La relazione di Antigone: “I detenuti vivono in condizioni inaccettabili” di Davide Varì Il Dubbio, 1 gennaio 2022 Antigone ha visitato 99 carceri per adulti, più della metà di quelli presenti in Italia: celle senza acqua calda e nel 54% celle senza doccia. E non solo. “Il sistema penitenziario italiano ha bisogno di importanti riforme” lo afferma, in una nota, Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, presentando i dati raccolti dall’Osservatorio dell’Associazione. “Proprio negli ultimi giorni la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, voluta dalla Ministra Cartabia e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo, ha presentato una relazione che contiene diverse proposte. Alcune - prosegue Gonnella - erano state inserite anche nel nostro documento che alcune settimane fa avevamo presentato pubblicamente: dalla previsione di più contatti telefonici e visivi con l’esterno, al maggiore spazio assegnato alle tecnologie; dalla previsione di garanzie nei procedimenti disciplinari nei confronti delle persone detenute, fino all’attenzione prestata alla sofferenza psichica”. “È importante che le autorità politiche e amministrative si adoperino affinché nel più breve tempo possibile possano essere rese operative. Ma è al contempo importante - conclude il presidente di Antigone - che venga bloccata la volontà dell’Amministrazione Penitenziaria di riformare il circuito di media sicurezza, cosa che farebbe fare un passo indietro preoccupante all’intero sistema trattamentale e rieducativo”. Antigone, le ispezioni durante il 2021 - Nel corso del 2021 l’osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione ha visitato 99 carceri per adulti, più della metà di quelli presenti in Italia, da Sciacca in Sicilia a Bolzano in Alto-Adige. Il più grande Napoli Poggioreale, con oltre 2.200 presenze, i più piccoli Lanusei in Sardegna e Grosseto in Toscana, entrambi con 28 presenti. Tra gli istituti visitati alcune delle situazioni più difficili sono state rilevate nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove sono stati registrati in media in un anno 105 atti di autolesionismo ogni 100 detenuti, o nel Lorusso Cotugno di Torino, dove nel reparto Sestante erano ristretti in condizioni inaccettabili 17 pazienti psichiatrici. È inoltre emerso che in un terzo degli istituti visitati c’erano celle in cui i detenuti avevano meno di 3 mq a testa di spazio calpestabile, quindi al di sotto del limite per il quale la detenzione viene considerata inumana e degradante. Nel 40% delle carceri monitorate c’erano celle senza acqua calda e nel 54% celle senza doccia, come sarebbe previsto dal regolamento penitenziario in vigore dal 2000. Mentre in 15 istituti non ci sono riscaldamenti funzionanti e in 5 il wc non è in un ambiente separato rispetto al luogo dove si dorme e vive. Altro dato importante è il fatto che il 34% degli istituti non abbia aree verdi per i colloqui nei mesi estivi. Se si guarda al personale, sottolinea Antigone, le cose non vanno di certo meglio. Solo il 44% delle carceri aveva un direttore incaricato solo in quell’istituto e solo nel 21% degli istituti c’era un qualche servizio di mediazione linguistica e culturale. In media, nelle strutture che abbiamo visitato, gli stranieri erano il 32,6%. Ogni 100 detenuti erano in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Per quanto riguarda infine il lavoro, in media lavorava nel 2021 il 43,7% dei detenuti ma con un numero di ore lavorate molto basso, come dimostra lo stipendio lordo medio percepito che è di 560 euro al mese. Giustizia: le tre riforme del 2021 e le due mancate di Giulia Merlo Il Domani, 1 gennaio 2022 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha all’attivo due riforme di portata quasi storica (ma mancano i decreti attuativi) come il ddl civile e penale, e una che ha fatto scalpore come il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza. E due riforme mancate: il ddl Zan e la riforma del Csm. Il bilancio del 2021 per via Arenula può dirsi parzialmente positivo. In meno di dodici mesi, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è riuscita ad approvare due riforme di importanza centrale per la conferma dei fondi europei del Recovery. Inoltre, ha approvato il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza che sta creando un dibattito importante all’interno della magistratura per il rapporto tra giustizia e informazione. I due nei riguardano una legge non approvata - il ddl Zan contro l’omotransfobia - e una che avrebbe dovuto essere approvata entro fine anno ma è ancora pendente: il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario che contiene la riforma del Csm oltre che del metodo di promozione dei magistrati. Riforma penale - La riforma dell’ordinamento penale, che contiene anche la riforma del meccanismo della prescrizione, punta a ridurre la durata dei procedimenti penali come chiesto dalla Commissione europea. Il testo di delega al governo, che è già al lavoro per i decreti attuativi, comprende tutte le fasi processuali e punta in particolare sui riti alternativi, la modifica del regime delle impugnazioni e la digitalizzazione. Uno scivolone nell’approvazione è stato dato dal lungo braccio di ferro politico sulla riforma della prescrizione, che ha riscritto in modo sostanziale la riforma approvata dal precedente ministro del Movimento 5 Stelle, Alfonso Bonafede. È la riforma forse più attesa, perché punta a ridurre del 40 per cento i tempi del giudizio civile. La legge delega è molto complessa e comprende una serie di modifiche al rito civile, semplificandolo, ma anche la creazione del nuovo tribunale della Famiglia, in cui confluirà il tribunale dei Minori. Il testo prevede la valorizzazione delle Adr (giustizia alternativa come la mediazione); la semplificazione del procedimento civile, anche stabilizzando le innovazioni tecnologiche; rafforzare il processo esecutivo; semplificazione del rito lavoro; introduzione di un rito unico per il procedimento minorile. Anche in questo caso dovranno essere approvati i decreti attuativi e alcune riforme, come quella della creazione del tribunale della Famiglia, avranno una fase di passaggio prima di entrare definitivamente in vigore. Presunzione di innocenza - Il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza è stato approvato negli scorsi mesi ed è entrato in vigore a inizio dicembre. Recepisce nel nostro ordinamento una direttiva Ue che risale a cinque anni fa e a cui non era mai stata data attuazione. Il tema sembra tautologico, visto che la presunzione di innocenza è prevista in Costituzione, invece il decreto legislativo implementa una serie di norme che hanno l’obiettivo di bloccare il cortocircuito che spesso si crea tra informazione e palazzi di giustizia, ai danni del cittadino indagato. Il testo, che prevede di procedimentalizzare le note stampa e le conferenze stampa, togliendole dall’autonomia della polizia giudiziaria e affidandole alla responsabilità del procuratore capo, sta creando molto dibattito in magistratura. Legge Zan - È stata una delle grandi battaglie perse dal centrosinistra in parlamento. Il governo e il ministero della Giustizia sono state investite solo lateralmente di questa legge e hanno lasciato che lo svolgimento seguisse l’iniziativa parlamentare. La legge prevedeva la difesa rafforzata della comunità Lgbtq+ in caso di violenza connotata dall’omotransfobia. Dopo l’approvazione alla Camera, dove Pd e Movimento 5 Stelle avevano numeri più solidi, la legge è stata bocciata dal Senato per 23 voti, con uno stop di sei mesi che di fatto ha archiviato il testo. Ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario - Il testo della riforma doveva essere approvato - come il civile e il penale - entro la fine del 2021 per rispettare i tempi dettati dall’agenda europea. Invece, nonostante gli annunci, gli emendamenti ministeriali al testo base non sono stati depositati entro Natale. Con il risultato che tutto slitterà a inizio 2022, proprio in concomitanza con la delicata fase politica dell’elezione del capo dello Stato, che rischia di allungare ancora i tempi. La riforma contiene la modifica del meccanismo di assegnazione degli incarichi direttivi degli uffici giudiziari, modifiche di sistema del Csm in commissioni, la modifica dei criteri per l’assegnazione degli incarichi e la procedimentalizzazione di alcuni aspetti professionali. Inoltre, l’aspetto più controverso che ha bloccato politicamente l’iter è la riforma del sistema elettorale del Csm, su cui partiti e gruppi associativi della magistratura sono divisi. In ogni caso, come da auspicio del presidente Mattarella, la riforma dovrebbe essere approvata in tempo per luglio 2022, data in cui il Csm verrà rinnovato. Processi rapidi e giusti per i cittadini niente corporativismi in magistratura di Giovanni Melillo La Repubblica, 1 gennaio 2022 Inutile fingere. La giustizia deve recuperare la fiducia dei cittadini. A maggior ragione in realtà segnate da gravi fenomeni criminali e da profonde diseguaglianze sociali. La magistratura ha la grande responsabilità di realizzare la promessa costituzionale di processi rapidi e giusti, rendendo i palazzi di giustizia luoghi da tutti percepiti come trasparenti, efficienti e accoglienti. Occorre respingere la tentazione delle chiusure burocratiche e corporative ed aprire invece le porte dell’organizzazione giudiziaria ai tanti saperi dell’università e ad una più ampia partecipazione dell’avvocatura. Ve ne è bisogno anche per cogliere appieno il significato della sfida del Piano nazionale di ripresa e resilienza e sottrarsi al rischio che le risorse messe in campo dall’Europa siano disperse, inseguendo dati statistici e risultati apparenti, anziché la qualità della giurisdizione e l’effettività di cambiamenti dei quali soprattutto Napoli e le regioni meridionali hanno bisogno. È il tempo delle scelte coraggiose e di un impegno straordinario. Lo impone la realtà. Da tutta Italia le reazioni alla lettera di Burzi prima del suicidio di Paolo Griseri La Stampa, 1 gennaio 2022 Renzi: “Dovrebbero leggerla tutti”. Calenda: “Un uomo che avrei voluto conoscere”. E il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, fa un parallelo con Sergio Moroni. “Angelo Burzi era un uomo delle istituzioni. Era sotto indagine da anni per accuse che egli giudicava ingiuste. Si è tolto la vita la notte di Natale pensando di fare un gesto che aiutasse la sua famiglia a tornare a vivere. Perché quando sei sotto indagine in quel modo non è facile vivere, specie per chi ti sta accanto. Credo che nessuno possa giudicare ma tutti dovrebbero leggere queste parole. Tutti. Politici, giornalisti, magistrati. Tutti”. Lo scrive Matteo Renzi su Facebook, pubblicando la lettera che ha lasciato Burzi prima di togliersi la vita, sparandosi alla tempia la notte di Natale. Non è che una delle reazioni che piovono da tutta Italia dopo la diffusione della lettera di Burzi in cui si dice “certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse rivolte”. “Per cortesia leggete la lettera di #Burzi. È una testimonianza dignitosa, tragica e spietata. È l’unica cosa che possiamo fare oggi per onorare la memoria di un uomo che avrei voluto conoscere. RIP” ha scritto Carlo Calenda su twitter. “Credo che sia arrivato il momento di rendersi conto che questa guerra - fatta di vittime che perdono la vita, più spesso quella politica e sociale, qualche volta purtroppo anche quella biologica - debba definitivamente concludersi. Che lo spirito giustizialista - che ha dato luogo tra l’altro alla nascita, all’ascesa e al trionfo del M5S - debba finalmente tramontare insieme con il partito che gli ha dato vita” scrive in un post su Facebook il sottosegretario all’interno Ivan Scalfarotto. “La giustizia non ha senso se è amministrata contro qualcuno, da una parte contro l’altra. È in nome del popolo italiano che si emettono le sentenze: tutto il popolo, non in uno spirito di fazione. Ed è per questa stessa ragione che l’accusa da noi non è esercitata come carica elettiva: si chiama “pubblica” l’accusa e “pubblico” il ministero, che è procuratore “della Repubblica”, tutta intera. I reati vanno perseguiti e i colpevoli puniti, ovviamente. L’accanimento e la gogna, però, non sono sanzioni previste dal codice penale. La giustizia raffigurata impugna sì una spada, ma nell’altra mano tiene sempre ben salda una bilancia senza la quale la lama non avrebbe alcun senso. Questo nostro paese ha bisogno di una giustizia giusta. Marco Pannella e i radicali lo dicevano già tanti anni fa, ma se questo è il momento della ripartenza del Paese, il momento per una giustizia giusta è adesso. L’ultima lettera di Burzi non lascia spazio a nient’altro” Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo, fa un parallelo con quanto accaduto a Sergio Moroni, deputato socialista che si suicidò nel 1992. “La cosa più tragica è la perdita di una vita umana che ci riporta ad un’emergenza permanente che si chiama giustizia. Perché la morte di Angelo Burzi e, ancora di più, la difesa che ha fatto il Procuratore Generale Saluzzo di Torino del procedimento quasi decennale che ha affrontato l’ex Consigliere Regionale sono la fotografia di questa emergenza”. “Poche settimane dall’anniversario di Mani Pulite per noi a Milano, il suicidio e la lettera del Consigliere Burzi ricordano terribilmente il caso di Sergio Moroni e la sua lettera al Presidente della Camera - ha spiegato in un comunicato - Una lettera, quella di Moroni, che rappresenta un testamento politico pesantissimo, sia sui tempi e sui modi dei processi che tengono appesi i cittadini ad un destino incerto, sia sullo stigma sociale che la narrazione mediatica determina e che insieme possono davvero rendere disumana la giustizia. Una lettera che andrebbe fatta studiare nelle scuole”. “In questo percorso difficilissimo ci affidiamo alla Ministra Cartabia, che dovrà dimostrare una straordinaria attenzione nel contemperare efficienza dei processi e garanzie processuali per i cittadini, per rendere veloce la giustizia senza intaccarne l’umanità. E penso che lo farà, vista la sensibilità che sta dimostrando sul carcere e sull’esecuzione della pena, a cui si aggiunge la spinta delle nuove norme sulla presunzione di innocenza. La tragedia di Torino, come quella di trent’anni fa di Moroni all’inizio di Tangentopoli - ha concluso -, almeno ci insegnino qualcosa davvero”. “Burzi non si