Abbiamo visto. Sappiamo tutto. Ora cambiamo il carcere di Franco Corleone Il Manifesto, 19 gennaio 2022 In un momento crudele determinato dalla pandemia che ha reso il carcere un luogo ancora più chiuso e isolato con l’utilizzo della quarantena e con l’eliminazione di colloqui, incontri, corsi bisogna evitare il rischio del riformismo senza riforma, dell’imbellettamento su volti deturpati. Venti anni fa uscì un volume sulla mia esperienza di sottosegretario alla Giustizia. Era intitolato “La giustizia come metafora” e il capitolo sul carcere era arricchito da una introduzione di Sandro Margara ricca di suggestioni e di analisi. Ho ripreso in mano questo testo che raccontava una stagione di riforme, fondamentale l’approvazione del nuovo Regolamento di esecuzione all’Ordinamento penitenziario: “portato in porto da Corleone - non credo che il Regolamento ci sarebbe arrivato senza di lui - con qualche ferita non indolore (l’eliminazione della affettività sopra tutte)”, così annotava Margara. Con questa autorità, o almeno responsabilità, mi sento obbligato a intervenire nella discussione che è nata dopo la pubblicazione dei risultati della Commissione per l’innovazione della vita nelle carceri, nominata dalla ministra Cartabia e presieduta dal prof. Ruotolo. Con ironia Margara metteva in luce il fatto che troppo spesso riforme che non cambiavano nulla, erano definite come elementi di positive contraddizioni, ma che in realtà si trattasse di equivoci. Facciamo chiarezza dunque. È lodevole che dopo ventun anni, il Regolamento risale al 2000, si individuino elementi di adeguamento per aspetti importanti ma preliminarmente occorre denunciare la non applicazione di tante norme essenziali, al limite del sabotaggio. In un momento crudele determinato dalla pandemia che ha reso il carcere un luogo ancora più chiuso e isolato con l’utilizzo della quarantena e con l’eliminazione di colloqui, incontri, corsi bisogna evitare il rischio del riformismo senza riforma, dell’imbellettamento su volti deturpati. Alcuni suggerimenti sono preziosi, per ragioni di spazio in questa sede è impossibile citarli, sarebbe però decisivo che fosse previsto un termine perentorio per la realizzazione. Benissimo, dunque, ma non basta e soprattutto è preliminare risolvere alcune nodi che costituiscono vere e proprie precondizioni perché qualcosa cambi. In questo senso sono imprescindibili le Proposte della Conferenza dei Garanti territoriali per la riforma del carcere. La mancanza di direttori ed educatori ha ormai caratteri grotteschi. Non sarebbe il caso per i direttori di ricorrere alla mobilità nel settore pubblico con incarichi temporanei? Per il personale trattamentale si dovrebbe discutere l’opportunità del passaggio alle Regioni con maggiore legame con il territorio. Anche l’organico della magistratura di Sorveglianza va adeguato e il suo ruolo va riconosciuto come indispensabile. E veniamo al sovraffollamento. Non sopporto più l’ipocrisia di chi lamenta il fenomeno senza indicare le cause. La legge antidroga determina almeno il 30% delle presenze per violazione dell’art. 73 (detenzione e piccolo spaccio) e il Governo almeno deve fare propria la proposta Magi sui fatti di lieve entità. Così per il diritto alla affettività e alla sessualità occorre che il Governo sostenga il ddl 1876, predisposto dai garanti e presentato dal Consiglio Regionale della Toscana al Senato. Su queste due scelte si misura la discontinuità e l’immagine di un carcere dopo il Covid. Un decreto legge rispetterebbe le condizioni di necessità e urgenza e corrisponderebbe alla richiesta di Mauro Palma di voltare pagina. Anche una misura di ristoro, ad esempio la liberazione speciale anticipata, per sanare anche simbolicamente violenze e restrizioni sarebbe indispensabile. È ora di concepire soluzioni originali per il lavoro, per la cultura, per l’isolamento, per l’uso della forza, per le mense e i piccoli spacci, per le misure alternative e per la salute. La salute mentale in particolare richiede una cura particolare con misure terapeutiche in luoghi fuori dal carcere. Inutile ripetere che i consumatori di sostanze stupefacenti non dovrebbero stare in galera. Infine sperimentare istituti secondo il modello spagnolo senza polizia penitenziaria e adottare il numero chiuso. Follia? No, prova di intelligenza e ragione. Basta giocare con il fuoco, alla giustizia serve fiducia di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 19 gennaio 2022 Si fa cattiva informazione quando si lascia intendere che i problemi stiano tutti nel Csm. Non ho letto le decisioni del Consiglio di Stato. È da ritenere che in esse siano compiutamente spiegate le ragioni per le quali ha ritenuto che vi siano state violazioni dei criteri. Questo è il nostro sistema, nel quale anche il Csm è sottoposto al controllo di un altro giudice, che è libero di fare le sue valutazioni (diversamente il controllo non avrebbe senso). E il Csm, qualora ritenga infondati gli annullamenti, potrà riproporre le proprie scelte. Ci sono alternative? Certo, si potrebbe ritenere che per le nomine di vertice le decisioni del Csm non sono sottoposte a controllo di altro giudice. Ma lo accetteremmo, noi che ci nutriamo di perenni sospetti e che abbiamo di noi stessi l’immagine di un Paese nel quale dietro ogni cosa c’è qualche trama inconfessabile? Chi fa informazione, prima di gridare allo scandalo, dovrebbe, in casi come questi, chiedersi se al cittadino interessi che a presiedere la Corte di cassazione sia l’uno piuttosto che l’altro, posto che egli non ha alcuna ragione per ritenere che la sostituzione del nominato con il magistrato ricorrente abbia ricadute sull’amministrazione della giustizia, affidata a magistrati che, per definizione, sono tra di loro fungibili. La verità è che il problema delle nomine riguarda soltanto i magistrati e le loro ambizioni. Come ho sottolineato in altre occasioni, in tema di nomine c’è un solo settore sensibile ed è quello delle Procure della Repubblica. Qui, tuttavia, la differenza si spiega perché nelle Procure è concentrato un potere immenso e non controllabile. Perciò, si fa cattiva informazione, quando si lascia intendere che i problemi della nostra giustizia stiano tutti nel Csm, nella sua composizione e nelle nomine dei magistrati e si gettano sul Csm luci sinistre che coinvolgono l’intera magistratura. Non è così. Le nomine sono problemi interni al corpo dei magistrati. I problemi della giustizia, quelli che ricadono sulla pelle dei cittadini, risiedono altrove e, soprattutto, non si risolvono, cambiando un’ennesima volta le leggi sulle elezioni dei magistrati componenti il Csm (detto fra noi, il disegno di legge progettato potrebbe addirittura avere effetti negativi). Stiamo giocando con il fuoco. La giustizia, non diversamente dall’economia (e finanche dalla religione), ha bisogno della fiducia. Creare sfiducia, affogare ogni cosa nella melma del sospetto è distruttivo. È un’ulteriore picconata alla nostra debole e stanca democrazia, di cui non abbiamo sicuramente bisogno. La riforma che la giustizia non sa fare, primo compito per il Colle di Maurizio Crippa Il Foglio, 19 gennaio 2022 Non che ai suoi tempi le turbolenze ai piani alti della magistratura, e della politica di Giustizia, fossero assenti Dal 2010 vice presidente del Csm, al tempo di un governo Berlusconi particolarmente burrascoso con il mondo delle toghe, si è trovato a gestire i contrasti tra i pm e il leader del centrodestra con cui era stato vice ministro di Giustizia. E anche le magagne del sistema correntizio c’erano già. Dal 2015, con Renzi premier e Andrea Orlando in via Arenula, ha guidato tra le altre cose la Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario. Altre montagne russe. Oggi Michele Vietti guarda la politica e le vicende della magistratura con più distacco professionale, ma sempre con attenzione. E non può non notare un clima peggiorato. Il primo spunto è la bocciatura da parte del Consiglio di stato delle nomine di Pietro Curzio e Margherita Cassano - primo presidente e aggiunto della Cassazione- e la decisione (secondo alcuni obbligata) del Consiglio superiore della magistratura di confermarle. “Allora, nonostante le dispute non era in discussione la legittimazione dell’organo consiliare. Oggi invece il Csm è sotto schiaffo anche reputazionale”. Secondo molti osservatori, un suo predecessore Cesare Mirabelli ad esempio, intervenendo sulla validità, dice che il Consiglio di stato ha fatto un’invasione di campo. “È esatto, ha fatto qualcosa che ritengo censurabile, è una prevaricazione contro un organo costituzionale. Però, prima di gettare la croce sul Consiglio di stato, bisogna dire con chiarezza un’altra cosa”. Che è colpa del discredito in cui è caduto il Csm? “No, non è questo il punto. Ovvio, la delegittimazione esiste. Ma la prima e più grave colpa è della politica, Sono anni, lustri, che ci lamentiamo: il correntismo, le logiche di spartizione, la politicizzazione... ma è solo una litania di cui i partiti si disinteressano e su cui la politica non ha mai voluto intervenire. Da quanti anni sappiamo tutto del caso Palamara? E dunque?”. Sembra l’ennesima rissa di potere, o una incomprensibile guerra procedurale: anche la nomina del nuovo procuratore di Roma Francesco Lo Voi è passata dall’annullamento del Tar della nomina di Michele Prestipino. tutto qui? “Io sono del parere che nomine come queste, ai vertici della Cassazione intendo, non possono essere trattati dalla giustizia amministrativa -Tar o Consiglio di stato- come fossero delibere di un qualsiasi sperduto Comune. Sono cose completamente diverse. Ed è giusto, indiscutibile, che debba essere riconosciuto a queste nomine - che in ogni caso vengono fatte secondo procedure formalizzate - un margine di discrezionalità. Che è la discrezionalità appunto della politica - e intendo la parola nel senso più alto. Perché il Csm è il governo della magistratura”. Ma forse, a furia di logiche di correnti eccetera, il Csm è diventato un po’ troppo un “ufficio nomine”, e questo produce una inevitabile logica di ricorsi, bocciature. Non è così? “Ci può essere anche questo, ma ripeto: tocca alla politica rifare le regole”. Il governo, il ministro Cartabia, sta appunto lavorando alla riforma del funzionamento del Csm. Cosa occorre fare? Secondo Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, c’è per prima cosa da rivedere i meccanismi di valutazione delle carriere: questi ricorsi nascono da una mancanza di vera valutazione, dice. “Questo è decisivo. Ma va detto che proprio il Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria ha complicato le cose. Con la pretesa di misurare soltanto minuziosamente tutti i requisiti, impedisce quella scelta di merito che non può che essere, appunto, discrezionale. I magistrati, su questo, hanno preparato la corda con cui essere impiccati da soli. Per questo serve una riforma guidata dalla politica. Ad esempio, limitare al solo Consiglio di stato, in composizione speciale, il vaglio delle decisioni sui direttivi”. È uno dei temi su cui dovrebbe intervenire la riforma, oltre al meccanismo elettorale. Che ne pensa? “Francamente siamo al buio, nessuno parla né spiega”. Eppure Sergio Mattarella ha spronato più volte la magistratura all’autoriforma. “Cosa ovviamente importante, ma è evidente che nessuna corporazione vorrà mai riformare se stessa. Serve una messa in mora definitiva. e credo questa debba essere una delle priorità del nuovo presidente della Repubblica”. Che, a questo punto, potrebbe davvero essere Mario Draghi? “Su Draghi nulla quaestio, ovviamente. Il problema è che contestualmente alla sua elezione ci siano le garanzie di una prosecuzione autorevole del governo: e io, francamente, questo oggi non lo vedo”. Sarebbe meglio un altro presidente? “Non ho indicazioni da dare, ripeto che Draghi non può essere messo in discussione. Ma è necessaria una scelta che ridia centralità alla politica e a un Parlamento molto umiliato ed esautorato in questi anni. La scelta del presidente va fatta dal Parlamento”. Caratteristiche ulteriori, oltre alla autorevolezza e alla competenza? “Il presidente della Repubblica è il regista delle istituzioni. Dunque deve conoscere bene tutti gli attori: istituzioni, partiti, storia politica, personalità. Deve interpretare l’unità. È il lavoro più politico di tutti. Ed è difficile”. Cartabia: “Raggiunti tutti gli obiettivi della riforma” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2022 Oggi in Parlamento la prima relazione della guardasigilli. Su ordinamento giudiziario e Csm proposte a breve alla Camera. Sono stati raggiunti e superati gli obiettivi previsti per il 2021. È con una rivendicazione del lavoro fatto che la ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ieri sera ha visto il premier Mario Draghi, svolgerà oggi in Parlamento la sua prima relazione su un anno di amministrazione. Nella bozza del documento si mette l’accento sull’approvazione dei diversi interventi in materia di leggi delega su processo civile e processo penale; gli interventi in tema di insolvenza e l’avvio del reclutamento per l’Ufficio per il Processo. Di certo si è trattato di un anno caratterizzato ancora da una serie continua di emergenze determinate dalle conseguenze della pandemia, ma rispetto alle quali il tentativo è stato quello di rendere possibile, con la collaborazione di tutti i protagonisti della giurisdizione, interventi di riforma strutturali, sfruttando le risorse del Pnrr e tenendo l’Europa come bussola. Sull’intervento di maggiore spessore che ancora manca all’appello, quello di riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm, nella bozza Cartabia ricorda di avere presentato alla presidenza del Consiglio il pacchetto delle proposte di modifica al disegno di legge che dovrà essere discusso dall’Aula della Camera, i cui tempi di calendarizzazione la ministra scrive di volere rispettare. Si tratta di una riforma necessaria per ricucire, avverte la bozza di relazione, la fiducia dei cittadini nei confronti della magistratura e dell’intero sistema giustizia. Centrale nel 2021, ma non è certo una novità, è stato il tema della giustizia penale, dove Cartabia mette in evidenza l’importanza della legge delega approvata dopo un estenuante confronto all’interno della maggioranza. Due le direttrici, a leggere la bozza di relazione: da un lato la riforma incide sulle norme del processo penale, operando sulle varie fasi, dalle indagini fino al giudizio in Cassazione, per creare meccanismi capaci di sbloccare possibili momenti di stasi, di incentivare i riti alternativi, di far arrivare a processo solo i casi meritevoli dell’attenzione del giudice. Dall’altro, la riforma prevede interventi sul sistema penale, dalla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, all’estinzione delle contravvenzioni per condotte riparatorie, alla procedibilità a querela, alla pena pecuniaria e alle pene sostitutive delle pene detentive brevi; dai tutti questi ci si attendono effetti di deflazione processuale. Ma oltre all’efficienza la ministra mette l’accento sull’effettività della tutela penale, dove la prescrizione, soprattutto a processo in corso, e senza dubbio elemento di inciampo. Per questo, e il riferimento è al sistema dell’improcedibilità, è stata trovata un’intesa su un meccanismo che prevede proroghe dei termini, sospensione degli stessi, esclusione di alcuni reati e un regime transitorio per assicurare una graduale entrata in vigore. Sulla giustizia civile, l’accento è posto sul potenziamento delle forme di mediazione, sulla concentrazione dell’attività processuale, soprattutto nella fase antecedente alla prima udienza, sui filtri sia in primo grado sia in appello per consentire una rapida definizione delle cause fondate sia di quelle manifestamente infondate. Gli interventi sulla disciplina della crisi d’impresa, che a breve vedrà l’entrata in vigore del Codice (tuttavia modificato per recepire le misure di adeguamento alla direttiva comunitaria sulle quali è al lavoro una commissione), si è inscritta in un quadro che, puntualizza la bozza di relazione, ha avuto come obiettivo la conservazione dell’impresa, come “centro che non crea solo utili, ma anche posti di lavoro e ricchezza per il Paese”. Cuore della normativa sull’insolvenza è la composizione negoziale, con garanzia di riservatezza e aiuto di esperti terzi e imparziale. E a breve arriverà anche la proposta del ministero sul nuovo assetto dei reati fallimentari. Il Csm tra Cassazione e Consiglio di Stato nel crepuscolare silenzio di Mattarella di Jacopo Severo Bartolomei L’Opinione, 19 gennaio 2022 Ad appena una settimana da fine mandato, quando tutti gli addetti ai lavori si cimentano in arditi pronostici del Toto-Quirinale, lambiccandosi il cervello per individuare il successore di Sergio Mattarella e pendendo da labbra oracolari del masnadiero di turno (Letta jr., Conte, Salvini), il dibattito democratico langue e non solo per la pandemia sanitaria, che rappresenta solo la punta di un iceberg molto profondo di delegittimazione dell’ordinamento repubblicano e sostanziale elusione di vari fondamentali precetti costituzionali. Si ricorda opinatamente che mentre il toto-presidente si arricchisce di possibili candidati e relativi cursus honorum, nessuno precisa come intende esercitare il ruolo presidenziale, né