli: chi è incudine e chi martello. Negli anni ho ricevuto decine di accuse, spesso infamanti, da organi di informazione che politicamente avevano interesse a demolirmi: gli “amici” hanno quasi sempre taciuto. Per la poca credibilità dei miei detrattori. Ma il punto non può essere questo: se io voglio difendere chi ritengo nel giusto, non guardo da dove arriva la diffamazione. Difendo e basta, perché so che la mia difesa bilancerà le accuse ingiuste. Ho sempre pensato che fosse un po’ come la matematica, come la fisica, dove due numeri uguali ma di segno opposto, o due forze uguali e contrarie, si annullano a vicenda. Ma, chissà perché, l’infamia si fa sempre attenzione a non cancellarla mai completamente, come se un amico debole e infamato sia tutto sommato più sopportabile di uno non schizzato dal fango. Enzo Tortora diceva di dividere l’umanità tra chi ha sperimentato la detenzione in un regime democratico e chi non ha avuto la sfortuna (la iattura, diceva) di conoscerla. Ecco, è stato lui a darmi la chiave per comprendere come mai le sue figlie, Silvia e Gaia, abbiano deciso di intraprendere la sua stessa strada, nonostante tutto quello che lui aveva vissuto da giornalista e nonostante tutto quello che dai giornalisti suoi colleghi (con davvero poche eccezioni) aveva subito. Silvia e Gaia hanno avuto la iattura di conoscere la detenzione in un regime democratico e per questo sanno qualcosa in più degli altri. Sanno, forse, che l’odio e l’invidia sono i sentimenti più forti che esistono e, ancora forse, se ne sono tenute lontane. Sanno, forse, che per essere giornalisti bisogna rispettare l’essere umano e mai calpestare la dignità di nessuno. Sanno - di questo sono invece certo - che la gogna mediatica uccide perché allontana da te tutti, spesso anche chi dovrebbe starti accanto. Non conoscevo Silvia Tortora, ma sono addolorato per la sua scomparsa. Dedico a lei e al padre queste righe. La foto che ho scelto questa settimana è una foto radiosa, ritrae Enzo con Gaia e Silvia. Sarebbe bello se il calore umano in questo scatto potesse cancellare le foto immonde di Enzo ammanettato, di Enzo rasato nel cortile del carcere. Scusarsi con chi l’ha amato ha un valore enorme ancora oggi, 39 anni dopo. Ne avrebbe ancor di più lavorare a una riforma della giustizia che, però, mi scusino gli amici radicali, non sia ostaggio dei Salvini e dei Calderoli che, con le loro posizioni su immigrati e droga - e le leggi criminogene che ne derivano - hanno contribuito a riempire le celle di stranieri e tossicodipendenti. Tutte persone che, come disse Tortora, hanno la iattura di sperimentare la detenzione in un regime democratico. Medico di base ai senzatetto: l’Emilia-Romagna fa un bel passo avanti di Silvia Zamboni* Il Fatto Quotidiano, 21 gennaio 2022 La qualità di una pubblica amministrazione si misura anche, se non soprattutto, da come vengono trattati gli ultimi. Con l’estensione del medico di base ai senza fissa dimora, in Emilia-Romagna abbiamo fatto un passo avanti significativo, oltre l’approccio caritatevole, che estende un diritto confermando il valore dell’universalismo della sanità pubblica. Un patrimonio che caratterizza il nostro paese rispetto a quelli - come gli Usa - in cui l’accesso all’assistenza sanitaria per troppi cittadini continua a essere un privilegio per chi può permettersi di pagare. Ora anche i cittadini e le cittadine senza fissa dimora di nazionalità italiana, non residenti in Paesi diversi dall’Italia (per questi vale già l’accesso all’assistenza) e che sono privi di qualsiasi assistenza sanitaria, potranno iscriversi all’anagrafe sanitaria dell’Emilia-Romagna per la scelta del medico di medicina generale e avere garantiti, come tutti, “livelli essenziali di assistenza”. La questione dell’accesso alla sanità dei senza fissa dimora era aperta da tempo; la pandemia ha fatto da acceleratore per risolverla. Basti pensare che chi non ha un medico di base non può effettuare tamponi molecolari, per i quali è necessaria la prescrizione medica, e può curarsi solo andando al pronto soccorso. Anche sulla base di queste urgenze, l’Assemblea Legislativa dell’Emilia-Romagna ha approvato, all’unanimità, il provvedimento di legge alla base della delibera regionale. L’estensione del medico di base non è un provvedimento isolato a sostegno dei clochard in Emilia-Romagna. Solo pochi mesi fa una decisione analoga aveva riguardato l’accesso gratuito al trasporto pubblico locale. Grazie al rinnovo dell’accordo regionale sulle tariffe agevolate per le persone fragili e al programma mobilità regionale, i Comuni della regione potranno sostenere integralmente i costi degli abbonamenti per le persone senza fissa dimora sulla base della valutazione di un effettivo bisogno da parte dei servizi sociali. Il promotore di queste due battaglie per la tutela dei diritti dei senza fissa dimora In