presentò all’udienza per spiegare la sua verità” La Repubblica, 1 gennaio 2022 Così scrive il presidente della Corte di Appello di Torino. In una lettera Edoardo Barelli Innocenti, “rispettando la presunzione di innocenza fino alla irrevocabilità della decisione”, chiarisce le condanne per il consigliere della Regione Piemonte. Sul suicidio del già consigliere regionale piemontese, Angelo Burzi, interviene con una lettera ai media, il presidente della corte d’Appello di Torino Edoardo Barelli Innocenti. Burzi si è tolto la vita la notte di Natale dopo anni di inchieste e processi nel caso Rimborsopoli, lasciando tre lettere. Ecco il testo integrale della lettera di Barelli Innocenti: “In relazione agli articoli di stampa sulla morte per suicidio del dott. Angelo Burzi, già consigliere della Regione Piemonte, fermo restando il dolore per la tragedia umana e pur rispettando la presunzione di innocenza fino alla irrevocabilità della decisione, ritengo doveroso puntualizzare quanto segue: in esito al giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione il predetto dott. Burzi era stato condannato a titolo definitivo per una delle accuse di peculato in relazione alla quale competeva al giudice del rinvio (Corte d’Appello di Torino) solo la rideterminazione della pena. Per le altre accuse questa Corte, rinnovata l’istruttoria dibattimentale, ha assolto il predetto dott. Burzi da una delle contestazioni e confermato nel resto la decisione già presa nel primo giudizio d’appello, riservando le motivazioni nel termine di 90 giorni attesa la complessità del processo. In accoglimento di una istanza della difesa la Corte ha riconosciuto al dott. Burzi la continuazione con precedenti fatti di peculato per i quali lo stesso aveva patteggiato la pena di anni uno e mesi due di reclusione. Nel processo di rinvio il dott. Burzi ha fatto la scelta, come era suo diritto, di rimanere assente e di non sottoporsi all’esame che la Corte, in ossequio ai più recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria, aveva disposto al fine di consentirgli di proporre le sua ragioni a discolpa. Ritengo che tali puntualizzazioni siano utili per la comprensione del caso che tanto clamore ha suscitato e di esse chiedo la pubblicazione con adeguato risalto. Ringraziando per l’attenzione porgo i miei più distinti saluti”. Il 2021 della mafia in Italia tra processi, indagini e politica di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 1 gennaio 2022 La sentenza sul processo Stato-Mafia, quella sul clan romano Casamonica, lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Foggia. Ci sono fatti di mafia che hanno segnato il 2021 di cui si è parlato, altri, invece, sono stati pressoché ignorati. La maggioranza ricade in questa seconda categoria. Difficile sintetizzare un anno di mafia in un solo articolo. Per quanto possa sembrare incredibile ogni giorno del 2021 c’è stato un arresto, un’indagine o un segnale che rivelano quanto sia ancora tentacolare il potere della criminalità organizzata. La maggior parte di questi fatti però non finiscono sui giornali nazionali e a volte finiscono in trafiletti di edizioni locali. C’è una sorta di assuefazione al fenomeno mafioso che sempre più spesso cammina fianco a fianco con episodi di corruzione nella pubblica amministrazione. Si spara meno, certo, ma si spara ancora. Si corrompe molto di più e questo fa meno notizia. Le mafie compiono molti più reati finanziari, alcune cosche si sono specializzate nella fatturazione per operazioni inesistenti che serve anche a riciclare il denaro sporco dei traffici illegali. Sono tutti cambiamenti che hanno portato a un crollo dell’allarme sociale rispetto all’azione delle mafie. Da questo deriva un’errata percezione: nell’immaginario il mafioso è un tipo alla Totò Riina, una belva disposta a seminare il terrore in giro per l’Italia. Tutto ciò che fuoriesce dal perimetro cinematografico di questo tipo di criminale, incarnazione di una mafia sconfitta dallo stato, è difficile da inquadrare come mafioso. Le sentenze - Il 20 settembre 2021, è il giorno della sentenza sui Casamonica, il feroce gruppo mafioso di Roma. Quello dei Casamonica è un clan di mafia, hanno stabilito i giudici del maxi processo che portato alla condanna di oltre 40 imputati a pene complessive che superano i 400 anni di carcere. Le indagini, condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati, partono nell’estate del 2015 e documentando “l’esistenza di un’associazione mafiosa autoctona strutturata su più gruppi criminali, prevalentemente a connotazione familiare”, scrivono gli inquirenti. Il gruppo controlla lo spaccio di tutta l’area sud-est della città, ha nella zona di Porta Furba il suo quartier generale e forti legami con altri gruppi di mafia, a cominciare da Ndrangheta e Camorra. Il procedimento si è avvalso di una collaboratrice di giustizia, per anni parte della “famiglia”, ex cognata del boss Giuseppe, il cui apporto è stato fondamentale per ricostruire i traffici di droga, le attività di usura ed estorsione, le minacce del clan e i ruoli apicali e secondari al suo interno. Il 24 settembre 2021 è il giorno della sentenza d’appello del processo Stato-Mafia. Verdetto che ribalta il primo grado. Assolti gli ufficiali dei Carabinieri coinvolti nel processo. Pena ridotta per il boss Leuluca Bagarella, confermata invece la condanna di primo grado per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. La corte d’assise d’Appello di Palermo ha parzialmente riformato le condanne di primo grado per minaccia a corpo politico dello Stato a carico dell’ex senatore Marcello Dell’Utri, degli ufficiali dei Carabinieri il generale Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno, il generale Antonio Subranni tutti assolti e dei boss mafiosi Leoluca Bagarella (pena ridotta da 28 a 27 anni) e Antonino Cinà (pena confermata a 12 anni). L’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Sergio Barbiera e Giuseppe Fici, alla fine della requisitoria aveva chiesto il rigetto dei ricorsi e la conferma delle condanne di primo grado. La sentenza ha scatenato le reazioni della politica, chi contro, chi a favore, l’antimafia trasformata in una faccenda da ultras dello stadio. Il 30 settembre 2021 in Emilia Romagna è il giorno della sentenza sugli omicidi compiuti dalla ‘ndrangheta nel lontano 1992. Un processo importante perché frutto del lavoro di ricostruzione fatto sulla scia della maxi inchiesta Aemilia, che ha portato a centinaia di condanne e al riconoscimento della ‘ndrangheta emiliana. Nel processo sugli omicidi sono stati condannati all’ergastolo tutti e quattro gli imputati, tra cui il capo supremo Nicolino Grande Aracri. 19 luglio 2021, i giudici della corte di appello di Torino riconoscono che in Valle d’Aosta esiste la ‘ndrangheta e ha fatto grandi affari. In questo processo erano emersi molte connessioni con la politica locale. Il 21 ottobre la sesta sezione del tribunale di Roma ha condannato 16 imputati a 120 anni di carcere per usura, estorsione, riciclaggio, aggravati dal metodo mafioso. Un pronunciamento che porta alla sbarra il clan Senese, guidato da Michele, detto ‘o pazzo, condannato insieme ai suoi uomini per le attività illecite svolte a Roma, ma con affari anche a Napoli, Milano e in Svizzera. Senese è considerato uno dei boss più importanti nel panorama criminale capitolino. Il 28 ottobre 2021 in Calabria è stato condannato in primo grado l’assessore regionale uscente Francesco Talarico (Udc): cinque anni di reclusione per il reato di scambio elettorale politico-mafioso. Talarico, che è stato invece prosciolto dall’accusa di associazione per delinquere semplice aggravata dal metodo mafioso, è stato inoltre interdetto in perpetuo dai pubblici uffici. Nella stessa indagine era stato indagato Lorenzo Cesa, il leader Udc, poi archiviato. Indagini e processi - L’indagine che ha fatto più clamore, seppure poco raccontata dai media, è quella sul contrabbando di petrolio e carburanti, l’affare che negli ultimi cinque anni è il più quotato negli ambienti criminali. ‘Ndrangheta e camorra coinvolte, insieme a una miriade di imprenditori di ogni parte d’Italia. L’operazione era stata ribattezzata “Petrolmafie” e coordinata dalla procura antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Nell’ambito di questa indagine è emerso il ruolo della cosca Mancuso, all’apice delle gerarchie mafiose della ‘ndrangheta. Indagando su di loro però gli investigatori raccolgono indizi anche su degli importanti imprenditori calabresi, i proprietari del famoso Amaro del Capo, che come raccontato da Domani risultano indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. La replica dei titolari è stata netta e sono convinti che l’inchiesta verrà archiviata presto. Oltre alle inchieste che hanno fatto più rumore di altre ci sono una serie di operazioni antimafia quotidiane che hanno portato in carcere capi clan e loro sodali per estorsioni, usura, corruzione, evasione fiscale. Da Palermo a Milano, dal sud al nord. In una di queste, condotta dalla procura antimafia di Milano, è emerso il legame tra imprenditori lombardi e boss, con la particolarità che i primi hanno insegnato ai secondi a evadere il fisco. In Trentino, invece, è iniziato il processo alla ‘ndrangheta alpina: una vasta operazione dell’anno prima aveva svelato la presenza di una cellula radicata della mafia calabrese, che aveva stretto alleanze con imprenditoria locale, professionisti e politici. In Calabria è in corso il maxi processo Rinascita Scott con oltre 300 persone alla sbarra. É il processo su cui Nicola Gratteri ha scommesso moltissimo in termini di immagine e già un filone gli ha dato ragione. Omicidi - L’11 ottobre a Buccinasco, hinterland milanese, un boss del narcotraffico viene ucciso. Buccinasco è un territorio ad alta densità di ‘ndrangheta. Feudo di potenti famiglie della mafia calabrese. Per questo il delitto ha allarmato, seppure non abbia trovato moltissimo spazio sui giornali nazionali. Tutti temevano una guerra di mafia, ma al momento il pericolo sembra scongiurato. Paolo Salvaggio, 60enne di origini siciliane, è stato ucciso con tre colpi di pistola. Era ai domiciliari per una precedente condanna per traffico di droga. Ma aveva il permesso di poter uscire da casa tra le 10 e le 12 del mattino. Salvaggio era considerato un riferimento per il narcotraffico a Milano. Mafia e politica - Ad agosto 2021 il comune di Foggia è stato sciolto per mafia. È il secondo comune capoluogo di provincia, dopo Reggio Calabria, a subire un provvedimento di questo tipo. Il sindaco fino alle dimissioni era il leghista Franco Landella. Se Foggia è il caso più eclatante, è solo uno dei 27 enti locali sciolti per mafia nel 2021. Un dato che indica quanto ancora sia forte e intatto il rapporto tra la politica e le cosche. Seppure non se ne parli più, la questione resta irrisolta. Oltre ai consigli comunali infiltrati dalle mafie a rivelare la complicità tra chi rappresenta le istituzioni e i clan sono le numerose inchieste per voto di scambio. Anche nell’ultimo anno sono state numerose le indagini che hanno fatto emergere di quanto sia richiesta la manodopera criminale per fare incetta di voti e consenso. Il più eclatante è a Latina. Indagato l’europarlamentare della Lega Matteo Adinolfi. I voti li avrebbero raccolti per lui un gruppo legato alla cosca Di Silvio. Nella provincia laziale le indagini sono ancora in corso e sono numerosi i pentiti che hanno parlato dei leghisti che fanno capo a Claudio Durigon, ras del partito a Latina. Lo stesso Durigon ha intrattenuto rapporti, come raccontato da Domani, con uomini sospettati di essere vicini ai Di Silvio. I boss morti - Il 17 febbraio è morto uno dei più pericolosi boss mai esistiti: Raffaele Cutolo, fondatore della nuova camorra organizzata, è deceduto nell’ospedale Maggiore di Parma dove era stato trasferito per l’aggravamento delle sue condizioni di salute. Cutolo ha rivoluzionato la camorra, trasformandola in imprenditrice. Cutolo si definiva così: “Io non sono un pazzo scemo, sono un pazzo intelligente”. Camorrista, ideologo oltre che spietato e crudele. Un boss feroce e visionario. In una delle sue ultime rivelazioni, ha raccontato che avrebbe potuto salvare Aldo Moro, lo statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse. “Per Ciro Cirillo (assessore dc campano rapito e poi liberato grazie all’intercessione di Cutolo e al pagamento di un riscatto alle Br, ndr) si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava”, disse Cutolo. A luglio, il 31, è scomparso Angelo Siino, ribattezzato il ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra. Collaboratore di giustizia che aveva diverse patologie, aggravatesi dopo il suicidio del figlio. Il pentito per anni è stato il braccio economico del boss Totò Riina e ha gestito gli appalti pubblici per conto della mafia. Amante dell’automobilismo, gareggiava soprattutto nei rally usando lo pseudonimo di “Bronson”. Il 29 dicembre è morta Pupetta (Assunta) Maresca, donna di camorra, madrina della malavita partenopea. Moglie Pasquale Simonetti, detto Pascalone ‘e Nola. Nel 1955 si erano sposati, al matrimonio c’erano 500 invitati. Poco dopo Simonetti però è stato ucciso da Gaetano Orlando, legato al rivale storico Antonio Esposito. Esposito e Simonetti erano tra i rappresentanti di una camorra rurale che taglieggiava e imponeva il pizzo sui mercati ortofrutticoli. A vendicare Simonetti è stata la moglie, Pupetta Maresca, che in strada, impugna pistola e uccide Esposito, ritenuto il mandante dell’omicidio del marito. Era incinta e ha partorito in carcere. A Maresca è stata dedicata anche una fiction. Ha sfidato il camorrista Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata, e ha avuto anche alcune esperienze da attrice. Processata, poi assolta, per l’omicidio del professore Aldo Semerari. Monza. Detenuto di 41 anni si impicca in carcere, aveva già tentato il suicidio di Sarah Crespi La Prealpina, 1 gennaio 2022 L’avvocato: “Non è stato monitorato”. Aveva disturbi psichiatrici da tempo, erano conclamati, il Cps lo seguiva e anche in carcere le sue debolezze erano note: il 26 novembre il gallaratese aveva tentato il suicidio nel penitenziario di Monza ed era stato salvato grazie alla pronta reazione di un altro detenuto. Era fuori controllo, impossibile da gestire tanto che lo staff sanitario aveva deciso di sottoporlo al Tso. Il 23 dicembre il quarantunenne