Carceri, Cartabia: mai più casi di violenza, il Covid un detonatore di Maria Carmela Fiumanò agenziadire.com, 20 gennaio 2022 La ministra in Aula al Senato, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia. “Alcune strutture indegne, Sollicciano indecorosa”. Il primo problema è il sovraffollamento (114%), “condizione esasperante”. “Quanto al carcere la pandemia ha fatto da detonatore di questioni irrisolte da lungo tempo. Questi anni sono stati durissimi. Le tensioni, le paure, le incertezze, l’isolamento che tutti abbiamo sperimentato erano e sono amplificati dentro le mura del carcere. Per tutti: per chi lavora in carcere e per chi in carcere sconta la sua pena.”. Lo dice la ministra Marta Cartabia, in Aula al Senato, nella sua relazione sull’amministrazione della giustizia. “Se vogliamo farci carico fino in fondo dei mali del carcere - osserva la guardasigilli - in primo luogo perché non si ripetano mai più episodi di violenza, ma più ampiamente perché la pena possa davvero conseguire la sua finalità, come prevista dalla Costituzione, occorre concepire e realizzare una strategia che operi su più livelli: gli improcrastinabili investimenti sulle strutture penitenziarie, un’accelerazione delle assunzioni del personale, una più ricca offerta formativa per il personale in servizio e la diffusione dell’uso delle tecnologie, tanto per le esigenze della sicurezza, quanto per quelle del ‘trattamento’ dei detenuti”. “Occorre fare molto anche per le strutture edilizie. Alcune non sono degne del nostro Paese e della nostra storia”. Lo dice la ministra Marta Cartabia, citando un caso in particolare. “Venerdì scorso - racconta - sono stata al carcere di Sollicciano a Firenze e ho potuto vedere di persona le condizioni indecorose di questo, come di altri istituti, nonostante la manutenzione straordinaria in atto. Indecoroso e avvilente per tutti. E non a caso, sono tantissimi gli episodi di autolesionismo, mentre questo 2022 registra già drammaticamente cinque suicidi. Vivere in un ambiente degradato di sicuro non aiuta i detenuti nel delicato percorso di risocializzazione e di certo rende più gravoso il già impegnativo lavoro di chi ogni mattina varca i cancelli del carcere per svolgere il suo lavoro”. La guardasigilli continua: “Il tema degli spazi richiede anzitutto interventi finalizzati a garantire le essenziali condizioni di decoro e igiene, ma implica anche un ripensamento dei luoghi, in modo che essi non siano solo ‘contenitori stipati di uomini’, ma ambienti densi di proposte. Attività, cultura, e soprattutto lavoro. Solo così si assolve appieno al valore costituzionale della pena, che non può essere un tempo solo di attesa (del fine pena), ma di ricostruzione. E in questa prospettiva - mi piace ricordare - si sono mossi i lavori della Commissione sull’architettura penitenziaria che al mio arrivo al Ministero stava terminando il suo compito, con fecondi suggerimenti. In quest’ottica, nell’ambito dei fondi complementari al PNRR, è stata prevista la realizzazione di otto nuovi padiglioni. Si tratta di ampliamenti di istituti già esistenti, che riguardano tanto i posti disponibili - le camere - quanto gli spazi trattamentali: questo è un aspetto su cui abbiamo corretto precedenti progetti. Nuove carceri, nuovi spazi, non può significare solo nuovi posti letto. Oltre alle risorse del PNRR, per il triennio 2021-2023, abbiamo anche previsto circa 381 milioni per le indispensabili ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi”. “Sovraffollamento al 114%, condizione esasperante” - Per le carceri “il primo e più grave tra tutti i problemi continua ad essere il sovraffollamento: ad oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114% - dice la ministra. - È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assi più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. “Con l’attuazione della legge delega in materia penale - sottolinea la guardasigilli - si svilupperanno le forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi. E questo darà sollievo anche alle troppo congestionate strutture penitenziarie. Già oggi sono più numerosi coloro che scontano la pena - in vario modo - fuori da un carcere: oltre 69mila a fronte di circa 54mila detenuti. Queste 69.140 persone per l’esattezza al 31 dicembre 2021 sono in carico agli uffici della esecuzione penale esterna, UEPE; aggiungendo i procedimenti tuttora pendenti, diventano oltre 93mila i fascicoli in corso presso questi uffici, con una media di procedimenti per funzionario pari a 105 Si compone infatti di solo 1.211 unità il personale per l’esecuzione penale esterna per adulti È evidente la necessità - conclude la ministra - di potenziare questo settore e le forze politiche hanno avuto la sensibilità di sottolinearlo in un ordine del giorno, approvato a margine della legge di bilancio, impegnando il Governo ad incrementare il personale dedicato all’esecuzione penale esterna”. Carcere, overdose di parole: “Adesso risolvete i problemi delle infrastrutture” di Viviana Lanza Il Riformista, 20 gennaio 2022 “Può succedere, a chi come me sia entrato nel “tunnel” del riscatto (architettonico) del carcere, di “andare in overdose” per l’assunzione eccessiva di concetti reiterati e mai concretizzati. Constatare che la realtà (materiale e immateriale) delle nostre carceri continui a rimanere a distanze siderali da quella dei proclami dei rappresentanti di turno delle istituzioni (politici e non) e delle argomentazioni di quanti a vario titolo se ne occupano, può indurre ad assumere atteggiamenti bipolari. I sintomi e i segni in tal senso si palesano nell’alternanza di stati depressivi con altri di iperattivismo ed euforia. Secondo tali premesse, ritengo illuminante tratteggiare il quadro delle vicende più significative, che nell’ultimo decennio hanno messo a rischio la salute e l’equilibrio degli architetti “intossicati” di carcere”. Così l’architetto Cesare Burdese ci introduce in una riflessione sugli spazi della pena, sull’attenzione che meritano gli aspetti architettonici del carcere. Un’attenzione che nel tempo ha dato vita a una significativa attività legislativa (in Parlamento) e culturale (fra università, associazionismo e così via). “In questo modo, si sono replicati a dismisura annunci e proclami di cambiamenti architettonici epocali, seducenti per il neofito, irritanti per il veterano”, sottolinea Burdese. Tutto è iniziato con il piano carceri del 2010 voluto per realizzare in meno di due anni prigioni civili per 20.000 posti e far tornare l’Italia uno Stato civile, a fronte delle criticità del sovraffollamento endemico delle nostre carceri. “Un piano che è stato fallimentare rispetto alle aspettative, non avendo creato i posti previsti, e che si è arenato ben presto sulle secche della norma farraginosa e della politica “disattenta” - aggiunge Burdese - Una “disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora”, come ha denunciato recentemente l’attuale guardasigilli Marta Cartabia nella relazione finale della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, presieduta dal professor Marco Ruotolo”. Di questa Commissione, come di altre nel passato, l’architetto Burdese ha fatto parte. Tornando alla storia, nel 2013 l’allora ministro Andrea Orlando convocò gli Stati generali sull’esecuzione penale, “per dare reale attuazione ad una funzione evidentemente per gran parte e per troppo tempo soltanto enunciata” si disse facendo riferimento alla funzione trattamentale. “Era quello il periodo del quarantennale della riforma dell’ordinamento penitenziario - ricorda Burdese - Preceduto dall’umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante di persone detenute”. I progetti emersi da quegli Stati generali sono rimasti però sulla carta. “Una vicenda - dice Burdese - emblematica di un sistema che non si evolve; basti pensare al fatto che gli esiti dei suoi lavori sono stati affossati dalle stesse compagini politiche che li aveva voluti per sopraggiunte strategie e logiche elettorali avverse”. Si arriva così al 2018, alla riforma dell’ordinamento penitenziario. “Negli anni sono stati diversi i momenti istituzionali che hanno contribuito a creare false aspettative e ampliato la visione delle difficoltà che il nostro Paese incontra a risolvere i problemi architettonici del sistema carcere. È il caso della realizzazione delle nuove carceri di San Vito al Tagliamento e Di Bolzano e della rifunzionalizzazione a carcere di alcune caserme dismesse acquisite dal Demanio pubblico - ricostruisce Burdese -. Nel 2019 il Ministro della Giustizia di nuova nomina esordì promettendo che nell’arco di un anno sarebbe stata ristrutturata e messa in funzione, con 400 posti detentivi, la prima delle caserme acquisite da adibire a carceri. Si trattava della Caserma Bixio di Casale Monferrato, dismessa da decenni e che al momento resta tale”. “A quanti hanno consapevolezza della materia edilizia e delle dinamiche che regolano la progettazione e la costruzione delle carceri nazionali - aggiunge - è apparso subito evidente che non sarebbe stato possibile mantenere quella promessa nei limiti temporali indicati. La consistenza dei lavori necessari per la rifunzionalizzazione dell’esistente e le dinamiche farraginose che nel nostro Paese portano in generale alla realizzazione delle opere pubbliche e in particolare degli istituti carcerari ne sono la principale causa. I casi citati di San Vito al Tagliamento e di Bolzano, nuove carceri che da oltre dieci anni dall’avvio delle procedure di realizzazione attendono di essere costruiti, testimoniano lo stato di difficoltà nel dare concretezza alle buone intenzioni”. Così, fra un’overdose di parole e progetti mai realizzati, si arriva al 2021 e alla Commissione per l’architettura penitenziaria. Una sorta di ultimo atto della rappresentazione della stagione dei proclami architettonici in tema di carcere. L’obiettivo è allineare i luoghi dell’esecuzione penale alla funzione costituzionale di rieducazione e responsabilizzazione del detenuto. Saranno i mesi e gli anni a venire a dare contezza dei risultati reali scaturiti dai lavori di questa Commissione (se mai ve ne saranno). Il quadro sin qui fornito configura un sistema capace di produrre soluzioni migliorative virtuali, ma incapace di cambiamenti reali. “Quanto traspare dai fatti illustrati può indurre a stati d’animo che vanno dall’irritazione alla preoccupazione. L’irritazione - spiega Burdese - scaturisce dal protrarsi dello stato irrisolto delle cose, la preoccupazione dal fatto che le cospicue risorse che stanno per essere erogate per migliorare lo stato misero delle nostre infrastrutture penitenziarie, stante l’assenza delle necessarie condizioni culturali ed operative per farne buon uso, vengano spese (se mai lo saranno) in maniera disattenta. In campo vi è la trasformazione e l’adattamento ai nuovi bisogni di una realtà architettonica che appare inamovibile, con lo spettro di doverlo obbligatoriamente fare in tempi stabiliti e brevi”. Come procedere quindi? Come uscire da tale impasse? “La risposta è con la ragione e con lo spirito che ci appartiene e che da sempre hanno spesso risolto problemi che sembravano insolubili. Il monito di Antoine de Saint Exupéry ci viene in soccorso: “… Nella vita non ci sono soluzioni. Ci sono delle forze in cammino: bisogna crearle, e le soluzioni vengono dopo”. Le forze in cammino - spiega Burdese - sono quelle che sino ad oggi hanno fatto progredire culturalmente e materialmente il nostro Paese, e anche quelle da qualche tempo rivolte alla dimensione spaziale della pena. Le forze in cammino sono quelle che sapremo creare, affiancandole a quelle esistenti. Si tratta di riflettere sul passato e sul presente, per agire con la consapevolezza dei limiti in campo, evitandoci disinganni che porterebbero a clamorosi fallimenti. Sempre che - conclude Burdese - risolvere i problemi delle infrastrutture penitenziarie sia argomento prioritario nelle agende politiche presenti e a venire”. Cartabia, giustizia incompiuta di Francesco Grignetti La Stampa, 20 gennaio 2022 La ministra alle Camere: “Il Pnrr ci impegna a fare la riforma dell’ordinamento entro il 2022”. Dal sovraffollamento delle carceri al ddl contro i femminicidi, tanti i nodi ancora da risolvere. I mali della giustizia italiana, la ministra Marta Cartabia li ha sempre davanti agli occhi. Una sorta di danza macabra. I tempi biblici di processi che non finiscono mai. Ne cita uno in particolare, a Chieti, dove una madre, la signora Annunziata Cairo, aspetta da anni una sentenza per la morte del figlio, vittima sul lavoro. Quasi rassegnata a non vedere la fine. “Le scrivo - legge - come madre, vedova, umile cittadina, per chiedere il suo conforto e, nei limiti delle sue possibilità e competenze, di approfondire la disastrosa realtà di quel tribunale”. Terribile. Commenta la ministra: “La storia di quest’anziana madre non è isolata. È una storia paradigmatica e dà voce a tanti cittadini”. Perciò bisogna velocizzare i processi, non per fare bella figura con Bruxelles. Ci sono le carceri sovraffollate con il Covid che dilaga: “Alcune - scrive nella relazione al Parlamento - davvero non sono degne del nostro Paese. Ho visitato il carcere di Sollicciano a Firenze: è in condizioni indecorose, nonostante la ristrutturazione straordinaria in atto. E qui si verificano, non a caso, importanti numeri di autolesionismo e di suicidi”. I suicidi, altra emergenza, tanto che dovrà aggiornare i numeri, e diventano 6 i casi del 2022, in quanto, mentre lei parlava al Senato, un detenuto si è tolto la vita a Monza. “Questi anni - spiega - sono stati durissimi. Tensioni, paure, incertezze, isolamento che tutti abbiamo sperimentato, erano e sono amplificati dentro le mura del carcere, per tutti: per chi lavora in carcere e per chi in carcere sconta la sua pena”. Il carcere è un microcosmo dove, se le cose non vanno, si sta male tutti assieme. “Da mesi mi sto dedicando anche al problema della salute mentale in carcere. È un dramma enorme, tanto nelle articolazioni per la tutela della salute mentale interne quanto per le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che stanno al di fuori”. Qualcosa è migliorato: erano 98 nell’ottobre 2020 quelli che aspettavano si liberasse un posto in una di queste residenze, oggi sono 35. E c’è la violenza contro le donne, con un ddl del governo di cui da due mesi si sono perdute le tracce: “Sappiamo bene - dice Cartabia - che è un’emergenza che veramente non tende a declinare e ci toglie il sonno, tanto diventa importante e grave” Eppure la ministra ritiene di avere svolto bene il suo compito in questo difficile anno. Le due riforme più importanti tra quelle concordate con l’Europa, ovvero lo sveltimento del processo civile e del processo penale, sono leggi dello Stato. Altre due fondamentali riforme, sul Csm e sulla giustizia tributaria, vanno fatte ora. Non è un mistero, però, che la riforma del Csm è ferma da quasi un mese a Palazzo Chigi. Nonostante i tempi stringano, perché a luglio i magistrati devono votare il rinnovo del loro autogoverno. Così ha una sottile coloritura polemica, l’accenno di Cartabia a una riforma che non vede la luce: “Sappiamo bene che all’appello manca un altro fondamentale, e da tutti atteso, capitolo: la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, che il presidente della Repubblica e alcune forze politiche ancora di recente giustamente hanno sollecitato... Queste proposte sono oggi all’attenzione del governo”. Un’attenzione che in tutta evidenza deve fare i conti con altre priorità, quale il Quirinale. Ma lei, la ministra Guardasigilli, è pronta a ripartire con slancio non appena il resto dell’esecutivo, a cominciare dal presidente del Consiglio, le darà il via libera. “Sono certa - sottolinea - che nelle prossime settimane potremo progredire... Per parte mia, come ho sempre fatto, continuerò, voi lo sapete bene, perché con voi ho tante volte interloquito su questi temi, non solo a dare la mia massima disponibilità, ma anche a spendere tutte le mie energie per accelerare il corso di questa riforma e sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del governo”. E il Parlamento approva. Giustizia, “riforme figlie della responsabilità”. E Cartabia ringrazia tutti i partiti di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 gennaio 2022 Il via libera alla relazione sulla giustizia in Parlamento. La ministra: un’esperienza che vorrei continuare. Tutte le mie energie per accelerare sul Csm. “Sappiamo bene quanta fatica e disponibilità è stata chiesta a tutte le forze politiche per trovare un terreno su cui convergere. Queste riforme sono figlie del contesto straordinario in cui sono nate: di un governo sostenuto da una maggioranza amplissima, di “unità nazionale”, con sensibilità al suo interno molto distanti tra loro. È anche la sua ricchezza”. Parla di giustizia Marta Cartabia, la Guardasigilli del governo Draghi. Illustra al Parlamento gli interventi compiuti e quelli ancora in cantiere; compreso il difficile e ancora indefinito capitolo che riguarda il Consiglio superiore della magistratura, divenuto cruciale dopo il conflitto con il Consiglio di Stato: “Continuerò a spendere tutte le mie energie per accelerare il corso di questa riforma e sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del governo”, promette la ministra. Tuttavia alla vigilia dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, le parole di una donna delle istituzioni il cui nome compare negli elenchi dei candidati sia al Quirinale che a palazzo Chigi qualora il premier traslocasse, assumono inevitabilmente anche un altro significato. E così diventa naturale associare i toni della ministra a orizzonti più vasti. “Il cammino delle riforme della giustizia è stato un cammino non sempre lineare - dice Cartabia - ma è stato un cammino possibile perché sorretto dalla comune responsabilità per l’interesse del Paese, sempre alla ricerca di una equilibrata sintesi. Di questo ringrazio di nuovo, sentitamente e pubblicamente, tutte le forze politiche”. Un omaggio alla propria maggioranza ma anche all’opposizione di Fratelli d’Italia, che insieme a qualche fuoriuscito grillino non approverà la relazione ma senza contrarietà esasperate, anzi con accenti di disponibilità. Se questo significa che per la “ministra del possibile” possono aprirsi altre strade si vedrà, ma intanto la ex presidente della Corte costituzionale incassa un successo significativo nella tappa che, un anno fa, vide cadere il governo Conte 2 e il suo predecessore in via Arenula, Alfonso Bonafede. La relazione sull’amministrazione della giustizia rivendica il raggiungimento dei traguardi stabiliti per il 2021 e fissa quelli del 2022, sempre in una logica di condivisione e costante dialogo con i partiti e chi ogni giorno affolla i tribunali: dai magistrati agli avvocati al personale amministrativo, allo scopo di garantire il rispetto dei diritti di accusati e parti lese. E poi il pianeta carcere e delle pene alternative che aiutano il recupero dei condannati “di cui beneficiano sia i singoli che la società”, le relazioni internazionali e tanti altri aspetti. Compreso l’impegno su singoli casi, come il processo bloccato per il sequestro e l’omicidio di Giulio Regeni. Cartabia