Riforma della giustizia, il 2022 sarà l’anno decisivo per completarla di Piero De Luca Il Riformista, 16 gennaio 2022 Il commento di Piero De Luca: l’Italia non può permettersi, in questa fase storica, instabilità o salti nel buio, perché rischieremmo non solo di dilapidare il patrimonio di credibilità acquisito finora a livello europeo, ma anche di compromettere in modo irreparabile le opportunità straordinarie derivanti dalle risorse del Next Generation destinate al nostro Paese. Il 2022 è un anno cruciale per la buona riuscita e l’efficace esecuzione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Uno dei settori maggiormente interessati è quello della giustizia. Come ha avuto modo di precisare la stessa Ministra Cartabia, sulla durata dei processi e sul miglioramento dell’efficacia del sistema giudiziario il Paese si gioca gran parte della credibilità rispetto all’intero Recovery Fund. Le riforme giudiziarie sono state inserite per questo tra le c. d. riforme orizzontali o di contesto, che riguardano cioè innovazioni strutturali dell’ordinamento, in grado di interessare in modo trasversale tutti i settori di intervento del Piano. L’idea condivisa è che una maggiore efficienza del mondo della giustizia produca due effetti positivi sull’economia. Il primo è aumentare la facilità di ingresso delle imprese. Il secondo è ridurre l’incertezza sui futuri rendimenti del capitale, migliorare le condizioni di finanziamento e stimolare quindi maggiori investimenti. Stando alle proiezioni, gli effetti delle riforme in programma dovrebbero produrre un aumento del PIL pari allo 0,5 per cento. Come chiarito nella Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione del Piano, l’obiettivo fissato è ridurre in cinque anni del 25 per cento i tempi della giustizia penale e del 40 per cento quelli della giustizia civile. Si intende, in altri termini, dare una risposta strutturale e concreta alle sollecitazioni che da anni arrivano dall’Europa, in particolare dalle Raccomandazioni del Consiglio europeo, senza produrre risultati, come chiarito dalla Commissione nella Relazione per Paese relativa all’Italia del 26 febbraio 2020 (cd. Country Report 2020). Il PNRR contiene alcune specifiche misure che intervengono sul sistema giudiziario. Anzitutto investimenti. Dei 191,5 miliardi stanziati su specifiche risorse europee, 2,827 miliardi sono destinati alla giustizia, per le seguenti linee intervento: Ufficio per il processo e capitale umano; Digitalizzazione dei procedimenti giudiziari; Edilizia giudiziaria. Ulteriori stanziamenti, dedicati in particolare all’edilizia penitenziaria, sono messi poi a disposizione dal Piano complementare. Accanto a questi investimenti, il PNRR ha previsto poi anche specifiche Riforme volte soprattutto a migliorare l’efficienza ed accelerare lo svolgimento dei processi civili (M1C1 29) e penali (M1C1 31), nonché una revisione della disciplina in materia di insolvenza (M1C1 31). Con la Legge n. 206 del 2021, il Parlamento ha approvato una delega al Governo per la riforma del processo civile. Il provvedimento si compone di un unico articolo suddiviso in 44 commi e presenta un duplice contenuto: da una parte contiene la delega espressa rivolta all’Esecutivo, dettando specifici principi e criteri direttivi, e dall’altra modifica direttamente alcune disposizioni sui procedimenti in materia di diritto di famiglia, esecuzione forzata e accertamento dello stato di cittadinanza. Ora, per quanto riguarda la delega, è bene precisare che la Legge fissa in un anno dalla sua entrata in vigore il termine per l’esercizio della stessa, che dovrà dunque essere completata entro il 24 dicembre 2022. Lo stesso vale per il processo penale, su cui è intervenuta la legge n. 134 del 2021. Tale provvedimento si compone di 2 articoli. Il secondo contiene novelle al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente precettive. Il primo contiene invece anch’esso una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro un anno dall’entrata in vigore della legge, ossia entro il 19 ottobre 2022. Emerge dunque da quanto precede che sebbene il termine per l’approvazione delle leggi delega entro il quarto trimestre (T4) del 2021 (M1C1-1.4) sia stato pienamente rispettato, il lavoro ad oggi non è affatto completato e il risultato finale non è stato ancora ottenuto. Per questo, bisogna continuare a tenere il passo adottando le deleghe entro la fine del 2022. Altrimenti si rischia il fallimento del Piano su questo profilo specifico, oltre al blocco in tutto o in parte dei prossimi pagamenti. Considerata allora l’assoluta complessità dell’adozione di tali decreti legislativi, e tenuto conto anche del fatto che nel 2022 l’Italia dovrà raggiungere altri 102 obiettivi sui 520 totali per richiedere ed ottenere la somma di 40 miliardi prevista, è del tutto evidente che in questo anno non possiamo fare passi falsi. C’è bisogno allora dell’impegno di tutti, per poter centrare un obiettivo storico per il Paese. È indispensabile che tutte le forze politiche, a maggior ragione quelle in maggioranza, mettano da parte propaganda o bandiere ideologiche, e condividano nelle prossime settimane e nei prossimi mesi l’esigenza di fornire stabilità al Paese, dando piena continuità al lavoro messo in campo dell’attuale Governo e assicurando quindi il prosieguo della legislatura fino alla sua scadenza naturale. L’Italia non può permettersi, in questa fase storica, instabilità o salti nel buio, perché rischieremmo non solo di dilapidare il patrimonio di credibilità acquisito finora a livello europeo, ma anche di compromettere in modo irreparabile le opportunità straordinarie derivanti dalle risorse del Next Generation destinate al nostro Paese. Per queste ragioni, oltre all’importanza fondamentale di eleggere a larghissima maggioranza - come noi Democratici auspichiamo - un Presidente della Repubblica di alta caratura istituzionale, di unità e coesione nazionale, di garanzia costituzionale, con un profilo chiaramente europeista, è altresì assolutamente necessario continuare a garantire stabilità all’Italia nei prossimi mesi, non solo per provare ad uscire definitivamente da un’emergenza sanitaria drammatica, ma anche per assicurare l’effettiva attuazione ed implementazione di un PNRR che rischia altrimenti di essere irrimediabilmente messo in discussione in caso di rallentamenti o interruzioni del percorso a tappe serrate avviato nel 2021. E questo non possiamo permetterlo. Cassazione senza vertici, quel conflitto di interessi del giudice di Palazzo Spada di Giuliano Foschini e Liana Milella La Repubblica, 16 gennaio 2022 “Carta canta”, come diceva ormai trent’anni fa Antonio Di Pietro. E nella bocciatura, a ridosso dell’apertura dell’anno giudiziario in Cassazione, con evidente effetto delegittimante, del primo presidente Pietro Curzio e della sua presidente aggiunta Margherita Cassano, c’è una carta “che canta”. Anzi, per dirla tutta, ce ne sono ben due di carte. Testimoniano che non un giudice qualunque, ma il “relatore estensore”, come scrivono al Consiglio di Stato, di entrambe le sentenze, il consigliere di palazzo Spada Alberto Urso, nel 2018 aveva superato il concorso per entrare in quota Cds, a seguito di varie prove scritte e orali valutate da una commissione esaminatrice di cui faceva parte anche Angelo Spirito, cioè proprio il consigliere della Suprema corte che è uscito vincitore dalla bocciatura di Curzio e Cassano. Mentre al Csm, in questo weekend di fuoco, la quinta commissione che decide gli incarichi direttivi, presieduta da Antonio D’Amato di Magistratura indipendente, ha già individuato la soluzione per riconfermare subito (già mercoledì) Curzio nel suo incarico, ecco che si apre un giallo a palazzo Spada, la storica e sontuosa sede del Cds. Già, proprio così. Perché il collegio - composto dal presidente Luciano Barra Caracciolo, e dai consiglieri Angela Rotondano, Stefano Fantini, Giovanni Grasso, e dal nostro estensore Alberto Urso - avrebbe dovuto sapere che la coincidenza dello stesso nome - quello di Spirito - come ricorrente contro le nomine del Csm, e quello del suo “giudice”, e cioè Urso, addirittura come estensore della sentenza, avrebbe dovuto porre un problema. Uno innanzitutto. L’astensione dalla causa di Alberto Urso. Per motivi di ovvia opportunità, e quindi di etica necessità, anche se la coincidenza non è prevista tra quelle obbligatorie. Alberto Urso, chiamato da Repubblica ieri alle 17 e 34 minuti, ha la voce angosciata e si fa subito vagamente aggressivo. “Chi le ha dato il mio numero privato? Non rilascio dichiarazioni...”. Segue la brusca chiusura della comunicazione. Ben diversa la reazione di Angelo Spirito, che con l’inflessione napoletana che gli è propria e il tono da uomo di mondo, dice subito: “Io ho fatto parte di tre concorsi. Ne ho interrotto un quarto. E francamente non le saprei proprio dire chi c’era tra i candidati che ho esaminato...”. C’era Urso. “Io non ne avevo la minima idea”. Ma il fatto è lì, impresso nelle carte. E se in discussione c’è la poltrona dei primi magistrati d’Italia, allora il giudizio dev’essere del tutto privo di qualsiasi ombra. E questa di Urso, estensore di una sentenza che premia un candidato che è stato il suo giudice e che lo ha fatto diventare consigliere di Stato, è più di un’ombra. Anche se a palazzo Spada c’è chi è pronto a minimizzare e a dire, sul piano formalistico, che tra le cause per cui è obbligatorio astenersi, questa non c’è. Eppure ecco la scansione dei tempi: il 23 ottobre 2017, da palazzo Chigi, viene licenziata la commissione che valuterà i candidati per il Cds. Il presidente è Alessandro Pajno, nella veste di presidente dello stesso Cds, i componenti sono Filippo Patroni Griffi, suo successore e oggi prossimo giudice della Consulta. E ancora: il presidente di sezione Sergio Santoro, il presidente di sezione della Cassazione Angelo Spirito, il noto avvocato Guido Alpa. Il 14 dicembre 2018, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, firma l’atto con cui Alberto Urso diventa consigliere di Stato. Con 316,25 punti, di cui 234 alla prova scritta e 50 a quella orale, nonché un 1 + 1,25 per le lingue straniere, risulta il primo seguito da Francesco Frigida e Michele Pizzi. Esiste un conflitto d’interesse in questa vicenda? Urso avrebbe dovuto astenersi? Il presidente del collegio Luciano Barra Caracciolo avrebbe dovuto porre il problema? Non risulta che il problema sia stato posto. Con l’evidente risultato di gettare un’ombra anomala sull’intera decisione che, in un colpo solo, ha destabilizzato i vertici della Cassazione non solo alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ma soprattutto rispetto a una nomina decisa al Quirinale con il plauso del capo dello Stato e del Csm Sergio Mattarella. Cassazione, piano del Csm: stessi nomi in tempi record di Valentina Errante Il Messaggero, 16 gennaio 2022 Cresce l’ipotesi di un’investitura bis per Curzio e Cassano entro mercoledì. Si punta a rinnovare gli incarichi prima dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Venerdì prossimo Pietro Curzio leggerà ugualmente la relazione sullo stato della giustizia in Italia. Il primo presidente della Cassazione, appena detronizzato dal Consiglio di Stato, indosserà l’ermellino e aprirà l’anno giudiziario 2022, alla presenza del Capo dello Stato, che è anche presidente del Csm. Come se nulla fosse accaduto. O forse, per venerdì, la decisione dei giudici amministrativi, che hanno bocciato la decisione di Palazzo dei Marescialli, a una settimana dalla cerimonia ufficiale, sarà superata da una nuova delibera del Consiglio superiore della magistratura, che riproporrà, con altre motivazioni, le nomine di Curzio e della sua aggiunta, Margherita Cassano, bocciate venerdì dai giudici amministrativi. Sarebbe un unicum per i tempi record. È solo l’ultima e pesantissima tegola che si abbatte sul Consiglio superiore della magistratura e qualcuno, proprio a Palazzo dei Marescialli, nota il tempismo: “Potevano attendere qualche giorno, la decisione era pendente da tempo”. E così, per superare l’imbarazzo, e rispondere “a tamburo battente” a una sentenza che è suonata come uno schiaffo, il Consiglio prova a correre ai ripari. Con l’inusuale convocazione della quinta commissione, competente per gli incarichi direttivi, ieri, di sabato pomeriggio, e l’idea di portare già mercoledì le proposte al plenum, in modo da licenziare le delibere e tornare a designare Cuzio e Cassano, prima della cerimonia ufficiale prevista per venerdì. In commissione, però, il dibattito è