si è tolto la vita. Dopo il ricovero era stato era stato collocato in una cella singola, da solo, senza nessuno che potesse monitorare le sue condizioni, i suoi sbalzi di umore. Gli agenti se ne sono accorti quando ormai non c’era più nulla da fare. Hanno provato tutte le manovre rianimatorie possibili, nemmeno il personale del 118 ha potuto fare nulla. Il pubblico ministero della procura brianzola Cinzia Citterio ha aperto un fascicolo sul decesso del quarantunenne, ieri mattina il medico legale Eleonora Burgazzi ha effettuato l’autopsia che ha confermato quanto già era evidente: il gallaratese si è impiccato usando le stringhe delle scarpe, appendendosi alla grata della porta blindata. Il dato di interesse, che al momento non è stato ufficializzato, è l’ora in cui il cuore dell’uomo ha smesso di battere. Il corpo è stato trovato in serata, la direzione della struttura ha assicurato alla famiglia di essersi accorta della tragedia pochi istanti dopo il gesto, ma il padre del quarantunenne non trova pace, c’è un tarlo che lo tormenta: forse, con una sorveglianza adeguata e in un altro contesto, qualcuno avrebbe potuto liberare il figlio da quel cappio prima che gli fosse letale. Martedì il pensionato si è rivolto all’avvocato Francesca Cramis che ha nominato un proprio consulente per l’esame post mortem di ieri e che ha intenzione di andare a fondo di eventuali responsabilità. “Stiamo valutando un’azione civile di risarcimento perché le patologie del detenuto erano risapute e molto serie. Non era il carcere il luogo idoneo per lui ma nessuno ha reperito una comunità in cui collocarlo e seguirlo. Non si è tolto la vita per la condanna, bensì per le manie di persecuzione di cui soffriva. La sottovalutazione delle sue condizioni è più che evidente visto il drammatico epilogo. Non è stato curato come avrebbe dovuto e non è stato monitorato nonostante il tentativo di uccidersi risalente a neppure un mese prima”, spiega l’avvocato. Il quarantunenne era stato portato in carcere a febbraio per maltrattamenti nei confronti del padre e per stalking nei confronti di un’infermiera del pronto soccorso del Sant’Antonio Abate. A luglio era stato condannato perché gli elementi a suo carico erano chiari e provati ma l’avvocato Francesca Gallotti, suo difensore, aveva già presentato il ricorso in Appello. Ormai però il capitolo è chiuso. “Ma se ci sono responsabilità nel decesso vogliamo farle emergere”, conclude Cramis. Santa Maria Capua Vetere. L’aggressione agli agenti fu tentativo di depistaggio di Viviana Lanza Il Riformista, 1 gennaio 2022 Nessuna aggressione da parte dei detenuti. È questa la conclusione a cui è giunta la Procura di Santa Maria Capua Vetere che ha chiesto l’archiviazione dell’indagine nata dalla denuncia, presentata da una ventina di agenti della polizia penitenziaria, contro quattordici detenuti del reparto Nilo, quelli messi in isolamento dopo il 6 aprile 2020 e dai quali partì l’inchiesta sui pestaggi che ha portato invece gli agenti davanti al giudice dell’udienza preliminare che dovrà decidere sul processo. Tra questi c’era anche Lakimi Hamine, il detenuto algerino morto in cella il 4 maggio 2020, un mese dopo il brutale pestaggio e per la cui morte ora ci sono agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria sotto accusa. Sulla richiesta di archiviazione deciderà il gip, e se accolta sarà una ulteriore conferma al fatto che nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere l’unica violenza consumata fu quella commessa dagli agenti contro i detenuti. C’è il sospetto, infatti, che alcuni agenti della penitenziaria abbiano tentato di depistare l’inchiesta sui pestaggi del 6 aprile, provando a far cadere di aver reagito per difesa. La sera prima del 6 aprile c’era stata una piccola rivolta nel reparto Nilo, alcuni detenuti avevano mezzo i materassi all’ingresso chiedendo tamponi e mascherine dopo la notizia dei primi contagi in carcere. La pandemia era appena esplosa e il clima era ovunque molto teso. Ma quella rivolta non sfociò in violenza, rientrò presto. Le indagini, che ora la Procura vuole concludere con un’archiviazione, hanno dimostrato che non ci furono agenti aggrediti, non taniche di olio bollente e coltelli pronti per essere usati contro gli uomini in divisa come qualcuno aveva provato a far credere, e non ci furono aggrediti tra la polizia penitenziaria nemmeno il giorno dopo, quando scattò la “mattanza”. “Potrebbe definirsi un depistaggio di Stato come mattanza di Stato è stata la spedizione del 6 aprile nel reparto Nilo - ha commentato il garante regionale Samuele Ciambriello - Tra i quattordici detenuti, inizialmente sospettati di aver aggredito gli agenti, c’erano sette di coloro che furono messi subito in isolamento dopo le botte e che al telefono mi raccontarono per primi quello che era accaduto e che avevano subìto”. L’11 gennaio riprenderà l’udienza preliminare sul giorno della mattanza. Centootto imputati, cento settantotto detenuti parti lese, oltre trecento avvocati tra difesa e parti civili. Un’udienza dai grandi numeri, un caso più unico che raro nel panorama della giustizia napoletana. Gli oltre cento fra agenti e funzionari della polizia e dell’amministrazione penitenziaria dovranno rispondere, a vario titolo, dei reati di tortura, abuso di autorità alle lesioni, falso in atto pubblico, cooperazione nell’omicidio del detenuto Lakimi Hamine, finito in isolamento e trovato morto in cella a un mese dai pestaggi. Cinquantasei fra i detenuti che il 6 aprile 2020 subirono i pestaggi hanno chiesto di costituirsi parte civile. Stessa richiesta è stata avanzata, oltre che dal garante campano e da quello nazionale, anche da associazioni come Antigone, Il Carcere possibile, e altre che operano in difesa dei diritti dei detenuti. Un caso giudiziario che ha segnato profondamente la storia del sistema penitenziario non solo campano, ma nazionale. A giugno scorso ci fu la svolta investigativa con i capi di imputazione definiti per ciascun indagato e le misure cautelari, a luglio la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il presidente del Consiglio Mario Draghi si recarono di persona nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per osservare la realtà in cui erano accaduti i pestaggi. E il caso ha fatto venire alla luce non solo le singole eventuali responsabilità di chi ha commesso o ordinato i pestaggi, ma le criticità di un intero sistema ormai al collasso. Santa Maria Capua Vetere. Non ci fu aggressione, chiesta l’archiviazione per 14 detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 gennaio 2022 La procura di Santa Maria Capua Vetere crede ai detenuti e incrimina gli agenti penitenziari per calunnia. Ora la palla passa al gip: ecco tutte le novità. La procura di Santa Maria Capua Vetere ha chiesto l’archiviazione per 14 detenuti che erano stati denunciati dal personale della Polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere per le proteste del 5 aprile 2020, che giustificarono il ricorso alla perquisizione straordinaria avvenuta il giorno successivo, 6 aprile, nel corso della quale circa 300 agenti della Penitenziaria sottoposero a pestaggi e violenze i quasi trecento detenuti del Reparto Nilo. Fatti, questi ultimi, che hanno portato all’arresto di poliziotti e funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), attualmente tutti liberi, e all’inizio dell’udienza preliminare, il 15 dicembre scorso, a carico di 108 persone. La perquisizione straordinaria, che il Gip di Santa Maria Capua Vetere definì nell’ordinanza di arresto emessa il 28 giugno scorso “un’orribile mattanza”, fu motivata dai vertici del carcere e del Dap come una risposta alle proteste avvenute il giorno prima, quando alcuni detenuti del Reparto Nilo occuparono i corridoi dopo aver saputo della positività al Covid di un recluso; la protesta rientrò dopo alcune ore, e il giorno dopo nelle celle dei detenuti furono ritrovate, a detta degli agenti, pentolini con olio bollente e spranghe. Ma secondo la Procura quegli oggetti furono messi apposta lì dagli agenti, per giustificare il ricorso alla violenza contro i detenuti. Dopo la protesta furono individuati 14 detenuti quali capi della rivolta e denunciati per resistenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni personali; questi, tra cui l’algerino Hakimi Lamine, furono portati in isolamento. Lamine morì ad inizio maggio 2020 dopo un mese di isolamento e per la sua morte sono indagati in 12 tra ufficiali e sottufficiali della polizia penitenziaria e funzionari del Dap come l’ex provveditore regionale Antonio Fullone (tuttora sospeso dal servizio). Per la Procura (procuratore Aggiunto Alessandro Milita e sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto) quella protesta del 5 aprile non diede luogo però a reati, come denunciato dalla penitenziaria; anzi la Procura ha contestato anche il reato di calunnia ad agenti e funzionari che denunciarono i detenuti, e ora il Gip di Santa Maria Capua Vetere dovrà decidere se archiviare le accuse a carico dei reclusi. Torino. Francesco, il rapper diventato uno “zombie” in carcere, trasferito alle Molinette di Cristina Palazzo La Repubblica, 1 gennaio 2022 Francesco G. non è più in carcere. Ieri pomeriggio il rapper di 27 anni con gravi problemi psichiatrici, arrestato per aver cercato di uccidere il padre lo scorso settembre a Santhià ma che in carcere continuava a perdere peso e a non parlare, è stato trasferito alle Molinette, nel repartino psichiatrico dove continuerà a scontare la pena ma potrà essere curato. Nelle ultime settimane le condizioni del giovane, con una schizofrenia diagnosticata, erano divenute preoccupanti tanto che oggi sulle pagine torinesi di La Repubblica è stato lanciato l’appello dell’avvocato Alessandro Dimauro e della garante dei detenuti Monica Cristina Gallo. “Dobbiamo salvarlo non può accadere di nuovo”, hanno spiegato, il timore era che rischiasse di morire come Antonio Raddi, ma oggi grazie alla rete e alla collaborazione tra le istituzioni il trasferimento è avvenuto. Questa mattina la stessa garante, insieme con il deputato Andrea Giorgis, è andata a far visita a Francesco. Insieme hanno incontrato Francesco, “l’ho trovato leggermente migliorato, più reattivo - spiega Monica Cristina Gallo -. Possiamo affermare che in questo caso la collaborazione ha funzionato. Insieme con la direzione dell’istituto, il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, con la sensibilità della provveditrice Rita Monica Russo e la procura, siamo riusciti ad ottenere il ricovero immediato in sicurezza per Francesco. Abbiamo fatto diverse segnalazioni e questa volta per il giovane la macchina si è attivata nel modo giusto”. Il giovane nelle ultime settimane, ha raccontato il legale, era dimagrito fino a diventare “uno zombie”. Dopo essere stato arrestato, era stato portato nel carcere di Vercelli dove aveva aggredito delle guardie, poi a Torino, reparto Sestante. Da quel momento aveva iniziato a dimagrire, chiudendosi in un “mutismo totale”, così è stato trasferito a inizio mese alle Molinette, nel reparto psichiatrico, per poi dopo dieci giorni tornare alle Vallette. La segnalazione sul suo stato di salute era arrivata anche dal dottor Roberto Testi come medico temporaneamente reggente del carcere. Oggi la decisione del trasferimento nella struttura ospedaliera. “Una decisione accolta con piacere, sia da me che dalla madre - spiega il legale Dimauro -. Di sicuro alle Molinette può essere seguito in maniera più congrua con una terapia ad hoc rispetto al carcere. E chissà se magari questo potrà permettere in futuro di ottenere un parziale recupero di questo ragazzo che conosco da anni. Era però necessario intervenire, le sue condizioni erano preoccupanti per questo avevamo segnalato più volte”. L’attenzione però sulla sorte di Francesco resta alta. “Sappiamo che il trasferimento in ospedale non è la soluzione definitiva ma possiamo dire che oggi siamo riusciti a dare una risposta a questa difficile situazione, ho sentito la madre di Francesco, è sollevata in questo momento - aggiunge la garante Monica Cristina Gallo -. La mia attenzione sarà sempre alta nei prossimi giorni nell’ottica della prevenzione e della tutela del diritto alla salute e alle cure in attesa che si trovi una soluzione diversa al carcere per Francesco e per gli altri giovani con patologie psichiatriche detenuti”. “La vicenda umana di Francesco purtroppo non è isolata e conferma la necessità di interventi strutturali che rendano possibile una cura efficace delle persone con malattia psichiatrica, che negli istituti penitenziari sono una percentuale non irrilevante - aggiunge il deputato Andrea Giorgis -. Occorrono quindi investimenti economici e più in generale un ripensamento dei servizi di salute mentale per coloro che sono in carcere o sono sottoposti a misure di sicurezza”. Nel sottolineare la sensibilità degli agenti che questa mattina li hanno accompagnati nella visita a Francesco, il deputato pd ex sottosegretario, aggiunge che “c’è però bisogno di più personale e di strutture più adeguate e moderne”. Una risposta nel rivedere i percorsi trattamentali può arrivare dal Pnrr: “Nella ricostruzione del paese dobbiamo progettare anche una ridefinizione del sistema complessivo dell’esecuzione penale. È un investimento a tutela della dignità delle persone e al tempo stesso della sicurezza pubblica, perché quando la pena riesce ad avere la funzione rieducativa i tassi di recidiva calano drasticamente”. Torino. Monica Gallo (Garante dei detenuti): “Agire perché non ci siano altri Antonio Raddi” di Umberto Baccolo spraynews.it, 1 gennaio 2022 Il carcere delle Vallette di Torino è al centro di un’inchiesta per un caso risalente al 30 dicembre 2019, data in cui il detenuto 28enne Antonio Raddi morì a causa di una infezione polmonare dopo aver perso 25 chili. L’uomo diceva di non riuscire a mangiare, ma gli operatori del carcere erano convinti che la sua fosse soltanto una simulazione. Il caso è approdato in tribunale e si discuterà la richiesta dei familiari di non archiviare l’inchiesta. Spraynews ha intervistato in esclusiva sul tema la dott.ssa Monica Gallo, Garante dei Diritti dei detenuti di Torino, che aveva segnalato il caso alla direzione delle Vallette nove volte, dall’agosto del 2019 senza mai ricevere una risposta. Dottoressa, ci può rilasciare una dichiarazione su quanto sta avvenendo riguardo al caso Raddi? Certo. Io