ricorda il mantenimento dell’abolizione della prescrizione dopo il giudizio di primo grado voluto dal precedente governo, ma anche i “correttivi a garanzia dell’imputato” introdotti con l’improcedibilità; un meccanismo che però non deve distogliere dall’obiettivo di “portare tutti i processi a sentenza definitiva, ma nel rispetto di tempi ragionevoli”. Si sofferma su questioni che interessano questa o quella parte degli emicicli di Camera e Senato: dalle nuove regole sulla “presunzione di innocenza” alla lotta contro “la piaga della corruzione”; dalle modifiche necessarie per attrarre nuovi investimenti all’aumento del Pil legato alla riduzione della durata dei processi. E poi il contrasto alla criminalità organizzata e migliori condizioni di vita nelle prigioni, per detenuti e agenti penitenziari, fino al capitolo della “giustizia riparativa”: una nuova frontiera che sta molto a cuore alla Guardasigilli, non in una banale chiave “buonista”, bensì alla ricerca di “un sistema in grado di ricostruire legami civici tra i cittadini, che ricuce e ripara, non si nutre di odio né cede alla reazione vendicativa, e vive innanzitutto di ricerca di verità”. Anche in questi passaggi Marta Cartabia parla di giustizia, ma potrebbe parlare anche di politica e contesti più vasti. I partiti che sostengono il governo applaudono. Il Pd con i senatori Anna Rossomando e Franco Mirabelli e i deputati Andrea Giorgis, Walter Verini e Alfredo Bazoli, promette appoggio a riforme nello spirito della Costituzione; la leghista Giulia Bongiorno riconosce “competenza e capacità di mediazione” alla Guardasigilli, ma la esorta al “coraggio” come Forza Italia; i Cinque Stelle e Italia viva - da fronti opposti - ringraziano entrambi; e così Enrico Costa, di Azione, pur chiedendo maggiori controlli sulle performance dei magistrati. Un buon viatico per la ministra della Giustizia a cui, dice in conclusione, “piacerebbe poter continuare questa esperienza per implementare il lavoro avviato, con la collaborazione di tutti”. Altri orizzonti non tocca a lei immaginarli. Giustizia, Cartabia: “Il mio obiettivo è garantire tempi ragionevoli per i processi” di Liana Milella La Repubblica, 20 gennaio 2022 La Guardasigilli porta al Senato, e poi alla Camera, la sua relazione sullo stato della giustizia e parla delle riforme già fatte e quella ancora da fare sul Csm. “Illustre signora Ministro, le scrivo questa lettera pubblica per chiedere il suo conforto, affranta dalla morte sul lavoro di mio figlio Roberto e dall’impossibilità di vedere celebrato il processo in tempi ragionevoli. Sono sicura che morirò prima di vederne la fine, senza poter sapere come e da chi è stato ucciso mio figlio. Le scrivo come madre, vedova e umile cittadina, per chiedere il suo conforto e, nei limiti delle sue possibilità e competenze, di approfondire la disastrosa realtà di quel tribunale. Prima di morire, vorrei poter andare sulla tomba di mio figlio Roberto per dirgli che la giustizia terrena ha fatto il suo corso”. Ecco, parte da questa lettera - giunta sulla sua scrivania l’8 marzo, quand’era insediata da pochi giorni in Via Arenula, la ministra Guardasigilli Marta Cartabia - per la sua relazione al Parlamento sullo stato della giustizia che dopo un ampio dibattito viene approvata al Senato, e passa alla Camera. Alle spalle, nel 2021, ci sono le due riforme già approvate, sui processi penali e civili, e di fronte la futura legge che cambierà il Csm e la selezione dei magistrati. Una legge quantomai attesa dopo i casi Curzio e Cassano, i due vertici della Cassazione che domani saranno riconfermati nel loro incarico dopo la bocciatura del Consiglio di Stato e alla vigilia dell’apertura dell’anno giudiziario che si terrà nel palazzaccio di piazza Cavour venerdì mattina. “La storia di questa anziana madre è una storia paradigmatica e dà voce a tanti altri cittadini, vittime e imputati. E anche a tanti imprenditori e lavoratori” dice Cartabia davanti ai senatori. E riassume così l’obiettivo delle sue riforme: “Riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza. Come chiedono la Costituzione e i principi europei”. A partire dalla ragionevole durata del processo. Ma è la stessa Cartabia a mettere i piedi per terra: “Gli obiettivi della riduzione dei tempi dei processi non si conseguiranno d’un tratto. Ne siamo tutti consapevoli. Abbiamo posto le basi e avviato un processo virtuoso, ma il suo completamento richiederà tempo. Sarà un processo graduale, che dovrà essere accompagnato da una costante rilevazione dell’andamento dei tempi di ciascun ufficio giudiziario in modo da poter intervenire tempestivamente per rispondere con risorse più adeguate a esigenze emergenti, per rimuovere ostacoli imprevisti e per affrontare tanti problemi che, realisticamente, non mancheranno”. La pena del processo - E Cartabia legge ancora la lettera della madre che attende giustizia per suo figlio dopo un incidente sul lavoro: “Il nostro processo non si riesce a celebrare, nonostante rientri in quelli cosiddetti a trattazione prioritaria. Il tribunale non è in grado di poter far svolgere in sicurezza i processi con più parti a causa della carenza di aule attrezzate, risorse e personale e per questa ragione in un anno e mezzo, da quando è iniziato il dibattimento, a causa di continui rinvii è stato sentito solo uno dei circa venti testimoni. Con questa cadenza il processo di primo grado durerà numerosi anni...”. La Guardasigilli chiosa subito dopo: “Processi irragionevolmente lunghi rappresentano un vulnus per tutti. Per gli indagati e per gli imputati, che subiscono oltre il necessario la pena del processo. Per i condannati, che si trovano a dover eseguire una pena a distanza di tempo, quando ben possono essere - e per lo più sono - persone diverse da quelle che hanno commesso il reato. Per gli innocenti, che hanno ingiustamente subito oltre misura il peso di un processo che può aver distrutto relazioni personali e professionali”. Il Pnrr impegna l’Italia a ridurre del 40% il tempo medio di durata dei procedimenti del civile e del 25% per il penale entro cinque anni. E Cartabia assicura che l’Italia è in regola rispetto ai goal richiesti dall’Europa. Il fattore Europa - Proprio nel rispetto dei principi europei l’Italia, sul piano della giustizia, non solo ha rispettato gli impegni del Pnrr, ma ha anche approvato leggi che vanno in questa direzione, la procura europea, battezzata Eppo, che attua i principi insegnati da Giovanni Falcone, il suo motto “follow the money” del lontano 1991, come ricorda Cartabia, ma anche le nuove leggi sul riciclaggio, sulla presunzione d’innocenza, sul diritto societario, sui tabulati telefonici. Le riforme già fatte, penale e civile - Politicamente, una premessa è d’obbligo per Marta Cartabia quando illustra le sue riforme che “sono figlie del contesto straordinario in cui sono nate: di un governo sostenuto da una maggioranza amplissima, di unità nazionale, con sensibilità al suo interno molto distanti sulla giustizia. Ma è sempre stata sorretta dalla comune responsabilità per l’interesse del Paese. E questo ha sostenuto il cammino - a tratti complesso - delle riforme, nella ricerca si un’equilibrata sintesi. E di questo ringrazio davvero tutte le forze politiche”. Sono nate da qui le difficoltà e i contrasti, a luglio scorso, sul processo penale. E di certo lo stesso clima riguarderà la riforma del Csm. Cartabia torna sulla nuova regola, l’improcedibilità dei processi che superano il tempo assegnato, che ha creato i maggiori contrasti. Che definisce così: “Un ponderato meccanismo che prevede proroghe dei termini, sospensione degli stessi, esclusione di alcuni reati e un regime transitorio che assicura una graduale entrata in vigore, in modo da consentire agli uffici giudiziari di organizzarsi adeguatamente e di avere a disposizione tutte le risorse umane, materiali e tecnologiche di cui abbiamo parlato sopra, per arrivare all’obiettivo di portare tutti i processi a sentenza definitiva, con l’accertamento delle responsabilità e il ristoro delle vittime, ma nel rispetto di tempi ragionevoli”. La riforma del Csm - Adesso tocca alla riforma del Csm, sollecitata più volte anche dal presidente della Repubblica e dello stesso Csm Sergio Mattarella. E qui Cartabia è molto netta: “Gli emendamenti intervengono sul sistema elettorale, sulla composizione e sul funzionamento del Csm, sul conferimento degli incarichi direttivi, sulle valutazioni di professionalità, sul collocamento fuori ruolo, sul concorso per l’accesso in magistratura e sul rapporto tra magistrato e cariche elettive”. Cartabia assicura “la sua massima disponibilità per accelerare il corso della riforma e per sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del governo”. Sin da prima di Natale, la ministra ha portato a Palazzo Chigi i suoi emendamenti, più volte sollecitati dalla commissione Giustizia della Camera, e l’argomento è in coda per essere trattato. Si può ipotizzare che la prossima elezione del capo dello Stato abbia rallentato la discussione. Ma la Guardasigilli ha già assolto al suo compito. L’anno nero del carcere - “La pandemia ha fatto da detonatore di questioni irrisolte da lungo tempo” dice Cartabia sul carcere. “Questi anni sono stati durissimi. Le tensioni, le paure, le incertezze, l’isolamento che tutti abbiamo sperimentato erano e sono amplificati dentro le mura del carcere. Per tutti: per chi lavora in carcere e per chi in carcere sconta la sua pena”. I fatti di Santa Maria Capua Vetere, e ancora prima le rivolte, sono nella memoria di tutti. La ricetta di Cartabia è questa: “Se vogliamo farci carico fino in fondo dei mali del carcere - in primo luogo perché non si ripetano mai più episodi di violenza, ma più ampiamente perché la pena possa davvero conseguire la sua finalità, come prevista dalla Costituzione - occorre concepire e realizzare una strategia che operi su più livelli: gli improcrastinabili investimenti sulle strutture penitenziarie, un’accelerazione delle assunzioni del personale, una più ricca offerta formativa per il personale in servizio e la diffusione dell’uso delle tecnologie, tanto per le esigenze della sicurezza, quanto per quelle del trattamento dei detenuti”. I dati parlano chiaro, il sovraffollamento, a oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%. Commenta Cartabia: “È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assai più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. La ministra segnala però un dato rilevante: “Può essere interessante sottolineare che già oggi sono più numerosi coloro che scontano la pena in vario modo fuori da un carcere: oltre 69mila a fronte di circa 54mila detenuti. Queste 69.140 persone per l’esattezza al 31 dicembre 2021 sono in carico agli uffici della esecuzione penale esterna, l’ufficio UEPE, e aggiungendo i procedimenti tuttora pendenti, diventano oltre 93mila i fascicoli in corso presso questi uffici”. Dai brigatisti, a Forti, all’Afghanistan - Cartabia chiude ricordando la decisione del governo francese di dare il via libera, dopo anni di attesa, all’iter di estradizione per sette persone condannate in via definitiva per gravissimi reati commessi negli anni di piombo, che avevano trovato rifugio Oltralpe. “La Francia per la prima volta ha accolto le richieste dell’Italia e rimosso ogni ostacolo al giusto corso della giustizia su fatti che rappresentano una ferita profonda nella storia della Repubblica e per cui i familiari sono rimasti per così tanti anni in attesa di risposte”. Ma c’è anche il lavoro della stessa Cartabia per riportare in Italia dagli Usa Enrico “Chico” Forti. “Ho potuto reiterare di persona negli Usa, nella scia di quanto già fatto dal precedente governo, la richiesta di poter trasferire il nostro concittadino in Italia per l’esecuzione della pena vicino all’anziana madre a cui ho raccontato personalmente gli sviluppi della missione”. E c’è naturalmente “ogni supporto perché possa svolgersi il processo sul caso Regeni”. E infine il “legame ventennale, in particolar modo con la provincia di Herat”, con l’Afganistan. Dice Cartabia: “Non potevamo e non volevamo dimenticarci soprattutto di quei magistrati e avvocati che così tanto avevano collaborato con le autorità italiane. E ci siamo adoperati per far avere protezione internazionale a figure particolarmente a rischio, con l’avvento del nuovo regime.Tra queste, l’ex Procuratore generale della Provincia di Herat, Mareya Bashir: una figura di primo piano nella difesa dei diritti delle donne e nella costruzione di uno stato di diritto nella sua terra, in collaborazione con il nostro paese. A lei il Presidente della Repubblica ha conferito la cittadinanza italiana per meriti speciali”. La giustizia riparativa - Ma è con una delle questioni che le è più cara, la giustizia riparativa, che definisce “uno dei fili rossi che legano le trame delle riforma”, che Cartabia chiude il suo intervento. Ricorda la Conferenza del ministri della giustizia dei paesi del Consiglio d’Europa che si è tenuta il 13 e 14 dicembre a Venezia sul nuovo paradigma della giustizia penale, complementare a quella tradizionale, “che muove dall’esigenza di coinvolgere attivamente, in percorsi guidati da mediatori professionisti, il reo e la vittima, ma anche la comunità di riferimento, con l’obiettivo fondamentale di riparare e restaurare i legami sociali lacerati dal reato, di responsabilizzare l’autore dell’offesa, ma anche quello di porre le basi per una futura e più consapevole ripresa delle relazioni nei contesti di appartenenza”. La giustizia riparativa, dice Cartabia, “non è uno strumento di clemenza. Né tanto meno esprime un pensiero debole in materia penale. Al contrario: è uno strumento molto esigente che chiede al trasgressore di assumersi tutta la sua responsabilità di fronte alla vittima e di fronte alla comunità, attraverso incontri liberamente concordati, con l’aiuto di un terzo che favorisce il riconoscimento della verità dell’accaduto”. E poi racconta la storia di Sarno: “Sarno, cittadina del salernitano, che ha vissuto un importante percorso di giustizia riparativa. L’incendio del bosco vicino a Sarno aveva messo in grave pericolo gli abitanti. Rabbia e paura hanno attraversato la comunità alla scoperta che all’origine del rogo c’era un gesto sconsiderato di un loro concittadino. Il colpevole ha scontato la sua pena, ma all’uscita dal carcere come tornare in quella comunità? Un percorso di mediazione ha portato l’autore del reato e la sua famiglia prima ad incontrare l’amministrazione comunale, poi l’intera collettività. Incontri in cui gli abitanti hanno raccontato il loro vissuto, ma hanno anche ascoltato le scuse, cariche di vergogna, di chi aveva provocato quel drammatico evento. Quell’uomo ha contribuito a ricostruire il bosco distrutto e con questo gesto ha impresso un nuovo corso alla sua vita, riaccolto nella sua comunità”. Il binario 21 della stazione di Milano - Cartabia può concludere la sua relazione sullo stato della giustizia in Italia: “Con la giustizia riparativa l’ordinamento si apre alla possibilità di un sistema giudiziario in grado di domare la rabbia della violenza e di ricostruire legami civici tra i cittadini. Questa è la concezione della giustizia che mi sta a cuore e che si ritrova in filigrana in tutti gli interventi di riforma”. Per chiudere così: “Questa è la giustizia su cui sono stata chiamata a riflettere proprio nel luogo della massima ingiustizia che la nostra storia abbia conosciuto, quel binario 21 della stazione centrale di Milano da cui partivano i treni per Auschwitz. In una delle giornate più intense vissute da ministra, sono stata invitata dalla senatrice a vita Liliana Segre, e da lei accompagnata fino a quei vagoni da cui bambina partì, insieme al padre e a migliaia di altri ebrei, verso l’ignota destinazione del campo di concentramento. Coltivare un’idea della giustizia che sappia ricomporre i conflitti e preservare i legami personali e sociali, che sappia unire più che dividere; che tuteli i più fragili e tenda sempre all’interesse comune è quello che ho inteso perseguire in quest’anno (quasi) di servizio al ministero della Giustizia. Nella convinzione che questa è la più grande urgenza del nostro tempo e che questo è lo spirito che ci trasmette la nostra Costituzione”. Cartabia in Parlamento: superati tutti gli obiettivi del 2021 di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2022 “La giustizia sappia ricomporre i conflitti”. Nel corso della Relazione annuale sull’amministrazione della giustizia, la Ministra Guardasigilli ha tracciato un quadro positivo delle riforme fatte: penale, civile, minori, imprese. Manca ancora il Csm ma i tempi saranno rispettati. È un consuntivo ampiamente positivo per le tante riforme portate a casa durante l’anno “grazie alla responsabilità delle forze politiche”, quello tracciato dalla Ministra Marta Cartabia nel corso della Relazione sull’amministrazione della giustizia questa mattina al Senato (nel pomeriggio la Guardasigilli è attesa alla Camera). Delega penale, delega civile, minori e diritto di famiglia, insolvenza imprese. “Sul piano delle riforme tanto lavoro è stato fatto” afferma Cartabia che poi subito aggiunge: “Molto altro lavoro ci attende”. Si perché all’appello, oltre a tutti i decreti di attuazione, manca ancora la riforma più “politica” quella sul Csm e dell’ordinamento giudiziario, forse rinviata per la coincidenza con l’elezione del Quirinale. Tuttavia, annuncia il Ministro: “I tempi verranno rispettati”. In dirittura d’arrivo nel 2022, come chiesto dal Pnrr, anche la riforma del diritto tributario. Diversi poi i richiami alla “diffusione generalizzata” dell’ufficio del processo che “comporta un vero e proprio cambio di paradigma, perché segna il passaggio dal lavoro individuale a quello di squadra”. Cartabia ha poi sottolineato la necessità di spingere sulla “giustizia riparativa” coltivando l’idea che la giustizia “sappia ricomporre i conflitti e preservare i legami personali e sociali, che sappia unire più che dividere; che tuteli i più fragili e tenda sempre all’interesse comune”. “Questa - ha aggiunto - è la più grande urgenza del nostro tempo e questo è lo spirito che ci trasmette la nostra Costituzione”. Una visione però che deve fari i conti con gli enormi problemi anche infrastrutturali del Paese che hanno portato, per esempio, il sovraffollamento delle carceri al 114%. Cartabia ha poi ricordato i “troppi i casi di violenza sulle donne, troppi i femminicidi, troppe le violenze sui bambini, troppi i drammi che originano in ambito domestico di cui abbiamo notizia quotidianamente. “Una vera barbarie, ha giustamente detto qualcuno di voi”. L’Aula di palazzo Madama ha poi approvato, nel pomeriggio, con 195 voti favorevoli, 25 contrari e 2 astenuti, la Relazione con una risoluzione di maggioranza (respinte le risoluzioni presentate dal Fratelli d’Italia e da alcuni senatori del gruppo Misto che avevano parere contrario dal Governo). Riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza - “Riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza come chiede la Costituzione, come chiedono i principi europei. Il principio della ragionevole durata del processo e gli altri principi costituzionali europei che presidiano la corretta