aperto e non tutti sarebbero d’accordo, soprattutto a fronte delle motivazioni del Consiglio di Stato, sono molto pesanti. Ma non solo, il braccio di ferro di Palazzo dei Marescialli e i tempi record solleverebbero sicuramente molte polemiche politiche. Se le nomine fossero rinnovate, il giudice Angelo Spirito, che aveva impugnato le delibere e si era visto dare torto dal Tar, per poi vincere il secondo grado, di certo tornerebbe a presentare i ricorsi contro le decisioni del Consiglio. Ma, prima di una nuova sentenza di Palazzo Spada, trascorrerebbero almeno altri due anni. E intanto sulla faccenda verrebbe messa una toppa. Comunque si concluda la “partita”, la sentenza di Palazzo Spada è solo l’ultima scossa per un Consiglio superiore della magistratura già indebolito. La decisione del Tribunale amministrativo di annullare le delibere, che all’indomani dello scandalo sul mercato delle toghe dovevano rappresentare un cambio di passo sulle nomine, mette in luce le crepe del “sistema”, fornendo ulteriori argomenti politici a chi, da anni, invoca una riforma del Csm che non lasci margini alle correnti, con il progetto di sorteggio dei consiglieri, finora non è sembrato realmente praticabile. Il centrodestra è compatto. Ma lo stato di salute dell’amministrazione della giustizia preoccupa anche chi a destra non è mai stato. “La giustizia perde pezzi, anche importanti” commenta Giovanni Maria Flick, ex ministro numero uno di via Arenula e presidente emerito della Consulta, che manifesta tutta la sua preoccupazione. La decisione del Consiglio di Stato che, alla vigilia dell’anno giudiziario, ha annullato le nomine dei vertici della Cassazione, è solo l’ultimo episodio: prima i giudici amministrativi avevano cassato un’altra importante delibera del Csm, quella che designava Michele Prestipino procuratore di Roma. “O il problema riguarda il metodo delle scelte o le procedure di controllo, ma sono più propenso a ritenere che il nodo sia nel primo anello. Per cui la riforma del Csm, che urge, se e quando ci sarà, dovrà risolvere questi aspetti. Troppe nubi si sono addensate”. La magistratura allo specchio di Giuliano Foschini La Repubblica, 16 gennaio 2022 Lo scontro sulla Cassazione, con la decisione del Consiglio di Stato di annullare la nomina del primo presidente e del suo aggiunto, attiene alla funzione che la Costituzione assegna agli organi dello Stato. La decisione del Consiglio di Stato di annullare la nomina del primo presidente della Corte di Cassazione e del suo aggiunto, in sostanza i due magistrati più importanti d’Italia, non può e non deve cadere, nel dibattito pubblico, come un banale passaggio dialettico della giustizia. Non può perché è una decisione senza precedenti: mai nessuno aveva richiesto nemmeno l’intervento di un giudice terzo per discutere e ribaltare due nomine così importanti. Non deve perché non è una questione tecnica ma qualcosa che, al contrario, attiene alla funzione che la Costituzione assegna agli organi dello Stato. In questo caso, il Consiglio superiore della Magistratura. È una questione, dunque, che riguarda direttamente tutti quanti noi. La Costituzione dice chiaramente che spettano al Csm “assegnazioni, trasferimenti, promozioni” dei magistrati, sulla base di valutazioni che i consiglieri sono tenuti volta per volta a esprimere. Sempre più spesso i giudici amministrativi vengono però chiamati in causa - da chi non viene scelto dal Consiglio - per valutare quelle decisioni. L’intervento dovrebbe essere di natura tecnica, procedurale. Ma invece capita con frequenza che i giudici amministrativi entrino nel merito, cassando e ribaltando le scelte del Consiglio. Il 30 per cento dei ricorsi presentati da magistrati contro le decisioni del Csm viene accolto dai giudici amministrativi: uno su tre. È evidente, quindi, che c’è qualcosa che non funziona. Proprio perché la questione non è soltanto tecnica, le sedi in cui aprire un dibattito in tema di diritto sono altre. È però fondamentale segnalare un passaggio - che sta creando un dibattito tra giuristi in queste ore, perché vedono un chiaro travalicamento delle funzioni dei giudici amministrativi - proprio della sentenza del Consiglio di Stato con il quale si annulla la nomina del primo presidente di Cassazione, Pietro Curzio. “Ferma l’esclusiva attribuzione al Csm del merito delle valutazioni - scrivono - su cui non è ammesso alcun sindacato giurisdizionale, la motivazione posta a fondamento della valutazione si manifesta gravemente lacunosa e irragionevole”. Come a dire: la decisione spetta a voi, noi non possiamo dire nulla ma guardate che è sbagliata, quindi dovete rifarla. Si diceva, la lente da cui guardare la vicenda non può però essere soltanto quella del diritto. Ma deve essere quella del cittadino. Che in un momento così difficile, in un pezzo della nostra storia dove la fiducia nei confronti della magistratura ha bisogno di essere ricostruita, rinforzata, rinsaldata, si trova a vedere due pezzi dello stesso Stato che litigano per la nomina dei loro, anzi dei nostri, più importanti rappresentanti. In sintesi: il Csm sceglie, tra l’altro praticamente all’unanimità. Un giudice amministrativo approva, un altro annulla. E ora in tutta fretta il Csm è pronto a rinominare, seppur con un’altra motivazione. Perché questo accadrà verosimilmente: Pietro Curzio e Margherita Cassano - due magistrati che godono di stima enorme e trasversale, al di là delle correnti, come tra l’altro anche i loro “avversari” - saranno nuovamente scelti dal Csm come primo presidente della Cassazione e aggiunto. Nella speranza che giudici amministrativi non annullino di nuovo tutto tra un anno. Ma davvero dobbiamo assistere a tutto questo? La risposta è, evidentemente, no. Serve che la politica, e la magistratura stessa, prendano atto della situazione. E intervengano subito. Con una riforma del Csm che assicuri trasparenza, certo, ma che restituisca al Consiglio anche il ruolo che gli affida la Costituzione: credibilità e autorevolezza nell’autogoverno della magistratura. Per farlo serve una presa di coscienza, e di autocritica, della categoria. È necessaria una maturità che la politica non ha quasi mai fatto vedere. E, soprattutto - come ha dimostrato il presidente Mattarella in questi sette anni difficilissimi, in cui la sua presenza è stata fondamentale per la tenuta del sistema - la garanzia del presidente della Repubblica, come capo del Csm. Ecco perché questa storia è l’esempio dell’inagibilità della candidatura di Silvio Berlusconi per il Quirinale. Con quale credibilità nei confronti della magistratura e dell’opinione pubblica, infatti, l’imputato (e condannato) Berlusconi, il leader politico con una storia così divisiva sui temi della giustizia, potrebbe affrontare e dirimere una questione così delicata? Non è più il tempo degli alibi. È quello, invece, delle riforme. E delle decisioni. Fratelli d’Italia e Meloni attaccano su giustizia e Csm per superare Salvini di Giulia Merlo Il Domani, 16 gennaio 2022 I conservatori scelgono le loro battaglie nel pianeta giustizia. Due su tutte, in contrasto con la linea di Cartabia: il sorteggio per eleggere i consiglieri togati del Consiglio superiore della magistratura e il no all’ammorbidimento delle regole sull’ergastolo ostativo. Il tema più caldo però è quello della riforma dell’ordinamento giudiziario, su cui la ministra è in netto ritardo. Le posizioni esposte da Fratelli d’Italia convergono naturalmente su quelle del centrodestra. Con una differenza, però. Se Lega e Forza Italia si muovono necessariamente nelle maglie rigide della maggioranza, Fatelli d’Italia non ha questo vincolo. Mentre proseguono le trattative sul Quirinale e si moltiplicano gli appelli all’unità e alla concordia, Fratelli d’Italia non rinuncia a fare opposizione. Nel mirino del partito di Giorgia Meloni finisce il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia. La ministra è considerata “quirinabile” e, forse anche per questo, le manovre politiche intorno al Colle hanno bloccato qualsiasi riforma, compresa quella dell’ordinamento giudiziario. Il governo doveva presentare l’emendamento prima di Natale ma non se ne è vista traccia e la scorsa settimana il presidente della commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni, ha ammesso che se ne parlerà ai primi di febbraio dopo l’insediamento del nuovo capo dello stato. Proprio questo ritardo ha offerto un assist a FdI che, rispetto ad altre questione, non ha mai avuto la giustizia tra le sue priorità. Consapevole del fatto che si tratta di un tema spino “scivoloso”, ha sempre lasciato ad altri partiti la battaglia tra giustizialisti e garantisti e a Matteo Salvini lo scontro con i magistrati. Adesso però, anche i “conservatori” (come Meloni ama ormai definire la “sua” destra) scelgono di affrontare la questione giustizia a partire da due aspetti particolari: il sorteggio per eleggere i consiglieri togati del Consiglio superiore della magistratura, battaglia condivisa anche dagli altri partiti di centrodestra, e il no all’ammorbidimento delle regole sull’ergastolo ostativo. Il partito di Meloni critica le posizioni della ministra su questo ma anche sulle scelte pregresse, in particolare sul ddl penale che contiene la riforma della prescrizione e il meccanismo dell’improcedibilità. Una scelta di compromesso al ribasso perché Cartabia non era nelle condizioni politiche di abrogare definitivamente la riforma Bonafede, voluta dal Movimento 5 stelle. “La riforma della giustizia è la grande incompiuta, non bastano modifiche al codice di rito e soluzioni tampone, servono investimenti importanti e interventi concreti”, sintetizza la capogruppo di FdI in commissione Giustizia alla Camera, Carolina Varchi. Il tema più attuale però è quello della riforma dell’ordinamento giudiziario, su cui la ministra è in netto ritardo. La stragrande maggioranza della magistratura associata si è detta contraria alla soluzione del sistema elettorale maggioritario con collegi binominali proposto dal governo. A queste critiche si associa anche Fratelli d’Italia. “La proposta Cartabia è Tachipirina e vigile attesa rispetto a un malato di cancro”, ha detto il responsabile giustizia Andrea Delmastro durante la presentazione delle proposte del partito. “Abbiamo proposto il sorteggio per evitare il correntismo: la ricetta Cartabia è la sublimazione del metodo Palamara e quindi diciamo no”. Peccato che il sorteggio sia un meccanismo altrettanto poco condiviso dalle toghe. Proprio la riforma del Csm sarà il primo tema che Meloni sottoporrà all’attenzione del nuovo capo dello Stato, che è anche il presidente dell’organo di governo autonomo della magistratura. Le posizioni esposte da Fratelli d’Italia convergono naturalmente con quelle del centrodestra. In particolare sul sorteggio al Csm l’orientamento è condiviso anche da Forza Italia con Pierantonio Zanettin da sempre portatore convinto di questa proposta, ma anche dalla Lega. Con una differenza, però. Se Lega e Forza Italia si muovono necessariamente nelle maglie rigide della maggioranza di governo e dunque le loro critiche all’operato della ministra non possono mai superare una certa soglia, FdI non ha questo vincolo. Proprio sul tema del sorteggio, proposta che potrebbe essere sostenuta anche da Italia viva di Matteo Renzi, potrebbe esserci una possibilità di incidere. Cartabia ha detto che il testo del ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario non è blindato ma potrà venire modificato dal parlamento perché il governo non metterà la fiducia. Dunque se in commissione Giustizia tutto il fronte di centrodestra, compresa l’opposizione meloniana con l’aggiunta di Iv, proponesse il sorteggio, l’emendamento potrebbe passare. Se così fosse, però, la vittoria politica la incasserebbe soprattutto Fratelli d’Italia e non certo i sabotatori della linea della ministra e del governo di cui fanno parte, che a quel punto dovrebbero confrontarsi e giustificarsi con il resto della maggioranza. Gli interrogativi sono molti e le forze in gioco non sono solo quelle politiche. Il sorteggio è osteggiato da buona parte della magistratura associata ma un colpo di scena potrebbe arrivare dal referendum indetto dall’Associazione nazionale magistrati per il 27 e 28 gennaio, in cui si chiede a tutti gli iscritti di esprimersi sul sorteggio. In ogni caso la discesa in campo così netta di Fratelli d’Italia dice due cose: che la giustizia sarà il terreno di scontro dei prossimi mesi e potrebbe essere - come già successo nel Conte I e nel Conte II - l’inciampo che fa vacillare