Non si può fare a meno del carcere, ma bisogna riformarlo e renderlo più umano di Edmondo Bruti Liberati Il Dubbio, 18 gennaio 2022 L’attenzione sul carcere si esprime in modo ambivalente sull’onda dell’ultimo episodio di cronaca. Il suicidio o la morte in carcere di un detenuto malato evocano compassione, ma basta un’evasione o la commissione di un reato da parte di condannato ammesso a misura alternativa perché si passi all’opposto del pendolo. Vi sono parole d’ordine strumentalizzate e distorte come quella della “certezza della pena”, che non vuol dire affatto “buttiamo le chiavi della cella”. Ma non sono mancati in questo inizio di anno 2022 interventi che hanno cercato di riportare alla razionalità. Un dato anzitutto da leggere come positivo è il confronto tra i 61.000 detenuti di inizio 2020 e gli attuali circa 54.000. Hanno giocato le misure adottate per il controllo della pandemia, ma anche una maggiore attenzione al ricorso alla custodia cautelare. Nessuno può portare dati a sostenere che questa diminuzione del ricorso al carcere abbia avuto come conseguenza un aumento della criminalità. Del sovraffollamento è vittima la popolazione detenuta, ma il personale penitenziario, insufficiente di numero, deve confrontarsi con il clima di tensione che ne deriva. Il carcere, la privazione della libertà come pena, nella storia dell’umanità ha costituito un “progresso” rispetto alle pene corporali e alla pena di morte. Non ne possiamo fare a meno, ma ne conosciamo ormai da tempi gli aspetti negativi di disumanizzazione e desocializzazione. Rendere più umana l’esecuzione della pena detentiva e limitarne l’applicazione in favore di misure alternative non è solo adesione al “senso di umanità” evocato nell’art 27 della Costituzione, ma efficace politica per garantire maggiore sicurezza. Da quando nel 1975 la legge di riforma penitenziaria ha rotto la rigidità dell’esecuzione della pena, l’applicazione delle misure alternative alla detenzione ha dimostrato efficacia nella previsione della recidiva. Delle positive prospettive aperte da quelle riforme sono stato testimone nella funzione di magistrato di sorveglianza a Milano fino al 1981. Le statistiche di oltre quarant’anni sono inoppugnabili, ma non se ne trae la conseguenza di un maggiore impegno in quella direzione. Le innovative proposte elaborate nel 2018 dalla Commissione Giostra sono state tenute in un limbo fino al termine della legislatura. Una rinnovata attenzione è stata mostrata dall’attuale governo e vi è da augurarsi che questa volta si traduca in provvedimenti concreti. Si possono indicare tre prospettive di intervento. Primo. La Camera ha recentemente approvato un ordine del giorno con il quale impegna il governo a garantire la copertura delle vacanze del personale degli Uffici dell’esecuzione penale esterna e ad aumentare le piante organiche. Gli Uepe sono ben noti agli operatori del settore, ma forse meno all’opinione pubblica generale che tende a conoscere, oltre ai direttori, solo le due categorie dei detenuti e del personale di polizia penitenziaria. L’abbandono della vecchia rigida denominazione “agenti di custodia” non è solo formale perché vuole indicare che anche il personale che assicura ordine e sicurezza negli istituti deve avere la prospettiva della finalità rieducativa della pena. Ma è sul personale specializzato degli Uffici dell’esecuzione penale esterna che grava il compito di gestire l’”apertura” del carcere, utilizzando anche la collaborazione degli enti locali. L’ammissione alle misure alternative e la eventuale revoca sono competenza e responsabilità della magistratura di sorveglianza, la quale può operare solo con il pieno supporto del personale Uepe. Coprire immediatamente le vacanze è un primo passo ma occorre un aumento degli organici. Ora troppo spesso la magistratura di sorveglianza non è in grado di decidere tempestivamente sulle istanze di ammissione a misure alternative per i ritardi nelle relazioni degli Uepe, dovuti al sovraccarico. Secondo. Incrementare le possibilità di lavoro per chi in carcere ci deve rimanere. Iniziative innovative in diversi istituti mostrano che può trattarsi di lavori di specializzazione e di qualità. I destinatari sono ovviamente in prevalenza i detenuti definitivi, ma anche per i detenuti in custodia cautelare occorrerebbe una offerta di lavoro che vada oltre i lavori interni. Terzo. Non lasciare cadere nel vuoto la Relazione della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario depositata a fine anno. Delle tante proposte che qui non è possibile ripercorrere voglio sottolineare quelle, solo apparentemente di minor rilievo, contenute sotto il titolo “La quotidianità penitenziaria”. Cito l’ampliamento dei colloqui in videochiamata, la possibilità di utilizzare telefoni cellulari, l’autorizzazione al possesso di computer. I detenuti per i quali, per perduranti collegamenti con la criminalità organizzata o per altre situazioni di particolare pericolosità, si impongono rigide restrizioni per ragioni di ordine e sicurezza sono una minoranza. Per tutti gli altri detenuti il mantenimento delle relazioni familiari e dei rapporti affettivi è un elemento essenziale a limitare gli effetti di desocializzazione. Non si può chiudere il discorso sul carcere senza toccare il tema della attuazione dei principi dettati dalla Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. L’applicazione della prima sentenza che ha consentito l’accesso ai permessi premio è stata gestita con grande prudenza dalla magistratura di sorveglianza (meno di una decina di accoglimenti) e non ha creato problemi. Ora spetta al Parlamento dare attuazione alla seconda sentenza della Corte sulla ammissione degli ergastolani “ostativi” alle misure alternative, senza tradirne lo spirito (e le puntuali indicazioni). Una grande responsabilità viene assegnata alla magistratura di sorveglianza, ma non maggiore di quella che quotidianamente viene affrontata in tutti gli altri casi. Dell’impegno di questi magistrati è stata efficace testimonianza l’intervista rilasciata a questo giornale lo scorso 15 gennaio dal presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin. La Corte ha indicato un percorso sottolineando che alla magistratura di sorveglianza deve essere assicurato un efficace collegamento con tutte le autorità competenti in materia. È una assunzione di responsabilità che si richiede anche alle forze di polizia che devono acquisire stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e non limitarsi a pigre formulette “non si può peraltro escludere che…”. Non si tratta di “allentare la guardia” di fronte alle organizzazioni mafiose ma di ricordare che in carcere non ci sono “organizzazioni”, ma persone. L’offrire una prospettiva di “uscita”, di “rientro nella società” andrà incontro inevitabilmente anche a fallimenti, a errori valutazione. Ma sull’altro piatto della bilancia è il segnale di civiltà che un ordinamento democratico lancia come sfida proprio alle organizzazioni mafiose e che forse potrà contribuire alla messa in crisi, silenziosa, anche di consolidate appartenenze. Ergastolo: muro contro muro tra i partiti, ma il governo tace di Ignazio Juan Patrone* Il Riformista, 18 gennaio 2022 Il tempo stringe e il dibattito in commissione è povero, gli emendamenti riflettono posizioni già note. C’è da sperare che domani in Parlamento la ministra Cartabia dica una parola chiara. Procede sia pur lentamente l’esame alla Commissione giustizia della Camera dei progetti di legge per la riforma dell’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati c.d. ostativi, di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, già oggetto di quattro proposte diverse tra loro, poi unite dal Presidente della Commissione Perantoni in un testo unificato: testo che però non sembra aver raccolto un ampio consenso, tanto che gli emendamenti presentati sembrano riflettere o pedissequamente riportare il contenuto delle posizioni già note. È un vero peccato che il dibattito, che nei verbali pubblicati appare assai povero, non abbia sinora saputo cogliere l’occasione - che pure si presentava al Parlamento - per una rivisitazione critica della legislazione emergenziale, sedimentatasi nell’ultimo trentennio nel testo dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, alla luce dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021 e delle sentenze della Corte n. 253 del 2019 e della Corte europea Viola c. Italia, sempre del 2019. Ora il tempo stringe, visto che la Consulta ha dato termine al legislatore sino al maggio 2022, ed il rischio è quello di una soluzione (se mai vi sarà) approvata in fretta e furia, poco meditata e perciò suscettibile di una pronuncia di illegittimità costituzionale in tempi che potrebbero anche essere molto rapidi. I gruppi parlamentari, come risulta evidente dal testo degli emendamenti presentati, sembrano fermi sulle loro precedenti posizioni: Fratelli d’Italia, che he presentato un progetto di legge costituzionale per la riforma dell’art. 27 della Costituzione per contrastare l’ordinanza della Corte, insiste nella tesi, giuridicamente improponibile, secondo la quale spetterebbe all’istante “l’onere della prova degli elementi richiesti per neutralizzare le presunzioni qualificate come ostative alla concessione dei benefici” (così testualmente l’intervento dell’on. Varchi il 28 dicembre): il Movimento 5 stelle, a sua volta, sembra aver mal digerito l’ordinanza della Corte ed insiste nella proposizione di argomenti già considerati nel suo progetto di legge, compresa l’attribuzione della competenza in materia al solo Tribunale di sorveglianza di Roma e l’onere della prova a carico del richiedente. Il Pd sembra ad oggi incerto fra una linea più garantista, rappresentata dalla originaria proposta Bruno Bossio, e preoccupazioni più legate alla salvaguardia delle politiche antimafia seguite sinora, ad oltre un trentennio di distanza dalla introduzione dell’art. 4-bis con il decreto legge 151 del 1991. Gli unici emendamenti che sembrano in linea con le indicazioni provenienti dalla pronunce delle due corti sembrano quelli Zanettin ed altri, di Forza Italia, che prevedono che i benefici possano essere concessi “sulla base di congrui e specifici elementi di fatto, diversi e ulteriori rispetto alla dichiarazione di dissociazione dalla organizzazione criminale di appartenenza”, lasciando al giudice la valutazione della “attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e l’assenza del pericolo di un loro ripristino”. È stata sinora assente la voce del Governo, che è sì impegnato su molti fronti, ma crediamo non possa tacere su un tema che riguarda anche la responsabilità internazionale dell’Italia nell’adempimento del giudicato della Corte europea del 2019 che ha dichiarato l’incompatibilità dell’attuale disciplina ostativa con la Convenzione europea. Domani la ministra Cartabia esporrà al Parlamento le Comunicazioni sull’amministrazione della giustizia. Ci auguriamo che in quell’occasione venga detta una parola chiara su un tema tanto importante. Il tempo stringe: le prossime sedute della Commissione sono previste domani e il 20 gennaio, poi arriverà la sosta per l’elezione del Presidente della Repubblica: crediamo che piuttosto che una soluzione frettolosa sia preferibile attendere la decisione della Corte. *Già magistrato, membro del Comitato scientifico di Associazione Antigone “Il carcere non sia un tempo vuoto. Sotto i 3 anni misure alternative alle sbarre” di Giuseppe Mazzei La Discussione, 18 gennaio 2022 Intervista al prof. Mauro Palma, Presidente dell’Autorità garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Presidente, la ministra Cartabia afferma che la riforma delle carceri è una priorità di questo Governo. Lei concorda con le conclusioni della “Commissione per l’innovazione penitenziaria” presieduta dal professor Marco Ruotolo? Condivido pienamente la divisione in tre macro-aree di intervento: la prima relativa agli interventi attuabili fin da subito, nell’arco di questa legislatura; la seconda relativa alla riforma del regolamento, ormai vecchio di venti anni, facilmente realizzabile e la terza, relativa alla revisione normativa. Puntare su questa differenziazione di interventi mette nella possibilità di dare subito segnali concreti. Il sovraffollamento rimane sempre un problema drammatico? Sì, i dati dicono che la popolazione carceraria conta 54.278 detenuti su 47.416 posti disponibili. Ma il problema più grande è costituito dalla somma di questo problema con quello che la detenzione resta di fatto sostanzialmente un tempo vuoto. Ora poi, al primo e al secondo problema si è aggiunta l’ansia che deriva dal distanziamento imposto dalla pandemia. Anche questo finisce per rappresentare un sovraccarico di pena. L’Italia ha già ricevuto richiami dal “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene inumane o degradanti” per le condizioni delle nostre carceri, alcune davvero fatiscenti. Cosa osta alla costruzione di nuovi edifici? È indubbio che degli interventi in questa direzione vadano fatti, ma è più facile adattare spazi inutilizzati piuttosto che procedere a nuove costruzioni che impattano con i tempi impiegati per le opere pubbliche e le decisioni dell’amministrazione penitenziaria. Di solito ci vogliono circa 10 anni. Per me la soluzione è completamente diversa. Per reati sotto i tre anni si dovrebbero prevedere, non tanto pene diverse, quanto misure diverse, di supporto e controllo alternativi fuori dalle carceri. Penso ad esempio al reintegro del bene danneggiato oppure ai lavori di pubblica utilità. Questo aiuterebbe moltissimo allo svuotamento degli istituti. Lo definirei una sorta di “welfare controllante”. Un’altra spia che qualcosa non va è l’alto tasso dei suicidi. Non è possibile garantire un maggiore supporto psicologico ai detenuti? Lei ha ragione, solo lo scorso anno ne abbiamo registrati più di uno a settimana. Di questo incolpo il sistema che non fornisce questo supporto fin dal primo momento. I suicidi avvengono quasi sempre all’inizio o alla fine della pena, anche il reinserimento nella vita sociale può spaventare. Dobbiamo imparare dagli errori e ogni pena deve rappresentare un progetto ad personam e da subito, non dopo quattro mesi come è adesso. In alcuni casi è rivelato davvero troppo tardivo. Garanti, politici sensibili e operatori: coro unanime per un decreto carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2022 Sale il contagio, il sovraffollamento persiste e i problemi atavici del carcere, inevitabilmente si acutizzano. Da più fronti si invoca una soluzione, un decreto che tamponi l’emergenza e parallelamente l’attuazione delle proposte della commissione Ruotolo. “Troppi detenuti, il governo deve mettere in campo un decreto svuota- carceri!”. Lo dice in una nota Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della regione Campania. Lo dice mentre i numeri dei contagi salgono vertiginosamente, causa anche il sovraffollamento dove è di fatto impossibile isolare tutti i detenuti infettati dal covid 19. “Chi ha sbagliato deve pagare il suo debito non a prezzo della vita, perché chi è detenuto ha diritto alla tutela della sua vita, perché il carcere non deve essere un luogo oscuro e separato dalla società. In Campania oggi abbiamo 6.403 reclusi nei 15 Istituti penitenziari. Sono invece 6.882 le persone diversamente libere in Area penale esterna. Carcere e Covid. Sono 221 gli agenti e gli operatori penitenziari contagiati in Campania. Invece 351 i detenuti contagiati (di cui 124 a Poggioreale e 120 a Secondigliano). Lo so non fanno notizia, sono numeri!”, sottolinea il garante Ciambriello aggiornando i dati su carcere e Covid in Campania. Il garante della regione Campania con la sua nota propone soluzioni operative in questo periodo di crisi pandemica: “Occorre non far entrare in carcere persone, se non per reati gravi, c’è bisogno di più misure alternative al carcere, il governo deve mettere in campo un decreto svuota- carceri, subito assunzioni, anche a tempo determinato, per agenti di polizia penitenziaria, educatori e figure socio- sanitarie, vaccini e cure mediche adeguate per i detenuti e gli operatori penitenziari, far tornare nelle proprie Regioni i detenuti, rispettando il diritto della territorialità della pena, liberazione anticipata da 45 a 75 giorni”. Infine Ciambriello conclude: “Mutare il carcere significa soprattutto operare un processo di trasformazione culturale e legislativa in grado di renderlo al contempo un luogo di garanzia dei diritti e di certezza della pena”. Come riporta La Nazione, sabato scorso la ministra della Giustizia Marta Cartabia, su invito del sindaco di Firenze Dario Nardella, ha fatto visita al carcere di Sollicciano. “Il carcere è parte della Repubblica - ha detto la guardasigilli durante la visita - è un dovere essere qui per verificare di persona la struttura. La vita carceraria. Le criticità che dall’autunno scorso, se possibile, sono aumentate. Sollicciano è un caso nazionale. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, ripete da anni che ‘ è un carcere fuori dalla legalità’“. Ricordiamo che l’esponente del Partito Radicale ha ripreso lo sciopero della fame “a staffetta’ da mezzanotte del 10 gennaio. Lo fa anche affinché il governo metta in campo la liberazione anticipata speciale, quella contenuta nell’emendamento a firma del deputato Roberto Giachetti. Da una parte ci sono spinte per varare immediatamente un decreto, dall’altra le proposte della commissione Ruotolo che ridanno un senso al carcere. Vanno di pari passo: si salva la vita (decreto) e poi subito dopo la terapia con l’innovazione del sistema penitenziario. Non c’è solo il Covid, la situazione sanitaria dei carcerati è al limite del tollerabile di Annarita Digiorgio Panorama, 18 gennaio 2022 Non sappiamo neppure il nome, ma aveva 22 anni, il ragazzo che si è suicidato ieri nel carcere di Brindisi. Era stato arrestato il giorno prima per resistenza a pubblico ufficiale. È il quarto suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, gli altri detenuti si sono tolti la vita a Salerno, Vibo Valentia e Foggia. Nel 2021 furono 54. Altri 5 detenuti da inizio anno sono morti per malattia, uno dopo un’aggressione. In tutto questo scoppia l’allarme Covid. Dall’ultimo bollettino del 10 gennaio sono 1534 i detenuti attualmente col covid, e 1496 i positivi tra i circa 30 mila del personale. Numeri che non si riescono a fermare, considerando che non potendo tenere le distanze, l’unica cosa prevista dal governo per fronteggiare questa quarta ondata negli istituti di pena italiani sono 6 mila mascherine ffp2. Per tutti. Una ogni 16 persone. Quanto ai vaccini si riesce a sapere solo che ai detenuti sono state somministrate in totale 97.017 dosi, ma considerato il turnover e la forte presenza straniera, le asl non riescono a calcolare e neppure a risalire a quanti dosi sono state fatte. La situazione dunque è destinata a peggiorare, anche perché non si riesce più a isolare positivi con negativi, e le cure sono quasi inesistenti. Nella relazione annuale al Parlamento presentata nel 2021 si legge che il 53 per cento degli assistiti ha ricevuto prestazioni farmacologiche, con una media di 185 prestazioni per utente. Mentre il numero totale di prestazioni effettuate è di 12.350.946. La relazione però non contiene alcuna informazione sulla natura di tali prestazioni farmacologiche. Ma sappiamo che quasi la totalità di esse riguarda somministrazione di psicofarmaci, perlopiù metadone. L’unico modo per tenere a bada i detenuti. In carcere tutto è sanitario: il sovraffollamento, le condizioni delle strutture, le violazioni di svariati diritti (la privacy, l’accesso all’aria aperta e alle attività sportive o al lavoro, l’affettività, ecc.) sono tutti aspetti che riguardano, in una qualche misura, la salute della persona detenuta. Tutti gli aspetti della quotidianità detentiva, in altre parole, impattano sulla salute e sul benessere/malessere personale. Che il carcere produca o acuisca la malattia e il malessere, è certa l’insalubrità dell’istituzione carceraria e della sua patogenicità in quanto tale. Contro l’emergenza carceri la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha istituito una commissione - presieduta da Marco Ruotolo, professore ordinario di Diritto Costituzionale Università Roma tre - per “l’innovazione del sistema penitenziario”, che ha elaborato una serie di proposte migliorative. Otto linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative da applicare perché producano miglioramenti della vita penitenziaria durante l’esecuzione penale. Mentre giace ancora nel cassetto quella riforma organica del sistema penitenziario che dopo lunghi mesi di lavoro e di tavoli coordinati dai massimi esperti di tutto il mondo penitenziario, aveva elaborato l’allora guardasigilli Andrea Orlando, improvvisamente blocca dal pd alla vigilia delle elezioni. Gli interventi sul carcere saranno “una delle priorità dei prossimi giorni”, dice oggi il ministro della Giustizia Marta Cartabia, inaugurando il corso in Scienze giuridiche della Scuola di dottorato dell’Università Bicocca di Milano: “alcune iniziative legislative saranno impegno del ministero nelle prossime settimane”. Ad oggi lo Stato spende oltre 8 miliardi per l’amministrazione della giustizia e il 35% di queste risorse sono destinate al carcere. Tra il 2017 e il 2021, il bilancio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è cresciuto del 18,2% passando da 2,6 a 3,1 miliardi. Prima dello scoppio della pandemia a inizio 2020, nelle strutture penitenziarie del nostro paese erano recluse più di 62mila persone, a fronte di poco più di 40mila posti. Oggi sono 54 mila, ma tornano a crescere. Molti sono i reclusi con pene sotto i tre anni, e circa il 40 per cento è in attesa di giudizio. E mentre l’Italia è oggi il secondo Paese con le carceri più sovraffollate d’Europa (superato solo da Cipro), neppure durante il covid sono state adottate misure di valenza sistematica, ma limitate al contrasto emergenziale: sono stati sospesi i colloqui con i familiari e gli ingressi esterni di persone con cui i detenuti svolgevano attività lavorative, educative, formative e ricreative, tra cui i volontari e chi svolgeva i controlli. Questo nell’anno della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, e dei 14 detenuti morti dopo le rivolte, secondo l’allora guardasigilli Bonafede morti per abuso di farmaci. E mentre il Governo chiede, e in alcuni casi obbliga, gli italiani a vaccinarsi per tutelare la sanità pubblica, ignora totalmente la salute pubblica e individuale delle persone che sono totalmente sotto il suo esclusivo controllo. Dai dati dell’Amministrazione Penitenziaria dello scorso anno il 70% dei detenuti ha almeno una malattia: quasi il 45% è obeso o sovrappeso, oltre il 40% è affetto da almeno una patologia psichiatrica, il 14,5% da malattie dell’apparato gastrointestinale, l’11,5% da malattie infettive e parassitarie, circa il 53% dei nuovi detenuti è stato valutato a rischio suicidio. Sono pochi gli istituti sanitari, la maggior parte ha solo un’infermeria, e i ricoverati in carcere spesso vengono abbandonati, mentre è praticamente impossibile ricevere un qualunque tipo di esame ambulatoriale o visita specialistica. Privati della libertà e condannati a stare male. Colloqui in carcere, dal 20 gennaio necessario il green pass di Elena Del Mastro Il Riformista, 18 gennaio 2022 Con il nuovo decreto Covid “dal giorno 20 gennaio 2022, per poter effettuare i colloqui con i detenuti, sarà necessario disporre di un green pass valido”. Fin ora l’ingresso in carcere non era infatti precisamente e chiaramente stabilito per cui avvocati e parenti hanno potuto fare visita ai loro detenuti anche senza indossare la mascherina. Una concessione che però ha aggravato pesantemente il bilancio dei positivi in carcere. Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello comunica che al punto C dell’articolo 3 del decreto del 7 gennaio 2022, in tema di “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza Covid-19, in particolare nei luoghi di lavoro, nelle scuole e negli istituti della formazione superiore. (22G00002) (GU Serie Generale n.4 del 07-01-2022)” si evince che “Dal giorno 20 gennaio 2022 e fino al 31 marzo 2022, è consentito esclusivamente ai soggetti in possesso di una delle certificazioni verdi Covid 19, di cui all’art 9 comma 2, l’accesso ai seguenti servizi e attività, nell’ambito del territorio nazionale: C) colloqui visivi in presenza con i detenuti e gli internati, all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori”. Dunque la regola del green pass obbligatorio sarà valida in tutta Italia. Il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello semplifica così: “Per accedere ai colloqui con i detenuti, dunque, sarà necessario un green passo valido, con l’obbligo, finora non previsto, di essere vaccinati, guariti o in possesso dell’esito di un tampone negativo. La pandemia ha riportato alla luce non solo problematicità cronicizzate del pianeta carcere, ma soprattutto ha delineato nuove forme di incertezza, in termini di normative e in termini di diritti acquisiti dalle persone ristrette”. Giustizia: non si può lasciare la riforma in mano ai pm di Angela Stella Il Riformista, 18 gennaio 2022 “Bisogna smantellare il sistema automatico di avanzamento delle carriere che appiattisce i curricula e fa sì che le promozioni vengano effettuate con un arbitrio valutativo. Così le nomine possono essere messe in discussione in ogni momento. Noi stiamo lavorando a una legge di iniziativa popolare”. La decapitazione dei vertici della Cassazione “è un fatto di una gravità inaudita. I criteri di valutazione della professionalità vanno cambiati. La bozza del governo è lontana anni luce dalla riforma che serve alla magistratura: che errore averla concepita col sindacato delle toghe”. La decapitazione dei vertici della Cassazione da parte del Consiglio di Stato ha suscitato anche la ferma reazione dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Per il presidente dei penalisti, l’avvocato Gian Domenico Caiazza, per evitare altre simili situazioni di “gravità inaudita” la strada da intraprendere è quella di riformare le valutazioni di professionalità: “L’obiettivo è scardinare questo sistema sostanzialmente automatico di avanzamento di carriera” che appiattisce i curriculum dei magistrati mettendo facilmente in discussione le nomine. Qual è la sua chiave di lettura di quanto accaduto rispetto alle due decisioni assunte dal Consiglio di Stato? La fotografia che abbiamo davanti è che, riguardo ai vertici della Cassazione, il Tar dichiara legittime le nomine, mentre il Consiglio di Stato no: quindi, nel merito delle decisioni, credo occorra una assoluta prudenza. Inoltre, non possiamo dire se apprezzare le due sentenze quali rigorosi e severi controlli di legittimità amministrativa, o invece quale ennesimo capitolo di un rapporto sempre più travagliato ed oscuro tra giustizia amministrativa e giustizia ordinaria. Sicuramente quanto successo rappresenta un fatto di una gravità inaudita che dimostra, tra le altre cose, che il sistema di avanzamento delle carriere dei magistrati non funziona in quanto crea un appiattimento e una indistinguibilità dei loro curriculum che si riverbera anche sui giudici apicali di Cassazione. Quando le differenze sono impalpabili e le promozioni vengono effettuate tramite un arbitrio valutativo, è chiaro che le nomine possono essere messe in discussione in qualsiasi momento. E questa non è la prima volta che le nomine del Csm vengono contestate dinanzi ai giudici amministrativi, anzi sono moltissimi i casi. In tutto questo il cittadino non è più in grado di comprendere se il proprio magistrato inquirente o il proprio giudice esercitino legittimamente la propria funzione. Il Csm sta trovando un modo per riconfermare Curzio e Cassano: tale prospettiva non indebolisce ulteriormente l’immagine della magistratura che sembrerebbe così non rispettare le sentenze che la riguardano? In linea generale potrei dire di sì. Ma può darsi anche che la decisione del Consiglio di Stato non sia un secco annullamento delle due nomine ma indichi la strada per trovare nuovi criteri affinché il Presidente e la sua vice restino al loro posto. Certamente però è apprezzabile che Curzio e Cassano abbiano rinunciato al ricorso per Cassazione. Qualche mese fa, riguardo il ricorso di Prestipino e del Csm contro la sentenza del Tar che aveva accolto il ricorso di Viola, Luciano Violante ripropose l’idea dell’Alta Corte. Che ne pensa? Al di là o meno dell’Alta Corte, ciò di cui non si può fare a meno, e che rappresenta la strada da noi indicata per evitare altri casi come questo, è la riforma dei criteri di valutazione delle professionalità dei magistrati, come accennavo prima. L’obiettivo è scardinare questo sistema sostanzialmente automatico di avanzamento di carriera. Nella bozza di riforma del Governo su Csm e Ordinamento giudiziario, circolata nelle settimane precedenti, leggiamo che si starebbe pensando di articolare il giudizio positivo in discreto, buono o ottimo. Ma non è sufficiente, è incredibile che non si sia pensato ad altro. Noi stiamo lavorando con un pool di giuristi ad una proposta di legge di iniziativa popolare su questo tema e tocchiamo con mano la complessità di una riforma di questo genere. Sicuramente andranno individuati dei criteri per i quali il magistrato chiamato ad essere valutato ogni quadriennio sia chiamato a rispondere, su grandi numeri, anche degli esiti processuali, dando conto, in pratica, anche delle inchieste che ha condotto e delle sentenze che ha scritto e che sono state riformate. Quanto accaduto non rende ancora più urgente l’inizio della discussione della riforma Cartabia del Csm e dell’ordinamento giudiziario ormai congelata a Palazzo Chigi da prima di Natale? Il Csm è profondamente delegittimato e quindi è chiaro che sarebbe urgente la riforma. Tuttavia ci sono due grossi problemi, di merito e di metodo. Rispetto al primo, dalle bozze governative di riforma circolate fino ad ora, dobbiamo purtroppo ravvisare che siamo lontani anni luce dalla drastica, radicale, rivoluzionante riforma della quale ha bisogno la magistratura stessa, e l’intero Paese. Vanno affrontati con fermezza i nodi cruciali della questione: non solo smantellamento della automaticità delle carriere ma anche divieto di distacco dei magistrati nell’esecutivo, in nome di una rigorosa separazione dei poteri e la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, per garantire ai cittadini la terzietà del giudice pretesa dalla Costituzione. Sulla questione di metodo, denunciamo che la riforma è stata concepita a quattr’occhi con l’Associazione nazionale magistrati: mortificare la riforma ordinamentale, come oggi sta accadendo e come denunciamo da mesi, alla stregua di una trattativa bilaterale e parasindacale con la Magistratura associata costituisce una scelta rovinosamente sbagliata, mentre noi penalisti non siamo mai stati sentiti. Lei condivide i timori di alcuni parlamentari come Zanettin e Costa per i quali andando di questo passo non si avrà il tempo per esercitare le deleghe sulla riforma dell’ordinamento giudiziario? Assolutamente sì. Questo ritardo giova solo all’Anm che punta a mantenere lo status quo. Nell’ampio contesto della vicenda Amara/Loggia Ungheria, i magistrati di Brescia avrebbero voluto conoscere alcuni scambi di messaggi che forse ci sono stati tra il procuratore di Milano Greco e il Procuratore generale della Cassazione Salvi. Ma entrambi avrebbero smarrito i cellulari. Come legge questa circostanza? Nella nota della nostra Giunta sugli accadimenti oggetto di questa intervista abbiamo voluto indicare anche questo episodio come uno dei tanti elementi sintomatici della profonda e grave crisi di credibilità che sta investendo la magistratura. Se la stessa obiezione, ossia i cellulari sono stati smarriti, fosse stata mossa da qualsiasi altra persona coinvolta in una indagine avrebbe provocato delle severe e rigide reazioni da parte degli inquirenti. E invece su quanto successo, tranne per qualche eccezione, è calato il silenzio. L’Anm apre il processo per le chat di Palamara. Cosa si aspetta? Se sarà un processo sommario come è stato quello per Palamara è inutile farlo. Giancarlo Pittelli ha inviato al nostro direttore un telegramma dal carcere in cui scrive: “Caro Piero, porterò lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze contro una ingiustizia mostruosa. Grazie di tutto”... Senza entrare nel merito delle responsabilità, riteniamo mostruoso e indegno per un Paese civile che gli siano stati revocati i domiciliari solo per aver scritto ad un Ministro per denunciare lo stato di sofferenza della sua detenzione. Mi auguro che l’avvocato Pittelli non si faccia prendere dalla disperazione, anche se non è difficile immaginare che ci siano più ragioni affinché questo purtroppo accada, nell’attesa dell’esito del ricorso per Cassazione che i suoi legali avranno sicuramente presentato. Giustizia, gogna mediatica e censura