amministrazione della giustizia sono scritti per questo per rispondere all’esigenza di chi attende dai nostri uffici giudiziari una parola di giustizia, una parola di giustizia tempestiva perché processi irragionevolmente lunghi rappresentano un vulnus per tutti: per gli indagati e per gli imputati che subiscono oltre il necessario la pena del processo e il connesso effetto di stigmatizzazione sociale; per i condannati che si trovano a dover eseguire una pena distanza di tempo quando ben possono essere e per lo più sono persone diverse da quelle che hanno commesso il reato; per gli innocenti che hanno ingiustamente subito oltre misura il peso di un processo che può aver distrutto le relazioni personali e professionali e soprattutto per le vittime e per la società che non ottengono in tempi ragionevoli una accertamento dei fatti e delle responsabilità come è doveroso”. È uno dei passaggi chiave affrontati dalla ministra Cartabia, nel corso della Relazione, con riferimento alla lettera di una anziana madre che lamentava la mancata celebrazione del processo relativo alla morte sul lavoro del figlio. Quel processo ha detto la Ministra non si è celebrato per la mancanza di spazi adeguati ed ha poi ricordato lo sforzo fatto per il maxi processo di Palermo con la creazione dell’aula bunker. Riduzione tempi giustizia del 15% vale mezzo punto Pil - “Sappiamo bene - ha proseguito Cartabia - che la modernizzazione e l’efficienza del sistema giudiziario incidono direttamente sulla solidità economica del Paese: tra gli studi, uno recente di Banca d’Italia stima che la riduzione della durata dei processi di circa il 15% porti all’aumento di almeno mezzo punto percentuale del PIL. E i nostri obiettivi superano di gran lunga quel 15%. E inoltre la maggiore efficienza del sistema giudiziario stimola gli investimenti interni ed esterni e indirettamente migliora le condizioni di finanziamento per famiglie e imprese”. “Mentre l’emergenza sanitaria premeva - ha proseguito - abbiamo messo a punto progetti e riforme strutturali a lungo termine. Come sappiamo, abbiamo l’impegno di ridurre del 40% il tempo medio di durata dei procedimenti del civile; e del 25% per il penale entro un arco temporale di cinque anni. Questo è stato il punto di accordo dopo settimane di trattative con Bruxelles. Ad oggi, possiamo senza dubbio dire di aver conseguito - e invero superato - gli obiettivi previsti per il 31 dicembre 2021, che annoveravano l’approvazione delle leggi di delega in materia di processo civile e di processo penale; gli interventi in tema di insolvenza e l’avvio del reclutamento per l’Ufficio per il Processo”. Ufficio del processo cambio di paradigma, lavoro di squadra - “Per il sistema italiano, la diffusione generalizzata dell’ufficio del processo, dopo anni di proficua sperimentazione in molti distretti di Corte d’Appello, comporta un vero e proprio cambio di paradigma, perché segna il passaggio dal lavoro individuale a quello di squadra”. Ha detto la ministra. “Più volte in questi mesi - ha proseguito - nel dibattito pubblico si è stigmatizzata una visione ‘efficientistica’ della giustizia. Mi preme rimarcare che il lavoro di squadra, se ben organizzato e ben condotto, non solo incrementa l’efficienza della giustizia, migliorandone i tempi, ma ne favorisce la qualità. Non c’è competizione, né tanto meno contraddizione, tra efficienza e qualità della giustizia, ma reciproco sostegno nel quadro dell’Ufficio per il processo”. Il primo contingente di 8171 giuristi, ha ricordato, è già stato selezionato con i concorsi che hanno visto la partecipazione di circa 67.000 candidati e che si sono svolti lo scorso autunno. “Così il 14 febbraio, 200 giovani giuristi entreranno in servizio in Cassazione ed il 21 febbraio altri 8000 circa prenderanno servizio in tutti gli uffici giudiziari d’Italia”. “È bene notare - ha aggiunto - che si tratta di un importante potenziamento delle risorse umane: accanto a circa 9000 magistrati in servizio si troveranno ben 8.171 giuristi-assistenti. Un aiuto potenzialmente molto rilevante”. Nelle prossime settimane seguirà un altrettanto cospicuo contingente di tecnici (5.410), che dovrà supportare l’Ufficio per il processo “nei suoi compiti di data entry, di rilevazione statistica e di analisi organizzativa, e altri compiti di supporto dell’azione gestionale dei vertici giudiziari e amministrativi degli uffici”. Corruzione, costante preoccupazione, mina fiducia nelle istituzioni - “Il monitoraggio dei tempi dei processi - ha affermato Cartabia - è particolarmente sentito nel settore penale. Per questo la legge delega di riforma prevede la costituzione, già avvenuta a dicembre, di un Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con il compito di effettuare una verifica periodica del raggiungimento degli obiettivi di accelerazione e semplificazione, nel rispetto dei canoni del giusto processo”. “Questo comitato di monitoraggio ha al suo interno un’unità dedicata ai reati contro la pubblica amministrazione: da parte nostra, come delle istituzioni europee c’è una costante preoccupazione sulla piaga della corruzione, che richiede continua attenzione, per la sua capacità di “divorare le risorse pubbliche” e “minare il rapporto di fiducia tra Stato e cittadini”, come ebbe a sottolineare il presidente della Repubblica”. Imprese, nuove norme su insolvency per composizione crisi - “All’attuale emergenza provocata dalla pandemia è legato un intervento normativo che si è reso indispensabile: la riforma delle norme sull’“insolvenza” delle imprese. L’obiettivo è quello di offrire nuovi e più efficaci strumenti agli imprenditori per sanare quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l’esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili”. “La conservazione dell’impresa - ha proseguito la ministra della Giustizia, Marta Cartabia - è stata l’elemento ispiratore del Dl 24 agosto 2021, n. 118 che ha operato su due direttrici: l’introduzione di un nuovo strumento di ausilio alle imprese in difficoltà, di tipo negoziale e stragiudiziale, e la modifica della legge fallimentare con l’anticipazione di alcune disposizioni del codice della crisi”. “Il cuore della nuova normativa dell’insolvency è la “composizione negoziata della crisi”. Si tratta di un percorso volontario, attraverso il quale l’imprenditore, lontano dalle aule giudiziarie, in assoluta riservatezza, si rivolge a un esperto, terzo e imparziale”. Cartabia ha poi ricordato l’introduzione di sistemi di allerta, sia interni sia esterni all’azienda, “demandati a creditori pubblici qualificati, affinché l’imprenditore in crisi possa per tempo avvalersi di questo strumento”. “Questo processo riformatore troverà conclusione nel corso del 2022, con l’entrata in vigore del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, opportunamente modificato attraverso il completo recepimento della direttiva UE 1023/2019 sulle ristrutturazioni”. “In prospettiva, ha concluso - occorrerà modificare il sistema dei reati fallimentari, a cui sta già lavorando una Commissione di esperti insediata presso il Ministero. Entro il 2022 riforma giustizia tributaria col Mef - “Entro il 2022 dovremo portare a termine anche la riforma della giustizia tributaria, a cui stiamo lavorando insieme al Mef”, è un passaggio della Relazione sull’amministrazione della giustizia da parte della Ministra Guardasigilli, Marta Cartabia, in corso nell’aula del Senato (nel pomeriggio alla Camera). Carceri, sovraffollamento al 114% - Per quanto riguarda le carceri, “il primo e più grave tra tutti i problemi continua ad essere il sovraffollamento: ad oggi su 50.832 posti regolamentari, di cui 47.418 effettivi, i detenuti sono 54.329, con una percentuale di sovraffollamento del 114%. È una condizione che esaspera i rapporti tra detenuti e rende assi più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. Manca ancora riforma Csm ma tempi PNRR saranno rispettati - “Sappiamo bene che all’appello manca ancora un altro fondamentale e atteso capitolo: la riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM, che il Presidente della Repubblica e alcune forze politiche hanno ancora di recente sollecitato giustamente. Il disegno di legge delega è già incardinato alla Camera su iniziativa del precedente Governo, e - come abbiamo fatto per tutte le altre riforme - intendiamo presentare emendamenti governativi che riguardano, tra l’altro: il sistema elettorale, la composizione e il funzionamento del CSM; il conferimento degli incarichi direttivi, le valutazioni di professionalità, il collocamento fuori ruolo, il concorso per l’accesso in magistratura e il rapporto tra magistrato e cariche elettive”. Ha detto in conclusione la Ministra Guardasigilli, Marta Cartabia, aggiungendo: “Sono certa - ha aggiunto - che nelle prossime settimane potremo progredire nella scrittura anche di questo atteso capitolo di riforma, che il PNRR ci impegna ad approvare entro il 2022. La Camera ha già calendarizzato la discussione in aula e quella scadenza dovrà essere rispettata”. Mattarella e Cartabia: bandiera bianca, la giustizia resta in mano ai pm di Angela Stella Il Riformista, 20 gennaio 2022 Nulla da dire sul piano dell’efficienza, ben venga l’Ufficio del processo, importantissima la giustizia riparativa. Ma ci saremmo aspettati qualche parola in più sul Csm. La casa brucia e non si vedono pompieri. Nei giorni scorsi il Presidente Mattarella ha commentato con un silenzio assoluto le notizie che alcuni (pochi giornali) hanno riportato sullo sfacelo della giustizia italiana. Le riassumo. Il procuratore generale della Cassazione ha perso il cellulare (contemporaneamente al procuratore di Milano) e così la procura di Brescia non ha potuto accertare cosa ci fosse scritto nei messaggi che i due si scambiarono - probabilmente - a proposito della Loggia P2. Il Consiglio di Stato, per la seconda volta in pochi mesi, ha accusato il Csm di fare le nomine ai più alti incarichi della magistratura violando le regole. In sostanza ha fatto capire che al Csm le regole sono sostituite dai rapporti di forza tra le correnti e dai giochi di potere. Il Consiglio di Stato ha dichiarato decaduto il Presidente della Cassazione e la sua vice, cioè i vertici della magistratura. Decapitata. Il Csm, con un vero e proprio golpe, ha violato la sentenza e ha rimesso in sella i due abusivi. Mattarella è il presidente del Csm. Il suo silenzio è stato impressionante. La ministra Cartabia ieri ha presentato la relazione sullo stato della giustizia anno 2021. Relazione molto seria e difficilmente discutibile su molti punti. Incredibilmente omissiva sulla questione centrale: lo stato di coma nel quale si trova la magistratura e la separazione ormai irreparabile tra magistratura e giustizia. Domani si apre l’anno giudiziario. Si aprirà con il discorso ufficiale di un magistrato che il Consiglio di Stato ha dichiarato abusivo. Non era mai successo. Credo mai in Occidente. Sigmnori miei, sembra davvero di stare in Sudamerica. Meglio: nel Sudamerica di una trentina di anni fa. E in questo sfacelo domina il silenzio delle massime istituzioni. Molti, oggi, pregano Mattarella di accettare un rinnovo dell’incarico al Quirinale. Perché? È stato un buon presidente? Può darsi. Di sicuro è stato il Presidente che ha portato in silenzio allo sfacelo totale la giustizia italiana. Che oggi è solo il luogo dove si violano le regole impunemente e si esercita ogni tipo di sopraffazione. Mattarella è Cartabia sono colpevoli di questo sfacelo? Forse non direttamente, però sicuramente c’è un “concorso esterno…” Fare la riforma copernicana della giustizia, o continuare a suonare come il pianista folle mentre il Titanic sta affondando? Per ora la ministra Cartabia ha scelto la seconda strada, pur avendo l’ambizione di percorrere la prima. Domani si inaugura il nuovo Anno Giudiziario. Il compito sarà affidato al presidente della Cassazione Pietro Curzio, riconfermato dal Csm dopo la bocciatura da parte del Consiglio di Stato. Alla celebrazione sarà presente, seduta in prima fila, la guardasigilli Marta Cartabia. Che non è lo stralunato Alfonso Bonafede e neanche il timoroso Andrea Orlando. Ha l’ambizione di realizzare nella giustizia italiana una vera rivoluzione copernicana e ha le carte in regola per riuscirci. Ma ieri, nell’aula del Senato, mentre illustrava la sua “Relazione annuale” sulla giustizia, ricordava di più il pianista folle del Titanic, che continuava a pestare furiosamente sui tasti mentre il bastimento affondava. Le acque della giustizia, con i cavalloni delle toghe sempre più scatenati e incontrollabili e un mare asciutto di pesci e quindi di vita, sono rimaste fuori dall’aula. Naturalmente non abbiamo niente da obiettare alla ministra sul piano dell’efficienza. Per l’istituzione dell’”Ufficio per il processo”, prima di tutto, ottomila giovani giuristi selezionati con un concorso cui avevano partecipato 67.000 candidati, che affiancheranno i magistrati nel loro lavoro quotidiano. E chissà se sarà vero, come ha detto la ministra, che questo aiuterà a trasformare l’attività giurisdizionale da individuale a collettiva. Speriamo, ma non dimentichiamo che l’Italia è il Paese in cui singole toghe, in particolare pubblici ministeri, hanno fatto carriera, a volte anche politica, con gli arresti clamorosi, da Tortora a Mani Pulite, passando per il gruppo dei siciliani del processo “Trattativa”, fino ai blitz di Nicola Gratteri in Calabria (e mandate a casa l’avvocato Pittelli, per favore). Comunque ben venga questa importante innovazione, così come la digitalizzazione degli atti giudiziari, un aiuto a riorganizzare il lavoro nei palazzi di giustizia. Ma intanto la casa brucia. E ne sono successe di cose strane, nel corso del 2021. Prendiamo il Consiglio Superiore della Magistratura, per esempio. Quello che dovrebbe essere il tempio dell’onore e del prestigio di chi indossa la toga “giusta”, quella di chi ha l’ardire di giudicare gli altri, è diventata una sorta di suk dove si contrattano ambizioni e carriere come merce più o meno digeribile, più o meno lecita. Uno di loro, Luca Palamara, ha avuto l’ardire di raccontarci come andavano le conon se ogni volta che il Csm doveva decidere trasferimenti e promozioni, e anche con quale animo “politico” venivano svolti indagini e processi, e l’hanno fatto fuori. La casa è bruciata solo per lui. Gli altri sono lì e rifiutano di essere sorteggiati, la prossima volta, il che sarebbe l’unico sistema elettorale per evitare le camarille e i duelli all’ultimo sangue dietro il convento dei carmelitani scalzi. Ci aspettavamo dalla ministra Cartabia qualche parola di più su quel che succede nella realtà, visto che il lavoro della commissione da lei nominata non è stato se poco di più che acqua fresca, condita da qualche piccolo conflitto di interessi. Ma del resto lo stesso presidente Sergio Mattarella pare non essere memore del fatto di essere lui il vero capo del Csm. Senza chiedere (però, però) di mandare i carabinieri come fece Cossiga ad accerchiare le alte toghe, ci saremmo aspettati che almeno qualcuno osasse metterci dentro la testa, invece di girarsi dall’altra parte. La parte della relazione della ministra che inizierà davvero il percorso della rivoluzione copernicana è quella che interviene sul sistema civile favorendo “soluzioni consensuali dei conflitti”. E sul penale nella direzione opposta a quella del carcere a tutti i costi e del buttare via la chiave. “dalla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, all’estinzione delle contravvenzioni per condotte riparatorie, alla procedibilità a querela, alla pena pecuniaria e alle pene sostitutive brevi”. Un impianto riformatore in grado indubbiamente “di produrre significativi effetti di deflazione processuale”. Il che dovrebbe aprire un vero ragionamento politico sul processo. Non solo sui tempi, ma proprio sulla natura del giudicare. E soprattutto dell’indagare. Pensiamo a quel che è successo a Milano ai processi contro le dirigenze dell’Eni. Non significa proprio niente, mentre si apre il nuovo anno giudiziario, il fatto che mezza procura milanese sia ancora indagata, per comportamenti quanto meno discutibili (vedremo poi se saranno anche reati) dagli uffici di Brescia? Importantissima la “giustizia riparativa”, su cui Marta Cartabia insiste molto e ha anche scritto un libro con il professor Ceretti. Così come il ricorso maggiore alle forme alternative al carcere, su cui ci vorrebbe però un po’ più di coraggio, come ha sottolineato l’Unione delle Camere penali. Ma è un percorso lungo. Ma se intanto la casa brucia, o il Titanic sta affondando, ci vogliono da subito i pompieri e gli elicotteri di salvataggio. E per ora non si vedono. “Mai più innocenti vittime dell’antimafia”. Ecco la legge di FI di Errico Novi Il Dubbio, 20 gennaio 2022 Presentato il testo della senatrice Giammanco, ispirato al caso Cavallotti. Pietro Cavallotti si è trovato con un cumulo di polvere fra le mani. Le macerie delle aziende di famiglia incenerite da anni di amministrazione giudiziaria e sequestri, misure “di prevenzione” tenute in vita nonostante fossero cadute, in sede penale, le accuse di mafia da cui le misure avevano tratto origine. Cavallotti, giovane esponente di una famiglia di imprenditori un tempo leader, in Sicilia, nel campo delle infrastrutture del gas, si è laureato in Legge per necessità. È diventato un vero scienziato del diritto nella materia costata a suo padre e ai suoi zii anni di ingiustizie: perdita delle aziende, perdita persino dei beni più personali, incluse le abitazioni in cui i Cavallotti vivevano. In capo a una pena così mostruosa, inumana e incostituzionale, inflitta in nome del dogmatismo antimafioso, ieri Pietro è riuscito a piantare una bandiera straordinaria: ha portato l’intera prima linea di Forza Italia al Senato - dalla capogruppo Annamaria Bernini all’ex magistrato Giacomo Caliendo - in conferenza stampa a presentare una legge che riforma proprio le misure di prevenzione del codice antimafia. L’obiettivo è precisato dalla senatrice azzurra che ha avuto il coraggio di intestarsi la proposta come prima firmataria, Gabriella Giammanco: “Non è possibile continuare a tenere slegato il procedimento di prevenzione da quello penale: se un imprenditore viene assolto, è inaccettabile che poi si trovi costretto a raccogliere le macerie della sua azienda distrutta dopo anni e anni di sequestro. Ecco perché il nostro testo prevede che l’amministratore giudiziario debba affiancare e non sostituire l’imprenditore. Serve poi”, aggiunge Giammanco, “una forma di risarcimento del danno per quegli imprenditori innocenti che si sono visti distruggere le proprie imprese. Infine, occorre rafforzare la responsabilità civile degli amministratori giudiziari”. Il testo in due soli articoli (ma molti, chirurgici, commi), “espone” i professionisti incaricati dai Tribunali, e che a volte si autoattribuiscono compensi da nababbi, per tutti i danni ingiusti che fossero “cagionati con colpa o dolo”. Giammanco è vicepresidente dei senatori di Forza Italia. La legge reca altre firme di suoi colleghi come il ricordato Caliendo (ieri ha detto “io da giudice non ho mai applicato una sola misura di prevenzione, non capivo come il codice potesse prevedere una pena per gli innocenti”), Stefania