la maggioranza. Campania. Covid, il Garante dei detenuti: “Serve decreto svuota-carceri” La Repubblica, 16 gennaio 2022 “Chi ha sbagliato deve pagare il suo debito non a prezzo della vita, perché chi è detenuto ha diritto alla tutela della sua vita, perché il carcere non deve essere un luogo oscuro e separato dalla società. In Campania oggi abbiamo 6.403 reclusi nei 15 Istituti penitenziari. Sono invece 6.882 le persone diversamente libere in Area penale esterna. Carcere e Covid. Sono 221 gli agenti e gli operatori penitenziari contagiati in Campania. Invece 351 i detenuti contagiati (di cui 124 a Poggioreale e 120 a Secondigliano). Lo so non fanno notizia, sono numeri!!!”, Così il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello aggiornando i dati su carcere e Covid in Campania. Il garante Ciambriello conclude la sua nota con queste proposte operative in questo periodo di crisi pandemica: “Occorre non far entrare in carcere persone, se non per reati gravi, c’è bisogno di più misure alternative al carcere, il governo deve mettere in campo un decreto svuota-carceri, subito assunzioni, anche a tempo determinato, per agenti di polizia penitenziaria, educatori e figure socio-sanitarie, vaccini e cure mediche adeguate per i detenuti e gli operatori penitenziari, far tornare nelle proprie Regioni i detenuti, rispettando il diritto della territorialità della pena, liberazione anticipata da 45 a 75 giorni. Mutare il carcere - conclude Ciambriello - significa soprattutto operare un processo di trasformazione culturale e legislativa in grado di renderlo al contempo un luogo di garanzia dei diritti e di certezza della pena”. Teramo. Quaranta detenuti positivi, il carcere chiude per Covid Il Centro, 16 gennaio 2022 Focolaio all’interno del Castrogno, contagiati anche alcuni agenti della polizia penitenziaria. Scattano le misure di prevenzione sanitaria, stop ai colloqui in presenza con i familiari. Quaranta detenuti del carcere Castrogno di Teramo sono positivi al Covid. Dopo i primi due casi riscontrati domenica scorsa, giovedì è stato effettuato uno screening di tutti i detenuti e di tutti gli operatori dell’amministrazione penitenziaria e della polizia penitenziaria. Sono state riscontrate 38 positività tra i detenuti e 4 tra le fila della Polizia penitenziaria che si vanno ad aggiungere alle 12 pregresse. Tutti i detenuti sono stati sottoposti alla quarantena della durata di dieci giorni mentre quelli risultati positivi sono stati isolati all’interno delle proprie stanze detentive. Da lunedì sono sospesi i vari corsi scolastici e i colloqui in presenza con familiari. “Nonostante questo terremoto sanitario i detenuti sono collaborativi nell’applicazione delle misure restrittive”, fa sapere il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, “la situazione al momento è tranquilla ma questo non deve indurre ad abbassare la guardia poichè gli istituti sono come sempre polveriere pronte ad esplodere da un momento all’altro, a maggior ragione in questo particolare momento di pandemia”. Il Sappe torna a sollecitare interventi urgenti da parte del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria affinché assegni al più presto le cinquanta unità mancanti dall’organico dei vari ruoli della polizia penitenziaria, tre educatori ed altre figure dei ruoli tecnici e nell’immediato, per la delicatissima situazione legata alla pandemia e alle sedici unità positive al Covid, di inviare almeno quindici unità di polizia penitenziaria di rinforzo per garantire il ristoro psicofisico del restante personale che in questi mesi “con abnegazione e responsabilità ha rinunciato alla fruizione delle ferie e dei riposi settimanali espletando innumerevoli ore di lavorio straordinario per garantire l’ordine e la sicurezza dell’istituto e le attività trattamentali a favore dei ristretti”. Pavia. Tre medici per 578 detenuti e celle malsane: “Così a Torre del Gallo cresce il disagio” di Maria Fiore La Provincia Pavese, 16 gennaio 2022 Una delegazione di rappresentanti dell’Osservatorio carceri, avvocati e politici hanno fatto visita ieri alla struttura. Un dirigente medico, che è psichiatra, e altri due medici in supporto. Su questi numeri si regge il sistema sanitario del carcere di Torre del Gallo. A questo personale, ridotto al lumicino, si appoggiano i detenuti che hanno bisogno di assistenza, medica ma anche psicologica, perché magari vivono più di altri il disagio della propria condizione. “L’area sanitaria è un buco nero”, dicono senza mezzi termini gli avvocati penalisti che, ieri mattina, hanno fatto visita al carcere di Pavia insieme ai rappresentanti dell’Osservatorio nazionale carceri e ad alcuni politici. La delegazione, che ha chiesto il sopralluogo dopo che in carcere si erano verificati tre suicidi in un mese, è stata accompagnata dalla direttrice Stefania D’Agostino all’interno della struttura, che nella parte più vecchia è apparsa fatiscente. Piove dal tetto, ci sono problemi con l’acqua calda e in alcune celle mancano perfino i termosifoni. La delegazione era composta da dodici avvocati. Erano presenti i rappresentanti della camera penale di Pavia Daniele Cei (presidente), Alberto Assanelli, Marco Panzarasa, Francesca Timi, Valeria Chioda, Cristina Castagnola, Eleonora Grossi, Alessandro Cignoli, Antonio Radaelli, e Valentina Alberta come rappresentante dell’Osservatorio carcere. Presente anche il presidente dell’Ordine degli avvocati Massimo Bernuzzi e Alessandro Cignoli come consigliere, insieme a una delegazione politica composta dal parlamentare Alessandro Cattaneo, dall’assessore di Pavia Anna Zucconi e dal consigliere comunale Michele Lissia. Alla visita era presente anche Laura Cesaris, garante dei detenuti per la provincia di Pavia. La delegazione ha incontrato il direttore sanitario Davide Broglia, impegnato nella somministrazione della terza dose di vaccino ai detenuti, e ha potuto visitare il polo psichiatrico, dove sono reclusi i detenuti più difficili, quelli incapaci di intendere e volere. “Il disagio psicologico c’è anche tra i detenuti comuni - spiega Grossi - ma questi casi non sono certificati”. Il carcere, che ospita attualmente 578 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 514 persone, dal punto di vista delle condizioni strutturali è apparso come diviso in due. La parte vecchia, che ospita i detenuti cosiddetti comuni (chi si è macchiato di reati non gravissimi), cade a pezzi. Le infiltrazioni di acqua dal tetto provocano umidità e muffa nelle celle, dove ci sono problemi con l’acqua calda e con il riscaldamento. Il blocco C, realizzato di recente, è invece “come dovrebbe essere un carcere”, spiega l’avvocata Eleonora Grossi. È la sezione dei protetti, i detenuti che hanno commesso reati molto gravi, come le violenze sessuali e gli omicidi, e dove sono ospitati i collaboratori di giustizia. “Le celle, che sono riscaldate e salubri, hanno spazi giusti e ciascuna è dotata di bagno interno e addirittura doccia - aggiunge Grossi. La direttrice ci ha spiegato che le segnalazioni sulle criticità vengono fatte, ma le risposte tardano ad arrivare. L’obiettivo della visita era proprio questo: gli avvocati vogliono essere un tramite per aprire le porte del carcere verso l’esterno e per arrivare a una soluzione, attraverso chi ha il potere di intervenire”. Napoli. Detenuto positivo riportato in cella: in ospedale non c’era posto di Viviana Lanza Il Riformista, 16 gennaio 2022 È vero che siamo in emergenza. È vero che negli ospedali si fanno i salti mortali per curare tutti e a volte la situazione è davvero avvilente e drammatica. È vero che si sentono appelli disperati provenire dalle corsie per la carenza di posti e di personale con l’incubo di dover arrivare a scegliere chi curare e chi no. Ma è pur vero che il diritto alla salute va garantito, a tutti. Anche a chi è detenuto. Non a caso in due grandi ospedali cittadini sono previsti da anni dei posti letto riservati ai detenuti da ricoverare e agli agenti che devono fare loro da scorta. Uno di questi ospedali è il Cotugno, struttura specializzata in malattie infettive. È chiaro che in periodo di Covid è uno dei nosocomi maggiormente preso d’assalto. Solo pochi giorni fa l’immagine delle ambulanze in fila all’ingresso dell’ospedale dava la misura del livello di emergenza sanitaria che stiamo vivendo a causa della pandemia. Ciò nonostante è difficile pensare che un detenuto positivo al Covid, portato in ospedale dal carcere (quindi, viene da pensare, in condizioni tali da ritenere necessarie cure in un vero e proprio ospedale), venga rispedito indietro e riportato in cella perché in ospedale non c’è posto per lui. Eppure, al Cotugno sono previsti tre posti letto in una stanza con le sbarre alle finestre e la possibilità di ospitare gli agenti della penitenziaria che fanno da scorta, sono posti letto riservati ai detenuti di Poggioreale, Secondigliano e Nisida. Calcolando che questi tre istituti, messi insieme, contano una popolazione detenuta di oltre tremila persone, tre posti letto sembrano pure una previsione ottimistica. Ma non è questo il punto in questo caso. Il punto è che questi tre posti riservati ai detenuti risulterebbero occupati da persone che detenute non sono, e per questo il detenuto di Secondigliano, che aveva bisogno del ricovero per via del Covid, risulta riportato in cella. Il garante regionale Samuele Ciambriello ha segnalato il caso chiedendo spiegazioni al direttore dell’Ospedale dei Colli Mauro Di Mauro e al direttore sanitario dell’ospedale Cotugno. “L’ospedale Cotugno ha tre posti riservati, per ragioni sanitarie e di sicurezza, per i detenuti di Secondigliano, Poggioreale e Nisida. Ho avuto notizia - ha scritto il garante nella lettera inviata ai dirigenti sanitari - che questi posti sono stati già occupati da cittadini non detenuti e che un detenuto è rientrato nel carcere di Secondigliano per mancanza di posti all’ospedale Cotugno. Ad oggi tra Poggioreale e Secondigliano ci sono 246 detenuti contagiati. Prego quindi - ha concluso - di tenere presente il diritto alla salute dei detenuti, riservando a loro i tre posti al Cotugno”. Ricevuta la lettera del Garante, la direzione del Cotugno si è subito attivata per risolvere la questione e già da questa mattina è disponibile un posto letto per il detenuto malato di Covid del carcere di Secondigliano. Intanto continua a crescere il numero dei positivi all’interno delle due grandi carceri cittadine: tra Poggioreale e Secondigliano, in queste ore, i contagiati sono più di 300. Palermo. “Le donne nella cultura mafiosa”, incontro promosso dal centro Pio La Torre redattoresociale.it, 16 gennaio 2022 Ancora molte disuguaglianze e violenza di genere nella società e nelle organizzazioni mafiose: lo ha evidenziato un incontro promosso dal centro Pio La Torre. Oltre 435 le scuole che, insieme ad alcuni istituti carcerari, che hanno seguito la videoconferenza “Le disuguaglianze di genere e la pratica della violenza nella società civile e nelle organizzazioni mafiose” è stato il tema della terza videoconferenza del progetto educativo antimafia e antiviolenza organizzato dal Centro Studi Pio La Torre. A parlarne sono state: Alessandra Dino sociologa dell’Università di Palermo, Sabrina Garofalo del Centro di Women’s Studies ‘Milly Villa’ dell’Università della Calabria e Beatrice Pasciuta, pro-rettrice dell’ateneo palermitano con delega alla Inclusione, pari opportunità e politiche di genere. A moderare l’incontro il presidente del centro, Vito Lo Monaco. Sono state oltre 435 le scuole collegate in videoconferenza, comprese alcune carceri di Nord a Sud Italia. Numerose sono state le domande degli studenti sulla necessità di introdurre a scuola l’educazione sentimentale, sul permanere degli stereotipi di genere, sul linguaggio e lo scarso numero dei centri antiviolenza su tutto il territorio. “Dall’ultimo report della Polizia di Stato emerge come la Sicilia sia la prima regione dove si registrano più violazioni dei divieti di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima di violenza - ha detto Alessandra Dino, sociologa dell’Università di Palermo - e sia la seconda regione per reati legati al cosiddetto ‘revenge porn’, ovvero la diffusione illecita di video e immagini sessualmente espliciti. A lungo il nostro diritto penale è stato sessista, trattando uomini e donne in maniera diversa. Il reato di stalking è stato introdotto nel 2009 mentre la legge contro la violenza femminile che introduce nuove disposizioni come il divieto di avvicinamento alla dimora della persona offesa è del 