Nella riforma penale la sfida per riparare il dolore delle vittime di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2022 Entro fine marzo la bozza: incontri con l’autore del reato e mediazioni, già sperimentati in tanti progetti, entreranno nell’ordinamento. Far incontrare l’autore del reato e la sua vittima. Per spiegarsi, con l’aiuto di mediatori penali e facilitatori, riconoscere le motivazioni dell’uno e il dolore dell’altro, fare (o ricevere) delle scuse. E arrivare a dare un senso a quello che è accaduto e, in qualche modo, a superarlo. È la sfida della giustizia riparativa, il modello di risoluzione dei conflitti che tiene in considerazione non solo il reo, ma anche la vittima, i suoi diritti e il suo dolore. Come la ragazzina maltrattata dai compagni che l’accusano di portare sfortuna che incontra uno dei suoi persecutori per riceverne le scuse. O il piromane (condannato) di Sarno, in provincia di Salerno, che, a fine pena, si confronta con sindaco e cittadini. Sono vicende emerse da alcuni dei Progetti finanziati dal Ministero della Giustizia, che da anni lavora per diffondere la cultura della giustizia riparativa: una chance nata nell’ambito della giustizia minorile ma che si sta allargando alla sfera degli adulti, finora utilizzata a macchia di leopardo e in assenza di norme specifiche. Carenze che la ministra della Giustizia Marta Cartabia vuole colmare: la riforma del processo penale (legge 134 del 2021), da lei voluta, delega il Governo a stabilire una “disciplina organica” in linea con la direttiva Ue 2012/29: dalle definizioni all’accesso, che prescinde dal tipo e dalla gravità del reato ed è possibile in ogni fase del procedimento e dell’esecuzione della pena, oltre ai nodi dell’accreditamento e della formazione dei mediatori. I progetti - “La giustizia riparativa non è un’utopia ma nasce dalle esperienze concrete già avvenute in molti Stati”, ha detto Cartabia chiudendo la Conferenza dei ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa, la prima del semestre di presidenza italiana, che s’è tenuta a Venezia lo scorso dicembre ed è stata dedicata proprio alla giustizia riparativa, a prova del fatto che il tema sia una priorità per la ministra. In Italia, le “Linee di indirizzo in materia di giustizia riparativa” elaborate nel 2019 dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, diretto da Gemma Tuccillo, hanno dato una cornice ai programmi di giustizia riparativa, per favorire la loro omogeneità. Nei servizi territoriali (uffici interdistrettuali per l’esecuzione penale esterna e centri per la giustizia minorile) il Dipartimento ha censito 16 progetti finanziati e realizzati nel 2019, 48 nel 2020 e 57 nel 2021. Spesso vengono realizzati nell’ambito della messa alla prova, uno strumento creato per i minorenni ma dal 2014 esteso agli adulti, che permette di estinguere i reati meno gravi (la riforma penale ne amplia il raggio d’azione) effettuando attività gratuite che possono includere la riparazione del danno. Inoltre, il Dipartimento ha finanziato 17 progetti l’anno nel 2019, 2020 e 2021 negli istituti penali per minorenni. Questi percorsi rappresentano comunque solo una parte dell’universo della giustizia riparativa. Ci sono infatti anche quelli organizzati e finanziati da enti locali o fondazioni. Ad esempio, l’ufficio di mediazione penale del Comune di Milano (fra i primi in Italia), nel 2021 ha seguito 43 mediazioni reo-vittima, che hanno coinvolto 131 persone (73 rei e 56 vittime). Le prospettive L’attuazione della riforma penale, a cui sta lavorando un gruppo di esperti nominati dal ministero, punta a mettere a sistema queste esperienze e a redigere una disciplina organica. “È un compito enorme - dice Adolfo Ceretti che coordina il gruppo - perché a differenza degli altri settori partiamo da zero. Tranne che per la definizione di vittima, i principi indicati dalla delega sono programmatici. Faremo delle audizioni sia con chi lavora sul territorio che con soggetti istituzionali”. La bozza di decreto legislativo è attesa entro il 31 marzo. “L’Italia ha elaborato esperienze significative in tema di giustizia riparativa nonostante la mancanza di norme ad hoc perché le disposizioni attuali hanno maglie abbastanza larghe per consentirle - spiega Grazia Mannozzi, componente del gruppo di lavoro -. Ma ora è tempo di stabilire una normativa organica”. Tra i nodi da sciogliere l’istituzione dei centri di giustizia riparativa, l’accreditamento di quelli già esistenti e la formazione dei mediatori, ora senza regole e su cui va trovata una sintesi tra le visioni dei centri di mediazione e delle università. “Serve cautela - osserva Mannozzi - non possiamo perdere la sfida perché i mediatori non saranno formati adeguatamente”. Un altro punto da segnare perché la giustizia riparativa decolli davvero è quello del personale: con la legge di Bilancio è stato approvato un ordine del giorno per rafforzare gli organici degli Uffici esecuzione penale esterna. Ora la sfida è tradurlo in realtà. La denuncia: “In cella detenuti positivi insieme con i sani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 gennaio 2022 Gennarino De Fazio, segretario nazionale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Nella stessa cella detenuti positivi conclamati e detenuti sani”. La diffusione del Covid 19 ha avuto l’ennesima impennata nelle carceri, e in qualche istituto penitenziario avviene che ai detenuti sani, i quali condividono la cella con i positivi al virus, è consentito di sottoscrivere una dichiarazione con la quale si solleva l’Amministrazione penitenziaria e gli altri Enti da ogni responsabilità in caso di contagio. Di conseguenza, si consente quindi ai detenuti positivi di violare, di fatto, la quarantena. A lanciare l’allarme è Gennarino De Fazio, segretario nazionale della Uilpa Polizia Penitenziaria, il quale commenta anche l’esponenziale aumento dei casi di positività nelle carceri. Alle ore 20.00 di giovedì, il numero dei contagi dei detenuti si attesta a 1.982 e quello degli operatori a 1.614. Il numero dei reclusi affetti da Sars-CoV-2 fa dunque segnare un balzo in avanti di ulteriori 450 unità in soli tre giorni. “Peraltro - commenta De Fazio - continuiamo a pensare che il dato sia approssimato per difetto, atteso che si registrano ancora disallineamenti fra i numeri comunicati dalle articolazioni territoriali dell’Amministrazione penitenziaria e quelli rassegnati a livello centrale. Così come, almeno per gli operatori, crediamo che non sia realistico il conteggio dei sintomatici, atteso che spesso o quasi sempre non vengono fatti tracciamenti in tal senso”. Fra i detenuti, quindi, sono in atto focolai di vastissime proporzioni. Ben 160 casi al carcere di Torino, 113 a Milano Opera (dove il virus, per l’ennesima volta ha varcato la soglia del 41 bis), 121 a Napoli Poggioreale, 111 a Prato e 103 a Firenze Sollicciano. Questo solo a voler citare gli istituti penitenziari dove si superano i 100 ed escludendo Milano Bollate (107), dov’è presente un reparto che accoglie positivi provenienti da altre carceri. Il sindacalista, ricorda la penuria delle mascherine ffp2, la cui ‘ prima’ dotazione di 6.000 pezzi è avvenuta solo il 10 gennaio scorso. “Riteniamo, o non ancora distribuita oppure esaurita nel giro di qualche ora”, aggiunge sempre De Fazio. Ma il sindacalista non si ferma qui. “Non solo - rincara il segretario generale della Uilpa - ma ci viene riferito che in qualche istituto penitenziario si allocherebbero nella stessa cella detenuti positivi conclamati e detenuti sani, chiedendo a questi ultimi di sottoscrivere una dichiarazione con la quale si solleva l’Amministrazione penitenziaria e gli altri Enti da ogni responsabilità in caso di contagio. Di fronte a tutto ciò, Ponzio Pilato impallidirebbe!”. Infine De Fazio, rilancia: “Per il senso di responsabilità che ci pervade, rinnoviamo di nuovo l’appello al governo, alla ministra della Giustizia Cartabia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria affinché venga reso obbligatorio l’utilizzo delle mascherine FFP2, prevedendone un reale e non barzellettistico approvvigionamento, e venga aggiornato il protocollo di sicurezza sanitario dell’ottobre 2020, ormai insufficiente”. Dossier giustizia da riaprire di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 gennaio 2022 Tra il Consiglio di Stato e il Consiglio superiore della magistratura è in atto una sfida che mette in chiaro l’intreccio di questioni che si è creato negli ultimi anni. La sfida in atto tra il Consiglio di Stato e il Consiglio superiore della magistratura può aiutare a mettere in chiaro, per chi volesse vederlo, l’intreccio di questioni che hanno avvelenato il sistema della giustizia negli ultimi tre anni. Con cadenze e modalità quantomeno sospette, i giudici amministrativi di secondo grado hanno annullato le più importanti nomine fatte dall’organo di autogoverno delle toghe, che dalla primavera 2019 si barcamena tra scandali, dimissioni e tentativi non riusciti di riacquistare credibilità. Per responsabilità proprie e di chi, dall’esterno, vorrebbe approfittare della crisi per rimodellare a proprio piacimento l’autonomia e l’indipendenza dei giudici. Che il primo presidente e il presidente aggiunto della Corte di Cassazione, Pietro Curzio e Margherita Cassano, fossero i candidati migliori l’ha deciso il Csm e l’ha confermato il Tar. Dopodiché un