di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 18 gennaio 2022 La scelta di “ingessare” la comunicazione intende responsabilizzare al massimo il Procuratore, ma ha anche l’obiettivo - inespresso, ma evidente - di ridurre il flusso di notizie. La norma sulla tutela della presunzione di innocenza, in vigore dal 14 dicembre, ha un indubbio valore culturale ed etico poiché vieta alle autorità - magistrati e forze di polizia in primo luogo - di indicare pubblicamente una persona come colpevole fino a quando non sia stata pronunciata una sentenza definitiva. Alla stessa norma, però, sfuggono diversi aspetti e soprattutto le cause di quella che viene comunemente definita la “gogna del processo mediatico”. Alcuni sostenitori della nuova legge sembrano credere che il problema da risolvere sia di fatto uno solo: arginare la volontà dei Pm e di parte della stampa di indicare come colpevole l’indagato o l’imputato per dare visibilità al loro operato. Un fenomeno deteriore, certo, che talora si verifica e che va condannato; di più, va fatto ogni sforzo, come già avviene in molti uffici giudiziari, per evitare che si ripeta. Con altrettanta severità, sono da condannare eccessi, esibizioni, giudizi morali fuori luogo. Non va tuttavia dimenticato che la scelta delle notizie da diffondere e il rilievo da dare ad ognuna ricadono nella responsabilità esclusiva degli operatori dell’informazione che agiscono in base alla loro professionalità, al loro orientamento (ideologico, politico, culturale) e agli interessi rappresentati dalla testata di appartenenza. Peraltro, è bene ribadirlo, vengono utilizzati, salvo casi rarissimi, atti non più secretati. Appartiene alla valutazione giornalistica e non certo a pressioni dei Pm, per esempio, la scelta di dare a un dibattimento e a una sentenza visibilità molto inferiore rispetto alle prime fasi di indagine. Come sono scelti da giornalisti, direttori ed editori, i temi dei talk show e le “ricostruzioni” televisive di casi giudiziari, esempi eclatanti di “processo mediatico”, cui restano estranei i magistrati. Sono poi frequenti i casi in cui a certi reati (come quelli in ambito familiare, i femminicidi) segue la diffusione di notizie più che dettagliate, senza che nessuno lamenti la violazione del principio della presunzione di innocenza. La nuova normativa impone che Procure (e forze di polizia) possano diffondere solo comunicati ufficiali e convocare conferenze stampa, con atto motivato, “solo nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti”. Come già rilevato, tra gli altri, da Vladimiro Zagrebelsky, “si tratta di una norma irragionevole nella sua assolutezza e nella pretesa di limitare le forme di comunicazione; peraltro essa va oltre la necessità di tutelare la presunzione di innocenza, limitando l’informazione sui procedimenti penali indipendentemente dal fatto che venga in gioco la posizione degli indagati”. Questa scelta di “ingessare” la comunicazione intende responsabilizzare al massimo il Procuratore, ma ha anche l’obiettivo - inespresso, ma evidente - di ridurre il flusso di notizie, come se il fatto che divenga nota, anche con le modalità più corrette, l’esistenza di un’indagine non più segreta o l’adozione di un provvedimento cautelare fosse già di per sé una “gogna mediatica”. Io credo che, contrariamente a quanto finora sostenuto da alcuni, questa normativa riconosca il diritto-dovere delle Procure di informare i cittadini sugli aspetti più rilevanti della loro attività. È un riconoscimento importante. E si tratta anche di un dovere perché, come sottolineato anche da autorevoli studiosi, in democrazia vige il principio del controllo dell’opinione pubblica sull’attività delle autorità pubbliche e quindi anche della magistratura. Il legislatore ha lasciato al Procuratore il compito di definire il limite di questo diritto-dovere, e quindi di selezionare le notizie da diffondere, mediante la specificazione delle “ragioni di pubblico interesse”. Un criterio oggettivamente vago, che finisce per attribuirgli la facoltà, e addossargli il rischio, di esercitare - sia pure in buona fede - una forma di censura. Ma soprattutto una valutazione che, come già si è visto, è del tutto soggettiva e spetta agli operatori dell’informazione nell’esercizio della libertà di stampa. Con l’ulteriore effetto, certamente non voluto ma perverso, di spingere alla creazione di canali occulti, cioè fuori da ogni responsabilità e da ogni controllo, tra giornalisti, magistrati, esponenti della polizia giudiziaria. Così, anziché affrontare i molteplici aspetti del complesso rapporto tra giustizia e informazione, la legge si concentra sulla narrazione distorta e semplificatrice della presunta volontà manipolatoria dei Pm. E trascura il fatto che nessuna riforma può sostituirsi alla responsabilità del magistrato, dell’operatore di polizia, dell’avvocato, del giornalista nel produrre un’informazione completa e rigorosamente ispirata al rispetto della funzione e dei diritti dei cittadini. Un’ultima considerazione: per quanto sobria e corretta possa essere la comunicazione di un Procuratore, quando indagini e processi investono interessi ed equilibri politici, economici, finanziari, o anche le ramificazioni della grande criminalità, sono inevitabili polemiche incandescenti e persino contrasti politico-istituzionali. Accade in tutti i Paesi del mondo, ma l’Italia porta da decenni i segni di questo genere di battaglie. Giustizia riparativa, Carla Garlatti incontra il presidente del Forum europeo garanteinfanzia.org, 18 gennaio 2022 Il confronto si è svolto online, nell’ambito del progetto di Agia con il Ministero della Giustizia e l’Istituto degli Innocenti. Lo scorso 12 gennaio l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Carla Garlatti ha incontrato il presidente del Forum europeo per la giustizia riparativa (Efrj), Tim Chapman nell’ambito, delle attività legate alla ricerca che l’Agia sta svolgendo, in tema di giustizia riparativa nel sistema penale minorile, in collaborazione con il Ministero della giustizia e con l’Istituto degli Innocenti. “Si è trattato di un incontro proficuo e interessante - commenta l’Autorità garante Carla Garlatti - nel corso del quale ci è stata offerta una panoramica europea sulla restorative justice in ambito penale minorile”. L’occasione è stata utile per condividere alcune riflessioni di sistema, in particolare ragionando sull’impatto e sui benefici che derivano dalla partecipazione a un programma di giustizia riparativa per le vittime e per gli autori di reato minorenni. “Chapman - prosegue Garlatti - ci ha confermato che a livello europeo, fatta eccezione per i paesi anglosassoni, mancano ricerche sugli effetti della giustizia riparativa. Allo stesso modo non risultano studi che ci dicano, con gli occhi di chi vi ha preso parte, quali effetti produca - sia per gli autori che per le vittime - fare questo tipo di esperienza. L’intento della nostra ricerca è proprio quello di colmare questo vuoto, in un momento in cui si sta investendo molto in questa direzione, per dar voce ai protagonisti diretti di queste esperienze”. Proseguono, intanto, le attività legate al progetto. Domani tornerà a riunirsi la cabina di regia, composta da rappresentanti dell’Autorità garante, del Ministero della giustizia e dell’Istituto degli innocenti, insediatasi il 10 dicembre scorso. A febbraio, invece, è prevista una sessione di lavoro del Comitato scientifico, costituito dal criminologo Adolfo Ceretti, dalla mediatrice penale e già dirigente dell’amministrazione penitenziaria Maria Pia Giuffrida e dal professore di filosofia morale Giovanni Grandi. La giustizia è in crisi, ma i suoi protagonisti sono “quirinabili” di Giulia Merlo Il Domani, 18 gennaio 2022 Dal ministero al Consiglio superiore della magistratura fino al Consiglio di stato, i tanti conflitti aperti in un sistema che traballa non impediscono di cercare da quelle parti nomi per il Colle- Il settore che produce più riserve della Repubblica oggi considerate “quirinabili” è quello della giustizia. Dal giudice costituzionale Giuliano Amato all’ex ministra della Giustzia, Paola Severino, alla ministra in carica Marta Cartabia e al presidente del Consiglio di stato, Franco Frattini, passando per l’ex magistrato e presidente della Camera Luciano Violante e l’ex consigliera del Csm e presidente del Senato Elisabetta Casellati. Un controsenso, se si considera che a parole tutti i partiti definiscono il Quirinale come il luogo dell’imparzialità. Proprio la giustizia è l’ambito della cosa pubblica oggi unanimemente considerato più in crisi: di legittimità davanti ai cittadini dopo gli scandali che hanno investito il Consiglio superiore della magistratura, ma anche di trasparenza nella gestione delle nomine e di incapacità di riformare il sistema. L’ultimo scandalo riguarda la nomina del primo presidente della Corte di cassazione, Pietro Curzio e della presidente aggiunta, Margherita Cassano, entrambe annullate dal Consiglio di stato per carenza e contraddittorietà della motivazione, aprendo un conflitto tra organi di rilevanza costituzionale. Eppure, l’essere stati o l’essere al vertice delle istituzioni giudiziarie continua a essere un elemento di merito da spendere. Cartabia - Nella lista dei possibili candidati alla successione di Sergio Mattarella, la prima è certamente l’attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Candidata ufficiale di Azione di Carlo Calenda ma senza che lei abbia mai nemmeno fatto accenno di consenso, Cartabia è considerata una figura super partes visto il passato da prima presidente donna alla Corte costituzionale. Da guardasigilli, tuttavia, non è riuscita nell’impresa pur ardua di riformare proprio la magistratura. La riforma dell’ordinamento giudiziario è ferma da quasi un mese e gli emendamenti del ministero sono pronti ma non vengono depositati, nonostante la promessa di renderli pubblici prima di Natale. La prudenza di Cartabia, che pure ha il merito di aver approvato le riforme del civile e del penale, è stata letta come un modo per non creare ulteriori tensioni nella compagine della maggioranza, divisa sugli orientamenti della riforma. Ma anche come un escamotage per non creare divisioni sul suo nome, nell’ipotesi in cui possa finire nell’urna dell’assemblea in seduta comune. In ogni caso, ogni giorno di ritardo è responsabilità quantomeno per omissione, visti i mali che affliggono il settore. Frattini - Sul versante di centrodestra, il nome di Franco Frattini sta tornando sulla bocca dei molti che non considerano davvero praticabile l’elezione di Silvio Berlusconi. Frattini è appena stato nominato presidente del Consiglio di stato al posto del neogiudice della Corte costituzionale, Filippo Patroni Griffi. Una nomina, questa, che viene assegnata per anzianità e dunque era scontata nel meccanismo interno. Per questo nessuno la considera ostativa per l’ambizione al Quirinale. Anzi, la nomina al vertice di un organo di rilevanza costituzionale può anche essere considerata una ulteriore tacca di merito. Eppure proprio il Consiglio di stato è oggi al centro di un durissimo scontro istituzionale con il Csm, di cui ha annullato ben tre nomine nell’ultimo anno e mezzo, decapitando prima la procura di Roma e poi la Cassazione. Il conflitto sta alimentando la crisi di credibilità all’interno della magistratura, ma pone anche il massimo giudice amministrativo davanti all’interrogativo di un suo eccesso di potere decisionale ben oltre la sua sfera di legittimità. In questo contesto, Frattini è un presidente che rappresenta il rapporto complicato tra magistratura (anche amministrativa) e politica: entrato per concorso come consigliere di Stato a 28 anni, ne ha tuttavia passati circa venti fuori ruolo per mandato politico come parlamentare di Forza Italia, poi come ministro e poi come commissario europeo alla Giustizia. Però, secondo le regole del CdS, l’anzianità si calcola dall’anno di ingresso a palazzo Spada e non si interrompe con la collocazione fuori ruolo. Casellati - Altro nome papabile rimane quello della presidente del Senato in quota Forza Italia, Elisabetta Casellati, che è stata anche sottosegretaria alla Giustizia del governo Berlusconi e membro laico del Csm. Proprio questo incarico, che ha ricoperto dal 2014 al 2018 nel pieno periodo del cosiddetto “sistema Palamara” di gestione delle nomine, ha fatto finire il suo nome nell’inchiesta a carico dell’ex magistrato Luca Palamara. Anche lei, infatti, è finita nelle chat poi rese pubbliche in cui si discuteva di nomine ai vertici degli uffici giudiziari ed è nell’elenco testi presentato da Palamara in vista del processo per corruzione a Perugia. Intanto, c’è grande attesa per l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, il prossimo 21 gennaio. Sarà tra gli ultimi eventi pubblici a cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella parteciperà ed è segnato dalla probabile assenza proprio di Curzio. L’ennesimo segno tangibile della crisi della giustizia, a tre giorni dall’apertura dell’urna quirinalizia a Montecitorio. Cassazione, il Csm non ci sta: rielegge il presidente “illegittimo” di Simona Musco Il Dubbio, 18 gennaio 2022 Palazzo dei Marescialli risponde alle toghe amministrative che venerdì hanno annullato le nomine di Curzio e Cassano. Voto fotocopia in commissione, mercoledì il sì del plenum. Palazzo dei Marescialli non ci sta e ripropone i nomi di Pietro Curzio e Margherita Cassano ai vertici della Cassazione. La decisione è arrivata ieri, dopo un lungo faccia a faccia tra i membri della V Commissione, chiamati a sbrogliare la matassa che si sono ritrovati tra le mani a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario al Palazzaccio. Un’inaugurazione light, a causa delle restrizioni dovute al covid, ma sulla quale pesa come un macigno la doppia pronuncia del Consiglio di Stato, che venerdì ha dichiarato illegittime le nomine del primo presidente e dell’aggiunta accogliendo il ricorso di Angelo Spirito, presidente di sezione della Cassazione. Il confronto tra i membri della Direttivi è durato ore e a fine serata si è giunti al verdetto: al plenum di mercoledì i membri di Palazzo dei Marescialli si ritroveranno davanti gli stessi candidati già bocciati da Palazzo Spada, ma con motivazioni “rinforzate”, grazie all’impegno dei magistrati segretari che hanno lavorato per colmare le lacune evidenziate dalla sentenza dei giudici amministrativi. Il Consiglio di Stato, venerdì scorso, ha infatti pesantemente criticato la comparazione effettuata dal Csm, definendo “palese la (consistente) maggiore esperienza del dottor Spirito” e tacciando la motivazione posta dal Consiglio a fondamento della scelta come “gravemente lacunosa e irragionevole”. Quella della V Commissione è stata una corsa contro il tempo per una vicenda che, invece, di tempo ne avrebbe richiesto. Ad evidenziarlo sono stati i due astenuti - il togato Sebastiano Ardita e il consigliere di Unicost Michele Ciambellini - ma anche coloro che hanno optato per l’accelerazione dei tempi non hanno negato la difficoltà ad affrontare una questione così delicata in un tempo così risicato e la stranezza della tempistica, con la sentenza giunta proprio a ridosso della cerimonia di venerdì. Ma alla fine, proprio per garantire lo svolgimento di tale appuntamento, l’ultimo alla presenza di Sergio Mattarella, è prevalso il sì alla proposta, votata dal presidente Antonio D’Amato, dai laici Fulvio Gigliotti (M5S) e Alessio Lanzi (Forza Italia) e dalla togata Alessandra Dal Moro (Area). Oggi dovrebbe arrivare il concerto della ministra della Giustizia, in modo da poter portare la questione al plenum di mercoledì, la cui decisione difficilmente si discosterà da quella della Direttivi. E ancora una volta, il dibattito non potrà che concentrarsi sulla giù lamentata invasione di campo da parte della giustizia amministrativa nelle prerogative del Csm, più volte delegittimato proprio da Tar e Consiglio di Stato, con i quali si era instaurata una discussione a distanza. Il tema era già stato dibattuto a seguito della vicenda che aveva interessato Michele Prestipino, ex procuratore di Roma destituito da Tar, Consiglio di Stato e infine Cassazione. Un dibattito inquinato dai veleni del caso Palamara a causa dell’esclusione di Marcello Viola a seguito della cena all’Hotel Champagne nella quale era stato (incolpevolmente) tirato in ballo e che ha fornito l’assist a chi, a Palazzo dei Marescialli, ha visto la discrezionalità del Consiglio minata dai giudici amministrativi. Quella vicenda, come noto, si è conclusa con il