quale rapporto il futuro presidente potrà intrattenere con la maggioranza parlamentare o con gli altri organi dello Stato (cfr. Salvatore Sfrecola, I Cittadini già prima dell’elezione devono sapere che presidente sarà, La Verità del 16 gennaio 2022, pagina 22, che cita Giuseppe Valditara e Antonio Baldassarre), essendo indubbia l’emersione di “un indirizzo presidenziale a contenuto culturale” attraverso interventi e silenzi nell’attività quotidiana, destinati ad attuare un vero e proprio indirizzo politico se non contra, di certo praeter i soggetti costituzionalmente legittimati. Infatti, l’indirizzo presidenziale, culturale o politico, finisce per avere diretta influenza sulla vita politica, delineando un orientamento che lo colloco quadro di riferimento ideologico. La dialettica democratica si alimenta del dibattito pubblico e del confronto aperto tra variegati e a volte contrapposte visioni programmatiche e di esercizio dei poteri, tra cui non ultimo tra quello giudiziario, “recte mediatico-giudiziario”, dall’insuperato saggio di Daniel Soulez Larivière, Paris-1993. Agli esordi della contestazione studentesca negli Usa, durante visita all’Università di Berkeley, rimase celebre l’affermazione di Robert Francis Kennedy, all’indomani dell’assassinio 1963 del fratello Jfk, secondo cui il giovane senatore di New York disse: “Non tollero il dissenso, lo esigo”. Invece con Sergio Mattarella la presidenza del Csm è stata perlopiù interpretata come onorifica, meramente notarile, scevra di qualsiasi incidenza innovativa sull’organo che nella gestione di momenti fondamentali della magistratura ha dimostrato più malfunzionamento e indebiti condizionamenti che altro. Il settennato si avvia inesorabilmente alla conclusione - l’interessato avendo escluso categoricamente e reiteratamente la propria disponibilità alla sua rielezione, seppur condizionata - con grave deficienza di dibattito e confronto intellettuale, su tale profilo essenziale, dei poteri spettanti ed esercitabili dal capo dello Stato quale presidente del Csm, per di più in situazioni di eccezionale urgenza e gravità, quali verificatesi nell’ultima consiliatura 2018-2022. In un primo commento alla nota quirinalizia 28/05/20, avevamo stigmatizzato senza mezzi termini - con linguaggio alieno da ogni riverenza paludata da costituzionalisti di regime - l’opzione di tendenziale selfrestraint dei suoi poteri, perseguita da Sergio Mattarella all’indomani “dell’affaire Palamara” e del caso Saguto. Il presidente, assecondando il vicepresidente David Ermini (“son da respingere tutte le ipotesi di scioglimento di un Csm, che ha dimostrato di aver girato pagina” sic!), beneficiario per la sua elezione stesso metodo deprecato usato per i titolari uffici apicali grandi città, si è limitato all’ordinaria amministrazione, condita di sermoni e indizione di elezioni suppletive (ben 3 nell’arco di meno di 18 mesi). Egli, ex giudice della Corte costituzionale ed insigne docente universitario di diritto parlamentare, non ha trovato di meglio che uniformarsi a riduttiva e miope interpretazione approntata dai suoi consiglieri giuridici dottor Erbani in primis (magistrato distaccato al quirinale previa autorizzazione stesso Csm). Secondo questi preclari giuristi, l’unico caso per poter procedere allo scioglimento dell’organo di autogoverno, è costituito dall’oggettiva impossibilità di funzionamento dell’organo, che si realizzerebbe soltanto al venir meno del numero dei suoi componenti, esclusa ogni altra possibile ipotesi di impossibilità funzionale. Ora l’ex vicepresidente Vietti - peraltro non innato cuor di leone - prese subito posizione a fine maggio 2020, contro tale interpretazione riduttiva e minimalista, più preoccupata di non interferire con le dinamiche correntizie e i patti interni al Csm, che di garantire la funzionalità costituzionale dell’organo e la credibilità di una istituzione ridotta ai minimi storici. In sintesi i consigliori di Mattarella e il presidente in persona hanno perorato la tesi che qualsiasi forma di scioglimento extra ordinem, non trovando diretto ancoraggio nel dato positivo, esulerebbe dai poteri presidenziali, da interpretarsi ed esercitarsi anche in questo frangente nel rigoroso rispetto del ruolo assegnato al capo dello Stato (cfr. discorso d’insediamento innanzi al Parlamento in s.c. tenuto in data 31.01.15 - cosiddetto discorso dell’arbitro). Tuttavia, lo sviluppo degli avvenimenti e soprattutto la realtà effettuale, rilevante non solo per l’analisi politologica (secondo l’insegnamento classico di Nicolò Machiavelli), bensì per la scienza del diritto costituzionale (nozione di Costituzione materiale, coniata da Costantino Mortati), hanno smentito la validità dell’interpretazione riduttiva, di stampo notarile asettico, rivendicata in teoria e voluta in prassi pervicacemente seguire, giacché l’odierna consiliatura del Csm, con fine mandato al 2022, ha dovuto sottostare a ben tre elezioni suppletive per il rinnovo parziale dell’organo collegiale di autogoverno della magistratura. Occorre considerare che il Csm nella formazione in carica al momento della deflagrazione dello scandalo Palamara, era composto nella componente togata di 16 membri, in base all’ultima tornata svoltasi l’8-9 luglio 2018 e nella componente laica di 8 membri, in base ai designati dal Parlamento in seduta comune in data 19 luglio 2018. È noto che la componente togata, il cui numero soverchiante pone problemi di subalternità dei laici, e comunque impossibilità della componente di provenienza parlamentare di garantire argini al corporativismo innato nella magistratura (presente anche in era prerepubblicana, ma dilagante in periodi di supplenza rispetto agli altri poteri dello Stato) si compone di 16 membri di cui 2 provenienti dalle funzioni di legittimità, 10 dalle funzioni giudicanti di merito e 4 dalle funzioni requirenti. Le prime elezioni suppletive sono state indette per i giorni 6-7 ottobre 2019 per rimpiazzare due componenti con funzioni requirenti di merito resesi necessarie dopo le dimissioni di altrettanti membri togati. A seguito di detta prima tornata sono entrati il dottor Antonino D’Amato, procuratore aggiunto presso il Tribunale Santa Maria Capuavetere e il dottor Nino Di Matteo, star televisiva, sostituto procuratore presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Per il giorno 8-9 dicembre 2019 le elezioni suppletive si sono tenute per il rimpiazzo di un componente con funzioni giudicanti di merito, resesi necessarie dopo le dimissioni di un’ulteriore componente togato nonché la rinuncia al subentro da parte del primo dei candidati non eletti nella tornata base del 2018; risultata eletta la dottoressa Elisabetta Chinaglia, presidente di Sezione del Tribunale di Asti. La terza tornata di elezioni suppletive è stata indetta e si è tenuta per i giorni 11-12 aprile 2021 per un componente con funzioni giudicanti di merito, resesi necessarie dopo le dimissioni di un ulteriore componente togato nonché la mancanza di candidati non risultati eletti nel medesimo collegio. Non occorre appellarsi all’esperienza e alla maestria in diritto costituzionale del presidente professor Mattarella - padre della legge elettorale 1993 post risultato referendario abolizione di pluralità di preferenze nel sistema politico delle elezioni delle Camere, chiamata “minotauro” per essere un coacervo di maggioritario e proporzionale - per constatare che già sotto l’aspetto meramente organizzativo l’indizione reiterata ed a breve scadenza di plurime elezioni suppletive per il rinnovo a tappe del Csm ha posto più di un problema. Non solo per la convocazione di collegi elettorali formati in via asimmetrica giacché il peso dei relativi collegi elettorali non può prescindere dalla consistenza numerica degli organici non territorialmente uniforme, bensì pure per il fatto che l’anomalia urbi et orbi additata da estirpare, cioè l’appartenenza correntizia e la decisività degli accordi fra i capicorrente nella designazione degli eleggibili alle cariche apicali degli uffici giudiziari delle città più importanti, è risultata riconfermata ed implementata. Tanto sotto un profilo di efficienza e funzionalità amministrativa, seppure il cuore del problema da affrontare in una prospettiva sistematica, è costituito dal fatto che il rinnovamento a scaglioni dell’organo collegiale altera irrimediabilmente la sua rappresentatività e lo espone ancor più a menomare le tanto declamate garanzie di autonomia ed indipendenza. Se la composizione mista del Csm e la presidenza affidata al capo dello Stato nel disegno dei costituenti dovevano rappresentare un raccordo essenziale tra il potere giudiziario e gli altri poteri, il predominio duraturo e pervicace della componente togata ha indotto la magistratura ordinaria ad erigersi in una casta non scalfibile, aliena e separata dai bisogni e dalle esigenze della società (in primis la domanda di giustizia secondo ragionevole durata) e da indulgere a spinte corporativistiche dirette alla tutela degli interessi di categoria. Quando si rappresenta che la dialettica delle varie correnti presenti all’interno del Csm dovrebbe assicurare un arricchimento culturale del dibattito sul problema della giustizia, si vuole celare il dato di fatto emergente agli occhi pure degli osservatori internazionali: l’abnorme durata dei processi civili e penali; la politicizzazione nell’avvio ad orologeria e nella conduzione di numerose indagini in cui sono coinvolti personaggi politici; il senso di impunità dei magistrati di ogni ordine e grado, in particolare in sede di giurisdizione domestica e addomesticata per i rilievi disciplinari devoluti alla cognizione del Csm. A questi gravi problemi il settennato di Sergio Mattarella non ha dato concrete e puntuali risposte, se si escludono i soliti sermoni più consoni al discorso del caminetto a fine anno. Da ultimo in data 24.11.21 il capo dello Stato tuonava “In questa direzione deve muoversi anche la riforma del Csm non più rinviabile. L’organo di governo autonomo, quale presidio costituzionale per la tutela dell’autonomia e indipendenza della magistratura, è chiamato ad assicurare le migliori soluzioni per il funzionamento dell’organizzazione giudiziaria, senza mai cadere ad una sterile difesa corporativa. È indispensabile, quindi, che la riforma venga al più presto realizzata, tenuto conto dell’appuntamento ineludibile del prossimo rinnovo del Consiglio Superiore. Non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte insostenibili”. A tale ennesimo enfatico monito, ha fatto riscontro l’annullamento - dopo il già preoccupante caso del procuratore capo di Roma dottor Prestipino, cooptato dal valente predecessore dottor Pignatone passato in Vaticano come promotore di giustizia (dopo che l’impostazione della maxi-inchiesta su mafia capitale era stata smentita dalla Corte di Cassazione) - delle nomine al vertice di Palazzaccio di Piazza Cavour. Infatti il Consiglio di Stato, alla vigilia cerimonia di inaugurazione anno giudiziario, in accoglimento del ricorso in appello patrocinato dal professor Franco Gaetano Scoca, ha dichiarato illegittime le nomine, fatte nel 2020 dal Csm, del presidente della Suprema Corte Pietro Curzio e del presidente aggiunto Margherita Cassano, ribaltando precedente sentenza Tar Lazio. Per quanto riguarda le obiezioni alle nomine di Curzio e Cassano, la difesa del magistrato Angelo Spirito che ha impugnato le delibere prese dal Csm nel luglio 2020 - con le quali dopo l’affaire “Palamara” e lo scandalo che aveva travolto il Csm, si rinnovarono i vertici della Suprema Corte - critica la “sopravvalutazione delle esperienze professionali di Curzio” e la “prevalenza di meriti” riconosciuti alla Cassano. In particolare, nel ricorso contro la nomina della Cassano a presidente aggiunto della Suprema Corte, è stato contestato il “peso” riferito “alla sua esperienza di componente del Csm”, a fronte della “netta esperienza quantitativo-temporale” dell’impegno svolto da Spirito che ha il grado di presidente di sezione da 20 anni, a fronte dei 13 della rivale. Dopo l’annullamento senza rinvio, da parte del Consiglio di Stato, delle delibere di designazione dei vertici apicali della Cassazione (il vicepresidente aggiunto era la prima donna), adesso il dossier torna a Palazzo dei Marescialli, che si trova di fronte a diverse opzioni, tra cui la riadozione del medesimo provvedimento con diversa motivazione, con un comportamento a rischio smaccatamente di elusione. “Il Csm potrebbe farlo ma non è una strada facile, giacché il Consiglio di Stato ha ribaltato tutta l’impostazione delle due delibere. Conoscendo il modus operandi del Csm - prosegue critico professor Scoca - faranno di tutto, perché a seguito della decisione del Consiglio di Stato non succeda niente. Il Csm potrebbe fare ricorso in Cassazione a Sezioni Unite civili, al solo fine di perdere tempo dato che il ricorso è ammesso solo per contestare la giurisdizione, ma è indubbio che siamo nel campo amministrativo. Facendo ricorso alle Sezioni Unite, la sentenza di annullamento non passa in giudicato. Poi nel frattempo tutti vanno in pensione”. Il quadro è realistico, perché il Csm per non piegarsi alle pronunce del Giudice amministrativo, è stato negli anni capace di inventarsi di tutto, sino a pretestuosa sollevazione di conflitti di attribuzione tra poteri dello stato, quando un ricorrente vittorioso doveva esperire il giudizio di ottemperanza, chiedendo la nomina di commissario ad acta per sostituirsi all’inadempienza protratta del Csm! Questo quadro dovrebbe indurre la classe politica, i pochi scampoli residui, a porsi il problema di riportare il rispetto dei canoni di legalità - tanto declamati nelle vicende altrui, nelle nomine degli uffici giudiziari, frutto di mercimonio morale e inquinamento imagologico. Per ultimo, nel caso che gli augusti interessati piegassero a fini dilatori il ricorso per motivi di giurisdizione, ci si augura che il Collegio composto da tutti i membri sopposti ai due decapitati, non gli risparmino oltre la condanna a spese legali, l’irrogazione delle sanzioni che con disinvoltura si comminano agli altri cittadini quando hanno l’ardire di esperire rimedi inammissibili. Nessuno ha posto al centro dei requisiti del prossimo presidente della Repubblica, il supremo magistrato repubblicano, la capacità di incidere sul malfunzionamento sistemico della magistratura ordinaria, di cui l’ultima paradossale vicenda si pone come cartina di tornasole di una infingarda latitanza. Dopo esser stato eletto, al quarto scrutinio con 665 voti, Mattarella disse “significativamente” che “il presidente della Repubblica è garante della Costituzione; la garanzia più forte consiste nella sua applicazione; nel viverla giorno per giorno garantire la Costituzione significa che si possa ottenere giustizia in tempi rapidi”. Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. *Avvocato Amministrativista - Collaboratore stabilizzato Cattedra di Diritto costituzionale, Roma III “Nelle misure antimafia si evitino le ingiustizie, ma non è tempo di disarmo” di Errico Novi Il Dubbio, 19 gennaio 2022 “Certo, casi di ingiustizia legati all’applicazione delle misure antimafia vanno evitati. E lì dove si valorizza il contraddittorio con la difesa, è possibile giungere a conclusioni più precise, a cominciare dal coinvolgimento di un imprenditore nell’organizzazione mafiosa. Ancora: l’evoluzione che va verso una sempre più attenta affermazione dello Stato di diritto è attestata anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma attenti. Perché passare da un’impostazione evolutiva a una rinuncia al doppio binario previsto dal codice antimafia non trova alcuna giustificazione. Le organizzazioni criminali sono tuttora molto pericolose anche se vestono abiti diversi, quelli dell’intermediario irriconoscibile a un primo sguardo. Vuol dire che il quadro è diventato più complesso, non certo più tranquillizzante”. Federico Cafiero de Raho è da oltre quattro anni procuratore nazionale antimafia. Risponde qui all’anacronismo che accademia e avvocatura scorgono nella legislazione antimafia del nostro paese, basata sul cardine dell’eccezionalismo. Ma il vertice della Dna dà un primo pur generale giudizio anche sulla proposta di legge, a prima firma Gabriella Giammanco, che oggi Forza Italia presenterà in Senato per rivedere le misure di prevenzione ed evitare così ingiustizie come quelle subite da Pietro Cavallotti, il giovane imprenditore di Belmonte, nel Palermitano, che oggi interverrà alla presentazione di Palazzo Madama. Prima di arrivare alle proposte di legge, Procuratore, si può dire che lo stato d’eccezione delle norme antimafia può cominciare a essere ridimensionato? Partiamo da un dato. La mafia non è vinta, non è scomparsa: si è riprodotta. Indossa il vestito dell’impresa, si è incistata nell’economia legale. Si radica non solo nel Nord Italia ma anche lontano dall’Europa, in società nelle quali è in apparenza impossibile scorgere il segno dell’origine criminale. Il salto di qualità richiede un contrasto diverso? Sì, un contrasto non certo attenuato: gli interessi economici dell’organizzazione criminale non sono più affidati a persone di famiglia, come negli anni Settanta, o a figure comunque riconducibili, ma a soggetti lontani, individuati con strategia. E solo indagini molto complesse, basate per esempio sulla decrittazione di messaggi in codice, consentono di ricostruire trame del genere. Intuire un legame fra l’amministratore di una società, magari operativa all’estero, e l’organizzazione mafiosa è così difficile che solo chi conosce quello specifico settore d’impresa può cogliere dettagli in grado di innescare un allarme. Ecco perché non va affatto dismessa la legislazione antimafia: va casomai resa più avanzata. Ma neppure si può ignorare la sconfitta della vecchia mafia stragista... Che con la propria strategia si è condannata all’ergastolo. Ma la mafia attuale, con la sua strategia della sommersione, è insidiosissima. Si manifesta nella sua pervasività in particolare al Nord, dove l’intimidazione attuata per insediarsi nel tessuto economico è spesso sottile. Cito un’intercettazione in cui un emissario di Antonio Piromalli convinse il titolare di un villaggio turistico ad accordarsi con imprese della ‘ndrangheta per l’affidamento dei sevizi di pulizia e ristorazione. Venne utilizzata una frase brevissima: “Noi siamo i garanti della Calabria”. L’imprenditore capì subito. Passò in un istante dal “no grazie” alla ricerca di una via per siglare un patto. Ora sa qual è un frutto avvelenato della pandemia? Siamo allo sciacallaggio delle mafie? Il paradigma è l’imprenditore che non riesce ad accedere al credito e si rivolge al prestito mafioso. L’organizzazione criminale entra in quel modo nell’attività ma senza neppure ricorrere ad avvicendamenti nella compagine aziendale. Semplicemente controlla il titolare che rimane dov’è, con i mafiosi che lo utilizzano per reinvestire i capitali. E qui siamo anche al nodo delle proposte di legge in arrivo in Parlamento. Oggi la senatrice FI Giammanco (FI) ne illustra una che modifica le misure di prevenzione patrimoniali... Parto da un presupposto: mantenere il doppio binario resta tuttora necessario. Ad esempio, se c’è una sproporzione fra i valori di un’azienda e la effettiva capacità reddituale, non si può smettere di cogliervi il segnale di un inquinamento mafioso, a meno che la sproporzione non si giustifichi in altro modo. Casi di ingiustizia, nei sequestri antimafia, ce ne sono stati, e a volte assai gravi: li si può evitare? Certamente. Non si può abbattere però la legislazione attuale. Lì dive ci sono guasti è necessario intervenire, ma si tenga presente che i procedimenti di prevenzione sono giurisdizionalizzati a tal punto che in Europa sono considerati un modello. D’altronde sempre più spesso il traffico di stupefacenti segue rotte settentrionali lontane dal Mediterraneo, e la sinergia fra squadre investigative di paesi diversi è indispensabile. Resta il rischio dei sequestri in danno di imprenditori di cui in parallelo si accerta l’innocenza nel processo penale... Ripeto, bisogna intervenire affinché non si perpetuino ingiustizie, ma con l’ascolto, ai tavoli tecnici, di operatori della giustizia in grado di suggerire soluzioni che non compromettano l’efficacia degli strumenti. A cosa si riferisce in particolare? Si può trarre spunto da un aspetto della proposta di legge che sarà presentata nelle prossime ore in Senato e che, anche se si attiva un controllo giudiziario, consente al titolare dell’impresa di proseguire nella conduzione dell’attività: così però c’è il rischio di un’alterazione documentale che comprometta i riscontri con cui si può verificare la partecipazione della mafia. Possiamo pensare a correttivi, a tutele in grado di assicurare la costante affermazione dello stato di diritto, ma va nello stesso tempo tenuta in conto la capacità delle organizzazioni criminali nell’individuare consulenti in grado di manipolare i segni dell’inquinamento. Non condivido inoltre, nel testo in arrivo al Senato, la sovrapposizione quasi assoluta fra il sistema di prevenzione e le regole processuali penali in materia di prova. In cui però la prova è accertata nel contraddittorio... Nelle proposte di cui si leggono anticipazioni si propone che alla base della misura di prevenzione debbano necessariamente esserci indizi gravi, precisi e concordanti. È la stessa definizione contenuta nelle norme del processo penale rispetto alla valutazione della prova. Ma se facciamo coincidere la qualità degli indizi necessari alle misure di prevenzione, che devono anticipare la risposta nel caso di pericolosità, con i presupposti in grado di portare alla condanna nel processo penale, la prevenzione non esiste più. E per paradosso, la proposta di legge suggerisce di rispondere a indizi gravi, precisi e concordanti non con un procedimento penale ma con la procedura di prevenzione che determina la sorveglianza speciale. C’è però da scongiurare il rischio che il dissequestro seguito a un accertamento dell’innocenza del titolare arrivi quando ormai l’azienda è compromessa... Assolutamente, ma per farlo si deve sempre verificare la capacità di un’azienda di reggersi nel quadro dell’economia legale. Servono valutazioni prudenti, il che vuol dire, naturalmente, anche acquisire indizi tali da desumere la certezza che quell’impresa possa essere riconducibile al contesto mafioso. È possibile farlo anche attraverso l’ulteriore riconoscimento del contraddittorio con la difesa, ed è quanto avviene in virtù delle ultime modifiche alle norme sulle interdittive decisive dai prefetti, che valorizzano appunto il contraddittorio in modo da modulare le misure in quei casi in cui si è di fronte solo a una agevolazione occasionale dell’impresa da parte della mafia. È possibile una regolazione analoga anche nel procedimento di prevenzione, cioè nei sequestri? È il principio a cui obbedisce il ricorso al controllo giudiziario, che è tanto più efficace e privo di effetti critici per l’azienda quanto più l’attività di prevenzione si svolge in tempi rapidi. Valorizzare la partecipazione della difesa, anche nelle misure di prevenzione, può consentire di raggiungere determinazioni più precise. Anche le novità sulle interdittive dimostrano come un’evoluzione simile sia in atto, ed è anche apprezzata dalla Cedu. Evitare le ingiustizie è un obiettivo a cui non si deve derogare, ma neppure si può recedere dal contrasto delle mafie, sempre più pervasive, solo perché si presentano con un abito diverso dal passato. “Il Csm torni autorevole: solo così le sue decisioni saranno inattaccabili” di Valentina Stella Il Dubbio, 19 gennaio 2022 Per Rossella Marro, Presidente di Unicost, il conflitto tra Consiglio di Stato e Consiglio superiore della magistratura si può risolvere solo così: “Dobbiamo metterci d’accordo con noi stessi: vogliamo ampliare o limitare la discrezionalità del Consiglio nella comparazione dei profili?”. E critica le dichiarazioni fatte a questo giornale dal segretario di Md Stefano Musolino: “Per anni abbiamo rivendicato l’azione giudiziaria rimandando al mittente le accuse di una giustizia ad orologeria”. Presidente come giudica quanto accaduto tra Csm e Consiglio di Stato? La premessa è che le sentenze del giudice naturale vanno sempre rispettate. Non condivido pertanto la posizione espressa in una intervista al vostro giornale dal collega Stefano Musolino (segretario di Magistratura Democratica, ndr) per cui le motivazioni delle sentenze del Consiglio di Stato sarebbero state depositate con una tempistica sospetta. Per anni abbiamo rivendicato l’azione giudiziaria rimandando al mittente le accuse di una giustizia ad orologeria. Ma al di là del fattore tempo, qual è la sua opinione? Il Cds è andato oltre? Il Csm deve valutare i diversi profili dei magistrati, godendo di una discrezionalità che tuttavia col tempo lo stesso Consiglio ha limitato con il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria ed altri interventi (ricordo le griglie per l’accesso alla Dna) dettati forse anche dalla sfiducia che serpeggia tra la base. Pertanto, nel momento in cui esistono dei paletti fissati dallo stesso Csm diventa fisiologico, come avvenuto anche in tanti altri casi, che si inserisca il provvedimento dell’autorità amministrativa. Nulla esclude in ogni caso che il Csm, se è stato ravvisato un difetto nella motivazione, confermi nuovamente la nomina motivando più approfonditamente. Dobbiamo metterci d’accordo con noi stessi: vogliamo ampliare o limitare la discrezionalità del Consiglio nella comparazione dei profili? Lei cosa si risponde? Non c’è dubbio che più limitiamo la discrezionalità, più si amplia il margine di intervento della giustizia amministrativa. Autorevoli costituzionalisti e commentatori, tra cui Vladimiro Zagrebelsky e Cesare Mirabelli, hanno evidenziato la necessità che il Csm recuperi maggiore discrezionalità. È chiaro che questo percorso deve coincidere con un recupero di autorevolezza e credibilità del Csm stesso che renderebbe diffusamente riconosciute le decisioni assunte. Quindi voi siete a favore di una maggiore discrezionalità? Dipende molto anche dal tipo di incarichi su cui ci si deve esprimere. Quelli apicali, come quelli in questione, probabilmente richiederebbero una maggiore discrezionalità. Nell’intervista che lei citava prima il dottor Musolino ha anche detto “il Csm ha il compito di “fare” politica giudiziaria, e a questo non può supplire il Consiglio di Stato, pena una perdita di indipendenza della magistratura”. Che ne pensa? Il Csm è espressione di diverse sensibilità culturali, che entrano in gioco in diversi settori di intervento dello stesso organo di governo autonomo. Senza dubbio spetta al Consiglio concorrere alla politica giudiziaria. Ma in relazione alla valutazione comparativa dei curriculum per il conferimento degli incarichi, allo stato attuale, i parametri della normativa secondaria, che sono stati dati nel Testo unico della dirigenza, escludono che possano trovare ingresso valutazioni ulteriori e diverse rispetto a quelle previste. Quindi, se ne può discutere, ma allo stato attuale, la prospettiva del collega Musolino non può trovare albergo nelle decisioni del Csm. Zagrebelsky nel suo editoriale sulla Stampa ha sottolineato come i criteri di valutazione si applicano a magistrati che è difficile distinguere. Stesso concetto espresso dal presidente dell’Unione Camere Penali che chiede una profonda modifica delle valutazioni. Lei è d’accordo? Effettivamente spesso le valutazioni di professionalità sono molto somiglianti tra loro. Ciò rende difficile comprendere in concreto che differenza c’è tra i profili dei candidati. Nel voto della V commissione del Csm che ha riconfermato Curzio e Cassano l’esponente di Unicost Michele Ciambellini si è astenuto. Come mai? Partendo dal presupposto che le riunioni delle commissioni non sono pubbliche, posso supporre che la valutazione compiuta dal consigliere Ciambellini, sempre molto attento al profilo istituzionale, sia connessa ai tempi strettissimi dettati dalla maggioranza della Commissione. Non ho dubbi che si sia trattato di una posizione a tutela dell’Istituzione e di tutte le persone coinvolte nelle decisioni del giudice amministrativo. Il dottor Andrea Reale, esponente dell’Anm con la lista dei 101, ha parlato di “atto di forza e sostanziale elusione della sentenza del giudizio amministrativo”... Non parlerei di un atto di forza ed elusione del giudizio amministrativo, non conoscendo neanche le motivazioni della proposta di delibera di riconferma. Non vi è dubbio comunque che la dialettica tra le istituzioni debba svolgersi in termini di reciproca legittimazione e che una eccessiva rapidità possa restituire all’esterno l’immagine di un Consiglio poco attento alle decisioni del suo giudice naturale. Ma secondo lei quindi cosa si sarebbe dovuto fare per affrontare la situazione a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario? Quello che posso ribadire è che certe decisioni hanno bisogno di tempo per essere assunte. Intanto il Presidente Curzio avrebbe comunque potuto presiedere con piena legittimazione l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Tutto questo quadro rende ancora più urgente la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario... Bisogna però stare attenti a non fare una riforma che come reazione peggiori la situazione. Ad esempio, il sorteggio dei candidati al Csm, a parte i profili di incostituzionalità, violerebbe il principio di piena rappresentanza, limitando il numero degli eleggibili, e determinerebbe una delegittimazione della componente togata rispetto a quella laica, che continuerebbe a ricevere una forte legittimazione parlamentare. Restituirebbe inoltre un’immagine offuscata della magistratura, non pienamente in grado di eleggere i suoi rappresentanti in seno al Csm. Non dimentichiamoci che anche oggi ci si può candidare come indipendenti raccogliendo un numero limitato di firme. Il sorteggio degli eleggibili determinerebbe quindi verosimilmente la corsa all’appoggio, trasparente o occulto, sempre dei gruppi organizzati. Non mi sembra una soluzione. Il caso dell’avvocato Pittelli e cosa ci insegna sull’importanza delle regole di Luigi Manconi La Repubblica, 19 gennaio 2022 Quello che segue è un piccolo test, che non ha l’ambizione di una indagine sociologica sugli orientamenti collettivi di una popolazione e nemmeno quella di definire la fisionomia culturale di un gruppo sociale o di un ceto professionale. Lo scopo è, più semplicemente, la rilevazione del tasso di garantismo di ognuno: una sorta di “garantismometro”. Ovvero la misurazione del rispetto che ciascuno esprime nei confronti dei principi, anzitutto costituzionali, e delle garanzie che governano l’amministrazione della giustizia e, in particolare, il processo penale. E che fanno sì che il codice penale sia la “Magna Charta” del reo. Pigliamo un caso tra i molti possibili. L’avvocato Giancarlo Pittelli, nato a Catanzaro nel 1953, parlamentare di Forza Italia dal 2001 al 2013, è attualmente recluso nel carcere di Melfi, con l’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, poi derubricata a concorso esterno in associazione mafiosa, e di rivelazione di segreti d’ufficio. Non so alcunché di lui sotto il profilo del carattere e della vita privata, della personalità e dei suoi costumi. Non ho alcun motivo particolare di simpatia o di avversione. E, della sua vicenda giudiziaria, conosco solo il poco che pubblicano i giornali. Di conseguenza, non sono in grado di affrontare la sua vicenda processuale da un punto di vista complessivo. E, tuttavia, ritengo che alcuni piccoli dettagli - episodi in apparenza secondari - di quella stessa vicenda risultino talmente dirompenti da indurre a una riflessione sul funzionamento generale della giustizia. E su una crisi che appare ormai irreversibile. Primo trascurabile dettaglio. Come già evidenziato su Il Riformista, nell’ordinanza di custodia cautelare viene riportata l’intercettazione relativa a un dialogo tra Giovanni Giamborino, accusato di essere affiliato alla ‘ndrangheta, e la propria moglie. Quest’ultima dice: “Qui abita Pittelli?”. Risposta di Giamborino: “Sì”. E la donna: “Ma è mafioso…”. Così la conversazione viene riportata nell’ordinanza, ma omettendo l’intonazione interrogativa e le frasi successive. Infatti, la trascrizione integrale dello scambio tra marito e moglie prosegue e Giamborino replica: “No, avvocato”. Quest’ultima frase che, se omessa o ignorata, rovescia totalmente il significato delle parole della donna (“È mafioso…”) da dubitativo in assertivo, è ovviamente cruciale. Di più: è determinante per la comprensione del senso della conversazione intercettata. Secondo trascurabile episodio. Nell’ottobre scorso, mentre si trova agli arresti domiciliari, Pittelli scrive a Mara Carfagna, ministra per il Sud e la coesione territoriale, sua antica conoscente e collega di partito. Le invia una lettera in cui contesta la ricostruzione proposta negli atti. Parla di “manipolazione” di alcune trascrizioni di intercettazioni, come quella di una conversazione telefonica avvenuta nel 2016 con un suo cliente, che rivela notizie già divulgate precedentemente dai quotidiani locali. Nella stessa lettera, Pittelli parla di un’altra captazione ambientale, nella quale gli inquirenti avrebbero inserito un avverbio (“ancora”) destinato a cambiare il senso della frase. Si aggiungono, poi, altre valutazioni relative a comportamenti che la Procura avrebbe considerato come prova di una sua complicità con l’associazione criminale. Il senso complessivo delle parole di Pittelli è inequivocabile: è lo sfogo di un uomo disperato, che tale si definisce e che, proprio in ragione di quella “disperazione”, decide di violare il divieto di “avere rapporti di corrispondenza” mentre si trova agli arresti domiciliari. Ma la lettera, che certifica uno stato di acutissima depressione e di smarrimento, viene utilizzata come prova a carico; e la sanzione che ne consegue è inesorabile: l’avvocato Pittelli deve tornare in carcere. In quello di Melfi, dove ha appena iniziato uno sciopero della fame. La domanda che traggo, da una vicenda indubbiamente complessa, è la seguente: possono questi DUE trascurabili dettagli porre in discussione la situazione processuale di Pittelli? So bene che né l’uno né l’altro di questi episodi hanno l’effetto di inficiare l’apparato accusatorio e il quadro probatorio a carico dell’avvocato di Catanzaro. Ma la questione resta aperta in tutta la sua scandalosa enormità. Che così riassumo: può considerarsi coerente e ragionevole, argomentato e razionale, un impianto accusatorio che si giova di quella (e chissà di quante altre) manipolazione delle prove? Può considerarsi legittima ed equa un’azione penale che trasferisce un indagato dalla condizione degli arresti domiciliari a quella della reclusione in carcere per una violazione dovuta a una particolare crisi emotiva? Mi si dirà: ma stiamo parlando di una indagine che ha per oggetto l’attività di grandi organizzazioni criminali, che ricorrono all’omicidio come strumento di esercizio del potere. E stiamo parlando di uomini che, secondo l’accusa, “concorrerebbero” a quella stessa attività criminale. D’accordo, e non discuto minimamente tutto ciò. Tuttavia mi chiedo se, al fine di prevenire delitti, anche i più efferati, si possa accettare di trascurare le regole, stravolgere le forme, sospendere le garanzie. E se ciò non produca danni altrettanto profondi e duraturi nel tempo quanto quelli determinati dalle azioni criminali delle ‘ndrine. Pensiamoci, almeno. “Simona, piangendo disse che voleva andarsene da casa!” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 gennaio 2022 “Piangeva. Simona non ha mai pianto nella sua vita. E quel giorno piangeva”, tanto che disse di volersene andare via da casa. “Simona mi disse otto giorni prima, nove giorni prima, che poi non ci siamo viste più, perché sono andata fuori, che se ne voleva andare”. Si sono aggiunti altri tasselli sulla scomparsa di Simona Floridia avvenuta ufficialmente il 16 settembre del 1992 a Caltagirone, che fanno vacillare ulteriormente l’accusa nei confronti di Andrea Bellia, unico imputato - dopo trent’anni dal fatto - che rischia di essere condannato all’ergastolo senza alcuna prova tangibile, ma solo tramite un unico indizio da ritrovarsi in una intercettazione tra due adolescenti appena 18enni, ripescata dopo più di 20 anni. Durante la scorsa udienza presso la Corte d’Assise di Catania, sono stati sentiti tre ex compagni di comitiva di Simona Floridia e Andrea Bellia. Emerge che circa una decina di giorni prima della scomparsa, Simona e la madre sono andati a mangiare a casa di una delle testimoni sentite. Fu in quell’occasione che Simona le ha detto che voleva andarsene di casa, visto un evidente rapporto conflittuale con i genitori. “Ricordo che me l’ha detto, che se ne andava. E per un tratto è stata molto arrabbiata, questo sì!”, ha deposto la sua ex amica. L’avvocata Pilar Castiglia le ha domandato: “Ricorda se piangeva?”. La testimone: “Piangeva. Simona non ha mai pianto nella sua vita. E quel giorno piangeva”. Ma non ricorda altro. A quel punto l’avvocata Castiglia le legge le dichiarazioni che fece all’epoca, quando fu sentita a sommarie informazioni: “Mentre piangeva, fatto strano, perché non l’aveva mai vista piangere, poiché di carattere molto forte, minacciò i suoi genitori di volerli ammazzare, e di volere andare via di casa”. Non se lo ricorda più. Ma è fisiologico, perché dopo trent’anni è difficile ricordate fatti e circostanze. Per questo motivo l’avvocata Castiglia ha chiesto l’acquisizione del verbale di sommarie informazioni. Ma il Pm non ha dato il consenso all’acquisizione di atti del suo ufficio. Un’occasione persa, perché evidentemente sarebbero di maggiore aiuto alla ricerca della verità rispetto alle testimonianze, in alcuni casi confuse e approssimative. Comunque sia, dall’ultima udienza emerge che la 17enne Simona voleva andarsene di casa. Questo fa il paio con l’udienza precedente: è emersa una annotazione di servizio, dove l’assistente capo, addetto alla squadra di polizia giudiziaria, riferisce che il 18 settembre apprende dal padre di Simona che quest’ultima era stata notata, verso le ore 11 e 30 del mattino stesso, nei pressi della stazione ferroviaria. Un fatto riferitegli da un collega della Polfer. Non è poco. Vuol dire che due giorni dopo la data ufficiale della scomparsa, poi si sarebbe recata alla stazione. Per andare dove? Non lo potremo sapere mai. Anche perché, così è emerso nell’udienza precedente, l’allora uomo della Polfer ha deposto spiegando di non aver accertato se a quell’ora passassero treni e dove andassero. Non è stata nemmeno diramata la foto di Simona alle stazioni collegate con quella di Caltagirone. Diventa sempre più difficile condannare oltre ogni ragionevole dubbio un uomo, oggi 47enne, che rischia di finire il resto della sua vita in carcere, perché - secondo l’accusa - dopo un giro in vespa avrebbe, al culmine di un litigio, gettato da un dirupo Simona. Lui stesso, come già testimoniò all’epoca della scomparsa, avrebbe invece, dopo un giro, riaccompagnato la ragazza in centro, vicino ad un bar e poi non l’avrebbe più rivista. Eppure, ora è agli atti una annotazione di servizio dove si scopre che Simona è stata vista alla stazione due giorni dopo il presunto omicidio. Non solo. All’ultima udienza è emerso - grazie alla testimonianza resa da una sua amica - che la ragazza aveva annunciato, piangendo, che voleva andarsene via di casa. Ricordiamo che Floridia era una ragazza suggestionabile e trovava conforto nel mondo dell’occulto, all’epoca un sottobosco molto diffuso nella sua zona in provincia di Catania. Pena incostituzionale (droghe pesanti), la rideterminazione a un giudice diverso di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2022 La Corte costituzionale con la sentenza n. 7 del 18 gennaio 2022 ha giudicato parzialmente illegittimi gli articoli gli articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale. Sono costituzionalmente illegittimi gli articoli 34, comma 1, e 623, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di cassazione. Lo ha deciso la Corte costituzionale con la sentenza n. 7 del 18 gennaio 2022. La vicenda - La questione era stata sollevata dal Gip del Tribunale di Verona, in funzione di giudice dell’esecuzione. Il rimettente afferma di aver emesso sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (passata in giudicato l’11 gennaio 2019) nei confronti del ricorrente - detenuto in carcere - per il reato di cui agli articoli 73, comma 1, e 80 del Dpr n. 309 del 1990. Dopo la sentenza della Consulta n. 40 del 2019 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in materia di stupefacenti (nella parte in cui prevedeva la pena minima della reclusione nella misura di otto anni, anziché di sei), il condannato ha proposto incidente di esecuzione. Non avendo le parti raggiunto l’accordo, il giudice a quo ha rigettato la richiesta di nuova commisurazione della pena, in quanto il condannato si era reso colpevole di un fatto di allarmante gravità. A questo punto il difensore ha impugnato l’ordinanza di rigetto proponendo ricorso innanzi alla Corte di cassazione che ha annullato l’ordinanza impugnata. Il giudizio di rinvio è stato assegnato al medesimo giudice in applicazione della disposizione di cui all’articolo 623, comma 1, lettera a), cod. proc. pen. A questo punto il rimettente ha ritenuto che non potesse essere il medesimo giudice-persona fisica, che si sia già espresso, nell’ordinanza annullata dalla Corte di cassazione, a decidere nel giudizio di rinvio su un aspetto fondamentale, qual è quello della quantificazione della pena, che implica “penetranti poteri di valutazione di merito”. La motivazione - L’apprezzamento demandato al giudice in sede di rinvio - afferma la Consulta - assume, con riferimento alla individuazione del “giusto” trattamento sanzionatorio, la natura di “giudizio” che, in quanto tale, integra il “secondo termine della relazione di incompatibilità [...], espressivo della sede “pregiudicata” dall’effetto di “condizionamento” scaturente dall’avvenuta adozione di una precedente decisione sulla medesima res iudicanda” (sentenza n. 183 del 2013). Non solo, la Consulta ricorda che “la locuzione “giudizio” è di per sé tale da comprendere qualsiasi tipo di giudizio, cioè ogni processo che in base ad un esame delle prove pervenga ad una decisione di merito” (ordinanza n. 151 del 2004). Pertanto, è un ““giudizio” contenutisticamente inteso, […] ogni sequenza procedimentale - anche diversa dal giudizio dibattimentale - la quale, collocandosi in una fase diversa da quella in cui si è svolta l’attività “pregiudicante”, implichi una valutazione sul merito dell’accusa, e non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento del processo, ancorché adottate sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali” (sentenza n. 224 del 2001). In questo senso, prosegue la decisione, la valutazione complessiva del fatto illecito, che compete al giudice dell’esecuzione nell’attività di commisurazione della pena, resa necessaria a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, presenta, tutte le caratteristiche del “giudizio” per come delineate dalla giurisprudenza di questa Corte. Sicché, in sede di rinvio dopo l’annullamento da parte della Corte di cassazione, il giudice dell’esecuzione - per essere “terzo e imparziale” (art. 111, secondo comma, Cost.) - deve essere persona fisica diversa dal giudice che, in precedenza, si è già pronunciato con l’impugnata (e annullata) ordinanza sulla richiesta di nuova determinazione della pena. In sostanza, conclude la Corte, ogni qual volta il giudice deve provvedere sulla richiesta di rideterminazione della pena a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, deve trovare applicazione una regola analoga a quella posta dall’articolo 623, comma 1, lettera d), cod. proc. pen., secondo cui “se è annullata la sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al medesimo tribunale; tuttavia, il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata”. Piacenza. Arrestato per violenze sulla sua compagna, si toglie la vita in carcere ilpiacenza.it, 19 gennaio 2022 Si tratta di un tunisino di 26 anni finito alle Novate dopo che la compagna si era rivolta ai carabinieri di San Giorgio. Un tunisino di 26 anni è stato arrestato nei giorni scorsi dai carabinieri di San Giorgio per violenze nei confronti della compagna, una piacentina 40enne. La donna si era rivolta ai militari denunciando diversi episodi di maltrattamenti che avevano portato all’arresto immediato dell’uomo grazie al “codice rosso” disposto dalla Procura di Piacenza. L’uomo è stato processato nei giorni scorsi in tribunale a Piacenza: il giudice aveva convalidato l’arresto e disposto la custodia in carcere. Alle Novate però il 26enne ha poi compiuto un gesto estremo impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella. Il 118 lo ha trasportato d’urgenza in ospedale ma qui è morto poco dopo il suo arrivo. Pare comunque che sia stato disposto l’espianto e la donazione dei suoi organi. Ferrara. Detenuto muore in ospedale. “Chiarimenti sulla situazione” Il Resto del Carlino, 19 gennaio 2022 La richiesta arriva dalla Camera penale ferrarese. e dall’Osservatorio carcere. La Camera penale ferrarese e l’Osservatorio carcere intendono esprimere la propria forte preoccupazione per quanto avvenuto ieri. Alcuni organi di stampa, non soltanto locali, riportano la notizia che un detenuto sessantenne, non vaccinato che è deceduto all’ospedale Sant’Anna di Cona, a seguito di un’infezione da coronavirus. “La notizia è condita da riferimenti a un focolaio che sussisterebbe nella casa circondariale di via Arginone - si legge in una nota stampa - dovesi evince che sarebbero stati colpiti sia detenuti che agenti: in particolare 25 di questi ultimi, positivi e vaccinati, sarebbero già tornati in servizio nella struttura di via. In attesa di avere dati ufficiali, che abbiamo già richiesto da giorni, chiediamo quali iniziative il Ministero e la politica tutta intendano prendere per tutelare adeguatamente la salute di tutte le persone, libere e detenute, che si trovano in carcere a Ferrara e non solo e che poi, inevitabilmente, interagiscono anche con il mondo dei liberi”. Ancora una volta, fanno presente dalla Camera penale di Ferrara “si ha l’impressione che le carceri italiane siano considerate luoghi di cittadinanza di serie inferiore, ove ammalarsi, suicidarsi o morire per carenza di cure adeguate rappresentano una sorta di pene accessorie, o fanno parte del trattamento penitenziario”. Pavia. Dentro al “carcere dei suicidi”, tra degrado e mancanza di medici e guardie di Manuela D’Alessandro agi.it, 19 gennaio 2022 Dopo che tre detenuti si sono tolti la vita nel giro di un mese, una delegazione di avvocati ha visitato il carcere e ne è emerso un quadro sconcertante soprattutto per la mancanza di dignità degli spazi, molti inagibili per le infiltrazioni. Gravi infiltrazioni che rendono inagibili molti spazi, tra cui la sala colloqui, acqua calda che non arriva ai piani alti, celle senza termosifoni, una pesante carenza del personale che si dovrebbe occupare della salute e della sicurezza dei detenuti. Stando a quanto apprende l’AGI, emerge un quadro severo, a tratti mortificante, della situazione nel carcere di Pavia dalla visita svolta nei giorni scorsi da una delegazione di avvocati, dal parlamentare Alessandro Cattaneo e dalla garante per le persone ristrette della provincia, Laura Cesaris dopo che tre detenuti si sono suicidati nel giro di un mese, tra il 25 ottobre e il 30 novembre scorso. Questi tre giovani uomini erano ospiti del ‘Padiglione vecchio’ dove si concentrano i problemi. Positivi ammassati in uno stanzone senza riscaldamento - Anche la gestione della pandemia in questa quarta ondata è molto difficile. Dal momento che gli hub di San Vittore e Bollate non riescono ad accoglierli, i reclusi positivi che non necessitano del ricovero restano all’interno dell’istituto, in parte anche nel polo psichiatrico, e una quarantina di loro sarebbe stata ammassata in uno stanzone senza riscaldamento. La direttrice del carcere Stefania D’Agostino e i rappresentanti della polizia penitenziaria e dell’area educativa hanno informato i visitatori che i detenuti sono 578, a fronte della capienza regolamentare di 514 e di una “capienza tollerabile” di 786; 285 sono i detenuti comuni, per i due terzi definitivi e per il 30% circa stranieri; i protetti, in gran parte autori di reati di violenza sessuale, sono 273, quasi tutti con pena definitiva. C’è poi una piccola sezione di 8 persone ammesse alla semilibertà e al lavoro all’esterno. Il polo psichiatrico contempla 22 posti, ma solo 12 sono occupati perché al momento manca il personale per i casi di positività. Nei giorni dei suicidi c’era un solo medico - Grave la carenza del personale sanitario, che si è acuita in particolare nei giorni dei tre suicidi quando era presente il solo direttore sanitario, Davide Broglia. Dopo che cinque medici su otto se ne sono andati nei mesi scorsi, ora ad affiancare il direttore sanitario ce ne sono altri due su due turni. I compensi previsti per i medici che vogliano assumere questo ruolo molto delicato sono assai bassi, 35 euro all’ora, prendono molto di più, viene fatto notate, i medici vaccinatori. Uno dei tre suicidi sofffriva di un grave disagio psichiatrico. Problemi anche nella gestione delle persone tossicodipendenti. Il Serd, il servizio che se ne deve occupare, è aperto due mattine a settimana e per lungo tempo non è stato presente l’assistente sociale. Teatro, palestra e sala colloqui inagibili - Altro punto che incide è quello delle attività che dovrebbero rendere concreto il principio della rieducazione dei detenuti. Il teatro al momento è inagibile per le infiltrazioni e in passato ospitava 35 detenuti alla volta. L’unico luogo in cui ora è possibile svolgere attività fuori dalle sbarre è un’aula che al massimo contiene 15 persone. Inagibile, sempre per le infiltrazioni visibili in tutti i piani del padiglione più vecchio, anche la palestra perché, ha spiegato la direttrice, bisognerebbe fare lavori che vanno al di là dell’autonomia di spesa dell’istituto e la predisposizione dei preventivi che il Provveditorato richiede ci vorrebbero competenze tecniche che gli impiegati amministrativi non possiedono. Fuori uso anche le sale per i colloqui coi familiari che avvengono nei corridoi violando così il principio che il controllo sugli incontri dovrebbe essere solo ‘visivo’ e non anche ‘uditivo’ perché così sono facilmente ascoltabili. I lavori per restituire uno spazio consono ai contatti tra reclusi e affetti dovrebbero iniziare presto. Anche la scuola in presenza è stata sospesa nonostante il Provveditorato avesse accomunato i detenuti agli studenti ‘fragili’ a cui avrebbe dovuta essere assicurata questa modalità. Ridotta all’osso la presenza degli agenti - Nel carcere dove tre uomini di 47, 36 e 37 anni hanno deciso di togliersi la vita, manca anche la polizia penitenziaria, l’organico è ridotto all’osso con soli quattro ispettori presenti. Anche la palestra per gli agenti è inagibile e la caserma con 60 alloggi è danneggiata dalle infiltrazioni con spazi angusti e uno stato di degrado accompagnato da un percepibile odore di muffa. Decisamente migliore la situazione nel padiglione nuovo che ospita circa 300 detenuti, con una cucina al piano terra moderna e ampia, uno sportello per le pratiche burocratiche e la possibilità, sfruttata da tanti, di frequentare un istituto professionale, a testimonianza che molto della qualità della vita in un penitenziario dipende dalla dignità dei luoghi che danno anche la possibilità di ‘crearsi’ un futuro attraverso le attività di rieducazione. Uno dei tre suicidi aveva un fine pena vicino, aprile 