2013”. “Tra i Paesi europei l’Italia è terzultima per numero di omicidi femminili. La violenza di genere non è un problema privato o soltanto femminile ma sociale - continua Alessandra Dino - perché ha a che fare con le violazioni dei diritti umani, come ratificato dalla Convenzione di Istanbul. Inoltre, la gelosia è spesso considerata un elemento plausibile per non dare le aggravanti per ‘futili e abietti motivi’, al contrario di quando il delitto viene commesso per ragioni economiche”. Il giornalismo ha anche la sua responsabilità. C’è una retorica che porta alla de-responsabilizzazione dell’assassino e una rappresentazione distorta della realtà: fa più notizia l’uccisione di una donna giovane, con il 38% di articoli a fronte di un 4,8% di casi che hanno riguardato donne tra i 10 e i 16 anni, mentre quando le vittime hanno un’età che va da 40 a 59 anni queste sono sottorappresentate con il 12,8% di articoli. L’omicidio di una donna anziana non fa notizia, come quello di una straniera a opera di uno straniero, al contrario uno straniero che uccide un’italiana fa molta più notizia. Nel 92% dei casi le donne sono uccise da una persona conosciuta. Si parla erroneamente di ‘raptus’ e di uomini con patologie psichiche ma solo nell’8% dei casi c’è una diagnosi di psicosi grave, raccontando così come episodica una violenza che in realtà è nella maggior parte dei casi sistemica e commessa da uomini normali che non hanno precedenti penali. Poi c’è il contesto mafioso, che è pieno di violenze di genere che annullano completamente la donna. “C’è questa necessità di annullare i corpi femminili nei contesti di tipo mafioso - ha detto Sabrina Garofalo del Centro di Women’s Studies ‘Milly Villa’ dell’Università della Calabria -. Nella Ndrangheta questa relazione tra il territorio e i corpi assume forme di controllo più forti. Qui il concetto di onore cammina di pari passo con quello di violenza, prevalendo sul principio di autodeterminazione”. Sabrina Garofalo ha raccontato le storie della giovane testimone di giustizia Maria Stefanelli, della collaboratrice Giusy Pesce e delle donne Maria Concetta Cacciolla, Roberta Lanzino e Annamaria Scarfò che hanno rappresentato un elemento di rottura delle logiche del clan. Chi si ribella va punito con una pena esemplare: “Nei femminicidi di Ndrangheta è stato usato l’acido muriatico che corrode e cancella anche simbolicamente tutti gli organi legati alla voce di chi si parla - aggiunge Garofalo - i corpi delle donne sono stati usati come merce di scambio in una violenza fondativa del potere mafioso, taciuta, in una sorta di ammaestramento collettivo dove il dominio sui corpi va di pari passo con il dominio del territorio”. Su altri versanti la situazione non è certo migliore. “Occorre superare le disparità anche sul trattamento economico riservato alle donne rispetto a quello dei loro colleghi - ha aggiunto Alessandra Dino - e offrire risorse economiche serie per operare trasformazioni. La maggior parte degli operatori che lavora nelle case-famiglia, ad esempio, lo fa gratuitamente”. Uno spiraglio arriva dall’Università degli Studi. “L’università di Palermo quest’anno con il nuovo rettore ha voluto un pro-rettorato dedicato all’inclusione e alle politiche di genere. Ciò significa dotare l’università di una struttura che si occupa di tutti i temi connessi alle disuguaglianze e discriminazioni - ha detto Beatrice Pasciuta, pro-rettrice alla Inclusione Pari Opportunità e Politiche di Genere Unipa. Mettere a disposizione dei ragazzi e delle ragazze le nostre competenze e le nostre ricerche sarà il nostro compito”. Potenza. “Extra moenia”, il progetto con i detenuti lecronachelucane.it, 16 gennaio 2022 Il progetto riqualificherà un’area verde di 800 mq all’interno del perimetro della Casa Circondariale di Potenza. Si chiama “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale” il progetto vincitore della terza edizione dell’avviso pubblico Creative Living Lab promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Il progetto è ad opera della Compagnia teatrale Petra e si svolge presso la Casa Circondariale di Potenza. E’ tra i 37 progetti approvati su 1562 candidature ed è stato presentato e condiviso nella Casa Circondariale di Potenza. Sarà occasione anche per aprire l’iniziativa anche ai cittadini e alle associazioni della città di Potenza mediante laboratori di comunità con cui si darà il via alla prima fase di creazione partecipata del progetto. Il progetto “Extra Moenia - Spazio di connessione territoriale” è frutto di un’intensa attività di coprogettazione della Compagnia teatrale Petra di Satriano di Lucania con la Direzione della Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza, dove Petra è presente attivamente da circa otto anni con laboratori teatrali e con la collaborazione dell’Associazione Officine Officinali APS e il sostegno del Comune di Potenza. L’obiettivo del progetto è un intervento di riqualificazione di un’area verde non utilizzata di circa 800 mq, presente all’interno del perimetro della Casa Circondariale di Potenza a ridosso del quartiere limitrofo di Rione Betlemme, delimitata su tre lati da una recinzione e sul lato restante dalle mura del carcere. I protagonisti di “Extra Moenia” saranno gli ospiti della casa circondariale, l’intera comunità del quartiere, le scuole e tutti coloro che vorranno partecipare. Attraverso laboratori di comunità saranno individuati necessità e bisogni dei fruitori ultimi dell’area oggetto dell’intervento e la sua destinazione d’uso. Sarà attivato anche un processo partecipato di “autocostruzione”, per capire come trasformare bisogni e necessità della comunità in un progetto concreto di costruzione del luogo, che sarà realizzato nella fase finale delle attività utilizzando semilavorati e materiali di recupero della casa circondariale. Per partecipare ai laboratori di comunità, è possibile inviare un’e-mail di richiesta informazioni a progettipetra@gmail.com. Monza. La biblioteca li vuole dismettere, il Circolo Sardegna: libri ai detenuti Il Giorno, 16 gennaio 2022 Mille volumi saranno donati alla Casa circondariale. Dai testi di cultura ai romanzi a quelli di storia e di musica. Il Circolo Sardegna fa da tramite tra la biblioteca di Concorezzo e la Casa circondariale di Monza per la donazione di libri dismessi. Si tratta di oltre 1.000 libri in buono stato da donare gratuitamente alla biblioteca del carcere monzese. Basterà che gli incaricati della Casa circondariale si mettano d’accordo per il ritiro con l’associazione che li ha in custodia, a Concorezzo in Villa Zoia,via Dante 50, presso la sede operativa del Circolo Culturale Sardegna di Monza Concorezzo e Vimercate. I libri sono stati dismessi dalla Biblioteca di Concorezzo, in quanto poco letti, per fare spazio a nuovi titoli. “Destinarli alla discarica era un peccato - osserva Salvatore Carta, presidente del Circolo Sardegna - altri mille libri sono stati appena offerti a una comunità di Fiorenzuola d’Arda. Anni fa donammo oltre mille libri alla biblioteca di Usini che aveva subito un incendio vandalico che distrusse la biblioteca”. Sono libri di vario genere, dalla storia del cinema e del teatro a testi su come accostarsi all’ascolto della musica, da testi di storia dell’arte e storia dell’architettura fino alla narrativa, per adulti e ragazzi. La collaborazione con la Casa circondariale risale agli anni ‘90, quando il Circolo portò un gruppo folk della Sardegna per allietare i detenuti e fu un successo. Lo spettacolo fu apprezzato sia dai detenuti sia dal personale. Avellino. Il Csv Irpinia-Sannio incontra detenuti del carcere di Sant’Angelo dei Lombardi ottopagine.it, 16 gennaio 2022 Nella giornata di ieri lo staff del CSV Irpinia Sannio ha incontrato i detenuti della Casa di reclusione “Bartolo, Famiglietti e Forgetta” di Sant’Angelo dei Lombardi per consegnare loro mascherine FFP2 e calze di dolciumi per i loro bambini. Presenti la direttrice dell’istituto penale Marianna Adanti, il funzionario giuridico-pedagogico Marianna Pernice, il direttore del CSV Irpinia Sannio Maria Cristina Aceto con il componente del consiglio direttivo Gabriele Lucido ed alcuni enti del terzo settore del territorio: la cooperativa “Il Germoglio onlus”, la Pubblica Assistenza di Lioni e l’associazione “Galea”. “Si tratta di una squisita opera di volontariato - ha commentato la direttrice della casa di reclusione Marianna Adanti - ed io ringrazio le associazioni del territorio con il CSV Irpinia Sannio per l’attenta sensibilità che hanno dimostrato e per l’impegno quotidiano con il quale collaborano con la nostra struttura. Per i detenuti è stata un’occasione importante, un momento di gioia che ha permesso loro di liberarsi anche se solo per poco dalla realtà del carcere. Ringrazio inoltre il personale di polizia penitenziaria per la collaborazione che ha reso possibile l’attività”. L’iniziativa di Sant’Angelo dei Lombardi rientra tra quelle promosse dal CSV Irpinia Sannio nell’ambito del progetto Il sorriso ti dona destinato a persone con fragilità, anziani soli, detenuti, pazienti ricoverati nelle strutture sanitarie delle Province di Avellino e Benevento, bambini meno fortunati. “Una nuova tappa del viaggio della nostra iniziativa “Il sorriso ti dona”, dopo l’ospedale Moscati e l’istituto penale minorile di Airola - ha raccontato la direttrice del CSV Maria Cristina Aceto - abbiamo fatto visita alla casa di reclusione di Sant’Angelo dei Lombardi portando, con le associazioni locali, un messaggio di speranza ai detenuti”. Fine vita, si incrina il muro Vaticano di Luca Kocci Il Manifesto, 16 gennaio 2022 La rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica apre al suicidio assistito con l’ok della Santa Sede: approvare le legge. Dalla Civiltà Cattolica arriva un’inattesa apertura alla proposta di legge sul suicidio assistito e un invito ai parlamentari a “non affossare” la legge, anche per evitare il peggio, che sarebbe rappresentato dal referendum pro eutanasia, promosso dall’associazione Luca Coscioni. Un via libera che, benché condizionato, fa infuriare i settori conservatori del mondo cattolico, sia parlamentari che extraparlamentari, e insospettire i sostenitori del referendum (“sono partite le grandi manovre antireferendarie”, commenta Riccardo Magi, radicale di +Europa). E un parere pesante, di cui molti deputati cattolici terranno conto, che potrebbe condizionare il voto di febbraio, quando la Camera sarà chiamata a pronunciarsi sulla legge: La Civiltà Cattolica infatti non è solo l’autorevole rivista dei gesuiti diretta da padre Spadaro, vicinissimo a papa Francesco, ma una sorta di organo ufficioso della Santa sede - le bozze vengono lette e corrette in Segreteria di Stato prima della pubblicazione - che quindi ha autorizzato l’articolo. Sia chiaro: la dottrina della Chiesa cattolica sul fine-vita non è cambiata, come del resto ha confermato a settembre 2020 la lettera Samaritanus bonus, firmata dalla Congregazione per la dottrina delle fede e approvata da papa Francesco (eutanasia e suicidio assistito sono “crimini contro la vita umana”). La legge in discussione “diverge dalle posizioni sulla illiceità dell’assistenza al suicidio” definite dal magistero, chiarisce Carlo Casalone, gesuita e medico, autore dell’articolo pubblicato sul fascicolo della Civiltà Cattolica uscito ieri. Tuttavia essa costituisce la mediazione di una “legge imperfetta”, rispetto all’eventualità di liberalizzare l’eutanasia tramite il referendum, che invece provocherebbe un “danno più grave”, un vero e proprio “vulnus nell’ordinamento giuridico riguardo a un bene fondamentale, qual è la vita”. Dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha assolto Marco Cappato dalle accuse di aver aiutato Fabiano Antoniani (dj Fabo) a suicidarsi, una normativa complessiva sul fine-vita si è resa necessaria. Tanto più che la stessa Corte ha espressamente sollecitato il Parlamento a colmare il vuoto legislativo. Nasce da qui la proposta di legge sulla “morte volontaria medicalmente assistita”, che Casalone giudica sostanzialmente in linea con le indicazioni della Consulta. “Il testo - scrive il gesuita - riconosce non un diritto al suicidio, ma la facoltà di chiedere aiuto per compierlo a certe condizioni”: ovvero che vi sia una “condizione clinica irreversibile”, associata “al dolore e alla sofferenza intollerabile” e unita alla pratica di “trattamenti sanitari di sostegno vitale, da cui il malato dipende”. Tuttavia, secondo La Cività Cattolica, alcune parti della proposta di legge andrebbero emendate, per