Craxi e Fiammetta Modena. Tecnicamente riforma il codice delle leggi antimafia, cioè il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. La senatrice prima firmataria cita anche l’intervista al procuratore nazionale Antimafia pubblicata ieri dal Dubbio: il Capo della Dna “ha ammesso l’esistenza di zone grigie, ma ha sostenuto che la nostra legge andrebbe a indebolire il sistema: gli rispondo che, da palermitana, conosco bene le gravi conseguenze prodotte dalla mafia sul nostro territorio. Difficile contestarglielo. E anzi, una prima firma del giornalismo italiano come Alessandro Barbano associa alla determinazione degli azzurri la propria passione civile, e ribadisce il concetto: “Bisogna convincere il paese a dismettere tutto l’armamentario dell’eccezionalismo giudiziario, un cancro della nostra democrazia. La pena inflitta a un innocente è un’ingiustizia, ma per chi è stato già assolto è un assurdo, perché”, fa notare Barbano, “è un’ingiustizia ordinata non per errore ma per legge. Ecco cosa sono le misure di prevenzione: il diritto dei cattivi. Lo stesso usato dopo il 1861 per disfarsi del brigantaggio, e poi dal fascismo per colpire i dissidenti. Non è contemplato dalla Costituzione, eppure il doppio binario è stato perpetuato da una legislazione emergenziale che nell’ultimo decennio ha toccato l’apogeo del giustizialismo”. Poi in Sala Nassiriya c’è Pietro Cavallotti. Che non si sottrae ai propri meriti e parla con realismo misto ad amarezza: “Se siamo qui oggi è per la fatica impiegata da noi, da chi come me e Massimo Niceta ha perso tutto. Da una parte ne sono orgoglioso, ma dall’altra ne ricavo frustrazione, perché la politica avrebbe dovuto arrivarci da sola, capire quali ingiustizie si consumavano dietro le misure di prevenzione e intervenire”. Dopodiché la fiammella accesa nel cuore dell’imprenditore palermitano “non è tanto nelle chances che questa legge ha di essere approvata nel residuo scorcio di legislatura ma”, dice Cavallotti, “nella forza dell’empatia. Gabriella (Giammanco, nda) mi ha confessato che se non mi avesse visto a “Quarta repubblica” mai si sarebbe interessata della materia. I rapporti umani sono essenziali. Gabriella mi ha detto di insistere: non so come farò. Devo lavorare, ma se non insisto il mio lavoro è finito”. Se c’è uno Stato che ritiene di essere giusto, dovrebbe farsi carico lui, dell’impegno di Cavallotti, subito. Ha capito, ministra Marta Cartabia? Fare del Tribunale per i minorenni il luogo dell’esecuzione: è questa la vera riforma di Riccardo Greco* Il Dubbio, 20 gennaio 2022 Nella riforma civile un nuovo equilibrio fra Tribunale per i minorenni e Tribunale ordinario. In versione più estesa rispetto all’analisi pubblicata sul Dubbio nell’edizione cartacea di domani, il presidente del Tribunale per i minorenni di Bari illustra alcuni dettagli del ddl civile finora sottovalutati, e che disegnano un nuovo “rivoluzionario” equilibrio nel riparto di competenza fra i presìdi propri della giustizia minorile e i Tribunali ordinari. La riforma del processo di famiglia e l’introduzione del giudice unico hanno suscitato un vivace dibattito, consumatosi in opposte opinioni tra l’apprezzamento incondizionato di alcuni, per lo più professori e avvocati, e le accorate critiche di altri, essenzialmente giudici minorili e operatori dei servizi specialistici. Ora, il clamore iniziale sembra sopirsi in attesa dei decreti legislativi che dovranno dare attuazione alla riforma, ragionando su come trasfondere in norme precettive l’architettura dei principi della delega, e superare le innegabili aporie e qualche errore tecnico che si annida in un articolato complesso e poliforme. È tempo invece di discutere di quel che già si trova definito in una previsione normativa compiuta e di pronta attuazione, quale è quella con cui il comma 28 dell’art. 1 della legge 26 novembre 2021, n. 206 rimodula l’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile. Come la legge stessa prevede, il nuovo disposto si applicherà ai procedimenti introdotti a far data dal 22 giugno 2022, che è il centottantesimo giorno successivo alla data della sua entrata in vigore (24 dicembre 2021). Non è proprio domani, ma è bene attrezzarsi subito rispetto a una modifica che appare essere di portata rivoluzionaria e inciderà sulle scelte processuali nel diritto di famiglia. La nuova disciplina, che apparentemente si adagia sulla formulazione precedente, in realtà la segue fino al limite della cognizione, e anzi l’accresce, ma poi ha un revirement esecutivo che la sovverte con un’intuizione originale. Di fatto, l’articolo 38 riformato si presenta con due previsioni speculari, l’una delle quali fa sua la priorità processuale del T.O., ma l’altra la inverte a vantaggio del T.M.. Naturalmente non si tratta né di una sfida all’ultimo fascicolo per la conquista di una medaglia al merito giudiziario, né semplicemente di una ripartizione dei carichi di lavoro per non lasciare scontenti ora l’uno ora l’altro, di quanto in più si vede attribuito; bensì dell’applicazione strategica di un riparto di competenze, affidato alla ricostruzione sistematica delle funzioni dei due uffici. Ed è proprio questa visione di sistema che introduce alla lettura più intrigante e propositiva della norma. Vale la pena ricordare quale è la caratteristica propria dell’attività del Tribunale per i minorenni. Il Consiglio Superiore della Magistratura l’ha ascritta “al patrimonio di competenze assicurato dall’intera struttura su cui sono imperniati gli uffici giudiziari minorili” per cui “la giustizia minorile non trova il suo proprium nella decisione del contenzioso in quanto tale, ma nella risoluzione di problematiche sociali, familiari, psicologiche, di devianza, di marginalità in genere” con l’ulteriore affermazione che “necessariamente la risposta dello Stato, come da tempo riconosciuto e affermato anche da questo Consiglio, deve costituire il prodotto non dell’agire atomistico dei singoli enti, ma di una programmazione e attuazione integrata delle diverse istituzioni” (dal parere sulla riforma del processo civile - delibera 15 settembre 2021, pag. 54 e s.). È noto che la costituzione del T.M. come giudice specializzato deve questa sua particolare formazione alla presenza dei giudici onorari, i quali, apportatori di competenze metagiuridiche, arricchiscono le conoscenze dei magistrati togati e li contaminano delle proprie professionalità, inducendoli a una caratterizzazione del giudizio in chiave propositiva e incrementativa delle risorse individuali. Il processo minorile, perciò, come ben ha detto il Csm, si individua come percorso di razionalizzazione delle capacità, sviluppandole, riguardo al minore, con una consapevolezza critica verso le condotte devianti e improprie, e impletendandole riguardo ai genitori, in chiave di adeguatezza accuditiva. Dalla constatazione di un pregiudizio si genera una progettualità che tende al superamento di quella condizione negativa. Ne sono beneficiarie le parti, e la decisione che ne regola i diritti è condotta attraverso step progressivi di avvicinamento alla definizione mediante provvedimenti provvisori che fissano tante tappe di realizzazione dei bisogni, fino al loro (sperabile) soddisfacimento. Naturalmente da quando il T.O. si occupa anche di decadenza e limitazione della responsabilità dei genitori, è anch’esso ben attrezzato per la definizione di queste domande, ma sconta sia gli effetti di un radicato approccio culturale sia una limitazione operativa che dipende dalla regole del processo e dalle previsioni ordinamentali. Quanto a quest’ultimo aspetto, è innegabile che il T.O. non è un giudice “dedicato” a trattare i giudizi di famiglia: se va bene, nei grandi tribunali, ci sono sezioni che hanno una competenza propria su questi affari, ma non è mai esclusiva; nei piccoli, si sa, gli stessi giudici si occupano di famiglia appena dopo aver deciso uno sfratto per finita locazione, o un risarcimento danni. D’altra parte le domande ex art. 330 e 333 c.c. sono trattate dal T.O. sempre in connessione con un’altra diversa domanda principale, di modo che quella finisce per essere servente di questa e consuma la sua forza precettiva nella stabilità dell’assetto familiare in cui si risolve il giudizio separativo. In questo senso viene a definirsi anche l’approccio culturale alla decisione, che porta i giudici del T.O. a trattare gli affari di cui si occupa ex cathedra, con la stessa distanza funzionale e il rigore logico con cui è solito applicare i principi di diritto quando distribuisce torti e ragioni e divide i vinti dai vincitori. Come dire? La sua è una pronuncia statica che fissa certamente l’”an” e il “quantum”, raramente il “come”, e comunque quando lo fa lo considera nella fissità dei diritti presupposti, mentre non riesce a definire se è anche “conveniente”. La “convenienza” infatti, attiene all’impatto della decisione nella realtà delle relazioni familiari, ed è mutevole nel modo in cui gli attori di quelle relazioni si muovono nello scenario della vita. Non si dimentichi che le relazioni familiari sono improntate a diritti che definisco “circolari”, nel senso che a un diritto (per esempio del genitore non collocatario a vedere il figlio) si affianca un altro diritto (quello del figlio alla bigenitorialità) in una sorta di corrispondenza biunivoca e non di contrapposizione. Per cui gli esiti tipici processuali, di accertamento o di condanna, sono inadatti di per sé al raggiungimento effettivo del bene della vita perseguito (in ultima analisi la serenità di vita del minore). Quindi le relazioni familiari richiedono una pronuncia dinamica con un giudice che non se ne sta lì, distaccato, seduto sul suo scranno, ma scende sul terreno dello scontro e si sporca le mani avvicinandosi a quella grande meraviglia che è l’animo umano: utilizza le sue risorse, che sono prescrizioni, divieti, indirizzi, limitazioni di responsabilità; ma quando è necessario, lo deve fare attraverso i soggetti della mediazione e del sostegno, i professionisti del welfare, che accompagnano le espressioni di umanità. Il T.O. non sa farlo, non lo fa. Comprensibilmente non può farlo, ed è giustificato dalle ragioni anzidette. Si guardi all’invenzione giudiziaria personificata dal coordinatore genitoriale. Essa è sintesi dell’incapacità del T.O., tanto che la risolve nell’affidamento a un terzo della risoluzione dei micro-conflitti, con una delega più o meno “ad libitum”. È un’invenzione che nella sua essenza è stata sconfessata dalla legge delega, la quale, riferendosi a quell’istituto (senza nominarlo), lo riporta a funzioni consultive del giudice e non regolative dei contrasti (comma 23 lett. ee). Ed è una scelta scarsamente seguita in giurisprudenza perché spesso si tramuta in un non liquet, affabulatore e non risolutore. Il fatto è, ed è cosa nota e deprecata, che ai giudizi di famiglia è mancata fin qui di una procedura specifica di esecuzione. Cosa è cambiato? Credo molto. Fino ad ora l’esecuzione dei provvedimenti di famiglia si è dispersa fra norme concorrenti. Seguendo la Cassazione (sent. 1 aprile 1998, n. 3374 e succ. conformi) si possono invocare due giudici: quello del merito e il giudice dell’esecuzione. A entrambi è rassegnato il compito di stabilire le modalità di attuazione del titolo in questione, con il limite gravissimo però, di risultare inefficaci di fronte all’evidenza di un obbligo di fare incoercibile e del pericolo che l’esecuzione del provvedimento arrechi al minore un danno ancora maggiore rispetto a quello che gli riviene dalla mancata esecuzione del provvedimento stesso. D’altra parte si ricorderà il vivace dibattito che riscosse la discussione parlamentare sul disegno di legge a firma dell’onorevole Pillon, che avanzava l’idea di poter risolvere i casi di c.d. alienazione parentale (quando ancora era espressione utilizzabile), con il collocamento in comunità del minore subornato. Per vero è successo che questa, in alcuni casi specialissimi, sia stata una via effettivamente perseguita, per assicurare un luogo di neutralità e di riparo dal conflitto alienante, restando indubbio, però, che ne è derivata un’ingiusta e sofferta limitazione della libertà del minore. Può dirsi che, fin dalla sua introduzione nel 2006, la scelta legislativa si sia indirizzata a eleggere il 709ter c.p.c. come la norma più efficace all’esecuzione dei provvedimenti. La riforma oggi aggiunge la previsione di una condanna dell’inadempiente al pagamento di una somma periodica (comma 33), che raggiunge meglio l’effetto di sanzionare condotte continuative, con un’incisività aumentata rispetto al pagamento di una somma una tantum. Il metodo si sa è quello delle astreintes, che intendono risolvere con la coercizione indiretta l’adempimento omesso. L’esperienza francese è sicuramente positiva, ma calate nella realtà italiana, le astreintes corrono il rischio di essere poco efficaci di fronte alle pratiche elusive e di occultamento della ricchezza e comunque espongono il minore a un conflitto di lealtà rispetto al genitore a cui è affidato, tale da radicalizzare il suo rifiuto anziché scioglierlo. L’originalità della riforma è la sua soluzione in chiave processuale. L’art. 709ter c.p.c. infatti è ora campo d’azione del T.M.. Esattamente come, per il giudizio di cognizione, la competenza si ripartisce a favore del T.O. in presenza di domande concorrenti con il 330 e il 333 c.c., per l’esecuzione, il riparto avvantaggia il T.M.. E sebbene il presupposto sia, anche qui, l’accessorietà del 709ter c.p.c. alle azioni de responsabilitate, non c’è chi non veda che ogni omissione degli obblighi di fare nelle relazioni di famiglia si presenta come condotta censurabile in termini di decadenza o di limitazione della responsabilità. Cosicché la competenza del T.M. sull’esecuzione dei provvedimenti ex art. 709ter c.p.c. finisce per essere generale. Ecco qui la rivoluzione copernicana. L’idea di attribuire a una regola del processo l’effettività dei diritti, mostra la capacità del legislatore della riforma di raggiungere un equilibrio di particolare saggezza sul filo teso fra due genitori che litigano. Rimettendo al T.M. l’esecuzione dei provvedimenti, si supera la logica ristretta dello “stabilire le modalità”, che fa richiamo alla visione (irrealizzabile) dell’assistente sociale che prende il bambino e lo consegna per le visite al genitore non affidatario, e si accede invece alla funzione proattiva della consueta attività del giudice minorile, che, accompagnando, sostiene, e persegue la consapevolizzazione del genitore renitente. Anche il nuovo testo dell’art. 38 per vero, non riesce a essere di assoluta chiarezza, e involgerà problemi applicativi perché corre il rischio di far tornare a una duplicazione di procedimenti e a competenze parallele. Questo perché, proponibile il 709ter c.p.c. nel corso del giudizio di merito, la causa rimane affidata al T.O. se è lì pendente, mentre la fase esecutiva passa al T.M. sullo stesso oggetto delle relazioni con la prole. E per converso, con effetto “rimbalzo”, la competenza del T.M. sul 709ter c.p.c. quanto all’esecuzione di un procedimento definito, potrebbe ritenersi cedevole rispetto a quella del T.O. se viene proposta dall’altra parte una modifica dei provvedimenti ai sensi dell’art. 710 c.p.c.. In un gioco di riflessi correnti fra due specchi che si fronteggiano, si potrebbe innescare una perversa ricorsa di competenze fra T.M. e T.O. sol che si dia prevalenza alla vis actractiva dell’uno o dell’altro, entrambi legittimati dalla concatenata lettura delle due disposizioni dell’art. 38 in commento. L’importante sarà cogliere la logica di sistema che il nuovo riparto di competenza fra T.O. e T.M. ha inteso dettare, riconoscendo il T.M. come il giudice dell’attuazione dei provvedimenti familiari in ragione della sua specializzazione e della specificità della sua funzione giurisdizionale. Di modo che il riparto non venga ad essere stabilito da una lettura pedissequa della disposizione, nel contorto succedersi delle proposizioni confliggenti, ma dalla logica che l’ha ispirato, così da ritenere il solo T.M. il giudice adatto a una realizzazione degli interessi in gioco, conforme alla disposizione del giudice di merito, ma armonizzata alle condizioni reali in cui si dibatte la vicenda familiare. D’altra parte, la disposizione dell’art. 709ter c.p.c., ha un antidoto di efficacia che, con la sua giusta utilizzazione appare essere risolutivo anche delle antinomie. Come è noto in sede attuativa il giudice applica il 709ter con il potere di “modificare i provvedimenti in vigore” ogni qual volta ricorrano “gravi inadempienze o atti che comunque arrechino pregiudizio al minore o ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento”, per cui attribuita al T.M. l’attuazione del provvedimento di merito, lo potrà anche modificare, adattandolo a quanto serve per la realizzazione effettiva del benessere del minore. La definizione delle domande ex art. 709ter c.p.c., in tal maniera è il grimaldello che dà ingresso al T.M. alla stanza della cognizione: con uno sconfinamento, del tutto originale rispetto alle competenze attuali, il giudice minorile si intrometterà nelle decisioni dei giudizi separativi che riguardano la prole, rendendolo organo di tutela a tutto tondo. La strategia difensiva ne dovrà prendere atto e abbandonare la strada delle modifiche ex art. 710 c.p.c. strumentali a rendere attuabile il provvedimento originario, essendo bastevole l’azione del T.M. che nel tentativo di composizione delle modalità di esercizio dei diritti contrapposti si avvarrà di una completezza decisionale sulla disciplina dei rapporti, e potrà assumere provvedimenti adattativi su quegli aspetti della statuizione originaria che ostacolano la condivisione del regime delle relazioni, favorendone l’effettività. Tale assetto non sarà contingente perché è destinato a sopravvivere anche nel futuro, dopo la sperata (benché improbabile) istituzione del Tribunale Unico di famiglia. In effetti, ai sensi delle lettere b) e c) del comma 24 della legge di riforma, la competenza sull’art. 709ter c.p.c. sarà regolata sempre dall’art. 38 in commento, e quindi a vantaggio delle Sezioni distrettuali; le quali sono immaginate come l’alter ego degli attuali Tribunali per i minorenni, e ne riproducono la stessa capacità di azione. Se pure gli attuali giudici onorari saranno confinati nell’ufficio del processo, potranno addurre con analoga forza mediativa la comprensione delle problematiche e il coinvolgimento delle parti nella progettualità operativa dei servizi socio-sanitari, e con essa, l’arricchimento multidisciplinare della decisione. È chiaro che si tratta di un compito non facile, perché stabilire le condanne nei giudizi di cognizione è una conseguenzialità lineare dell’interpretazione dei fatti, laddove raggiungere l’effettività del bene della vita rispetto ad obblighi di fare che si attuano nella realtà futuribile, è una scommessa da conquistare passo dopo passo. I giudici minorili non si tireranno indietro, sperando che ancora una volta non si sbandiereranno contro di loro le sentenze Cedu, per il solo fatto che non sono riusciti a raggiungere quel che nessuno avrebbe mai raggiunto alle condizioni date. Ma non di meno sarà un