Emilia-Romagna ancora una volta è stato il collega Antonio Mumolo (Pd), non a caso promotore anche della figura dell’Avvocato di strada, diffusa in molti territori del nostro paese. Intervenendo nel dibattito in Aula, ho sottolineato che tutte le volte che si estende un diritto ne guadagniamo tutti e che il voto unanime qualifica l’Assemblea come un consesso istituzionale che sa guardare consensualmente ai diritti degli ultimi. Mi auguro che questo approccio persista e diventi strutturale in tutti i provvedimenti futuri che riguarderanno persone svantaggiate, in condizioni di disagio, immigrati oppure private della libertà personale. Con l’estensione del medico di base ai senza fissa dimora abbiamo fatto un bel passo avanti, ma siamo consapevoli che la strada da fare è ancora lunga. Anche al di fuori dei confini amministrativi dell’Emilia-Romagna. *Vicepresidente Assemblea legislativa ER, consigliera Europa Verde Bologna. Covid alla Dozza, positivi 60 detenuti e 30 agenti. Cresce la preoccupazione bolognatoday.it, 21 gennaio 2022 Sindacati denunciano una “situazione preoccupate e confusionaria”, spaventa il “rischio di paralisi” e si chiede la sospensione degli ingressi di detenuti. Carcere della Dozza nella morsa dei contagi Covid. Cresce la preoccupazione per un focolaio che conterebbe 60 positivi tra i detenuti e circa 30 tra il personale in servizio. A lanciare l’Sos, snocciolando i numeri, è la Fp Cgil Bologna, che teme il “rischio concreto di paralisi” nel giro di poco. “L’istituto - si legge in una nota sindacale- ha raggiunto oramai quota 772 ed è un numero, come accennato, destinato a salire rapidamente, che lo rende sovraffollato al massimo grado con complicazioni pressoché insormontabili sul versante dell’isolamento degli eventuali ulteriori positivi”. Il quadro denunciato dagli addetti ai lavori, insomma, mostra tinte a tratti drammatiche. Il distanziamento, in tale situazione, parrebbe un po’ una chimera: “Si cerca di regolare le attività interne attraverso disposizioni che prendono a prestito quelle relative al Green pass, ma dentro un Istituto di pena la quotidianità è cosa assai diversa di quello che accade fuori”, fa notare Fp Cgil. Stop a ingressi dei detenuti e interventi per stabilizzare la situazione - Tra le mura del penitenziario regnerebbe dunque confusione, specchio un po’ di quanto accade fuori, dove l’emergenza sanitaria ha sparigliato e non poco le carte. Ci si lamenta di “disposizioni che cambiano di continuo” e si chiede in primis l’immediata sospensione agli ingressi di detenuti con l’intervento delle autorità preposte al fine di stabilizzare la situazione. L’urlo d’aiuto, e le richieste di intervento, sono state messe nero su bianco dal sindacato in una missiva indirizzata all’ Amministrazione Penitenziaria regionale e al Direttore della Casa Circondariale. Si attende risposta. Intanto il contagio corre veloce. Dentro come fuori, d’altronde. Pavia. Un detenuto su 5 è positivo al Covid, contagiati anche 15 agenti La Provincia Pavese, 21 gennaio 2022 Dopo i suicidi dei mesi scorsi, emergono ora i problemi sanitari Ai reclusi infettati concesse videochiamate per parlare ai familiari. Il contagio non risparmia le carceri. Sette strutture in tutta Italia, in particolare, hanno superato i cento casi: tra queste c’è Torre del Gallo, a Pavia, dove i detenuti positivi sono 103. Un numero elevato se rapportato alla popolazione carceraria: attualmente il carcere di Pavia ospita 578 reclusi (a fronte della capienza regolamentare di 514 e di una “capienza tollerabile” di 786). Più di un quinto dei detenuti è stato perciò contagiato dal Covid. Proprio in questi giorni alcuni detenuti hanno ricevuto la terza dose di vaccino, come ha potuto constatare una delegazione di avvocati penalisti e politici nel corso di un recente visita al carcere, chiesta dopo i suicidi dei mesi scorsi. La delegazione, di cui faceva parte anche la garante dei detenuti Laura Cesaris, ha svolto il sopralluogo proprio mentre erano in corso le vaccinazioni. A somministrare le iniezioni il direttore sanitario Davide Broglia, uno dei tre medici rimasti in servizio. Ed è proprio la carenza di medici a complicare la situazione sanitaria. Da quanto è stato possibile sapere, però, i casi sono quasi tutti asintomatici, emersi nel corso dello screening di tamponi a cui i detenuti sono sottoposti regolarmente. Solo una minima parte presenta sintomi lievi. I positivi sono stati tutti isolati in aree apposite e vengono gestiti dall’area sanitaria interna (in passato erano trasferiti negli hub regionali, come San Vittore). I vertici non hanno sospeso i colloqui. Ai detenuti positivi è data la possibilità di comunicare con i familiari attraverso videochiamate. Colpito dal contagio anche il personale del carcere, anche se in misura minore rispetto ai detenuti. Sono attualmente positivi 15 agenti di polizia