“Nessun condannato deve essere privato del diritto alla speranza” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 gennaio 2022 Giovanni Maria Pavarin, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste, è il nuovo coordinatore del Conams (Coordinamento nazionale dei Magistrati di sorveglianza). In questa sua prima intervista, parliamo del dibattito sul testo di legge sull’ergastolo ostativo e della relazione della Commissione Ruotolo per l’innovazione del sistema penitenziario. L’allegazione a carico del detenuto che deve escludere con ‘certezza’ l’attualità dei collegamenti con l’organizzazione criminale nonché il ripristino degli stessi non le sembra che imponga al recluso una condizione forse impossibile da espletare? Si tratta di una condizione certamente difficile da provare: essa però non sembra tanto diversa da quella che la Corte costituzionale ha previsto con sentenza n. 253/2019 in tema di permessi premio concedibili al condannato per reati ostativi anche in difetto di collaborazione con la giustizia. Il Movimento Cinque Stelle ha presentato un emendamento per centralizzare le istanze al Tribunale di Sorveglianza di Roma... L’accentramento di talune competenze presso il Tribunale di Sorveglianza di Roma, oltre a determinare un sensibile, e forse insostenibile, aggravio di lavoro per quell’ufficio, rischia di denotare una sorta di sfiducia nei confronti dell’intero corpo dei magistrati di sorveglianza i quali, si badi, anche nell’attualità hanno ogni giorno a che fare con la gestione della pena inflitta agli appartenenti alla criminalità organizzata e sono dunque chiamati al difficile esercizio della loro discrezionalità in tema di concessione delle misure alternative alla detenzione, cui oggi possono comunque aspirare i condannati cui sia stata riconosciuta l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione con la giustizia. Ci sono altri punti critici nel testo base? I pareri sui disegni di legge che hanno in qualche modo un’incidenza nel mondo della giustizia sono affidati al CSM. Come spesso avviene, i punti critici del dettato normativo potranno semmai emergere in sede di applicazione delle nuove norme. Faccio però un’altra considerazione: se è vero, come diceva Falcone, che la mafia è un fenomeno umano, e come tale destinato a cessare, nulla esclude che il singolo mafioso non collaborante possa in qualche modo rinnegare questa tremenda esperienza anche prima e a prescindere dalla morte, e per i motivi più vari. Pur non dimenticando l’assoluta peculiarità del fenomeno criminale, temibile e terribile, costituito dalla mafia, la lettura dei pochissimi provvedimenti di concessione di permessi premio fin qui emessi negli ultimi due anni (meno di 10, mi risulta) consente di apprezzare come in taluni casi, sia pur limitatissimi, un cammino di recupero sia ipotizzabile anche in assenza della collaborazione con la giustizia: d’altronde l’esperienza insegna che anche ciò che appare inverosimile può accadere nella realtà. Resta sempre, però, la necessità di un severo sindacato sui motivi della mancata collaborazione. Non si può trascurare che c’è una “esigenza di verità”, che proviene dalle vittime, della quale lo Stato si deve fare carico e che va soddisfatta. In base al dibattito che si è creato intorno al tema dell’ergastolo ostativo, verso quale direzione si sta procedendo: dare effettivamente attuazione a quanto ha chiesto la Corte Costituzionale o creare un ‘nuovo ergastolo ostativo’? Mi sembra davvero difficile fare dei pronostici: l’unica cosa certa è che la Corte costituzionale ha dato voce al diritto alla speranza di cui è titolare chiunque sia condannato anche alla pena senza fine ed anche in ragione della commissione di reati odiosi e di assoluta ed inaudita gravità. Tradirebbe il dictum della Corte costituzionale ogni norma che fosse congegnata in modo tale da rendere nei fatti impossibile coltivare tale diritto. Però il diritto alla speranza è come un Giano bifronte: accanto a quello del condannato per reati gravissimi di poter sperare di intraprendere un cammino prodromico al suo rientro in società, va affermato il diritto della società a sperare che il condannato per reati di mafia percorra un reale cammino di autentico allontanamento dal contesto criminale. In tema di carcere, c’è sul tavolo della Ministra Cartabia la relazione della Commissione Ruotolo. Qual è a suo parere lo stato di salute delle nostre carceri in questo momento e alla luce di ciò che ne pensa del lavoro della Commissione? Lo stato di salute delle nostre carceri è pessimo: non serve dirlo. Sono pessime nella più parte dei casi le condizioni generali dell’edilizia penitenziaria; sono generalmente pessime le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria; sono disumane le condizioni detentive della maggior parte dei reclusi (per gli spazi, i servizi igienici, gli arredi, le condizioni climatiche, ecc.). Il lavoro della Commissione Ruotolo contiene interessantissime proposte molto utili anche dal punto di vista pratico. Molte di esse sono in grado di stemperare le tensioni e di rendere meno incandescente un clima da tempo avvelenato. Mi auguro che la ministra Cartabia faccia prestissimo (anche con strumenti di