2023. “Il fatto che si sia ucciso - il commento della garante Cesaris - significa che nel suo futuro vedeva solo il nulla”. Cagliari. “Troppi detenuti tossicodipendenti e con gravi problemi psichici”, sos dal carcere di Jacopo Norfo castedduonline.it, 19 gennaio 2022 “Troppi detenuti tossicodipendenti e con gravi problemi psichici nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta. In queste condizioni diventa impossibile soddisfare il recupero sociale a cui deve rispondere la detenzione. Occorre attivare strutture alternative al carcere, aldilà della Rems di Capoterra che accoglie 16 persone, e sostenere, soprattutto per incrementare i posti disponibili e il personale, le Comunità terapeutiche”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, esponente di “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando che “la Casa Circondariale più importante dell’isola, con una media di 550 detenuti, rischia di essere solo un contenitore del disagio, nonostante gli sforzi degli operatori penitenziari e del servizio sanitario”. “Un recente convegno, promosso dal Dipartimento della Salute Mentale, diretto dalla dott.ssa Graziella Boi, ha offerto uno spaccato della problematica, evidenziando la presenza nel carcere cagliaritano del 50% di tossicodipendenti. Si tratta - ha precisato Caligaris - di persone che, il più delle volte, hanno commesso reati proprio perché hanno fatto uso di sostanze o hanno abusato di medicinali o sono ludopatici. La realtà delle dipendenze è oggi molto complessa e può riguardare persone “insospettabili” con alterazioni comportamentali non sempre controllabili. La preminenza è ancora quella legata all’uso di sostanze psicostimolanti, come cocaina e anfetamine, spesso associate all’alcol e/o a psicofarmaci ansiolitici”. “Detenuti con così gravi disturbi - osserva ancora l’esponente di SDR - gravano sull’equilibrio del sistema detentivo e in particolare sugli Agenti della Polizia penitenziaria che spesso subiscono pesanti aggressioni verbali e/o fisiche. In questo periodo in cui il Covid si è aggiunto alle carenze di personale, la situazione è diventata ancora più delicata. D’altra parte anche il personale sanitario è ritenuto dai ristretti responsabile del loro malessere e fatica a contenere il disagio psichico con terapie alternative ai farmaci. Il risultato è una situazione di continua emergenza che logora il personale e limita le attività di recupero sociale”. “Voler considerare la pena detentiva un’occasione di riscatto, una opportunità per una nuova vita - conclude Caligaris - appare sempre più come un’utopia. È quindi indispensabile un progetto regionale finalizzato a dare risposte a detenuti che hanno bisogno principalmente di cure e di un ambiente adeguato ai loro disturbi. Senza strutture alternative il periodo di perdita della libertà sarà fine a se stesso e non produrrà alcun vantaggio per la società”. Milano. Jonathan, da San Vittore alla Bocconi: “A salvarmi sono stati i libri” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Appena maggiorenne in carcere. Oggi, a 26 anni, è laureato a pieni voti in Bocconi, cittadino con la volontà forte di impegnarsi per gli altri, educatore tra i ragazzi. Gratosoglio, marzo 2014. “Era il giorno del mio diciottesimo compleanno, aspettavamo mio fratello sulle scalinate della gelateria per andare a ballare. Non arrivava, risaliamo in auto, passiamo davanti a casa. Sapevo che teneva la droga dei suoi traffici nascosta nel box e infatti c’era la polizia. Abbiamo capito subito. Il carcere era un conto da pagare, ma la stretta al cuore me la ricordo ancora”. Pochi mesi dopo hanno fermato anche lui. Aveva la cocaina dentro la macchina. La condanna a dodici anni totali di carcere per traffico di droga, poi ridotti per merito a sette (con encomio dal direttore del penitenziario), Jonathan se l’è lasciata però alle spalle in tempo record. Oggi, a 26 anni, è laureato a pieni voti in Bocconi, cittadino con la volontà forte di impegnarsi per gli altri, educatore tra i ragazzi, brillante lavoratore e conteso fidanzato, innamoratissimo. In questi giorni legge i giornali con i fatti di cronaca - le risse tra bande armate, le aggressioni tra ragazzi nelle città di mezza Italia. Si guarda indietro e cerca di ricordare cosa girava per la testa a lui, in quegli anni. “In quartiere c’erano quelli appena più grandi, “le leggende”, potenti e arricchiti con lo spaccio”, racconta. Jonathan è andato dietro a quel modello in un gioco al rialzo che non ha più saputo fermare. Traffici di cocaina per comprarsi auto da centomila euro, giocate al casinò quando ancora era minorenne, serate di spese folli per bere, comprare, farsi vedere. “Avevo i soldi in cima ai miei desideri - dice provando a capire se stesso e tutti i ragazzi che oggi fanno come lui. Amavo entrare nei locali dove tutti mi salutavano deferenti, compravo casse di vodka pregiata, mi sentivo potente. Viaggiavo per l’Europa e vivevo nell’adrenalina. Provocavo stando in difesa, mi sentivo sempre sotto attacco”. Si specchiava nello sguardo degli altri perché non sapeva chi era e chi voleva diventare. “Infrangevo ogni limite e non accettavo critiche ma in profondità aspettavo un adulto che fosse capace di fermarmi”. La notte entrava in casa e si intristiva. Trovava due genitori stanchi, arrabbiati, delusi. Origini egiziane, persone in gamba che si facevano in quattro per tenere insieme tutto. Papà ingegnere, mamma psicologa. Tra mille fatiche a Milano gestivano un ristorante, e chissà se Jonathan ha scelto Economia anche pensando a loro. L’intelligenza brilla negli occhi rappacificati, un mezzo sorriso spunta quando gli si dice “complimenti”. A diciotto anni entra a San Vittore - Riavvolge ancora il nastro. A diciotto anni entra a San Vittore, si iscrive a scuola giusto per prendere il diploma ma non si impegna. Ha l’unico pensiero di voler uscire. E tuttavia il tempo in carcere acquista un senso solo se lo si impiega come opportunità: Jonathan lo capisce presto. Impara a cucinare, fa volontariato. E poi va spesso in biblioteca, si guarda intorno, lega con alcune volontarie che organizzano approfondimenti su varie materie. Decide di aprire il primo libro. Il secondo. Il terzo. Prende il diploma, vince una borsa di studio per la Bocconi, macina un 30 dopo l’altro, ma soprattutto aiuta i compagni che si convincono di voler studiare ma hanno meno strumenti di lui, li segue fino agli esami. “Quando in cella l’amico Pietro ha saputo della sua condanna a 30 anni, il reparto si è raggelato. Un silenzio assoluto, e io ho cominciato a piangere”. Il film “Ariaferma” di Leonardo di Costanzo racconta il mondo del carcere e alcuni legami che si creano all’interno, Jonathan li ha vissuti e restano nel suo bagaglio. Ruoli e umanità che si mescolano tra attese e speranze, spazi chiusi e tempi dilatati. Ora, libero, sorride tra le persone e in mezzo ai libri: “Mi hanno salvato la vita”, dice. Ma la verità è che se l’è salvata da solo. E che l’ha salvata anche ad altri. Milano. “Ero un criminale e maltrattavo i cavalli. Adesso faccio il maniscalco nel carcere” di Daniela Mignone-Evans Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Si chiama “Freedom Ranch” il progetto del penitenziario lombardo: i detenuti si prendono cura degli animali, riscoprono la libertà e imparano un lavoro. Il reportage di una studentessa del master in giornalismo di Rcs Academy. “Che cosa strana, io che maltrattavo gli animali fino ad ammazzarli ora mi ritrovo a pulire le unghie”: O.A. è stato uno dei primi detenuti a essere ammesso al corso di aiuto maniscalco al “The Freedom Ranch” del carcere di Opera, a Milano. L’esperienza con i cavalli se l’è costruita nell’ambiente criminale delle corse clandestine, dove il suo incarico era “stabilizzarli” prima di una gara, alla quale spesso non sopravvivevano. Anche R.A., che li imbottiva di ovuli per sfruttarli come muli della droga, condannandoli a morte, adesso “cura le unghie”. Entrambi, grazie al progetto del ranch, hanno trovato una nuova strada, un nuovo rapporto anche con la società. La struttura si trova accanto al muro di cinta del carcere e ospita otto cavalli, tra i quali alcuni confiscati alla ‘ndrangheta a luglio del 2019. È stata aperta a settembre 2020 con gli sforzi comuni di enti pubblici e privati, degli operatori di polizia e dei detenuti, che hanno lavorato insieme per costruirla, utilizzando materiali di riciclo. Opera Azzurra è nata nel ranch da una cavalla sequestrata che forse per lo stress ha partorito la notte stessa del suo arrivo. Insieme a lei, che è la più giovane, ci sono Pegaso, Forever, Otto, Another, Picasso, Cindy, e Oro Nero. Si tratta in molti casi di cavalli che i membri dell’organizzazione criminale ostentavano come simbolo di ricchezza e potere; o che avevano accettato in pagamento, destinandoli poi al macello, a essere sfruttati nel traffico di droga o a venire impiegati nelle corse ippiche illegali, organizzate spesso per attrarre giovani disoccupati con l’abbaglio di guadagni facili, e che qui sono riusciti a ricostruire una relazione positiva con l’essere umano. La “relazione” tra uomo e cavallo è proprio la componente più importante dell’ippoterapia, dice Claudio Villa, esperto istruttore di equitazione che per 15 anni ha gestito un maneggio nel carcere di Bollate. Villa racconta che il contatto con questi animali porta le persone detenute a “sgretolare tutte le convinzioni, tutto il proprio trascorso, a mettersi in discussione”, e con il tempo aiuta a sviluppare “equilibrio interiore e benessere fisico”, visto che “molte ricerche hanno dimostrato che impariamo perfino a sincronizzare il nostro battito cardiaco con il loro”. La possibilità di imparare un mestiere a contatto con i cavalli porta buoni risultati perché “loro non ci giudicano in termini umani”, proprio grazie alla loro capacità di manifestare l’empatia, alla loro “propensione a relazionarsi”. Anche il comandante del carcere, Amerigo Fusco (nella foto con Pegaso, il cavallo più “anziano” del ranch), il cui impegno è stato determinante per la realizzazione del progetto insieme a Giuseppe Scabioli, Coordinatore delle Giacche Verdi Lombardia, è convinto che siano i cavalli a mostrare per primi empatia verso gli esseri umani. Per lui, quello del ranch è “un progetto che punta a ricucire lo strappo che la detenzione ha creato con la società civile” e grazie al quale il suo costo per la collettività viene “rimesso al sistema perché la società ne possa avere un vantaggio”. Ai detenuti sono destinati i corsi di maniscalco, di artiere e di sellaio che, spiega ancora il comandante, riescono a dare “un sogno di libertà, perché andare a cavallo, o imparare un’arte che è anche profumatamente pagata sul mercato, diventa lo strumento per diventare liberi”, e perciò hanno anche “il potenziale di abbattere la recidiva”. Per i figli degli operatori penitenziari sono state organizzate giornate di equitazione con gli artieri appena formati “che hanno mostrato grande responsabilità e grande dignità”, come racconta uno dei poliziotti, che ha affidato i figli ai cavalli guidati dai detenuti, con i quali “grazie alla loro conoscenza dell’animale, abbiamo comunicato diversamente, riuscendo a superare una barriera, cosa che mai avrei creduto possibile”. Al ranch si svolge anche attività di ippoterapia per persone con disabilità, grazie al supporto del Rotary di Rozzano, e in futuro potrebbe essere avviata anche una fattoria didattica con i maiali, le galline, le oche mute, le tartarughe, le caprette, gli asini, i pappagalli e il pavone, che sono stati donati o adottati dalla custodia giudiziale dei carabinieri forestali. È difficile prevedere quale sarà l’impatto concreto di questi corsi sul reinserimento degli ex detenuti. Ma di sicuro, come racconta F., tra i primi a partecipare al progetto, quando si lavora al ranch di Opera “non sembra di essere in galera”. Luigi Manconi. E se eleggessimo lui al quirinale? di Christian Raimo Il Riformista, 19 gennaio 2022 Progressista, ma apprezzato anche dai liberali. Laico, ma capace di proficuo dialogo con il mondo cattolico. Attento al mondo del carcere, alle discriminazioni, ai diritti umani. L’inquilino perfetto per il Quirinale. Da una decina d’anni coltivo insieme a una comunità di politici, intellettuali, attivisti, semplici cittadini quali poi tutti siamo un’idea per il Presidente della Repubblica. Non capisco perché anche in questi giorni non venga presa in considerazione, e presa in considerazione seriamente e non solo come candidatura di bandiera. È un nome semplice: Luigi Manconi, classe 1948, sardo di Sassari, ex portavoce dei Verdi e ex senatore del Pd, per me è l’uomo perfetto per svolgere un ruolo complicato come quello di Presidente della Repubblica, e dall’altra parte ha tutte le caratteristiche per ottenere un consenso vasto di una vasta schiera di parlamentari. Ha una evidente credibilità istituzionale. Da Presidente in carica della Commissione dei diritti umani al Senato ha svolto un’attività esemplare su temi delicati come il carcere, l’immigrazione, la questione della discriminazione dei rom, il diritto alla cura, le tossicodipendenze… con una capacità incredibile e un’efficacia che gli viene riconosciuta da chiunque. È un politico dell’area progressista che ha una legittimazione anche da parte del centrodestra, soprattutto dei liberali intellettualmente onesti. È soprattutto un garantista, un profondo conoscitore della Costituzione, e un difensore strenuo dello stato di diritto. È stato il politico che si è battuto di più e con più costanza per ottenere giustizia nei casi di malapolizia italiana: da quello di Federico Aldrovandi a quello di Stefano Cucchi. Senza di lui, le cose sarebbero probabilmente andate diversamente, e le denunce non avrebbero avuto questa visibilità e questo valore politico. Non si sarebbero condannati i colpevoli. È un lavoratore instancabile. Chiunque l’abbia frequentato il Senato, chiunque abbia fatto parte dei mille progetti che ha seguito, sa quanto sia meticoloso e efficace. È stato uno dei primi a riflettere sulla stagione degli anni 70 arrivando a posizioni non violente. È stato un dirigente dei Verdi, quando i Verdi rappresentavano la vera novità della politica europea. Se oggi fosse vivo Alexander Langer, forse Manconi voterebbe per lui come Presidente della Repubblica. È laico, ma ha avuto una lunga formazione cattolica, e sa relazionarsi in modo non strumentale con il mondo cattolico. È un mediatore, anzi - come dichiara lui stesso - è un mediatore convinto che si possa e si debba sempre mediare anche quando ogni elemento sembra indicare il contrario. Gli interessano i deboli, ma evita di strumentalizzare le loro battaglie. Ha riflettuto e continua a riflettere, a scrivere e intervenire, sui temi etici come l’eutanasia o la fecondazione assistita, con una profondità di analisi che non cerca mai soluzioni comode, né alimenta facili schieramenti. Fin da giovane si è dedicato alle battaglie sul lavoro. Se oggi per i politici la classe operaia è un fantasma, pensa che le rivendicazioni dei lavoratori non siano semplicemente da ascoltare, ma siano fondanti del tessuto civile del nostro paese. Insomma, quale è la ragione per non votarlo? In Italia un lavoratore su quattro è a rischio povertà. Orlando: “In pericolo la tenuta sociale” di Giovanna Faggionato Il Domani, 19 gennaio 2022 L’Italia è il quarto paese in Ue per lavoratori poveri secondo l’Eurostat, ma secondo il rapporto presentato dal ministro Orlando la percentuale già prima della pandemia era superiore al 22 per cento (al 24 sui redditi lordi). Il fenomeno si concentra nei servizi a bassa qualifica ed è spinto da part time e contratti precari. Nella ristorazione si arriva al 60 per cento di contratti part time. Sfumato l’intervento nella delega fiscale, ora il ministro vuole spingere sul salario minimo, ma gli interventi suggeriti includono anche maggiori controlli e incrocio dei dati. Il lavoro povero in Italia è persistente, chi ha retribuzioni basse che rischiano di farlo scivolare sotto la soglia della povertà tende a continuare ad averle. Il ministro del lavoro, Andrea Orlando, sta preparando il terreno per una legge sul salario minimo. Ieri ha presentato il rapporto del gruppo di lavoro sul contrasto alla povertà lavorativa: secondo gli indicatori europei, che però non tengono conto di chi lavora meno di sette mesi, già prima della pandemia, nel 2019, era povero più di un lavoratore su dieci, l’11,8 per cento. Ma la percentuale reale, secondo il gruppo di lavoro, è più alta: nel 2017 nel settore privato arrivava vicina a uno su quattro. Questo esercito di lavoratori poveri o alla soglia della povertà è frutto non solamente del mancato rispetto della contrattazione collettiva, ma anche del numero di ore lavorate, con ricorso a part time e a falso part time, a contratti temporanei e atipici, della situazione famigliare e delle disuguaglianze a livello di ridistribuzione cioè di tutele e prelievi fiscali disuguali. “A rischio la tenuta sociale del paese” - Le analisi del gruppo di lavoro spiegano che già nel 2017 il 22,2 per cento dei lavoratori erano poveri per redditi netti, ma tra chi lavora a tempo parziale la percentuale si impennava a oltre il 50 per cento. E sempre nel 2017 la percentuale dei lavoratori part time ne privato era arrivata alla percentuale