non assecondare quel “pendio scivoloso” che tende ad allargare le maglie della norma. Ad esempio, per quanto riguarda l’interruzione dei trattamenti vitali, Casalone suggerisce di aggiungere “che la loro sospensione condurrebbe al decesso in modo diretto e in tempi brevi”. E di introdurre l’opzione “dell’obiezione di coscienza” per il personale sanitario coinvolto nelle “procedure e nelle attività specificamente dirette al suicidio”, dal momento che la stessa proposta di legge prevede che la morte non sia “privatizzata” ma possa avvenire anche in una struttura ospedaliera pubblica. Allora piuttosto che “affossare” la legge, “con il rischio di favorire la liberalizzazione referendaria dell’omicidio del consenziente”, meglio “renderla meno problematica modificandone i termini più dannosi” e poi approvarla (anche se, Casalone ne è cosciente, tecnicamente non impedirebbe il referendum, che interviene sulla modifica di un altro articolo del Codice penale). Per i parlamentari cattolici che votassero sì, è già pronta l’assoluzione: “sostenere questa legge - sostiene il gesuita - corrisponde non a operare il male regolamentato dalla norma giuridica, ma purtroppo a lasciare ai cittadini la possibilità di compierlo”. Quella della Civiltà Cattolica è una “provocazione”, tuona Paola Binetti, senatrice dell’Udc e numeraria dell’Opus Dei: l’articolo ritiene la legge in discussione alla Camera “un male minore rispetto all’ipotesi referendaria”, ma “il magistero della Chiesa e papa Francesco più volte in questi ultimi tempi hanno ribadito un no inequivocabile davanti alla morte anticipata per intervento diretto di qualcuno”. Sulla stessa linea si attesta Massimo Gandolfini, presidente del Family day: si tratta di un “cedimento inaccettabile” su un tema “non negoziabile come quello della vita”, “non mi è chiaro perché per fermare un male ne facciamo un altro. Io non accetto questa idea”. “Eutanasia e cannabis, è ora di ammettere i referendum” di Filomena Gallo, Marco Cappato e Marco Perduca* L’Espresso, 16 gennaio 2022 “I due quesiti propongono riforme radicali di leggi che hanno 92 e 32 anni e vogliono adeguare quelle norme alle esigenze della società”. L’intervento dei promotori. L’Economist non l’ha incluso tra i motivi per cui l’Italia è stata nominata “paese dell’anno” per il 2021, ma il ritorno della democrazia diretta, e la sua esplosione grazie alla firma digitale, è un fatto degno di nota istituzionale e politica. Da anni si parla di e-government, cioè della possibilità di poter interagire online con la pubblica amministrazione, cosa sicuramente utile ma che non prevede gli strumenti telematici per una strutturale transizione verso una democrazia digitale o “OnLife”, come direbbe il filosofo Luciano Floridi. Nell’”OnLife Manifesto”, coordinato da Floridi nel 2014, si premette che “[…] siamo probabilmente l’ultima generazione a sperimentare una chiara differenza tra offline e online […] le dicotomie scontate come quelle fra reale e digitale o umano e macchina non sono più sostenibili in maniera nitida”. Con la firma digitale l’Italia è entrata nell’OnLife, almeno per l’attivazione dell’articolo 75 della Costituzione. A metà agosto, e un mese dopo, nel giro di pochi giorni son state raccolte oltre un milione di firme per la legalizzazione dell’eutanasia e della cannabis. Lo strumento era a disposizione di tutti i comitati promotori fin dalla fine di luglio ma solo quelle due richieste hanno fatto breccia nel Sistema per l’identità digitale, Spid: la “referendite” non s’è manifestata. I sei referendum sulla giustizia sono stati sì presentati, ma da nove Consigli regionali, per il resto il referendum renziano sul reddito di cittadinanza non è mai stato depositato, quello contro la caccia non ha raccolto le firme, anche perché sconosciuto al grande pubblico, né, nonostante le numerose ospitate televisive, le ha raccolte quello contro il green pass. Grazie a eutanasia e cannabis si sono viste decine di migliaia di registrazioni a un sistema che esisteva dal 2014 per esercitare un diritto. Un diritto che per questa prima volta ai promotori è costato 80 centesimi a firma più Iva (al 22 per cento) per oltre 1 milione di firme online! Tanto è stato l’entusiasmo che resta da raccogliere “solo” il 35 per cento delle sottoscrizioni. Un primato nazionale anche di raccolta fondi. Una partecipazione altrettanto convinta si era registrata nel 2013 e 2016 quando raccogliemmo le firme su proposte di legge d’iniziativa popolare sulla legalizzazione dell’eutanasia e la regolamentazione di produzione, consumo e scambio della cannabis. Ma quanto accaduto l’estate scorsa ha toccato vette d’entusiasmo impensabili. Nel rispondere a una domanda di Radio Radicale il 22 dicembre scorso, il presidente Draghi ha annunciato che il Governo non andrà in Camera di consiglio quando la Consulta deciderà l’ammissibilità dei referendum. Crediamo si tratti di una decisione in linea coi motivi per cui abbiamo proposto i ritagli dell’articolo 579 del codice penale e degli articoli 73 e 73 della legge sulle droghe. Infatti, non passa giorno in cui non ricordiamo che la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale ha depenalizzato il suicidio assistito in determinate situazioni e invitato il Parlamento a normare la questione. A oltre due anni da quella decisione, il testo incardinato alla Camera non ha un calendario certo né affronta quanto al centro del referendum. È passata pressoché inosservata, ma la VI Conferenza nazionale sulle droghe del Governo del novembre scorso ha, tra le altre cose, raccomandato un’attenuazione delle sanzioni penali e amministrative previste dalla 309/90 quasi come il quesito sulla cannabis. I referendum eutanasia e cannabis hanno conquistato la neutralità del Governo in una fase in cui il Parlamento continua ad assumersi responsabilità relativamente a temi su cui da anni esistono proposte di riforme, un momento in cui i capi dei partiti, che in teoria sarebbero a favore nel merito, hanno solo trovato il tempo di stigmatizzare l’istituto referendario. I due referendum propongono ritagli minimi, ma radicali, di leggi che hanno 92 e 32 anni, vogliono adeguare quelle norme alle esigenze della società restituendo un impianto normativo immediatamente applicabile. Teoricamente l’ammissibilità sarebbe la regola, ci aspettiamo che così sia. *Filomena Gallo, Marco Cappato e Marco Perduca sono membri dell’Associazione Luca Coscioni e dei Comitati promotori referendum eutanasia e cannabis Migranti. Il magistrato afghano in carcere a Catanzaro: “Non sono uno scafista” di Alessia Candito La Repubblica, 16 gennaio 2022 Dall’Alta Corte di Giustizia nel mirino dei talebani alla cella, la storia di Ahmad Jawid Mosa Zada. Da procuratore, per le sue battaglie è finito nel mirino dei talebani. Ma in Italia, dove ha cercato rifugio, è stato accusato di essere uno scafista e arrestato. Senza gli strumenti, i codici, la lingua per difendersi. Senza neanche la possibilità di rivendicare il proprio vero nome, negli atti ufficiali mozzato del patronimico. Sembra traccia rubata a Kafka, con labirintico processo che nel terzo millennio si ripete. Ma è la storia - vera, reale - di Ahmad Jawid Mosa Zada, magistrato dell’Alta Corte di Giustizia da mesi in carcere a Catanzaro. Per inquirenti e investigatori è uno dei mercanti di uomini che ha sfruttato la disperazione per fare soldi. Uno dei cinque - sostiene la procura di Locri - che hanno governato il peschereccio che il 26 maggio è partito dalle coste della Turchia per arrivare cinque giorni dopo al largo di Roccella Jonica. A bordo, 230 persone. Uomini, donne, bambini e adolescenti, tantissimi non accompagnati. Umanità dolente. Lì in mezzo, Ahmad Jawid. Stordito dopo giorni passati nella sala macchine a pregare che quella bagnarola tenesse il mare. Convinto, quando le motovedette di Guardia costiera e Finanza sono arrivate, che il peggio fosse passato. E invece no. Contro di lui hanno puntato il dito in tre. Due iracheni e un siriano, adesso tutti irreperibili. Subito dopo lo sbarco sono stati ascoltati dagli investigatori e nel mazzo di foto scattate a chi con loro aveva affrontato il mare, hanno pescato anche la sua. “Scafista”. Stanco, confuso, quando è stato fermato Ahmad Jawid ha provato a spiegare che si trattava di un equivoco, che per quella traversata aveva pagato e anche tanto, che a casa conservavano la ricevuta di quel trasferimento di denaro. Settemila euro, trasferiti attraverso la Ariana money service provider.co di Balkh “effettivamente accreditati - si legge nella traduzione giurata della nota di accompagnamento - solo quando si avrà prova dell’arrivo in Italia”. Ma la lingua è diventata trincea invalicabile, il fermo è stato convalidato e il procuratore è finito in carcere. Lo ha raccontato al suo legale sette mesi dopo. Tanto ci è voluto perché il fascicolo, arrivasse in mano all’avvocato Giancarlo Liberati, il primo che con Ahmad Jawid ci abbia parlato davvero prima di rappresentare il caso in aula. “Per prima cosa mi ha pregato di chiamare sua moglie - racconta il legale - da quasi un anno non aveva notizie di lui”. Perché il viaggio del procuratore è iniziato molto prima di imbarcarsi su quel peschereccio. I talebani non erano ancora tornati al potere, ma dopo il ritiro delle truppe Usa i più ne erano certi. E Ahmad Jawid sapeva di essere a rischio. Già nel 2018 era stato vittima di un attentato. Agli studenti coranici, ha spiegato al suo legale, lui non è mai piaciuto, nè gli hanno mai perdonato di aver partecipato più volte ai seminari sui diritti delle donne dell’Asia Foundation. Per questo, ancor prima che il governo del presidente Ashraf Ghani implodesse, ha lasciato l’Afghanistan. A piedi o con mezzi di fortuna è arrivato fino al confine fra Iran e Turchia, nel bosco dove i trafficanti lo aspettavano. Da lì, ancora giorni su camioncini malridotti, prima di raggiungere la costa. Un viaggio troppo pericoloso per portare con sè la moglie Behishta Ebrahimi Mosazada e i due bambini della coppia, Tahura, la piccolina di 6 anni, e Ahmad Sobhan, di un anno più grande. Sono rimasti a Mazar-i-Sharif - ci sono il fratello e il padre di Ahmad Jawid lì - ad aspettare, o meglio a sperare di avere notizie. E a combattere la paura. Di averlo perso. Dei talebani. Della fame che sta stritolando l’Afghanistan. Gli stessi pensieri che, quasi dall’altra parte del globo, tormentano il procuratore, che teme per i suoi più che per sè stesso, prigioniero di un carcere da cui il gip si è rifiutato di farlo uscire e in troppi lo potrebbero individuare. “Ma lui - riferisce il suo legale - mi ha detto che nella giustizia ci spera ancora. E mi auguro che il Tribunale del Riesame non lo faccia ricredere”. L’Italia è al quarto posto nel mondo per il livello di avversione ai migranti di Enzo Risso Il Domani, 16 gennaio 2022 L’avversione verso i migranti ha una netta connotazione di classe, con il ceto medio leggermente più aperturista e i ceti popolari più serranti. La completa chiusura delle frontiere trova schierati il 59 per cento dei ceti popolari contro il 44 per cento del ceto medio. Complessivamente le politiche primatiste sono condivise dal 66 per cento dell’opinione pubblica, con punte del 71 per cento nei ceti popolari, nei baby boomer e nel nord ovest dell’Italia. Ci sono segnali di raffreddamento della tensione verso i migranti, ma senza una vera inversione di rotta. Il Covid ha agito come effetto distraente, ma sotto la cenere il risentimento continua ad ardere. Nel corso dell’ultimo anno i tratti più negativi sono arretrati, anche se solo di due o tre punti percentuali. Non è solo una caratteristica italiana, ma con il 79 per cento di tensione verso gli immigrati ci collochiamo al quarto posto nel mondo, dopo Sud Africa (89 per cento), Belgio (81) e Perù (80). Superiamo gli americani (78), gli svedesi (76), i francesi (75), i tedeschi (74) e i britannici (72). Un’accoglienza difficile - Il tema migranti rimane uno dei nervi scoperti del paese. Dal punto di vista degli atteggiamenti nei confronti dei migranti, emerge un trittico di opinioni marcato da maggioranza relativa, 41 per cento, che esprime scelte di netta chiusura e respingimento. In questo agglomerato aleggiano posizioni di rabbia, ansia, disturbo, paura, repulsione e distanziamento verso i migranti. Sul versante opposto incontriamo l’universo degli accoglienti, persone che provano, principalmente, sentimenti di solidarietà, sostegno e commiserazione (39 per cento). In mezzo si colloca una fascia grigia (20 per cento) che, pur non provando