penitenziaria su 200, una percentuale abbastanza contenuta se rapportata alla diffusione del contagio tra i reclusi. Torre del Gallo ha una situazione cronica di sovraffollamento. Attualmente ospita 578, a fronte della capienza regolamentare di 514; 285 sono i detenuti comuni, per i due terzi definitivi e per il 30% circa stranieri; i protetti, in gran parte autori di reati di violenza sessuale, sono 273, quasi tutti con pena definitiva. C’è poi una piccola sezione di 8 persone ammesse alla semilibertà e al lavoro all’esterno. Il polo psichiatrico contempla 22 posti, ma solo 12 sono occupati perché al momento manca il personale per i casi di positività. In tutto il Paese i detenuti positivi al Covid sono 2.586, quasi tutti asintomatici. Un picco sinora mai raggiunto dall’inizio della pandemia, (il dato è aggiornato al 17 gennaio) con i casi più che raddoppiati nel giro di 10 giorni. In tutto sono sette i penitenziari in Italia dove i positivi superano il centinaio e il record negativo è di Torino con 173 casi. Seguono Firenze Sollicciano (128), Napoli Secondigliano (144), Napoli Poggioreale (125), Busto Arsizio (120), Prato (110) e appunto Pavia (103). Tra gli agenti i casi sono 1.572. Salerno. Il Garante dei detenuti Ciambriello ha regalato attrezzature ludiche ai detenuti Il Mattino, 21 gennaio 2022 Il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello ha donato biliardini, tapis roulant e cyclette ai detenuti di Vallo della Lucania e ai detenuti del carcere di Eboli. La legge 354/1974 sull’ordinamento penitenziario inserisce le attività culturali, ricreative e sportive tra i principali elementi del trattamento. “Il benessere psico-fisico e sociale dei detenuti è di primaria importanza, soprattutto in questo periodo di forte stress emotivo, causato dalla situazione epidemiologica. L’immobilizzazione nelle celle produce malattia, malessere, amarezza, rancore. Le attività sportive - dice il Garante Campano Samuele Ciambriello - permettono di superare momenti e atteggiamenti ansiosi e ansiogeni, e diventano occasione di socializzazione e di espressione delle proprie abilità. Diversamente, la pena rischierebbe di ridursi ad una limitazione della libertà personale, priva di ogni aspetto rieducativo. In particolar modo, lo sport e l’attività motoria risultano essere da sempre strumenti di inclusione sociale, sia fuori che dentro le mura carcerarie”. L’omicidio di Pierluigi Torregiani sul grande schermo con Francesco Montanari di Emilia Costantini Corriere della Sera, 21 gennaio 2022 “Ero in guerra ma non lo sapevo” è il film di Fabio Resinaro ispirato al libro omonimo di Alberto Torregiani, figlio del gioielliere milanese ucciso dai Pac il 16 febbraio 1979. “Chiudere i conti col passato, elaborare una tragedia non è facile. Questo film chiude un capitolo, dando una giusta prospettiva a un fatto che troppe volte è stato buttato sui giornali in modo sbagliato. Il linciaggio mediatico nei confronti di mio padre ha portato quattro intellettuali disgraziati, a compiere un omicidio”. Alberto Torregiani è il figlio adottivo di Pierluigi Torregiani, il gioielliere milanese ucciso il 16 febbraio 1979 dai Proletari armati per il comunismo, il gruppo di terroristi guidato da Cesare Battisti che fu condannato come mandante. E ora Alberto commenta in maniera pacata il film “Ero in guerra ma non lo sapevo”, ispirato al suo libro omonimo. Aveva solo quindici anni quando, proprio durante l’agguato dei Pac, una pallottola vagante, l’unica partita dalla pistola del padre per difendersi, lo colpì alla schiena e, da allora, è costretto su una sedia a rotelle. “Una questione di sfiga nella tragedia - sottolinea - e temo che mio padre, colpito mortalmente, abbia purtroppo fatto in tempo a capire che quel proiettile aveva colpito proprio me. Dico a Cesare Battisti che il vero ergastolo è il mio”. Prodotto da Eliseo multimedia di Luca Barbareschi con Rai Cinema, per la regia di Fabio Resinaro, il film sarà nelle sale dal 24 al 26 gennaio e il 16 febbraio su Rai1. Protagonista, nel ruolo del gioielliere, Francesco Montanari, affiancato da Laura Chiatti nel ruolo della moglie Elena Torregiani. “Mio padre - aggiunge Alberto - non era un perbenista, non un eroe, lo sceriffo in borghese, il giustiziere di Milano come venne definito, è stato semmai una vittima sacrificale. Era un uomo forte, caparbio, austero, capace di affrontare le difficoltà. Ma io ricordo i suoi silenzi, le sue notti passate in bianco perché era preoccupato per la sua famiglia. E, dopo il primo attentato, ricordo il suo fastidio per la scorta, perché si sentiva scaraventato in un incubo”. Il racconto filmico prende il via dagli ultimi giorni di vita del gioielliere, titolare di un negozio alla periferia nord di Milano. Siamo nel pieno degli anni di piombo e Torregiani, il 22 gennaio 1979, aveva subito un primo tentativo di rapina, mentre si