partirei dal fatto che tutti si stupiscono dal fatto che si sono attesi 2 anni per rivolgerci ai media, visto che nulla ci vietava di fare subito una conferenza stampa, come abbiamo fatto adesso secondo la volontà dei genitori. Il motivo è che noi, comportandoci correttamente, non abbiamo voluto interferire creando un’onda mediatica con le indagini che il Pm ha svolto, delle quali abbiamo atteso gli esiti; dal momento in cui è però arrivata una richiesta di archiviazione la famiglia ha fatto ricorso e, d’accordo con l’avvocato, hanno chiesto a me di denunciare la situazione pubblicamente, visto anche che sono stata persona vicinissima ad Antonio ed ai suoi genitori. A tal proposito, il grave problema è che anche se le persone detenute fragili di salute come era Antonio hanno dei medici di riferimento, questi sanitari non hanno un colloquio coi loro genitori, quindi il Garante si ritrova a ricoprire un ruolo complicato, perché pur non avendo esperienza medica deve intercettare la sofferenza spesso ignorata del detenuto, insistere con la sanità penitenziaria perché tuteli il suo diritto alla salute e alle cure, e anche fare ponte con i familiari; questo secondo me è un gravissimo problema perché in qualunque ospedale tu hai un caro ammalato, se vai a colloquio coi medici ti dicono che cosa sta accadendo, mentre in carcere non è così. Immaginate di avere un figlio in un Istituto penitenziario, di vederlo una volta a settimana o ogni due settimane e ogni volta sempre peggio, ma di non riuscire ad ottenere informazioni precise sulla sua salute. Tra noi è nato un legame forte anche per questa ragione, perché ero l’unica che portava informazioni e purtroppo non è neanche servito, come si è visto, perché ovviamente il problema della tossicodipendenza in carcere è che il detenuto che sta male e lo segnala viene considerato un “tossico” lamentoso perché in astinenza che quindi va ascoltato a metà e va visto a metà. Lei che la ha seguita dall’inizio, ci puoi riassumere la storia di Antonio? Antonio è entrato il 4 aprile 2019, e l’abbiamo intercettato inizialmente per una questione burocratica, perché lui aveva fatto richiesta di parlare con noi ed era un ragazzo brillante, sorridente, e che stava bene; dopo poco invece le sue richieste di colloquio erano prevalentemente legate ad una condizione di salute che si sentiva aggravare; inizialmente io le avevo interpretate come una grossa fatica di adattamento al carcere, anche perché di conseguenza ad una sua evasione dalla comunità la sua pena era ritornata all’inizio, e lui lo aveva vissuto come un fallimento suo e nei confronti della famiglia ed aveva cominciato a vivere la carcerazione male. Ha avuto anche un episodio di isolamento per una sospetta scabbia che poi non era, 15 giorni col blindo chiuso; in seguito, quando veniva a colloquio, ha iniziato a manifestare dei malesseri che, a partire da agosto, si sono cominciati a vedere anche fisicamente, perché dimagriva molto e diceva che non riusciva ad ingoiare assolutamente nulla: poi lentamente non è più venuto sulle sue gambe ma è venuto su una sedia a rotelle, il suo colore della pelle ha smesso di essere naturale, come il colore delle labbra, faceva fatica a parlare, ed a tutti questi colloqui seguivano delle mie note, di preoccupazione, e di stimolo alla tutela al diritto alla salute di questo ragazzo, in conseguenza alle quali venivo rassicurata che era monitorato e anzi mi si diceva che il suo era un atteggiamento strumentale per ottenere dei benefici; in ultimo lui si è messo a dirmi “Mi faccia uscire, mi faccia uscire che io mi sento morire qua dentro”, quindi io nelle ultime settimane che hanno preceduto il ricovero quotidianamente scrivevo, andavo a parlare con il direttore, parlavo con gli educatori, parlavo con il direttore sanitario, insomma ho veramente fatto davvero tutti i passaggi istituzionali possibili, al Magistrato, al Provveditore… ma purtroppo non è nelle competenze dei Garanti firmare un differimento pena o una misura alternativa. Io però, la domanda che mi pongo è questa: chi realmente si è mosso dai propri uffici, ed è andato a parlare ed a vedere questo ragazzo come stava? E purtroppo a questo non ho risposta. Alla luce di questa storia, quale è il suo appello alle Istituzioni perché non si ripetano più episodi di questo genere? Secondo me ci vuole un monitoraggio diverso su questi ragazzi, Antonio aveva una famiglia, ma ci sono tanti ragazzi fantasma con le stesse identiche problematiche, che non hanno nessuno, che sono magari stranieri, che non sanno nemmeno chi è il Garante dei detenuti, che, visto il sovraccarico degli educatori, non incontrano gli educatori o li incontrano poco. Anche gli operatori spesso hanno ormai uno sguardo assuefatto: il DAP fa delle Commissioni ispettive nel momento che capitano le tragedie, ma servirebbe che queste Commissioni ispettive fossero di routine alla salvaguardia della salute, con un’equipe di medici esterni, che possano vedere con altri occhi, perché, comunque se no resta la mentalità che dicevo di considerare i detenuti che dicono di stare male dei “tossicodipendenti rompicoglioni”, che vogliono magari la compressa in più per dormire. La persona con una stessa patologia o con le stesse problematiche all’esterno è in una situazione diversa, perché l’approccio sanitario è diverso, perché è comunque una persona che ha relazioni, che ha una famiglia, è una persona che non vive una privazione della libertà. La privazione della libertà rende di per sé il soggetto vulnerabile per cui la sua situazione va valutata con particolare attenzione. Genova. I Radicali visitano Marassi: “Troppe criticità, Dap provveda a nomina nuovo direttore” lavocedigenova.it, 1 gennaio 2022 Una delegazione del Partito Radicale, composta da Angelo Chiavarini, Stefano Petrella e Fabio Ferrari, ha visitato mercoledì 29 dicembre ha visitato la Casa Circondariale di Marassi. “Siamo tornati a Marassi - scrivono - a distanza di circa 3 mesi perché nell’ultima occasione non ci era stato consentito di svolgere una visita delle sezioni degna di tale nome, cosa che non ci era accaduta in nessuno degli altri istituti visitati recentemente (tutti quelli della Liguria) e mai prima a Marassi, dove eravamo sempre stati accolti con la massima gentilezza e disponibilità. Anche stavolta abbiamo incontrato difficoltà: la Direttrice e la Comandante non ci hanno ricevuto, i dati generali dell’istituto non ci sono stati forniti, ci è stata negata copia del preziario e la visita si sarebbe conclusa entro breve se fosse stato per loro. Non è andata in questo modo per la nostra ostinazione nel continuarla, la cortesia del personale e la generosità dell’Ispettore Cardinale che si è trattenuto per diverse ore oltre il fine turno per permetterci di continuarla. Non lo ha fatto soltanto per noi, ma per rispetto del suo ruolo e attenzione sincera verso problemi e situazioni che conosce bene. Siamo così rimasti fino alle 17,30 visitando la seconda, la terza e la sesta sezione. Davvero molti i problemi riscontrati: il principale resta il sovraffollamento con un carico di circa 680 detenuti sui 450 posti di capienza regolamentare, ma il più sentito è la mancanza di lavoro interno, ancora più evidente dopo il crollo del soffitto del panificio Italforno che garantiva gli unici 6 posti di lavoro per datore esterno. Chiusa da anni la falegnameria, non andato a buon fine un esperimento di call center, limitato all’apprendistato il laboratorio di telai per biciclette, in stato di abbandono il vecchio ‘giardino del direttore’ di cui si occupavano negli ultimi anni due detenuti in art. 21 (il progetto ‘Case rosse fiorite’), ed è ora a rischio di ridimensionamento anche un’altra eccellenza dell’Istituto, il laboratorio di serigrafia nella sezione AS, che ha perso forza lavoro (da 8 a 4 detenuti) e diversi ordini a causa della decisione di limitare il numero di ore di accesso ai locali e di escludere l’utilizzo dei tirocinanti. Un punto dolente (fonte da anni di giustificate richieste di cambiamento) è il limitato regime di apertura, con l’apertura da mattina a sera soltanto nella terza sezione (la custodia attenuata comprendente l’ICAT), mentre la sorveglianza dinamica col regime di minimo 8 ore di apertura delle celle nel resto dell’istituto non è mai stata applicata, se non al ribasso con 5-6 ore di apertura reale e un paio d’ore nelle salette di socialità (chiusi dall’esterno). Un altro sono le restrizioni ai colloqui applicate dall’estate a questa parte che avevano provocato rumorose proteste con la battitura notturna, le più severe negli istituti liguri (solo 3 al mese in presenza, 1 adulto e 1 minore con esclusione dei bambini fino a 6 anni) e alle videochiamate (3 al mese non scomponibili in più chiamate brevi) e telefonate (soltanto 6 al mese, 4 in AS), previste in numero minimo al contrario di quanto praticato altrove e auspicato dalle direttive del DAP; se le prime trovano qualche ragione d’essere nella allarmante situazione esterna (ad oggi 3 i detenuti positivi isolati e 7 agenti positivi), le seconde sembrano soltanto una irragionevole vessazione. Tra le eccellenze che meriterebbero di essere valorizzate non c’è solo il Teatro dell’Arca, ma anche il Polo Universitario, un detenuto straniero che abbiamo incontrato e ha compiuto l’intero ciclo di studi a Marassi si sta laureando in Storia (con una tesi sulla famiglia Durazzo), ma da 20 anni in carcere e ormai relativamente vicino al fine pena non ha ancora mai avuto un solo giorno di permesso e ha ben poche certezze su quanto lo aspetta fuori, nonostante abbia per anni tenuto un comportamento esemplare. Un altro detenuto lavorante ha vinto per la seconda volta un premio letterario, ma non gli è stato accordato il permesso di recarsi alla premiazione e poterlo ritirare. Tra le buone notizie il fatto che il Provveditorato di Liguria e Piemonte abbia recepito le raccomandazioni del Garante Nazionale e annullato l’appalto in corso di vitto e sopravvitto (alla stessa ditta) che da un anno era causa di proteste tra i detenuti di Marassi per la scarsa qualità del vitto (soltanto 2,30 euro al giorno a persona la cifra prevista) e i costi gonfiati dei generi a vendita. Tali proteste (rimaste senza ascolto da parte della Direttrice) avevano sortito segnalazioni al Magistrato di Sorveglianza e denunce che si sono dimostrate tutt’altro che infondate e hanno concorso all’attuale determinazione; vitto e sopravvitto saranno oggetto a breve di due diversi bandi e sarà evitato l’interesse a fornire pasti di scarsa qualità per aumentare i profitti delle vendite, ma resta da chiarire se sarà esclusa o meno la clausola del massimo ribasso, cosa che permetterebbe di elevare effettivamente la cifra pro capite ai previsti 6 euro. Moltissimi hanno chiesto notizie di Rita Bernardini e del suo sciopero della fame (interrotto ieri al 25° giorno), delle proposte sulla Liberazione anticipata ordinaria e speciale di Roberto Giachetti e di quelle contenute nel documento della commissione promossa dal Ministro Cartabia, dimostrando quante aspettative vi ripongano. Ebbene proprio ieri queste sono state rese note e tra sconti pena, più ampio accesso alle misure alternative e modifiche all’ordinamento penitenziario vanno proprio nella direzione di riportare nella legalità e nel rispetto di quanto previsto dall’art.27 della Costituzione le carceri del nostro paese come da tempo chiediamo. In conclusione il vero problema di Marassi è quello di essere da oltre un anno privo di un Direttore dopo la promozione della Dottoressa Milano a Provveditore del Triveneto, di essere rimasto privo anche di un Comandante fino alla scorsa estate ed affidato ad una gestione provvisoria per un periodo irragionevolmente lungo. Fondamentale è che il Dap provveda al più presto alla nomina di un nuovo Direttore e la scelta cada su una figura di adeguato profilo, attenta alle esigenze del trattamento e capace di dialogo e di confronto con detenuti e detenenti, qualità importanti che sembrano essere venute meno in troppe occasioni in questi ultimi mesi”. Io, avvocato a Napoli, vi racconto i paradossi di una giustizia che non c’è di Gennaro De Falco Il Riformista, 1 gennaio 2022 Ieri ho chiuso l’anno giudiziario 2021 con la prima udienza per fatti del 2010 di un processo che ancora non si sa neppure chi deciderà e che per ragioni prettamente biologiche concluderanno, se avranno fortuna, i miei nipoti se per sventura dovessero fare il mio stesso lavoro (e poi dicono che i processi si prescrivono per colpa degli avvocati) . Se e quando il processo dovesse finire, gli imputati saranno ampiamente morti per vecchiaia. Dirà il mio eventuale lettore: “Ma come può essere possibile? Sarà un caso?”