passo indietro del Csm, che ha messo da parte il curriculum di Prestipino e eletto a larga maggioranza Francesco Lo Voi, ieri insediatosi a Piazzale Clodio. Ma la decisione di costituirsi a fianco di Prestipino ha reso palese il fastidio provato da parte del plenum, come sostenuto da Giuseppe Marra (Autonomia & Indipendenza), secondo cui “il Consiglio di Stato non può intervenire nel sindacare i criteri utilizzati dal Consiglio per le nomine in maniera così stringente, così puntuale e così soffocante”. Insomma, una limitazione della discrezionalità del Csm mal digerita da molti, in netta contrapposizione al parere espresso all’epoca da Ardita, secondo cui proprio una “regolamentazione” sarebbe la strada da seguire per evitare le degenerazioni del passato. Nel caso di Prestipino, era stata la Cassazione a chiudere il dibattito, evidenziando come “il Consiglio di Stato si sia limitato a ricostruire l’iter di nomina alla luce delle norme che regolano il conferimento degli incarichi direttivi e del regolamento interno allo stesso Csm”. Dal canto suo, il legale di Spirito, Franco Gaetano Scoca, ha chiesto al Consiglio superiore della magistratura di rispettare “le decisioni giurisdizionali” del “supremo organo giurisdizionale amministrativo”. Per il legale, infatti, si tratta “di pronunce che motivano, con estrema chiarezza, la violazione delle stesse regole di designazione dei dirigenti che lo stesso Consiglio superiore della magistratura si era dato”. E di fronte all’annunciata intenzione di riproporre Curzio e Cassano, il legale ha evidenziato, data la brevità del tempo di riflessione, il rischio “di essere in possibile elusione di sentenze esecutive del Consiglio di Stato e, cioè, del supremo Organo giurisdizionale amministrativo. In uno Stato di diritto, è fondamentale il rispetto delle decisioni giurisdizionali, soprattutto da parte di un’alta amministrazione come il Csm, composta di magistrati e giuristi. Si auspica che i membri del Consiglio superiore della magistratura - conclude - seguano l’autorevole esempio del Presidente della Repubblica, da sempre custode e interprete attento della identità costituzionale del Csm e garante del rispetto delle istituzioni”. Il Csm rimette in sella i vertici della Cassazione: “Nomine legittime” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 18 gennaio 2022 La risposta al Consiglio di Stato: riconfermati (con due astensioni) Curzio e la sua vice Cassano. Salva l’apertura dell’anno giudiziario. Lo “schiaffo” è stato sanato in un batter d’occhio. Per ora. Se non era mai accaduto che i vertici della Cassazione venissero azzerati d’un colpo dal Consiglio di Stato, col verdetto che venerdì scorso ribaltava la scelta del Consiglio superiore della magistratura, del pari non era mai successo - anche per nomine di simile prestigio - che la risposta di Palazzo dei Marescialli arrivasse nel giro di 72 ore, weekend compreso. Una reazione che si è consumata oggi: con un voto che resterà nella storia del Csm. La quinta commissione ha infatti riconfermato, con “corrette” motivazioni, il primo presidente della Suprema corte Pietro Curzio e la presidente aggiunta Margherita Cassano. Proposta approvata con 4 voti a favore, 2 astenuti, non poche tensioni. Giovedì l’esame finale al plenum: dove, stando ai numeri, la riconferma dovrebbe passare appena in tempo per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario dinanzi al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Nominati il 15 luglio 2020, Curzio e Cassano erano stati “bocciati” dal Cds con la sentenza che dava ragione ad Angelo Spirito, alto magistrato della Cassazione anche lui, determinato a far pesare “più titoli”, relativi ad altre funzioni e più anzianità di servizio. Ma il Cds rimproverava soprattutto al Csm un difetto di motivazione. E proprio su questo varco ha puntato il Csm: “ripristinando” le due nomine. Il verdetto dei giudici amministrativi pesava come uno “sgarbo” del Cds non solo nei riguardi del Csm, ma anche del suo presidente Sergio Mattarella. Che, venerdì, sarà in pazza Cavour ad ascoltare da Curzio la relazione sullo stato della giustizia. Il Capo dello Stato potrebbe partecipare al plenum così come aveva partecipato alla nomina di Curzio. Anche questa coincidenza ha spinto il Csm a confermare le due nomine. Ma con dei distinguo. Votano per il sì: il presidente di Magistratura indipendente Antonio D’Amato; i consiglieri Alessandra Dal Moro della sinistra di Area; Fulvio Gigliotti, laico indicato da M5S e il laico di Fi Alessio Lanzi. Proprio da quest’ultimo, che alla fine vira sul sì, arriva la perplessità sui tempi-lampo. È un unicum. La riconferma gioca tuttavia sulle contestazioni del Cds: che mette all’indice le motivazioni insufficienti per i due candidati. Ma su questo - spiega chi ha votato a favore - “c’è stato un grande lavoro degli uffici del Csm che hanno dettagliatamente ricostruito le carriere” e risposto con passaggi stringenti alle critiche del Cds. Restano le astensioni annunciate di Michele Ciambellini, napoletano di Unicost, e di Sebastiano Ardita, ex procuratore aggiunto a Catania (al Csm fa coppia fissa con il pm di Palermo Nino Di Matteo). Sembra che Ciambellini abbia battagliato molto, esprimendo perplessità nel merito e nel metodo. Ci diranno che abbiamo eluso la decisione del Cds, è il suo richiamo: la toppa di una rinomina rischia di provocare un ulteriore contenzioso. Poi, con Ardita, lancia questa preoccupazione: se abbiamo fatto in un pomeriggio quello che normalmente richiede dei mesi, quale idea si fa il cittadino? D’ora in poi per una nomina “ordinaria” dovremo impiegare dieci minuti? Dubbi ai quali Eugenio Albamonte, il segretario di Area e pm a Roma, già replicava in un’intervista a repubblica.it: “Legittimo e assolutamente opportuno che il Csm abbia rinnovato con tempestività le due nomine. Chi sostiene cose diverse vuole demolire il ruolo del Consiglio e avallare un trasferimento dei suoi poteri in capo al Cds. La decisione avrebbe meritato una condivisione unanime senza distinzioni speciose”. La riforma del Csm aumenta il potere del Consiglio di Stato di Giulia Merlo Il Domani, 18 gennaio 2022 È in corso uno scontro tra Consiglio di Stato e Csm sulla sindacabilità del giudizio nelle nomine dei magistrati. Il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario, irrigidendo ancora le regole, aumenterà il rischio ricorsi. Di fatto il Consiglio di Stato, sentenza dopo sentenza, ha costruito una giurisprudenza che gli assegna precisi margini di sindacabilità su una prerogativa costituzionale del Csm sulle nomine, che i più intransigenti difensori dell’autonomia della magistratura considerano invece insindacabile. La riforma prevede la codificazione dei criteri sulla base dei quali effettuare le nomine, raccogliendo le circolari del Csm. Proprio questa codificazione produrrà un irrigidimento dei criteri, a quel punto immutabili, se non attraverso un nuovo atto legislativo del parlamento. La crisi del Consiglio superiore della magistratura ha assunto molte forme, l’ultima è quella della sconfessione delle nomine più importanti. Il Consiglio di Stato, infatti, ha ribaltato il giudizio del Tar Lazio e accolto il ricorso del magistrato Angelo Spirito, annullando le delibere del Csm del 2020 con cui indicava Pietro Curzio primo presidente della Cassazione (e membro di diritto del Csm) e Margherita Cassano presidente aggiunta. Queste decisioni, che seguono l’annullamento della nomina a procuratore di Roma di Michele Prestipino, pur se prese in una camera di consiglio del 25 novembre 2021 sono state depositate dai magistrati di palazzo Spada appena sette giorni prima dell’evento istituzionale più importante: l’apertura dell’anno giudiziario di Cassazione. Verosimilmente Curzio non potrà prendere la parola, anche se è fissato un plenum del Csm che potrebbe rinominare sia lui che Cassano con una aggiunta di motivazione, in modo da superare i vizi indicati dalle sentenze amministrative. Dal punto di vista della crisi del sistema giustizia, però, si aggiunge un nuovo allarmante capitolo. Allo scontro (ormai datato) tra magistratura e politica si aggiunge in cortocircuito interno tra magistrature in merito alle nomine negli uffici direttivi. Il contesto vede il Csm, organo costituzionale, che ha il potere di decidere con criteri discrezionali le nomine. L’atto, però, è di tipo amministrativo e dunque ricorribile - per il candidato che non sia stato nominato - davanti al Tar e poi al Consiglio di Stato. L’interrogativo riguarda il tipo di sindacato che i giudici amministrativi possono esercitare: in altre parole, quali sono i limiti alla discrezionalità del Csm. Il Consiglio di Stato fissa i parametri: irragionevolezza, omissione o il travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione. Paradossalmente, a fornire la leva al Consiglio di Stato è stato lo stesso Csm, autolimitandosi con il Testo unico sulla dirigenza giudiziaria: non un atto avente forza di legge ma una circolare interna del 2015 che fissa i parametri di nomina. Proprio questo ha prodotto lo scontro a valle: tutti gli scontenti delle decisioni del Csm hanno così strumento per ricorrere contro il giudizio discrezionale dell’organo di governo autonomo. Negli ultimi anni, anche a fronte dello scandalo Palamara sulle nomine pilotate, proprio l’accoglimento di alcuni di questi ricorsi ha generato una ulteriore delegittimazione del Csm, considerato ostaggio di meccanismi correntizi. Di fatto però il Consiglio di Stato, sentenza dopo sentenza, ha costruito una giurisprudenza che gli assegna precisi margini di sindacabilità su una prerogativa costituzionale del Csm, quella delle nomine, che i più intransigenti difensori dell’autonomia della magistratura considerano invece insindacabile. La riforma - Nello scontro tra Consiglio di Stato e Csm si inserisce un nuovo giocatore che è la politica. Il ministero della Giustizia, infatti, presenterà a breve l’emendamento che completerà il ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. La massima attenzione ha riguardato la riforma del sistema elettorale del Csm, ma la riforma contiene anche altro: la codificazione dei criteri sulla base dei quali effettuare le nomine, raccogliendo le circolari del Csm. Proprio questa codificazione - come è stato fatto notare in un acceso dibattito proprio nel plenum del Csm - produrrà un effetto: l’irrigidimento dei criteri, che non saranno più autoassegnati dal Csm nell’esercizio delle sue prerogative di discrezionalità e mutabili nel tempo con nuove circolari interne, ma fissati per legge. In questo modo, l’autonomia del Consiglio nella valutazione delle nomine sarà ridotta da una serie di parametri prefissati per decreto e a quel punto immutabili, se non attraverso un nuovo atto legislativo del parlamento. Una scelta di questo tipo da parte del ministero risponde a una ragione: dal momento che la storia recente ha mostrato un metodo di nomina che rispondeva a parametri di affiliazione correntizia, fissare dei criteri rigidi fa parte della cura per mettere fine al correntismo. Il risultato, però, rischia di essere un altro: sottoporre nei fatti il futuro Consiglio al sindacato del giudice amministrativo, che a quel punto avrà non più solo circolari, ma atti di legge su cui basare il suo sindacato. In questo modo, però, la politica fa una scelta di campo precisa in favore del Consiglio di Stato e riduce per via di legge ordinaria una prerogativa costituzionale del Csm: l’autonomia, l’indipendenza e la discrezionalità nelle scelte interne all’ordine giudiziario. Così i magistrati ordinari saranno sottoposti, nei parametri di nomina, a una legge ordinaria; nel sindacato sulla nomina, invece, al giudizio dei magistrati amministrativi che non sono sottoposti al Csm. Difficile, a queste condizioni, che poi si possa continuare ad auspicare l’autoriforma di un Csm a cui viene messa la camicia di forza. Così legislatore e Consiglio di Stato snaturano il Csm di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 18 gennaio 2022 Il peso delle due sentenze con cui il Consiglio di Stato ha annullato le nomine del primo presidente e della presidente aggiunta della Corte di Cassazione, non aveva bisogno di essere sottolineato con il colpo di teatro della loro pubblicazione a pochi giorni dalla cerimonia solenne di inaugurazione dell’anno giudiziario della Cassazione, alla presenza del Capo dello Stato. Ma a parte il sovraccarico simbolico che discende dalla sorprendente tempistica, la questione che si pone non è di oggi ed è molto delicata. Si tratta dei rapporti e delle competenze di organi di vertice nella architettura dello Stato. In questi casi la prudenza e il ritegno da parte di tutti conta più dell’esito di astratte considerazioni giuridiche, la cui naturale e opportuna elasticità lascia appunto spazio alla prudenza. Purtroppo sono anche possibili le prove di forza, incompatibili con le esigenze di armonico funzionamento delle istituzioni. La Costituzione stabilisce che spettano al Csm, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati. L’importanza dei vari provvedimenti è diversa. Le nomine a incarichi direttivi non sono le uniche di rilievo. Si tratta di delibere di un organo di rilevanza costituzionale, la cui composizione rivela la natura delle competenze. Nel senso che non avrebbe ragion d’essere un tale organo se le sue decisioni non fossero di marcata natura discrezionale. Certo la discrezionalità trova il limite nella legge, ma essa riguarda il governo complessivo di elementi di valutazione non rigidi e meccanici; ciò tanto più quando l’indicazione che discende dai vari criteri non è univoca ed è necessaria una sintesi complessiva. Una sintesi la cui opinabilità si espone alla critica, non secondo il criterio del giusto/sbagliato, ma piuttosto dell’opportuno e persuasivo. Proprio per questa natura della maggior parte degli atti del Csm la Costituzione ne stabilisce una composizione straordinariamente articolata: con la presidenza del Capo dello Stato, due terzi dei membri sono eletti da tutti i magistrati ordinari e un terzo è eletto dal Parlamento. Gli atti del Consiglio superiore della magistratura (eccetto le sue sentenze disciplinari) sono atti amministrativi. Come tali essi sono impugnabili davanti al giudice: Tribunale amministrativo e, in appello, Consiglio di Stato. Si tratta di principio costituzionale fondamentale a protezione degli interessi di chi si ritiene leso dalle delibere del Csm. Ma il giudice amministrativo non può sostituire la sua valutazione discrezionale a quella del Csm. La competenza nelle nomine, infatti, spetta al Csm, non al giudice, che ne controlla la conformità rispetto alla legge. In linea di principio sono chiari i confini entro i quali agiscono prima il Csm e poi il giudice che conosce dei ricorsi. In pratica vi sono vizi possibili degli atti amministrativi che assegnano al giudice rilevanti momenti valutativi. Si tratta prima di tutto del controllo della motivazione delle delibere. Da tempo il Consiglio di Stato tende a estendere il proprio controllo sulla motivazione delle nomine del Csm: afferma certo che le nomine spettano al Csm, ma poi smantella uno ad uno i motivi che il Csm ha esposto a sostegno della nomina deliberata. Nel campo proprio delle nomine agli incarichi direttivi degli uffici giudiziari capita che i criteri di scelta tra i vari candidati concorrenti (attitudine e merito) si applichino a magistrati che è difficile distinguere. Ma simili attitudine e merito possono ben accompagnarsi alla previsione di un diverso modo di esercitare le funzioni giudiziarie; è ovvio quando si parla della direzione e organizzazione degli uffici, ma vale anche quando si considera l’orientamento di ciascuno nel vasto campo della interpretazione e applicazione delle leggi. Eppure, di questi elementi di merito non si parla e anzi si vorrebbe nasconderli. Sono però rilevanti - naturalmente rilevanti - nel Csm, nell’apprezzamento dei diversi consiglieri, dei gruppi associativi che hanno espresso le liste elettorali (per i magistrati) o dell’origine politica (per i membri “laici”). Si tratta di una realtà che si vuol negare, isterilendo il ruolo di un organo come il Csm, con regole e regolette che lo stesso Consiglio si è dato, nel dichiarato intento di garantire trasparenza. In realtà si tratta di griglie astratte che invitano il giudice amministrativo a trovar difetti nelle motivazioni dei provvedimenti. Nella stessa direzione vorrebbe andare il legislatore, snaturando il ruolo del Csm. Non c’è da stupirsi che a ciò si aggiunga ora l’idea di designare per sorteggio i magistrati componenti del Consiglio. Orrore per il valore della rappresentanza e rifiuto del pluralismo degli orientamenti, idolatria della pretesa oggettività. Musolino (Md). “Quella sentenza è arrivata a ridosso dell’inaugurazione Davvero è un caso?” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 gennaio 2022 Il dottor Pietro Curzio, la cui nomina a primo presidente della Cassazione è stata annullata venerdì dal Consiglio di Stato, è membro di spicco di Magistratura democratica. Di quanto accaduto parliamo proprio con il segretario di Md, il dottor Stefano Musolino. Qual è la sua chiave di lettura di quanto successo? Credo che alla base vi sia una grave crisi di fiducia nei confronti di questo Csm da parte dei magistrati, che si riflette in una sua crisi di autorevolezza anche esterna. Questo Consiglio aveva un compito molto difficile, essendo anche stato percorso dalla stagione degli scandali: provare a recuperare credibilità, per uscire dalla crisi che ha investito la magistratura; la sua azione si è, invece, rivelata debole, essendo prevalso uno spirito burocratico, rispetto all’assunzione della responsabilità discrezionale. Paradossalmente, nelle maglie delle regole limitative della discrezionalità che il Csm si è imposto, il Consiglio di Stato ha trovato spazi di intervenuto, ai limiti di quelli che sono i suoi poteri di controllo sulla qualità motivazionale delle decisioni. Qual è il rischio? Di alterare quello che è il sistema previsto dall’articolo 105 della Costituzione secondo il quale la valutazione per l’assegnazione degli incarichi apicali negli uffici è compito esclusivo del Csm, che lo esercita in una sfera di ampia discrezionalità, facendo una comparazione tra i profili dei candidati che non premi semplicemente il migliore, ma la persona più adatta a svolgere quell’incarico in quel particolare momento. Insomma, il Csm ha il compito di “fare” politica giudiziaria, e a questo non può supplire il Consiglio di Stato, pena una perdita di indipendenza della magistratura e, con questa, la lesione del principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il presidente dell’Unione Camere penali Caiazza sostiene che la soluzione è rivedere il sistema di valutazione di professionalità, che appiattisce i curricula dei magistrati. Mentre Violante, a partire dal ricorso di Prestipino, ha rilanciato l’idea di un’Alta Corte... L’avvocato Caiazza si concentra sul momento in cui vengono formati i fascicoli personali dei magistrati per le valutazioni di professionalità. Da tempo c’è un dibattito sulla necessità di riempire questi fascicoli con più contenuti di fatto e meno aggettivi, e noi siamo molto aperti al confronto sul punto. Tuttavia, nel caso di specie, mi pare più puntuale la critica mossa a suo tempo da Violante, che oggi trova maggiori argomenti. Effettivamente, se il Consiglio di Stato non ritorna ad un self-restraint sul sindacato di merito in ordine alla nomina degli uffici dirigenti, occorrerà intervenire, non essendo tollerabile espropriare il Csm delle proprie prerogative costituzionali. Il Csm sta trovando un modo per riconfermare Curzio e Cassano: prospettiva condivisibile secondo lei o che indebolisce ulteriormente l’immagine della magistratura, che sembrerebbe così non rispettare le sentenze che la riguardano? Se dovessimo parlare di opportunità la invito a verificare quando è stata emessa la sentenza rispetto a quando è stata resa pubblica. Si riferisce al fatto che la sentenza è di qualche mese fa ma è stata resa nota solo a una settimana dall’inaugurazione dell’anno giudiziario? Esatto. La decisione del Consiglio di Stato è intervenuta in maniera penetrante sulla nomina di due magistrati di straordinaria qualità professionale. Quindi che ci sia la necessità di ripristinare, con urgenza, l’autorevolezza della magistratura alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, mi pare una sana e opportuna scelta del Csm. Si tratta, anzi, di una scelta che segna un recupero della sua autorevolezza costituzionale. Quanto accaduto non rende ancora più urgente l’inizio della discussione della riforma del Csm? Sembra che gli emendamenti della ministra Cartabia siano congelati a Palazzo Chigi... Già qualche tempo fa avevamo lanciato, insieme a tutta la magistratura associata, l’allarme in ordine all’estremo ritardo in cui ci troviamo. L’Anm ancora non ha ricevuto un testo ufficiale rispetto al quale avviare un concreto dibattito. Temo che le vicende legate all’elezione del presidente della Repubblica abbiano inciso su questa tempistica. Oltre alla riforma della legge elettorale del Csm, ci auguriamo che si sdrammatizzi il tema della carriera e del carrierismo: anche questo ruolo iperattivo del Consiglio di Stato è determinato probabilmente da un eccesso di impugnazioni che sono del tutto legittime, ma che in qualche maniera sono la spia delle distorsioni prodotte dalla riforma Berlusconi- Castelli. Noi magistrati ci distinguiamo solo per le funzioni: indossare la toga è sempre importante, a prescindere dal fatto che uno sia giudice monocratico in un piccolo tribunale o tenga il discorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Una legge che ci aiuti a recuperare questo spirito è quello che ci serve. Albamonte: “Legittima la conferma dei vertici della Cassazione da parte del Csm” di Liana Milella La Repubblica, 18 gennaio 2022 Parla il segretario della corrente di sinistra dei magistrati: “Quello che sta avvenendo è il trasferimento del luogo della decisione dal Consiglio superiore della magistratura al consiglio di stato. Indipendenza della magistratura a rischio”. Curzio e Cassano riconfermati ai vertici della Cassazione? “Una decisione perfettamente legittima, nonché opportuna”. Nessuna forzatura dunque? “Sicuramente no da parte del Csm, mentre lo stesso non si può dire per il Consiglio di Stato”. Vede un conflitto d’interesse per chi ha steso la sentenza? “Sicuramente è un inestetismo che si poteva evitare”. Sul tentativo di azzerare i vertici della magistratura parla con Repubblica Eugenio Albamonte, segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, nonché pm a Roma, ex presidente dell’Anm, ma anche per cinque magistrato segretario del Csm. Il Csm riconferma Curzio e Cassano. Ma in commissione in due si astengono, Ciambellini e Ardita. Mossa giusta o eccessiva? “È perfettamente legittimo e assolutamente opportuno che il Csm abbia messo mano con tempestività alla vicenda e abbia rinnovato la nomina dei due vertici della Cassazione. Chi sostiene cose diverse vuole solo demolire il ruolo del Consiglio e avallare un trasferimento dei suoi poteri in capo al Consiglio di Stato. Spiace che non tutti i consiglieri superiori abbiano sostenuto questa delibera che meritava invece una condivisione unanime senza distinzioni speciose”. Però una rinomina ad horas non c’era mai stata nella storia del Csm… “Neppure un simultaneo annullamento delle delibere di nomina dei due vertici della magistratura. E per giunta alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Qui accade che il Cds, anziché valutare volta per volta la legittimità della singola delibera, sta invece introducendo un meccanismo di carriera adatto forse alle gerarchie militari, ma non certo a organi giudiziari”. Lei vede un’interpretazione formalistica al punto che una nomina potrebbe essere decisa da un algoritmo? “Per noi magistrati ordinari, a differenza di quelli amministrativi, è stato abolito il criterio dell’anzianità cosiddetta “senza demerito”. Attraverso la sua giurisprudenza, invece, il Cds sta costruendo un percorso per cui bisogna passare necessariamente da un incarico più piccolo a uno più importante. E chi ha rivestito un ruolo superiore deve per forza prevalere nelle nomine rispetto a chi non l’ha avuto, a prescindere dal merito e dal modo in cui ha svolto l’incarico”. Lei parla, appunto, di un criterio formale e meccanico che di fatto cancella ogni possibilità di valutazione non solo della carriera, ma anche della personalità di chi chiede un incarico... “Ma c’è di più. Quello che sta avvenendo è il trasferimento del luogo della decisione dal Csm al Cds. E in questo vedo, in prospettiva, un pericolo per la stessa autonomia e indipendenza della magistratura”. Alla sua grave affermazione le risponderanno che solo in questo modo si battono il correntismo e le scelte clientelari... “Il Csm, nonostante le sue cadute, continua a garantire che le nomine siano indipendenti da condizionamenti esterni da parte di chicchessia. E quando questi sono emersi, come nel caso dell’hotel Champagne, la risposta è stata immediata, con dimissioni e processi disciplinari. Non si può dire altrettanto per le decisioni del Cds che vengono prese nel segreto di una camera di consiglio e che, andando avanti così, potrebbero ridisegnare l’intera geografia giudiziaria del nostro Paese”. Che fa? Non si fida dei consiglieri di Stato? “Quello che dicono sempre ai magistrati ordinari è che non solo bisogna essere, ma anche apparire imparziali. E che i rapporti troppo stretti con la politica rischiano di appannare l’immagine. La mia impressione oggi è che tutto il tema delle cosiddette porte girevoli venga declinato esclusivamente nei confronti dei giudici e dei pubblici ministeri, e non certo nei confronti di chi sta spingendo per sostituire il proprio ruolo a quello del Csm”. Sta dicendo che c’è un’anomalia di fondo nella figura del consigliere di Stato, che è anche di nomina politica, e che assai spesso ha ruoli di vertice nei governi e poi continua a fare il suo lavoro a palazzo Spada? “Purtroppo questo tema diventa ancor più delicato quando attraverso le decisioni sui ricorsi si arriva a disegnare la struttura stessa della giustizia civile e penale. E su questo tema dovrebbe intervenire la riforma del Csm”. Senta, il fatto che su Curzio e Cassano, abbia deciso anche un giudice che è stato esaminato e promosso dal ricorrente Angelo Spirito, la considera un’anomalia al punto da vederci un conflitto di interesse che invece il sindacato dei giudici amministrativi nega che ci sia? “Sicuramente si tratta di un inestetismo che poteva essere evitato, ma i problemi a cui possiamo andare incontro seguendo questa china sono ben più gravi e pericolosi”. Toghe allo sbando, ora più che mai serve il referendum di Astolfo di Amato Il Riformista, 18 gennaio 2022 La lettura della motivazione delle due decisioni consente di sintetizzare le ragioni dell’annullamento in una domanda: vi siete dati delle regole, perché non le rispettate? Ma anche la seduta plenaria del Csm mercoledì è pronta a far finta di nulla. Come è ormai noto, il Consiglio di Stato, con due sentenze pubblicate entrambe il 14 gennaio, ha annullato le delibere con cui il Csm aveva nominato il primo Presidente della Corte di Cassazione ed il Presidente aggiunto dello stesso organo. In particolare, il Consiglio di Stato ha rilevato la mancata adeguata considerazione dei titoli specifici dei candidati, pur riconoscendo l’ampio margine di discrezionalità spettante all’organo di autogoverno della magistratura. Quale la reazione delle toghe? Si può leggere sul sito “Giustizia Insieme”, che fa capo ad una delle correnti della magistratura associata. In particolare, sarebbe, alla stregua delle decisioni citate, “una clausola di stile il riconoscimento al Csm della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”, a dispetto del fatto che in presenza di situazioni di eccellenza il giudizio diventa inevitabilmente sottile e raffinato e veramente difficile da sindacare. E diventa altresì difficile comprendere quali sarebbero i margini entro i quali potrebbe muoversi la valutazione di merito, se tutto deve essere necessariamente predeterminato in maniera assolutamente vincolante”. Giudici, quindi, che criticano altri giudici. Ma la reazione è un po’ troppo semplicistica. La lettura della motivazione delle due decisioni consente di sintetizzare le ragioni dell’annullamento in una domanda: vi siete dati delle regole, perché non rispettate le vostre stesse regole? Per meglio comprendere di cosa si tratta, è utile accennare al Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria. Il Csm con delibera del 28 luglio 2015 ha approvato le norme alle quali si sarebbe attenuto, in futuro, per l’attribuzione degli incarichi direttivi e semi direttivi. Come si legge nella relazione di accompagnamento, con tale delibera si intendeva “provvedere alla riscrittura della circolare per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi nella prospettiva di garantire le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza delle decisioni consiliari”. Quale uso quel Csm abbia fatto di tali criteri di trasparenza e di certezza lo ha rivelato, con dovizia di particolari, lo scandalo Palamara. Ma il nuovo Csm? Quello che Mattarella non ha sciolto, nonostante diversi membri fossero stati costretti alle dimissioni perché impigliati nello scandalo Palamara? Quello che ha visto sostituiti i componenti dimissionari all’esito di una campagna elettorale combattuta al grido di “pulizia, pulizia!”, che ha determinato un ribaltamento della vecchia maggioranza? Secondo il Consiglio di Stato ha continuato a non rispettare le proprie regole. In particolare, osserva il Consiglio di Stato, la delibera adottata dal Csm il 28 luglio 2015 “pone criteri per un futuro e coerente esercizio della discrezionalità valutativa dell’organo di governo autonomo: sicché un successivo contrasto con le sue previsioni non concretizza una violazione di precetti, ma un discostamento da quei criteri che, per la pari ordinazione dell’atto e il carattere astratto del primo, va di volta in volta giustificato e seriamente motivato”. Tale seria motivazione è stata mancante, sempre secondo il Consiglio di Stato, perché nonostante il testo unico sulla dirigenza contempli il ricorso ad indicatori specifici di attitudine, connessi alle precedenti esperienze, le delibere non avrebbero dato conto dei motivi per i quali sarebbe stato scavalcato un altro candidato, cui erano riferibili indicatori specifici di maggiore rilievo. In questa omissione il Consiglio di Stato individua il rischio di “un uso indebito e distorto di quel potere valutativo, vale a dire ricorre un eventuale vizio di eccesso di potere”. Si tratta, inutile nasconderlo, di un giudizio particolarmente severo, che colpisce l’organo che ha a capo il Presidente della Repubblica. È una delle ipocrisie più fastidiose, sul piano istituzionale, quella degli organi che fanno finta di darsi delle regole, ma che poi sono i primi a non rispettarle. Di fronte ad una decisione del Consiglio di Stato di tale portata sarebbe stato lecito attendersi da parte dei componenti del Csm un momento di riflessione per ripensare la propria condotta. Ma così non è. La Commissione per gli incarichi direttivi si è già riunita di sabato, per deliberare la conferma della scelta del Primo Presidente e si annuncia per mercoledì una seduta plenaria del Csm per confermare definitivamente la nomina. Tempi da record assoluto, dunque, che rendono ancora più evidente la intollerabilità, per molte nomine, del passaggio di diversi mesi e, talora, di anni, che sono spesso necessari per portare a termine le negoziazioni tra correnti. Dunque, una vicenda di portata politico-istituzionale enorme, che avrebbe dovuto indurre ad una riflessione profonda sulla gestione del potere nell’ambito della magistratura, viene degradata a mero inciampo burocratico, che si può superare aggiungendo qualche altra parolina alla delibera, in modo da poter dire che vi è stata una motivazione adeguata. E le esigenze di trasparenza, comprensibilità e certezza, che erano alla base della formulazione del Testo Unico per la dirigenza giudiziaria? Sarà per un’altra volta! Tanto è un tipo di illegittimità a cui il Csm ha fatto l’abitudine. Certo è che, di fronte allo spettacolo offerto da quest’organo di rilievo costituzionale, diventa difficile comprendere le ragioni di chi si oppone ad una radicale riforma del sistema di nomina dei componenti del Csm e si limita a proporre modifiche di mera facciata. Diventa così evidente, anche sotto questo profilo, l’importanza dei referendum sulla giustizia. Solo un vasto movimento popolare favorevole ai quesiti referendari potrà incrinare quel patto di solidarietà, esistente tra magistratura e alcune forze politiche, volto a lasciare, a dispetto di tutto, le cose come stanno. Il livello scadente raggiunto dalla lotta tra correnti è confermato dal falso scoop pubblicato sabato da Repubblica e di evidente