urgenza) a dare attuazione alle proposte della Commissione, che hanno il pregio di provenire da persone che hanno le mani in pasta e che conoscono il mondo del carcere per averlo vissuto e praticato. La questione del sovraffollamento era fuori dal perimetro di lavoro della commissione la Commissione suggerisce di applicare quanto previsto dalla proposta di legge a firma Roberto Giachetti che punta all’incremento della detrazione di pena (da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata). Lei sarebbe favorevole? Come semplice cittadino posso dire che l’aumento della detrazione di pena cui già abbiamo assistito con l’introduzione della liberazione anticipata speciale, cui si rifà la proposta Giachetti, ha contribuito senz’altro ad attenuare, sia pure solo temporaneamente, il fenomeno del sovraffollamento. L’importante è che la novità non si riverberi ancora una volta in un aumento del carico lavorativo dei magistrati di sorveglianza: per i semestri di liberazione anticipata già concessi, sarebbe dunque sufficiente che le singole Procure della Repubblica detraessero dalla pena espiata 30 giorni per ogni semestre già concesso, salve le preclusioni derivanti da successive irregolarità comportamentali: in questo caso, ma solo in questo caso, sarebbe dunque necessario reinvestire il magistrato di sorveglianza. Tra le altre proposte: “ogni strumento di difesa in dotazione all’istituto penitenziario è contrassegnato con un identificativo numerico apposto in modo visibile”. Condivide? Il tema è delicatissimo, perché coinvolge la tutela dei diritti del detenuto alla propria integrità fisica e al rispetto della persona con le esigenze di tutela del personale preposto alla sicurezza. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere mi sono però convinto che serva un passo in avanti. Non è possibile che un detenuto che viene picchiato e seviziato non possa, almeno in via mediata e successiva, conoscere il nome dell’agente (cui poter risalire attraverso un numero) che in quel momento sta così gravemente tradendo la fiducia che lo Stato ha riposto in lui; contemporaneamente bisogna però pensare anche alle ragioni della tutela degli agenti di polizia penitenziaria che possono essere minacciati, almeno dai detenuti più pericolosi, solo in ragione dell’adempimento del loro dovere. In merito al lavoro della magistratura di sorveglianza la Commissione suggerisce questa integrazione: “Il magistrato di sorveglianza trasmette annualmente al Presidente del tribunale di sorveglianza una relazione circa il numero delle visite e dei colloqui svolti, nonché in ordine alle condizioni detentive riscontrate”. Che ne pensa? È una delle proposte più vere e intelligenti della Commissione, perché richiama i magistrati di sorveglianza al loro dovere sia di fare colloqui (possibilmente in presenza, Covid permettendo) sia di esercitare le funzioni ispettive che la legge demanda loro. Il carico di lavoro gravante sugli Uffici sta infatti allontanando i magistrati di sorveglianza dal carcere, e non sempre per loro colpa: molti di noi perdono giornate intere a fare il calcolo dei 3 metri quadri imposto dalla sentenza Mursic/Croazia prima e dalle Sezioni unite poi. Un magistrato impegnato a fare il “geometra” non è però il giudice prefigurato dall’ordinamento penitenziario, né dalla legge Gozzini. Perdere il contatto con il carcere fa perdere al magistrato di sorveglianza la figura di giudice di prossimità per avvicinarlo alla figura del giudice cartolare, cioè delle carte: le quali spesso non ci aiutano a veramente conoscere la persona i cui destini sono nelle nostre mani. Ministra Cartabia, sul carcere ora rompa il muro di gomma di Davide Varì Il Dubbio, 15 gennaio 2022 Il muro di gomma di cui ha parlato Roberto Saviano e che da anni proviamo ad abbattere: l’indifferenza verso il carcere, come se fosse una discarica sociale abitata da un’umanità irredimibile. È un appello, un’invocazione che ha il gusto amarissimo della resa: “Non so più neanche io come parlare di carcere, trovo un muro di gomma anche tra gli osservatori più attenti”, ha scritto Roberto Saviano sulle pagine del Corriere della Sera. Poi ha elencato la macelleria dei diritti che si consuma ogni giorno sulle pagine dei quotidiani: “Si sbatte il mostro in prima pagina senza dar conto delle archiviazioni e delle assoluzioni. Si parla di prescrizione come se fosse un regalo all’imputato e non il diritto negato a essere giudicati in tempi umani”. Insomma, Saviano ha scritto quel che questo giornale prova a dire da anni, e in effetti ce ne ha riconosciuto pubblicamente il merito, e di questo lo ringraziamo. Ma noi del Dubbio siamo una voce nel deserto. Troppo forte la grancassa dei giornali che invocano galera e “certezza della pena” (sic!), troppo alto il volume di chi chiede di buttare le chiavi delle galere per ogni fatto di cronaca, per ogni reato ancora tutto da dimostrare. E hai voglia a provare a spiegare, a mostrare loro che i dati parlano di un crollo dei delitti e che le misure alternative al carcere non solo abbattono la recidiva ma sono di gran lunga più efficaci di una cella di quattro metri per quattro stipata di umanità varia. Inutile anche menarla con le citazioni di