trovava con amici e parenti al ristorante, durante la quale muore un bandito. Non era stato lui a sparare, ma molti giornali lo accusarono di essere un giustiziere. “Torregiani aveva la pistola con sé, non per atteggiarsi a fare lo “sceriffo”, ma perché quello era un periodo di continue rapine - interviene Montanari - Arrogante? Antipatico? Certamente aveva l’indole dell’uomo abituato a fare tutto da solo, era sicuro di sé o, almeno, così voleva apparire per nascondere le proprie debolezze, ostentando sicurezza per non creare altri problemi alla propria famiglia. Credo che quest’uomo sia finito in una dinamica prepotente, più forte di lui - continua Montanari - Era un artigiano, un uomo pragmatico, un lavoratore che andava avanti con le sue forze e non accettava l’idea che la sua vita dovesse cambiare. Lui diceva, sono una brava persona, perché mi sta succedendo tutto questo? E la domanda che dobbiamo porci noi oggi è: cosa avremmo fatto al posto suo?”. Conclude il produttore Barbareschi: “Volevo portare sullo schermo questa vicenda da anni, ma non trovavo uno sceneggiatore che volesse scriverla. Non potevo sopportare come la stampa avesse linciato, allora, una vittima”. L’io ha bisogno di un luogo di Giorgio Vittadini ilsussidiario.net, 21 gennaio 2022 L’esigenza di trasformare gli spazi di vita, perché siano più a misura d’uomo, non è nuova, ma con la pandemia sembra essere esplosa. Sguardi, gesti, parole. Tutto nei legami tra persone, e tra persone e realtà, con l’andare dei mesi in pandemia, è messo sempre più alla prova. Solitudine, aggressività, ansia, depressione stanno diventando una brutta compagnia per molti, soprattutto giovani e giovanissimi che, in alcuni momenti, non sanno più “che fare di sé”. I luoghi virtuali in cui “incontrarsi”, vedersi, scambiare messaggi hanno compensato in parte il disagio del distanziamento. Ma credo che nessuno abbia trovato improprie le virgolette alla parola “incontrarsi”. Non a caso uno dei dibattiti pubblici che da inizio pandemia ha tenuto banco è quello del cambiamento dei luoghi fisici dell’abitare, delle città, piccole e grandi, dei territori extra-urbani, e non solo per via del lavoro a distanza. L’esigenza di trasformare gli spazi di vita, perché siano più a misura d’uomo, non è nuova, ma con la pandemia sembra essere esplosa. E tornano in auge termini come “borgo” o “rione”, luoghi in cui, come spiega l’architetto Stefano Boeri sul numero di Nuova Atlantide in uscita la prossima settimana, “il concetto di comunità è stato tenuto presente fin dall’inizio nella progettazione”. Boeri fa l’esempio del quartiere Figino di Milano, “un luogo molto vivibile”, in cui “hanno messo una biblioteca al centro”. All’inizio “era stato guardato con diffidenza, ma oggi raccoglie molta soddisfazione da parte di chi ci abita”. A Padova - racconta ancora l’architetto milanese - un recente progetto recupera “l’originaria traccia di un luogo centrale che a volte è una parrocchia, a volte una strada con una quantità di servizi molto importante, a volte è una piccola piazza”. Oppure, un campo sportivo, la cui valenza educativa, sociale e di integrazione è altissima. Mettere i piedi nel passato non significa rinunciare ad avere uno sguardo sul futuro. Si parla infatti di città aperta che funzioni come un arcipelago costituito da tanti quartieri dotati di tutti i servizi per i cittadini. “Questo permette che al loro interno ci siano soprattutto spazi pedonali e ciclabili, con un sistema di mobilità fluida che si accompagna anche a questi grandi sistemi di verde nel segno della biodiversità. La metropoli-arcipelago è secondo me la sfida dei prossimi anni”, sostiene Boeri. Il bisogno è quello di una diversa relazione persona-ambiente, in cui vengano recuperati spazi che offrano familiarità alle comunità. E dove, come suggerisce l’antropologo scozzese Tim Ingold, sempre su Nuova Atlantide, l’uomo è chiamato a uscire da “logiche estrattive” verso la natura e la realtà in generale, per mettersi in ascolto, in una relazione reciproca con ciò che lo circonda. Luoghi del vivere che aiutano le persone a cambiare e che, da queste, sono cambiati. “I luoghi non sono contenitori indefiniti - sostiene l’antropologa Alessandra Lucaioli - all’interno dei quali possono anche avvenire dei fenomeni, ma sostanzialmente indifferenti rispetto ai corpi che ospitano e alle pratiche che vi accadono, ma materia viva che plasma le vite degli esseri umani, che inibisce o promuove azioni, interazioni, realizzazioni”. Mi ha colpito quanto è stato realizzato al quartiere Corvetto di Milano: una serie di iniziative con cui rendere il parco pubblico di zona un luogo vissuto, curato, accogliente. Lo hanno chiamato “Il Giardino dei Desideri”. Tramite un “patto di collaborazione”, coordinato da Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà), la comunità scolastica della zona, insieme a