provenienza giudiziaria. Si riferisce che il relatore delle decisioni sarebbe approdato, cinque anni fa, al Consiglio di Stato, essendo risultato primo a seguito di un concorso nella cui commissione era presente anche il magistrato, il cui ricorso è stato accolto. All’evidente assenza di qualsiasi ragione di astensione, non stabilendosi alcun rapporto tra candidato e commissario, una volta superato definitivamente e da tempo il momento dell’esame, occorre aggiungere che si fa finta di ignorare che una decisione di questa portata non può non aver visto il consapevole coinvolgimento di tutti i componenti del Collegio, a cominciare dal presidente. Un’ultima notazione. È davvero singolare la disinvoltura con cui in magistratura si utilizzano le regole per l’attribuzione degli incarichi, specie se rapportata al numero delle inchieste che vedono sul banco degli imputati, tra gli altri, pubblici amministratori e professori universitari, appena vi è un sospetto, anche larvato, di favoritismi. Ed è impressionante come, in questi casi, la magistratura si erga a paladina inflessibile di regole, di cui capita anche che non comprenda neppure il senso. Ferrara. Detenuto di 60 anni muore di Covid di Daniele Predieri La Nuova Ferrara, 18 gennaio 2022 Era rimasto contagiato 15 giorni fa in un focolaio dentro il carcere: allora vi furono 25 agenti e altrettanti detenuti positivi. È morto ieri poco dopo mezzogiorno nel reparto di Terapia intensiva Covid del Sant’Anna dove si trovava ricoverato da alcuni giorni in condizioni gravissime, intubato. Dopo che da una decina di giorni era stato ospitato prima nella stanza di sicurezza adibita ai detenuti, poi in pneumologia sub intensiva e infine l’ultimo reparto in cui i sanitari del S. Anna hanno fatto tutto il possibile. L’uomo aveva 60 anni, era un detenuto dell’istituto Satta-Arginone, il carcere cittadino, ed era non vaccinato, un “No vax” convinto, convintissimo tanto che non indossava mai, nonostante le pressioni degli agenti, mascherina e altro. Nonostante in carcere vi fosse stata la necessità di proteggersi, nel suo reparto di detenzione. Perché, dietro al suo decesso, avvenuto ieri, si cela un’altra circostanza legata al Covid: un focolaio di contagio scoppiato all’interno del carcere circa 15 giorni fa che - secondo quanto si apprende - aveva portato 25 agenti di Polizia penitenziaria ad essere positivi: per fortuna tutti vaccinati, e per fortuna l’evoluzione del Covid ha avuto non gravi conseguenze su di loro, tanto che molti sono già tornati in servizio. Furono contagiati anche un’altra ventina di detenuti, tra i quali ad oggi - così come all’interno dell’istituto - si contano diversi No Vax, altrettanto convinti come il detenuto deceduto ieri, contagiato proprio in quell’occasione. Dopo il focolaio, lui, che aveva patologie respiratorie pregresse, era stato ricoverato in un primo momento nella cella di sicurezza sanitaria in ospedale, dove aveva creato non pochi problemi per la gestione del suo caso da parte dei sanitari. Poi purtroppo, visto l’aggravamento per le condizioni, era stato ricoverato in terapia intensiva dove si è registrato ieri il suo decesso. Da quanto si apprende, il detenuto doveva scontare ancora pochi mesi di carcere prima della liberazione, e altro retroscena sulla sua vita di pregiudicato nel Bolognese, ci riporta ad oltre 30 anni fa, quando era rimasto ferito, come le tante altre vittime, durante uno degli assalti della Uno Bianca, nel lontano dicembre 1990, al campo nomadi di Quarto inferiore, nel Bolognese. Il decesso del detenuto porta d’estrema attualità il problema della situazione sanitaria per evitare i contagi all’interno degli istituti di pena, dove gli agenti di Polizia penitenziaria hanno l’obbligo di vaccino (pena la sospensione dal lavoro) mentre i detenuti no: e la vicenda che stiamo raccontando conferma la vulnerabilità di questa situazione. E proprio per questo motivo, per tutelare la salute all’interno dei reparti di detenzione e limitare i possibili contatti con l’esterno, anche al carcere cittadino sono stati bloccati i colloqui con i familiari, mentre secondo le nuove disposizioni per potere acceder all’interno - i legali che lo vorranno per esigenze di servizio e per incontrare i propri assistiti - dovranno esibire il super green pass. Castiglione delle Stiviere. L’insostenibile Rems tenuta in vita con le logiche di un manicomio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 gennaio 2022 Risolto un primo problema urgente riguardante la “mega” Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) di Castiglione delle Stiviere. Grazie alla segnalazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, la direzione della struttura ha predisposto un ambiente idoneo e dedicato per la pratica religiosa islamica degli ospiti. Il 14 dicembre scorso, il Garante nazionale ha visitato la Rems di Castiglione delle Stiviere e tra le varie criticità che elaborerà nel prossimo rapporto, ha formulato una raccomandazione urgente perché si renda effettivo il diritto alla propria professione religiosa e alla sua espressione, così come sancito dall’articolo 9 della Convenzione europea per i diritti umani e dall’articolo 19 della Costituzione italiana. Il Garante segnala che le persone ospitate di religione islamica posso pregare, nei tempi stabiliti dalla propria religione, all’interno di un grande ambiente (il modulo “Aquarius”). Ma è un ambiente dove però si svolge una rumorosa socialità (biliardino ed altro) che non consentono il dovuto rispetto nei confronti della pratica religiosa. Per questo motivo, il Garante ha raccomandato che si predisponga al più presto un ambiente idoneo e dedicato che garantisca il rispetto della pratica religiosa degli attuali internati di religione islamica e che si provveda, più in generale, alla predisposizione di appositi spazi per la riflessione individuale e il culto qualora persone di altre religioni possano venire ospitate nei moduli di Castiglione delle Stiviere. Il Garante nazionale ha ritenuto di formulare questa specifica raccomandazione con urgenza per evitare che si possa “prefigurare una percezione soggettiva di non considerazione dei propri bisogni religiosi da parte di persone fragili nella definizione della propria individualità, che vivono un momento di difficoltà già nell’essere privati della libertà personale e che potrebbero elaborare negativamente tale percezione anche per la comunità ospitata nel suo complesso”. Osservazione accolta dalla direzione della struttura. Resta però il problema principale. La struttura dell’ex ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) Castiglione delle Stiviere è composta da un insieme di moduli, formalmente separati, ma - come osserva il Garante - “concettualmente e praticamente connessi per persone raggiunte da una misura di sicurezza sanitaria”. E ciò è un male. Le Rems sono nate per essere piccole comunità. In mancanza di quelle, nella regione Lombardia l’ex Opg è stato riconvertito in “Sistema polimodulare di Rems provvisorie”. Quindi, di fatto, è un’unica mega Rems che ospita un totale di 160 posti letto. Come scrive il Garante nazionale, tale situazione si riverbera “in modo preoccupante sulla qualità dei percorsi terapeutici offerti alle persone ristrette negli otto moduli e in special modo per coloro accolti nel modulo denominato Aquarius”. Resta, quindi, il problema della Rems di Castiglione delle Stiviere in termini di presenza per numero di persone ospitate e per la qualità della struttura caratterizzata da aspetti ancora di tipo manicomiale. Secondo il dottor Franco Corleone, ora garante dei detenuti di Udine, ma che nel febbraio del 2016 è stato nominato commissario unico per il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), si tratta principalmente di un discorso di allocazione corretta delle risorse. “Le risorse non possono essere utilizzate solo per fare padiglioni più belli e puliti che permangono concentrati in un luogo periferico rispetto alla Lombardia”, afferma Corleone. L’ex commissario unico per il superamento degli Opg, ricorda che bisogna “aggredire” il doppio binario del proscioglimento per incapacità di intendere e di volere. “C’è una legge 81 da applicare nel modo migliore ma serve anche pensare a risolvere il problema alla radice, attraverso una riforma, perché ad oggi sommando le 568 persone in lista di attesa, quelle ad oggi presenti in Rems e quelle che ne sono uscite, si ottiene un numero totale che supera del doppio il numero degli ospiti degli Opg negli ultimi anni. Occorrerebbe verificare se sono aumentati i proscioglimenti per incapacità di intendere e di volere”, conclude Corleone. Santa Maria Capua Vetere. La storia di Antonio e degli altri detenuti malati di Elena Del Mastro Il Riformista, 18 gennaio 2022 I contagi Covid aumentano ovunque e anche nelle carceri. Ma lì, nelle celle affollate di persone, ci sono anche malati comuni, persone che soffrono di tumore o altre malattie e che, se dovessero contagiarsi, rischierebbero seriamente la vita. Succede nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove Antonio, malato di tumore è costretto a stare nell’infermeria centrale in attesa che si trovi un posto in una struttura esterna adeguata per curarlo. Poi ci sono altri due detenuti della casa di lavoro di Aversa: sono malati e hanno problemi persino a camminare, il carcere non è il proso adatto per loro. A denunciare tutte queste storie è Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta. La garante come è solita fare, nel fine settimana ha fatto il giro delle carceri della provincia di Caserta. “A Santa Maria Capua Vetere ci sono attualmente 23 detenuti positivi - ha detto la garante al Riformista - Il personale sanitario è sotto organico perché in tanti hanno contratto il covid. In questo scenario c’è Antonio, malato oncologico. Il magistrato ha dato l’assenso per liberarlo ma abbiamo difficoltà a trovare una struttura sanitaria che lo possa ospitare. Sta veramente male”. Belcuore racconta che l’area sanitaria del carcere ha segnalato la difficile situazione di Antonio ma purtroppo non si riesce a trovare una struttura sanitaria esterna che lo possa accogliere e fornirgli le cure necessarie. E così Antonio resta lì, solo, in infermeria. Poi c’è il caso della casa di lavoro di Aversa. Lì i detenuti dovrebbero lavorare ma c’è chi sta male e non riesce nemmeno a camminare. “È preoccupante la situazione in particolare di due detenuti - continua il racconto della garante Belcuore - Uno è anziano ha problemi di deambulazione, ha la carne viva che gli esce dalle gambe. Sta malissimo ma il carcere non lo segnala al Magistrato di Sorveglianza. Eppure l’area sanitaria ha il diritto e il dovere di segnalare i detenuti per i quali il regime carcerario è incompatibile con la tutela della loro salute”. “Due mesi fa ho segnalato io stessa questa situazione al carcere - continua la garante - ma non è cambiato nulla. Zoppica, ha le vene in rilievo e sta male. Io non sono un medico ma si vede che non sta affatto bene”. Nella stessa casa di lavoro ad Aversa c’è anche un altro detenuto di cui preoccupano le condizioni di salute. “Ha un tumore alla trachea - continua Belcuore - Ha un buco in gola e non riesce nemmeno a muoversi. E intanto entrambi restano lì in carcere, dovrebbero lavorare ma non ne sono in condizione. Che senso ha?”. “A Carinola invece continuano gli screening con 3 sezioni chiuse per covid. Ad Aversa ci sono 27 positivi, si attende la terza dose di vaccino. Ad Arienzo ci sono 4 agenti positivi. In questo scenario faccio appello alla magistratura di sorveglianza per i reclusi a cui mancano pochi mesi di mandarli a casa per alleggerire un po’ il peso su quelle celle che scoppiano”. Milano. Arrestato per fare un giorno di carcere di Laura Tedesco Corriere di Verona, 18 gennaio 2022 La vicenda paradossale di un 30enne moldavo condannato per furto aggravato. Un trentenne moldavo, su ordine del Tribunale di Verona, è stato arrestato e condotto in carcere a Bollate per scontare un giorno di pena. È possibile essere arrestati, scontare per intero la pena e tornare in libertà nell’arco di un solo giorno? A giudicare da quanto è accaduto tra le giornate di domenica e di ieri lungo l’asse Verona-Milano, evidentemente, la risposta è sì, una cosa del genere per quanto incredibile può realmente verificarsi. Basta chiederlo all’involontario protagonista di questa storia da guinness: di lui, in effetti, non si può certo dire che sia tornato “finalmente libero”, visto che lo hanno arrestato e condotto immediatamente in carcere per scontare una condanna (residua) di ben...24 ore. Può sembrare paradossale, ma le cose sono andate proprio così per un trentenne moldavo nei cui confronti i giudici del Tribunale di Verona, una manciata di settimane fa, avevano emesso un ordine di carcerazione per un residuo-pena di un giorno. Detto, fatto: una volante della polizia lo ha individuato a Milano nella giornata di domenica e lo ha condotto, in esecuzione al mandato di cattura partito dalla magistratura scaligera, nel penitenziario di Bollate da cui il moldavo è uscito nella serata di ieri. Tutto è iniziato lo scorso weekend, quando è stato fermato per un controllo di routine e il suo nome è stato inserito per accertamenti nei terminali: da lì, è emerso che sul suo capo pendeva un residuo di pena da scontare pari a... un giorno. Così ha passato 24 ore “dentro”, rinchiuso in cella e poi, da ieri sera, di nuovo è tornato fuori, “finalmente” libero: per il trentenne, un cittadino moldavo con precedenti, le manette sono scattate domenica al termine di un controllo casuale in via Sammartini a Milano. Lì una volante ha fermato un’auto con due persone a bordo: al momento di identificare il 30enne gli agenti hanno scoperto della condanna che pendeva sulla sua testa, per il reato di furto aggravato. A quel punto i poliziotti non hanno potuto fare altro che arrestarlo e accompagnarlo nel carcere di Bollate, dove nel frattempo, in tempi “record”, ha già scontato il giorno di carcere che gli restava da pagare. Nella serata di lunedì, infatti, è ritornato “finalmente” in libertà. Tralasciando la (facile) ironia, fa comunque riflettere che un episodio del genere si possa verificare proprio in un momento storico di estrema difficoltà per le carceri italiane, comprese quelle di Verona e dell’intera Lombardia, dove imperversa l’emergenza Covid e dove estesi focolai hanno indotto i vertici di numerosi penitenziari a disporre la momentanea chiusura delle case circondariali all’ingresso di nuovi detenuti. Un provvedimento, quello della chiusura temporanea del carcere, che è stato adottato di recente anche a Montorio, dopo l’esplosione di un maxi focolaio pandemico con 170 contagiati dal Covid tra detenuti e agenti. Proprio a Verona, stando ai dati ministeriali aggiornati al 31 dicembre 2021, nel carcere di Montorio a fronte di una capienza massima di 335 detenuti, sono invece reclusi in 482. Secondo l’avvocato veronese Simone Bergamini, componente dell’Osservatorio nazionale carceri della Camera penale, “il problema è il solito e mai affrontato a livello centrale ovvero il sovraffollamento che nel 2013 ci è già valso l’infamante marchio di Paese che riserva ai propri custoditi trattamenti inumani e degradanti. Ed oggi li costringe pure a contagiarsi a vicenda vista l’immancabile promiscuità. A 9 anni di distanza la situazione è infatti ancora una volta drammatica e priva di reali prospettive di soluzione in assenza - sottolinea Bergamini - di una seria riforma dell’esecuzione penale che porti ad implementare il ricorso a misure alternative”. Appunto: misure alternative rispetto, ad esempio, a quella di far scontare in cella una condanna residua pari a “ben” un giorno. Torino. Viaggio a casa delle baby-gang di Lodovico Poletto La Stampa, 18 gennaio 2022 Dalla banda dello spray di piazza San Carlo alla maxi-rissa di Nichelino con 150 ragazzi: in città l’emergenza dei gruppi “fluidi”. I primi usavano lo spray urticante per creare il caos. E nel caos rubare tutto quel che potevano. Ma ancora non li chiamavano baby gang. Gli ultimi fanno rapine in centro città, senza neanche provare a nascondere il viso. Organizzano risse. Maxi risse. Si muovono in branchi. Senza capi né regole. Dalla gang entri ed esci come e quando vuoi. “Bande fluide” le chiama chi se ne intende. Un giorno ci sei, il giorno dopo vai con altri a fare danni altrove. I primi hanno fatto due morti e mille feriti cinque anni fa. Era giugno. C’era la finale di Champions League tra Real Madrid e Juventus proiettata