Dostoevskij: “Il grado di civiltà di un paese si vede dallo stato delle sue carceri”, ricordate? Ecco, quella frase ormai è diventata una sorta di epitaffio piazzato nei salotti tv da quel che rimane (ben poco) degli intellettuali engagé che provano a spezzare il muro di gomma di cui parla Saviano. Un muro costruito in anni e anni di retorica “cattivista”, ben peggiore del pur insopportabile e autoassolutorio buonismo. Il carcere è divenuto infatti preda, luogo di contesa politica che ha scavato un solco profondissimo nella società italiana: tra il fuori e il dentro, vissuto sempre più, questo dentro, come discarica sociale abitata da un’umanità irredimibile. Perché in fin dei conti è questo il punto: il nostro paese - popolo ed élite indistintamente - non crede più nella possibilità che un uomo, una persona, possa cambiare e possa essere recuperato alla vita civile. Ma in questo modo ha ridotto i conflitti a una visione illusoria, asfittica. Ha smembrato rozzamente il mondo e le sue complessità, ha separato in modo manicheo ciò che è legale da ciò che è illegale, ciò che è legittimo da ciò che va punito e sanzionato. E così il più grande fallimento sociale degli ultimi secoli, il carcere appunto, è diventato l’unico farmaco che la politica sia in grado di “somministrare”. Lo ha spiegato bene Luigi Manconi in un libro del 2015 - la lettura è obbligata, si chiama “Abolire il carcere” - nel quale spiega che i nostri istituti di pena sono luoghi nei quali avviene “un lungo e minuzioso processo di spoliazione”: spoliazione di diritti e di dignità. E se non ci fosse la luce fioca ma ostinata dei radicali, i nostri penitenziari vivrebbero in una zona d’ombra sostanzialmente impenetrabile. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che dove non ci sono diritti non può esserci rigenerazione. Ora c’è una donna al ministero della giustizia che può aprire una breccia nel muro di gomma di cui ci parla Saviano. A dire il vero speravamo che già l’avesse fatto, le basterebbe sfogliare ciò che lei stessa ha scritto nel libro dedicato a Cardinal Martini: “La pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere un reale cambiamento della persona, anche di chi si fosse macchiato dei delitti più ripugnanti”. Se lo Stato abbandona chi vive in carcere. Il J’accuse di Saviano di Davide Varì Il Dubbio, 15 gennaio 2022 Lo scrittore sul caso di Antonio Raddi, e sulla sua morte avvenuta nell’indifferenza generale: “Nemmeno so più in che termini parlarne, di carceri. Trovo un muro di gomma inconcepibile”. “Non più edilizia carceraria, ma meno detenuti. Non l’introduzione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti, ma educazione alla responsabilità. Oggi, più che in ogni altro momento della storia, chi fa informazione ha una responsabilità enorme, quella di ragionare insieme a chi legge; quella di non cedere alla scorciatoia del generare panico, dell’accrescere la preoccupazione per rendere il proprio ruolo “fondamentale”“. Comincia così il duro atto d’accusa che Roberto Saviano lancia dalle pagine di Sette sul mondo del carcere. Un mondo invisibile, dimenticato, ignorato tanto da chi fa informazione, quanto dalle istituzioni. E non in ultimo dalla società tutta, dal mondo “di fuori”. “Si sbatte il mostro in prima pagina senza dare conto delle archiviazioni, delle assoluzioni. Si parla di prescrizione come fosse un regalo all’imputato e non il diritto negato a essere giudicati in tempi umani - scrive Saviano. E siccome il carcere viene raccontato solo per mappare gli arresti, ci si accontenta di sapere che dentro finisce chi ha un debito con la comunità, chi deve pagare, scontare, essere privato della libertà - e in fondo anche di molto, molto altro - senza preoccuparsi mai di come viene impiegato il tempo che dovrebbe servire al reinserimento. Nemmeno so più in che termini parlarne, di carceri. Trovo un muro di gomma inconcepibile spesso anche tra gli interlocutori più attenti”. Per raccontare questo muro di gomma, Saviano parte da un caso drammatico. E anzi da un’immagine, che qui assume il valore di “prova” e di testimonianza: è la fotografia della mamma di Antonio Raddi, che nel secondo anniversario della sua morte, il 31 dicembre 2021, ne mostra a sua volta una foto mentre ha gli occhi cerchiati dal pianto. La storia di Antonio, 28 anni, è finita due anni fa nel carcere Le Vallette di Torino. Quando entrò in cella pesava 76 chili. E quando morì, sette mesi dopo, stroncato da una infezione polmonare, ne aveva persi 25. Diceva di non riuscire a mangiare, ma nessuno degli operatori del carcere gli diede credito. La sua vita si è spenta nell’indifferenza, come i tanti detenuti lasciati morire perché sospettati di simulare un malessere inesistente. Si tratta della “indifferenza del rimosso, il rimosso della piaga enorme della tossicodipendenza, il rimosso della sofferenza che questa porta con sé. II rimosso del disagio e del nulla che lo Stato e la comunità fanno per fornire aiuto concreto”, scrive ancora Saviano, per il quale il motivo di tanta indifferenza risiede in un vuoto: “Mi accorgo che manca non tanto e non solo la cultura del diritto - dice - ma la cultura dei diritti e cioè la consapevolezza, che dovrebbe essere un dato