sinedrio di cui fanno parte un presidente che ha fatto avanti e indietro tra governo e Consiglio di Stato (a proposito di “porte girevoli” tra politica e magistratura, anche amministrativa però) e un relatore nominato da una commissione di cui faceva parte il candidato vincitore del ricorso, ha deciso che non era così. Ora il Csm riproporrà gli stessi nomi, cercando di motivarli in modo da non incorrere in una nuova bocciatura; ma soprattutto in un altro schiaffo da parte del Consiglio di Stato che ha già determinato la scelta del procuratore di Roma. Non è la prima volta che il giudice più alto in grado viene individuato dai giudici amministrativi; già nel 2007 il primo presidente Vincenzo Carbone fu nominato dopo un ricorso vinto al Consiglio di Stato, ma all’epoca non c’era il clima avvelenato di oggi, né la crisi profonda dell’organo di autogoverno e delle correnti che lo compongono, figlia del cosiddetto “caso Palamara”. Una vicenda che non s’è chiusa con la radiazione dell’ex magistrato dall’ordine giudiziario, nella quale non c’entrano tanto il correntismo e il “mercato delle nomine”, quanto gli interessi privati di toghe e politici (a partire dallo stesso Palamara che aveva disegnato la propria carriera sulla base di quelle manovre) impegnati a pilotare le designazioni ai vertici di alcune Procure. Lo svelamento delle trame esterne al Csm ha aperto una falla da cui la nave della giustizia continua a imbarcare acqua, col rischio di affondare, al di là di denunce e strumentalizzazioni innescate dalla controffensiva di Palamara e dalle sue iniziative politico-editoriali non ancora concluse: dopo il best seller sul “Sistema” si attende il sequel su “lobby e logge” in uscita tra qualche settimana. Il problema è che sia la magistratura che la politica non sono state in grado di trovare le risposte adatte a chiudere o almeno tamponare la falla. In primo luogo il Csm e le correnti che lo abitano, evidentemente incapaci di motivare le proprie scelte in maniera tale da sottrarle alle censure della giustizia amministrativa, a voler prendere per buone le voci di sconfinamento che circolano a palazzo dei Marescialli, sede dell’autogoverno; a meno che non abbia ragione il Consiglio di Stato, e allora la crisi sarebbe ancora peggiore. Ma nemmeno la politica che da tre anni denuncia la degenerazione ha saputo trovare i rimedi per porvi fine. C’è chi se la prende con Sergio Mattarella per non aver sciolto nel 2019 il Csm che presiede, dimenticando ciò che il Quirinale ha chiarito subito e ribadito a maggio 2020: “Il Presidente della Repubblica si muove, e deve muoversi, nell’ambito dei compiti e secondo le regole previste dalla Costituzione e dalla legge, e non può sciogliere il Csm in base a una propria valutazione discrezionale”. Siccome il Consiglio in cui sono stati di volta in volta rimpiazzati i componenti dimissionari ha continuato a funzionare regolarmente, non c’era motivo di chiuderne anticipatamente i battenti, ma semmai di approvare riforme in grado di eleggerne un altro (il prossimo) che non portasse con sé le stesse storture; a cominciare dal sistema elettorale. Come ha ricordato lo stesso capo dello Stato: “Se i partiti politici e i gruppi parlamentari sono favorevoli a un Csm formato in base a criteri nuovi e diversi, è necessario che predispongano e approvino in Parlamento una legge che lo preveda, compito affidato dalla Costituzione al governo e al Parlamento. Governo e gruppi parlamentari hanno annunziato iniziative in tal senso e il presidente della Repubblica auspica che si approdi in tempi brevi a una nuova normativa”. Da questo promemoria sono trascorsi quasi due anni, senza che nulla accadesse. La ministra Marta Cartabia ha predisposto ormai un mese fa una proposta di riforma illustrata ai partiti di maggioranza ma bloccata a palazzo Chigi, evidentemente nel timore che una discussione in seno al governo e poi in Parlamento faccia emergere divisioni e alimenti scontri che si preferiscono evitare. Tanto più alla vigilia della partita per il nuovo inquilino del Quirinale, che porta con sé quella per la sopravvivenza del governo. Ma i problemi vanno affrontati per impedire che la nave affondi. Soprattutto se continua a imbarcare acqua, come dimostra la sfida tra Csm e Consiglio di Stato. Cassazione decapitata, il Csm punta di nuovo su Curzio e Cassano di Davide Varì Il Dubbio, 17 gennaio 2022 La sentenza del Consiglio di Stato non scalfisce il Csm che oggi pomeriggio voterà di nuovo per Pietro Curzio e Margherita Cassano. Ma il clima è teso. Corsa contro il tempo, per il Consiglio superiore della magistratura, alla ricerca di una via d’uscita “onorevole” dopo l’annullamento delle nomine dei vertici della Cassazione. Si riunirà infatti oggi nel primo pomeriggio in presenza, la Quinta commissione del Csm che si occupa di incarichi direttivi, per trovare una soluzione dopo la dichiarazione di illegittimità - che di fatto ha “decapitato” il Palazzaccio - delle delibere di palazzo dei Marescialli che nel luglio 2019 aveva nominato Pietro Curzio come Primo presidente della Suprema Corte, e Margherita Cassano come sua “vice”, vetta mai prima raggiunta da una donna magistrato. L’obiettivo dei consiglieri, che anche ieri si sono riuniti da remoto in via del tutto straordinaria, è quello di indicare una strada da seguire al plenum del Csm fissato per mercoledì 19 gennaio. Solo due giorni prima della solenne cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario che si svolgerà come di consueto, anche se in modo molto “snello” per la pandemia, proprio in Cassazione alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Non è ancora chiaro, né è stato deciso, in quale modo la Quinta Commissione - presieduta da Antonio D’Amato, sei componenti in tutto - intenda superare questa situazione che genera imbarazzo istituzionale. E continua a inasprire i rapporti tra l’organo di autogoverno dei giudici e il Consiglio di Stato che dopo aver bocciato la nomina di Michele Prestipino a capo della Procura di Roma, adesso ha falciato gli incarichi del gotha della magistratura italiana. C’è chi parla di sgarbo istituzionale, per il tempismo del deposito dei verdetti di Palazzo Spada, così a ridosso della “kermesse” dell’anno giudiziario. Altri puntano il dito contro quella che è ritenuta una invasione di campo da parte dei magistrati amministrativi di Palazzo Spada, che a breve sarà guidato da Franco Frattini, appena eletto all’unanimità. A quanto si è appreso, pare certo che non verrà proposta al plenum la strada di prendere tempo purchessia presentando un inutile ricorso alle Sezioni Unite della Cassazione, competenti solo per difetto di giurisdizione, contro le due decisioni del Consiglio di Stato che due giorni fa, venerdì, hanno azzerato le nomine di Curzio e Cassano in seguito al ricorso del presidente della Terza sezione civile della Suprema Corte, Angelo Spirito, che sostiene di avere più titoli e anzianità. Più percorribile appare l’ipotesi che la Commissione chieda al plenum di procedere di nuovo alla nomina di Curzio e Cassano, rimettendoli così con “pienezza” nel loro ruolo davanti al Capo dello Stato alla cerimonia solenne di venerdì 21 gennaio. Ma c’è anche l’opinione di “minoranza” di chi condivide questa scelta, ma ritiene che non c’è bisogno di correre così a scapicollo. Poi dovranno essere scritte e ben motivate le due relative delibere di “rinomina” per superare le obiezioni sollevate dal Consiglio di Stato. Naturalmente anche in questo caso, potranno essere nuovamente contestate e impugnate dal presidente Spirito. Intanto passa il tempo e tra una delibera e un annullamento, i diretti interessati potrebbero anche andare in pensione - qualcuno non è lontano dal compiere i fatidici 70 anni - e non avere più alcun titolo per protrarre questa querelle. Un grido di allarme arriva dai penalisti italiani che definiscono la crisi “ormai rovinosa” e chiedono al Governo ed al Parlamento “una drastica, radicale, rivoluzionante riforma della quale ha bisogno la Magistratura stessa, e l’intero Paese”. Al Csm verso la riconferma di Curzio e Cassano, ma Unicost si mette di traverso di Giuliano Foschini e Liana Milella La Repubblica, 17 gennaio 2022 Dopo la bocciatura del Consiglio di Stato, corsa contro il tempo per un nuovo voto prima dell’apertura dell’anno giudiziario di venerdì davanti a Mattarella. Il sindacato dei consiglieri di Stato nega il conflitto d’interesse del giudice estensore. Il presidente del Cds Patroni Griffi non fu avvisato della sentenza, all’oscuro anche il Quirinale. Una corsa contro il tempo. Che però non è ancora detto vada a buon fine. Anche se al Csm l’intenzione di “quasi” tutti è quella di procedere subito alla riconferma del primo presidente della Cassazione Pietro Curzio e della sua vice Margherita Cassano. Entrambi bocciati da due sentenze del Consiglio di Stato che venerdì sono piovute a sorpresa sul tavolo degli interessati e del Csm. Tanto a sorpresa che perfino il Quirinale lo ha appreso dalle agenzie. E non ne era al corrente il presidente del Cds Filippo Patroni Griffi, scelto dai colleghi come prossimo giudice costituzionale e in procinto di lasciare il testimone all’ex ministro berlusconiano Franco Frattini. L’estrema rilevanza delle due sentenze - che lasciano acefalo il vertice della magistratura italiana proprio alla vigilia della tradizionale cerimonia di apertura dell’anno