su un maxi schermo nella piazza-salotto di Torino. La piazza San Carlo dei bar storici, delle banche, del passeggio. Spararono il gas e la gente fuggì, calpestando tappeti di vetri, cadendo, sfregiandosi. È perdendo la vita. Da allora è accaduto di tutto. Accade di tutto. Eccola qui la Torino criminale che ha messo da parte le bande che sparavano in mezzo alla strada in guerre di camorra e mafia, ha accantonato come pezzi d’antiquariato i grandi rapinatori che assaltavano i furgoni portavalori con il kalashnikov in braccio e quelli che organizzavano i rapimenti. Le “baby gang” sono l’ultima emergenza criminale. Le “bande fluide” che ritrovi ovunque: a far rapine in centro, oppure la notte di capodanno a Milano a molestare e violentare le ragazze. “Un fenomeno nato dal disagio sociale. Dall’esclusione. Dalla difficoltà di integrazione” dicono a Barriera di Milano, ex quartiere operaio diventato il simbolo di quanto sia complicata la strada verso l’inclusione e l’integrazione tra nuovi e vecchi torinesi. Case popolari e famiglie di ogni etnia. Corso Giulio Cesare come spina dorsale: in 500 metri trovi negozi gestiti da persone di almeno 30 nazionalità. Lì dietro, nelle strade traverse, sono nate e cresciute le prime baby gang. Il collante era musica. Chi la faceva cantava - e ballava - il disagio. Imitava oppure clonava i trapper delle banlieue francesi più che quelli del Bronx. Insomma era più periferia e lungomare di Nizza che deserti metropolitani newyorchesi. C’era e c’è più francese come lingua comune in queste bande, più bambarà come lingua che unisce che spanglish. Al massimo trovi l’italiano mescolato all’arabo: una lingua nuova che ancora non è stata battezzata con un nome. Ecco, bisogna partire da quel giorno in piazza San Carlo per parlare di baby gang. Allora erano ragazzini figli di gente arrivata dal Maghreb a caccia di soldi. Bisogna guardare a quella storia e poi fiondarsi al primo autunno di pandemia, quando le baby gang - da qualcosa di impalpabile, più intuito che dimostrato - diventano un fenomeno che puoi toccare la notte in cui assaltano il centro durante una manifestazione anti lockdown. Ne arrestano una trentina, dai 15 ai 27 anni. Quella notte è stata la banlieue che è entrata in centro a Torino ed è andata a prendersi ciò che non può permettersi di comprare nei negozi. È la prima volta che - apertamente - si parla di nuove forme di criminalità minorile. Piccoli spacciatori di periferia che diventano altro. Hanno storie tutte uguali. Padri in galera oppure spariti. Sfratti in arrivo. Il lavoro che non c’è. E madri che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena lavando gli scalini dei palazzi del centro. E loro, i ribelli di seconda generazione, sono lì nel mezzo con il profilo Instagram zeppo di foto con la merce rubata. Che fanno i bulli e cantano con la musica sparata a tutto volume. “È un problema di criminalità, ma prima di tutto sociale. Vanno date risposte per evitare derive” diceva allora Luca Deri, presidente della Circoscrizione 7 di Torino. Ma intanto le gang erano già formate. E poi si sono clonate anche in altre periferie. E nei Comuni della cintura. Dalle botte ai luna park, alle spedizioni punitive come quella di quasi 200 ragazzi che si affrontano a Nichelino il passo è breve. Sabato scorso in piazza c’erano da una parte le baby gang locali e dall’altra c’erano “quelli di Barriera” arrivati in massa con gli autobus della Gtt per vendicare un amico picchiato. Baby gang che si muovono sulle note del trap torinese: “L’aroma del sangue che ho in bocca, le prime botte, le armi. E frate...”. Per carità, questa è soltanto musica che prova a farsi strada. Ma tante volte diventa bandiera per la rivalsa. La forza del branco. Anzi dei branchi. “In un certo tipo di affermazioni emerge con chiarezza quella che chiamo “la sindrome dello specchietto retrovisore”. Questi ragazzi si vedono in un futuro prossimo nella stessa situazione che vivono oggi. Non vedono prospettive, quindi esorcizzano le loro paure con la forza: il senso è prendersi qualcosa che loro credono inarrivabile” commenta nelle pagine di cronaca di questo giornale Georgia Zara, docente del dipartimento di Psicologia dell’università di Torino. Che parla di “delinquenza fisiologica”. Ma mai di allarme sociale. Eppure adesso le baby gang fanno paura. Più degli scippatori. Più degli spacciatori. Sono l’emergenza con la “E” maiuscola. In centro attorno alla zona dell’Università, vanno a caccia di ragazzini. Gli portano via tutto ciò che ha valore. Telefonini, ovvio. E poi giubbotti felpe firmate. Soldi. Ne hanno arrestati quattro o cinque, ma è poca roba. Uno va in galera e tre ne arrivano. Sono maghrebini, per lo più. Parlano italiano. Abitano in zona Barriera. Baby gang fotocopia. Figlie - ideali - degli assaltatori del centro di un anno fa. Allora ne avevano presi una trentina. Ma quella notte in via Roma a saccheggiare erano molti, ma molti di più. Livorno. In carcere un corso di cucina per detenuti telegranducato.it, 18 gennaio 2022 Al via il corso di cucina per i detenuti delle sughere. Organizzato dal Rotary Mascagni Livorno in collaborazione con la Federazione Italiana Cuochi. Un’idea nata dalla commissione progetti del Rotary club Livorno “Mascagni” (nelle persone di Nicola Minervini, Annalisa Verugi, Stefano Mencarelli, Fabrizio Orlandi) coordinata dal presidente Vito Vannucci. Un’idea che è diventata realtà grazie alla collaborazione della Federazione Italiana Cuochi. Con la prima (di dieci lezioni) prende il via un corso di cucina per i detenuti della casa circondariale “Le Sughere”. “Per noi - spiega Vannucci - un altro appuntamento importante, di indubbia rilevanza sociale.. Il motto dell’anno del Rotary International è “servire per cambiare vite”. Noi facciamo il possibile a livello locale, ma il contributo di tutti alla fine dovrebbe portare traguardi concreti. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare persone disponibili per completare un lavoro in equipe: tante buone volontà si sono messe insieme. E cercheremo di dare un seguito al progetto, con un secondo corso e iniziative similari”. L’insegnante Valerio Vittori, chef della Federazione Italiana Cuochi, comincia con l’elargire le norme principali ai 10 ragazzi del carcere selezionati:”Visto che il corso è focalizzato sulla panificazione, proporremo delle ricette di pane, pizza, schiacciata, nelle loro varie declinazioni. E anche pasticceria da panificio, con biscotti secchi e lievitati fritti, in modo che le cose apprese possano essere utilizzate in futuro, in un eventuale inserimento professionale. Ho scelto di fare lezioni pratiche dove i ragazzi mettono le mani in pasta, non voglio che stiano passivi guardando quello che faccio io. All’inizio sbaglieranno, ma è il metodo migliore”. Soddisfatto padrone di casa, il direttore del carcere Carlo Mazzerbo:”Un momento importante, bello e utile, per il quale ringrazio sentitamente di cuore il Rotary Mascagni che ce l’ha proposto. Effettivamente noi abbiamo bisogno di attività concrete, facili, anche da realizzare: la speranza è che qualcuno un domani possa utilizzare le nozioni apprese sul mercato del lavoro. Chi esce con un lavoro, ha meno probabilità di rientrare in carcere. E questo per noi è fondamentale”. Daniel Zaccaro, “Io potevo uccidere” di Stefania Saltalamacchia vanityfair.it, 18 gennaio 2022 È stato bullo, teppista, rapinatore: Daniel Zaccaro non si sarebbe fermato “perché il male affascina”. Ha sbagliato e pagato, poi ha trovato aiuto. Ora, da educatore, ecco che cosa dice ai ragazzi come lui. Primavera 2001, Milano, zona Niguarda. Daniel ha 10 anni, gioca nei pulcini dell’Inter ed è la partita più importante. La porta davanti a lui è vuota, tira, ma finisce fuori. Come fuori finirà anche lui. “Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, ma per il padre è l’ennesima occasione per dirgli “non vali niente, non combinerai mai nulla”. Daniel Zaccaro, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, periferia nord-ovest, oggi ha 28 anni. È stato bullo, teppista e persino rapinatore. Ha sbagliato e ha pagato, è finito in carcere. Prima al Beccaria. Dopo a San Vittore. In mezzo, i trasferimenti per cattiva condotta nelle carceri di Catania, Bari e Bologna e i tentativi nelle comunità di Varese e Arezzo. Poi l’incontro con le persone giuste, e la volontà, lentamente, di cambiare. Il diploma, l’università. All’inizio del 2020 è diventato dottore in Scienze dell’Educazione. Alla sua laurea c’erano tutti: la pm del Tribunale per i minori che l’ha fatto condannare; Fiorella, l’insegnante in pensione che in carcere l’ha fatto studiare; don Claudio, cappellano del Beccaria e fondatore della comunità Kayròs, che l’ha rimesso in piedi. “Non mi sono mai sentito né carnefice, né vittima. Ho solo cercato in ogni modo di emergere come il più forte”, spiega, dosando bene le parole. La sua è una storia di caduta e rinascita, di seconde opportunità e di capacità di coglierle. La racconta Andrea Franzoso in Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro, in libreria dall’11 gennaio per De Agostini. Anche il loro incontro è una storia. “Noi siamo opposti”, spiega Franzoso, mentre Daniel sorride, “io sono un ex bullizzato. A scuola ero un secchione, Daniel mi avrebbe massacrato. E quando lui faceva le rapine, io ero ufficiale dei carabinieri, avrei potuto arrestarlo io”. Invece chi l’ha arrestata? “Sono venuti a casa, a cercarmi. Ma l’avevo messo in conto, era parte del piano per diventare popolare. Mi dicevo “Così si affermerà ancora di più il mio nome in quartiere”“. Il quartiere è Quarto Oggiaro. Com’è stato crescere lì? “Ruotava tutto intorno al palazzo popolare di via Lopez, numero 8. I primi ricordi sono legati al calcio. Tornavo da scuola, mi cambiavo e giocavo a pallone”. Conserva ancora il kit dell’Inter? “Oggi tifo Juve, ma allora ero interista. La divisa era il mio orgoglio. Su di me c’era una grandissima aspettativa. Quando uno di Quarto Oggiaro va a giocare all’Inter diventa un po’ il sogno di tutti. Ho sentito addosso troppa pressione. Ogni volta che toccavo il pallone ci si aspettava la giocata perfetta, se sbagliavo erano solo insulti. Ero contento quando mio padre non veniva alle partite”. Che rapporto ha oggi con i suoi genitori? “Dopo il carcere e la comunità sono tornato a vivere con mia madre. Con mio padre non parlo da anni. Hanno divorziato quando avevo 8 anni. Mio padre a volte diventava violento, non ha avuto una vita facile nemmeno lui. Gli è rimasta una ferita aperta, ferita che a lungo ho avuto anch’io”. Che ricordo ha del primo furto? “A 12 anni rubavo i tappini degli pneumatici delle auto. Sentivo l’adrenalina. Ma credo che quella fosse una ragazzata, non una cosa da criminali”. Cos’è da criminale? “Quello che è venuto dopo. Rubare le biciclette, i motorini, i portafogli ai ragazzi della Milano bene. In quelle azioni trovavo piacere, mi sentivo appagato. Intanto a scuola erano iniziati i casini. Io che ero sempre andato bene accumulavo sospensioni, picchiavo i compagni”. Cosa si prova a essere un bullo? “Ti senti sicuro di te stesso, ma è tutto basato sulla paura. Non guadagni rispetto, è timore. Il bullo, in realtà, è un bullizzato. Mio padre prima esercitava il controllo su di me, e io poi lo esercitavo sugli altri”. Qual è il momento in cui ha sentito che non poteva più tornare indietro? “Ho rubato il cellulare a un ragazzo e si è messo a piangere, mi ha impietosito. Non potevo restituirglielo, ma mi sono tenuto solo la batteria. Poi c’erano le risse. Un giorno ho marinato la scuola per andare a rapinare una banca. Avevo 17 anni”. Cosa ricorda di quel giorno? “Io e il mio migliore amico ci siamo promessi di lasciare il cuore a casa. Siamo stati dentro 3 minuti, ne siamo usciti con più di 10 mila euro. Nei quattro mesi successivi, abbiamo organizzato altre due rapine. Ero pieno di soldi, di donne, di adrenalina. Volevo le cose più belle: giubbotti, scarpe, regali per le fidanzate. Ci siamo comprati anche una macchina che guidavamo senza patente”. Non si sentiva in colpa? “Un po’, ma faceva parte del gioco. Comportarmi così mi portava a essere glorificato dagli altri. Il bene ti spinge a fare ancora più bene, il male è peggio: affascina. Quando ho iniziato a fare le rapine il mio sogno era prendere un portavalori, e sono certo che se l’avessi fatto non mi sarei fermato. Potevo uccidere, potevo essere un Vallanzasca”. Chi è stato il primo a darle una seconda possibilità? “In carcere ho toccato la profondità del dolore. Quando sei così giù, provi a pensare di cambiare e allora ti si presenta davanti qualcuno che può aiutarti. Il primo è stato un brigadiere. Poi don Claudio. Infine a San Vittore, nel momento più buio, mi è apparsa Fiorella. Il suo sapere mi ha cambiato. Ho iniziato a divorare romanzi, saggi, tutta la letteratura italiana. Dante, Leopardi, Verga, le maschere di Pirandello. Mi sono detto: da qui, posso ripartire. Dopo San Vittore, don Claudio mi ha riaccolto nella sua comunità. All’inizio pensavo fosse fortuna, ma c’è un filosofo che dice “non esiste la fortuna, esiste il talento che incontra l’opportunità”“. Oggi, da educatore, cosa insegna? “Che nessuno può salvare nessuno, devi farlo tu. Bisogna stare con gli adolescenti, dargli fiducia. E soprattutto essere coerenti”. Non ha paura di poter ricadere? “Sì, ma non nel senso di compiere un reato. La psicologa del carcere mi ha scritto una lettera: “Ricordati che sei umano, non perfetto”. Manconi al Quirinale, una voce forte contro le ingiustizie di Elena Stancanelli La Stampa, 18 gennaio 2022 L’elezione del Presidente della Repubblica italiana contiene un paradosso. Non ci riguarda direttamente, eppure ci riguarda più di qualsiasi altra investitura politica. Non lo votiamo, non dobbiamo scervellarci e confrontarci, azzardare, informarci, negare quando ci vergogniamo di aver commesso un errore o azzannare quando quell’errore l’ha commesso qualcuno che ci è caro. Siamo seduti sul divano ad aspettare, proprio come quando deve essere fatto il nuovo Papa. Ma se nessuno conosce vita e miracoli dei candidati al soglio pontificio, tutti sappiamo chi meriterebbe la carica di Presidente e soprattutto che cosa vogliamo da lui/lei. Il/la Presidente è una figura di riferimento, un garante. È sopra le parti, integerrimo e saggio, è il volto più umano della politica. Ha un nome e un cognome che tutti ricordano, sta in carica sette anni salvo cataclismi, incarna valori che ci sono familiari. È un genitore che sa essere severo ma anche comprensivo: è il termine ultimo della nostra disperazione. Quando io ero bambina si diceva “scrivi al Presidente della Repubblica” come si direbbe “scrivi a Babbo Natale”: per segnalare un’ingiustizia, per chiedere attenzione su qualcuno o qualcosa. Scrivi al Presidente se pensi che noi non siamo abbastanza bravi, dicevano i genitori. Chissà se lo dicono ancora, ma certamente a nessuno viene in mente di scrivere al segretario di un partito, ma neanche al presidente del Consiglio se un’istanza morale lo scuote, un bisogno lo attanaglia. Il/la Presidente dalla Repubblica è semplicemente il migliore di noi, quello che non dovrebbe neanche essere eletto ma acclamato. Ed è più o meno questa la ragione per cui non siamo noi cittadini a votarlo. Perché alla domanda chi deve essere il prossimo Presidente i parlamentari dovrebbero girarsi tutti, all’unisono, verso la stessa persona. Dovrebbe essere ovvio, inattaccabile, ineccepibile. Non c’è bisogno di andare a votare perché i nostri rappresentanti in Parlamento dovrebbero solo ratificare quello che è già evidente: è il migliore, che altro? In virtù di questo ragionamento non è chiaro perché ogni volta ci sottoponiamo all’ordalia dei nomi insensati, perché dobbiamo perdere tempo a spiegare quanto siamo scriteriati, e non possiamo invece, sommessamente, indicare ai nostri parlamentari la persona giusta verso la quale girarsi, che magari si sono distratti. Non è vero che ognuno ha il suo nome da fare per la presidenza, perché come dicevo quei nomi sono pochi, e non possono che essere condivisi. Non sto parlando di numeri, dell’avere o no i numeri, sto parlando di rispettabilità. Sono i migliori, appunto, sono persone che hanno usato la loro vita per vigilare sui diritti di tutti, per garantire che la Costituzione più bella del mondo protegga anche chi ha poca voce. Quelli che non si sono tirati indietro e col loro impegno hanno tenuto in piedi questa democrazia, ci hanno consentito di non vergognarci di essere italiani. Tra questi pochi, in molti indichiamo da anni