condiviso, che di diritti non si occupa solo chi non ha preoccupazioni proprie”. I diritti riguardano tutti. “Perché un diritto negato diventa automaticamente un privilegio per pochi, o peggio, una concessione”. La desolante condizione delle carceri femminili in Italia di Pietro Mecarozzi linkiesta.it, 15 gennaio 2022 Celle sovraffollate, violenze, gestione confusa dei figli. Gli istituti penitenziari non riescono a fornire competenze e servizi specifici alle detenute a causa di un regime carcerario pensato solo per gli uomini. Il risultato è un disastro su tutti i fronti. Scarsa considerazione, un sistema di riferimento maschio-centrico e condizioni precarie delle strutture. È questa la situazione delle carceri femminili in Italia. Le donne rappresentano solo il 4,2% dei detenuti in totale (2402 su 58.163), secondo i dati forniti dall’Associazione Antigone, che si occupa di tutela dei diritti nel sistema penale. I numeri sono stabili dagli anni 90, con piccoli oscillamenti che vanno da un massimo del 5,43% nel 1992 a un minimo del 3,83% nel 1998. Quanto al grado di giudizio, i dati di Antigone del 2018 ci dicono che il 34% delle detenute non ha mai ricevuto una condanna definitiva e questa percentuale cresce se guardiamo i dati riferiti alle donne straniere: su 904 in carcere, 381 sono solo imputate, circa il 42,14%. Gli istituti di esclusiva detenzione femminile in Italia sono appena cinque: Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”, invece, nel resto d’Italia, la loro detenzione è affidata a reparti ad hoc, 52 in tutto, all’interno di carceri maschili. “Le detenute femminili sono del tutto dimenticate. Siamo poche, ma questo non significa che non esistiamo”, spiega Rosa (nome di fantasia), ex carceraria dell’istituto di Pozzuoli. “Le celle sono minuscole e sempre sovraffollate, le violenze sono all’ordine del giorno e non esiste nessun reinserimento nella società e nel mondo del lavoro. Con la pandemia tutto questo è peggiorato”. Il numero totale delle detenute eccede la capienza regolamentare, fissata a 2.265 unità. Anche la distribuzione è disomogenea e fa sì che in alcuni istituti si configuri una situazione di sovraffollamento, come ad esempio a Pozzuoli, dove si contano 153 presenze su 107 posti disponibili, e a Rebibbia, dove le detenute sono 337, sua una capienza di 266 unità. “Ci vogliono attenzione e competenze specifiche per le detenute, non si può adottare lo stesso regime penitenziario degli uomini”, spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone. I motivi sono vari: a partire dalle categorie di detenute che affollano gli istituti. Si tratta di donne vissute in contesti di povertà, con un bagaglio di vita segnata da violenze e abusi, molto spesso recidive e colpevoli di atti di microcriminalità. “Sarebbe anticostituzionale dire che per le donne e per una fascia della popolazione non deve esistere come massima pena la detenzione. Ma è anche vero che per le detenute donne, visti i tipi di reati generalmente commessi e soprattutto in presenza di prole, è consigliato sperimentare misure alternative alla detenzione”, sottolinea Marietti. C’è da considerare poi le condizioni degli istituti. Il 63,2% delle celle ospitanti donne nelle carceri visitate dall’Osservatorio Antigone è dotato di bidet così come previsto dal regolamento penitenziario, il 5,3% non lo è, mentre per il 31,6% il dato non è disponibile. Almeno il 15,8% degli istituti che ospitano donne non hanno un servizio di ginecologia, e nel 26,3% manca un servizio di ostetricia. E soprattutto, nelle carceri ospitanti bambini, non è sempre presente un pediatra, così come volontari che si occupano di accompagnare all’esterno i bambini che dormivano in istituto. A questo vanno aggiunte poi le violenze in cella. “Dopo il carcere è dura tornare a vivere, a riprendere una vita normale” racconta Rosa. “Ho visto scorrere sangue sulle mattonelle della cella, dopo violenti risse, senza che nessuna guardia alzasse un dito. Alcune hanno tentato il suicido, altre sono entrate in depressione”, continua Rosa. Nel corso dell’anno si sono registrati 51 episodi di autolesionismo riguardanti donne nell’istituto di Rebibbia, 18 in quello di Taranto, 15 in quello di Foggia. Delle persone morte per suicidio in carcere nel 2020 (61 secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia) una risulta essere una donna secondo un dossier curato da Ristretti Orizzonti. Si è tolta la vita a febbraio nel carcere di Sassari, dove era reclusa per furto e da dove sarebbe uscita nel maggio successivo. Aveva 39 anni. Ci sono due filosofie legate ai provvedimenti restrittivi alternativi, di comunità o singoli, spiegati in un report dell’Organizzazione mondiale della sanità: da una parte il Justice Model, secondo cui non bisogna diversificare il trattamento in base al genere, in nome della formale uguaglianza fra uomo e donna. Il Care Model invece basa sul concetto di “maggior vulnerabilità” e minore pericolosità sociale della donna, e per questo considera positivo differenziare l’esecuzione penale femminile da quella maschile, predisponendo spazi adeguati e, ove possibile, “speciali”, che siano il meno somiglianti possibile alle carceri. Il Care Model sembra più