. Ed io non potrò che dirgli: “Sbagli mio caro, è quasi la regola e non solo a Napoli ti assicuro”. Sfogliando l’agenda vedo un altro processo su cui pure ci sarebbe tantissimo da scrivere. L’imputato risponde di aver venduto ben 27 Cd contraffatti nel 2004 - sì, nel 2004 avete letto bene! -. Diciotto anni per stabilire se e quale pena dovrà essere inflitta all’ormai canuto imputato che tanti anni fa si è imbattuto in questo ormai altrettanto canuto difensore che ancora aspetta la definizione di tante vicende anche molto più assurde di quelle che ho appena accennato. Ad esempio, aspetto ancora la fissazione, o meglio il pervenimento in Cassazione, di un altro processo per fatti del 2003 (diciannove anni fa) in cui tre dei quattro imputati sono stati assolti da gravissime imputazioni associative. Il pm ha ritenuto di impugnare la sentenza assolutoria (confondendo nei suoi motivi di appello anche la sede dove operava e indicando un Tribunale per un altro). Il processo è quindi arrivato in appello dove si è ibernato per circa dieci anni e poi la Corte di appello, alla fine di tutto, ha confermato la decisione assolutoria del Tribunale dichiarando, e vorrei pure vedere, la prescrizione dei reati minori per l’unico tapino condannato che ancora aspetta da 19 anni di conoscere la sua sorte. Il tutto mentre i tre assolti sono stati per 19 anni senza dormire la notte, in attesa che la loro assoluzione venisse confermata anche in appello. Ma, nel frattempo, uno con un carico pendente di questo tipo come fa a trovare lavoro, come campa? E non continuo questo elenco disperato non perché non abbia da scrivere ancora. Se potessi, potrei riempire l’intero giornale con storie anche peggiori di queste, solo che alla fine sarei tanto noioso e ripetitivo che nessuno leggerebbe. Non diversa è la sorte delle denunce e, soprattutto, delle querele dove la disperazione di noi avvocati raggiunge, se possibile, ulteriori vette di dolorosa impotenza. Ormai, forse anche per il palese ingolfamento degli uffici quasi tutte le denunce, anche per fatti davvero gravissimi e con rilevanti conseguenze economiche, vengono archiviate con motivazioni davvero sconcertanti e solo il clamore della stampa riesce, in qualche rarissimo caso, a farle fortunosamente rivivere. Tempo fa depositai una denuncia per maltrattamenti ed altro in favore di una donna marocchina cui il marito, di stretta osservanza islamica, tra l’altro voleva imporre di non uscire di casa e di indossare il velo, e solo una vivacissima campagna di stampa che stava per provocare una mezza crisi diplomatica ha spinto il pm a revocare la sua richiesta. In quella denuncia la donna, che logicamente non ha un euro, chiese anche di essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato ma ad oggi non le hanno neppure risposto. E io, nel frattempo, ho dovuto anticipare spese vive e lavoro che non so se e quando mi verranno rimborsati. Io, che ho un animo missionario e posso permettermelo, l’ho difesa ugualmente e continuerò a farlo ma chi non dispone di queste possibilità o magari vuole solo essere pagato per il lavoro che fa? Come può sostenere questa situazione e poi è giusto che accada? È vero, per questa vicenda sono stato a cena con diversi ambasciatori che mi hanno anche applaudito e premiato, che un eminentissimo Monsignore mi ha degnato della sua benedizione e che mi hanno anche accompagnato in albergo in una splendida limousine con targa diplomatica, che qualche giorno dopo mi hanno anche invitato alla cena degli ambasciatori ma a me tutto ciò appare assolutamente surreale. Lo smarrimento si acuisce quando si vedono invece processi per fatti del 2020 che vanno speditissimi e in cui si contesta l’appropriazione indebita di “2 mazzole, 2 scalpelli, 2 metri da misura, 2 tenaglie, un martello da carpentiere, tre lenze ed una livella” che l’imputato non ha restituito agli operai di cui si era servito. In questi termini mi pare evidente che l’istituzione giudiziaria nel suo complesso sia un mero costo per la collettività senza alcuna utilità apprezzabile. Il girone degli innocenti nell’inferno del carcere di Frank Cimini Il Riformista, 1 gennaio 2022 “La lettura di questo libro di Stefano Zurlo dovrebbe essere resa obbligatoria per l’accesso agli esami di magistratura perché nulla quanto una sequenza di errori funesti avverte i giudici sui pericoli del potere”, scrive l’ex pm Carlo Nordio nella prefazione di “Il libro nero delle ingiuste detenzioni”, edizioni Baldini e Castoldi, 191 pagine, 18 euro. Nordio aggiunge che il lavoro di Zurlo, cronista del Giornale, “dovrebbe sempre stare accanto ai codici sullo scranno del giudice naturalmente a maggior ragione sul tavolo dei pubblici ministeri”. Dal 1991 al 2020 i casi di innocenti in galera sono stati 29659 in media poco più di 998 l’anno. Il tutto per una spesa gigantesca da parte dello Stato per risarcimenti, oltre 869 milioni di euro. E per spiegare “la fragilità del nostro apparato” Zurlo racconta storie di prigioni di pochi giorni o di molti anni, ambientate al Nord come al Sud con protagonisti famosi o illustri, sconosciuti, trasversali alle classi sociali: Jonella Ligresti, Edgardo Mauricio Affè, Antonio P., Diego Olivieri, Pietro Paolo Melis, Paolo Baraldo, Ciccio Addeo, Angelo Massaro, Giuseppe Gulotta. Circa trentamila persone sono finite in cella e poi sono state assolte. Sono i numeri di una fisiologia in un sistema malato. Inutile parlare di patologia per mettersi a posto con la coscienza. Le ingiuste detenzioni macchiano come una brutta malattia la quotidianità della giustizia. Giuseppe Gullotta ha passato in galera 21 anni prima che saltasse fuori la verità: non c’entrava niente con l’assassinio di due carabinieri. La confessione gli era stata estorta con una sequenza agghiacciante di vessazioni, umiliazioni e torture. In Italia sì, è vero, si tortura e va ricordato che non esiste una legge adeguata per sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale. Pietro Paolo Melis è stato in galera 18 anni e mezzo per sequestro di persona sulla base di una intercettazione coperta dal rumore di fondo, la voce che si sentiva non era la sua. Angelo Massaro è stato scambiato per un criminale e confinato in prigione per 21 anni a causa di una frase captata dalle cimici in cui accennava alla moglie che non avrebbe accompagnato il figlioletto all’asilo perché impegnato nel trasporto di qualcosa di pesante. Una pala meccanica. Per gli inquirenti invece il carico sarebbe stato costituito da un morto ammazzato. Jonella Ligresti: “Sono stati mesi anni di sofferenze terribili. Una condanna in primo grado per falso in bilancio e aggiotaggio informativo. Poi gli atti passarono da Torino a Milano. Assolta dopo otto anni. Sbattuta in carcere per una ragione che non sono mai riuscita a capire. In carcere il mio frigo personale era il bidet l’ambiente più fresco per conservare gli alimenti perché scende l’acqua fredda”. La figlia di Ligresti chiederà l’indennizzo per ingiusta detenzione, ma saranno briciole spiega rispetto a quello che ha sofferto. “Nella mia Venezia prima di irrogare una grave condanna - ricorda Nordio - i giudici venivano ammoniti con una frase rimasta celebre, ‘Ricordatevi del povero fornaretto’ - conclude Nordio. Si trattava di un salutare avvertimento a rievocare in scienza e coscienza il caso di un garzone giustiziato e poi trovato innocente”. Scrivere di mafia come faceva Falcone di Alberto Cisterna Il Riformista, 1 gennaio 2022 Ha ancora un senso scrivere di mafia nel Terzo millennio? Oppure tutto è stato detto, tutto è stato scritto e alla fine non dobbiamo far altro che sfogliare il libro che meglio si attaglia alle nostre convinzioni, che meglio suggestiona la nostra immaginazione o anche solo accarezza la nostra sensibilità. Tanto lo si è capito da tempo che molti ormai scrivono - e con una certa furbizia - con lo sguardo rivolto al proprio pubblico, alla propria rete di aficionados, a un circuito di estimatori o anche solo a un più modesto stuolo di seguaci. Come per un romanziere o un giallista di professione, così una certa letteratura di mafia insegue i propri lettori, li coccola e insieme perimetra il proprio mercato; quasi nessuno vuole più spiegare o raccontare su cosa siano state o diventate le mafie; tanti pretendono solo di consolidare una posizione, di conservare una rendita. Troppe volte è diventata una questione di soldi e di potere. Troppe volte, ma non sempre. Quando questo accade, quando chi scrive cede il passo al semplice desiderio di raccontare un’esperienza, di ricapitolare brandelli di vita vissuta, di ricomporre un pezzo di sangue e dolore staccatosi dalle proprie membra, il risultato è di per sé un miracolo che merita rispetto. Giuseppe Governale non è un professionista della scrittura, è un artigiano della narrazione come lo sono tutti coloro i quali non vivono di letteratura, eppur si nutrono, tra gli affanni del proprio lavoro, del rumore di fondo della vita, che hanno orecchie e occhi sensibili a quella solitaria litania che per essere percepita è necessario si colgano sussurri, semitoni, colorazioni tenui. Le storie di mafia sono state narrate spesso con enfasi, con sanguinolento compiacimento. Si vuole stordire il lettore, stupirlo, talvolta intimorirlo per poi compiacersi del proprio ruolo, della propria “missione”. Qua e là si mescolano verità, dicerie, supposizioni, bugie ben camuffate sotto la coltre dalla mera ripetizione, sfruttando l’inerzia e la pigrizia di chi non vuole approfondire, di chi si accontenta. Da questo punto di vista il libro del generale Governale (comandante del Ros dei Carabinieri e direttore della Dia solo per citare gli impieghi più recenti) già nel titolo demistifica, circoscrive, chiarisce: Sapevamo già tutto (Solferino, 2021). Non c’è alcun arcano da svelare, né alcuna nebbia da diradare, né veli da squarciare. Era ed è tutto evidente, conosciuto, collettivamente e individualmente risaputo. Mafia e mafiosità vanno a braccetto nell’impari sfida per comprendere se l’una preceda l’altra o se l’altra sia la genitrice della prima; un gioco di specchi in cui, prima ancora che intimidazione, la mafia è condivisione di un modello di società, di uno stile di vita, di una percezione dello Stato e degli altri. Giovanni Falcone narrò anni or sono la sua visione della mafia in un libro memorabile che aveva un titolo parimenti profetico, mite, pacato: Cose di cosa nostra (1991). Non una storia e enciclopedica di cosa nostra o della mafia, ma la pacata enunciazione delle (poche) cose che persino un gigante come Falcone riteneva di aver capito di quel mondo oscuro e sanguinario. Ecco, dopo 30 anni, Giuseppe Governale riprende il filo di quel racconto e lo fa, forse, senza neppure accorgersene; perché procede in modo naturale come accade a chi ha nuotato nel medesimo mare di Mondello, ha conosciuto le stesse strade di Palermo, ha respirato con la stessa aria di Sicilia, ha visto cadere gli stessi amici. Giovanni Falcone aveva chiarito con esattezza il proprio pensiero, la propria intelligenza dell’inscindibile legame che Giuseppe Governale riassume nell’apparente endiadi di “mafia e mafiosità”. Aveva scritto nel 1991: “Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia” ammoniva il giudice ucciso, con una lucidità che ancor oggi stordisce. Trent’anni dopo il generale Governale raccoglie nel suo libro quella traccia, la insegue come gli impongono le stimmate dell’esperto investigatore e offre senza alcuna enfasi un suo bilancio. Racconta alcune altre “Cose di cosa nostra” finalmente, messe lì con ordine e precisione, senza voler narrare null’altro che non sia ciò che si è visto, ciò che si sa, come in un diario di guerra. Disuguaglianze, i numeri della “crescita” non dicono come poi la ricchezza venga redistribuita La Repubblica, 1 gennaio 2022 Tutti quei dati che non forniscono un quadro esaustivo su chi guadagna e chi perde dalle politiche economiche. Il rapporto World Inequality Database (WID.world), gestito dal World Inequality Lab. “L’informazione sulla disuguaglianza ad accesso aperto, trasparente e affidabile è un bene pubblico globale”. Viviamo in un mondo ricco di dati e tuttavia mancano informazioni di base sulla disuguaglianza di reddito e ricchezza. I numeri della crescita vengono pubblicati ogni anno dai governi di tutto il mondo, ma non forniscono informazioni su come la crescita è distribuita tra la popolazione, su chi guadagna e chi perde dalle politiche economiche. L’accesso a tali dati è fondamentale per la democrazia. Questo rapporto presenta la sintesi più aggiornata degli sforzi della ricerca internazionale per tracciare le disuguaglianze globali. I dati e le analisi presentati nel rapporto si basano sul lavoro di oltre cento ricercatori in quattro anni, dislocati in tutti i continenti e che contribuiscono al World Inequality Database (WID.world), gestito dal World Inequality Lab. Questa vasta rete collabora con autorità fiscali, istituti di statistica, università e organizzazioni internazionali per armonizzare, analizzare e diffondere dati comparabili sulla disuguaglianza internazionale. L’obiettivo del World Inequality Report 2022. È quello di presentare i dati più recenti e completi disponibili sulla disuguaglianza per informare il dibattito democratico in tutto il mondo. si aggiorna il nostro World Inequality Report 2018, che aggiunge nuovi dati con dimensioni di genere, ambiente e giustizia fiscale. La disuguaglianza economica è diffusa, in una certa misura inevitabile, e sempre al centro dei dibattiti su come dovrebbero essere organizzate le società. L’inaspettata crisi del COVID lo illustra chiaramente. Ha bloccato ampi settori dell’economia, privando molti dei loro mezzi di sussistenza. Eppure, in molti paesi, i sistemi di sostegno al reddito compensativo sono stati messi in atto molto rapidamente, dimostrando il grande potere delle società, attraverso i loro governi, di alleviare le disuguaglianze ed evitare catastrofi sociali e politiche. In generale, il modo in cui le economie dovrebbero distribuire i redditi che generano, tra le popolazioni nazionali e in tutto il mondo, è fonte di accesi dibattiti. La crescita economica è distribuita equamente? La rete di sicurezza sociale è abbastanza ampia e profonda? I paesi a basso reddito stanno raggiungendo quelli più ricchi? Le disuguaglianze razziali e di genere stanno diminuendo? In tutto il mondo, le persone hanno opinioni forti e spesso contraddittorie su ciò che costituisce una disuguaglianza accettabile e inaccettabile e su cosa dovrebbe essere fatto al riguardo. Il nostro obiettivo non è quello di mettere tutti d’accordo sulla disuguaglianza: questo non accadrà mai, per il semplice motivo che non esiste un’unica verità scientifica sul livello ideale di disuguaglianza, né tanto meno sulle politiche e istituzioni sociali ideali che sarebbero necessarie per raggiungere e mantenerlo. In definitiva, possiamo prendere queste decisioni difficili solo attraverso la deliberazione pubblica e attraverso le nostre istituzioni politiche. Il nostro obiettivo qui quindi è più modesto: speriamo e crediamo che sia possibile essere d’accordo su alcuni fatti sulla disuguaglianza. Il rapporto riunisce nuove serie di dati. L’obiettivo immediato di questo rapporto è riunire nuove serie di dati dal World Wealth and Income Database (WID.world) al fine di documentare diverse nuove scoperte sulla disuguaglianza globale e la sua evoluzione. WID.world è un processo di ricerca cumulativo e collaborativo che è iniziato nei primi anni 2000 e ora include oltre cento ricercatori che mirano a coprire tutti i paesi del mondo. WID.world fornisce accesso aperto alla più ampia banca dati disponibile sull’evoluzione storica della distribuzione del reddito e della ricchezza, sia all’interno che tra i paesi. Il rapporto 2022 presenta nuovi risultati in quattro aree principali. In primo luogo, forniamo dati davvero completi sulla disuguaglianza di reddito per quasi tutti i paesi del mondo per lunghi periodi di tempo. Questo ci permette di presentare dati sistematici sulla disuguaglianza a livello globale e di analizzare come si è evoluta nel tempo. Le