un’avversione fobica verso gli immigrati, esprime sentimenti di incertezza, disinteresse, indifferenza e menefreghismo. Le posizioni anti immigrati sono diversificate e vanno dal 43 per cento di quanti vorrebbero l’arresto dei clandestini al 50 per cento dei favorevoli a una politica di completa chiusura delle frontiere; dal 54 per cento che ritiene giusto dare priorità agli italiani per il lavoro al 43 per cento che accusa gli immigrati di sottrarre servizi sociali agli italiani. L’avversione verso i migranti, inoltre, ha una netta connotazione di classe, con il ceto medio leggermente più aperturista e i ceti popolari più serranti. Così, ad esempio, la completa chiusura delle frontiere trova schierati il 59 per cento dei ceti popolari contro il 44 per cento del ceto medio. Nei ceti popolari il 58 per cento auspica una primazia per gli italiani per il lavoro, contro il 53 per cento del ceto medio. Ben più ampia la forbice sulla sottrazione, da parte dei migranti, dei servizi sociali. Il tema è sottolineato dal 52 per cento degli appartenenti ai ceti popolari, rispetto al 36 per cento del ceto medio. Complessivamente le politiche primatiste sono condivise dal 66 per cento dell’opinione pubblica, con punte del 71 per cento nei ceti popolari, nei baby boomer e nel nord ovest dell’Italia. Solo tra gli under 30 anni la quota è più ridotta (53 per cento). Da dove nasce la xenofobia - L’avversione verso i migranti, nel nostro paese, trae linfa da diversi fattori. In primo luogo c’è la tendenza alla mixofobia, il fastidio verso tutto ciò che è diverso. È il frutto dell’incertezza che nasce nel confronto con l’altro. È la paura e il rigetto per l’amalgama. È il senso di malessere provato per la mescolanza tra culture, modi di pensare e di essere differenti. Esistono, poi, altre due forme di disagio verso i migranti: una dell’agiatezza, ben descritto dall’avversione del ceto medio per la presenza di figli di immigrati nelle classi dei loro pargoli; l’altra, è quella che Bauman chiamava la catena scismatica: “La stretta contiguità di agglomerati “etnicamente stranieri” innesca umori tribali nella popolazione del luogo e l’obiettivo delle strategie suggerite da questi umori è l’isolamento forzato, ghettizzante, degli elementi stranieri”. Un quarto fattore è innescato dai processi di gerarchizzazione del lavoro. Nel corso degli anni gli immigrati hanno occupato i posti più bassi nella scala lavorativa, attivando, de facto, una divisione etnica dei ruoli sociali: di serie A per gli italiani e di serie B per i migranti. Tale divisione ha fatto supporre, ai nativi, di avere dei piccoli privilegi e una supposta “superiorità”. La crisi, lo sgretolamento del ceto medio, la precarizzazione del lavoro, rimettendo in discussione la sicurezza dell’impiego, dei livelli di vita e prestigio degli italiani, ha frantumato quei piccoli privilegi, quelle distinzioni e quell’equilibrio sociale che posizionava, percettivamente, gli italiani al di sopra degli immigrati. Deriva da questo il senso rabbioso di declassamento che si sfoga empaticamente nell’avversione verso i migranti. Grecia. Libertà di stampa a rischio, imputati tre giornalisti di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 16 gennaio 2022 Nuova offensiva del governo greco contro l’informazione. Questa volta sono presi di mira direttamente tre cronisti scomodi, imputati per aver fatto il loro lavoro. Si tratta dei giornalisti Yianna Papadakou, Kostas Vaxevanis e Alexandros Tarkas, tutti notissimi al pubblico greco per le loro coraggiose inchieste, incentrate soprattutto sulla corruzione politica. Ed è proprio uno di questi casi di corruzione a portarli ora di fronte al giudice. Si tratta dello scandalo delle tangenti elargite dalla multinazionale farmaceutica Novartis, scoppiato anni fa negli Stati uniti e risolto nel 2020 con un accordo extragiudiziale concluso con il ministero della Giustizia e l’Autorità di Controllo della Borsa statunitense. Come risarcimento la Novartis ha dovuto versare la somma di 346,7 milioni di dollari. Lo scandalo ha anche una coda greca, ancora aperta: manager greci della Novartis hanno spontaneamente deposto davanti alla giustizia americana riguardo alle tangenti versate dalla multinazionale a capi del governo e ministri della Sanità dei governi greci dei decenni precedenti, guidati da Nuova Democrazia (destra) e Pasok (socialisti). Fino a qualche anno fa la Grecia era molto importante per le industrie farmaceutiche. Era infatti il punto di riferimento per la definizione del prezzo dei farmaci a livello europeo. La corruzione, che è andata avanti per anni, mirava a mantenerlo alto in tutta Europa. Sia l’attuale governo di Nuova Democrazia che il Pasok, ora all’opposizione, hanno fatto di tutto per affossare lo scandalo. Hanno abolito la Procura Anticorruzione e cacciato la coraggiosa pm Eleni Touloupaki che conduceva le indagini. Ora il delicato tema è affidato a un Tribunale Speciale costruito ad hoc, non particolarmente attivo nell’indagare sui politici imputati. Uno dei quali, Adonis Georgiadis, è attualmente ministro dello Sviluppo e vicepresidente del partito di governo. Il secondo imputato è Andreas Loverdos, che pochi mesi fa aspirava alla leadership del Pasok. Le indagini contro altri grossi nomi coinvolti (gli ex premier Samaras e Papademos, l’ex commissario europeo Avramopoulos, l’ex presidente del Pasok Venizelos e altri) sono state sospese. Oltre che contro i tre cronisti che devono rendere conto della loro azione giornalistica, il Tribunale Speciale di Nuova Democrazia ha promosso mesi fa azione penale anche contro Dimitris Papangelopoulos, ex magistrato e ministro della Giustizia del governo Tsipras. L’ipotesi accusatoria è che i tre giornalisti abbiano indagato sullo scandalo su ordine di Papangelopoulos e in combutta con la pm Touloupaki, al fine di diffamare i ministri di Nuova Democrazia e del Pasok. Il fatto che l’indagine fosse partita dagli Stati uniti per l’accusa è un irrilevante dettaglio. Come è irrilevante, e scandaloso dal punto di vista legale, il fatto che i giornalisti debbono rendere conto delle loro inchieste mentre il dossier dello scandalo Novartis rimane ancora aperto presso la procura di Atene, visto che neanche i magistrati più ligi alle direttive del governo hanno avuto il coraggio di archiviarlo. Il tardivo accanimento contro tre nomi di spicco del giornalismo greco è un’”operazione di intimidazione al fine di metterci il bavaglio” ha commentato Kostas Vaxevanis. Questo in un paese in cui i giornalisti vengono assassinati e in tv trionfa la propaganda governativa. Vaxevanis, l’ultimo convocato, è editore e direttore del giornale domenicale Documento, vera spina nel fianco del governo. Yianna Papadakou è giornalista televisiva, ha lavorato per molti anni all’emittente pubblica Ert per poi continuare le sue inchieste in altre emittenti. Alexandros Tarkas si occupa principalmente di questioni militari e ha condotto indagini sulla corruzione in questo campo. Il nuovo attacco al giornalismo è stato unanimemente condannato dall’Ordine dei Giornalisti greci ma anche dal Centro Europeo per la Libertà di Stampa e dei Media (Ecpmf) che ha espresso la sua “preoccupazione per il continuo peggioramento della situazione in Grecia”. Caso Shalabayeva, il governo: “Fu un’espulsione regolare” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 gennaio 2022 La risposta all’interrogazione Pd: lei mentì. Domani il processo d’appello. “Il prefetto di Roma ha precisato che nell’intervallo temporale intercorso tra la notifica all’interessata del decreto di espulsione (29 maggio 2013) e la relativa esecuzione (31 maggio 2013), la signora Shalabayeva non ha mai fornito le sue esatte generalità, continuando a dichiarare di chiamarsi Alma Ayan e di godere dello status diplomatico della Repubblica Centrafricana”. Solo che il passaporto esibito presentava “evidenti segni di contraffazione” ed era “privo del necessario visto d’ingresso e del relativo timbro uniforme Schengen apposto dalla polizia di frontiera”. La risposta del governo a un’interrogazione parlamentare sul caso Shalabayeva - dal nome della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa dall’Italia nel giro di quarantott’ore nella primavera di nove anni fa - propone nuovi interrogativi sul presunto sequestro di persona per il quale a ottobre 2020 sono stati condannati sei funzionari di polizia e una giudice. Domani si aprirà a Perugia il processo d’appello all’ex capo della Squadra Mobile Renato Cortese (poi divenuto questore di Palermo) e all’ex responsabile dell’ufficio immigrazione (poi questore di Rimini) Maurizio Improta, che si sono visti infliggere cinque anni di pena in primo grado (l’accusa ne aveva chiesti meno della metà), agli altri poliziotti imputati e alla giudice Stefania Levore che convalidò l’espulsione (due anni e sei mesi rispetto alla richiesta di un anno); i condannati proveranno a rovesciare il giudizio e potranno esibire anche la posizione ufficiale del ministero dell’Interno (e per delega anche di Giustizia ed Esteri) sottoscritta dal sottosegretario Nicola Molteni. Ai deputati del Pd Carmelo Miceli, Enrico Borghi (responsabile sicurezza del partito) e altri firmatari che chiedevano lumi dopo la sentenza in cui il trattenimento e l’espulsione della Shalabayeva sono definiti “un rapimento di Stato”, il governo risponde che tutto si svolse secondo le regole vigenti, come sottolinea Miceli. Non solo la moglie del dissidente kazako non fornì le vere generalità, ma il ministero degli Esteri accertò che la sedicente Alma Ayan titolare del passaporto centrafricano “non beneficiava di alcuno status diplomatico-consolare” in Italia. Quanto alla condizione di rifugiata, non ne fece cenno ai poliziotti né al giudice di pace. L’Italia revocò l’espulsione “in autotutela” solo l’11 luglio 2013, dopo che la donna era già stata caricata su un aereo diretto in Kazakistan insieme alla figlia Alua di 6 anni, quando “si apprendeva della esistenza di titoli di soggiorno rilasciati alla signora Alma Shalabayeva dalle autorità britanniche e lettoni”. Prima, non c’erano tracce di possibili persecuzioni politiche in patria. Su questo punto l’estate scorsa il governo aveva risposto a un’altra interrogazione parlamentare di alcuni deputati del M5S affermando che l’Interpol non era mai stata informata della protezione concessa dalla Gran Bretagna al dissidente kazako Ablyazov e famiglia. L’ex segretario generale Richard Noble aveva scritto che in assenza di comunicazioni inglesi “nessun Paese membro dell’Interpol sarebbe stato in grado di sapere, attraverso il Segretariato, che al signor Ablyazov era stato concesso dal Regno Unito lo status di richiedente asilo o di rifugiato; per qualsiasi Paese che si fosse trovato a consultare le banche dati del Segretariato, il signor Ablyazov era un soggetto ricercato ai fini dell’arresto da tre Paesi Interpol, per gravi reati”. Questa lettera di Noble è agli atti del processo di Perugia, ma nel verdetto di condanna non se ne fa cenno. Il tribunale non ha nemmeno chiamato a testimoniare l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone né il sostituto Eugenio Albamonte, che secondo la sentenza furono tratti in inganno dalla polizia per consentire l’espulsione della moglie di Ablyazov; e non convocandolo, i giudici non hanno potuto considerare le dichiarazioni rese in istruttoria da Albamonte non coincidenti con la ricostruzione dell’accusa. In appello le difese torneranno alla carica per considerare anche questi atti. Dalle guerre all’inferno. Il dramma dei rifugiati schiavi intrappolati in Libia di Marialaura Iazzetti L’Espresso, 16 gennaio 2022 Da tre mesi sono accampati davanti alla sede dell’Unhcr: chiedono di lasciare il Paese e denunciano torture. “Siamo rifugiati e viviamo in Libia. Veniamo dal Sud Sudan, Sierra Leone, Ciad, Uganda, Congo, Ruanda, Burundi, Somalia, Eritrea, Etiopia e Sudan. Siamo in fuga da guerre civili, persecuzioni, cambiamenti climatici e povertà dei nostri paesi di origine. Tutti noi siamo stati spinti da circostanze che superano ogni umana resistenza”. Inizia con queste parole il manifesto che centinaia di rifugiati e richiedenti asilo hanno firmato e diffuso chiedendo l’evacuazione verso un Paese sicuro in cui i diritti di chi è accolto sono protetti e rispettati. In Libia non accade. “Per farci ascoltare ci siamo radunati davanti al quartier generale dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite, ndr) a Tripoli. Non sapevamo dove altro andare”, racconta David. Oggi, dopo tre mesi, sono