lavoro arduo per i difensori, i quali, come fanno sempre, e come ci si aspetta che facciano professionisti specializzati e competenti, condivideranno con i giudici il pathos di soluzioni difficili, e opereranno insieme perché, al di là di ragioni delle parti, più o meno legittime, ognuno abbia il suo e il minore il tutto che gli spetta. *Presidente del Tribunale per i minorenni di Bari Cassazione, Mattarella al Csm per la rinomina di Curzio e Cassano, saranno sei le astensioni di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 20 gennaio 2022 Dopo il no del Consiglio di Stato la conferma del primo presidente. La Guardasigilli Cartabia conferma che la riforma del Csm è pronta. Ma la maggioranza si divide. I simboli contano. Ed è certo di grande rilevanza se oggi, giovedì, alle 10 sarà il capo dello Stato e del Csm Sergio Mattarella a presiedere la seduta in cui saranno riconfermati nel loro incarico il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e la sua vice Margherita Cassano. Mattarella, quando Curzio fu votato al Quirinale il 15 luglio 2020, era presente al consenso (quasi) unanime su Curzio (si astenne solo il laico della Lega Cavanna). Stavolta, dopo il 4 a 2 in commissione, non ci sarà di nuovo l’accordo di tutti sullo stesso Curzio. Finirà, come dice radio-Csm, con 6 astensioni, perché non si sono convinti a votare sì i quattro togati di Unicost, né tantomeno Sebastiano Ardita, che si è già astenuto lunedì nella commissione per gli incarichi direttivi, e con lui l’ex pm di Palermo Nino Di Matteo. Perplessità che non sono tanto sul merito della rinomina, quanto piuttosto sul metodo, sulla “fretta” del nuovo voto. L’importanza della fretta - Fretta che invece, per chi voterà a favore di Curzio, è un elemento determinante di questa partita. Venerdì, domani, si apre in Cassazione l’anno giudiziario e non è neppure pensabile che Curzio ci arrivi delegittimato, bocciato dal Consiglio di Stato, che giusto alla vigilia dell’evento, nel passaggio di consegne tra l’ormai ex presidente Filippo Patroni Griffi (prossimo giudice costituzionale) e l’ex ministro berlusconiano Franco Frattini, deposita una duplice sentenza. Che privilegia la toga della Cassazione Angelo Spirito - napoletano di Unicost e a un anno e mezzo dalla pensione - sia nei confronti di Curzio che della Cassano. Secondo i giudici di palazzo Spada avrebbe qualche anno in più di carriera. Un calcolo matematico che di fatto azzera qualsiasi discrezionalità del Csm nella nomina. La pronuncia è arrivata venerdì scorso, all’insaputa di tutti. Non ne era al corrente il presidente del Cds Patroni Griffi, ed è all’oscuro Mattarella. Una vera bomba. Sulla quale aleggia anche un possibile conflitto d’interessi, perché il giudice relatore Alberto Urso è stato valutato nel concorso svolto tra 2017 e 2018 anche da Angelo Spirito - il ricorrente contro Curzio e Cassano - che era nella commissione decisa da palazzo Chigi. Il sindacato dei giudici amministrativi, l’Amcs, nega il conflitto, nonché il dovere, o quantomeno l’opportunità di un’astensione da parte di Urso. Ma non basta. La bocciatura di Curzio e Cassano arriva non solo dopo quella dell’ex procuratore di Roma Michele Prestipino, ma anche di altri magistrati promossi dal Csm. E l’impressione - come ha detto a Repubblica il segretario di Area Eugenio Albamonte - è che il comportamento di palazzo Spada miri di fatto a bloccare la possibilità per il Csm di essere libero nelle nomine. Tanto varrebbe affidarsi a un algoritmo matematico. Csm da riformare - Ma superato il voto di oggi e le inaugurazioni di domani al palazzaccio di Roma, e ancora il giorno dopo nei 26 distretti giudiziari, il tema sarà proprio la riforma del Csm. Ed è questo uno degli obiettivi strategici che viene affrontato, tra Senato e Camera, dalla Guardasigilli Marta Cartabia che illustra due volte la tradizionale relazione sullo stato della giustizia e che sabato ha scelto Reggio Calabria come sede distrettuale in cui essere presente per la cerimonia di apertura. La ministra - dopo una maratona che dura dalle 9 del mattino alle 8 di sera - ottiene il voto favorevole di entrambi i rami del Parlamento. Finisce con un en plein al Senato - 195 i sì, 25 i no, 2 le stensioni - e alla Camera, con 265 voti a favore, 34 no e tre astenuti. Contro c’è sempre Fratelli d’Italia. Cartabia affronta a 360 gradi i temi del suo dicastero - dai tempi lunghi della giustizia, agli impegni rispettati del Pnrr sulla riforma del processo penale e civile, al carcere, alle donne - ma proprio la coincidenza con il voto di oggi al Csm su Curzio e Cassano ci porta ad estrapolare dal suo discorso la questione del Csm e della sua riforma, cioè la prossima scadenza politica che a questo punto arriverà dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato. Dice Cartabia: “All’appello manca ancora un altro fondamentale e atteso capitolo: la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm, che il presidente della Repubblica e alcune forze politichehanno ancora di recente sollecitato. Gli emendamenti riguardano tra l’altro il sistema elettorale, la composizione e il funzionamento del Csm, il conferimento degli incarichi direttivi, le valutazioni di professionalità, il collocamento fuori ruolo, il concorso per l’accesso in magistratura e il rapporto tra magistrato e cariche elettive”. “Sono certa - dice ancora Cartabia - che nelle prossime settimane potremo progredire nella scrittura anche di questo atteso capitolo di riforma, che il Pnrr ci impegna ad approvare entro il 2022. La Camera ha già calendarizzato la discussione in aula e quella scadenza dovrà essere rispettata. Per parte mia continuerò, come ho fatto nei mesi scorsi e come ben sanno tutti coloro con cui ho avuto interlocuzioni sul tema, a dare la mia massima disponibilità per accelerare il corso di questa riforma e per sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi del governo”. Ma proprio sul Csm si averte già un possibile clima di tensione nella maggioranza. Basta ascoltare le dure parole pronunciate al Senato dalla responsabile Giustizia della Lega, nonché noto avvocato penalista, Giulia Bongiorno. Dopo l’esordio - “È l’ora più buia della giustizia” - Bongiorno affronta il caso della Cassazione e dei vertici bocciati dal Cds, ma confermato oggi dal Csm: “Io non mi schiero - dice alla ministra - ma lei cosa pensa di questi conflitti? Prenda atto che non è tempo di piccoli ritocchi, servono riforme profonde e radicali, il Csm non è una casa che ha bisogno di una tinteggiatura, ma è da demolire e ricostruire”. I colleghi di centrodestra la applaudono. E lei lancia la proposta della Lega: “Serve una legge elettorale con il sorteggio con requisiti iniziali per essere candidati”. Quel sorteggio che non figura invece tra le proposte di Cartabia, ma viene caldeggiato da tempo anche da Forza Italia. Alla Camera lo ribadisce il forzista Pierantonio Zanettin. Bongiorno motiva così la sua proposta destinata ad aprire sicuramente una crepa nella maggioranza: “Le obiezioni al sorteggio è che si premi il fortunato e non il meritevole, ma se oggi il sistema attuale ha premiato i meritevoli, allora io preferirei i fortunati. Il sorteggio elimina il legame con le correnti e la gratitudine dell’eletto”. Se ne riparlerà, a questo punto, dopo l’elezione del capo dello Stato, ma proprio il dibattito sulla giustizia, tra Camera e Senato, mette in evidenza come soprattutto la legge elettorale del Consiglio non possa più aspettare. Lo dice il tesoriere del Pd Walter Verini che sposa il progetto dell’Alta Corte, fuori dal Csm, come ha chiesto tante volte l’ex presidente della Camera Luciano Violante, “con personalità di indiscusso spessore istituzionale che possano giudicare i ricorsi e i provvedimenti disciplinari di tutte le magistrature”. Quindi anche del Consiglio di Stato. E Verini dà un giudizio positivo sul plenum di oggi alla presenza di Mattarella “per restituire i suoi vertici alla Cassazione ‘decapitatì da un’inaspettata sentenza del Cds giunta nell’imminenza dell’inaugurazione dell’anno giudiziario”. Caos Cassazione, la sfida del plenum a Palazzo Spada con il sì della ministra di Simona Musco Il Dubbio, 20 gennaio 2022 Oggi il voto su Curzio e Cassano alla presenza di Mattarella, alla sua ultima uscita (forse) da presidente a Palazzo dei Marescialli. Non sarà un plenum come gli altri quello di oggi. E non solo perché sarà l’ultimo al quale prenderà parte Sergio Mattarella, che presenzierà in qualità di presidente alla riunione forse più complicata di un Csm ormai delegittimato e travolto dagli scandali. Sarà anche una prova di forza, forse l’ultima, di Palazzo dei Marescialli rispetto alla giustizia amministrativa, alla quale replicherà dopo la “sfida” lanciata lo scorso 14 gennaio con l’annullamento delle nomine del primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dell’aggiunta Margherita Cassano, in accoglimento del ricorso di Angelo Spirito. Una decapitazione dei vertici di Piazza Cavour che segue l’annullamento della nomina di Michele Prestipino a Roma e rappresenta, forse, la più plastica metafora della crisi della giustizia. Ma non solo: si tratta anche della riproposizione di una questione sempre aperta, quella circa i limiti del potere discrezionale del Csm. Per giungere all’appuntamento di oggi i passaggi fondamentali sono stati due. In primo luogo, la stesura di nuove motivazioni, operata dai magistrati segretari della V Commissione in circa 70 ore, con lo scopo di colmare le lacune evidenziate da Palazzo Spada. Poi è toccato alla ministra Marta Cartabia, alla quale martedì il deputato di Azione Enrico Costa aveva chiesto un segnale per risolvere il contrasto non nuovo, ma ormai drammatico, tra giudici amministrativi e organo di autogoverno. Il segnale è arrivato lo stesso giorno, con il consueto concerto per la riproposizione di Curzio e Cassano e non una parola in più sulla ferita appena aperta. Insomma, un semplice visto, forse anche per tirarsi fuori da una crisi che solo una riforma potrebbe risolvere. Le motivazioni che oggi verranno sottoposte all’assemblea - 142 pagine dense di numeri e pezzi di vita dei candidati - partono da un presupposto: il Consiglio di Stato, “sollecitando una riedizione del potere del Csm, non ne ha indirizzato la determinazione in un senso piuttosto che in un altro (dottor Spirito, piuttosto che dottor Curzio, o viceversa), limitandosi ad evidenziare che “a fronte di un così considerevole divario quantitativo-temporale nell’esercizio delle funzioni di legittimità”“ tra i candidati, la dichiarata prevalenza di Curzio e Cassano “avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alle conclusioni raggiunte”. Insomma: i giudici amministrativi non hanno indicato quale tra gli aspiranti fosse il migliore, così come fatto nel caso della procura di Roma. Da qui la convinzione di poter approfondire le ragioni che già nel 2020 avevano portato alle nomine, tanto da riproporle con forza, smentendo “l’accusa” di aver disatteso il testo unico sulla dirigenza giudiziaria, la Bibbia di Palazzo dei Marescialli in fatto di nomine. Si tratta, in tutti e tre i casi, di curricula validissimi, praticamente inattaccabili. E sebbene Spirito possa vantare un’esperienza più lunga rispetto ai colleghi, il Csm sottolinea come a prevalere siano i risultati conseguiti in un lasso di tempo inferiore, tali da azzerare ogni distacco in termini di anni di attività.Per la V Commissione Curzio, che in qualità di presidente ha sottoscritto 9.687 provvedimenti decisori, è “senza dubbio”, il magistrato “più idoneo, per attitudini e merito”, ad occupare il posto di primo presidente. Se è vero che Spirito svolge le funzioni di legittimità da più tempo, tale differenza, agli occhi della Direttivi “non appare significativa, in considerazione dell’assoluta padronanza”, da parte di Curzio di tali funzioni. Anche perché Spirito ha sempre svolto funzioni nel solo settore civile mentre Curzio, per oltre un anno, è stato assegnato anche al settore penale, dove “ha redatto numerose sentenze relative a maxi processi di mafia, camorra e ‘ndrangheta”. Anche in merito alla partecipazione alle Sezioni Unite, sebbene comune ad entrambi, la differenza qualitativa sarebbe significativa: Curzio, “proprio a dimostrazione dell’eccellente professionalità dimostrata alle Sezioni Unite, è stato nominato componente delle Sezioni Unite anche come presidente non titolare mentre il dottor Spirito vanta l’esperienza di partecipazione alle Sezioni Unite unicamente in qualità di presidente titolare (la cui partecipazione è assicurata di diritto, e quindi senza una specifica valutazione dedicata)”. Giudizio identico nel caso di Cassano, “indubbiamente la candidata migliore” e capace di vantare “l’assoluta padronanza delle funzioni di legittimità”. La magistrata ha infatti svolto funzioni sia nel settore civile sia in quello penale, contrariamente a Spirito, che ha svolto “sempre ed esclusivamente quelle civili, anche presso l’Ufficio del massimario”. Da qui la più “ampia conoscenza, proprio nello svolgimento delle funzioni presso la Corte di Cassazione, dei diversi settori della giurisdizione”, sviluppando “una completa e poliedrica competenza nelle funzioni tipiche della Corte, dando prova di una non comune versatilità”. Rilevante è anche il dato relativo al numero complessivo dei provvedimenti: Cassano, tra il 2003 e il 2016, ha infatti redatto ben 3236 sentenze (cui sono da aggiungere le ordinanze di Settima Sezione), contro le 1762 di Spirito. Csm, il sassolino di Cartabia: riforma ferma a palazzo Chigi di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 20 gennaio 2022 La relazione in parlamento della ministra della giustizia: continuerò a sollecitare. “Continuerò a sollecitarne l’esame da parte dei competenti organi di governo”. Sta in questa frase, quasi un inciso verso la fine della sua lunga relazione al parlamento sulla giustizia, la risposta che Marta Cartabia dà alla domanda più urgente: che fine ha fatto la riforma del Consiglio superiore della magistratura? Praticamente tutti, forze politiche, operatori della giustizia e soprattutto il presidente della Repubblica (lo ricorda la stessa ministra), e non una sola volta, la reclamano a gran voce. Non è più rinviabile, per una ragione semplice: il prossimo Csm rischia altrimenti di essere rieletto (a luglio) con le vecchie regole che hanno contribuito agli scandali. Eppure quella riforma per la quale una proposta era già sul tavolo a luglio, si è fermata per fare spazio ai nuovi codici di procedura penale e civile. Poi, in autunno, ci sono voluti altri mesi per consentire al ministero di presentare una bozza di emendamenti (al vecchio testo Bonafede). Ma in commissione giustizia alla camera non sono mai arrivati. Fermati a palazzo Chigi. La ministra aveva annunciato che sarebbero stati vagliati da un Consiglio dei ministri di fine anno (tecnica già usata con successo per la riforma del processo penale) ma così non è stato. Di nuovo ne ha parlato con il presidente del Consiglio martedì, alla vigilia della relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario che ha letto ieri al senato e alla camera. È evidente che non è soddisfatta. “Gli emendamenti - sottolinea - sono all’attenzione del governo”. E lei “continuerà a sollecitare”. Oltre questo Cartabia non va. Il disagio traspare ma non c’è una polemica diretto. “Sono solo fatti”, dicono i suoi. Un’interpretazione benevola spiega la frenata con l’intenzione di palazzo Chigi di non esporre la ministra al fuoco delle forze politiche, divise sulla giustizia al punto che metà maggioranza sta per partire per una campagna referendaria avversata dall’altra metà. Perché Cartabia è in cima alla lista delle candidate e dei candidati a sostituire Draghi nel caso in cui il presidente del Consiglio, “nonno al servizio delle istituzioni”, si trasferisca al Quirinale. Può essere vero anche il contrario, e cioè che sia stata proprio la necessità di Draghi di non stressare la sua maggioranza, dovendola invece compattare sul suo nome per il Quirinale, a consigliare di tenere la giustizia nel cassetto. Anche perché non si può dire che Cartabia abbia sciolto tutti i nodi. Sulla legge elettorale per la componente togata della magistratura, sul rientro nei ruoli dei magistrati prestati alla politica e su tanto altro, 5 Stelle, Pd, Lega e Forza Italia sono ancora distanti. Infatti questi emendamenti così sudati in tanti incontri al ministero con i rappresentanti delle forze politiche alla fine, ha detto tempo fa la ministra, “non sono blindati” e dunque potranno essere a loro volta subemendati dalla maggioranza. Se ne parlerà dopo il Quirinale, “va rispettata la calendarizzazione in aula della riforma”. Che però è a marzo. Così comincia a prendere consistenza l’ipotesi che, per poter votare con le nuove regole, l’elezione del prossimo Csm slitti a settembre (data nella quale comunque si insedierebbe la nuova consiliatura). Nel frattempo, nell’intervallo imposto dal voto per il Colle, sia al senato che alla camera si è ascoltato un dibattito sulla giustizia insolitamente pacato. Cartabia ha ripercorso tutti i temi, insistendo su quelli che le sono a cuore: la giustizia riparativa, l’esecuzione penale. Si è impegnata a intervenire sul sovraffollamento dei penitenziari “condizione esasperante” e ha dedicato un pensiero al fatto che proprio ieri a Monza ci sia stato il sesto suicidio in carcere del 2022 (in appena 19 giorni dunque). Anche sul carcere, però, le “sensibilità molto differenti” della maggioranza non l’aiutano e il governo è in ritardo. Proprio ieri alla camera il governo ha mancato nuovamente di far arrivare i suoi pareri sulla riforma dell’ergastolo ostativo, chiesta dalla Corte costituzionale nove mesi fa e fermata dal tentativo 5 Stelle di sterilizzare i richiami dei giudici. Con le prime parole della relazione, prese a prestito da una lettera che le ha scritto la madre di Roberto Moretti, giovane operaio della provincia di Napoli morto sul lavoro a Teramo nel maggio del 2017, per denunciare il blocco del processo di primo grado, la ministra ha richiamato il suo impegno per “riportare i tempi della giustizia entro limiti ragionevoli”. I decreti legislativi che daranno concretezza alle riforme dei codici di rito civile e penale sono tutti da scrivere (entro il 2022 per il Pnrr). Ma intanto, oltre e prima delle riforme c’è “il mandato costituzionale del ministero” che è quello di occuparsi “dell’organizzazione, degli strumenti e degli uomini per far funzionare la giustizia”. Cartabia ha promesso l’istituzione di un nuovo dipartimento al ministero per avere finalmente dati e statistiche aggiornati. “Oggi - ha confessato - non abbiamo neanche gli elementi per capire dove sono le maggiori insufficienze del sistema”. Lazio. Suicidi in carcere, dati allarmanti di Maria Sole Lupi castellinotizie.it, 20 gennaio 2022 Intervista al consigliere regionale Capriccioli: “Pensare se il carcere sia davvero la soluzione”. Un tema che da più parti poco si riscontra - dalla TV alla carta stampata, passando per la politica - è quello delle condizioni di vita nelle carceri italiane, comprese quelle nel Lazio, di cui spesso se ne sente parlare solo per fatti di cronaca conclamati. Al problema del sovraffollamento, dei