disparità del reddito è sempre stata molto ampia. La disuguaglianza globale del reddito è sempre stata molto grande, riflettendo la persistenza di un sistema economico mondiale estremamente gerarchico sia tra i paesi che al loro interno. La disuguaglianza globale è aumentata tra il 1820 e il 1910, nel contesto dell’ascesa del dominio occidentale e degli imperi coloniali, per poi stabilizzarsi a un livello molto elevato tra il 1910 e il 2020. Dal 1980, la disuguaglianza interna è cresciuta, ma la disuguaglianza internazionale ha iniziato a diminuire grazie alla rapida crescita delle grandi economie cosiddette emergenti. Questi due effetti si bilanciano così che negli ultimi decenni la disuguaglianza globale è rimasta sostanzialmente stabile, anche se a un livello molto elevato. In secondo luogo, il nostro rapporto 2022 fornisce prove molto più approfondite sulla ricchezza e sulla sua distribuzione nel mondo rispetto a quanto disponibile fino ad ora. Il peso della ricchezza privata aumenta. Negli ultimi decenni, il peso della ricchezza privata è aumentato a scapito della ricchezza pubblica, a causa della deregolamentazione, delle privatizzazioni e dell’aumento del debito pubblico. Inoltre, è aumentata anche la concentrazione della ricchezza privata, con i maggiori incrementi di ricchezza verificatisi tra la classe dei miliardari. In terzo luogo, analizziamo la disuguaglianza di genere creando dati sistematici sulla quota del reddito da lavoro mondiale guadagnato dalle donne e su quanto le donne siano ben rappresentate in cima alla distribuzione del reddito da lavoro. A livello globale, la quota di reddito da lavoro corrisposta alle donne è di poco inferiore al 35% e mostra un trend positivo negli ultimi 30 anni, rispetto al 31% circa del 1990. Gli uomini guadagnano il doppio delle donne. Gli uomini guadagnano in media circa il doppio delle donne in tutto il mondo. Inoltre, i dati rivelano che le donne sono significativamente sottorappresentate nella parte superiore della distribuzione, anche se la percentuale di donne nella parte superiore è aumentata dagli anni ‘90 in molti paesi. Sorprendentemente, le donne sono ora meglio rappresentate ai vertici in alcune economie emergenti come il Brasile che in economie avanzate come gli Stati Uniti. In quarto luogo, presentiamo nuove prove della disuguaglianza nelle emissioni di carbonio in tutto il mondo. Utilizzando una nuova serie di conti del carbonio e dell’energia basati su record storici, tabelle input-output e statistiche distributive, mostriamo come le emissioni totali di carbonio sono distribuite non solo tra i paesi ma anche al loro interno. In tutto il mondo, le emissioni di carbonio sono distribuite in modo diseguale quanto il reddito. La pressione fiscale per frenare le ricchezze “estreme”. Il miglior 1% degli emettitori di carbonio hanno contribuito in modo significativamente maggiore alla crescita delle emissioni globali rispetto all’intera metà inferiore della popolazione mondiale. Le politiche volte a ridurre le emissioni globali dovrebbero, quindi, mirare principalmente agli altissimi emettitori. Infine, discutiamo di altre politiche che potrebbero ridurre la disuguaglianza. Le tasse progressive sulla ricchezza sono (ri)emerse nel dibattito come uno strumento promettente per frenare la concentrazione estrema della ricchezza e generare entrate statali tanto necessarie. Utilizzando i nostri dati, analizziamo il potenziale di reddito delle tasse sulla ricchezza e discutiamo come potrebbero essere applicate con successo sulla base delle lezioni apprese dalle tasse sulla ricchezza progressive esistenti e passate. Le “estreme” ricchezze nei paradisi fiscali. Attualmente, le società multinazionali possono facilmente eludere il pagamento delle imposte societarie trasferendo i loro profitti in paradisi fiscali, ma è in corso uno sforzo internazionale per stabilire un accordo fiscale minimo. Discutiamo del ruolo della tassazione delle società nella lotta alla disuguaglianza e degli approcci globali e unilaterali alla giustizia fiscale. Offriamo anche prospettive più ampie su come reinventare lo stato sociale nel 21° secolo. Come mostra questo rapporto, WID.world ha prodotto preziosi dati sulla disuguaglianza in molte dimensioni, eppure siamo profondamente consapevoli che dobbiamo ancora affrontare importanti limitazioni nella nostra capacità di misurare l’evoluzione della disuguaglianza di reddito e ricchezza. La mancanza di trasparenza sulle disuguaglianze. L’obiettivo in WID.world e nel World Inequality Report non è affermare di avere serie di dati perfette, ma piuttosto rendere esplicito ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo e segnalare chiaramente quali Paesi stanno facendo meglio in termini di produzione e pubblicazione di dati nei loro sforzi per stabilire statistiche sulla disuguaglianza. Parte del nostro obiettivo è esercitare pressioni sui governi e sulle organizzazioni internazionali affinché rilascino dati più grezzi su reddito e ricchezza. A nostro avviso, la mancanza di trasparenza sulle disuguaglianze di reddito e ricchezza mina seriamente le possibilità di un dibattito democratico e pacifico nell’economia globalizzata di oggi. In particolare, è fondamentale che i governi forniscano l’accesso del pubblico a statistiche fiscali affidabili e dettagliate, il che a sua volta richiede il funzionamento di sistemi di rendicontazione correttamente funzionanti per reddito, eredità e ricchezza. Le questioni economiche appartengono a tutti. Senza tutto questo, è molto difficile avere un dibattito informato sull’evoluzione della disuguaglianza e su cosa dovrebbe essere fatto al riguardo. Il motivo più importante per fornire tutti i dettagli necessari sulle fonti di dati e sui concetti che stanno alla base di tutte le nostre stime sulla disuguaglianza è consentire ai cittadini interessati di prendere una decisione su queste questioni importanti e difficili. Le questioni economiche non appartengono a economisti, statistici, funzionari governativi e leader aziendali. Appartengono a tutti e il nostro obiettivo principale è contribuire al potere di molti. La “forbice sociale” si allargherà sia all’interno dei Paesi che a livello internazionale di Romina Boarini* La Repubblica, 1 gennaio 2022 Le nuove spaccature sociali e le disparità strutturali radicate legate al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza, alla provenienza sociale, al fatto di essere migranti. Negli ultimi anni sono emerse nuove spaccature sociali. Se parte delle disuguaglianze trovano giustificazione nei diversi livelli di sforzo e in altri fattori oggettivi, in questo momento si osservano disparità strutturali abbastanza radicate e che talvolta si autoalimentano, riconducibili a fattori che esulano dal controllo dei soggetti e che sono legati, per esempio, al genere, all’età, all’orientamento sessuale, alla razza o all’estrazione socioeconomica e al background migratorio. In assenza di pacchetti di provvedimenti efficaci e completi, queste disuguaglianze pregiudicano alle persone la possibilità di esprimere pienamente il proprio potenziale, frenando così la performance economica aggregata e minando ulteriormente il tessuto sociale, la fiducia reciproca e quella nelle istituzioni. L’immenso divario tra i più ricchi e i poveri. Le disuguaglianze economiche nei paesi Ocse, dopo essere aumentate per circa trent’anni, erano già significative prima dell’inizio della pandemia. Il divario del reddito tra il 10% più ricco e il 10% più povero ha quasi raggiunto il rapporto di 10 a 1. Negli anni Ottanta del secolo scorso era di 7 a 1. In Italia il rapporto è cresciuto da 8 a 1 a 11 a 1 già prima della pandemia. Il livello di concentrazione della ricchezza privata delle famiglie nei paesi Ocse è ancora maggiore: oltre la metà della ricchezza totale è detenuta dal 10% più facoltoso, un quinto di essa dall’1%. All’altra estremità dello spettro, le famiglie nella metà inferiore della distribuzione della ricchezza dispongono di una ricchezza netta bassa o pari a zero e questo significa che un’ampia fetta della popolazione è impreparata ad affrontare gli shock di reddito, in particolare quelli causati dalla crisi del Covid-19. L’impatto del Covid-19 sulle disuguaglianze. La crisi dovuta al Covid-19 ha aggravato queste tendenze. Nel corso del 2020 le disuguaglianze in termini di reddito da lavoro e di mercato sono aumentate a causa della chiusura delle attività economiche e dell’aumento della disoccupazione. I governi dei Paesi Ocse hanno adottato rapidamente misure e pacchetti di sostegno senza precedenti per aiutare le famiglie a resistere all’impatto della pandemia. Tali misure hanno prevenuto un aumento della disuguaglianza a livello di reddito disponibile nella maggior parte dei paesi, addirittura riducendola temporaneamente in altri, come dimostrano gli studi di micro-simulazione e le indagini in tempo reale in alcuni paesi Ocse. Disuguaglianze al di là del reddito. La pandemia ha però evidenziato delle disuguaglianze che vanno al di là del reddito. La crisi ha colpito maggiormente i soggetti vulnerabili, in particolare se e laddove il proprio lavoro ha influito sulla loro esposizione sia al Covid-19 sia agli effetti più ampi della crisi. Lo smart working ha contribuito a tutelare i soggetti e il loro posto di lavoro, specialmente se ben remunerato e altamente qualificato, ma non ha rappresentato una possibile alternativa per la maggior parte dei lavoratori. I dati relativi a 11 paesi Ocse hanno indicato come i lavoratori del quartile più basso di reddito avessero il doppio delle probabilità di smettere di lavorare e solo la metà delle probabilità di lavorare da remoto rispetto al quartile più alto. Perdere il lavoro significa perdere più dello stipendio: i disoccupati avevano il doppio delle probabilità di sentirsi soli ed emarginati dalla società rispetto agli occupati. La fatica delle famiglie e i prezzi in aumento. La difficoltà di far quadrare i conti è stata rilevata chiedendo: “Una famiglia può avere diverse fonti di reddito e più di un membro del nucleo familiare può contribuire al suo reddito. Pensando al reddito mensile complessivo della vostra famiglia, siete in grado di far quadrare i conti?”. “Con difficoltà” si riferisce a chi ha risposto che ci riesce con difficoltà o con grande difficoltà mentre “facilmente” comprende chi ha risposto di farcela abbastanza facilmente, facilmente o molto facilmente. Mentre una famiglia su 5 nei Paesi Ocse europei fatica a far quadrare i conti e una su 7 ritiene “probabile” perdere il lavoro entro 3 mesi, il costo della vita è esposto a nuove pressioni: i prezzi medi delle case nei Paesi Ocse sono aumentati di quasi il 5% nel 2020 e gli affitti quasi del 2% mentre sono aumentati anche i costi energetici. Gli uomini muoiono di più, ma le donne hanno problemi psichici. In generale, durante la pandemia gli esiti medi del benessere differivano in base alla razza e all’etnia, al genere e anche al tipo di nucleo familiare. Nella maggior parte dei Paesi la mortalità in eccesso ha colpito più gli uomini delle donne ma è più probabile che siano le donne a soffrire di long Covid, le donne hanno visto peggiorare maggiormente la propria salute mentale e si sono sentite più sole. Allo stesso tempo, sono state spesso proprio loro in prima linea a prestare le cure durante la pandemia, sia nell’ambito professionale sia in quello domestico tra le attività di cura non retribuite. Nel 2020 la soddisfazione nei confronti della vita è diminuita in particolare tra le coppie con figli conviventi mentre i genitori single e chi viveva da solo ha avuto il doppio delle probabilità di soffrire di solitudine rispetto alla popolazione nel suo complesso. La salute mentale dei giovani. Per quanto riguarda il fattore età, la probabilità di esiti gravi o di morire a causa dell’infezione da Covid-19 è stata molto maggiore tra gli anziani e questo ha reso particolarmente importante per loro ridurre i contatti sociali come misura precauzionale. Al contempo, i giovani adulti sono tra quanti hanno sofferto di più a livello di salute mentale, socialità e benessere soggettivo nel 2020 e 2021 nonché in termini di insicurezza e interruzioni dell’attività lavorativa. Il bisogno di una ripresa concentrata sulle persone. In vista del 2022 e della ripresa, che potrebbe comunque essere accompagnata da nuove ondate pandemiche, è fondamentale conciliare i tentativi di ricostruzione a breve termine con visioni per il medio e lungo periodo, in particolare per quanto riguarda la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Un nostro recente lavoro dimostra la necessità nelle politiche di una ripresa incentrata sulle persone e una transizione verde, imperniate sulle esigenze delle persone, il loro benessere e le opportunità per il futuro. Per quanto riguarda la transizione ecologica, ad esempio, questa ricerca indica che le famiglie vulnerabili sono colpite in modo sovra-proporzionale dal degrado ambientale e anche dalle misure della transizione verde, per cui nella fase di transizione si dovrebbe dare la priorità alle loro esigenze (ad esempio riqualificazione e aggiornamento delle competenze, ricollocazione, protezione sociale e possibili misure compensatorie a fronte di un aumento dei prezzi dell’energia e del carbonio). Le riforme ad ampio respiro devono essere percepite. Sia la pandemia sia l’imperativo ecologico richiederanno riforme coraggiose. Affinché abbiano successo c’è bisogno di un forte sostegno da parte dei cittadini. Un nuovo rapporto Ocse, intitolato Does Inequality Matter? How People Perceive Economic Disparities and Social Mobility, rileva che se da un lato c’è sempre maggiore consenso tra la popolazione sul fatto che la disuguaglianza rappresenti un problema, dall’altro crescono anche le divergenze di opinione sulla sua entità e su come intervenire. Opportunità sempre meno accessibili. Anche prima della pandemia un’ampia maggioranza di cittadini dei Paesi Ocse era preoccupata dalle disparità economiche e chiedeva una distribuzione del reddito più equa. Nel 2017 quattro persone su cinque ritenevano che le disparità nel loro Paese fossero eccessive, una preoccupazione che era via via aumentata a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, in linea con la crescita della disuguaglianza di reddito misurata attraverso i tradizionali indicatori statistici. In generale, più le persone si preoccupano a