ancora lì. La protesta è iniziata il primo ottobre, dopo l’ennesimo atto di violenza delle forze dell’ordine del Paese. Prosegue David: “Sono entrati nelle nostre case nel quartiere di Gargarish, a ovest di Tripoli. Hanno distrutto i pochi beni che possedevamo”. Quel giorno e nelle due settimane successive all’incursione sono state arrestate più di 5.000 persone, tra cui centinaia di bambini. Le autorità libiche hanno giustificato il raid sostenendo di aver condotto un’operazione contro l’immigrazione clandestina e il traffico di droga. “A migliaia siamo stati arrestati arbitrariamente e detenuti in campi di concentramento disumani”. Per David e per chi vive da anni intrappolato in un Paese che assomiglia sempre di più a una prigione è stato soltanto l’ennesimo atto di violenza da dover sopportare. “Non ne potevamo più e abbiamo deciso di ribellarci”. In meno di 24 ore centinaia di rifugiati e di richiedenti asilo si sono accampati davanti alla sede del Community day center dell’Unhcr di Tripoli, in cui viene fornita assistenza umanitaria. “Saremo stati più di 2.000”, aggiunge David. Chi aveva materassi e coperte le ha portate con sé. Il presidio, con il passare dei giorni, è diventato permanente. Gli appelli dei manifestanti si rivolgono alle istituzioni europee e alle Nazioni Unite, affinché si attivino per garantirgli protezione e condizioni di accoglienza migliori. David al telefono dice di non voler più tornare indietro: ha 24 anni, ma le esperienze che ha vissuto hanno portato via la sua giovinezza. In Libia l’Unhcr si occupa di registrare i migranti che vogliono chiedere asilo, di fornire loro supporto e di trasferirli in territori più sicuri (a patto che altri Paesi si rendano disponibili ad accoglierli). La Libia non ha mai ratificato la Convenzione internazionale di Ginevra del 1951, in cui viene definito il termine “rifugiato” e sono sanciti i diritti e i doveri da rispettare per garantire protezione. Nel Paese la possibilità di richiedere asilo è limitata a sette nazionalità, ma anche in questi casi è impossibile avviare le procedure per poter rimanere legalmente sul territorio. “Volevamo raggiungere l’Europa per cercare una seconda possibilità e siamo arrivati in Libia. Qui siamo diventati la forza lavoro nascosta dell’economia libica: solleviamo i mattoni e costruiamo le case, ripariamo e laviamo le macchine, coltiviamo e piantiamo la frutta. A quanto pare non è abbastanza per le autorità libiche: la nostra forza lavoro non è abbastanza. Vogliono il pieno controllo dei nostri corpi e della nostra dignità”. David è arrivato in Libia nel 2018 dal Sud Sudan, fuggiva dalla guerra. Nel 2019 ha provato a raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo: la cosiddetta Guardia costiera libica ha intercettato il gommone e l’ha riportato indietro. David ha trascorso quasi un anno in un centro di detenzione, ripete più volte di aver vissuto in condizioni disumane. Senza acqua, senza cibo. Le violenze erano continue. I centri di detenzione sono luoghi di reclusione dove comanda la legge del più forte. Alcuni centri sono gestiti dalle autorità libiche, altri sono in mano alle milizie. La differenza non è molta: chi vi è rinchiuso pensa di trovarsi all’inferno. Secondo l’associazione Global detention project, che monitora il rispetto dei diritti di chi è trattenuto in prigione per il suo status di non cittadino, sono una trentina i centri di detenzione presenti nel Paese. I migranti fermati in mare vengono rinchiusi in queste prigioni, perché per la legge libica trovarsi in una situazione irregolare sul suolo nazionale è un reato punito con la detenzione a tempo indeterminato e il lavoro forzato: chi entra in questi centri non sa quando otterrà di nuovo la libertà. Nel 2017 l’Italia ha firmato con la Libia un Memorandum d’intesa per limitare l’arrivo di migranti sulle coste italiane: il governo ha offerto sostegno alla Libia nella formazione della cosiddetta Guardia costiera e nel coordinamento delle operazioni in mare. Da tempo, diverse organizzazioni internazionali hanno documentato i comportamenti illeciti delle autorità libiche e della stessa Guardia costiera, che in più occasioni ha attaccato le navi umanitarie presenti nel Mediterraneo. Scrive Amnesty International nel suo ultimo report sul Memorandum d’intesa: “L’Italia ha fornito la propria assistenza senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze per le persone riportate in Libia. Pur di ridurre il numero degli approdi irregolari, le autorità italiane si sono rese complici degli abominevoli crimini di diritto internazionale commessi nei centri di detenzione”. Per fermare quelli che alcune forze politiche chiamano con superficialità “sbarchi”, le istituzioni italiane ed europee hanno stretto accordi con un Paese in guerra che non ha un governo stabile, che non garantisce protezione e che viola costantemente i diritti di chi richiede asilo. “Siamo stati intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica e riportati indietro nelle prigioni e nei campi di concentramento. Alcuni di noi hanno dovuto ripetere il ciclo di umiliazioni due, tre, cinque, fino a dieci volte. Abbiamo provato ad alzare la voce e diffondere le nostre storie. Le abbiamo mostrate a istituzioni, politici, giornalisti, ma a parte pochissimi interessati, le nostre storie rimangono inascoltate”. David non ama ricordare cosa ha dovuto sopportare nel centro di detenzione. Ripete più volte la parola “tortura”. Auto-organizzarsi per chiedere giustizia era diventata l’unica scelta possibile. “Abbiamo deciso di riunirci ufficialmente in un gruppo, Refugees in Libya”: attraverso i social network, mostrano gli sviluppi del presidio e le vessazioni che sono costretti a subire. In uno degli ultimi video pubblicati sul profilo twitter di Refugees in Libya viene inquadrata una donna che in piedi davanti a centinaia di persone racconta la sua storia, spiegando per quale motivo è lì a protestare. Indossa un velo verde scuro, parla con le mani giunte, ha il viso rigato dalle lacrime: “Sono stata violentata da cinque uomini armati e ora sono incinta. Sono una mamma di sei figli, i miei figli più grandi sono scomparsi”. Per capire cosa accade in Libia è importante comprendere che storie come queste spesso sono un vissuto comune: gli stupri sono sistematici, come le sparizioni. “Non possiamo continuare a tacere mentre nessuno ci difende. Ora siamo qui per rivendicare i nostri diritti e cercare protezione”. Chi sta protestando da mesi davanti alla sede dell’Unhcr chiede alla comunità internazionale di intervenire, per garantire più percorsi legali con cui poter lasciare la Libia in sicurezza. A oggi i migranti detenuti nei centri ufficiali sono circa 6.000, a questi si aggiungono quelli rinchiusi nelle prigioni gestite dalle milizie e quelli presenti sul resto del territorio che spesso vivono in condizioni precarie (circa 700.000, secondo gli ultimi dati disponibili). Per i richiedenti asilo e i rifugiati l’unica possibilità per poter lasciare la Libia, senza dover attraversare il Mediterraneo, è accedere ai trasferimenti o alle evacuazioni umanitarie dell’Unhcr: spesso organizzare queste operazioni è estremamente difficile, anche per il numero limitato di “posti” messi a disposizione dai Paesi disposti ad accogliere. Dal 2017 l’agenzia delle Nazioni Unite ha avviato un meccanismo di emergenza per portare fuori dalla Libia i migranti più vulnerabili: in totale sono state evacuate 6.919 persone, di cui 967 in Italia. Ma solo nei primi mesi del 2021 la cosiddetta Guardia costiera ha intercettato e riportato in Libia più di 15.000 migranti. A causa dell’emergenza sanitaria, i voli umanitari sono rimasti bloccati per un anno e stanno riprendendo solo adesso, anche grazie a un protocollo d’intesa firmato dal governo italiano con la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Tavola Valdese. David chiede che le evacuazioni siano estese a tutti i migranti presenti in Libia, perché nessun essere umano merita di vivere in queste condizioni: “Chi è rinchiuso nei centri di detenzione deve essere liberato”. Refugees in Libya nel suo manifesto rivolge un appello per far in modo che la Libia non sia più considerato un Paese sicuro, in cui è possibile confinare chi richiede asilo. “I nostri diritti non sono rispettati, siamo solo schiavi. Noi semplicemente non esistiamo”, ribadisce David. Chi è accampato fuori alla sede dell’Alto commissariato è stato più volte aggredito dalle milizie armate. Amnesty International ha chiesto alle istituzioni di intervenire e di trasferire immediatamente i migranti che stanno partecipando al presidio. Ma almeno per adesso, con il rinvio delle elezioni presidenziali fissate inizialmente per il 24 dicembre, nel Paese continuerà a regnare il caos. Nonostante le testimonianze dei continui abusi, nell’ultimo anno l’Italia ha aumentato di 500 mila euro i fondi stanziati a sostegno delle attività della cosiddetta Guardia costiera libica e delle altre autorità impegnate, teoricamente, nel contrasto al traffico di esseri umani: dal 2017 sono stati spesi già 784 milioni. “Siamo vittime di guerre civili, siamo vittime in fuga da persecuzioni religiose e politiche. Le autorità italiane e gli Stati membri dell’Unione Europea hanno solo aggravato le nostre anime addolorate, pagando pubblicamente e dietro le quinte le autorità libiche e le sue milizie per ucciderci nel deserto, in mare e in orribili campi di concentramento”. Kabul, il prezzo della pace: a 5 mesi dalla conquista dei taleban mancano pane e medicine di Francesca Mannocchi La Stampa, 16 gennaio 2022 Nella capitale domina il silenzio. Gli ospedali si riempiono di bimbi denutriti: “Le strade sono libere e arrivano pazienti da tutte le province”. C’è più sicurezza ma il governo è paralizzato: pagano i deboli. Le guardie di sicurezza talebane impediscono alle donne di entrare in un centro di distribuzione della Mezzaluna Rossa a Kabul. Sono 9 milioni gli afghani prossimi alla carestia. Scrive Iosif Brodskij che la sua San Pietroburgo rinominata Leningrado, subito dopo la guerra avesse un viso scarno e duro, fatto di facciate grigie o verdoline “strade interminabili, vuote, un’aria quasi affamata”. Il volto di un superstite, scrive. Così è Kabul a metà giornata di un venerdì, giorno di festa. Una città superstite. Le vecchie bandiere all’aeroporto sono state sostituite da quelle a sfondo bianco e scritta nera, la shahada, testimonio che non c’è divinità se non Allah e testimonio che Muhammad è il suo messaggero. È la bandiera talebana e la Kabul che si apre, usciti dallo scalo, è la Kabul dei taleban. Che la città avesse cambiato volto era chiaro dalla sala d’aspetto del volo che dall’aeroporto di Dubai porta in Afghanistan. Alle quattro del mattino, trecento uomini e qualche decina di internazionali, per lo più dipendenti delle organizzazioni umanitarie. Che siano stranieri si capisce dai volti, dagli abiti e dalle parole: “Non sappiamo come far entrare denaro”, “non bastano i soldi, con questi fondi andiamo avanti due mesi al massimo”. Un Paese al maschile - Il volo che arriva a Kabul è, dunque, già un’istantanea: un Paese al maschile che ha bisogno di aiuti per non morire di fame. Della confusione di agosto, nelle vie che circondano lo scalo, non resta niente. Sparite le preghiere delle madri, i pianti dei bambini, le grida di chi vuole fuggire. Due mezzi militari talebani presidiano i checkpoint, ispezionando chi entra e chi esce, le montagne che circondano la città sono coperte di neve, così come gli angoli delle strade. La luce che ammanta la città è pallida e diffusa, avvolge e insieme schiarisce. Si vede la cima della collina, che è il posto dei più poveri, coloro che non hanno mezzi e sono destinati a scalare la terra per raggiungere casa, si vedono nitidamente i colori, l’ocra della lana che avvolge le spalle dei passanti, il grigiastro del giaccio che si scioglie in strada mischiato alla polvere e ai rifiuti, il nero pece della notte quando scende. La luce che ammanta la città schiarisce anche le assenze. Non ci sono donne, non ci sono suoni se non la voce del muezzin che chiama i fedeli alla preghiera. Risucchiati nel silenzio - È il venerdì di riposo ed è, per questo, il giorno in cui il silenzio risucchia le strade e i vicoli, le abitazioni e le automobili. Non c’è più musica a Kabul, ormai da cinque mesi. I bambini lungo la strada bussano ai finestrini, come pochi mesi fa e aprono il palmo della mano, nella lingua universale dei gesti è la richiesta d’aiuto, però oggi quando dicono “please help me” il