detenuti psichiatrici, del sottorganico del personale, l’inagibilità e le carenze delle strutture e i casi di malasanità penitenziaria, si sono aggiunte nell’ultimo biennio tutte le conseguenze ulteriormente limitative della Pandemia Covid-19 che hanno acuito di gran lunga le sofferenze di chi già vive o viveva “recluso”. Ad evidenziarne le storture interne parlano alcuni atroci numeri sui suicidi. Negli ultimi 2 anni più di 100 persone si sono tolte la vita nelle celle di detenzione in Italia: ben 54 soltanto nel corso del 2021, dei quali almeno 4 sono i casi accertati nella regione Lazio, senza contare le centinaia di tentativi di suicidi che gli agenti di Polizia penitenziaria riescono a sventare. Ha ripreso, infatti, l’iniziativa non violenta dello sciopero della fame dell’esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, e di quanti vogliono aiutarla nel suo nobile gesto, per far sì che possa diminuire nel breve tempo la popolazione detenuta che affolla gli istituti di tutta Italia in condizioni inumane e degradanti mediante la concessione di maggiori misure alternative. Abbiamo chiesto al consigliere della Regione Lazio, Alessandro Capriccioli (di +Europa) - anche lui proveniente dall’area politica del Partito Radicale e da anni attivo sui temi legati al carcere e alla dignità delle persone detenute - di commentare insieme i dati sempre allarmanti sui suicidi e sui tentati suicidi nelle carceri della Regione Lazio a fronte di un sovraffollamento che, sebbene sia persistente, sembra anche diminuire rispetto agli scorsi anni. È notizia recente che già a pochi giorni dall’inizio del 2022 al carcere di Mammagialla di Viterbo ci sono stati diversi tentativi di suicidi bloccati dalla polizia penitenziaria. Due in particolare, i suicidi già avvenuti da inizio 2022 che fortunatamente non hanno interessato le carceri laziali. Come commenta questi dati? Quali sono, secondo lei, quelle condizioni soggettive e materiali che provocano malessere all’interno degli istituti e possono portare ai terribili casi di suicidio? “In Italia si contano in media tra i 50 e i 60 suicidi all’anno dagli anni 2000. I numeri ci dicono che ci sono una serie di condizioni che favoriscono una serie di tentativi di suicidio e purtroppo anche di suicidi riusciti. Una di queste è l’isolamento. Nella grande percentuale dei casi questi episodi avvengono nelle celle di isolamento” nonostante, afferma il consigliere: “psichiatri e psicologi ci hanno spiegato quali sono gli effetti dell’isolamento sulle persone soprattutto in un contesto carcerario. L’isolamento dovrebbe essere usato con estrema cautela in casi del tutto eccezionale. Ad oggi anche negli istituti del Lazio l’isolamento è la principale sanzione disciplinare che viene erogata ai detenuti per qualsiasi mancanza di cui sono responsabili all’interno del carcere. Il sovraffollamento è un’altra causa incentivante di tali condizioni psichiche critiche. Ha affermato: “Io ho visto luoghi nel Lazio in cui c’erano 7 persone in una cella e materialmente non potevano stare in piedi tutti insieme. Se 4 stavano in piedi 3 dovevano stare a letto o farsi una partita a carte. Ho visto condizioni strutturali terrificanti, Faccio un esempio: nel carcere di Cassino c’è un’ala del carcere che è sprofondata nel terreno ed è stata chiusa. Tramite quell’ala si accedeva al campo sportivo e adesso non vi si può più accedere. Nell’ isolamento nei mesi invernali c’era un grado polizia penitenziaria e persone detenute con guanti e cappello”. Lei pensa che il suicidio in carcere sia qualcosa di endemico, ossia esiste perché esiste il carcere, oppure secondo lei può essere evitato con validi meccanismi di prevenzione, di diagnosi e cura per i soggetti più deboli? “Indubbiamente il sovraffollamento e le condizioni di vita precarie, soprattutto in determinati istituti, aumentano le difficoltà e sono fattori di rischio particolarmente gravi, ma il punto è che il carcere è concettualmente un luogo finalizzato a generare disperazione. Aldilà di alcune felici eccezioni che ci sono oggi in Italia, il carcere è una struttura afflittiva, psichiatrizzante e finalizzante a una forma di annullamento dell’essere umano. È proprio il concetto di carcere in sé che può avere una serie di conseguenze pesanti”. Ha aggiunto: “Aldilà del battersi sul migliorare le condizioni di vita nelle carceri, secondo me occorre fare una riflessione di fondo sul concetto di carcere: il carcere serve allo scopo per cui lo abbiamo individuato?” si chiede il consigliere Capriccioli facendo riferimento allo scopo rieducativo - meglio se si parla di reinserimento - della nostra Costituzione. “Un’altra parola che dice la nostra Costituzione è la parola “pena”, che significa nella lingua italiana dolore e sofferenza, afflizione. È evidente che il carcere lo sia. E non può meravigliarci che il suicidio sia una delle soluzioni più facili rispetto ad altri luoghi. La riflessione da fare è se noi riteniamo davvero che il carcere sia lo strumento che ci serve per far sì che la persona non torni a commettere reato e possa essere reintegrata socialmente”. “Anche se noi ci svegliassimo domani mattina- prosegue il consigliere Capriccioli - e tutte le carceri della regione e del paese fossero senza quei limiti che conosciamo, ossia senza sovraffollamento, con situazioni strutturali ottimali, con la temperatura giusta senza quell’area di decadimento (umidità e infiltrazioni), comunque io mi aspetterei che all’interno di quei luoghi episodi come i suicidi continueranno ad essere più frequenti rispetto ad altre condizioni. Perché la condizione carceraria- nelle migliori condizioni possibili- è comunque una condizione di afflizione e di limitazione della libertà e dunque veicolo di disperazione. Inoltre, con i dati a disposizione, sappiamo che le carceri non stanno creando sicurezza per i cittadini, perché le percentuali sulla recidiva sono altissime, e lo facciamo con uno strumento che crea dolore, disagio e anche suicidi” ha concluso il consigliere regionale. Consigliere, si trova d’accordo con Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria che ha di recente affermato in una nota: “Noi riteniamo che servirebbero almeno due settimane in carcere ai nostri politici per comprenderne appieno le storture, la disorganizzazione e i molteplici deficit noi riteniamo che ne servirebbero almeno due ai nostri politici per comprenderne appieno le storture, la disorganizzazione e i molteplici deficit”? Come vede il mondo della politica, anche tra i suoi colleghi della Pisana, in rapporto al carcere? “Tranne qualche eccezione il mondo della politica lo vedo completamente indifferente alla questione carceraria. C’è una piccola parte di persone che su questo nutrono un’attenzione, c’è una grande maggioranza che non gli importa nulla, ma c’è anche una parte di persone che non conosce questo tema. Nel Consiglio Regionale del Lazio c’è una buona sensibilità sulla questione carceri e ci sono colleghi e colleghe che, compatibilmente ai loro impegni, sono attenti e attente. Abbiamo poi un Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasìa, straordinario. Siamo molto fortunati ad avere un garante così che abbiamo votato (al suo secondo mandato ndr) in aula con grande soddisfazione. Il panorama generale del paese è disarmante, c’è un pezzo di politica che va avanti al grido buttiamo la chiave e poi c’è una grande indifferenza. Inoltre il carcere è un tema complicato e scomodo che pone questioni conflittuali, ma le istituzioni devono affrontarle”. Cosa sta facendo o cosa potrebbe fare la Regione Lazio per migliorare le condizioni di vita nelle carceri e abbattere il tasso dei suicidi? Ci sono i fondi per farlo? Dalla Regione Lazio alcuni fondi sono stati messi. Grazie a un mio emendamento abbiamo stanziato 600.000 euro per la digitalizzazione delle carceri che è un fatto importante per dotare gli istituti penitenziari della banda e delle apparecchiature per i collegamenti. È chiaro che noi dovremmo fare di più sul piano delle attività trattamentali dei detenuti oltre l’università, la scuola, la digitalizzazione. Ogni cosa che si fa non è mai sufficiente e spero che faremo sempre di più. Tutta la parte strutturale - ha spiegato Capriccioli - non attiene alla Regione ma al ministero della Giustizia”. Ha aggiunto: “È bene sostituire un carcere decadente con un carcere funzionale, ma l’obiettivo non è quello di costruire nuove carceri e di più belle perché comunque resterebbero un serbatoio di dolore, di disperazione, marginalità e inefficienza nel trattamento delle persone che hanno compiuto dei reati. Nel nostro paese sono state sistematicamente costruite carceri che dopo due anni cadevano a pezzi come nel periodo delle carceri d’oro dei primi anni ‘90 (Velletri, Viterbo, Frosinone)”. Ha incalzato Capriccioli: “Il tema di lotta politica è un altro. La maggior parte delle persone che sono in carcere non dovrebbero stare in carcere, sarebbe più efficace trattarli in altro modo. Le misure alternative sono la soluzione su cui spingere perché funzionano meglio e svuotano le carceri di disperazione e sofferenza a beneficio di tutti. Un’altra misura su cui puntare è il lavoro”, ha concluso il consigliere che ha voluto ricordare una riflessione di Luigi Manconi, ex senatore del Partito Democratico. “Manconi lo spiega in modo esemplare. Il sistema carcerario è fatto in modo da identificare i detenuti con il loro reato. È evidente che questo è un sistema che non porta da nessuna parte. Come si fa a recuperare una persona che nel momento in cui arriva in carcere viene identificata con il reato che ha commesso? E ancora di più, con un sistema di trattamento che annichilisce la persona?”. Ivrea. Detenuto di 71 anni muore di Covid giornalelavoce.it, 20 gennaio 2022 In seguito ad uno screening sono saltati fuori altri due detenuti “positivi”. Un detenuto della casa circondariale di corso Vercelli, A.F., di nazionalità italiana, è morto oggi di Covid all’ospedale di Ivrea dov’era stato portato ieri d’urgenza in seguito ad un forte malore. Aveva 71 anni e non era vaccinato, si presume per scelta. Subito è scattato uno screening nella sezione presso cui l’uomo era alloggiato e domani si procederà con tutte le altre. Due le persone risultate positive. Nessun “contagio” tra il personale. Il virus sarebbe entrato nell’Istituto attraverso i colloqui con i famigliari o con gli avvocati. Torino. La resa di una professionista capace e molto impegnata di Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 20 gennaio 2022 La solidarietà del Centro europeo di studi penitenziari alla dottoressa Rosalia Marino. Articoli, manifestazioni, sit in, pubbliche dichiarazioni, convegni, seminari, tavole rotonde, interrogazioni parlamentari e tante altri modi per denunciare una politica gestionale dell’esecuzione penale a tutti gli effetti fallimentare. Qui Italia, regione Piemonte, città di Torino, dove una incomprensibile sordità emerge a fronte di denunce quotidiane sul malfunzionamento delle carceri. Quando queste segnalazioni si alternano pure a notizie di torture, suicidi, morti per assenza di assistenza medica, cronica inadeguatezza edilizia delle strutture detentive, sovraffollamento e fughe dagli istituti, tutto ciò sembra non scalfire più di tanto un apparato consolidato che sulla carta dovrebbe garantire con il suo alto ufficio il rispetto della norma Costituzionale. In questo caso, il fin troppo nominato articolo 27 della Costituzione appare quello tra i più trascurati e negletti dalle istituzioni segnatamente nella norma che indica che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È di questi giorni la notizia dell’abbandono della dottoressa Rosalia Marino, professionista capace e molto impegnata nel suo lavoro, che ha rinunciato a proseguire l’incarico di direttore in missione della casa circondariale Lorusso e Cutugno, il carcere delle Vallette, il più complesso penitenziario del Piemonte con un indice di affollamento altissimo. Arresasi alla possibilità di poter migliorare le cose per varie carenze sia in risorse umane che mezzi, non sentendosi di fatto supportata nella sua azione di recupero della stessa dignità di servizio pubblico che anche il sistema penitenziario deve poter assicurare a tutti i cittadini, ancorché detenuti, non percependo un sincero sforzo di sostegno e di conforto verso la sua metodica e progressiva azione di cambiamento, ha preferito tornare alla sua dirigenza della pur non facile realtà di Novara, ove anche il contesto territoriale la supporta e sostiene. ‘In verità - ha affermato la Marino - questa è stata la seconda volta che il Dap mi ha chiesto di venire a Torino come reggente. La prima fu nel gennaio 2014, per pochi mesi, dopo l’omicidio- suicidio costato la vita a due agenti di polizia penitenziaria. Un incarico difficile ma che ho accettato perché credo nel cambiamento e nella funzione rieducativa della pena’. Ciò che sorprende e rammarica di questa scelta è la resa per sfinimento: decisione che sempre più appare agli occhi di chi scrive quale conseguenza di uno sforzo immane di attraversare un mare insidioso di inefficienze antiche e indifferenze attuali le quali, a motivo della loro forza incessante, soffocano la corretta e normale conduzione di un carcere che non dovrebbe mai discostarsi dal rispetto del dettato costituzionale. È grave per ciò che esprime nel profondo delle coscienze la rinuncia della dottoressa Marino perché apre complessi interrogativi sul dove far risalire le annose responsabilità che, in un modo o nell’altro, investono i più disparati settori: da quelli tecnici, riguardanti l’ambiente edilizio, fino a quelli organizzativi e politico programmatici nazionali e della sanità regionale. In tanti anni di inefficienza e trascuratezza, peraltro in presenza sul territorio di consulenti e osservatori, puntualmente presenti a convegni e commissioni di studio come esperti di architettura penitenziaria, è legittimo domandarsi quale attenzione abbiano mai apprestato, ostentando doverosamente all’opinione pubblica l’esito delle loro competenti osservazioni, alle condizioni detentive che i mass-media hanno diffusamente raccontato. Soprattutto quando avessero avuto la possibilità di effettuare visite e sopralluoghi presso il reparto di Osservazione psichiatrica del carcere torinese. Una sezione, quella del Sestante, destinata alla prevenzione e al riconoscimento del disagio psichiatrico nelle sue varie forme. Settore destinato al trattamento dei disturbi collaterali riconosciuti, che ci risulta essere oltre modo inadatto da un punto di vista sanitario, ambientale e dei diritti del malato (risultando indifferente la condizione di persona detenuta), avendo tra le altre inefficienze stanze con il letto e il sedile in cemento fissati a terra, con gabinetto in vista, pare senza acqua calda e privo di un sistema di riscaldamento efficiente. Ambiente poco diverso da una gabbia per animali. Cosa può avere impedito, in tutti questi anni, a riportare ad un minimo di umanità e cura chi dalla vita è escluso per malattia? È lecito che addirittura le stesse istituzioni pieghino a condizioni bestiali delle persone detenute violando quei principi recitati solennemente nei paludati luoghi di dibattito pubblico che imporrebbero il recupero del ristretto, la cura e i diritti umani? Capiamo come sia difficile prestare il proprio impegno e servizio, quando si interpreti il proprio lavoro come una missione e lo si voglia compiere, anche per pudore istituzionale, con discrezione. Capiamo come sia difficile dare corpo e anima a norme e regolamenti, non poche volte interpretati “al ribasso” dai decisori più alti del momento: insomma quello del direttore penitenziario è tra i lavori più difficili, giocato tra la sensibilità umanitaria e la deontologia professionale. Speriamo che gli esempi consumati della dr.ssa Marino e dei tanti direttori che fanno il possibile per migliorare lo stato delle cose, seppure fiaccati dallo sconforto del combattere in solitudine, abbiano la forza di rimuovere le garantite indifferenze. Alla stessa, nel frattempo, anche a nome del nostro Centro Europeo di Studi Penitenziari, esprimiamo la nostra solidarietà. *Vice Presidente Cesp-Europa Ferrara. Avvocati preoccupati per il carcere cittadino. “Intervenga il Ministero” La Nuova Ferrara, 20 gennaio 2022 Camera penale e Osservatorio chiedono si faccia chiarezza Dopo il focolaio scoppiato e il decesso del detenuto No vax. Chiedono informazioni, che pur richieste nei giorni scorsi, non sono state fornite. Sulla situazione sanitaria all’interno del carcere cittadino, “esplosa” pubblicamente e diventata nota grazie al racconto della Nuova Ferrara per un focolaio di infezioni che ha coinvolto 25 agenti di polizia penitenziaria e una ventina di detenuti, tutti positivi, e uno di questi, detenuto No vax convinto, è morto lunedì mattina al Sant’Anna. Così, dopo aver appreso la notizia, Camera penale ferrarese e Osservatorio carcere cittadino hanno manifestato ed espresso “la propria forte preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare”. Spiegano che “grazie ad organi di stampa che hanno riportato la notizia si è appreso del detenuto sessantenne, non vaccinato, deceduto presso il locale ospedale a seguito di un’infezione da coronavirus”. E ricordano i due organismi forensi che la notizia era corredata anche da “riferimenti a un focolaio che sussisterebbe nella Casa Circondariale di Via Arginone, dove sarebbero stati colpiti sia detenuti che agenti: in particolare 25 di questi ultimi, positivi e vaccinati, sarebbero già tornati in servizio”. Bene, si trattava di informazioni che giravano da giorni in città, e adesso - scrivono gli organi forensi - “in attesa di avere dati ufficiali, che abbiamo già richiesto da giorni, chiediamo quali iniziative il Ministero e la politica tutta intendano prendere per tutelare adeguatamente la salute di tutte le persone, libere e detenute, che si trovano in carcere a Ferrara e non solo e che poi, inevitabilmente, interagiscono anche con il mondo dei liberi”. Un appello dunque affinché si faccia chiarezza, si diano informazioni precise, neutre e in tempo reale, a chi - i legali - lavora a stretto contatto con il carcere e i detenuti per via dei processi in corso e assistenza difensiva. Ma non si fermano qui Camera penale e Osservatorio carcere, da sempre in prima linea sui diritti dei detenuti, poiché analizzano e sottolineano che “ancora una volta, purtroppo, si ha l’impressione che le carceri italiane siano considerate e siano diventare luoghi di cittadinanza di serie inferiore, ove ammalarsi, suicidarsi o morire per carenza di cure adeguate rappresentano una sorta di pene accessorie, o fanno parte del trattamento penitenziario”. Sarno (Sa). Giuseppe incendiò la collina, ora fa il volontario nel bosco di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 20 gennaio 2022 La ministra Cartabia cita il ragazzo (18 anni) come esempio di giustizia riparativa. Due anni fa appiccò il fuoco: 20 ettari di vegetazione distrutti e 300 persone evacuate. A 16 anni, per una bravata con gli amici, appiccò il fuoco al monte Saretto, a Sarno: l’incendio fu devastante, con 20 ettari di vegetazione distrutti e 300 persone evacuate. Oggi Giuseppe di anni ne ha 18 ed è una persona diversa: ha chiesto scusa ai suoi concittadini e, dopo avere intrapreso un difficile percorso di rieducazione, è stato assolto; ora è un volontario, impegnato proprio nella ricostruzione e nella salvaguardia del bosco devastato. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha citato proprio il suo caso come esempio di giustizia riparativa al termine della sua relazione alle Camere sull’amministrazione della giustizia, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2022. “L’incendio del bosco vicino alla cittadina - ha detto Cartabia - aveva messo in grave pericolo gli abitanti. Rabbia e paura hanno attraversato la comunità alla scoperta che all’origine del rogo c’era un gesto sconsiderato di un loro concittadino. Il colpevole ha scontato la sua pena, ma all’uscita dal carcere come tornare in quella comunità? Un percorso di mediazione - ha proseguito la ministra - ha portato l’autore del reato e la sua famiglia prima ad incontrare l’amministrazione comunale, poi l’intera collettività. Incontri in cui gli abitanti hanno raccontato il loro vissuto, ma hanno anche ascoltato le scuse, cariche di vergogna, di chi aveva provocato quel drammatico evento. Quell’uomo ha contribuito a ricostruire il bosco distrutto e con questo gesto ha impresso un nuovo corso alla sua vita, riaccolto nella sua comunità”. Quell’uomo è in realtà un ragazzino già messo a dura prova dalla vita: ha perso prematuramente la madre a causa di un tumore, gli sono saltate due dita di una mano dopo avere raccolto per strada un petardo inesploso. Ma, grazie anche al suo difensore, l’avvocato Walter Mancuso, Giuseppe è riuscito a invertire il cammino che aveva intrapreso e che avrebbe potuto farlo finire chissà dove. Giuseppe, oggi la ministra ha parlato di te alle Camere per dare un segnale di speranza: sei contento? “Sì, certo. Me lo hanno detto e mi sono emozionato”. Una volta tanto una storia di cronaca nera finisce bene… “Infatti adesso sono libero, lavoro in un bar, aiuto mio zio. Non voglio pensare a come poteva finire”. Se ripensi a quel giorno di settembre del 2019 che sentimenti provi? “Eh… potevo far morire tutti i miei parenti, tutta la famiglia di mia madre che abita lì vicino… La nonna, gli zii…”. Ti sei reso conto subito che il fuoco appiccato per scherzo si stava diffondendo, poi hai anche cercato di spegnerlo? “In un punto ci sono riuscito, nell’altro no e poi non ho potuto fare niente, ho rischiato pure di ustionarmi gravemente. Ma i vigili del fuoco li ho chiamati io”. È successo un disastro ma poteva andare ancora peggio... “Io penso che è stata mia madre dal cielo che mi ha voluto salvare e che poi mi ha fatto cambiare vita. Dev’essere andata così”. Tu sei stato anche in carcere, ad Airola… “Sì, è stato brutto, non ci voglio tornare mai più”. Eppure, pensa, un carcere minorile è molto meno duro. Altrove si sta molto peggio... “Lo so, me lo hanno raccontato alcuni amici, ci sono le guardie che ti vengono a picchiare. No, non ci voglio tornare più”. Adesso come ti senti? “Bene, sono contento di lavorare. La ragazza non ce l’ho ma prima o poi vorrei avere una famiglia mia, dei figli”. Hai già cominciato a lavorare nel bosco, sul monte Saretto? “No, l’avvocato mi ha spiegato che la pratica è andata a buon fine, aspetto che mi chiamino loro. Penso che adesso faccia troppo freddo per salire in montagna, immagino che aspetteranno che il tempo migliori un po’”. La conclusione positiva della storia di Giuseppe è fonte una soddisfazione enorme per l’avvocato Mancuso, che ha assunto la difesa del giovanissimo indagato solo in un momento successivo all’arresto e che è riuscito a imprimere una svolta inattesa al processo: “Ringrazio - sottolinea - il Tribunale dei minori di Salerno, che accettando la richiesta di messa alla prova per Giuseppe ha preso una decisione tutt’altro che scontata. La pena prevista per il reato di incendio doloso è molto alta e probabilmente altri magistrati avrebbero deciso di tenere il ragazzo in carcere. Invece è andata bene e il fatto che la ministra Cartabia abbia parlato di questo caso alle Camere è un segnale importante e incoraggiante. Importante è anche che il ragazzo sia stato perdonato dalla sua comunità, già fortemente provata dall’alluvione del 1998”. La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane recensione di Giovanni Iozzoli carmillaonline.com, 20 gennaio 2022 Se le immagini del massacro di Santa Maria Capua Vetere hanno giustamente provocato un impatto forte sull’opinione pubblica - anche perché inedite, nella loro sconvolgente evidenza - la messaggistica interna tra le guardie risulta altrettanto potente ed esplicita. Pochi bit che raccontano un mondo nascosto, normalmente sottratto allo sguardo della “pubblica opinione” e improvvisamente rivelato nella sua vergognosa nudità. A parlare, in quei messaggi, non sono aguzzini professionali: solo i normali “padri di famiglia” in divisa, che sentono come legittimo e connaturato al loro ruolo, l’esercizio della violenza organizzata e impunita. La mattina del 6 aprile 2020, con il paese in lockdown e 13 morti freschi per le rivolte di marzo in diversi istituti italiani, un commando di centinaia di agenti irrompe nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, con il pretesto ufficiale di una operazione di perquisizione generale delle celle, mettendo in atto una mattanza che passerà alla storia, contro decine di detenuti inermi. L’autore, con pochi tocchi, senza retorica, lasciando parlare i resoconti giudiziari e le testimonianze raccolte nel corso del suo lavoro di avvocato, rovescia sul lettore tutta la forza del racconto di questa rappresaglia: denti, costole e teste rotte, una umiliazione reiterata sui corpi per spezzare gli spiriti. E’ un’operazione a freddo, costruita a “bocce ferme”, ragionata e pianificata: all’Istituto Francesco Uccella nei giorni precedenti non c’era stata alcuna “rivolta”, solo qualche elemento di insubordinazione, assolutamente pacifico e rientrato in 24 ore, da parte di detenuti terrorizzati dalle notizie dei primi contagi in carcere; una protesta civile che rivendicava un diritto, evidentemente ritenuto un lusso inadeguato per dei detenuti: tamponi e mascherine per tutti, ricoveri in ospedale per i malati. E’ qui che nasce la decisione di reagire con spropositata fermezza: non il tentativo di prevenire il fantasma della rivolta, ma la volontà di piegare i detenuti, mortificarne la volontà, ricondurli al loro ruolo di sotto-uomini, indegni di occuparsi persino della propria vita, della propria salute, indegni del diritto alla presa di parola collettiva - colpa, quest’ultima, ritenuta addirittura più pericolosa delle vere e proprie rivolte. Il massacro è “ferino” - come giustamente lo descrive l’autore. Ad una macchina collettiva evidentemente ben oliata - personale ordinario e squadre speciali costituite ad hoc dal Provveditore regionale -, si unisce la frustrazione e il sadismo di singole guardie che, nelle immagini trasmesse a reti unificate, eccedono persino al loro mandato: segno che la divisa, il filo spinato e il potere di vita e di morte su un detenuto, possono trascinare chiunque nella logica del lager, qualora le circostanze lo richiedano. “Lo spettacolo della punizione, il dispositivo pornografico intorno al supplizio, si attivarono più di un anno dopo, con la pubblicazione delle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza dell’Istituto. Quei video ribaltavano l’ordine della percezione: dalla totale indifferenza a una curiosità quasi morbosa. Quando gli urti dei manganelli cominciarono a rimbalzare da un canale all’altro, da un sito all’altro, il paese sembrò accorgersi per la prima volta dei problemi del mondo penitenziario e del livello di violenza che aveva investito gli istituti di pena durante la prima fase dell’emergenza sanitaria.” (pag.8) La visita di Draghi e della ministra Cartabia, il 14 luglio, presso l’Istituto Francesco Uccella, evocò l’idea di un tardivo e pomposo esorcismo. Si volle dare all’opinione pubblica l’idea di trovarsi davanti ad una tale eccezionalità, da giustificare la mobilitazione straordinaria dell’esecutivo. Si volle comunicare sgomento, presa di distanza, rammarico e il solenne impegno all’umanizzazione del pianeta carcere. Il messaggio per le platee televisive era chiaro: negli istituti di pena italiani non erano mai accadute cose del genere e mai più sarebbero accadute. Naturalmente, la storia dei circuiti carcerari italiani racconta la versione esattamente opposta: il sistema si fonda sulla violenza quotidiana, continua, sistemica, mirante alla sottomissione del detenuto; o sulla rappresaglia - militare o burocratica - come naturale esercizio di potere. Santa Maria Capua Vetere non è una sfortunata eccezione - un corto circuito di “abusi e soprusi”, come ipocritamente lascia intendere Draghi (ben sapendo che la violenza è arrivata da una parte sola): Santa Maria Capua Vetere è eccezione solo nel senso che alcuni meccanismi di autotutela e copertura dell’istituzione, in quel contesto, non hanno funzionato. Come è stato possibile, che il carcere, luogo chiuso e separato per eccellenza, si mostrasse esposto in tutta la sua scandalosa essenza? Alcune anomalie lo hanno permesso. Forte della sua internità all’inchiesta, l’autore le enumera tutte: un magistrato di sorveglianza che fa il suo lavoro, mettendosi contro l’amministrazione, le divise e le consolidate omertà interistituzionali; il coraggio di detenuti minacciati di morte eppure indisponibili al silenzio; la mancanza di discrezione e metodo nella gestione del massacro - evidente segno di impunità -; fino alla fatale dimenticanza che lascia attivate le telecamere interne. Insomma, l’anomalia del massacro della Settimana Santa va ricercata nel normale funzionamento dei meccanismi di tutela dei detenuti - magistrati e videosorveglianza - che, ordinariamente, non tutelano un bel niente. Quindi è la “normalità”, ad essere anomala, straordinaria, in grado di produrre il terremotogiudiziario e mass mediatico che ha sconvolto il Francesco Uccella. Bastonare i detenuti come deterrenza, creare situazioni di finta tensione per esercitare rappresaglia e vittimismo di corpo; spostare la gestione di un carcere sul piano militare, sussumendo in questa dinamica il personale direttivo civile - anche quello amministrativo e medico, purtroppo sempre complice: questa è la normalità italiana. L’autore rimarca un altro elemento di riflessione importante: è vero, in un certo senso, che tra le mura di un carcere, tutti - anche il personale di custodia - sono in galera, con la pesantezza e i condizionamenti propri dell’istituzione totale per eccellenza; però non bisogna mai dimenticare che detenuti e secondini vivono questa condizione di sofferenza in modalità molto differente. Il carcere si rivela irrimediabilmente come luogo “conteso”, in cui ora dopo ora, metro dopo metro, si misura un rapporto di forza tra due parti. Ad esempio: le celle aperte in sezione sono provvidenziali per non impazzire, ma rappresentano un carico di stress e lavoro in più per le guardie (con qualche paradossale elemento di rivendicazionismo sindacale da parte di queste ultime, che vedono in ogni elemento di umanizzazione della struttura, un surplus di “prestazione lavorativa”). Quindi, l’ideologia un po’ melensa del “siamo tutti sulla stessa barca” viene mostrata in tutta la sua contraddittorietà: un istituto di pena non è mai una comunità di eguali e la rivolta è spesso stata, nella storia italiana, l’unico linguaggio consentito ai prigionieri. Quello che viene dalle carceri italiane, almeno per chi ha voglia di recepirla, è una lezione che parla all’intera società: il dentro e fuori sono solo illusioni ottiche prodotte da muraglioni e filo spinato. L’Italia ha un problema storico con i suoi corpi armati: non solo con quelli preposti alla custodia in carcere, ma anche con le altre “forze di polizia”. Le sirene golpiste del passato, gli abusi in divisa del presente, sono un gigantesco promemoria per un paese che finge normalità civile e costituzionale, salvo scoprire, periodicamente, che alcune decine di migliaia di uomini armati, appartenenti a corpi diversi, possono in qualsiasi momento sospendere le garanzie costituzionali, in questo o quel contesto sociale, il più delle volte senza subirne le conseguenze. Quando si legge del tentativo orchestrato goffamente a Santa Maria Capua Vetere di inventare a tavolino un piano di rivolta “sventato dal provvidenziale intervento del personale operativo”, non possono non tornare in mente le molotov confezionate alla Diaz e tutto il campionario gaglioffo di alibi e bugie (vedi i referti medici falsi) che spesso le forze di polizie sanno mettere in campo. Il carcere è solo lo specchio deformato del normale ordine sociale. Un libro prezioso, che si legge in un fiato, scritto da un avvocato e dirigente di Antigone - quindi con il massimo di competenza e internità possibile - che contribuirà a tenere aperta una ferita che troppi, a quasi due anni dalle rivolte e dalle stragi, vorrebbero frettolosamente chiudere. Non può esserci oblio, su quello che è accaduto nelle galere italiane in quei due drammatici mesi di primavera; non deve esserci normalizzazione, in assenza di Verità e Giustizia. Né è possibile dimenticare la quantità di morte, alienazione, disagio psichico e malattia, che il sistema dell’esecuzione penale in Italia continua a riprodurre, qui e ora, quotidianamente, con costi umani e sociali altissimi. Ecco: i libri come questo, ci ricordano che i morti non sono statistiche e i detenuti non sono numeri di matricola. Luigi Romano, “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane”, Monitor Edizioni, Napoli 2021, pp. 77, € 8,00. Umanità perduta fra quattro mura. Una riflessione sul sistema carcerario in Italia di Marco Impagliazzo La Nuova Sardegna, 20 gennaio 2022 Il recente film di Leonardo Di Costanzo, “Ariaferma”, con Toni Servillo e Silvio Orlando, girato nell’ex carcere San Sebastiano di Sassari, fa riflettere sul sistema carcerario in Italia. La pandemia, che oggi stiamo ancora attraversando, al suo inizio provocò indirettamente una rivolta nei penitenziari, alimentata in gran parte dalle confuse notizie di quei giorni. “Non hanno niente di degno da fare, i detenuti - scrisse allora Adriano Sofri - dunque hanno molto tempo per pensare”. “Si chiedono se si ammaleranno e moriranno. Se qualcuno darà loro delle mascherine. E che distanza ‘sociale’ si potrà tenere nella loro discarica, dove le distanze si misurano in centimetri. Saremo soli, si dicono. Senza famiglia, senza operatori, senza volontari - senza”. Proteste e tumulti si verificarono in una cinquantina di strutture tra il 7 e l’11 marzo 2020, mentre in Italia scattava il primo lockdown. Lo abbiamo già dimenticato, ma in quei giorni morirono quattordici detenuti. “Le galere - ha scritto qualcuno - sono, in una pandemia, il luogo più somigliante alle case di riposo, le RSA”. Lasciamo da parte per oggi quel che si potrebbe dire ancora sulle RSA, nonostante i meritori sforzi del ministero della Salute. E guardiamo all’universo penitenziario. Le carceri, spesso sovraffollate, in ambienti vetusti - pensiamo al dramma dei suicidi dei detenuti ma anche degli agenti della polizia penitenziaria - sono a tutt’oggi un mondo provato, in cui reclusi, familiari, operatori, personale operante sentono il peso degli effetti, non solo sanitari ma soprattutto ambientali, causati dal virus. Occorre quindi, prioritariamente, lasciare la possibilità dei colloqui con le famiglie, di un rapporto con i volontari e non bloccare le attività appena riprese dentro il carcere. E garantire questi diritti osservando in modo stretto le misure di prevenzione anti Covid. Si respirano una stanchezza e un abbattimento generali. “Qui (in carcere) non c’è niente da ridere” - dice il capo dei detenuti Lagioia, interpretato da Silvio Orlando in Ariaferma, a un giovane recluso. La protesta è spesso muta, la rabbia è vinta da un sentimento di rassegnazione. Ancora il film: “Nessuno ti ha detto che in carcere non si piange? Asciugati la faccia”. Eppure, da quel mondo si levano voci che chiedono di essere ascoltate. Non pretendono l’impossibile o l’ingiusto, ma sperano che sia vero, anche per chi è oltre le mura, quel che si diceva mesi fa: “Ne usciremo migliori”. È necessario superare tutto ciò che di sbagliato era già all’opera dietro le sbarre prima della pandemia e che il Covid-19 ha esasperato. Occorre meno distanza e più socialità. Che si traduce in meno disperazione e più speranza, meno solitudine e più accompagnamento. Vuol dire anche lavoro - dentro e fuori dal carcere -, scuola, percorsi formativi e professionali, tant’è che per molti l’uscita significa incertezza, non sapere dove andare, reti sociali e familiari infragilite. Per questo grande è il valore del volontariato, il suo essere “ponte” tra un passato fatto di sbagli, a volte anche gravi, a volte più lievi, e un futuro che può essere come quello di tutti. È quel che emergeva su “Avvenire”, qualche giorno fa, quando si citava la lettera che un detenuto, Claudio, indirizzava a una volontaria: “La tua vicinanza mi fa sentire parte di un mondo talmente sopito da non ricordare più l’umanità che giaceva in fondo al mio essere e che tu, con la tua positività e la tua umanità, hai risvegliato a tal punto che non voglio più che si addormenti”. Tanti detenuti conservano e mostrano ai volontari lettere, biglietti di auguri, mail, oggetti, come segni preziosi di vicinanza, ma anche segnali che manifestano la preoccupazione per un futuro sospeso. Claudio ci ricorda che, in realtà, è desiderio di tutti uscire da una condizione di chiusura e di torpore, per scorgere insieme un orizzonte differente in cui nessuna istituzione sia “totale” in senso deteriore, ma piuttosto aperta e positiva, come del resto la Costituzione e il senso d’umanità ci impongono. La campagna per Manconi al Quirinale: “Un presidente contro le ingiustizie” di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 20 gennaio 2022 La candidatura al Colle lanciata da un gruppo di intellettuali e attivisti. “Una figura radicale sì, ma in grado di unire”, è il senso del ragionamento di chi, tra scrittori e attivisti, negli ultimi giorni ha avanzato la candidatura di Luigi Manconi alla Presidenza della Repubblica. Con un curriculum incentrato sul rispetto dei diritti umani, il nome Manconi fa breccia nel cuore degli intellettuali. Un po’ meno in quello dei partiti. “Sarebbe un Presidente di cui andare fieri, uno a cui scrivere lettere, un politico che ha usato la politica per cercare di mitigare le ingiustizie”, ha scritto su La Stampa la scrittrice Elena Stancanelli. Manconi è considerato un punto di riferimento nel mondo dell’attivismo. Ex senatore, prima con i Verdi e poi con il Pd, è stato anche sottosegretario alla Giustizia e presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani. Da anni si fa portavoce delle battaglie a tutela dello stato di diritto, come nei casi Regeni, Uva e Aldrovandi. Di recente ha aderito alla campagna per la cannabis legale e per legalizzazione dell’eutanasia. “Ha tenuto sempre insieme due priorità che ormai procedono di solito disgiunte: la battaglia per il riconoscimento e la