stupefacente del 30 per cento. Elaborazioni più recenti provano che nel commercio i contratti part time sono la metà, nella ristorazione il 60 per cento. Sistema fiscale e sussidi aiutano a tamponare la situazione ma per il lavoro dipendente, facendo diminuire il rischio, ma solo per i lavoratori dipendenti, mentre lo aumentano per gli autonomi. Gli stessi settori che in questi mesi hanno chiesto ripetutamente misure di sostegno per l’enorme crisi portata dal Covid sono quelli in cui si concentrano lavoratori poveri, che però per natura dei loro contratti non sono abbastanza tutelati, nemmeno dai sussidi erogati durante la pandemia. “La soglia del lavoro povero e le condizioni di precarietà sono in costante crescita mettendo fortemente a rischio la tenuta sociale del Paese”, ha detto il ministro, per cui è “urgente porre la questione alle parti sociali, già domani avremo un primo passaggio”. La prima proposta della commissione è quella di garantire minimi salariali adeguati, la direttiva europea sul salario minimo non si applica all’Italia dove il 70 per cento dei lavoratori è coperto da contrattazione collettiva e quindi servirebbe un intervento ad hoc. Tuttavia dagli scambi informali delle ultime settimane, la gincana tra le ragioni della Confindustria che teme il calo di una quota di occupati e di quelle dei sindacati che temono proprio un indebolimento della contrattazione collettiva non è semplice. Per questo i giuristi che hanno contribuito al rapporto hanno suggerito una sperimentazione solo nei settori più critici. I dati che mancano - Ancora una volta, però, per avere una rappresentazione reale di cosa succede, servirebbe che le banche dati si parlassero. Ad esempio le dichiarazioni contributive non riportano le ore lavorate né l’inquadramento contrattuale del lavoratore. In questo modo capire chi è sottopagato è molto più difficile. Allo stesso modo i dati Inps non includono la dimensione famigliare che invece è fondamentale per capire quanto il lavoratore sia a rischio povertà. La necessità di rafforzare i controlli e gli incroci sui dati non a caso è al secondo posto tra le proposte della commissione. E sarebbe anche la più semplice da attuare. L’occasione persa - Ci sarebbe poi un terzo intervento che è sfumato. Il rapporto, infatti, proponeva un sostegno unico, da inserire nella delega fiscale, che integrasse il bonus di 80 euro, che tra le altre distorsioni si applica solo oltre una certa soglia di reddito e la disoccupazione parziale che invece scompare oltre una certa soglia. Ma l’occasione è sfumata e il sistema rimane iniquo. Il rapporto suggerisce poi di rispolverare le famose buste arancioni e cioè la simulazione per i lavoratori della loro situazione pensionistica futura, ma da realizzare senza previsioni futuristiche ma semplicemente raffrontando le carriere di chi ha condizioni di partenza simili. Servirebbe da incentivo, da affiancare a una campagna di consapevolezza sui contratti. E a incentivi o disincentivi alle aziende con una operazione trasparenza che segnali chi ha retribuzioni corrette o anche chi non le rispetta. Infine servirebbe rivedere l’indicatore europeo proprio perché in casi come quello italiano sottovaluta di molto la percentuale di chi è in condizioni di fragilità. Anche perché le retribuzioni basse indicano una forte persistenza, si legge nel rapporto: chi entra nel tunnel della sotto retribuzione rischia di restarci a lungo. Per combattere il fenomeno servirebbe una strategia integrata che al momento non c’è. Lo scrivono gli stessi esperti: “Le cinque proposte vanno considerate nel loro complesso perché nessuna di essere presa isolatamente appare risolutiva”. Una legge sul salario minimo potrebbe avere un impatto positivo sui contratti pirati che continuano a spuntare nel paese e potrebbe mettere un freno all’esternalizzazione continua di lavoratori per pagarli meno, di cui è partecipe anche la pubblica amministrazione, ma su altri fenomeni preoccupanti come il ricorso al part time serve altro. Pandemia, anno terzo: la scuola si fa incerta e i ragazzi non sanno più diventare grandi di Gustavo Pietropolli Charmet Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Durante i lockdown e la didattica a distanza, sono aumentati gli atti di autolesionismo, la violenza, i disturbi del comportamento alimentare. Eppure dentro di loro i ragazzi hanno la forza magica di poter “aggiustare” tutto. Realmente o simbolicamente. Uno dei pochi “castighi” rimasti a disposizione dei genitori nel caso di un figlio trasgressivo è: “Questa settimana non esci di casa”. Le misure preventive della pandemia usano lo stesso linguaggio e impongono l’identica limitazione della libertà. Credo sia questa una delle ragioni per cui i ragazzi mi hanno sempre parlato male del lockdown e mai accennato al pericolo di malattia o di morte legati alla diffusione del virus. Dai ragazzi l’attenuazione delle misure preventive è stata festeggiata come una liberazione e non come una parziale vittoria nella battaglia contro l’epidemia. Comunque l’ingiunzione di stare in casa mi sembra sia stata rispettata, il che, trattandosi di adolescenti, significa rimanere in famiglia il più possibile. E le famiglie, nel complesso, hanno retto bene. Il disagio - in alcuni casi una vera e propria sofferenza psichica - è nato invece dall’aver costretto una moltitudine di ragazzi a rimanere “dentro”, non tanto in famiglia, quanto dentro casa. Perché una delle partite più importanti proprio della fase di sviluppo adolescenziale è quella dello stare “fuori” il più possibile e rimanere “dentro” solo lo stretto necessario. È “fuori” che si cresce e si studiano le materie fondamentali della vita; “dentro” si corre il rischio di sprecare tempo per fare quei compiti scolastici che non possono garantire certo lo sviluppo delle competenze necessarie per smettere di essere solo figlio-studente e diventare sempre di più soggetto sociale e sessuale. Compiti difficili che richiedono un sacco di energie, sia di giorno che di notte. “Dentro” c’erano solo il proprio corpo e il computer. Il corpo se è impegnato nello sport, nella socializzazione, diventa facilmente corpo sociale o corpo maschile e femminile, ma ristretto nella cameretta è ingombrante e infelice, da un lato perché non gli rimane che la ricerca compulsiva del piacere autoerotico istigato dalla pornografia di internet e dall’altro perché si presta a diventare il “capro espiatorio” della mancanza di valore e di scopo cui è stato condannato dalla pandemia. La perdita delle funzioni sociali favorisce il suo degrado a “corpo non Sé” e lo predispone alla metamorfosi in zimbello della rabbia e della noia. La nuova attività del recluso diventa attaccare il proprio corpo provocandogli un dolore che sostituisca quello mentale, impegnandosi nella esecuzione di un rituale eccitato ma dall’esito pacificatorio ed anestetico. Giovani relegati e furibondi - Passa il tempo, la pandemia mitiga il suo controllo sul mondo e così può succedere che si scorgano larve umane sortire dalle camerette ormai impegnate non a godersi la libertà ritrovata, ma a stringere ulteriormente i freni e condannare il proprio corpo. Ho conosciuto un adolescente di sedici anni che odiava il suo fisico e i suoi stessi pensieri, avvolto in una bolla di sfrenato masochismo, di quello strano, che lambisce l’area della depressione senza precipitare nel vortice dei suoi contenuti; un giovane ormai relegato in un ritiro sociale a volte reversibile, furibondo perché non poteva allenarsi per la corsa campestre, non poteva avere accesso alla palestra, non sapeva quando sarebbe stato recuperato il concerto del suo gruppo preferito. In questi ultimi mesi, a fronte della diffusione di manifestazioni di grave disagio psichico di troppi adolescenti, si è chiamata in causa la scuola perché incerta, inadempiente, troppo spesso chiusa e infine responsabile di avere scelto una scellerata didattica a distanza, ripudiata dalla maggior parte degli adolescenti e alla fine criticatissima da tutti. Sono davvero rimasto sorpreso dalla gravità dei danni psicologici inflitti agli adolescenti dalla crisi organizzativa, culturale e di autorevolezza patita dalla scuola. Non sospettavo che l’istituzione scolastica svolgesse funzioni così essenziali sul benessere o malessere dei suoi studenti. La scuola che traballa sconquassa il sentimento di identità dello studente e lo lascia desolato alle prese con la sua inesistente identità sociale di adolescente, per di più in crisi. Il sentimento di solitudine lamentato da tanti ragazzi - riconducibile all’eclissi parziale dei contatti con i compagni - è ancora più comprensibile se si pensa che l’essere stato abbandonato dalla propria scuola suscita reazioni simili a quelle sperimentate dall’adulto lasciato in cassa integrazione o che vede appannarsi il futuro della propria azienda. Per l’adolescente la scuola è l’azienda che gli dà da lavorare, lo maltratta ma gli regala il ruolo sociale di giovanissimo membro della comunità civile. Essere socialmente disoccupati suscita rabbia ma paradossalmente anche vergogna e i ragazzi senza scuola e senza lavoro possono anche fare gli arroganti, ma il loro problema è la mortificazione di avere smarrito la loro identità sociale di studente che, per quanto poca, una certa dose di autostima la regala assieme alla caterva di compiti da svolgere. Parlandone con alcuni studenti delle superiori non riuscivo a capire cosa intendevano per “truffa” e “tradimento” a proposito del collasso della loro scuola, troppo spesso chiusa, riaperta e poi richiusa, come una trappola per topi. Poi ho capito che si trattava di una questione difficile da elaborare con le parole convenzionali. La loro scuola in realtà, quella abbastanza autorevole di prima della pandemia, li aveva aiutati a costruire una sorta di futuro evolutivo abbastanza credibile e costruito assieme, con un’impercettibile trama di voti, disapprovazioni, inviti a riconoscersi (sia pure solo temporaneamente) in un personaggio destinato a svolgere un compito sociale o scientifico o viceversa forse votato a raccontare storie e costruire leggende La “truffa” era aver lacerato e reso poco credibile la promessa implicita concernente il proprio futuro. Per alcuni ragazzi la scuola che traballa ha significato rendere ancora più incerta e aleatoria la strada che porta a diventare grandi. Tanto più che la crisi della scuola interrompe l’impalpabile, ma indispensabile filo di confronto con i coetanei: verifiche ben riuscire, valutazioni collegiali dei docenti, proprie personalissime congetture sulla propria più profonda e autentica vocazione. Per un adolescente si tratta di una questione cruciale, anche se sfuggente e raramente messa in discussione anche con gli amici più fidati. Non è in discussione cosa si farà da grandi, ma cosa veramente si vuole fare oggi, quale sia la propria verità affettiva e simbolica, il proprio vero amore, la fede, il legame e la tensione personale senza motivo se non quello di essere vivi e viaggiare verso la conoscenza. La scuola c’entra poco in tutto questo, se ne guarda bene di entrare in contatto con la mente dei propri allievi. Però per l’adolescente è una fonte di confronti, informazioni e piccole scoperte che aiutano a capire chi si è e cosa si desidera. Quando la scuola traballa viene a mancare anche questo contributo alla propria formazione, quella vera e importante, la formazione sentimentale, cioè lo studio della propria mente. Sono aumentati la violenza contro il Sé, l’autolesionismo, i tentativi di suicidio, i disturbi del comportamento alimentare, l’attacco alle leggi, l’attacco ai coetanei, l’attacco alla società. Non è certo colpa della Dad, i fattori di rischio sono altri. La Dad è solo la dimostrazione plateale di cosa può succedere quando il filo della comunicazione viene interrotto per cause tecniche: invece di avvicinare gli adolescenti li allontana, inducendoli a cercare altrove - nelle bande giovanili, per esempio - sostegno identitario, fratellanza e un simulacro di progetto condiviso. Vantaggi e rischi dell’interesse introspettivo - Alcuni ragazzi si sono vantati, a buon diritto, di aver utilizzato le limitazioni imposte dalla pandemia per aumentare il loro interesse introspettivo e aver messo a fuoco meglio alcune caratteristiche del loro funzionamento mentale, fino ad allora sconosciute o poco consapevoli. Nelle loro fila erano sicuramente presenti anche ragazzi tristi, e poco socializzati anche prima che calasse il coprifuoco della pandemia e venissero ridotte al minimo le possibilità di esercitare attività condivise. Sono questi gli adolescenti da considerare a rischio perché alla loro età l’isolamento sociale e l’ipermentalizzazione li sfidano a trovare precocemente delle risposte ai grandi enigmi della vita. Il ritiro imposto dalla pandemia ha sospinto una frangia di ragazzi a confrontarsi con la morte e il senso della vita nel clima lugubre creato dai milioni di morti diffusi su tutto il pianeta che ha sfasciato le difese religiose e culturali del nostro mondo educativo poco avvezzo a rispondere prontamente alla domanda dell’adolescente: che senso ha la vita se poi si muore? Fortunatamente i ragazzi tristi sono sempre molto innamorati e quindi una risposa al quesito, o una buona ragione per essere tristi, la trovano facilmente. Contro il destino, imprevedibile stoicismo - È abbastanza raro che un adolescente che subisce una perdita abbia una reazione persecutoria o di rabbia conclamata. È invece frequente che non elabori le cause e le conseguenze in termini depressivi: in generale si può dire che cerca di negarne l’importanza e di mitigare la gravità del danno subìto. Ho avuto occasione di discutere con adolescenti che avevano perso la salute fisica o che avevano subìto più o meno temporaneamente la riduzione funzionale di un arto o di altra funzione del corpo. Sono sempre rimasto sorpreso dal loro imprevedibile stoicismo. Lungi dall’indignarsi per l’affronto, di protestare contro il destino o i responsabili del danno, si rassegnano ad accettare le conseguenze del trauma, una sorta di maturità adulta o di superiorità e di conoscenza del destino avverso. Mi è sembrato di capire che nella profondità della loro mente scatta un disegno progettuale che li sostiene nel pensare che loro aggiusteranno tutto, realmente o simbolicamente. Gli adolescenti pensano di essere capaci di resuscitare i morti e di riattivare il motore del proprio corpo perché è il loro mestiere: alla loro età devono affrontare la morte simbolica dei genitori dell’infanzia e il più delle volte hanno ragione a pensare che li faranno resuscitare come genitori dell’adolescenza che funzionano quasi meglio di quelli di prima. L’obbligo di essere creativi - Anche il loro corpo di bambini sembra rotto, ma poi riescono a mettere in funzione quello dell’adolescenza che è un po’ più complicato ma carbura molto meglio. L’adolescente è obbligato a essere creativo altrimenti rimane circondato da oggetti e istituzioni dell’infanzia, figlio barricato nel bunker delle illusioni infantili mentre attorno a lui infuriano le nuove tentazioni. La capacità riparativa e la creatività naturalmente si esaltano quando il soggetto e il suo gruppo sono minacciati dal loro principale nemico: il silenzio, l’immobilità, la morte e la pandemia. È così successo che la scia di morte che ha attraversato le città e tutt’ora imperversa ci abbia lasciato in eredità un tesoretto di diari, appunti, invettive, lettere dalla cameretta trasformata in carcere e sì sa che in carcere si scrive più che a scuola. Ho letto brani di questi diari e mi ha colpito l’espressione di rabbia per le devastazioni provocate dalla pandemia accompagnata dalla convinzione della ricostruzione imminente. E dal fermissimo proposito di non mancarsi mai più di rispetto perdendo un treno dietro l’altro, con il dubbio che ne ripassi ancora qualcuno. In Italia mancano i medici, ma non si assumono quelli stranieri di Andrea Capocci Il Manifesto, 19 gennaio 2022 Sanità. C’è carenza di camici bianchi per l’attività ordinaria e ancor di più per affrontare l’emergenza. Formare nuovi professionisti richiede anni, si potrebbero assumere medici dall’estero. Ma le norme e i bassi stipendi li tengono lontani e fanno scappare quelli italiani. La giunta della Regione Lazio ha approvato ieri una delibera che apre anche ai medici stranieri la partecipazione ai concorsi pubblici, ma solo per gli incarichi a tempo determinato. La norma riguarda i medici già in Italia da 5 anni e iscritti all’ordine professionale. “Siamo in guerra e vanno utilizzate tutte le forze disponibili la cui professionalità è riconosciuta dall’iscrizione all’ordine professionale” dice l’assessore alla salute Alessio D’Amato. Sarà solo una misura emergenziale e limitata a una regione. Il problema della carenza dei medici però in Italia è strutturale. Lo dimostra il fatto che, pur con l’80% della popolazione vaccinata, ogni ondata di Covid costringe gli ospedali a sospendere l’attività ordinaria per mancanza di risorse. Aver raddoppiato i posti letto in rianimazione non significa aver moltiplicato anche la capacità assistenziale. Perché oltre ai letti servono i medici intensivisti e gli infermieri, che invece sono rimasti all’incirca gli stessi. Tenendo conto dei pensionamenti e dei nuovi specialisti attualmente in formazione, il