giudiziario - avrebbe certamente giustificato - se non altro per ragioni di pura cortesia istituzionale - che il Colle ne fosse al corrente. Tanto più che proprio la votazione per Curzio, a luglio del 2020, era avvenuta nelle sale del Quirinale alla presenza di Mattarella. Ma tant’è. Lo sgarbo ormai è alle spalle. Come la singolare coincidenza di un giudice, materiale estensore della sentenza - parliamo di Alberto Urso - che passò il concorso per entrare a palazzo Spada davanti a una commissione di cui faceva parte anche Angelo Spirito, l’alto magistrato della Cassazione, a cui manca un anno e mezzo alla pensione, che ha contestato come illegittime entrambe le promozioni del Csm, ritenendo di avere titolo e carriera ben più meritevoli. E il Cds gli ha dato ragione. Come vedremo l’Amcs, l’associazione sindacale dei consiglieri di Stato, per bocca della sua presidente Rosanna De Nictolis, lo difende e nega che si possa parlare di un conflitto d’interesse e ugualmente della necessità di una sua astensione. Ma vediamo innanzitutto che cosa succede al Csm. Da 48 ore ormai l’esigenza primaria - pienamente condivisa anche dal vice presidente David Ermini - è quella di sanare il vulnus aperto dal Cds. La bocciatura di Curzio e Cassano che, decisa a pochi giorni dalla cerimonia dell’anno giudiziario, assume un significato “politico” che va ben oltre i due singoli casi. Venerdì 21 gennaio, nell’aula magna della Suprema Corte, con rigide misure anti Covid come già avvenne l’anno scorso, non parleranno solo Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi, ma anche il vice presidente del Csm Ermini. Davanti al capo dello Stato Mattarella alla sua ultima cerimonia ufficiale. Ma il pensiero di tutti sarà per un presidente della Corte “dimezzato”, “in bilico”, che potrebbe fare la fine di Michele Prestipino, il procuratore di Roma su cui il Csm ha dovuto a malincuore accettare il verdetto del Cds. Proprio per evitare tutto questo al Csm stanno febbrilmente cercando di riconfermare Curzio e Cassano prima di venerdì. Ma nella quinta commissione, che decide gli incarichi direttivi, la strada è tutta in salita. Sono d’accordo il presidente di Magistratura indipendente Antonio D’Amato, il laico indicato da M5S Fulvio Gigliotti e Alessio Lanzi da Forza Italia, la togata Alessandra Dal Moro di Area, invece non è convinto Sebastiano Ardita, che fa coppia con Nino Di Matteo. Ma l’ostilità maggiore arriva da Michele Ciambellini, toga napoletana di Unicost. Come di Unicost, e di napoli, è anche Angelo Spirito. Nella lunga domenica di riunioni via video, Ciambellini, pur esprimendo la consapevolezza della delicata situazione istituzionale che si è creata, tuttavia ha insistito sulla sua contrarietà rispetto ai tempi così stringati della riconferma. Insomma, sarebbe stato il suo ragionamento, se è stato necessario impiegare un anno per risolvere il caso della procura di Roma e alla fine optare per un nuovo procuratore, il palermitano Franco Lo Voi al posto di Michele Prestipino, suona improbabile confermare Curzio e Cassano in pochi giorni. Non solo, dopo due sentenze così nette e pesanti, secondo Ciambellini, sarebbe più che giusto nutrire delle perplessità, e comunque essere obbligati a motivare in modo incontestabile la riconferma. La coppia Curzio-Cassano, del resto, è inseparabile. Perché su questo ha posto un aut aut il presidente Antonio D’Amato, toga napoletana di Magistratura indipendente, favorevole all’immediata nuova nomina, ma solo a patto che vengano votati assieme sia Curzio che Cassano. La riunione decisiva sarà quella di oggi pomeriggio per consentire il voto nei plenum di mercoledì o al massimo giovedì. Va da sé che siamo col fiato sul collo. In una situazione del tutto singolare, in cui è aperto il giallo dei tempi e del perché le due sentenze siano state diffuse proprio a sette giorni esatti dall’inaugurazione. Ci vorrà tempo per chiarire il caso, che inasprisce i rapporti, già tesi, tra Csm e Cds. Un Cds che fa quadrato sul giudice estensore della sentenza, Alberto Urso. Conflitto d’interessi per via di Angelo Spirito? Neanche a parlare. Rosanna De Nictolis, quando parla con Repubblica a nome dell’Associazione fra i magistrati del Consiglio di Stato, Amcs appunto, l’omologo dell’Anm per i giudici amministrativi, è nettissima: “Non c’è stato nessun conflitto di interessi. Nessun obbligo di astensione e nessuna grave ragione di convenienza per astenersi, nemmeno facoltativamente. Chi vince un concorso non ha nessun debito di riconoscenza, né nessuna aspettativa nei confronti di chi lo ha giudicato in un concorso pubblico per esami, con scritti anonimi e orale a porte aperte davanti a 5 commissari e al pubblico in sala. Inoltre, la sentenza è collegiale e non il parto del solo relatore-estensore. Le sentenze possono piacere o non piacere, ma non ci si può ridurre ad attacchi frettolosi e ingiustificati a un singolo giudice, che finiscono con il delegittimare l’intera Istituzione”. Resta la coincidenza, se la si può definire tale. Come ha scritto Repubblica ieri, con documenti alla mano, nel 2017 viene costituita a palazzo Chigi la commissione che valuterà i concorrenti per un posto di giudice al Cds. Tra gli esaminatori c’è Angelo Spirito. Un anno e mezzo dopo il sottosegretario Giancarlo Giorgetti firma i risultati. Alberto Urso risulta al primo posto. “Un bravo collega” secondo De Nictolis che non aveva alcun motivo per astenersi. De Nictolis dice di più, “da presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia io avrei respinto una richiesta di astensione di questo tipo”. Tant’è. La coincidenza resta. E colpisce soprattutto quando, per i magistrati ordinari, si fa sempre più insistente la pressione sui possibili conflitti d’interesse, al punto che la prossima legge sul Csm sarà molto rigida sul fronte dell’ingresso in politica e sul successivo rientro in toga. Così come è pressante la richiesta di nuove e più stringenti regole per i fuori ruolo. Coincidenze che toccano anche un presidente del collegio come Luciano Barra Caracciolo, più volte all’attenzione della stampa per le sue posizioni fortemente euro scettiche, da buon seguace dell’attuale presidente della Consob Paolo Savona che, da ministro per gli Affari europei nel 2018, lo aveva scelto come sottosegretario. E in questi giorni, tornato alla ribalta come presidente del collegio che ha bocciato Curzio e Cassano, ecco girare con insistenza su mail e whatsapp un articolo del Sole 24 ore del 13 giugno 2018 dal seguente titolo: “Il neo-sottosegretario Luciano Barra Caracciolo e quella bandiera Ue con la svastica” Cassazione cassata per poca prudenza di Piercamillo Davigo Il Fatto Quotidiano, 17 gennaio 2022 La sentenza del Consiglio di Stato che ha bocciato i due nuovi presidenti della Corte designati dal Csm è figlia di troppi sconfinamenti intrecciati. E dell’abbandono di una virtù cardinale. Il Consiglio Superiore della Magistratura è previsto dalla Costituzione come organo di governo autonomo dell’ordine giudiziario per la magistratura ordinaria. Hanno altri organi di governo autonomo la magistratura amministrativa (TAR e Consiglio di Stato), quella contabile (Corte dei conti), quella militare e quella tributaria. Il CSM ha al suo interno una Sezione disciplinare che pronuncia sentenze ricorribili innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte Suprema di cassazione, mentre per le altre magistrature (tranne quella militare) le sanzioni disciplinari sono inflitte con atti amministrativi. Tutti i provvedimenti del CSM (diversi dalle sanzioni disciplinari) sono adottati con atti amministrativi, come tali ricorribili al giudice amministrativo: in primo grado Tribunale amministrativo regionale ed in appello Consiglio di Stato. Le sentenze del Consiglio di Stato sono ricorribili innanzi alle Sezioni Unite civili della Corte suprema di cassazione solo per motivi di giurisdizione (come quelle della Corte dei conti). Nei motivi di ricorso per giurisdizione rientra anche quello che viene chiamato “eccesso di giurisdizione” così riassunto dalle Sezioni Unite nella sentenza 3978:5 del 23.11.2021 depositata il 14 dicembre 2021 ricorrente Prestipino Giarritta Michele: “Fuor di dubbio è che le decisioni del giudice amministrativo siano sindacabili per motivi inerenti alla giurisdizione quando detto giudice sconfini nella sfera del merito riservato all’amministrazione, anche quando la decisione finale pur sempre esprima la volontà del giudice di sostituirsi a questa, pur nel rispetto della formula dell’annullamento (tra le ultime, Cass., sez. un., 3 novembre 2021, n. 31311). E questo principio acquista particolare pregnanza proprio con riguardo al Consiglio superiore della magistratura, il quale, in ragione delle proprie competenze di rilievo costituzionale, gode di un tasso di discrezionalità particolarmente elevato”. In tale sentenza le Sezioni Unite hanno peraltro escluso che fosse presente tale sconfinamento. La questione da un lato è potenzialmente idonea a ledere le “competenze di rilievo costituzionale” del CSM (se si riduce il concetto di sconfinamento) e dall’altro può incidere sulla tutela giurisdizionale affidata al giudice amministrativo (se il concetto di sconfinamento viene ampliato). La giurisprudenza delle Sezioni Unite sul punto presenta qualche oscillazione che non è qui possibile approfondire. Il recente caso in cui due sentenze del Consiglio