adeguato anche sulla base della durata media delle pene. “Le detenute scontano molto spesso brevi periodi, in media tre mesi. Il che significa entrare in un percorso all’interno dell’istituto che dura troppo poco per approfondire le problematiche sociali e gli spettri umani che hanno portato la donna a delinquere”, puntualizza Marietti. Senza contare l’impatto psicologico che ha un modello a “porta girevole” (dentro-fuori dal carcere per pochi mesi). “Ti senti un rifiuto umano, prima imprigionata poi abbandonata. Fuori sei di nuova sola, magari con un figlio a carico, e per vivere sei costretta a trovare espedienti”, confessa Rosa in lacrime. Attuale è anche la realtà delle detenute madri con figli a carico. I dati del ministero della Giustizia, aggiornati a fine ottobre 2020, evidenziano la presenza di 31 detenute madri con 33 figli al seguito, di cui 16 madri e 17 bambini nelle sezioni nido delle case circondariali, mentre i rimanenti risultano collocati negli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri, istituiti dalla legge n.62 del 2011). La crisi sanitaria ha spinto la magistratura di sorveglianza ad adottare con le misure di legge disponibili per aprire ai bambini i cancelli degli istituti. Alla fine di febbraio erano 59 i bimbi nelle carceri italiane, fine ottobre 2020 sono invece una trentina. Nota positiva: nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati 4,5 milioni di euro per le case-famiglia protette introdotte dalla legge del 2011. La questione Covid, invece, è stata gestita in maniera uniforme con le leggi stabilite dal governo italiano per gli istituti penitenziari sul territorio nazionale. Mascherine, distanziamento, e maggiori scarcerazioni però non hanno impedito al virus di infiltrarsi tra le sbarre: nel 2021 sono risultate positive al tampone molecolare nel carcere di Rebibbia circa 60 detenute e 6 unità di polizia penitenziari. “Non c’è una visione centralizzata, ma soprattutto una gestione separata della categoria. Finché sarà così, saranno difficili dei miglioramenti sostanziali”, conclude Marietti. Riprocessare gli assolti? Giusto sciogliere il nodo di Mario Chiavario Avvenire, 15 gennaio 2022 È giusto o no che il pubblico ministero possa proporre appello contro una sentenza che ha assolto l’imputato? La questione è tornata drammaticamente in evidenza a seguito del suicidio di un noto uomo politico piemontese, condannato appunto in appello per indebito impiego di fondi pubblici dopo che otto anni fa era stato assolto in primo grado. Quando una persona muore in tal modo e in tale contesto, è più che comprensibile l’esplodere, specialmente in chi fosse legato da più o meno profonda vicinanza allo scomparso, di sentimenti personali imperscrutabili: di smarrimento, di commozione, di sconforto. Va comunque al di là della singola vicenda l’esigenza di affrontare il problema, cercando semmai di non far prevalere meri calcoli politici o di altra natura, come purtroppo avvenne - e ne fummo un po’ tutti prigionieri in vario senso - quando nel 2006 diventò legge uno ‘stop’ pressoché assoluto agli appelli del pm: principale promotore, Gaetano Pecorella, allora parlamentare di spicco di Forza Italia e contemporaneamente avvocato di Silvio Berlusconi in taluni tra i processi a suo carico. Quella legge cadde, poi, a opera della Corte costituzionale, basata su una lettura, a dire il vero non poco controversa, del principio costituzionale di parità tra le parti del processo penale (il condannato aveva e ha ampie possibilità di appellarsi contro la sua condanna). Ma la soluzione della ‘legge Pecorella’ è insospettabilmente tornata a prender corpo di recente tra le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi nella fase preparatoria della cosiddetta ‘riforma Cartabia’ del Codice di procedura penale, pur venendo a cadere nelle convulse trattative per la definitiva redazione e l’approvazione parlamentare del testo relativo. Svariate le argomentazioni che sorreggono la tesi favorevole a vietare l’appello del pm contro le sentenze assolutorie, anche a prescindere dai confronti con ciò che vige altrove nel mondo (frequenti, soprattutto, i riferimenti ai Paesi di common law, dove il divieto di appeals ‘in fatto’ è regola pressoché assoluta per gli organi dell’accusa, ma, a dire il vero, in quei Paesi non poche remore si frappongono altresì alla facoltà d’impugnazione di imputati e condannati). In particolare, l’ammettere che in secondo grado possa rovesciarsi a danno dell’accusato ciò che ha stabilito il giudice di prima istanza, è visto come un’incoerenza con il postulato di civiltà secondo cui la condanna penale può infliggersi unicamente se la colpevolezza è stata accertata “oltre ogni ragionevole dubbio”. Come si fa - dicono molti - a escludere il dubbio quando è stato addirittura un altro giudice ad aver stabilito che l’imputato è innocente? In via di principio, l’argomentazione è persuasiva, ma, nella sua assolutezza, lascia margini - ci si perdoni il bisticcio -... di dubbio: il primo giudizio potrebbe infatti essere frutto di (sia pur non voluti) errori di accertamento o di valutazione dei fatti, per non pensare a qualcosa di peggio. Si obietta che già oggi il pubblico ministero può - e