diverse non profit e a tutti coloro che frequentano il parco, hanno ripulito il giardino, abbellito le fughe e le crepe dei marciapiedi con resina dorata, appeso decorazioni fatte a maglia, sistemato giochi per i più piccoli e il terreno del campo da calcio. In progetto c’è la manutenzione della recinzione e un’aula didattica all’aperto. I bambini - dicono le maestre - stanno imparando che prendersi cura dei luoghi comuni è prendersi cura di sé e degli altri. La Cedu condanna l’Italia per aver separato madre e figlia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 gennaio 2022 La Corte europea dei diritti umani (Cedu) ha condannato l’Italia per aver interrotto i rapporti tra una madre e sua figlia dichiarando quest’ultima adottabile senza aver prima cercato altre soluzioni. “Gli argomenti dati dai tribunali italiani per giustificare la loro scelta - sottolinea la Corte - sono insufficienti”. Dato che la procedura di adozione non è stata ancora ultimata, la Cedu chiede alle autorità italiane di “riconsiderare rapidamente la situazione della madre e della figlia”. La Cedu, che ha deciso di non fornire i nomi della madre e sua figlia, indica solo che sono nate nel 1982 e 2012 e sono residenti a Brescia. Inoltre dal fascicolo emerge che la donna è di origini cubane. L’intera vicenda è iniziata nel febbraio 2013, quando la madre si rivolse ai servizi sociali chiedendo aiuto perché il marito la maltrattava. Madre e figlia furono quindi accolte in un centro di assistenza e seguite per due anni dai servizi sociali. Questi ultimi inviarono al tribunale dei minori una serie di rapporti in cui, dopo una prima valutazione positiva, mettevano in dubbio la capacità della madre di prendersi cura della bambina. Ma continuarono comunque a sottolineare i rapporti affettivi molto stretti tra la piccola e sua madre. Nel settembre del 2015 il pubblico ministero domandò al tribunale di sospendere l’autorità genitoriale e di dichiarare la bimba adottabile. La madre si oppose fino in Cassazione a questa decisione, ma invano. Da qui la decisione di presentare ricorso alla Corte di Strasburgo. Oggi la Cedu ha bocciato la scelta fatta dai tribunali italiani, affermando in particolare che “gli argomenti su cui si è basata la decisione di dichiarare la bimba adottabile sono insufficienti”. I giudici di Strasburgo contestano soprattutto il fatto che prima di decidere i tribunali non abbiano proceduto a una valutazione delle capacità genitoriali della madre e della situazione psicologica della minore. La Cedu ha quindi condannato l’Italia a versare 42 mila euro come risarcimento per danni morali a madre e figlia per aver violato il loro diritto al rispetto dei legami familiari. Inoltre la Corte di Strasburgo ha sottolineato che questo non è il primo caso in cui l’Italia viene condannata per una tale violazione, e che negli ultimi anni il Paese è stato ritenuto numerose volte responsabile di aver spezzato i legami tra genitori e figli con procedure di affido e adozione, o decisioni sui diritti di visita. Nel regno di Bin Salman tornano a rotolare teste di Elisabetta Zamparutti e Umberto Baccolo* Il Riformista, 21 gennaio 2022 Il principe dell’Arabia saudita aveva annunciato di voler ridurre le decapitazioni. Ma se nel 2020 si è registrato il numero più basso di sempre, 27, nel 2021 questa pratica ha ripreso piede. La prossima volta che un politico italiano viene invitato, si faccia accompagnare da una delegazione di Nessuno tocchi Caino La “pena capitale” fa riferimento a caput, cioè testa. Come la decapitazione, con il de che indica separazione. È la punizione attraverso la morte per recisione netta dell’unica parte tonda, come notò Platone, del corpo: la testa, appunto, sede per alcuni del manifestarsi dello spirito, con il corpo che invece è manifestazione della materia. Fu decapitato il nostro San Paolo, quello di Spes contra spem, dai Romani di Nerone e poi Cicerone e Tommaso Moro, come anche Anna Bolena e Maria Antonietta. E nel procedere lento dell’evoluzione dell’umanità, durante la quale venne tagliata la testa perfino ad Antoine-Laurent de Lavoisier, il padre della chimica moderna, ci trasciniamo ancora questa pratica che persiste oggi in un solo Paese: l’Arabia Saudita. Dove un principe, Mohammed bin Salman, ha annunciato al mondo, dalle colonne patinate del Time magazine, di voler ridurre significativamente le decapitazioni nel suo Regno. Lo ha detto nel 2018. Il suo piano è quello di limitarle all’omicidio e discostarsi da un’interpretazione ultraconservatrice della legge islamica nel tentativo di ammodernare la terra di Saud. E, così, si è passati dalle 186 decapitazioni del 2019, uno dei numeri più alti registrati nel Regno, alle 27 del 2020 che invece è il numero più basso. La storia radicale insegna che per le battaglie importanti si possono - e a volte si devono - avere anche i compagni di