tutela dei diritti civili, anche quelli che ancora non sono riconosciuti, e la sensibilità per la giustizia sociale. Tutta la sua vita è stata fedele a questi principi senza mai le sbavature a cui gli uomini politici ci hanno abituati”, dice Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino. D’accordo anche la scrittrice Valeria Parrella: “Quando ho cominciato a pensare a chi potesse essere il prossimo presidente della Repubblica ho pensato a Luigi Manconi. Un uomo che ha raccontato gli ultimi e di come questi possano essere presi in carico della società”, ha detto intervistata su La7. Da anni il nome di Manconi circola tra i papabili per il Quirinale. Christian Raimo fu tra i primi, nel 2015, a proporre il suo nome. A sette anni di distanza alla lista si sono aggiunti non solo attori, scrittori e intellettuali, ma anche attivisti e semplici cittadini. I partiti, invece, non hanno mai preso sul serio la questione. Difficile che decideranno di farlo proprio stavolta, ora che nella partita per Colle la sinistra - che di Manconi potrebbe essere il principale sponsor - è costretta a giocare di rimessa. Altrettanto improbabile è che il centrodestra a trazione leghista decida di accettare un nome del genere, specie se sarà Matteo Salvini a giocare il ruolo di kingmaker. La ragionevole proposta di Luigi Manconi al Quirinale di Ascanio Celestini Il Manifesto, 20 gennaio 2022 Il valore di un intellettuale lo misuriamo quando ci mancano le parole. E per dire quel che non riusciamo a spiegare le cerchiamo tra quelle dette da qualcun altro. Lavoro da due anni a uno spettacolo su Pasolini e sono due le domande che mi fanno sempre: chi l’ha ucciso? Cosa avrebbe detto oggi? Alla prima rispondo con il risultato del processo e le parole che Graziella Chiarcossi disse in un’intervista, cioè che c’è “un’unica certezza: l’assassino non era da solo”. La seconda domanda è più sbarazzina perché è declinata in molti modi. Tipo: come si relazionerebbe con internet e in particolare con tutto il suo universo video, dal cinema d’autore al porno? Che posizione prenderebbe rispetto ai migranti? Cosa direbbe di Berlusconi e Grillo? Meloni e Salvini? Trump e Biden? Putin e Xi Jinping? Fortunatamente Pasolini è nato nel 1922 e se oggi fosse vivo avrebbe cento anni. Dunque è probabile che sarebbe poco lucido e nessuno gli darebbe retta. E se invece non fosse rimbambito? Continuerebbe a far discutere, a prendere posizioni scomode come fece con aborto e divorzio. O quando chiese di processare “Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani”. O quando disse agli studenti che avrebbero dovuto tradire la loro classe borghese, fare la rivoluzione con le classi subalterne e andarsi a riprendere il Pci. In aggiunta a queste domande il mio interlocutore conclude quasi sempre dicendo che oggi non esiste un intellettuale come Pier Paolo Pasolini. Sono tutti opinionisti televisivi o sbarcati nella rete, servi del regime. Così mi tocca fare almeno una piccola lista di persone che non sono affatto di questa specie. Alcuni li ho intervistati in questi anni per capire come raccontare il presente fuori o dentro il teatro. Per esempio Franco Lorenzoni, il maestro che quarant’anni fa ha fondato ad “Amelia” la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa. O Christian Raimo che da qualche anno è impegnato anche come politico sui generis nel territorio del III Municipio romano. Uno di loro, lo storico Angelo D’Orsi candidato sindaco di Torino, è anche l’unico che io abbia mai sostenuto per un’elezione. Ovviamente c’è padre Alex Zanotelli che è tornato dall’Africa per evangelizzare l’Europa e sta in prima linea per il disarmo, per l’acqua pubblica a partire dal Rione Sanità dove è venuto a fare il missionario. E poi c’è Luigi Manconi. Ieri lo stesso Raimo lo ha indicato come la persona che vorrebbe vedere al Quirinale perché “ha un’evidente credibilità istituzionale. Da Presidente in carica della Commissione dei diritti umani al Senato ha svolto un’attività esemplare su temi delicati come il carcere, l’immigrazione, la questione della discriminazione dei rom, il diritto alla cura, le tossicodipendenze…”. E io sono d’accordo! Il valore di un intellettuale lo misuriamo quotidianamente quando ci mancano le parole. Per chiarirci i pensieri, per dire qualcosa che non riusciamo a spiegare dobbiamo andarle a pescare tra quelle dette da qualcun altro. Penso alla paura crescente che proviamo nei confronti dei più poveri. Non io o il lettore di questo articolo, forse. Non precisamente. Ma “noi” abitanti della parte ricca del pianeta. Manconi mi spiega che questo fastidio nasce dal rimosso. Quella operazione psichica che ci porta a respingere le immagini che ci provocano angoscia, sensi di colpa. Per esempio “il rom rappresenta in qualche misura, magari la più esile, la più arcaica, una parte di noi e della nostra esperienza di esseri umani” mi dice in un’intervista di un anno fa. Ma questa “rimozione è un’operazione vana perché ciò che essi rappresentano… la follia, la marginalità, la devianza, la trasgressione, la decadenza, l’impoverimento, l’indebolimento sono tutte esperienze che noi potremmo fare. Sono tutte condizioni di vita che stanno dentro la nostra vita e le nostre relazioni di vita”. Ecco perché troviamo Manconi accanto a Ilaria Cucchi nella battaglia per suo fratello Stefano. Perché qualcuno lo ha definito “tossicodipendente in fase avanzata, anoressico e sieropositivo” e lo ha rimosso, ci ha fatto credere che la sua storia non ci interessava. Per lo stesso motivo lo troviamo accanto alla mamma di Federico Aldrovandi, ai genitori di Davide Bifolco e alla moglie di Michele Ferulli. Lo vediamo battersi per mettere in mare le navi che vanno a salvare i migranti e anche per raccogliere i soldi utili alla causa di Riace e Mimmo Lucano. Lo ritroviamo nella battaglia per una legge seria contro la tortura, per il superamento dei campi di concentramento che chiamiamo carcere, manicomio, campo nomadi. Sì, anche per Abolire il Carcere che è il titolo di un libro che ha scritto con Anastasia, Calderone e Resta. Non è una provocazione, ma il tentativo di rimettere al suo posto una questione che viene troppo spesso rimossa. Quando consiglio di leggere quel che c’è scritto mi capita di sentirmi rispondere “non faccio manco la fatica di comprarlo un libro con quel titolo”. E io so per quale motivo. Perché troppe persone hanno paura di essere d’accordo con Luigi Manconi e le sue ragionevoli proposte. Gherardo Colombo: “La pandemia ha fatto esplodere la rabbia, ma ora i giovani vanno aiutati” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 20 gennaio 2022 Tre giorni fa Gherardo Colombo ha partecipato a un incontro pubblico su “legalità e sicurezza” a Voghera, la cittadina pavese dove le due categorie sono andate in cortocircuito la sera del 20 luglio scorso, con l’uccisione con un colpo di pistola del marocchino Youns El Boussettaoui da parte dell’allora assessore leghista alla sicurezza Massimo Adriatici. E se pure l’ex magistrato, volto storico del pool di Mani Pulite, saggista e giurista, non intende entrare nel merito di quei fatti - “Non esprimo nessun giudizio, c’è un’inchiesta in corso della procura” - si dice oggi preoccupato dei tanti fatti di cronaca, che vedono sempre più protagonisti giovani e adolescenti, com’è successo a Roma e Milano. Colombo, cosa sta succedendo nelle nostre città? “Fino all’anno scorso, i reati contro la persona che incidevano sul nostro senso di sicurezza, come risse, lesioni, omicidi sono sempre progressivamente calati. Oggi io temo che questa tendenza si sia invertita, credo che presto anche le statistiche lo diranno”. Quali sono le cause? “Credo che quella principale vada individuata nella pandemia. Oltre al disastro sanitario, c’è quello che ha colpito le relazioni sociali. Tra individui, ma anche all’interno delle famiglie. Il Covid ci ha costretto a una convivenza forzata per tre mesi abbondanti, un periodo in cui si incontravano soltanto le persone che erano in casa con noi. Questo ha esasperato rapporti che potevano essere curati semplicemente con la possibilità, allora era negata, di poter andare a fare un giro”. Da quel primo lockdown è passato ormai molto tempo... “Ma da allora a livello sociale è cresciuta tantissimo la rabbia. Un rancore che si esprime in tanti modi e attraverso tanti canali. Temo che anche il fenomeno dei No Vax abbia a che fare con la crescita del rancore tra i cittadini. In più, nei mesi più caldi del contagio, c’era il sospetto che l’altro potesse essere portatore del virus, succedeva di guardarsi male reciprocamente. Oggi vedo un legame tra l’aumento dei reati, forse anche di quelli contro il patrimonio, con un forte senso di insoddisfazione personale, con la difficoltà di avere un rapporto sano con gli altri”. Tutto questo ha inciso in modo particolare sui più giovani... “I danni tra gli adolescenti sono ancora più visibili. La Dad non sempre è stato uno strumento utilizzato al meglio, e comunque nell’età della crescita la mancanza di contatti fisici sta facendo tanti guai. Non è tanto sbagliato vedere nella perdita di socializzazione per il Covid la causa dell’aumento di episodi di violenza tra i giovani”. Vede una via d’uscita? “L’unica strada è lavorare sulla ricostruzione delle relazioni con l’altro. Il rispetto della legge dev’essere condiviso, quanto più s’impone una regola con la coercizione tanto più diventa complicato farla rispettare. A nessuno di noi piace essere obbligato. La legge è fatta perché le persone siano più sicure, ma le osserviamo soltanto se siamo convinti. Se invece ce l’abbiamo con tutto il mondo perché siamo in crisi o perché la pandemia ci ha sballato le relazione coi parenti o coi compagni di classe, va a finire che non rispettiamo le regole. Per questo dobbiamo tornare a ricostruire il senso di una comunità. Ma non è mica facile”. Il caso di Voghera ha mostrato come si sia cercato di risolvere un problema di disagio sociale con l’ordine pubblico... “Ribadisco che non parlo di inchieste in corso. Quello che posso dire è che legalità vuol dire anche attenzione ai più deboli. Uno dei capisaldi della nostra Costituzione, l’articolo 3, parla di “pari dignità” delle persone senza alcuna distinzione. Ogni individuo è degno come un altro”. Questo ci impone di rivedere i nostri modelli di sicurezza? “Molte cose nel nostro ordinamento sono coerenti con la Costituzione. Non lo è invece la situazione delle nostre carceri. Il settanta per cento di chi torna libero commette nuovi reati. Il carcere produce insicurezza”. Voghera racconta anche i danni provocati da un uso disinvolto delle armi… “Più armi ci sono in giro più è facile commettere reati e uccidere. Basta confrontare il numero di omicidi in Italia e negli Stati Uniti. Sentirsi sicuri è anche sapere che le persone non si ammazzano tra loro. Deve crescere la cultura del rispetto tra di noi”. È ottimista? “Non molto. Il lavoro da fare è davvero tanto perché la situazione è molto grave, non solo in Italia ma anche in altri Paesi europei. Si deve lavorare nelle scuole, ma anche sui mezzi di comunicazione, che sono pieni d’odio. Penso non solo ai social, ma anche a molte serie tv, dove la violenza è ostentata e molto apprezzata. E alla fine si finisce per esercitarla”. Congo. Attanasio, dalle indagini una “svolta” con tanti dubbi di Matteo Giusti Il Manifesto, 20 gennaio 2022 Dopo l’annuncio dell’arresto nel Kivu del Nord dei presunti assassini dell’ambasciatore. Dei sei uomini esibiti dalla polizia solo due sarebbero coinvolti. Debole l’ipotesi sequestro. Dal Congo arriva quella che sembrerebbe la prima svolta nelle indagini sull’attentato che quasi un anno fa costò la vita all’ambasciatore Luca Attanasio, al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. Sei uomini ammanettati, quasi tutti scalzi e seduti per terra sono stati presentati dal generale Aba Van Ang, capo della polizia della provincia del Kivu del Nord, alla stampa locale e fra questi ci sarebbero anche i presunti assassini dei nostri connazionali e dell’autista del World Food Programme. Dal comandante della polizia e dal governatore militare della provincia il Tenente Generale Ndima Kogba Constant sono stati descritti come criminali abituali facenti parte di tre bande differenti che delinquono da tempo nella zona. L’autore materiale degli omicidi sarebbe però il capo di un gruppo criminale chiamato “Aspirant”, che resta ancora a piede libero, ma la polizia locale si è detta certa di catturarlo a breve perché a conoscenza dei suoi movimenti. Secondo alcuni giornalisti presenti alla conferenza solo due degli arrestati sarebbero coinvolti nell’attentato ai nostri connazionali, mentre gli altri sono accusati dell’omicidio di un uomo d’affari congolese e di attacchi ad altri operatori umanitari. Questi fanno parte di un gruppo ribelle chiamato Balume Bakulu noto per i numerosi rapimenti nella zona e, sempre secondo le autorità militari del Kivu, avrebbero voluto chiedere un riscatto di un milione di dollari per il diplomatico italiano. Secondo una prima ricostruzione della polizia il capo della banda “Aspirant” avrebbe sparato all’ambasciatore Luca Attanasio e questo avrebbe fatto crollare il piano che prevedeva il sequestro. Ai media locali non sono state presentate prove e nemmeno modalità e tempistiche dell’arresto. Per il momento ci sono solo le dichiarazioni del comandante della polizia che non ha spiegato come questi arrestati siano stati individuati e se ci siano delle confessioni o dei collegamenti chiari con l’omicidio dell’ambasciatore italiano. Se verranno riconosciuti colpevoli, gli arrestati rischiano la pena capitale. L’ipotesi del rapimento era stata quella caldeggiata dagli inquirenti congolesi fin dall’inizio, ma continua a non sembrare quella più probabile. Non perché siano rari i rapimenti in Kivu, che anzi restano all’ordine del giorno, ma perché manca completamente una rete organizzativa che possa gestire una trattativa lunga e complicata come quelle per il rilascio di un ambasciatore. Il presidente della Repubblica democratica del Congo Felix Tshisekedi nel maggio scorso aveva già parlato di arresti, ma erano sembrate solo frasi di circostanza, mentre oggi il nuovo governatore del Kivu del Nord ha presentato l’operazione con grande risonanza. Cosa strana il silenzio del governo di Kinshasa, che non ha subito rivendicato l’operazione come un successo, ma sembra molto dubbiosa su come muoversi. Nelle scorse settimane il Ministero degli Esteri italiano aveva fatto pressioni sul Congo perché il caso non cadesse nell’oblio e dopo poco la polizia locale ha iniziato una serie di rastrellamenti di criminali comuni che agiscono nella zona di Goma e questi arresti sembrano davvero arrivati al momento più opportuno. Manca ancora il capo della banda “Aspirant”, presunto autore materiale degli omicidi, che forse potrebbe aiutare a capire se dietro questo attentato ci sia qualcun altro. Anche il presidente congolese aveva parlato di un mandante che avrebbe orchestrato questo gravissimo atto criminale. Dal Kivu erano rimbalzate voci di gravi difficoltà nelle indagini perché mancavano completamente i fondi per continuare a indagare, in una regione ad altissimo tasso di violenza e omicidi. La magistratura italiana a fine mese dovrebbe emettere i rinvii a giudizio delle due inchieste in atto, la prima per terrorismo e omicidio, la seconda per omesse cautele nei confronti del responsabile della sicurezza del World Food Programme che organizzato il viaggio dei nostri connazionali. Singolare questo colpo di scena della polizia congolese apparsa spesso inerte e che sembrava sicura di aver trovato i colpevoli nel gruppo ribelle Hutu delle Forze di liberazione del Ruanda, poi risultate completamente estranee. Mancano troppi pezzi al puzzle per poter definire chiusa questa tragica storia che anche oggi sembra ritrovarsi in una strada che porta lontano dalla verità. Congo. Attanasio, è il solito depistaggio. Ora l’Italia alzi la voce di Tonino Perna Il Manifesto, 20 gennaio 2022 La lotta per conoscere la verità deve andare avanti: non si tratta solo di arrivare ai mandanti e consegnarli alla giustizia, ma di scoperchiare questo carrozzone che dovrebbe portare gli aiuti alimentari alle popolazioni più impoverite dal nostro modello di sviluppo e che è infettato dal denaro sporco. La notizia che sono stati arrestati gli assassini dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci, e dell’autista congolese Mustapha Milambo, uccisi in Congo il 22 febbraio dell’anno scorso, è il classico dono avvelenato, come per Giulio Regeni, Ilaria Alpi e tanti altri. Si offrono in pasto all’opinione pubblica ed ai governi che reclamano giustizia, dei poveracci, magari ricattati o torturati, o nel migliore dei casi esecutori materiali degli omicidi. Mai i mandanti. Nel caso dell’ambasciatore Attanasio, i mass media italiani ne hanno parlato di nuovo nelle ultime settimane, dopo la testimonianza del congolese Baraka Dabu Jackson, che ha assistito al pluriomicidio, evidenziando il fatto che non si trattava di un gruppo di banditi o di una rapina andata a male, ma di un piano ben organizzato. È una mossa del governo congolese per tentare di far deragliare le indagini che la magistratura italiana sta portando avanti con grandi difficoltà. Innanzitutto, per la mancata collaborazione dei dirigenti del Pam (Programma Alimentare Mondiale dell’Onu), che meriterebbe una seria indagine per capire come vengono gestiti i fondi a cui anche l’Italia contribuisce in maniera rilevante. Mansour Rwagaza, dirigente del Pam per la sicurezza dell’area, aveva espunto dall’elenco dei partecipanti alla missione proprio l’ambasciatore Attanasio e la sua scorta, il carabiniere Iacovacci. Il motivo? Per aggirare, sostiene Rwagaza, le pastoie burocratiche e snellire le pratiche della missione. Peccato che si rifiuti di essere interrogato dai nostri magistrati e si avvalga di una fantasiosa immunità diplomatica, che esiste solo per i funzionari stranieri registrati in Italia. Per tutti gli elementi raccolti finora dalla magistratura italiana la storiella della rapina finita male perché i due italiani volevano fuggire, va rimandata al mittente, cioè al governo congolese e ai dirigenti del Pam che non può continuare a nascondersi. Il governo italiano avrebbe i mezzi per farsi sentire dalle massime autorità del Pam, ricordandogli che siamo tra i suoi primi donatori. Il padre di Luca Attanasio, l’ingegnere Salvatore Attanasio, ha definito la notizia “una bufala a cui nessuno dei familiari ha creduto per un attimo”. La lotta per conoscere la verità deve andare avanti perché non si tratta solo di arrivare ai mandanti e consegnarli alla giustizia, ma di scoperchiare questo carrozzone che dovrebbe portare gli aiuti alimentari alle popolazioni più impoverite dal nostro modello di sviluppo, e che è da troppo tempo infettato da un virus ben più pericoloso del Covid: il denaro sporco. In particolare, il nostro Ministro degli Esteri, on. Di Maio, che ha inviato una bella e lunga lettera il 22 luglio quando intitolavamo un ponte a Reggio Calabria in memoria dell’ambasciatore e della sua scorta, dovrebbe, a nostro modesto avviso, usare ogni tipo di pressione sul Pam per far emergere la verità.