causa delle disparità, più chiedono che vi sia una ridistribuzione. Oltre che dall’apprensione causata dalla disuguaglianza, la richiesta di politiche che la riducano è influenzata dalle convinzioni su cosa sia ciò che determina tale disuguaglianza, in particolare il fatto che le opportunità siano o meno ampiamente accessibili e che si abbia successo se si lavora sodo. Il sostegno da parte dei cittadini a politiche specifiche dipende anche dalla percezione della loro efficacia nel ridurre la disuguaglianza. *OCSE - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico Il bullismo è una piaga sottovalutata: la società è ancora dalla parte di chi prevarica di Giuseppe Sciarra Il Fatto Quotidiano, 1 gennaio 2022 Il bullismo continua a essere una piaga sottovalutata dai nostri politici e dall’opinione pubblica. Si parla di questo tema nei media solo quando degli adolescenti vengono aggrediti (quasi sempre da un branco) o peggio ancora se si uccidono. Per qualche tempo l’esperto di turno esprime un suo parere sulla questione cercando le responsabilità di scuola e famiglia, un’indignazione generale si propaga da una trasmissione televisiva all’altra, si fanno delle analisi sulle ragioni per cui dei ragazzi commettano violenze ai danni di un loro coetaneo e ci si chiede in altri casi se queste violenze siano state effettivamente commesse (quelle psicologiche sono più ardue da dimostrare). Alla fine si arriva in molti casi alla conclusione che il ragazzo si sia tolto la vita solo per problemi di depressione personale di cui i bulli ovviamente hanno una responsabilità marginale e il caso viene archiviato e dall’opinione pubblica ridimensionato. La sensazione che si ha spesso è che non si voglia andare oltre. Non c’è una giustizia vera per chi è vittima di bullismo. Ne parlo da ex bullizzato - sottolineo ex, ed è mia intenzione scrivere e parlare per quanto mi sarà possibile di un crimine: perché di questo trattasi - senza vittimizzarmi. Conosco bene i bulli e l’ambiente che li protegge. Iniziai a essere preso in giro dai miei coetanei dall’età di otto anni. L’ho raccontato in un breve documentario che ho diretto da regista, Ikos, con la collaborazione dell’attore Edoardo Purgatori. Negli anni Novanta vivevo in un piccolo paese del sud in provincia di Foggia e, fino al momento in cui i bulli non avevano iniziato a prendermi di mira, ero felice. La mia famiglia mi amava: essendo il piccolo di casa - ultimo di quattro figli - ero quello più coccolato da tutti i miei affetti. L’impatto con le scuole e con la realtà mi introdussero in un mondo diverso da quello rassicurante della famiglia. Venni additato immediatamente come gay dai miei compagni di scuola perché non facevo a botte, non ero abbastanza mascolino e non rientravo nei parametri machisti della realtà in cui vivevo, parametri assai discutibili, in cui la prevaricazione sull’altro e la violenza venivano spacciati come virilità. Il bullismo di cui fui vittima si manifestò in vari modi. Minacce, umiliazioni, calunnie, violenze fisiche e psicologiche inizialmente da una parte ristretta di coetanei, successivamente da un numero imprecisato di ragazzini e da qualche persona adulta, gente che in molti casi nemmeno conoscevo. Quando uscivo di casa era diventata consuetudine ricevere sputi in faccia, essere preso a calci, schiaffeggiato, palpato, denigrato e addirittura preso a sassate da molti bulli, tra grosse grasse risate e divertimento - c’è chi ha il coraggio di definirli atti di goliardia, io li chiamerei per quello che sono: atti delinquenziali. Occorre un’attività di prevenzione nelle scuole che venga imposta dal ministro della Pubblica istruzione a tutti gli istituti italiani, con dei formatori che dialoghino con il corpo insegnanti e sensibilizzino sulla questione bullismo. Occorre una legge che punisca i bulli in base a ciò che commettono e alla fascia di età a cui appartengono, prendendo provvedimenti anche sulle loro famiglie e sulla scuola perché la società, per quanto se ne dica, è ancora dalla parte dei bulli. Fin quando il bullismo verrà visto come una bravata e non come reato a ben poco basteranno le buone intenzioni. Con buona pace di tutti quei ragazzi spinti al suicidio, di chi è sopravvissuto con le sue cicatrici e della menzogna che racconta “è stato vittima di un rito di passaggio”, che gli ha rubato però la vita. Lungo le rotte dei migranti, perché il 2021 non è l’anno dei record di Fabio Albanese La Stampa, 1 gennaio 2022 Il 2021 dei migranti si chiude con 185mila arrivi in Europa, 67mila dei quali in Italia, 35mila dei quali a Lampedusa. “Un record”, si affrettano a dire i “no migrants”. Ma non è vero. C’è stato un significativo aumento rispetto agli ultimi due anni: quasi il doppio rispetto al 2020, sei volte il 2019. Ma gli anni degli sbarchi incontrollabili, dei veri grandi numeri, sono ben lontani e difficilmente replicabili, non foss’altro perché la Guardia costiera libica e la Marina tunisina ormai bloccano sistematicamente decine di partenze. Solo i libici, fino al giorno di Natale avevano riportato indietro 32.500 persone, 969 delle quali dal 19 al 25 dicembre; erano state 12mila in tutto il 2020. Al di là delle modalità con cui avvengono questi che per l’Onu sono veri e propri “respingimenti” - vietati dalle convenzioni internazionali anche perché i migranti vengono rinchiusi in strutture governative o “privata” dove subiscono violenze di ogni genere - appare dunque improbabile, se non impossibile, che si possa ripetere quanto accaduto in passato: i 170mila arrivi del 2014, i 154mila del 2015, i 181mila del 2016, i 119mila del 2017. Erano gli anni dell’operazione italiana Mare Nostrum, di quella europea Sophia-Eunavformed, di tante navi Ong in mare che collaboravano attivamente con la Marina militare italiana e la nostra Guardia costiera che, a loro volta, tenevano le loro navi in mare a pattugliare quell’enorme tratto di mare. Poi arrivò il 2018, la “dottrina Minniti” dal nome del ministro dell’Interno dei governi di centrosinistra che la varò, con i primi accordi con la Libia e il supporto in soldi, mezzi e uomini alla loro guardia costiera: nel 2018 si contarono così 23mila arrivi. Quindi il governo gialloverde con Salvini al Viminale, i decreti sicurezza, i “porti chiusi”, le inchieste sulle navi umanitarie e sulle Ong che tuttavia negli anni successivi arriveranno a un nulla di fatto con assoluzioni o archiviazioni. poi venuto il tempo del ministro Lamorgese. Chi fa propaganda politica addebita a lei l’aumento dei numeri, come se tra il 2020 e il 2021 ci sia stata una sorta di lassismo nella gestione del fenomeno. E invece è “solo” cambiato tutto, ancora una volta, nella situazione geopolitica dell’area del Mediterraneo e del Medioriente. Se ne era già accorto in primavera il sindaco di Lampedusa, Totò Martello: “Ogni anno assistiamo a cambiamenti negli arrivi, nel 2020 erano soprattutto tunisini, poi di nuovo sono aumentati gli arrivi dalla Libia, poi ancora tunisini, poi di nuovo dalla Libia”. E c’è la crisi infinita in Siria, la nuova terribile stagione dell’Afghanistan. Ci sono carestie e guerre in Africa, ci sono crisi politiche profonde come, appunto, in Libia e Tunisia. E c’è il Covid. Fuggono tutti, perfino i bambini anche quando non hanno con loro un genitore: 9500 sono quest’anno i minori non accompagnati, il doppio del 2020. In mare, dalla Libia, sono cambiate le imbarcazioni. Quasi del tutto spariti i fatiscenti gommoni di fabbricazione cinese che, sovraccarichi, riuscivano a malapena a percorrere qualche decina di miglia, sono tornati i barconi: vecchi pescherecci o anche barche di pescatori o perfino barchini in vetroresina. Con i gommoni bisognava solo mettere in mare i migranti, e bastava una spiaggia deserta per farlo; per i barconi occorrono porti, e occhi chiusi di chi dovrebbe controllare; poi, con la scarsità di mezzi di soccorso in mare, dei governi e delle Ong, bisogna cercare di farli arrivare a destinazione. Questo riguarda la rotta del Mediterraneo centrale, quella che da Libia e Tunisia arriva fino a Italia e Malta, e che Frontex, l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne, nei primi undici mesi dell’anno ha fotografato come quella via mare con il maggiore incremento di arrivi: l’89% in più rispetto all’anno scorso. E quella che l’Oim, l’Organizzazione per le migrazioni delle Nazioni unite, continua a definire “la più mortale al mondo”: meno di mille morti e dispersi nel 2020, oltre 1500 nel 2021. E nel conteggio non ci sono ancora i naufragi dei giorni di Natale, il cui numero di corpi ritrovati, una trentina, sarebbe solo una parte di coloro che hanno perso la vita in quei giorni al largo della Libia, sia sul versante Est sia su quello Ovest. “C’è, è vero, un aumento di partenze, peraltro per nulla preoccupante nei numeri - dice Flavio Di Giacomo, portavoce Oim per il Mediterraneo centrale - ma ciò che preoccupa davvero è la situazione di chi è in Libia. Anche un cosiddetto migrante economico, una volta giunto in Libia e rinchiuso in quelle strutture terribili, diventa un profugo che deve essere tutelato. Come ci preoccupa anche il fatto che si facciano meno salvataggi in mare e che i tempi di intervento siano ormai molto lunghi, e sappiamo che in mare 5 minuti di attesa in più o in meno fanno la differenza tra la vita e la morte”. Non c’è stato mese di quest’anno che l’Italia non abbia registrato numeri di arrivi superiori a quelli dei due anni precedenti. E non c’entrano solo i migranti subsahariani, quelli dei Paesi africani oppressi dalle guerre e dalla fame. I dati del Viminale certificano che la comunità più numerosa sbarcata in Italia nel 2021, come peraltro era avvenuto seppure con numeri più bassi anche nel 2020, è quella tunisina: quasi 16mila persone che si sono avventurate in mare estate e inverno, per la maggior parte sulla relativamente breve, ma molto pericolosa, rotta tra Sfax, le isole Kerkennah e Lampedusa. E questo nonostante dalla Tunisia siano arrivati 19.300 migranti a fronte dei 29.500 partiti dalla Libia (dato Oim). A seguire, ed è una novità del 2021, ci sono gli egiziani, oltre ottomila, seguiti dai cittadini del Bangladesh, 7700 circa, che storicamente cercano l’Italia come prima meta di emigrazione anche se poi si trasferiscono in altri Paesi europei. Tra quattromila e duemila per ciascuna comunità sono gli arrivi da altri Paesi: Iran, Costa d’Avorio, Iraq, Guinea, Siria, Eritrea, Marocco. Molte di queste nazionalità fanno capire come ad avere un importante incremento di partenze non siano stati solo i porti e le spiagge dei Paesi del Nord Africa. Quest’anno, la “rotta turca”, quella solitamente battuta da trafficanti turchi ed egiziani con velieri di facoltosi cittadini russi abbandonati (o rubati) nei porti della Turchia, ha avuto incrementi notevoli, di cui si sono accorti soprattutto i cittadini della Calabria ma anche della Puglia e della stessa Sicilia: 19.300 arrivi nei primi undici mesi del 2021 (fonte Oim). Frontex calcola un incremento dell’87% tra gli arrivi di novembre 2021 e quelli di novembre 2020; che però non riguarda solo le regioni del Sud Italia ma anche la Grecia, con l’Egeo divenuto anch’esso un mare di morte. In realtà, la rotta del Mediterraneo orientale è l’unica che quest’anno ha registrato un lieve calo rispetto all’anno prima, il 3%, ampiamente compensato dall’esplosione dei numeri della “rotta balcanica”, quella via terra che in Italia arriva attraverso il Friuli: il 138% in più rispetto all’anno scorso, 56mila persone, e il numero fa capire che per la maggior parte non si tratta di migranti arrivati in Italia, anche se i valichi di Gorizia e Trieste sono stati messi a dura prova. Chi utilizza questa rotta arriva principalmente da Siria e Afghanistan. A questi bisogna aggiungere i migranti che provano ad attraversare il confine tra Bielorussia e Polonia, la vera novità di quest’anno: oltre settemila gli arrivi in Ue da gennaio a novembre, il 1099% in più rispetto all’anno scorso. I numeri degli sbarchi in Italia sono da anni argomento di scontro politico e spesso si fa apparire la Penisola come il porto d’attracco di tutti i disperati del Continente africano. Le cose stanno diversamente. La Spagna, che tradizionalmente è il punto di arrivo dei migranti dell’Africa Nord occidentale e di quella dei Paesi francofoni, quest’anno ha conosciuto l’esplosione di un nuovo fenomeno che era già comparso l’anno scorso: le partenze dall’Africa occidentale in pieno oceano Atlantico verso le isole Canarie, terre spagnole d’oltremare, un viaggio altrettanto pericoloso e pieno di insidie come quello nel Mediterraneo ma che consente di non attraversare, restando bloccati, Paesi pericolosi come la Libia. Oltre ventimila hanno fatto questa rotta, il 3% in più rispetto all’anno scorso. Numeri che si aggiungono agli oltre 17mila migranti arrivati in Spagna dal Marocco (+6%) attraverso il Mediterraneo occidentale, lo Stretto di Gibilterra, il mare di Alboran. E, in minima parte, anche cercando di bucare la rigorosa sorveglianza del confine terrestre di Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole in terra marocchina. Tutte le rotte dei migranti, insomma, nel 2021 hanno visto numeri in crescita. Non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia la cui particolarità geografica la espone ad essere la principale frontiera Sud dell’Europa. È questo il vero tallone d’Achille di Roma nell’affrontare il tema migranti. Ma l’Italia è lì, in mezzo al Mediterraneo, e Lampedusa è più vicina all’Africa che alla Sicilia. E su questo, nessun governo, nemmeno quello che vorrebbe sparare alle barche dei migranti, potrà mai fare nulla. Le cinque guerre dimenticate del 2021 di Vittorio Da Rold Il Domani, 1 gennaio 2022 Sono diversi gli eventi e i fatti da ricordare in questo 2021, un anno che rimane segnato dalla pandemia. Ma nonostante il Covid-19 le guerre non si fermano, ecco qui la lista delle cinque guerre che sono state dimenticate in giro per il mondo. Per gli esteri è stato un anno ricco di eventi e notizie. Ricorderemo certamente l’assalto a Capitol Hill e la caduta dell’Afghanistan in mano ai talebani come due fatti che saranno sicuramente incisi nei libri di storia. Ma ci sono cinque guerre che sono passate un po’ in sordina e sono state dimenticate. Siria - A che punto è la situazione in Siria dopo la sanguinosa guerra civile? Ci sono tre dati che possono essere utili per leggere l’attuale