sindacato degli rianimatori e dei medici di emergenza Aaroi-Emac prevede che nel 2025 in terapia intensiva ci siano addirittura 500 operatori in meno di oggi. Aumentare il numero di anestesisti nell’immediato non è facile, perché formare un medico richiede cinque anni di specializzazione post-laurea. Ai concorsi, soprattutto nel sud, partecipano spesso meno candidati dei posti disponibili. L’unico modo di aumentare nel breve periodo il numero di specialisti di terapia intensiva e di altri reparti è assumerne dall’estero. Ma in Italia si fa pochissimo. Secondo le statistiche Ocse, sono lo 0,9% dei medici attivi in Italia. In Francia sono il 12%, in Germania il 13%, nel Regno Unito oltre il 30%. Solo in Turchia, tra i paesi Osce, ci sono meno medici stranieri che in Italia. I motivi per cui gli stranieri si tengono lontani dall’Italia sono diversi, secondo il segretario dell’Aaroi-Emac Alessandro Vergallo, anestesista agli Spedali Civili di Brescia. “Innanzitutto, a parità di condizioni in Germania o in Francia si guadagna circa il 50% in più”, spiega. “Poi ci sono maggiori rischi di contenziosi legali: da noi le cause sono più frequenti e l’Italia è uno dei pochi paesi al mondo in cui si rischia un processo penale. Infine, la norma europea che fissa il riposo minimo per i sanitari da noi è applicata in modo rigido, e questo impedisce agli intensivisti di integrare l’attività ordinaria con quella aggiuntiva”. Questi fattori non respingono solo i medici stranieri. “In parallelo c’è un’emorragia di medici italiani, soprattutto verso Francia, Germania e Regno Unito”. A queste condizioni di contesto si somma un’ulteriore barriera. Nei concorsi pubblici per i medici, nella stragrande maggioranza viene richiesta la cittadinanza italiana o quella di un paese dell’Ue. E questo taglia fuori un gran numero di professionisti, che da noi non hanno speranza di fare una carriera nella sanità pubblica. In altri paesi, oltre alla mobilità interna all’Ue, si attirano medici da Paesi più lontani. Nel Regno Unito, quasi la metà dei medici stranieri proviene dal subcontinente indiano. In Francia c’è un importante contributo da Medio Oriente e Nordafrica. La Germania richiama molti medici formati nei Paesi dell’ex-Urss. Da noi in realtà i medici ci sarebbero, ma sono tenuti ai margini dalle prassi seguite nel reclutamento. “Ci sono circa 77 mila operatori sanitari stranieri in Italia, di cui 22 mila medici” spiega Foad Aodi, medico di origine palestinese e segretario dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi). “Sono tutti iscritti agli ordini professionali, ma solo l’8-10% accede a posti di lavoro pubblici”. In realtà, le leggi italiane non prevedono limiti alla cittadinanza dei sanitari. Il testo unico sul pubblico impiego del 2001 pone vincoli solo sulle professioni che riguardano la sicurezza nazionale. Il decreto “Cura Italia” emanato nel marzo 2020 per far fronte all’emergenza va anche oltre, perché ammette esplicitamente alle dipendenze della sanità pubblica “tutti i cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea, titolari di un permesso di soggiorno che consente di lavorare”. Il decreto però è stato ignorato nella grande maggioranza dei casi. Ospedali e Aziende sanitarie hanno preferito mantenere il vincolo europeo per le assunzioni di operatori sanitari. O quello contenuto in un Dpcm del 1994 dichiarato illegittimo ma mai superato, che riserva le posizioni dirigenziali (come quelle dei medici ospedalieri) ai soli cittadini italiani, escludendo perfino quelli europei. Non tutte le regioni, però, hanno applicato le norme protezionistiche. Prima del Lazio, anche Umbria e Piemonte hanno aperto i concorsi ai medici di ogni nazionalità dopo le proteste dell’Amsi. Ma l’intrico delle leggi sembra fatto apposta per respingere. “Il risultato è una fuga di medici dall’Italia” dice Aodi. “Qui spesso si confondono i requisiti di qualità, come l’abilitazione, con la nazionalità. La Francia, invece, ha dato il passaporto francese ai medici stranieri che hanno aiutato durante la pandemia”. L’Amsi considera la delibera del Lazio “un passo in avanti” ma ora l’obiettivo è il decreto Milleproroghe. “Il governo - chiede Aodi - si impegni a vigilare affinché il testo unico e il decreto Cura Italia vengano rispettati”. “Io, sposa bambina, ora vivo col ragazzo che mi ha liberato” di Valentina Marotta Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Venduta a 13 anni, pochi giorni fa a Firenze l’ultima sentenza di condanna per il padre: “Mi sono ribellata alla tradizione rom e, a distanza di otto anni, sono diplomata con il massimo dei voti e vivo con Nino che mi salvò”. “Ho imparato ad avere fiducia nella vita, anche se mi ha messo a dura prova. Mi guardo alle spalle: a 13 anni ero stata venduta, promessa in sposa da mio padre a un ragazzo sconosciuto e costretta ad abbandonare scuola ed amici. Poi mi sono ribellata alla tradizione rom e, a distanza di otto anni, sono diplomata con il massimo dei voti, vivo con il ragazzo che amo e ora cerco lavoro”. Fatica a dimenticare il passato, però Mina, (nome inventato, ndr) giovane fiorentina, vuole andare avanti. Dopo aver trovato il coraggio di denunciare il padre, ha abbandonato il quartiere delle Piagge per trasferirsi a centinaia di chilometri da Firenze. Per anni, ha vissuto in una struttura protetta che doveva rimanere segreta. Ma per tre volte è stata rintracciata dai parenti, che avrebbero voluto ritirasse la denuncia contro il padre. E per tre volte è stata costretta a cambiare città. Al suo fianco, c’è sempre l’avvocato Elena Navello. “È il mio punto di riferimento, l’ancora a cui appigliarmi nei momenti difficili con parole severe e gesti affettuosi - spiega Mina - grazie a lei ho capito che solo con il mio coraggio potevo rovesciare le sorti di una vita che sembrava già scritta”. Pochi giorni fa, è arrivata la sentenza d’appello bis per il padre, 54 anni, serbo di Obilic: è stato condannato a 8 anni e 8 mesi di reclusione per riduzione in schiavitù. Mina non ha voluto alcun risarcimento: “Mio padre è un uomo violento. Ormai ho spezzato ogni legame con lui e il resto della famiglia. È stato uno strappo doloroso, ma è servito per ricominciare”. In primo grado, la corte d’assise inflisse al serbo 13 anni di carcere. La pena fu poi ridotta a 8 dai giudici d’appello. Ma la Procura generale di Firenze impugnò la decisione e la Cassazione ordinò un nuovo processo. Eppure la decisione di qualche giorno fa potrebbe non aver messo la parola fine alla vicenda giudiziaria: non è escluso che la pg Angela Pietroiusti, titolare delle indagini in Procura prima di passare alla Procura generale, impugni la decisione. Niermo vuole dimenticare il passato. “Avevo 13 anni - racconta - e andavo ancora scuola, quando mio padre mi promise in sposa per 15 mila euro al mio futuro marito, un ragazzo franco kosovaro, tre anni più vecchio di me. Si accordò con i miei futuri suoceri e ottenne una caparra. Io ricevetti una collana e un braccialetto rosso che dovevo indossare per dimostrare che ormai ero cosa loro”. Le clausole erano rigide: “Avrei dovuto rimanere vergine fino al matrimonio, chiudere con la scuola, smettere di vedere gli amici e dimagrire. E se non fossi riuscita ad accudire mio marito, sarei stata ripudiata”. Non poteva chiedere aiuto: “Ero segregata in casa, potevo uscire solo con mia madre per fare la spesa”. Aveva solo un telefono, senza scheda, che usava per giocare a Clash of Clans. Grazie a quel videogioco e una connessione wifi, conobbe un ragazzo siciliano, Antonio, detto Nino. Con lui si confidava e scoprì il desiderio di ribellarsi. Divorava merendine e cioccolato per ingrassare: era la strategia per spezzare l’accordo di vendita. Poi, Nino, il suo amico virtuale di appena 15 anni, dette l’allarme alla polizia di Firenze. Gli agenti misero al sicuro la ragazza alla vigilia della partenza per la Francia e arrestarono il padre. Nel dicembre 2015, “a sei mesi dal nostro primo incontro virtuale - raccontò il ragazzo in aula al processo - mi chiese aiuto su quella stessa chat nata per gioco. Raccontò che da due anni era stata promessa in sposa e venduta per 15 mila euro a un ragazzo kosovaro e presto sarebbe partita per la Francia”. Il fidanzato la voleva illibata. “Per questo era stata segregata in casa dal padre che le aveva proibito di ritornare sui banchi di scuola e di frequentare le amiche. Trascorreva le sue giornate accudendo i nipotini, pulendo la casa. Usciva solo per la spesa al supermercato e comprare le medicine per la madre in farmacia, ma sempre in compagnia del fratello”. La vita in quella casa era un inferno, volavano spesso minacce e botte: “Anche senza un apparente motivo - spiegò Antonio - raccontava che il padre la picchiava, colpendola con una scarpa”. Unica concessione del capofamiglia, un vecchio telefono, senza scheda Sim. “Con quel cellulare - dice Antonio - avrebbe potuto solo giocare. In realtà, era riuscita ad agganciare in casa la rete del fratello e, nelle rare uscite, una wifi libera, così da poter chattare con me”. Voleva ribellarsi a quella “tradizione che impone ai genitori di cedere per denaro la figlia all’età di 14 anni. Voleva essere libera di decidere del suo futuro. Aveva anche supplicato la madre di non mandarla in Francia, ma era stato tutto inutile”. “Fino ad allora le mie giornate erano scandite da scuola e calcio. Dopo quella chat - raccontò il ragazzo - la mia vita cambiò. Non potevo lasciarla sola”. Antonio cominciò a chattare con la ragazza mattina e sera. “Le auguravo la buonanotte, con il timore di non ritrovarla in chat al risveglio. In classe sfuggivo al controllo dei prof per mandarle messaggi. Poi ritornavo a casa e mi chiudevo in camera per chattare con lei fino alle 4 del mattino. Rischiavo di perderla per sempre, così le proposi di fuggire insieme. Lei aveva paura del padre: disse che era pericoloso e poteva raggiungerci ovunque”. Finché una mattina, nel luglio 2015, Mina scrisse ad Antonio: “Aiutami manca poco per la partenza”. Lui si confidò con la fidanzata del fratello. “Si spacciò per mia sorella al telefono con l’associazione Artemisia: c’è una ragazza in pericolo, bisogna salvarla”. “È anche grazie a quel compagno di giochi che ho capito cosa volevo essere. Siamo innamorati adesso: Nino lavora, io non ancora, ma ci barcameniamo. Sto cercando lavoro come cassiera, ma è difficile. E per questo lancio un appello e spero che qualcuno lo raccolga. Devo fidarmi ancora una volta della vita”. Ogni proposta potrà essere inviata all’avvocato della ragazza: elena.navello@gmail.com. “In Libia crimini di guerra sui migranti”. Le accuse choc contro l’Italia e Malta di Enrico Caporale La Stampa, 19 gennaio 2022 Le Ong Adala for All, StraLi e UpRights chiedono un’indagine all’Aia. Crimini di guerra contro i migranti in Libia. È l’accusa che le Organizzazioni internazionali Adala for All, StraLi e UpRights rivolgono contro le milizie libiche e che per la prima volta prende di mira due Paesi europei, l’Italia e Malta, per il loro sostegno alla Guardia costiera di Tripoli. Le tre Ong hanno depositato un esposto alla Corte Penale Internazionale (CPI) per i crimini commessi in Libia tra il 2017 e il 2021 contro migranti e rifugiati. L’esposto chiede alla CPI di indagare sui crimini commessi dai gruppi armati libici contro migliaia di migranti, tra cui donne e bambini, reclusi nei centri di detenzione dopo essere stati intercettati in mare. Le vittime sono state sistematicamente sottoposte a maltrattamenti e abusi, tra cui tortura, stupro, lavoro e arruolamento forzato, e in alcuni casi uccise. L’esposto richiede che il procuratore della CPI esamini la possibile responsabilità penale - oltre che degli attori libici - delle autorità e dei funzionari italiani e maltesi che hanno loro fornito sostegno. Dopo la rivoluzione del 2011, la Libia è stata teatro di un costante conflitto armato che ha creato una forte instabilità politica. Gruppi armati hanno preso il controllo dei traffici di migranti e della tratta di persone in tutto il Paese, nutrendosi di un’economia predatoria che intercetta i migranti in mare durante il viaggio verso l’Europa, li riporta in Libia e li detiene in campi in cui sono sistematicamente sottoposti a gravi abusi. Tra gli attori coinvolti nella commissione di questi crimini figurano gruppi armati che gestiscono i centri di detenzione agendo sotto il controllo formale delle autorità libiche, la guardia costiera libica e il dipartimento preposto alla lotta all’immigrazione clandestina del ministero dell’interno libico. “I crimini commessi contro i migranti - sostengono le tre Ong - possono e devono essere indagati come crimini di guerra ai sensi dell’articolo 8 dello Statuto della CPI”. L’esposto sostiene infatti che i membri di gruppi armati che hanno preso parte alle ostilità in corso in Libia hanno sottoposto i migranti a numerosi abusi nei centri di detenzione sotto il loro controllo. “Questi atti soddisfano i requisiti previsti dallo Statuto della Corte per i crimini di guerra, in quanto sono stati commessi in un contesto di conflitto armato e sono ad esso correlati. Inoltre, questi crimini possono integrare dei crimini contro l’umanità ai sensi dell’articolo 7 dello Statuto. La necessità di investigare quanto accaduto nei centri di detenzione libici e di assicurare alla giustizia i responsabili è resa ancora più rilevante dal fatto che alcune autorità europee, in particolare italiane e maltesi, hanno facilitato il ritorno dei migranti in Libia e la loro susseguente detenzione e maltrattamento”. Tra il 2017 e il 2021, ossia dal governo Gentiloni fino all’attuale governo Draghi, le autorità italiane hanno infatti fornito alla guardia costiera libica un sostegno cruciale per intercettare i migranti in mare e riportarli nei centri di detenzione, tra cui la fornitura di risorse e di attrezzature, la manutenzione delle stesse, e la formazione del personale coinvolto. I funzionari italiani e maltesi hanno agito in maniera coordinata con la guardia costiera libica nelle operazioni di recupero dei migranti per garantire che essi fossero intercettati e riportati in Libia. L’esposto ritiene che il sostegno fornito dalle autorità italiane e maltesi alla guardia costiera libica integri una forma di concorso nei crimini commessi contro i migranti, da cui deriverebbe una responsabilità penale internazionale ai sensi dello Statuto della Corte. “I crimini commessi contro i migranti in Libia - osserva Ramadan Amani, di Adala for All - rappresentano una emergente “sacca di immunità” sempre più apertamente accettata dalla comunità internazionale, nonostante la grande quantità di prove di crimini internazionali commessi alle porte dell’Europa. Peraltro, le prove disponibili indicano chiaramente le responsabilità delle autorità europee”. Alessandro Pizzuti, co-fondatore di UpRights, sottolinea che “in Libia le parti in conflitto prendono di mira i migranti perché li percepiscono come una risorsa cruciale per portare avanti i loro obiettivi politici e militari. Per rispondere alle nuove sfide che il mondo sta affrontando, è indispensabile che la Corte Penale Internazionale fornisca risposte forti a queste nuove dinamiche e scenari”. Le organizzazioni che hanno depositato l’esposto ribadiscono così la necessità di indagare e di perseguire tutti i possibili responsabili. Come osservato da Nicolò Bussolati, vicepresidente di StraLi, “l’esposto chiede alla CPI di avviare un’indagine e di fare quindi un primo importante passo per assicurare che questi crimini, legati alla migrazione e tradizionalmente rientranti nell’ambito dei diritti umani e del diritto dei rifugiati, siano esaminati attraverso la lente del diritto penale internazionale”. Luca Attanasio, arrestati gli assassini dell’ambasciatore in Congo: “Volevano rapirlo” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Il diplomatico è stato ucciso un anno fa assieme a un carabiniere e all’autista. “Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto”. A quasi un anno dall’imboscata assassina in cui morirono Luca Attanasio, il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista, Mustafa Milambo, la polizia del Congo cattura e mostra al mondo i presunti assassini. Sono sei giovani, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Tutti ammanettati, quattro sono scalzi, alle spalle nove agenti col mitra a tracolla. I sei tacciono. Di fronte hanno un gruppetto di giornalisti e fotografi, invitati per la conferenza stampa: “Signor governatore - proclama con voce solenne il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang - vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore”. A dire il vero, l’uomo che ha sparato non c’è: è il capo d’una banda nota col nome di “Aspirant”, dicono gli investigatori, ed “è ancora in fuga, ma gli stiamo dando la caccia”. Di sicuro, spiega un altro militare, il colonnello Constant Ndima Kongba, su quel prato sono in manette i suoi complici: “Gli uomini d’altre due gang criminali, i Bahati e i Balume. Sappiamo dove si trova il capo di ‘Aspirant’. Speriamo di trovarlo”. La banda era ricercata da vari mesi. Dopo l’agguato ad Attanasio il 22 febbraio dello scorso anno, sulla strada fra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, in tutta la regione ci sono stati diversi assalti a convogli: in uno, a novembre, era stato ammazzato anche un uomo d’affari della zona, Simba Ngezayo. E sarebbero stati proprio gli indizi raccolti durante l’inchiesta per quest’ultimo assassinio, sostengono i giornalisti di Goma, a mettere la polizia del Nord Kivu sulle tracce di queste tre bande. Il generale Van Ang non racconta come si sia arrivati alla cattura. Non fa cenno alle inchieste italiane che nel giugno 2021 hanno portato a indagare un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d’avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici. Nemmeno fornisce elementi particolari che spieghino il collegamento con l’uccisione di Attanasio. Ma i toni sono determinati. “Aspirant” e i suoi uomini, dice l’ufficiale, tesero l’imboscata alle auto dell’ambasciatore italiano e del World Food Program “con uno scopo ben preciso”: volevano rapire il diplomatico e chiedere un riscatto milionario. Secondo gli investigatori, infatti, “quando ‘Aspirant’ sparò sugli obbiettivi”, uccidendo quasi all’istante Attanasio e Iacovacci, “si morsero le mani” perché la loro intenzione era di prendere gli ostaggi bianchi e trattare con l’Italia per rilasciarli. “È la stessa tattica usata in altri casi”, viene spiegato, e che doveva funzionare anche per rapire Ngezayo. “Ora lancio un appello alla giustizia - dice il generale del Nord Kivu -: che questi criminali siano puniti tenendo conto di tutto quel che hanno fatto sopportare alla nostra popolazione”. Nei mesi passati, la polizia congolese aveva già annunciato possibili arresti smentiti, poi, in poche ore: se sia la svolta giusta, è ancora presto per dirlo. Clarissa, l’inviata a Kabul: “Vi racconto cos’è la guerra. Ma ora aiutiamo chi è rimasto là” di Marta Serafini Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 Corrispondente internazionale della Cnn, due figli piccoli, Clarissa Ward parla dell’esperienza da giornalista in Afghanistan. Ma anche in Siria, Iraq, Georgia. “So di essere una privilegiata, io poi posso tornare a casa”. “Ho intervistato una donna, che lavorava alle Nazioni Unite. Continuava a piangere. Le ho chiesto: “Perché piangi, hai paura?”