viaggio più inaspettati, che è fondamentale non avere pregiudizi verso nessuno e che le lotte sul carcere si fanno per e con tutti i detenuti indifferentemente dal loro livello sociale o colore politico. Per questo, la mia sorpresa è stata relativa quando alcuni giorni fa ho ricevuto una chiamata dell’avvocato Nicola Trisciuoglio, che già aveva aderito nel recente passato a iniziative di Nessuno tocchi Caino, che mi annunciava la decisione di suoi assistiti, tra cui Roberto Fiore, Giuliano Castellino, Luigi Aronica e Salvatore Lubrano, quindi i vertici della famigerata Forza Nuova, e di oltre cento detenuti comuni di Poggioreale, in particolare del padiglione Firenze, di iniziare uno sciopero della fame a sostegno dello sciopero del nostro Presidente Rita Bernardini e della proposta di legge del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti a favore della liberazione anticipata speciale come prima misura d’emergenza volta ad alleviare l’insostenibile nel 2020, un decreto reale ha stabilito che i minori non siano più decapitati e si è posto fine anche alle fustigazioni. Inoltre, un membro del Consiglio della Shura ha raccomandato l’abolizione della pena capitale per i reati “ta’zir”, ad esempio quelli di droga, per i quali le sanzioni penali sono lasciate alla discrezione del giudice. Sta di fatto che per un anno raramente si è assistito al rito macabro della decapitazione: il condannato portato in un luogo pubblico, vicino alla moschea più grande della città dove è stato commesso il crimine, le mani legate e in ginocchio davanti al boia carico di sofferenza che il sovraffollamento carcerario sta imponendo sulla comunità penitenziaria, non solo dei detenuti, ma anche dei “detenenti”. Mi ha fatto piacere sentire da Trisciuoglio che Fiore abbia pregato tutti i simpatizzanti di Forza Nuova di abbandonare qualsiasi azione di piazza, per combattere solo sul terreno giuridico. Ottimo che la leadership di un partito così controverso abbia dato indicazioni chiare nel segno del diritto e della nonviolenza e che Fiore e gli altri abbiano dichiarato di aderire allo sciopero di Rita a livello personale, da comuni detenuti e non come politici. “Le bandiere sono ammainate”, comunicano. Nessuna strumentalizzazione politica è cercata o possibile, vogliono che sguaina la spada tra le grida della folla che urla “Allahu Akbar!” (Dio è grande). Ma al 2020 è seguito il 2021. E le cose sono cambiate nel Regno del principe “illuminato”. Le decapitazioni sono riprese a un ritmo crescente, arrivando a 67 secondo la European Saudi Organization for Human Rights (Esohr). Un incremento del 148%. Tra i giustiziati, 51 sauditi, una donna e un bel po’ di stranieri: 7 yemeniti, 4 egiziani, 2 pachistani, 1 del Ciad, 1 del Sudan e 1 della Nigeria. Da un anno all’altro, è svanito anche l’incantesimo della sospensione delle punizioni “ta’zir”. solo lottare per la salute e il bene dei detenuti, perché il vivere sulla loro pelle, nelle celle di Poggioreale, la drammaticità di quelle condizioni inumane e degradanti, ha prodotto un cambiamento del loro modo di pensare, di sentire e di agire. Proprio per questo hanno fatto pervenire a Rita Bernardini l’invito ad andare a Poggioreale, a visitare tutti i detenuti, per ascoltare il grido disperato di chi “vive” in quel carcere-lazzaretto, riponendo solo in lei le loro speranze. In una situazione che già era esplosiva per il sovraffollamento e per tante incurie e carenze strutturali, Poggioreale è davvero un carcere-lazzaretto perché oggi ci sono 143 detenuti contagiati, ammassati tutti insieme nelle celle, più uno ricoverato al Cotugno, a cui vanno aggiunti Dei 67 decapitati nel 2021, nove erano stati condannati per questi casi: 4 per fatti politici, 3 per alto tradimento, uno appartenente all’ISIS e uno per reati politici e legati alla droga. Il 16 giugno 2021, è stato giustiziato anche Mustafa Al Darwish, un condannato per fatti che sarebbero accaduti quando era minorenne. Tra le almeno 42 persone nel braccio della morte, ci sono anche quattro minori: Hassan al-Faraj, Jalal al-Labad, Youssef al-Manasif e Sajjad Al Yassin. Ma non c’è solo la pena di morte, perché ancora esiste la tortura e l’iniquità dei processi. A ben vedere, in questo 251 positivi tra gli agenti di polizia penitenziaria operativi in Campania. In una tale situazione, i leader di un partito che più lontano da noi non può essere, hanno deciso di rinunciare al loro status politico e, in veste e con l’umiltà di detenuti comuni, affidarsi alla donna simbolo di tante lotte per il rispetto della Costituzione, accompagnarla in una battaglia nonviolenta condotta secondo regole pannelliane. Accogliendo la loro istanza, oggi, i massimi responsabili di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, insieme a Doriana Vriale e agli avvocati Vincenzo Improta e Alessandro Gargiulo, saranno a Poggioreale per