di Stato hanno annullato la nomina del Primo Presidente e del Presidente aggiunto della Corte Suprema di cassazione (Consiglio di Stato, Sez. V, 14.1.2022 n. 267 e n. 268) potrebbe essere l’occasione per una pronunzia che tracci in modo chiaro i confini della giurisdizione amministrativa, anche se l’eventuale decisione, investendo i vertici della Corte, sarà accompagnata da polemiche. Un recente articolo (15 gennaio 2022) apparso su “Giustizia Insieme” (online) a firma della Redazione ha rilevato in ordine alle due citate sentenze del Consiglio di Stato: “È pacifico che si tratti di candidati eccellenti e che vi sia stata effettiva comparazione dei rispettivi curricula ai fini della nomina. È pacifico che non vi siano state violazioni dei criteri di nomina così come predefiniti nel T.U. sulla dirigenza giudiziaria (…), nel senso che è pacifico che il CSM abbia deciso in base a questi e non altri criteri”. Nel caso della nomina del Presidente, il Consiglio di Stato ha tuttavia ritenuto insufficientemente motivati i giudizi di prevalenza in quanto privi di “spiegazione concreta e circostanziata” laddove hanno ritenuto sostanzialmente equivalenti esperienze consistentemente diverse (funzioni di legittimità); ovvero privi di ragionevole e compiuta spiegazione dell’esito valutativo perché “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alle conclusioni raggiunte dal Csm: seppure il dato quantitativo-temporale sul possesso degli indicatori specifici non ha infatti valore assorbente e insuperabile, né implica di per sé alcun automatismo sull’esito valutativo, occorre nondimeno una motivazione ragionevole e adeguata per poter giustificare una conclusione difforme dalle (univoche) emergenze dei dati oggettivi” (partecipazione alle Sezioni Unite); o ancora formulati “al di là della opinabilità, e cioè del fisiologico esercizio della discrezionalità spettante all’amministrazione nel quadro degli indicatori previsti dal Testo unico” nel momento in cui si è ritenuto che una determinata sezione (la Sesta Civile) rivestisse un ruolo essenziale e strategico quale Sezione filtro perché tale valutazione sarebbe avvenuta “in assenza di criteri (predeterminati) in tal senso nell’ambito del Testo unico” e conduce evidentemente “ben oltre la discrezionalità valutativa nell’apprezzamento dell’uno o dell’altro profilo curriculare” (ufficio spoglio). Nel caso della nomina del Presidente aggiunto, il Consiglio di Stato ritiene del pari che “l’oggettiva consistenza dei dati curriculari nei termini suindicati avrebbe richiesto una (ben diversa e) più adeguata motivazione in ordine alla conclusione di ritenuta equivalenza dei profili dei candidati, conclusione che non risulta invece allo stato esplicabile né ragionevolmente intellegibile alla luce dello scarno passaggio motivazionale speso dal Csm al riguardo. Tanto in più in un caso, quale quello in esame, in cui l’importanza del posto a concorso, gli eccellenti profili dei candidati in competizione e la indiscutibile rilevanza dei loro curricula impongono - oltre all’attenta, accurata e completa ricognizione di tutti gli aspetti della rispettiva carriera, anche attraverso la opportuna comparazione - un particolare obbligo di motivazione, puntuale ed analitico, tale da far emergere in modo quanto più preciso ed esauriente le ragioni della prevalenza di un candidato sull’altro”. Sembra così rimanere poco più che una clausola di stile il riconoscimento al CSM della “esclusiva attribuzione del merito delle valutazioni, su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale”, a dispetto del fatto che in presenza di situazioni di eccellenza il giudizio diventa inevitabilmente sottile e raffinato e veramente difficile da sindacare. E diventa altresì difficile comprendere quali sarebbero i margini entro i quali potrebbe muoversi la valutazione di merito, se tutto deve essere necessariamente predeterminato in maniera assolutamente vincolante. Pronunce siffatte rendono evidente l’anomalia di un sistema che concentra nel giudice amministrativo il sindacato sulle nomine agli uffici di pressoché tutte le magistrature nazionali e che, nel momento in cui include anche le proprie (della magistratura amministrativa) e quelle degli organi chiamati a sindacare le sentenze stesse del Consiglio di Stato (Cassazione), appare di dubbia costituzionalità (cfr. Corte cost. 168/1963). Come si vede la materia può diventare esplosiva innescando scontri istituzionali. Peraltro non bisogna dimenticare che il Consiglio Superiore della Magistratura si è dotato di un Testo unico sulla dirigenza (nonostante il nome altisonante è una circolare) che in taluni punti consente letture opposte e che era stato oggetto di una proposta di modifica che le vicende che hanno colpito il CSM ha impedito di attuare. A ciò si sono aggiunte, specie nella precedente consiliatura (che effettuò circa mille nomine di direttivi e semidirettivi per il repentino abbassamento dell’età pensionabile con il pensionamento anticipato di circa 500 magistrati, quasi tutti direttivi o semidirettivi, e il trattenimento in servizio di 18), nomine che non sempre hanno convinto. È perciò opportuno che tutti gli organi coinvolti nella questione (Consiglio di Stato, Corte Suprema di cassazione e Consiglio Superiore della Magistratura) facciano uso di una virtù cardinale talvolta dimenticata: la prudenza. Ustica, il fascino delle fake news è ancora un ostacolo per la giustizia di Alfredo Roma Il Domani, 17 gennaio 2022 Sulla tragedia di Ustica, in cui morirono 81 persone per l’abbattimento del DC9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, sono usciti recentemente due libri controcorrente: “Ustica, un’ingiustizia civile” e “Ustica, i fatti e le fake news”. Per i media la tesi del missile era molto più affascinante perché coinvolgeva aerei della portaerei USA Saratoga in rada a Napoli, aerei francesi, libici e italiani, il possibile passaggio nei cieli di Ustica di Gheddafi. Questa ricostruzione, su cui si basano anche i risarcimenti alle famiglie delle vittime, è completamente smentita dalla sentenza penale. Ma ha impedito di indagare meglio la pista di una bomba e di avere una idea più obiettiva di quella strage. Sulla tragedia di Ustica del 27 giugno 1980, in cui morirono 81 persone per l’abbattimento del DC9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, sono usciti recentemente due libri controcorrente che, con dovizia di particolari, vogliono dimostrare che la tesi del missile era una strada sbagliata, come risulta anche dalle sentenze finali penali che hanno smentito l’ipotesi della battaglia aerea nascosta dai militari. Il primo libro è quello scritto da Leonardo Tricarico e Gregory Alegi dal titolo Ustica, un’ingiustizia civile. L’altro è Ustica, i fatti e le fake news, di Franco Bonazzi e Francesco Farinelli. Entrambi i libri partono dalla sentenza della Corte di Appello di Roma del 2006, poi confermata dalla Cassazione, che assolve con formula piena i vertici dell’Aeronautica militare dall’accusa di alto tradimento, perché “il fatto non sussiste”. Ma la sentenza, basata sulle perizie d’ufficio da parte dei maggiori esperti internazionali, smonta soprattutto la tesi del missile perseguita dalla lunga fase istruttoria del giudice istruttore Rosario Priore del tribunale di Roma. Quella fase si concluse nel 1999 con una ordinanza che non condannava nessuno ma rinviava a giudizio i vertici dell’Aeronautica per alto tradimento e altri reati minori. La sentenza d’appello, soprattutto, fissa alcuni punti importanti per una visione obiettiva dei fatti. Innanzitutto afferma che vi era un “difetto assoluto di prova e che non si poteva condannare solo sulla base di ipotesi perché questo sarebbe la fine della democrazia e della libertà”. Dice che “nell’ora e nel luogo del disastro non vi erano velivoli di alcun genere e che le ipotesi dell’accusa potevano far parte di un libro di spionaggio ma non un argomento degno di una pronuncia giudiziale. Tutto il resto è fantapolitica….”