. Mi ha risposto: “No... è perché dopo averle incoraggiate e spronate a studiare e a inseguire i loro sogni devo dire alle mie figlie che ora è tutto finito, che le loro aspirazioni sono irrealizzabili”“. Clarissa Ward, principale corrispondente internazionale della Cnn, risponde al telefono. Dal salotto arrivano le voci della sua famiglia e dei suoi due figli. “Ringrazio di essere qui con loro oggi. Ma ringrazio anche di avere il privilegio di poter far questo mestiere”. Ward, 41 anni, è stata una delle poche inviate a restare a Kabul, dopo che i talebani sono entrati in città il 15 di agosto. “È stato incredibile, sono arrivati senza nemmeno sparare un colpo. Non avevo mai visto una cosa del genere”. Con indosso un niqab nero, ha vinto la paura ed è scesa in strada a raccontare quello che stava accadendo. La fuga - “I talebani fuori dall’aeroporto avevano delle fruste, sparavano in aria e hanno cercato di colpire il mio produttore”, racconta. Poi, quando dopo qualche giorno a tutti è apparso chiaro che era meglio evacuare, Ward ha aiutato tutte le persone che poteva. “Abbiamo lasciato la nostra casa alle 6 del mattino con il nostro personale locale afghano. Quando siamo arrivati ai gate dell’aeroporto, c’erano 60 o 70 persone che cercavano disperatamente di entrare. Sapevo che da occidentale avevo maggiori possibilità di passare ma sapevo anche che se qualcuno del mio staff fosse rimasto indietro non sarebbe mai più riuscito a mettersi in salvo. La porta si è aperta e la folla ha cercato di sfondare: è stata una delle esperienze più intense della mia vita. Poi un soldato è arrivato e ci ha fatti passare. Io ero l’ultima della fila”. Siria, Afghanistan, India, Iraq. Ward ha coperto le elezioni presidenziali russe. Era in Georgia al momento dell’invasione russa di terra. Ha seguito l’assassinio di Saddam Hussein, la guerra in Iraq del 2007, le proteste all’Università araba di Beirut, lo tsunami nell’Oceano Indiano e la morte di Arafat e di papa Giovanni Paolo II. Il generale David Petraeus, il vice primo ministro iracheno Barham Salih, il presidente libanese Emile Lahoud, i leader talebani e il capo di Isis-K sono stati tra le persone che ha intervistato. Ha rivelato come gli agenti dei servizi russi abbiano seguito l’oppositore Alexei Navalny per anni, anche poco prima del suo avvelenamento nell’agosto 2020, in un’indagine congiunta di The Insider, Bellingcat in collaborazione con Cnn e Der Spiegel nel dicembre 2020. Dagli inizi nel 2003 al desk della Fox, passando per la Cbs fino alla Cnn, dove nel 2018 è “succeduta” alla regina degli Esteri Christiane Amanpour. Ward ha parlato per la prima volta con i talebani due anni fa. Prima della caduta è stata embedded con l’esercito afghano a Kandahar. Poi è andata nella provincia di Ghazni, dove i talebani avevano già preso il controllo. “Parlare con loro è particolarmente difficile se sei una donna. Sei essenzialmente invisibile”, spiega. “Non ti guardano. Non si rivolgono a te. Non ti parlano. Se tu lo fai, ti rispondono ma non guardano nella tua direzione. Sei invisibile”. Cambieranno, un giorno? “Difficile a dirsi. Sono in gran parte analfabeti. Combattono da quando sono abbastanza grandi da portare una pistola. Non conoscono nessun altro modo di vivere”. Prosegue Ward: “Inoltre la leadership talebana comprende che ha un duplice problema. Se non è abbastanza intransigente, molti elementi della base potrebbero finire tra le braccia di gruppi più estremisti come al-Qaeda o Isis perché in fin dei conti questi giovani sono stati addestrati fin dalla tenera età ad uccidere, sacrificare e ad essere uccisi. Non puoi togliere loro tutto all’improvviso e aspettarti che si trovino un lavoro in banca. Semplicemente non accadrà. Dall’altro lato i talebani non possono inimicarsi la comunità internazionale perché hanno bisogno del sostegno economico e degli aiuti finanziari. E se il popolo non ha da mangiare prima o poi si solleverà”. Una vita piena, Clarissa Ward sa bene di essere una privilegiata. “Lo sono in tutti i sensi. Ma soprattutto perché io posso tornare a casa, le persone di cui racconto restano lì e ci sono tante donne e uomini che non siamo riusciti ad aiutare a Kabul”. Nata a Londra da padre britannico e madre americana, è cresciuta tra la City e New York. Una laurea a Yale, poi il matrimonio con il finanziere Philipp von Bernstorff, incontrato a una cena del 2007 a Mosca. E due figli, Ezra, 3 anni e Caspar, 1. “Essere madre - ammette - mi ha cambiato, ha cambiato il mio modo di lavorare e di raccontare. Ho una visione diversa, ora. Sicuramente quando sono via il pensiero è sempre per loro. Ma questo non significa che io non riesca a fare il mio lavoro come prima. Anzi, mi ha ampliato la visuale, ora riesco a vedere punti di vista che prima ignoravo. Loro sono fortunati, non sanno cosa sia la guerra ma è anche per loro che racconto”. Ed è anche per loro che ha deciso di scrivere “On alla fronts”, libro che ripercorre i suoi 20 anni di carriera in prima linea. “C’è la percezione che amiamo il pericolo e siamo drogati di adrenalina, cowboy e turisti di guerra e tutto il resto. Odio farmi sparare. Rido quando la gente dice che sono coraggiosa; non lo sono. Non mi piace per niente essere in una situazione di combattimento attivo. Voglio solo parlare con le persone che sono più colpite dalla guerra quindi vado in questi luoghi per raccontare le loro storie in un modo più avvincente. Non sono una drogata di adrenalina, questo è certo”. Il ricordo di Maria Grazia - Due Peabody e due Emmy Awards, tra i premi vinti, di recente Ward è stata in Italia a Santa Venerina dove le è stato consegnato il riconoscimento in memoria di Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera uccisa in Afghanistan nel 2001. “Non ho mai conosciuto Maria Grazia ma è un premio che mi sta particolarmente a cuore e che mi riempie di orgoglio. Quello che Maria Grazia faceva, il suo lavoro, è il motivo per cui lo facciamo. Raccontare quelle persone, dare loro voce. Ed è la ragione per cui dobbiamo continuare a farlo. Specialmente per le donne afghane, tenendo accesa la luce su di loro, sui loro sogni e stare al loro fianco affinché possano continuare a lottare e sperare”. Esecuzioni e povertà nell’Afghanistan dei talebani che non sanno governare di Pietro Del Re La Repubblica, 19 gennaio 2022 Dopo cinque mesi al potere, gli studenti coranici continuano a dare la caccia a chiunque abbia collaborato con gli americani e con la precedente amministrazione, pronti a giustiziare ogni oppositore. Le donne non possono più lavorare ne studiare. Il consumo di droga è esploso. E intanto il Paese sprofonda nella crisi economica, che i nuovi padroni di Kabul non sanno come gestire. Si sono accorciati la barba e, dismesso il mantello nero da briganti, molti di loro indossano oggi l’uniforme mimetica dell’esercito sconfitto. In giro vedi anche meno kalashnikov e nel traffico di Kabul non senti più i loro pick-up sgommare come una volta. Inurbati da sei mesi nella capitale, e da allora incontrastati padroni dell’Afghanistan, i talebani si sono dati una ripulita: passata l’euforia della vittoria, è anche tramontato il bisogno di affermare il loro potere terrorizzando la popolazione civile. “Ma adesso operano più di nascosto, all’oscuro dei media internazionali agli occhi dei quali vogliono presentarsi con un volto nuovo, più umano e responsabile”, dice Alì Jafari, ex funzionario pubblico, licenziato perché appartenente alla minoranza sciita hazara e costretto a nascondersi per paura di ulteriori rappresaglie. “Sono però rimasti gli aguzzini di sempre, poiché non danno la caccia soltanto agli esponenti della mia etnia, ma a tutti gli ex nemici, e cioè a coloro legati al precedente governo”. Quanto sostiene Alì Jafari, lo conferma Agha Shireen, pashtun come la maggior parte degli studenti del Corano, ex dipendente del ministero dell’Interno e anche lui ridotto a vivere in clandestinità: “Sono disoccupato dal 15 agosto scorso e da allora continuo a ricevere messaggi in cui mi viene intimato di consegnarmi. Ma se lo facessi mi ucciderebbero, com’è accaduto a una dozzina di miei colleghi”. Infatti, oltre a non aver formato un “governo inclusivo”, come avevano garantito, i mullah stanno tradendo un’altra promessa fatta all’Occidente, quella di non perseguitare chi in passato li aveva osteggiati e, più in generale, chi aveva lavorato con “l’invasore” americano. “Chiedono a ogni capo distretto la lista di chi ha fatto parte della precedente amministrazione, e poi, siano essi funzionari, poliziotti, soldati o attivisti, li vanno ad arrestare uno per uno. Per questo è da mesi che, ogni giorno, almeno duemila afghani attraversano illegalmente il confine iraniano”, aggiunge Shireen, che da quando è in fuga ha già cambiato sei volte indirizzo. I talebani non nascondono invece la volontà di plasmare secondo i loro canoni tribali le donne afghane, diventate dalla scorsa estate cittadine di terz’ordine e da allora vittime di una serie di decreti restrittivi emanati dal nuovo governo. Sono loro il principale bersaglio dei leader religiosi, ma anche la ragion d’essere di questi ultimi, incapaci di mandare avanti il Paese aiutandolo ad attraversare la spaventosa crisi economica che lo funesta. “Non fanno altro che reprimere la nostra indipendenza e la nostra autodeterminazione, con leggi assurde che ci impediscono perfino di uscire e di viaggiare da sole, o che ci proibiscono di studiare e di lavorare”, dice Ameera Abdullah, ventidue anni, studentessa in architettura e una delle poche attiviste che ancora coraggiosamente scendono in piazza in difesa dei diritti delle donne, com’è successo domenica scorsa davanti all’Università di Kabul. “Gli stessi talebani che hanno chiuso la mia facoltà, c’hanno aggredito tre giorni fa con lo spray al peperoncino. Il che la dice lunga su quanto ci rispettino. Nessuno sa se un giorno ricominceremo a frequentare i corsi universitari, ma molte amiche mie hanno già rinunciato a proseguire gli studi. A che serve laurearsi, dicono, se poi non potrai mai svolgere il mestiere di architetto?”. Prima di andar via, Ameera Abdullah ci tiene a denunciare due inquietanti novità nella Kabul talebana: l’aumento del numero di tossicodipendenti, con un tasso di morti per overdose mai registrato prima d’ora; e, soprattutto, l’improvvisa impennata di casi di violenza domestica, di cui le attiviste vengono a conoscenza solo grazie al passaparola. “È vero, la nostra è da sempre una società patriarcale ma fino alla caduta di Kabul le donne picchiate dai loro mariti potevano bussare alle porte di un commissariato e denunciarli. Oggi, non più. Sono reati che restano per lo più impuniti”. Parliamo di queste terribili realtà con il portavoce del governo, Belal Karim, che ci riceve nel suo ufficio nell’ex sede del Tribunale di Kabul. Indossa un elegante turbante nero e ci sorride amabilmente nascondendo sotto la sua folta barba il volto di un trentenne. Con voce melliflua esordisce spiegando che, da quando gli studenti del Corano sono nuovamente al potere, la donna afghana è finalmente al sicuro: “Esce di casa soltanto accompagnata da un membro della famiglia e quindi nessuno può più violentarla. Inoltre, non lavorando più in un ufficio non è più vittima di quei colleghi che le proponevano un salto di carriera in cambio di un favore sessuale”, sostiene Karim con un’ingenuità così disarmante da sembrare in malafede. “Per fermare l’emorragia di nostri concittadini verso i Paesi vicini abbiamo smesso di rilasciare passaporti. Quanto alle ragazze, abbiamo deciso che devono smettere di praticare lo sport perché è immorale e dunque sconveniente”. Come un politico navigato evita abilmente di rispondere alle domande che non gli piacciono continuando a ripetere che la scorsa estate i talebani hanno riportato la pace in Afghanistan. È il suo mantra. Quando gli chiediamo come pensa il governo di attenuare la spaventosa crisi umanitaria che colpisce il Paese, Karim comincia con l’addossare tutte le colpe di quanto sta accadendo agli Stati Uniti che hanno congelato i fondi della Banca centrale afghana, pari a quasi 8,5 miliardi di euro. “Per superare questo brutto momento chiediamo a tutti i Paesi del mondo di aiutarci. Se lo faranno, sapremo ringraziarli distribuendo concessioni per sfruttare le nostre ricchissime miniere”. Certo, aiutare l’Afghanistan implica il riconoscimento dei mullah, e cioè di chi è pronto a giustiziare con ferocia ogni oppositore e di chi vorrebbe trasformare tutte le donne in schiave domestiche. Perciò in Occidente sono in molti a pensare che, volendo rispettare le regole universali dei Diritti dell’uomo, i talebani vadano trattati come dei paria. Ma com’è possibile, attenendosi alle stesse regole, non intervenire di fronte al gelo e alla fame che hanno già cominciato a uccidere i più deboli? E non è illusorio credere che punendo i talebani non si infierisca soprattutto sul popolo afghano? Dice Fahim Sadat, analista politico riuscito a fuggire lo scorso agosto in Germania: “I negoziati potranno riprendere una volta finita l’emergenza. Ma adesso le nazioni più ricche del pianeta devono al più presto trovare i 4,3 miliardi di dollari necessari, secondo l’Onu, a salvare l’Afghanistan e a sconfiggere la carestia”. Safeguard Defenders: “Dal 2014 diecimila rimpatri forzati in Cina” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 19 gennaio 2022 La Cina ha fatto affidamento sulla coercizione, tra rapimenti e pressioni sulle famiglie, per costringere circa 10.000 “fuggitivi” a tornare dall’estero: è la denuncia contenuta in un rapporto presentato dal gruppo per i diritti umani Safeguard Defenders, con sede a Madrid, che punta a far luce su una campagna che ha spesso causato tensioni diplomatiche. Secondo i dati compilati dalla ong, gli sforzi cinesi hanno portato in sette anni al rimpatrio di 9.946 persone. Il rapimento è la misura più estrema, ma altre opzioni includono la minaccia e l’interrogatorio delle famiglie degli obiettivi, il blocco di beni personali e l’invio di agenti all’estero come ulteriore mezzo di pressione: sono tutti strumenti - negati da Pechino - in violazione della sovranità di altri Paesi. La strategia risale al 2014, quando il ministero della Sicurezza pubblica lanciò l’operazione Fox Hunt, una task force progettata per rimpatriare gli accusati di corruzione e altri presunti reati finanziari, parte della campagna voluta del presidente Xi Jinping. Fox Hunt è stata inserita poi in un programma più ampio chiamato Sky Net, che ha spazzato via funzionari del Partito comunista cinese e altri soggetti ricercati che vivevano all’estero, soprattutto per le accuse di reati finanziari. Nel 2018, la Cina decise di trasformare in legge l’uso della “persuasione” e dei “metodi irregolari” per rimpatriare i latitanti internazionali, dando alle operazioni un timbro ufficiale di approvazione. Il mese scorso, le autorità hanno affermato che Sky Net si era assicurata il ritorno di circa 1.114 latitanti sospettati di corruzione e riciclaggio nei primi 11 mesi del 2021. Oltre ai rimpatri forzati, c’è il capitolo delle intimidazioni e delle minacce agli attivisti, ai praticanti del movimento bandito del Falun Gong e alle minoranze etniche, tra tibetani e uiguri.