una visita autorizzata dal DAP, che va ringraziato per la sua attenzione e la sensibilità dimostrate come in molti altri Paesi mantenitori, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili. Noi sappiamo che un dittatore può decretare l’abolizione un giorno e la sua reintroduzione quello dopo. Per questo abbiamo operato affinché l’Assemblea generale dell’ONU esortasse gli Stati mantenitori a decidere, non l’abolizione tout-court, ma una moratoria delle esecuzioni in vista dell’abolizione. Per tenere conto del tempo necessario a cambiare, con le leggi penali, anche l’intero sistema democratico e di garanzie dei diritti umani. Mi chiedo come mai il principe bin Salman che ha fatto affiorare una prospettiva di cambiamento, sembra ora farla soccombere. Tanto più se egli continua a ostentare modernità e apertura con inviti estesi a personalità internazionali e anche del nostro Paese, che è conosciuto nel mondo per la moratoria universale delle esecuzioni capitali. Noi italiani siamo portatori di un vero e proprio “talento”, come la nobile moneta di scambio della moratoria, che può essere fatto valere in ogni Paese e su ogni tavolo a cui ci si invita. Può darsi che, oggi, la testa illuminata del principe sia persa, decollata dal corpo grave del conservatorismo del suo regno. Ma potrebbe anche essere che noi non lo si sia sostenuto abbastanza. In ogni caso, faccio una proposta. La prossima volta che un politico italiano viene invitato in Arabia Saudita, si faccia accompagnare da una piccola delegazione di Nessuno tocchi Caino. Insieme, aiuteremo quel principe a riorientare la sua visione, a rivolgere il suo sguardo a oriente, dove il sole non tramonta mai e dove sempre sorge la luce, quella della coscienza universale e dell’amore infinito, che illumina di immenso la nostra vita, la nostra umanità, il nostro voler essere umani. nonostante i problemi di gestione legati alla pandemia, al sovraffollamento e al breve preavviso. Nel corso della visita ai detenuti all’interno, fuori da Poggioreale le loro famiglie hanno organizzato un sit-in assieme al garante dei detenuti napoletano Pietro Ioia e a quello campano Samuele Ciambriello, che mi segnala che la staffetta del digiuno a sostegno di Rita è stata appena raccolta da 283 detenuti del carcere di Avellino. Ai forzanovisti detenuti l’avvocato Trisciuoglio chiederà anche di prendere, come lui ha già fatto, la tessera di Nessuno tocchi Caino. Un gesto simbolico, ma importante per far capire che i tempi dell’odio e della contrapposizione possono anche tramontare. Noi non abbiamo mai nutrito inimicizie e preclusioni, perché il nome “Nessuno tocchi Caino” che ci identifica è anche il nostro motto. Vale, quindi, anche per quelli di Forza Nuova, che oggi incontreremo, come detenuti comuni ed esseri umani, insieme a tanti altri detenuti senza nome e di tutti i colori di cui nessuno parla e si cura, nel luogo dove sofferenza e disumanità tormentano tutti e tutti accomunano. *Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino Congo. Caso Attanasio, non fermarsi alla versione degli “arresti” di Pierfrancesco Majorino* Il Manifesto, 21 gennaio 2022 Dobbiamo infatti ottenere verità e giustizia: deve essere l’obiettivo di tutta la comunità internazionale. E ciò deve, per l’appunto, tradursi nella garanzia dell’effettuazione di indagini adeguate e di un processo trasparente. Ritengo che si debba mostrare grande cautela a fronte delle notizie, giunte dalla Repubblica Democratica del Congo, di alcuni arresti riconducibili all’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo. Mi pare a tale proposito assolutamente convincente quanto affermato dal padre del nostro ambasciatore, Salvatore Attanasio, che ha ricordato a più riprese come già in tutti questi mesi non siano mancati annunci poi regolarmente smentiti, ombre, atti opachi. Dunque meglio non fermarsi a quanto esibito dalle autorità locali circa gli arresti di possibili esecutori dell’assalto al convoglio e, semmai, supportare al massimo l’operato della nostra magistratura affinché essa possa realizzare quanto sin qui non le è stato consentito: lo svolgimento sereno delle indagini a trecentosessanta gradi e quindi anche nell’area di Goma, e generalmente in Congo. Proprio in questa direzione non sono mancati alcuni pronunciamenti delle istituzioni e della comunità internazionale, tuttavia essi non sono stati fino a ora adeguati. Per questo dal Parlamento Europeo faremo sentire con più forza la nostra voce e per lo stesso motivo mi auguro prosegua a farsi sentire la voce del governo italiano che giustamente, innanzitutto attraverso il Ministro Di Maio e lo stesso Presidente Draghi, nelle ultime settimane ha pronunciato parole nette, inequivocabili. Dobbiamo infatti ottenere verità e giustizia: deve essere l’obiettivo di tutta la comunità internazionale. E ciò deve, per l’appunto, tradursi