Luigi Manconi. Lo facciamo anche quest’anno, lo ha fatto Christian Raimo sulla sua pagina Facebook, raccogliendo subito un grande consenso, lo hanno fatto Sandro Veronesi, Ascanio Celestini, Nicola Lagioia, Alessandro Bergonzoni, per fare solo alcuni nomi di intellettuali che da anni sostengono il lavoro di Manconi. Sarebbe un Presidente di cui andare fieri, uno a cui scrivere lettere, un politico che ha usato la politica per cercare di mitigare le ingiustizie. Ma Luigi Manconi chi? Quello che ha stroncato “Storia di un impiegato” di De André?? scrive qualcuno indignato a commento della lettera di Raimo. Lo ammetto: non lo sapevo. Ma come direbbe qualcun altro: nessuno è perfetto. “Sono tetraplegico, lasciatemi morire”. Nelle Marche un altro caso in tribunale di Maria Novella De Luca La Repubblica, 18 gennaio 2022 Dopo la battaglia di Mario l’appello di Antonio, adesso isolato con il Covid in rianimazione: “Così non ha senso vivere”. Oggi i giudici decideranno se obbligare l’Asl a valutare se ci sono le condizioni perché ottenga il suicidio assistito. “Ero una persona libera, adesso dipendo dagli altri per ogni gesto. Ho dolori atroci. La medicina palliativa? Attenua la sofferenza del corpo ma non della mente”. Otto anni fa Antonio è sceso per sempre dalla sua - amatissima - moto. Uno schianto e la sua vita “di corsa” che si trasforma in una vita immobile, è salvo ma tetraplegico, i suoi confini diventano un letto, una carrozzina, una terrazza per respirare e guardare l’orizzonte. “Era il 14 giugno del 2014 e se allora, all’inizio, quell’esistenza mi sembrava possibile, oggi la mia condizione è diventata insopportabile”. Antonio ha 44 anni, è, anzi era, un ragazzo forte e atletico, moto, auto, viaggi e libertà le sue parole d’ordine. A settembre del 2020 ha chiesto all’Asur Marche, cioè l’azienda sanitaria unica della sua regione, di poter morire con il suicidio assistito, così come previsto dalla Corte Costituzionale dopo il caso di Dj Fabo e l’assoluzione di Marco Cappato nel 2019. Sedici mesi dopo Antonio non ha ricevuto risposta. Oggi il tribunale di Ancona dovrà decidere se obbligare, in via giudiziaria, l’azienda sanitaria delle Marche ad effettuare su Antonio quelle visite mediche necessarie a stabilire se la sua situazione rientra nei parametri indicati dalla Corte Costituzionale per accedere al suicidio assistito. (Essere cioè pienamente consapevoli della scelta, vivere una patologia irreversibile con sofferenze insostenibili ed essere dipendente da trattamenti di sostegno vitale). Racconta Antonio: “Sapete, prima lavoravo, avevo degli hobby, mi divertivo con gli amici, non avevo bisogno di nessuno e di niente, facevo tutto da me. Oggi chiedo il suicidio assistito perché la mia condizione è insopportabile. Devo chiedere aiuto per qualsiasi cosa, da un semplice bicchiere d’acqua al vestirmi. Questa è la cosa che mi fa più male: dover chiedere in continuazione, non essere più autonomo, io che sono sempre stato libero di fare quello che volevo”. Parole che Antonio ci aveva consegnato in vista dell’udienza di oggi, prima che un’altra tragedia si aggiungesse alla sua tragedia. Antonio è stato contagiato dal Covid, è in terapia intensiva. “E lui che dopo tanta sofferenza non voleva morire in solitudine ma dolcemente - dice accorata Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Coscioni e sua avvocata insieme ad un collegio difensivo ampio - vicino ai suoi genitori e ai suoi due fratelli, lui che sarebbe potuto andare in Svizzera, ma ha creduto nell’Italia, rischia di morire nel dolore di un letto di ospedale senza nessuno accanto”. Perché ciò che sta accadendo nelle Marche, dove sono già due i casi di richiesta di suicidio assistito, è davvero grave. Il primo è Mario - ricordate - il camionista di 44 anni cui dopo una lunga battaglia portata avanti con i legali dell’Associazione Luca Coscioni, il comitato etico dell’Asur Marche ha riconosciuto che possiede i requisiti per poter accedere all’aiuto al suicidio assistito. Era il novembre scorso, sembrava che sul fronte dei diritti civili l’Italia avesse fatto un passo in avanti. Niente affatto. La paura (forse) di dover effettivamente dare seguito a quella decisione e aiutare Mario a morire, ha fatto sì che la procedura si arenasse sulla verifica del farmaco letale, in un palleggio, forse strumentale, di responsabilità e burocrazie. Adesso sempre nelle Marche si è aperto il secondo fronte, quello di Antonio, anche questo un nome di fantasia per proteggere la privacy di storie così sensibili. Gallo, che oggi sarà in aula ad Ancona, sottolinea il carattere di Antonio. “Antonio ha fatto una scelta lucida, dovreste vedere la casa in cui vive, al piano di sopra dei suoi genitori, una casa senza barriere architettoniche, con ogni tipo di strumentazione tecnologica da lui ideata per poter muoversi, tutto sommato, in libertà. Una persona che fino a quando lo ha ritenuto sopportabile ha scelto di vivere. Diceva, anzi, ho avuto la vita più bella che potessi desiderare”. Poi il ricovero in terapia intensiva. “L’Asur Marche, che per Antonio abbiamo anche denunciato penalmente per omissione di atti d’ufficio, è gravemente inadempiente. Addirittura - incalza Filomena Gallo - ha affermato che senza la trasformazione in legge della sentenza della Consulta, il suicidio assistito non può essere richiesto. Evidente falsità perché quella sentenza, come sappiamo, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è immediatamente applicabile. La verità è che manca la volontà politica di rispettare la volontà dei malati”. “Provo disagio e tristezza. Ho dolori alla schiena e alle spalle, al sedere, stando sempre nella stessa posizione. Le cure palliative non voglio nemmeno provarle - confessa Antonio - mi alleggerirebbero il dolore fisico ma quello mentale no. Cosa faccio? Pranzo con i miei genitori, ho sempre avuto un ottimo rapporto con la mia famiglia che si è fortificato dopo l’incidente. Poi mi rimetto a letto. Così, sempre. Io che ho avuto una vita così bella, tante soddisfazioni, oggi mi limito a sopravvivere. Andare in Svizzera? Era il mio primo progetto, poi ho scoperto grazie a Marco Cappato, che si poteva fare anche in Italia. Ma ci penso ancora”. Sul giorno dell’addio Antonio ha parole semplici: “Sì, soffriranno, c’è sempre dolore nel privarsi di chi si ama, ma abbiamo parlato e comprendono e rispettano la mia scelta. Il mio ultimo appello però è per giudici e la politica: fate qualcosa perché ognuno sia libero di poter decidere della propria vita”. Migranti. Così è morto Said. L’incubo delle navi quarantena di Gaetano De Monte Il Domani, 18 gennaio 2022 Più di un anno e mezzo fa un bambino è morto di tubercolosi dopo essere rimasto isolato su una nave Le indagini, le associazioni e le testimonianze rivelano i dettagli di una misura che viene ancora adottata. “Durante la fase di navigazione (27 agosto 2020 - 5 settembre 2020), l’esistenza di una importante barriera linguistica, una presentazione clinica atipica, il setting assistenziale della nave poco appropriato e uno sbarco del paziente reso complicato dalle procedure anti Covid-19 hanno certamente rappresentato condizioni che hanno determinato un ritardo diagnostico”. Sono le conclusioni a cui sono giunti i consulenti tecnici dei magistrati nella perizia medico legale depositata alla procura di Siracusa nell’ambito dell’indagine sulla morte del minore di origini somale, Said, deceduto il 14 settembre del 2020 dopo essere stato trattenuto per quasi 10 giorni all’interno di una nave quarantena per migranti. E gettano un’ombra ulteriore sull’utilizzo di questo tipo di misura che la stessa ministra Luciana Lamorgese aveva dichiarato di voler eliminare. Said è stato il secondo minore migrante a morire, in pochi mesi, dopo essere stato ospitato su una nave quarantena per migranti. La perizia - Ora sulla sorte di Said si addensano nuovi interrogativi, in parte contenuti nel documento di 45 pagine depositato alla procura siciliana dai consulenti tecnici, Maria Tea Teodoro, Fortunato Stimoli e Gaetano Scifo. In sostanza, i periti riconoscono in più passi della perizia che la permanenza per quasi dieci giorni sulla nave quarantena Allegra abbia aggravato le condizioni di salute di Said. Ma gli stessi consulenti scrivono anche “che anche una diagnosi tempestiva avrebbe dato al paziente in verità poche probabilità di sopravvivenza data la complessità e gravità della infezione tubercolare”. E dunque - secondo i periti - Said sarebbe morto lo stesso, probabilmente, a causa delle complicanze della patologia. Però è altrettanto vero che avrebbe potuto evitare ulteriori sofferenze, provocate dal trattenimento per alcuni giorni sulle navi quarantena. Il calvario - Come si legge nella relazione predisposta dal responsabile sanitario di bordo, “anche alla luce di una consulenza psicologica effettuata sulla nave, il paziente necessità di essere trasferito in struttura ospedaliera”. Lo sbarco è avvenuto, ma soltanto il 7 settembre 2020, “quando il paziente è” finalmente “giunto nel presidio ospedaliero Muscatello”, a Siracusa. Già dal 3 settembre “le condizioni del paziente avevano però iniziato a deteriorarsi ulteriormente sia dal punto di vista fisico sia psichico; successivamente il paziente era diventato incontinente e non autonomo e aveva cominciato a manifestare delle allucinazioni”, si legge ancora nella sua cartella sanitaria. “Persistendo la incapacità ad alimentarsi e idratarsi più volte si è cercato di praticare l’infusione di liquidi che purtroppo ha avuto esito negativo”. È il calvario di Said. La battaglia della tutrice - L’indagine è nata dall’esposto presentato al Tribunale dei minorenni di Catania dalla tutrice di Said, l’avvocata Antonia Borrello. “Sono stata nominata tutore del minore l’11 settembre”, aveva raccontato ai magistrati “nonostante la “legge Zampa” fissi tale obbligo entro tre giorni dall’arrivo in Italia del minore straniero non accompagnato. I medici del reparto mi hanno detto che non potevano fornirmi la documentazione della nave Azzurra e che non sapevano rispondere alla mia domanda in merito al ritardato trasferimento dalla nave presso una struttura sanitaria”. Al momento, la domanda non ha ancora trovato una risposta. I costi del sistema - Ci sono poi altre domande sulla gestione delle navi quarantena per stranieri. Le ha rivolte, lo scorso marzo, alla Corte dei conti il Comitato verità e giustizia per i nuovi desaparecidos del Mediterraneo attraverso il suo presidente, l’avvocato Arturo Salerni. Il legale ha presentato un esposto chiedendo di “verificare se nei fatti descritti siano rinvenibili ipotesi di illegittimità e di danno erariale, e in caso positivo di individuare i soggetti responsabili”. Su quali siano stati i costi affrontati ci sono al momento solo ipotesi, a partire dalle cifre contenute nei bandi ministeriali. Nel frattempo, nonostante un costo giornaliero sostenuto dallo stato quattro volte superiore rispetto all’accoglienza nelle strutture a terra, e dopo le promesse del ministero dell’Interno, il sistema delle navi quarantena non è mai stato fermato. Secondo i dati forniti dal progetto In limine dell’Associazione studi giuridici immigrazione, i migranti transitati dall’hotspot di Lampedusa, in soli tre mesi, dal primo luglio 2021 al 20 settembre 2021, e poi trasferiti per la quarantena sulle navi, sono stati 5.838; “ospitati” a bordo di nave Adriatico, nave Allegra, nave Atlas, nave Aurelia, nave Azzurra. A loro si aggiungono le oltre 10mila persone straniere finite in quarantena a bordo delle navi, secondo i conteggi di fine 2020 della stessa associazione. È un tipo di accoglienza che nella realtà nessuno, nel governo, sembra intenzionato a fermare. Ed è un affare legittimamente redditizio per le grandi compagnie di navigazione, ma anche per la Croce rossa che vi assicura a bordo l’assistenza sanitaria. Testimoni a bordo - In realtà lo stesso presidente della Croce rossa italiana, Francesco Rocca, ha definito, in una recente intervista, “borderline, il modello nato all’inizio della pandemia e in un clima ostile da parte degli amministratori locali che non volevano accogliere i migranti. Un’esperienza che deve chiudersi con la fine dell’emergenza sanitaria”, ha detto Rocca a Micromega. Chi ha lavorato come operatore a bordo della nave Allegra quando c’era Said invece racconta, protetto dall’anonimato: “All’inizio mancava una adeguata strumentazione sanitaria e mancavano i macchinari”. “A bordo, anche negli ultimi mesi, sono state ospitate diverse persone che poi dopo l’ingresso sulle navi quarantena si sono dichiarate minorenni, ma che non sono state fatte sbarcare sùbito”. Un’altra fonte che ha lavorato in un altro periodo più recente a bordo delle navi quarantena, racconta: “Dopo la fine della quarantena e lo sbarco a terra dalle navi, le persone vengono trasferite sugli autobus. Poi, in base a una lista che viene consegnata dai funzionari del ministero dell’Interno al personale della Croce rossa, molto spesso gli uomini di origine tunisina o provenienti dal Maghreb vengono destinati ai Centri per i rimpatri, i Cpr”. “Non può non sorgere un dubbio - dice - che la pandemia sia soltanto un pretesto per sperimentare un metodo. Potrebbe essere sicuramente molto efficace per i “rimpatri veloci”. Ma noi lo possiamo testimoniare: ha un costo in termini economici e di vite umane”. In Iran e Bahrein due tristi compleanni in carcere di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 18 gennaio 2022 Un compleanno tra i peggiori immaginabili. Con un cappio che gli fa macabramente compagnia dal 21 ottobre 2017, giorno della condanna all’impiccagione pronunciata da un giudice iraniano. Il 14 gennaio Ahmadreza Djalali ha trascorso il suo cinquantesimo compleanno chiuso in una cella minuscola, infestata da insetti, lontano dalla moglie e dai due figli in Svezia. Il 26 aprile saranno passati sei anni dal suo arresto e non è detto che ci arrivi: perché nel frattempo potrebbe essere stato scarcerato, certo, o perché purtroppo potrebbe essere arrivato il boia o le sue precarie condizioni di salute potrebbero averlo anticipato. Djalali, scienziato di origini iraniane ma residente in Svezia, per alcuni anni ricercatore anche presso l’Università del Piemonte Orientale, è stato arrestato nell’aprile 2016 mentre era in Iran per motivi di lavoro e accusato di aver spiato in favore di Israele. Nei suoi confronti non è mai stata presentata alcuna prova. Ha sempre denunciato di essere stato costretto, con la minaccia di conseguenze per l’anziana madre residente in Iran e anche per la famiglia in Svezia, a “confessare” le sue colpe davanti a una telecamera, leggendo un testo scritto dalle persone che lo interrogavano. In una lettera scritta dal carcere, nell’agosto 2017, ha accusato le autorità iraniane di aversi voluto vendicare per il suo rifiuto di collaborare a raccogliere informazioni riservate: “Sono uno scienziato, non una spia”. Sessant’anni, sempre in carcere, li ha compiuti il 15 gennaio Abdul-Jalil al-Singace, accademico, blogger e difensore dei diritti umani del Bahrein, che da oltre dieci anni sta scontando una condanna all’ergastolo, inflittagli il 22 giugno 2011 da una corte marziale. Come riconosciuto dalla stessa Commissione indipendente d’inchiesta del Bahrein, istituita nel 2011 dal governo di fronte alle proteste internazionali contro la violenta repressione delle manifestazioni dell’inizio di quell’anno, dopo l’arresto al-Singace venne tenuto in isolamento per due mesi, durante i quali venne torturato e sottoposto a molestie sessuali. Molti protagonisti della “primavera” del 2011 in carcere sono anziani e in cattive condizioni di salute, spesso a causa delle torture subite dopo l’arresto. Lo stesso al-Singace ha diverse malattie croniche, soffre di sindrome post-polio, anemia, tensione cardiaca e parestesia ai muscoli e agli arti. Di conseguenza, richiede l’uso di stampelle o di una sedia a rotelle. Negli ultimi quattro anni la direzione del carcere di Jaw ha sempre rifiutato di accompagnarlo agli appuntamenti con medici specialisti. Nel 2015 ha portato avanti uno sciopero della fame di 313 giorni per protestare contro le condizioni carcerarie e il trattamento degradante e inumano riservato ai detenuti. L’8 luglio scorso ha intrapreso un nuovo sciopero della fame, tuttora in corso, che intende proseguire fino a quando la direzione del carcere non gli restituirà un libro. Da novembre, di fronte al rifiuto di fargli effettuare videochiamate con la famiglia, rifiuta anche le flebo e va avanti solo a sale, zuccheri e tè.