naturalmente continuerebbe a potere - ricorrere in Cassazione contro ogni tipo di sentenza. C’è tuttavia da chiedersi se questa facoltà, nei limiti entro cui è concessa dalla legge, sia sufficiente a coprire da sola tutte le ragionevoli esigenze di una giustizia garantista sì, ma non sguarnita contro svarioni e malefedi. Alla Cassazione, anche il pm può, sì, ricorrere per porre rimedio a errori di diritto penale sostanziale o di procedura; e può specificamente contestare, quali vizi produttivi di annullamenti di sentenze, l’esclusione, da parte del giudice di merito, di prove decisive, nonché, sotto certi profili, le carenze di motivazione di tali pronunce. Ma gli orientamenti giurisprudenziali sembrano escludere che queste previsioni consentano di colpire tutti i ‘travisamenti’ cui oggi sarebbe consentito rimediare in appello; d’altronde, non sarebbe di tutto riposo l’estendere esplicitamente la competenza della Corte anche a tali casi: forte è infatti il timore di una non piccola alterazione della sua funzione di giudice di legittimità, oltreché di ulteriore aggravio del suo perenne arretrato. Quanto ai casi, ancor più delicati e che pur si spererebbe tuttora marginalissimi, di assoluzioni dovute a dolo del giudice, rischierebbero di rimanere scoperti: neppure l’eccezionale rimedio della revisione vi soccorrerebbe, giacché questa è prevista, come conseguenza di falsità in atti o in giudizio oppure di altri fatti costituenti reato, ma soltanto a favore del condannato e non a danno del prosciolto. Da auspicare, perciò, che a cambiare le cose alla radice sull’appello del pm si provveda con coraggio, ma anche con prudenza, senza immaginare che tutto possa risolversi con un colpo di bacchetta magica. Sorteggio per il Csm, perché non va bene in questa crisi morale di Alberto Cisterna Il Riformista, 15 gennaio 2022 Una società di eguali. Il mito per cui “uno vale uno” e ciascuno è meritevole di accedere al governo degli altri perché chi regge le sorti è uno di loro e resta uno tra loro. Se la magistratura italiana fosse la Città del sole di Tommaso Campanella in cui “Le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci sono scritte tutte le quiddità delle cose in breve”, allora il sorteggio non solo sarebbe opportuno, ma dovrebbe apparire finanche necessario. L’unica forma tollerabile di selezione dei reggitori dell’autogoverno, chiamati a un compito persino banale per chi è destinato dalla legge a giudicare la sorte degli uomini, a decidere delle loro vite, dei loro patrimoni, delle loro famiglie, delle loro libertà. La domanda è lecita: se ogni magistrato può svolgere un compito così elevato e complesso che traguarda tutta la società, com’è possibile che ciascuno di essi - tutti, uno per uno - non possano decidere dei propri pari e si debba ricorrere al più imperfetto dei sistemi, quello dell’elezione. Il sistema elettivo così impudicamente ingiusto, così condizionato da cordate, clientele, simpatie, antagonismi, così macchiato di soggettività, di ambizioni, di rancori. Il modo più facile per dare spazio a sentimenti e convinzioni che, talvolta, poco hanno a che fare con la dedizione, la dirittura, l’imparzialità. Si sostiene, in perfetta buona fede, che il sorteggio sarebbe l’unico modo con cui si possa davvero portare alla sbarra “il Sistema” descritto in quei due torbidi anni; in questa eclisse etica in cui clan, gruppuscoli, addirittura logge hanno dato la sensazione di aver contaminato la magistratura italiana. Certo il caso, il bussolotto spiazzerebbe le correnti delle toghe, romperebbe gli schemi, frantumerebbe le ambizioni. Ma alla sua radice ha una concezione della magistratura italiana, elitaria, immacolata, superiore. In filigrana il sorteggio è la riaffermazione di una supremazia etica (e anche giuridica) che si rivolge ai componenti di una corporazione di catari, di puri, ai cittadini di una polis ideale non contaminata dal mondo e dalle sue miserie. Una città che, però, non esiste. Un mondo tutt’altro che perfetto e che tutti i giorni disvela la propria caducità, talvolta finanche la propria miseria e che il sorteggio, di un colpo, gratificherebbe di una purificazione politica e morale che, probabilmente, non merita. I gruppi associativi che compongono la magistratura italiana - se sono loro i veri responsabili dell’abisso descritto dal Presidente Mattarella a lettere di fuoco nel discorso alla Scuola delle toghe di Scandicci - hanno il dovere di competere per il consenso, di scegliere candidati appropriati e di guerreggiare anche aspramente per la composizione del prossimo Consiglio superiore della magistratura. È vero occorre una nuova legge elettorale che, ormai, vedrà la luce quasi a ridosso della convocazione dei comizi per la scelta dei nuovi consiglieri di Palazzo dei Marescialli. Ma il sorteggio è un’illusione, l’estremo tentativo di un maquillage estetico per nascondere le ferite del corpo dolente e piagato della magistratura italiana. L’agone delle elezioni resta il migliore dei mondi possibili, quando gli eguali non sono più tali. Sorteggio per il Csm, perché è l’unica possibilità di discontinuità di Andrea Reale Il Riformista, 15 gennaio 2022 Indipendenza, imparzialità, legalità, sono i connotati