loro stentato inglese è un dolore stridente, acuto, la lingua universale delle parole che a loro, però, non serve quasi più a niente. Il tragitto che conduce a quella che fino ad agosto era la green zone, la zona protetta del palazzo presidenziale e delle ambasciate, è il segno del paradosso della fine dei combattimenti, cioè che qui - dopo un conflitto di vent’anni che ha deposto i taleban, e un’offensiva finale di undici giorni che l’estate scorsa li ha riportati al potere - non si valuti tanto il costo della guerra ma il prezzo della pace che si può riassumere in una frase: ci sono i talebani al potere, è vero, ma c’è più sicurezza di prima. Non ci sono più i blocchi di cemento che impedivano il passaggio di autovetture senza permessi governativi per timore di kamikaze, né ci sono più strade interdette ai cittadini comuni, a chi non lavora per i ministeri, o le delegazioni diplomatiche. Le due città - Non c’è più la divisione di allora: da un lato la Kabul blindata del governo e degli internazionali e dall’altra la Kabul della gente comune. Ce n’è, però, un’altra: la Kabul dei taleban e di chi li sostiene e la Kabul di chi non ce l’ha fatta a scappare ed è condannato a una quotidianità che non è più rancorosa e non è più disperata ma ha assunto le sembianze della rassegnazione. È così il volto di Mahmoud all’ingresso dello Star Hotel, che oggi non ha quasi più clienti, un volto rassegnato. Il quattordici agosto, mentre scappavamo dalla nostra stanza prelevati da un mezzo blindato dell’ambasciata, Mahmoud era lì, seduto come oggi. Il sorriso garbato, che quella notte aveva già sfigurato i suoi tratti in preoccupazione, oggi non c’è più. Il volto spento di Mahmoud è la sua sola voce, la voce di un giovane condannato a restare, consapevole che ogni osservazione espressa corrisponda a una minaccia subita. Nessuna critica al potere di oggi. Nessun rimpianto per quello di allora. Per questo, anche a un come stai? Mahmoud risponde solo con uno sguardo fisso negli occhi di chi parla. Non è sottomissione volontaria, la sua. Nemmeno arrendevolezza al dominio dei taleban. È piuttosto la pazienza silenziosa di chi consuma l’unica resistenza possibile, qui, oggi: restare in vita. Lasciare che cambi la toponomastica, che cambino le bandiere, che cambino i curricula scolastici, tentando di non cambiare intimamente né le ispirazioni né i valori, avere cura degli stessi che aveva quando lo Star Hotel risuonava di musica e del chiasso dei clienti. Poche decine di metri più in là c’è l’ambasciata iraniana. Ieri mattina le persone in coda erano centinaia, strette le une alle altre, si riparavano dal freddo - il termometro segnava meno quattro - e aspettavano che aprisse il consolato per chiedere un visto. È così ogni giorno, da agosto, davanti all’ambasciata pakistana e a quella iraniana, i soli Paesi che concedono sporadici permessi, e quelli che insieme ospitano già due milioni e mezzo di rifugiati afghani. È lì che i taleban non vogliono che si filmi. Si può mostrare la fame e si può mostrare la povertà, drammi che si possono facilmente usare per alimentare la macchina della propaganda, riconducendone le responsabilità alla comunità internazionale che ha i fondi afghani, ma non si possono mostrare quelli che vogliono andare via. Soprattutto se sono migliaia. È la dimostrazione plastica che conquistare il potere non significhi saperlo gestire. I taleban lo sanno talmente bene che di fronte al Ministero degli Esteri, dove i giornalisti vanno a richiedere i permessi per poter lavorare, hanno scritto: “L’Emirato Islamico dell’Afghanistan vuole relazioni positive e pacifiche con il mondo”. Dentro, però, gli uffici sono vuoti, un gruppo di uomini con le pale in mano si avvicina a scavare la neve, quattro o cinque taleban siedono alle scrivanie dell’ufficio destinato a ricevere giornalisti e fotografi, negli altri uffici solo polvere, i funzionari di prima sono andati via, qualcuno è scappato, qualcuno è in Europa. C’è la macchina del governo, ma non c’è nessuno a farla funzionare. Fondi congelati - La Banca Centrale Afghana aveva dieci miliardi di dollari negli Stati Uniti, congelati e non utilizzabili dai taleban, così come i 440 milioni di dollari delle riserve afghane bloccate dal Fondo Monetario Interazionale, nessuno Stato ha finora riconosciuto il nuovo governo di Kabul, il sistema bancario è bloccato e di conseguenza fatica, e molto, anche il sistema di aiuti internazionali che non ha modo, se non attraverso canali informali, di far arrivare denaro nel Paese, acquistare beni e pagare gli stipendi. Anche questo è il prezzo della pace. Uno dei più gravi errori dei vent’anni di guerra afghana è stato il fallimento nel costruire un’economia autosufficiente, fallimento che ha generato un governo cronicamente dipendente dagli aiuti, incapace di generare entrate e che ha portato all’impoverimento di oggi: lavoratori non pagati, accesso al denaro bloccato, bonifici non più praticabili, famiglie affamate e la povertà usata come leva per fare pressione sui taleban. La carestia - La povertà degli afghani è diventata la voce della diplomazia occidentale che si è ritirata ad agosto insieme alle truppe americane, la voce dei se e degli allora: se concedete diritti alle donne, allora negoziamo. Se formate un governo inclusivo, allora sblocchiamo i fondi della Banca Centrale Afghana, se vi dimostrate presentabili, allora continueremo a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Si scrive pressione diplomatica e si legge carestia. Perché tra il dilemma morale occidentale di riconoscere il governo dei taleban, e il murale che annuncia pacifiche relazioni col mondo ci sono 19 milioni di persone su 35 che non sopravvivono senza assistenza alimentare e 9 milioni di persone prossime alla carestia, secondo un rapporto congiunto del Programma Alimentare mondiale delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura. Il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite stima che entro la metà del prossimo anno il 97 per cento degli afghani potrebbe sprofondare al di sotto della soglia della povertà, cioè raggiungere uno stato di povertà universale. Le prime vittime - Quell’indigenza di tutti si vede nelle corsie dell’Indira Gandhi Children Hospital, nel quartiere di Qala-e- Hashmat Khar, a Kabul. Ha 150 posti letto, oggi ospita 370 pazienti. I corridoi sono stati trasformati in corsie separate da coperte appese ai muri, su ogni letto due o tre bambini, nei reparti per la malnutrizione e lo stesso nel reparto per bambini prematuri: in ogni culla anche tre bambini. Nell’esitazione dei loro respiri c’è la mappa di chi, probabilmente, non arriverà a domani. Le madri pregano, i dottori chiedono loro da dove arrivino, perché sono lì. Le risposte si somigliano tutte. Mariti nelle forze armate dell’ex governo senza lavoro da mesi, mariti scomparsi, forse vittime di esecuzioni arbitrarie, per tutte troppi i figli da sfamare, e poi la scelta tra scaldarli e sfamarli, o la siccità, i raccolti mancati e i mancati guadagni, e poi, ancora per tutte, quelle che arrivano da Mazar e Sharif, dal Nuristan, da Loghar, e da Gazhni o Jalalabad “quando c’era la guerra non riuscivamo ad arrivare a Kabul, ora finalmente siamo potute venire in ospedale”. Dove finisce la stima del prezzo del conflitto inizia la tragedia dei suoi paradossi. Le strade sicure - Ci sono più pazienti non perché prima ce ne fossero meno, anzi. Ma perché ora le strade senza combattimenti, le strade più sicure, fanno sì che si possano vedere. E però, alla fine delle strade sicure che portano a essere visti, non ci sono abbastanza medicine per tutti, né posti letto, né soldi per pagare i riscaldamenti. Alla fine della strada sicura c’è Ali che ha due anni, la pancia gonfia di fame, il peso di un neonato e le dita delle mani che si aggrappano all’aria come alla vita. Intorno madri che pregano. Fuori dall’ospedale altre madri, in fila per un pacco alimentare. Da lì arriva la sola musica ascoltata in due giorni. La voce di un bambino che aspetta con la carriola arrugginita un pacco di farina e una coperta. E sussurra una canzone, un canto che sa di essere udito, ma si nasconde per non essere scoperto. Il canto di un sopravvissuto. Sos delle Nazioni Unite: “Sahel, 2,5 milioni di sfollati a causa del conflitto” di Giacomo Galeazzi La Stampa, 16 gennaio 2022 C’è la guerra dimenticata nel cuore dell’Africa all’origine di una decennale migrazione. Unhcr: “I movimenti forzati di popolazione sono aumentati di dieci volte in otto anni”. Per organizzare una risposta efficace nel 2022 in Burkina Faso, Niger e Mali, l’Unhcr ha bisogno di 307 milioni di dollari. Sos per gli ultimi degli ultimi. In fuga da guerre dimenticate in nazioni circondate da paesi in condizioni altrettanto disperate. L’agenzia Onu per i Rifugiati chiede un’azione internazionale concertata per porre fine al conflitto armato nella regione del Sahel centrale, in Africa, che ha costretto più di 2,5 milioni di persone a fuggire dalle loro case negli ultimi dieci anni. I movimenti forzati di popolazione all’interno della regione sono aumentati di dieci volte dal 2013, da 217.000 alla cifra impressionante di 2,1 milioni alla fine del 2021. I rifugiati nei paesi del Sahel centrale, Burkina Faso, Mali e Niger, sono ora 410.000; la maggior parte è fuggita dalle violenze in Mali, dove il conflitto è iniziato nel gennaio 2012. Un’ondata di attacchi violenti in tutta la regione nel 2021 ha costretto alla fuga quasi 500.000 persone. E in questo computo non è ancora incluso il mese di dicembre. Esodo - Secondo le stime dei partner di Unhcr, l’anno scorso i gruppi armati hanno compiuto più di 800 attacchi mortali. Tale violenza ha sradicato circa 450.000 persone all’interno dei loro paesi e ne ha costrette altre 36.000 a fuggire in un paese vicino. Nel solo Burkina Faso, il numero totale di sfollati è salito a più di 1,5 milioni entro la fine del 2021. Sei sfollati su dieci nella regione del Sahel sono, ad oggi, burkinabé. In Niger, il numero di sfollati nelle regioni di Tillabéri e Tahoua è aumentato del 53% negli ultimi 12 mesi. Nel vicino Mali, più di 400.000 persone sono sfollate all’interno del paese - un aumento del 30% rispetto all’anno precedente. Nel frattempo, la situazione umanitaria in Burkina Faso, Mali e Niger si sta rapidamente deteriorando a causa di crisi che agiscono su più fronti. L’insicurezza è il fattore principale, peggiorato dalla povertà estrema, dalla pandemia di Covid-19 e dall’acuirsi degli effetti della crisi climatica, con le temperature nella regione che aumentano 1,5 volte più velocemente della media globale. Le donne e i bambini sono spesso i più colpiti e sproporzionatamente esposti all’estrema vulnerabilità e alla minaccia della violenza di genere. In fuga dalla guerra - Nonostante le loro scarse risorse, le comunità ospitanti hanno continuato a mostrare resilienza e solidarietà nell’accogliere le famiglie costrette alla fuga. Le autorità governative hanno dimostrato un impegno incrollabile nell’assisterle, ma stanno cedendo sotto una pressione crescente. Per l’Unhcr e i partner umanitari è sempre più difficile raggiungere le persone bisognose e fornire loro assistenza e protezione salvavita. Gli operatori umanitari continuano a subire attacchi lungo le strade, imboscate e furti d’auto. L’Unhcr invita la comunità internazionale a intraprendere un’azione coraggiosa e a non risparmiare sforzi nel sostenere i paesi del Sahel centrale al fine di portare urgentemente pace, stabilità e sviluppo nella regione. In risposta alla crisi in corso, l’Unhcr sta coordinando gli sforzi congiunti delle agenzie delle Nazioni Unite e delle ong per fornire alloggi di emergenza, gestire i siti di accoglienza per le persone in fuga e fornire servizi di protezione vitali, compresa la lotta alla violenza di genere e il miglioramento dell’accesso alla documentazione civile. Risposta umanitaria - L’Unhcr continua a lavorare con le autorità e gli altri partner per assicurare la risposta umanitaria più efficace al fine di soddisfare i bisogni dei rifugiati, degli sfollati interni e delle comunità ospitanti del Sahel, nonostante le molteplici sfide. Le risorse disponibili sono estremamente limitate, e l’Unhcr sta sollecitando un maggiore sostegno per contribuire a salvare vite e affrontare le vulnerabilità. Nel 2021, più di un terzo del fabbisogno finanziario dell’Unhcr per il Sahel centrale non è stato soddisfatto. Per organizzare una risposta efficace nel 2022 in Burkina Faso, Niger e Mali, l’Unhcr ha bisogno di 307 milioni di dollari.