. Infine: “tutto il resto è frutto della stampa che si è sbizzarrita a trovare scenari di guerra fino a cercare un (falso) collegamento con la caduta di un Mig libico avvenuta in data successiva”. In sostanza la sentenza afferma che non c’è stata né battaglia aerea né missile. Non si parla di bomba, che però una volta escluso il missile resta la causa più probabile. Questo è, se ancora abbiamo fiducia nella nostra magistratura. Perché allora la fase istruttoria e i media si fissarono sulla tesi del missile? Per i media la tesi del missile era molto più affascinante perché coinvolgeva aerei della portaerei Usa Saratoga in rada a Napoli, aerei francesi partiti dalla Corsica o dalle portaerei Clemanceau e Foch, aerei libici e italiani, il possibile passaggio nei cieli di Ustica di Gheddafi che volava a Varsavia per la firma di un importante accordo e quindi possibile obiettivo di francesi e americani. Furono poi aggiunte dai media le morti sospette di addetti al controllo radar e dei piloti Naldini e Nutarelli in volo quella sera su un F-104 biposto. Passati in seguito alla pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori, durante un’esibizione a Ramstein Naldini e Nutarelli si scontrarono in volo provocando la morte di 70 persone. Qualcuno sostenne che l’incidente avvenne pochi giorni prima che i due piloti fossero interrogati dal giudice Priore, ma in realtà l’incidente è del 1988 e Priore iniziò a occuparsi del caso nel 1989. Una interpretazione avventurosa di tre punti radar intorno al DC-9 portò Priore e alcuni periti civili a vedervi la prova della battaglia aerea, in cui il Mig aveva volato sotto il DC-9 per non essere visto dai radar e che un missile (francese, secondo il Presidente Cossiga) avesse colpito per errore il DC9 anziché il Mig. Infatti su questa narrazione furono scritti infiniti articoli di giornale, alcuni libri, fu prodotto il film Il muro di Gomma, fu prodotto lo spettacolo di Marco Paolini e Daniele del Giudice, si è sviluppata l’inchiesta di Andrea Purgatori su La 7, riproposta anche di recente, sempre partendo dall’accusa e ignorando le sentenze penali assolutorie. A questo punto occorre chiedersi a chi giovava la tesi del missile rispetto a quella della bomba a bordo, essendo apparsa subito insostenibile l’ipotesi del cedimento strutturale. La tesi del missile implicava la responsabilità dello Stato che non aveva difeso i cieli italiani da aerei stranieri, quindi lo Stato doveva pagare un indennizzo ai parenti delle vittime. Se l’aereo fosse caduto a causa di una bomba bisognava trovare i responsabili, quasi certamente incapaci di pagare indennizzi ai parenti. Alcuni anni dopo il disastro si formò la “Associazione dei Parenti delle Vittime della Strage di Ustica”. Daria Bonfietti è da sempre la presidente dell’associazione; grazie ai Democratici di sinistra fu eletta senatrice e da quella posizione svolse un’azione politica per appoggiare le tesi del giudice Priore in nome della “verità”. Tutto questo, però, finì per bloccare le indagini sulla bomba che, secondo le conclusioni delle sentenze penali e i numerosi dati che si trovano nei due libri citati sopra, poteva essere la più probabile. Non dimentichiamo che dopo poco più di un mese, il 2 agosto 1980, una bomba provocò la strage alla stazione di Bologna, per la quale furono trovati i responsabili grazie all’inchiesta della magistratura. Sulla vicenda di Ustica vi è ancora una parte legata al segreto di Stato. Il libro di Tricarico e Alegi ricorda il “Lodo Moro”, un accordo con i Palestinesi raggiunto dopo la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973 ma non rispettato dall’Italia. Fu questo a far scattare la vendetta con l’abbattimento del DC9? Ancora prima della sentenza penale definitiva del 2006, nel 2003, in sede civile, fu emessa da un giudice onorario aggregato (sic) una prima. sentenza risarcitoria. Recentemente, un altro giudice onorario ha emesso una sentenza che obbliga lo Stato italiano a pagare altri 300 milioni di euro ai parenti delle vittime e agli eredi della famiglia Davanzali, nel 1980 proprietaria dell’Itavia. Entrambe le sentenze risarcitorie ignorano quella penale. La vicenda di Ustica ha pesato fortemente sull’immagine dell’Aeronautica militare italiana, un peso che neppure la sentenza di assoluzione riesce ad alleggerire. E questo appare ingiusto se consideriamo che dalla fine della seconda guerra mondiale l’Aeronautica militare italiana ha svolto con grande professionalità missioni internazionali, con la Nato o con altri paesi alleati, a cominciare dal coordinamento delle forze aeree in campo durante la guerra del Kosovo. Purtroppo l’indifferenza mostrata verso la sentenza definitiva di assoluzione impedisce ai media di rivedere la tragedia di Ustica su una base meno affascinante ma forse più obiettiva. Frosinone. Detenuto morto dopo giorni di sofferenze, spunta il giallo delle date corrette di Marina Mingarelli Il Messaggero, 17 gennaio 2022 L’inchiesta sul decesso di Davide Pacifici, 43 anni: la Procura ha chiesto l’archiviazione, la famiglia si oppone. Prima l’affanno, poi le gambe che si gonfiavano di giorno in giorno diventando sempre più livide, infine il sangue dalla bocca. Chiese più volte di essere portato in ospedale ma niente. A nulla valsero nemmeno le richieste disperate della madre di ricoverare il figlio. Ci volle più di una settimana per capire che la situazione era grave, ma quando venne portato finalmente al Pronto soccorso era troppo tardi. È morto così Davide Pacifici, 43 anni, detenuto nel carcere di Frosinone. Sul decesso, avvenuto due anni fa, è stata aperta un’inchiesta, ma la Procura ora ha chiesto l’archiviazione per i medici dell’istituto penitenziario. I familiari però si sono opposti alla chiusura del caso e pongono seri dubbi sulle date riportate nel diario clinico che racconta il calvario di Davide. I primi disturbi respiratori - È il dicembre 2020. Davide, che era finito in carcere per scontare una pena per stalking, comincia ad avere alcuni disturbi respiratori, ma lì per lì non si preoccupa più di tanto perché soffriva di dispnea. La situazione però, con il passare dei giorni, peggiora. Siamo al 16 dicembre. Le gambe si sono gonfiate come palloni e sono piene di lividi. Davide a quel punto chiede di essere visitato. Il medico del carcere, sospettando una flebite, consiglia un ecodoppler. Si scoprirà in seguito che questo esame non sarebbe mai stato eseguito. Davide, sempre più stanco e debilitato, scrive una lettera ai genitori: “Sto molto male, ho bisogno di cure urgenti”. Ma si sente rispondere che i medici lo avevano già visitato. Nei giorni successivi l’uomo comincia anche a tossire sangue. Gli viene prescritta una gastroscopia, ma anche questo esame non sarebbe stato mai effettuato. Il decesso il giorno della Vigilia di Natale - Il 22 dicembre la situazione precipita e quando i genitori riescono ad incontrarlo in carcere, l’uomo li supplica di aiutarlo perché sta troppo male, ha le gambe tumefatte e il respiro affannoso. La madre disperata si rivolge ai sanitari della casa circondariale affinché facciano ricoverare il figlio. Ma la donna viene rassicurata: il detenuto, le dicono, viene monitorato da sette medici della struttura. Alla fine, è il 24 dicembre, Davide viene portato in ospedale, ma poco dopo il ricovero il suo cuore cessa di battere. La Procura ha chiesto l’archiviazione - I familiari presentano una denuncia alla procura che avvia le indagini. L’autopsia dirà che Davide è morto per un arresto cardiocircolatorio. Secondo i magistrati non ci sono gli elementi per incolpare i medici e ora è stata chiesta l’archiviazione. Ma l’avvocato Giuseppe Lo Vecchio, che rappresenta i familiari del deceduto, ha presentato opposizione. L’udienza preliminare è stata fissata per maggio. I dubbi sulle date corrette - Gli aspetti su cui i legali della famiglia di Davide chiedono ulteriori accertamenti sono le date riportate nel diario clinico, fondamentali per ricostruire l’operato dei medici del carcere. Una grafologa avrebbe evidenziato troppe correzioni difficilmente compatibili con un errore materiale. A questo da aggiungere che il medico-legale Costantino Ciallella, consulente di parte, nella sua perizia avrebbe dichiarato che la diagnosi effettuata nei confronti del paziente era errata. Davide sarebbe morto per una trombosi coronarica acuta. Patologia che, se diagnosticata per tempo, non dovuto avere l’epilogo tragico che ha avuto. Nell’opposizione alla archiviazione l’avvocato Lo Vecchio ha chiesto che vengano ascoltati tutti i medici del carcere che avevano visitato il detenuto dal giorno in cui era entrato in carcere fino al 24 dicembre data del suo decesso. Prato. Boom di positivi in carcere: “È impossibile isolarsi” La Nazione, 17 gennaio 2022 I detenuti scrivono una lettera per denunciare la situazione: “Costretti a stare tutti insieme in piccole celle. Siamo preoccupati per la nostra salute”. Cresce il focolaio all’interno del carcere della Dogaia tanto che adesso anche i detenuti si sentono minacciati dal virus. Una situazione fuori controllo - i contagi sono oltre cento - come hanno già sottolineato i sindacati di polizia penitenziaria la scorsa settimana su La Nazione, che ha spinto un gruppo di detenuti a prendere carta e penna e scrivere una lettera al giornale. “Anche fra queste mura esiste il problema ‘Covid’ - scrivono i detenuti - Da una decina di giorni la situazione all’interno del carcere sta dilagando in modo allarmante. E noi siamo preoccupati per la nostra salute”. Il gruppo di detenuti vuole portare a conoscenza di tutti le condizioni in cui sono costretti a vivere, senza distanziamento, ammassati in piccole celle e senza una netta divisione fra positivi al virus e non. Il sovraffollamento delle carceri è problema risaputo che mal si concilia con una pandemia la cui prima regola è proprio quella del distanziamento che, dentro alla Dogaia diventa difficile da mantenere a causa di spazi ristretti e affollamento. “Ci rivolgiamo alle istituzioni dello Stato e a quelle regionali perché possano intervenire, se non per risolvere il problema quanto meno per darci una mano per migliorare questa situazione precaria in cui siamo costretti a vivere”, si legge nella lettera dei detenuti. Ogni cella è abitata da tre persone e non esistono altri spazi dove poter isolare i positivi. “Abbiamo le mascherine - spiegano ancora i detenuti - ma da sole non bastano a proteggere dal contagio. Non possiamo andare più all’aria aperta, né la mattina né la sera ma siamo costretti a restare ognuno nella propria sezione. Le celle non sono dotate di campanello e, se qualcuno si sente male, siamo costretti a chiamare le guardie a voce. Molto spesso, poi, gli agenti, che sono in numero ridotto, sono impegnati in altri servizi