situazione: la minaccia dell’Isis è stata ridotta ma non è scomparsa del tutto; le premesse del rovesciamento del regime di Assad si sono rivelate illusorie e, infine, i curdi siriani sono stati abbandonati dagli Stati Uniti ai tempi di Donald Trump, il quale diede il via libera all’invasione turca di aree cuscinetto in territorio siriano fino a 30 km dal confine, dopo che le milizie curde siriane avevano combattuto come uniche truppe sul terreno contro l’Isis. Quello che emerge chiaramente dall’intera vicenda è il ruolo di Bashar al Assad, rimasto saldo alla poltrona anche grazie al sostegno politico e militare di Vladimir Putin. Oggi il presidente Assad è diventato l’interlocutore legittimo per tanti altri stati. Infatti, dopo 12 anni di esclusione, soprattutto su pressione degli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia saudita, dovrebbe prendere parte al vertice della Lega araba, che si terrà in Algeria nel marzo 2022. Insomma Assad è rimasto saldamente al potere mentre i suoi oppositori interni e internazionali hanno dovuto riconoscere lo status quo a Damasco. Ma ciò che pesa sul futuro del paese sono le sanzioni europee in vigore dal dicembre 2011. Esse includono un embargo petrolifero e il congelamento degli asset della Banca centrale siriana entro i confini dell’Ue. Nessuno, però, a Bruxelles è in grado di rispondere alla domanda cruciale per il futuro dei siriani e dei milioni di profughi: fino a quando durerà questo stato di cose? Yemen - C’è una guerra che si combatte in uno dei paesi più poveri del mondo e che ha dato vita a una crisi umanitaria senza precedenti. È il conflitto in Yemen che ha generato 3,6 milioni di sfollati interni, almeno 150mila vittime dirette e dove 400mila bambini sono in pericolo di vita per malnutrizione acuta grave. Senza contare che circa l’80 per cento della popolazione ha bisogno di assistenza: circa 23milioni di persone. La guerra si protrae oramai da sette anni e vede due schieramenti ben definiti. Da una parte ci sono gli huti, i ribelli che hanno approfittato della crisi politica del paese e che nel 2015 hanno conquistato la capitale Sanaa, costringendo il presidente a scappare a Aden. E poi c’è l’Arabia Saudita che è intervenuto a difesa delle forze governative per proteggere i suoi confini meridionali. I primi sono sostenuti dall’Iran e da Hezbollah, mentre la coalizione araba formata anche dagli Emirati Arabi Uniti sono intervenuti a difesa del governo. Dopo sette anni di guerra, gli huti risentono della crisi economica e umanitaria. Hanno cercato diverse azioni diplomatiche con paesi come Giordania e Oman, ma la situazione ora è in stallo e si continua a combattere soprattutto a est nella città di Marib. Il conflitto continua a preoccupare l’Arabia Saudita, che subisce continui attacchi a a obiettivi strategici per la monarchia, come quello contro l’azienda petrolifera nazionale e quello contro la base aerea King Salman. La diplomazia non trova vie di uscita e forse la questione può arrivare a un’intesa nel momento in cui l’Iran raggiungerà l’accordo sul nucleare. In questo, la guerra in Yemen può essere una buona carta da giocare nel tavolo delle negoziazioni. Mali - La Francia esce di scena in Mali. Lo scorso 14 dicembre, il generale francese Etienne du Peyroux, capo dell’operazione Barkhane, ha salutato il nuovo comandante maliano nella base francese di Timbuctù e dato formalmente il via all’uscita di Parigi dalla lotta contro al terrorismo che ha impiegato oltre 5mila soldati. Nel 2013 il presidente François Hollande ha dichiarato l’inizio di un intervento militare mirato a fermare l’avanzata della minaccia jihadista nel paese e in tutta l’area del Sahel. Ora comincerà una progressiva diminuzione che prevede solo un presidio a ridosso delle frontiere con Burkina Faso e Niger dove saranno attive le basi di Gao, Ménaka e Gossi. Ma il ritiro, accolto come un evento positivo, non nasconde il sostanziale fallimento di un’operazione di peace keeping durata oltre otto anni. In meno di un decennio, circa 2 milioni di individui sono stati costretti alla fuga dalle proprie abitazioni in cerca di riparo in altre aree del Mali o nei paesi limitrofi, con una impennata di 330mila solo nel 2020, mentre si calcola che i morti abbiano superato la cifra di 15mila. Ma la minaccia terroristica si è almeno conclusa? Il 2021 ha segnato la crescita nel numero di attacchi mortali messi a segno in gran parte da forze jihadiste o da bande armate in azione in Mali, in Burkina Faso e in Niger e, in parte minore, ma non risibile, da forze di governo. In nove mesi, dall’estate del 2020 alla primavera del 2021, si sono consumati ben due golpe. Un paese che deve presentarsi granitico contro una potenza temibile e fortemente radicata, non può permettersi instabilità. Etiopia - Si avvia a conclusione l’annus horribilis dell’Etiopia e forse anche il conflitto nel Tigray, iniziato nel novembre dello scorso anno quando il Tplf (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray) organizzava e svolgeva una tornata elettorale senza il permesso di Addis Abeba e prendeva possesso di caserme e armamenti dell’esercito regolare palesando l’intenzione di considerare la propria regione separata dal resto del paese. Immediata è stata l’escalation militare avviata dal premier Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019. In pochi mesi le regioni settentrionale sono sprofondate in uno stato di terribile conflitto e la popolazione in una condizione di gravissima emergenza umanitaria, è stata molta. Il bilancio del 2021 è drammatico. Dei 6,5 milioni di abitanti della regione tigrina, 5,2 si trovano in stato di elevato bisogno alimentare. Gli sfollati interni superano abbondantemente i due milioni mentre quelli esterni, verso paesi storicamente più instabili dell’Etiopia come Sudan e Sud Sudan, aumentano di giorno in giorno. Il dato assume caratteristiche ancora più inquietanti se si considera che fino al 2019 l’Etiopia era tra i primissimi paesi al mondo per numero di profughi ospitati. Ma le ultime settimane hanno segnato un netto cambio di rotta nel corso del conflitto in gran parte grazie all’entrata in campo di alcuni attori internazionali tra cui la Cina e la Turchia. A Istanbul il 17 e il 18 dicembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avuto un colloquio privato con il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed. Dopo mesi di pessime notizie giunge proprio sul finire dell’anno quella che si attendeva da tempo. Si apre, tra mille contraddizioni, dubbi, rancori, al netto di un numero enorme di morti, sfollati e di una vera e propria emergenza umanitaria, un primo, significativo spiraglio di pace. Il Tplf, è tornato a casa e ha deposto, per ora, le armi. Ha poi chiesto una no fly zone sul Tigray e un embargo sugli armamenti all’Etiopia e all’Eritrea - nel frattempo divenuta solida alleata di Abiy - e si è rivolto all’Onu per assicurarsi il ritiro delle forze amhara ed eritree dal Tigray occidentale. Nagorno Karabakh - Che fine ha fatto il conflitto del Nagorno-Karabakh? Il 14 dicembre il tema della risoluzione del conflitto nel Nagorno-Karabakh è stato discusso in una telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e l’omologo francese Emmanuel Macron. Il Cremlino ha informato l’Eliseo sui risultati raggiunti dopo gli incontri trilaterali tra i leader di Russia, Armenia e Azerbaigian il 26 novembre a Sochi. In dettaglio Mosca ha illustrato a Parigi l’attuazione delle misure per rispettare il regime di cessate il fuoco, per garantire il ritorno dei profughi, nonché il ripristino dei collegamenti commerciali, economici e di trasporto nella regione. Grazie all’accordo del novembre 2020 sotto la regia della Russia, l’Azerbaigian ha recuperato i sette distretti contesi e parte del Karabakh. Dopo aver giocato un ruolo decisivo nel porre fine all’ultima guerra Nagorno-Karabakh, Mosca vuole la normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia perché vuole l’apertura di linee di trasporto ed energetiche nella regione. L’azerbaigian è favorevole all’instaurazione di una pace duratura che possa favorire lo status quo. La palla è ora nella parte dell’Armenia. Iraq. Saddam Hussein: nessuna giustizia, solo vendetta di Roberto Bertoni articolo21.org, 1 gennaio 2022 So di essere fuori moda, ma la volgarità e la violenza che caratterizzano quest’epoca barbara non mi appartengono in alcun modo. Non mi appartiene il compiacimento per il sangue, non mi appartiene la crudeltà, non mi appartiene la ferocia, non mi appartiene l’idea che un detenuto vada lasciato “marcire” in galera e non mi appartiene la sete di vendetta che connota, ormai da tempo, non solo ampi settori dell’opinione pubblica ma anche i vertici dei governi. Sono uno dei pochi, a quanto pare, che non avrebbe fucilato Mussolini a Giulino di Mezzegra e non avrebbe condannato a morte alcun nazista in quel di Norimberga, per il semplice motivo che noi non siamo loro e che nessuna azione, neanche la più spregevole, può giustificare la pena capitale, nemmeno quando si tratta di persone che avrebbero meritato senz’altro il carcere a vita per i loro crimini. Lo stesso discorso, a mio giudizio, vale per Saddam Hussein, una figura le cui responsabilità storiche sono sotto gli occhi di tutti ma la cui tragica fine lo ha reso una sorta di martire, titolo che non avrebbe meritato ma che siamo costretti ad attribuirgli sul campo per via del cappio al collo che ha segnato la sua fine esattamente quindici anni fa a Baghdad. Bisognerebbe eliminare dai vocabolari il verbo “giustiziare”: nell’omicidio di stato non c’è giustizia, c’è la stessa cattiveria dell’assassinio compiuto da un privato cittadino, con l’aggravante di una lucidità e di una consapevolezza che può talvolta mancare in un soggetto in preda a un ingiustificabile raptus ma che non manca di sicuro nel boia che esegue una sentenza di morte. L’impiccagione di Saddam, inoltre, non ha pacificato l’Iraq, non ha sanato le divisioni che si sono aperte nel paese in seguito alla sua caduta, non ha garantito stabilità e sicurezza all’Occidente, non ha reso giustizia a chicchessia, meno che mai alle sue numerose vittime, e ha mostrato unicamente il volto sanguinario di un’amministrazione, quella di Bush, le cui guerre in Afghanistan e, per l’appunto, in Iraq hanno provocato una destabilizzazione globale che pagheremo ancora a lungo. Quindici anni dopo riguardiamo quelle immagini con incredulità e dolore, ricordandoci che stiamo comunque parlando di un essere umano e che in quel corpo senza vita è racchiusa una duplice ingiustizia: quella per un esito inaccettabile a prescindere e quella che avvertiamo pensando a tutto ciò che avrebbe potuto ancora raccontare una persona così implicata nelle principali questioni globali degli ultimi quarant’anni. Saddam Hussein è una figura tragica, verso cui è impossibile non provare sentimenti contrastanti. Da una parte, infatti, ne ricordiamo le malefatte; dall’altra ne ricordiamo la fine e ci interroghiamo su cosa sia migliore il nostro modello rispetto al suo, se la sola conseguenza di una guerra d’invasione e priva di fondamento è stata il cappio, l’abbattimento, il gettare nella polvere il nemico senza riconoscergli nemmeno l’onore delle armi una volta sconfitto né quel minimo di dignità che avrebbe, quanto meno, dato l’impressione di una diversità di modi rispetto a un autocrate. Non abbiamo voluto, non ne siamo stati capaci, abbiamo preferito l’orrore e l’esecuzione alla forza del diritto. Chissà se quindici anni dopo qualcuno si è reso conto che a quel cappio ipocrita e intollerabile è rimasto appeso l’Occidente, non più in grado di rivendicare alcuna supremazia, meno che mai morale, e pertanto sconfitto senza possibilità d’appello. Myanmar. La loro libertà è anche la nostra di Ermanna Montanari e Marco Martinelli Il Manifesto, 1 gennaio 2022 Promesse per l’anno che verrà. Un contributo speciale da Teatro delle albe, per farla finita con la tracotanza della dittatura. Cosa ci aspettiamo per il 2022? Attendere è desiderare. E non si desidera mai una cosa sola. Noi, la prima candela del desiderio per l’anno che viene, l’accendiamo per la Birmania. Per quel Paese che ha subìto la dittatura militare più longeva al mondo, che ha creduto nella democrazia fino al martirio di tanti suoi figli, fino al sacrificio della sua leader, Aung San Suu Kyi, agli arresti domiciliari per vent’anni. Nel 2015 finalmente l’alba di una nuova Birmania: per quanto azzoppate dalle regole imposte dai militari uscenti, che si erano riservati, a prescindere dal responso delle urne, un quarto dei seggi del nuovo parlamento e tre ministeri-chiave, le elezioni avevano visto la vittoria di Suu Kyi e della Lega per la democrazia. E nel turno elettorale del 2020 il popolo birmano, a stragrande maggioranza, aveva confermato che la strada intrapresa era quella giusta. Nel marzo 2021 il sogno si è trasformato in incubo: con un vero e proprio colpo di Stato, i generali hanno incarcerato e torturato migliaia di persone, hanno sparato a vista nelle strade contro i pacifici dimostranti uccidendone a centinaia, hanno sospeso ogni diritto costituzionale. Con un processo-farsa hanno condannato Aung San Suu Kyi a tre anni di carcere: come in un tragico giorno della marmotta - ve lo ricordate, il film con Bill Murray? - la Birmania e la sua guida si sono risvegliate in trappola. È troppo attendersi una reazione vera dall’Occidente? Da tutti noi? In anni recenti, la pubblica opinione occidentale ha affrontato con superficialità la tragica questione dei Rohingia: invece di sforzarsi di comprendere le difficoltà della transizione democratica, ha fatto di Suu Kyi un facile capro espiatorio, indebolendone in questo modo la posizione, non tanto in relazione al popolo birmano, che ha continuato ad amarla e sostenerla, ma agli occhi dei generali, che hanno pensato fosse arrivato il momento per riprendersi in mano tutto il potere. “Usate la vostra libertà per promuovere la nostra”: era il mantra che Suu Kyi ripeteva agli amici europei e statunitensi negli anni dei suoi arresti domiciliari. Oggi non può dirlo, rinchiusa in una tenebra in cui non ha diritto di parola. Tocca a noi assumere quella invocazione come un imperativo di giustizia, solidali con quel popolo di studentesse e studenti, monaci buddisti e suore cristiane, che sfida ogni giorno la tracotanza della dittatura. Perché la loro libertà è anche la nostra.