essenziali della giurisdizione. La nostra Costituzione ha posto questi principi quali stelle polari per tutti coloro che la esercitano, ossia i Magistrati. Essi formano un Ordine che deve essere “autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104, co. 1°, Cost.), strumentale alla garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. L’amministrazione di tale ordine è affidata al Consiglio Superiore della Magistratura al quale “spettano, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.). Il CSM, quindi, è un organo istituito per sottrarre l’amministrazione dei magistrati al Governo - e, segnatamente, al Ministro della Giustizia, al quale, diversamente, essa avrebbe dovuto essere ricondotta - e, in tal modo, per garantire l’effettività dei principi di indipendenza, imparzialità e neutralità politica della giurisdizione. Un organo, dunque, non politico ma tecnico-amministrativo, chiamato a dare attuazione alle “norme dell’ordinamento giudiziario” e composto da tecnici del diritto: magistrati; professori ordinari di università in materie giuridiche; avvocati dopo quindici anni di esercizio (art. 104 Cost.). Perché il sorteggio sarebbe il modo migliore per designare i componenti togati di questo Organo di rilievo costituzionale? Perché esso è il metodo assolutamente più oggettivo e democratico che esista per comporre gli organi amministrativi e giurisdizionali, specialmente applicato a una categoria omogenea di persone, qualificata e selezionata per concorso. Tanto vero che è un sistema usato, ad esempio, per la designazione di membri di numerose commissioni giudicatrici di concorsi (come quelli per professori universitari) o di gare pubbliche, ma anche per la scelta dei componenti di organi giudiziari (ad esempio la Corte di Assise ed il Tribunale per i ministri; persino la Corte Costituzionale, in taluni casi, vede la sua composizione allargata con giudici estratti a sorte). Lo stesso abbinamento tra giudici e affari - in applicazione del fondamentale principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge - è automatico. Al contrario della vulgata secondo la quale il sorteggio sarebbe un insulto alla capacità di scegliere i propri rappresentanti, giova osservare che la Costituzione parla di elezione “tra” gli appartenenti alle varie categorie. Ciò significa che il CSM non è stato costituito per essere un consesso di rappresentanti “politici” di diversi gruppi/partiti, ma un organo collegiale neutro e imparziale nel quale fossero rappresentate le diverse professionalità dei magistrati (inquirenti, giudicanti, di legittimità). Non un organo politico, ma un’amministrazione a tutela delle prerogative dei magistrati, soprattutto della fondamentale indipendenza interna, oltre che il loro organo disciplinare. Presupposto del sorteggio è la capacità e il giudizio prognostico positivo su tutti i magistrati, in quanto capaci di svolgere i compiti di alta amministrazione del Consiglio Superiore, considerate le loro competenza e professionalità e la loro differenziazione, nell’esercizio della giurisdizione, solo per le funzioni svolte (art. 107, comma 3, Cost.). Il metodo che verrebbe utilizzato servirebbe piuttosto a spezzare il legame partitico che lega la componente correntizia al gruppo di appartenenza e che fomenta carriere parallele e lottizzazioni. Altrettanto infondata - e smentita dai fatti prima che dalla logica - è l’affermazione che il metodo aleatorio sia incostituzionale. Limiti al diritto di elettorato passivo sono sempre esistiti. In questo momento storico introdurre il sorteggio come sistema di selezione dei candidati (seguita dal voto), con lo scopo di debellare un male che ha disonorato la credibilità del CSM, non può che essere accolto come un rimedio, quasi necessario, l’unico capace di creare discontinuità con il passato. Ciò non si contrapporrebbe in alcun modo al dettato dell’art. 104 Cost. e lascerebbe integro il diritto di voto agli elettori attivi. Si deve evidenziare che la platea delle persone sorteggiabili sarebbe certamente più ampia di quella ristretta scelta - direi oligarchica - operata dalle segreterie delle correnti secondo rigidi criteri di appartenenza e di fedeltà agli interessi particolari di un gruppo. Basti pensare che nell’ultima tornata elettorale i gruppi avevano candidato quattro magistrati per quattro posti inquirenti (uno in quota a ciascuna corrente), così dando luogo ad una elezione-farsa. Molto più incostituzionale, dunque, l’attuale assetto del CSM, che da organo imparziale e tecnico è stato trasformato nella brutta e falsa copia di un mini parlamento, al cui interno albergano le divisioni per gruppi, le faziosità, le lotte fratricide, l’accaparramento di voti per interessi di parte, il mercato delle nomine e dei favori. Tutto l’opposto di ciò che dovrebbe garantire un’amministrazione terza e fondata sulla trasparenza. La tranciante designazione per alea dei candidati, invece, impedirebbe le dinastiche designazioni dei pretesi “migliori” e più “meritevoli” - è sotto gli occhi di tutti in che termini - tra i magistrati e contrasterebbe adeguatamente il pericolo del condizionamento dei percorsi professionali al consenso altrui. Altra obiezione spesso rivolta al