e nessuno può intervenire in caso di necessità. Chiediamo pertanto che chi di dovere intervenga evitando che la situazione possa sfuggire di mano”. La supplenza dei giudici. Consulta e diritti sociali di Chiara Saraceno La Repubblica, 17 gennaio 2022 Con una sentenza dell’11 gennaio scorso, la Corte ha dichiarato incostituzionali le norme che subordinano la concessione del bonus bebè e dell’assegno di maternità agli stranieri extracomunitari alla condizione che siano titolari del permesso per soggiornanti Ue di lungo periodo, escludendo quindi i cittadini di Paesi terzi ammessi sia a fini lavorativi sia a fini diversi dall’attività lavorativa, ma ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno di durata superiore a sei mesi. Nella sua sentenza la Corte ha richiamato esplicitamente la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2 settembre 2021, secondo la quale la normativa italiana non è compatibile né con l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, che prevede il diritto alle prestazioni di sicurezza sociale, né con l’articolo 12 della direttiva 2011/98/Ue, sulla parità di trattamento tra cittadini di Paesi terzi e cittadini degli Stati membri. La Corte Costituzionale ha aggiunto che le norme contestate sono anche in contrasto con gli articoli 3 e 31 della Costituzione italiana. Va detto che la questione era già stata in parte superata dal legislatore italiano almeno per quanto riguarda il bonus bebè: l’assegno unico, che lo assorbe e entrerà in vigore a marzo, così come l’assegno ponte che è stato erogato nel secondo semestre dello scorso anno, rispettano appieno le indicazioni delle due Corti, includendo tutti i cittadini di Paesi terzi che abbiano un permesso d soggiorno di almeno sei mesi. Rimane da risolvere la questione dell’assegno di maternità (si tratta di quello riservato alle madri non coperte da altre forme di indennità e che appartengono a famiglie a basso reddito). Ma le sentenze delle due Corti hanno, a mio parere, una portata più ampia. Richiamando i principi di parità di trattamento e di diritto alle prestazioni di sicurezza sociale, stabiliscono una volta per tutte che i cittadini di Paesi terzi legalmente residenti in Italia non possono essere esclusi da nessuna prestazione sociale sulla base di requisiti di residenza aggiuntivi. Ciò ha particolare rilievo nel caso del Reddito di cittadinanza, che al momento esclude tutti i cittadini di Paesi terzi che non abbiano maturato almeno dieci anni di residenza: il doppio di quelli richiesti per il permesso di soggiorno di lungo periodo europeo, di cui è contestato il requisito dalle due sentenze. La richiesta di abbassare questo requisito, perché costituzionalmente illegittimo e in contrasto con ogni obiettivo di prevenzione dai rischi di esclusione sociale, è stata avanzata da subito da Alleanza contro la povertà, Caritas e altre associazioni. È anche una delle dieci proposte di modifica formulate dal Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di cittadinanza. Come le altre proposte, non è stata presa in considerazione dal governo nella parte della legge di Stabilità che riguarda il Reddito di cittadinanza, a dimostrazione che ci si riferisce alle indicazioni degli esperti solo quando fa comodo, o risponde agli equilibri politici in essere. Eppure la proposta del comitato, ispirata da quello che sembrava realismo e si è invece rivelato un eccessivo ottimismo, era molto più riduttiva di quella suggerita da queste due sentenze: dimezzare la durata di residenza richiesta, portandola a un numero di anni almeno non superiore a quelli necessari per ottenere il permesso di soggiorno europeo. Le due sentenze aprono a modifiche molto più radicali. Vista la resistenza del decisore politico, c’è da sperare che, come per le questioni oggetto della sentenza della Corte Costituzionale, vi sia qualcuno che voglia sollevare anche questa nelle sedi giudiziarie opportune. Anche se, come per il cognome materno e il suicidio assistito, poi c’è il rischio che il Parlamento eviti di legiferare in coerenza con le sentenze della Corte. La prigione da incubo nel cuore di New York di Alberto Bellotto Il Giornale, 17 gennaio 2022 Il carcere di Rikers Island, isola nel cuore dell’East river, ospita oltre 10 mila detenuti. Ma da anni regna il caos tra rivolte e interi blocchi nelle mani delle gang. Nel cuore dell’East River, a poco meno di 4 miglia da Central Park, c’è una terra di nessuno. Un reticolo di palazzi e blocchi in cui la legge funziona a intermittenza. Non stiamo parlando di qualche isolato del Bronx o di zone dimenticate di Harlem. Al contrario, ci troviamo in uno dei complessi carcerari più grandi, importanti (e malfamati) di tutti gli Stati Uniti: il penitenziario di Rikers Island. Rikers Island è un carcere famoso. Dalle sue celle sono passati anche personaggi noti come il rapper Tupac Shakur, il leader dei Sex Pistol Sid Vicious, ma anche Mark David Chapman, l’assassino di John Lennon, e non da ultimo Harvey Weinstein. Nonostante questo, da anni le storie che arrivano dalla prigione sono più simili ad alcuni episodi della serie Tv Prison Break. Ad altri, invece, ricorda il penitenziario di Arkham, presente in molti film e racconti di Batman. Per avere un’idea di questo “inferno in terra” basta addentrarsi nelle storie. Il 16 settembre scorso, un detenuto ha deciso di dirottare uno degli autobus usati per spostare la popolazione carceraria. Secondo le ricostruzioni, l’uomo sarebbe riuscito senza forzare niente ad alzarsi dal suo posto, entrare nello spazio dedicato al conducente e a mettere in moto, andando poi a schiantarsi contro uno degli edifici e danneggiandolo. Ma i fatti più inquietanti sono quelli che avvengono all’interno. Ad agosto, un detenuto in attesa di giudizio ha rubato le chiavi a un secondino, ha liberato un secondo uomo e insieme hanno iniziato ad aggredire l’agente che per proteggersi si è rinchiuso in una cella. Una settimana dopo, un altro ospite della struttura ha scoperto che una delle sbarre della sua cella aveva iniziato a muoversi, corrosa dalla ruggine, permettendogli così di passare in una cella vicina per aggredire un altro internato. Nel 2020, un detenuto è riuscito a uscire dalla sua cella, afferrare uno spray al peperoncino lasciato incustodito da una guardia e aggredire altri membri del personale. Nello stesso periodo, una dottoressa impiegata nel reparto di salute mentale è stata attaccata da un prigioniero, mentre nell’estate dello stesso anno un altro gruppo di carcerati, che si lamentava per non aver mangiato abbastanza, ha aggredito in blocco due guardie, costringendole alla fuga, e preso il controllo della mensa per diversi minuti. Questi episodi, per quanto gravi, avvengono anche in altre carceri d’America. Come mai, quindi, solo Rikers Island ha una nomea così maledetta? Perché è tutto il sistema che sembra essersi inceppato. O meglio: non ha mai davvero funzionato. Costruito nel 1935, ha vissuto fasi alterne ma la progettazione e realizzazione fatta a basso costo hanno avuto effetti deleteri nella gestione dei detenuti. La struttura è entrata in crisi già negli anni Settanta ma le fasi più complesse sono iniziate nei decenni successivi quando tutti gli Stati Uniti, New York compresa, hanno visto un aumento esponenziale della criminalità. Il periodo più buio ha coinciso con la grande epidemia di crack che si è consumata per le strade della Grande Mela a cavallo degli anni Novanta. Poi, con il calo progressivo dei reati, anche la pressione e le condizioni di Rikers Island si erano attenuate. Ma dal 2019 la situazione è deragliata di nuovo. Nel 2021 ben 16 detenuti sono morti mentre erano in custodia tra le mura di Rikers Island a questi si aggiungono altre centinaia di persone ferite in modo più o meno grave al ritmo di 38 casi al giorno. Ma tutti gli indicatori sono in costante crescita: solo lo scorso anno le aggressioni contro i secondini sono state oltre 2 mila. L’elemento forse paradossale è che questa ondata di crimini viene perpetrata da un gruppo ristretto di detenuti, la maggioranza non ha mai commesso atti violenti e la metà degli oltre 10 mila ospiti soffre di malattie mentali. In più la gran parte di chi si trova lì è in attesa di giudizio, magari perché non può permettersi una cauzione per uscire in attesa del processo. Le aree fuori controllo - Nel tempo le proteste e gli incidenti non solo sono diventati all’ordine del giorno, ma si sono create le condizioni perché, tra gli otto blocchi di Rikers Island, intere sezioni del carcere finissero in mano ai violenti. In questi settori la polizia interviene molto di rado e i carcerati sono in grado di decidere chi può entrare e chi può uscire. In altri casi, hanno libero accesso ad aree riservate al personale e, secondo alcune testimonianze, sono arrivati a rispondere a telefonate dall’esterno, prendendo il controllo di interi blocchi. Ma gli aspetti bizzarri non si fermano qui. Secondo un’indagine del New York Times, a settembre un gruppo di dipendenti civili, che dovevano prendere servizio, è stato accolto da una manciata di detenuti che si è offerto, dietro pagamento, di scortarli nei rispettivi uffici in sicurezza. Quei stessi dipendenti hanno poi raccontato che per intere sezioni della struttura non c’erano guardie in vista, ma solo detenuti che si muovevano in regime di semilibertà. Una guardia, sentita dal Times, ha