nella garanzia dell’effettuazione di indagini adeguate e di un processo trasparente. Non solo: si deve essere anche molto esigenti. Ciò, proprio nel nome dei nostri servitori dello Stato tragicamente scomparsi, deve tradursi nella ricostruzione di un quadro inequivocabile e assolutamente trasparente. Vi sono alcuni aspetti che vanno assolutamente chiariti: dalla ricostruzione della dinamica di quel che è effettivamente avvenuto all’individuazione di intrecci possibili con il contesto nel quale la tragedia è maturata. Per dirla, ancora, con Savaltore Attanasio devono interessarci non solo gli esecutori ma pure i possibili “mandanti”. Una simile affermazione è assolutamente corretta anche in ragione del fatto che l’Ambasciatore non era una persona come tante. Si trattava di una figura nota sul territorio, con molti estimatori, protagonista di azioni lodevoli. Si trattava, in altre parole, di un cittadino italiano ed europeo esemplare anche nella sua straordinarietà. Le foto che lo ritraggono sorridente al fianco dei bambini del posto non sono l’icona rituale dell’uomo occidentale alimentato da un poco di spirito compassionevole a cui piace lasciare un ricordo di sé in favore di camera, ma piuttosto la rappresentazione di quel che Attanasio era impegnato a fare stando “nel mezzo” e fornendo a quelle comunità un contributo tangibile di solidarietà concretissima. A maggior ragione, dunque, vista proprio la “profondità” del legame tra Attanasio e quei territori, si deve scavare a fondo, senza “accontentarsi” di informazioni relative agli arresti. “Perché proprio Attanasio?”: una domanda simile deve condizionare tutti quelli che vogliono che venga fatta piena luce. Infine, come è stato abbondantemente scritto, vi è un altro tema, enorme. Ovviamente alludo al ruolo svolto dal Pam, il Programma mondiale alimentare, cioè l’Agenzia delle Nazioni Unite che in quell’occasione doveva provvedere a garantire sicurezza al convoglio. Aspettarsi la piena e inequivocabile ricostruzione di quanto il Pam stesso ha compiuto - o di eventuali errori effettuati - è indispensabile. Il fatto che dopo tanti mesi si sia diffusa l’impressione di una scarsa cooperazione da parte di un soggetto tanto autorevole e apprezzato, per quel che concretamente fa, nello scenario internazionale, non è ammissibile da nessun punto di vista. E ovviamente questo aspetto, se non verranno fugati inequivocabilmente i dubbi circa la condotta dell’Agenzia Pam e di alcuni suoi rappresentanti, non potrà che essere oggetto di più iniziative istituzionali. Ne va del senso stesso del ricordo di chi non c’è più e anche da ciò passa la credibilità di tutte le istituzioni coinvolte. *Europarlamentare del Partito democratico Pakistan. La Chiesa aiuta il reinserimento economico e sociale di ex detenuti fides.org, 21 gennaio 2022 “Dio è misericordioso, è il nostro creatore e fornitore e si prende cura dei nostri bisogni. Abbiamo continuato a raccogliere fondi per sostenere i nostri fratelli, che hanno lottato per cinque anni in carcere. Dopo il loro rilascio è stata una sfida per loro trovare lavoro e così abbiamo pensato di aiutarli ad avviare un’attività in proprio. L’anno scorso a Natale ne abbiamo sostenuti alcuni, quest’anno aiutiamo altre 20 persone ad avviare una attività economica per sostenere le loro famiglie”: lo dice all’Agenzia Fides l’Arcivescovo Sebastian Francis Shaw di Lahore. L’Arcivescovo ha inoltre affermato: “In tempi di sofferenza, ringraziamo Dio per il rilascio dei nostri fratelli detenuti; abbiamo iniziato a lavorare per sostenere queste persone nella creazione delle loro attività”. Incoraggiando gli ex prigionieri l’Arcivescovo Sebastian ha detto: “Con questo aiuto materiale abbiamo fornito ad alcuni un risciò, ad altri materiale da costruzione o articoli per gestire un negozio di alimentari. Insieme a questo sostegno materiale, apprezziamo i nostri sacerdoti, catechisti e fedeli che sono stati a fianco di questi ex prigionieri e delle loro famiglie nel momento del bisogno”. “Lodiamo Dio che le persone che sono state sostenute a Natale nell’anno 2020 e ora stanno bene ora; preghiamo per voi che Dio benedica le vostre imprese”, ha concluso l’Arcivescovo. La Chiesa cattolica ha continuato a sostenere i 42 prigionieri cristiani rilasciati dal carcere dopo cinque anni. Questi 42 uomini sono stati arrestati per aver distrutto proprietà del governo e per aver ucciso due uomini musulmani sospettati di essere collegati agli attentatori suicidi che avevano attaccato le chiese a Youhanabad, quartiere di Lahore, il 15 marzo 2015. Questi uomini sono stati rilasciati a gennaio del 2020 dopo aver risarcito le famiglie dei due musulmani. Il 15 marzo 2015, due kamikaze hanno attaccato la Christ Church (protestante) e la St. John Catholic Church a Youhanabad, la più grande colonia cristiana di Lahore che ospita più di 100.000 cristiani.