ammesso di aver smesso di confiscare armi, spiegando che spesso si trova a gestire da solo intere aree e che quindi, in caso di incidenti o sommosse, gli serve appoggio anche da parte di alcuni prigionieri. Oltre a questo,altri agenti hanno mostrato deviazioni preoccupanti. Alcuni si sono accaniti in maniera violenta contro altri detenuti, picchiandoli selvaggiamente; altri si sono uniti a loro in atti criminali. Ben sette guardie sono finite sotto indagine per aver preso tangenti allo scopo di far entrare nella struttura droga, coltelli e cellulari. Dopo alcuni incidenti avvenuti nel 2014, una scelta errata nella gestione dei detenuti ha complicato ancora di più le cose. I membri delle varie gang come i Bloods, Crips e Trinitarios sono stati isolati in blocchi specifici per evitare risse e contatti tra i gruppi. Ma questo li ha portati rapidamente ad aumentare la propria influenza e a prendere controllo di quelle stesse aree, ribattezzate poi come “case di sangue”. Qui i membri delle gang gestiscono gli accessi di nuovi detenuti e dei visitatori, controllano la distribuzione dei viveri, hanno stabilito un sistema di regole organizzato e hanno creato momenti di svago con violenti fight club. La ritirata dei poliziotti - Ma come siamo arrivati a questo caos a due passi da Manhattan? In realtà le cause sono diverse e si trascinano da tempo. Come abbiamo visto, la struttura ha gravi carenze progettuali che ne hanno portato al deterioramento, e ogni tentativo di rinnovo si è sempre arenato. A questo si aggiunge un’endemica carenza di personale. Negli ultimi due anni, delle oltre 8 mila guardie assunte per tenere a bada i detenuti, almeno un terzo non si presentava, costringendo i colleghi a turni che potevano arrivare a 24 ore consecutive. La carenza è dovuta soprattutto a speciali accordi tra i sindacati e l’amministrazione della prigione che prevedono permessi malattia illimitati e altre agevolazioni per assentarsi sul lavoro. Molte guardie preferiscono infatti essere messe in malattia per evitare di lavorare e ritornare a Rikers Island. Non solo. Negli anni non è mai stato trovato un modo per gestire le mansioni. L’anzianità ha permesso a molti di lasciare gli incarichi più pericolosi, di fatto facendo finire gli agenti più giovani e inesperti direttamente a contatto coi detenuti; mentre altri sono stati dirottati a mansioni che nulla hanno a che fare con la gestione della popolazione carceraria, come compiti di autista, centralinista, ma anche controllori della falciatura dell’erba o supervisori di sartorie e panetterie. Eppure non mancano i poliziotti nello stato di New York. L’Empire State è uno di quelli con il più alto numero di guardie per detenuto. Ad esempio, ci sono più agenti qui che guardie carcerarie in servizio a Indianapolis e Jacksonville messi insieme. Non solo. La prigione è anche un buco nero della finanza pubblica. Con un costo anno di 400 mila euro per detenuto, che è il più alto di tutti gli Stati Uniti, ben sei volte la media nazionale. L’avvento del Covid - L’arrivo della pandemia ha mandato in frantumi gli ultimi aspetti funzionanti della prigione. Il personale ha continuato a rimanere rarefatto, mentre i nuovi arrivi di prigionieri sono aumentati. In questo modo, le pratiche di accoglienza si sono allungate, arrivando a durare giorni, con persone messe a dormire ovunque, persino nelle docce. Nemmeno il rilascio di 1.500 persone in attesa di giudizio ha allentato la pressione e posto fine al caos. Un report di fine ottobre del governo federale ha scritto nero su bianco che la carenza di personale e i limiti della struttura hanno di fatto compromesso la sicurezza di chiunque si rechi sull’isola. Tutto il complesso è una prigione per crimini statali, quindi possono essere internati sia criminali newyorkesi che provenienti dal resto dello Stato. Allo stesso tempo, l’amministrazione ricade solo sulla Grande Mela. Questo complicato intreccio ha burocratizzato l’emergenza, di fatto rendendola irrisolvibile. Oggi, sul banco degli imputati per il disastro di Rikers Island sono finiti un po’ tutti. I sindacati per la gestione non ottimale dei permessi e del personale, ma soprattutto l’amministrazione cittadina. I sindaci, soprattutto democratici, che si sono susseguiti alla guida di New York, non hanno mai affrontato seriamente i problemi dell’isola. L’ormai ex cittadino Bill de Blasio ha fatto solo vane promesse, ma ogni volta che la stampa lo interrogava sul caos si rifiutava di rispondere. Oggi la palla passa all’ex poliziotto Eric Adams che dovrà decidere se riformarla o chiuderla del tutto. Dopo un anno di carcere i russi hanno già dimenticato Navalny di Mara Morini Il Domani, 17 gennaio 2022 7 gennaio 2021. Dopo cinque mesi dal tentativo di avvelenamento con l’agente nervino Novychok, Aleksej Navalnyj torna in Russia e scrive nei suoi canali social: “Oggi è il mio giorno migliore. Non ho paura perché sono dalla parte della ragione”. Il “paziente berlinese”, come lo ha etichettato il presidente Vladimir Putin, è pronto a sfidare il potere del Cremlino, sfruttando i mezzi che sa utilizzare con efficacia e a cui deve la sua popolarità: i social. Nei media internazionali si diffondono le immagini del bacio di Aleksej Navalnyj a sua moglie Yulia poco prima dell’arresto, avvenuto all’aeroporto Sheremetevo di Mosca. Navalnyj era consapevole, che al suo arrivo in Russia, sarebbe stato incarcerato per non aver rispettato le condizioni della libertà vigilata e per avere rubato quasi cinque milioni di rubli alla sua fondazione per la lotta alla corruzione. Il processo - Durante il processo a cui hanno partecipato anche alcuni osservatori internazionali, il “temerario Navalnyj” non ha risparmiato critiche e accuse nei confronti del presidente russo: “Il motivo per cui è accaduto tutto questo sono l’odio e la paura di un solo uomo - uno che si nasconde in un bunker. Io l’ho offeso mortalmente sopravvivendo a un attentato alla mia vita ordinato da lui. Bene, adesso avremo Vladimir l’Avvelenatore di mutande. È così che rimarrà alla storia. La cosa principale di tutto questo processo non è quello che succede a me. Mettermi in galera non è difficile. Quello che conta di più è perché tutto ciò stia succedendo. Sta succedendo per intimidire una grande quantità di persone. Funziona così: imprigionarne uno per spaventarne milioni”. Navalnyj esorta comunque i cittadini a partecipare alle manifestazioni di protesta che i collaboratori della fondazione hanno organizzato in diverse città della federazione russa dalla piattaforma online free.Navalnyj.com. Altre immagini che mettono in luce numerosi arresti, la violenza della polizia e la repressione dei diritti civili e politici arrivano in occidente. Il “caso Navalnyj” diventa una questione internazionale che aumenta la distanza e il livello di scontro della Russia con l’Ue e l’amministrazione americana che sollecitano la scarcerazione del blogger russo e impostano una serie di sanzioni economiche. Ma Navalnyj ha pianificato molto bene il suo ritorno e dal carcere lancia un altro duro colpo alla credibilità del presidente Putin attraverso la diffusione su YouTube di un video, intitolato Il palazzo di Putin, che rappresenterebbe “il più grande atto di corruzione del mondo”. Il palazzo più costoso del mondo - Si tratta di un’inchiesta nella quale si sostiene che il presidente Putin abbia fatto costruire il “palazzo più costoso del mondo” (stimato a 1,1 miliardi di euro) sulla costa del Mar Nero, finanziato in parte con fondi illeciti. In poche ore il video raggiunge milioni di visualizzazioni e ottiene l’obiettivo che si era prefissato: minare l’immagine del presidente sulla corruzione, una questione molto sensibile all’opinione pubblica. Non solo. Navalnyj riesce a “entrare” nella televisione statale nella quale non era mai apparso nei suoi decenni di attivismo politico perchè Putin è “costretto” a rilasciare dichiarazioni di estraneità all’accusa. L’obiettivo è sempre più chiaro: destabilizzare il Cremlino in previsione delle elezioni parlamentari di settembre 2021 nella speranza di attivare un “Maidan russo”. Nel frattempo, i famigliari lanciano l’allarme sulle gravi condizioni di salute del “sorvegliato speciale” che “potrebbe morire da un momento all’altro”. Per i medici russi le condizioni del prigioniero “sono soddisfacenti”, ma Navalnyj richiede la visita di un medico di fiducia e inizia uno sciopero della fame che lo porterà a perdere quindici chili e a essere sottoposto a un’alimentazione forzata per evitare che muoia in carcere. Nei mesi successivi l’uomo, definito dal New York Times come il “responsabile della straordinaria fiammata di attivismo antigovernativo”, lancia il “voto intelligente” in previsione delle elezioni parlamentari per indebolire il partito del Cremlino, Russia unita, favorendo il partito comunista al netto di quelle che saranno le accuse di frodi elettorali che consentiranno a Russia unita di ottenere, ancora una volta, la maggioranza assoluta dei seggi. In una dichiarazione rilasciata al New York Times Navalnyj ha raccontato come trascorre il tempo nella Colonia n.2 di Pokrov: è costretto a guardare la tv e film di propaganda per otto ore al giorno nell’ambito di un piano rieducativo dei prigionieri, legge, fa ginnastica e posta sporadicamente alcuni commenti su Instragram che denotano ancora speranza nel futuro, come il suo augurio per l’anno nuovo dimostra (“rimanete ottimisti, nonostante tutto”). A oggi, Navalnyj non è più considerato un “detenuto incline alla fuga”, ma è indagato come fondatore di un gruppo estremista con il rischio di aggiungere altri dieci anni di detenzione. Tentativo fallito - Questa descrizione dei principali fatti che hanno caratterizzato l’attività politica di Navalnyj durante la sua prigionia dimostra che il tentativo di destabilizzare il putinismo è fallito. Non è solo stata smantellata l’organizzazione di Navalnyj, ma numerosi sono stati i casi di applicazione della legge contro gli “agenti stranieri” che hanno determinato la chiusura di media indipendenti e, non per ultimo, la “liquidazione” della fondazione Memorial che si è sempre occupata di mantenere viva la memoria storica delle atrocità del periodo stalinista. Come hanno rilevato Dollbaum, Lallouet e Noble nel libro Alexei Navalny - L’homme qui défie Poutine ( Navalny - L’uomo che ha sfidato Putin), nell’arco di anno “non è esagerato sostenere che prendendo questa decisione il regime politico della Russia abbia compiuto un passo decisivo verso una dittatura”. La gestione del “caso Navalnyj” non è esente da errori di valutazione da parte dell’amministrazione presidenziale. È probabile che il presidente Putin si aspettasse che il blogger rimanesse in esilio in Germania per evitare il carcere, come altri oppositori politici hanno fatto in passato. È anche stata sottovalutata l’arguzia politica di Navalnyj che non avrebbe mai accettato di scomparire politicamente, ma avrebbe sfruttato la visibilità di questo evento per essere (ri)conosciuto anche in Russia. Sebbene il Cremlino non abbia mai ritenuto potenzialmente pericoloso il suo movimento politico per i vincoli burocratici e amministrativi delle competizioni elettorali e per la sua fedina penale, è anche vero che gli elettori non hanno mai dimostrato una particolare fiducia nei confronti dell’agitatore politico. Diversi sondaggi rilevano che il suo sostegno è radicato essenzialmente nei giovani, per gli altri è un “agente straniero”, una considerazione in sintonia con le affermazioni delle varie autorità, tra cui il direttore dell’intelligence russa che ha affermato: “L’operazione dell’occidente con Navalnyj nel ruolo di “vittima sacrificale” è fallita e sta già cercando un suo sostituto come emblema della protesta in Russia”. La biografia politica di Navalnyj è certamente controversa tra un orientamento nazionalista, xenofobo ed estremista e uno più liberale negli anni della militanza nel partito riformista Jabloko. Anche in politica estera Navalnyj ha condiviso l’annessione della Crimea e, più in generale, non vi sono garanzie che una sua leadership renderebbe la Russia più vicino alle democrazie occidentali, anche in virtù della difficoltà di smantellare il putinismo, un sistema che è “prigioniero” delle diverse fazioni del Cremlino. Il parlamento europeo e alcuni governi gli hanno conferito premi e riconoscimenti per la difesa dei diritti umani e politici e la Cnn sta preparando un documentario sulla sua vita che sarà trasmesso in streaming. Nella pubblicistica occidentale Navalnyj è un “eroe nazionale”, ma la verità è che i russi lo hanno già dimenticato. E il Cremlino procede nella sua strada verso le presidenziali del 2024. Arresti e purghe, in Kazakhstan è la fine dell’era Nazarbaev di Fabio Tonacci* La Repubblica, 17 gennaio 2022 Il “padre della patria” non si palesa da dicembre. I familiari sono in fuga. E dopo le rivolte il presidente Tokaev ha epurato i suoi fedelissimi. All’enigma kazako manca l’ultimo tassello, il più importante. Dov’è Nursultan Nazarbaev? Che fine ha fatto l’Elbasi, il padre della patria? Il regime tace. Le rivolte popolari che hanno infiammato il Paese (225 morti di cui 19 agenti di polizia, 600 persone tuttora agli arresti) sono state definite dal presidente Kassim-Jomart Tokaev un “tentato colpo di Stato”. Chiunque è sceso in piazza tra il 2 e il 7 gennaio è stato chiamato “terrorista”. La cospirazione ha preso le sembianze di Karim Massimov, capo dei servizi segreti interni: l’hanno incarcerato per alto tradimento insieme ai suoi due vice, accusati di “aver provato a conquistare il potere”. Massimov non è uno qualunque: per due volte premier, è legato a doppio filo a Nazarbaev. Dunque, e ancora: dov’è l’Elbasi? Appare ormai chiaro che l’Orda armata e drogata che ha infiltrato i 20 mila manifestanti di Almaty mettendola a ferro e fuoco, abbia goduto della complicità di una parte degli apparati di sicurezza. Per questo Tokaev ha chiesto l’intervento di truppe russe, armene e bielorusse in nome di quel Patto di difesa collettiva stipulato nel 1992 tra ex Repubbliche sovietiche e mai attuato prima. Contestualmente al draconiano ordine di sparare a vista, Tokaev ha avviato una sbrigativa epurazione interna al regime. Non si avrà però la soluzione dell’enigma fino a quando non si capirà quale sia la sorte dell’uomo che per trent’anni ha tenuto in pugno il Kazakistan. Nei ristoranti frequentati dalla borghesia cittadina si dice tutto e il contrario di tutto. “Nazarbaev è morto”, “Ha problemi di salute”, “È esiliato”, “È negli Emirati Arabi”, “È a Nur-Sultan con Tokaev”. Un ventaglio di supposizioni sufficientemente ampio per perdersi. Conviene allora stare ai fatti. L’81enne non appare in pubblico dal 28 dicembre. Il 5 gennaio, quando Tokaev capisce che Almaty è fuori controllo - il municipio Akimat in fiamme, la ex residenza presidenziale circondata, la torre delle comunicazioni tv presa d’assalto - rimuove Nazarbaev dal Consiglio di sicurezza e fa arrestare Massimov, ossia colui che aveva il compito di prevenire l’avanzata dell’Orda e che invece è sospettato di averla fomentata per destabilizzare l’establishment. Sono i primi segnali della crisi del vecchio sistema di potere, per decenni dominante, invasivo, tetragono, feroce coi dissidenti e vorace negli affari. Orbita attorno alla ingombrante figura del primo presidente del Kazakhstan indipendente. Adesso il clan Nazarbaev, il più potente e ricco, ha paura. All’alba del 6 gennaio Bolat, il fratello del patriarca, è scappato: ha attraversato il valico di frontiera col Kirghizistan, volando poi a Dubai. Poco prima due Bombardier privati sono decollati da Almaty e hanno fatto rotta su Ginevra e su Londra. La figlia maggiore di Nazarbaev, Dariga, già direttrice della tv di Stato Khabar e vice premier ai tempi di Massimov, non sta partecipando alle sedute della Mazhilis, la camera bassa del Parlamento, ufficialmente per il Covid. Dinara, la seconda figlia, non si sa dove sia. La più giovane delle tre, Alija, è negli Emirati. Lo si è scoperto perché ha scritto su Facebook per ringraziare quanti stavano manifestando solidarietà a suo padre: il post ne ha permesso la geolocalizzazione. Subito dopo si è cancellata dai social network. Altri pezzi del sistema che vanno in frantumi. Il genero di Nazarbaev, il quarantenne Dimash Dossanov (ha sposato Alija, insieme hanno un patrimonio di un miliardo di dollari), è stato silurato dal ruolo di direttore generale della KazTransOil, la compagnia pubblica che gestisce l’oleodotto nazionale. Stessa sorte per Kairat Sharipbaev, fino a ieri capo della KazTransGas e ritenuto essere lo sposo di Dariga. Il repulisti è proseguito con l’arresto dell’ex vice ministro dell’Energia, sospettato di aver tramato con gli speculatori per il rialzo dei prezzi del Gpl liquido. La scintilla che dopo Capodanno ha dato il via alle contestazioni. Seduto al tavolo d’angolo del CoffeeVarka, il politologo kazako Dosym Satpaev tira le somme bevendo caffè nero. “Siamo alla resa dei conti. Se Massimov è colpevole, deve aver avuto l’appoggio di membri del clan Nazarbaev preoccupati dall’aumento di popolarità di Tokaev, il quale esce rafforzato da questa storia. Il vero vincitore però è Vladimir Putin”. I militari russi della 45esima brigata rappresentano, non a caso, la parte più consistente delle 2.000 unità del contingente straniero. “Tokaev si trova ora nella duplice condizione di protetto e debitore di Putin”, chiosa Dushin. “Non è una buona notizia, non potremo più avere una politica estera multilaterale”. L’ipoteca del Cremlino sul Kazakistan - primo produttore mondiale di uranio, tra i primi per estrazione di petrolio e gas, dove convivono 129 etnie e 40 confessioni religiose - non è cosa da poco. Dana Zhanay, 25 anni, attivista per i diritti umani, ha visto l’Orda coi suoi occhi. “Durante la marcia, ai pacifici si sono uniti all’improvviso giovani marginalizzati delle periferie, una colonna di islamisti molto aggressivi e gli uomini della banda del gangster conosciuto col nomignolo di Wild Armand: puzzavano di alcool, erano sotto l’effetto di droghe”. Le amfetamine sono state distribuite ai rivoltosi insieme a pistole e fucili. L’appuntamento con Zahnay è in uno StarBucks del centro. Con lei c’è Asset Abishev, dissidente di Scelta Democratica, il partito messo al bando dal regime. Parla poco e solo in kazako, ma ha un argomento eloquente. Si toglie il maglione e mostra un enorme ematoma violaceo sulla schiena e sul braccio sinistro. “Ero in autobus ad Almaty il 4 gennaio, sono stato prelevato e portato in una stazione di polizia. Mi hanno ridotto così, senza un perché”. Cose che capitano non di rado nel Paese che fu di Nazarbaev e che, dopo il golpe fallito, ha trovato un nuovo leader. *Ha collaborato Naubet Bisenov