sorteggio è che esso impedirebbe di selezionare per merito e in base alle diverse culture che animano l’associazionismo giudiziario o, comunque, la magistratura nel suo complesso. Niente di più falso. Le funzioni del CSM sono di natura tecnica, di alta amministrazione, devono essere connotate da imparzialità e governate dal principio di uguaglianza e di buon andamento (artt. 3 e 97 Cost.). Esse non richiedono un merito particolare degli amministratori per essere esercitate, se non lo studio accurato della normativa nelle materie sulle quali l’organo di governo autonomo è chiamato ad esercitare le sue funzioni, compito che ogni magistrato abilitato a comminare ergastoli o condanne a pagamenti ultramilionari sulla base di normative assai complesse è in grado certamente di adempiere. Ciò che più conta per esercitare detti compiti, dunque, non è il valore del magistrato (il suo “merito”), ma la sua onestà, la sua imparzialità, la sua professionalità, la sua capacità di riconoscere le competenze altrui. A queste doti dovrebbe essere naturalmente “vocato” ciascun magistrato, ancor più nelle sue ordinarie funzioni. In conclusione il sorteggio appare l’unico modo per liberare il CSM dalla morsa correntizia, ma anche per obliterare definitivamente l’innaturale connotazione politica/partitica del CSM e per ripristinare l’originario carattere amministrativo ad alta professionalità dell’organo di governo autonomo dei magistrati, come voluto e prefigurato dall’Assemblea Costituente. Terremoto al Palazzaccio: il Consiglio di Stato azzera i vertici della Cassazione Italia Oggi, 15 gennaio 2022 Alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che si svolgerà il 21 gennaio, respinti i vertici scelti dal Csm nel 2020. Bocciate le nomine del primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e della presidente aggiunta Margherita Cassano, la prima toga rosa a rivestire un incarico di così alto prestigio. Terremoto al “Palazzaccio”. Il Consiglio di Stato ha annullato le nomine del primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e della presidente aggiunta Margherita Cassano, la prima toga rosa a rivestire un incarico di così alto prestigio. Con due sentenze depositate oggi Palazzo Spada ha dichiarato illegittime le nomine che il Csm aveva deliberato nel luglio 2020 accogliendo il ricorso di Angelo Spirito e ribaltando le sentenze del Tar che lo aveva respinto. I giudici amministrativi hanno riformato le precedenti sentenze del Tar che avevano respinto i ricorsi di Angelo Spirito, presidente della terza Sezione civile della Suprema Corte e concorrente sconfitto per entrambi gli incarichi direttivi. Entrambe le nomine - si legge nei provvedimenti - risultano “manifestamente irragionevoli e difettosamente motivate” in relazione agli indicatori di cui al Testo unico sulla dirigenza giudiziaria. La palla ora torna al Csm, che dovrà riaprire la procedura di nomina: l’organo potrà ripetere le stesse scelte, ma per farlo sarà necessaria una diversa motivazione. Entrambi i magistrati sono iscritti a una corrente: Curzio è membro di Magistratura democratica (la sigla di sinistra), Cassano di Magistratura indipendente (il gruppo conservatore). A questo punto si apre l’incognita dell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Venerdì 21 gennaio, infatti, è prevista la cerimonia solenne. Ad aprirla dovrebbe essere il discorso sullo stato della giustizia italiana del primo presidente. A questo punto cosa accadrà? Con la sentenza del Consiglio di Stato, infatti, il primo presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, ora è formalmente decaduto dalla carica. Il deputato di Azione Enrico Costa, già sottosegretario alla Giustizia, parla di “figuraccia a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. Cosa deve ancora capitare perché il Parlamento sia messo in condizione di votare la riforma del Csm? Gli emendamenti del Governo congelati a Palazzo Chigi non sono un buon biglietto da visita per un premier decisionista come Draghi”. “Conoscendo il modo di operare del Csm, faranno di tutto perché a seguito della decisione del Consiglio di Stato non succeda niente”, dice all’Ansa il professor Franco Gaetano Scoca, il legale amministrativista che ha assistito il ricorso di Spirito. Rifare le stesse scelte, spiega, non è una strada facile, dal momento che il Consiglio di Stato ha ribaltato tutta l’impostazione delle due delibere. La verità - accusa - è che il Csm fa quello che vuole e procede a fare le nomine non in base ai criteri fissati nelle circolari dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, ma in relazione alle richieste che gli provengono dalle correnti”. Di “clamorose decisioni” parlano i componenti di Forza Italia in Commissione Giustizia alla Camera, rilanciando “il sorteggio temperato per la elezione della componente togata del Csm come unica soluzione per limitare il peso delle correnti”. “Dopo la vicenda giudiziaria della nomina del Procuratore di Roma, ora una nuova pronuncia del Consiglio di Stato azzera il vertice della Suprema Corte di Cassazione. L’ennesimo terremoto giudiziario che rende evidente la necessità di una riforma urgente del meccanismo di nomina dei magistrati e dello stesso Consiglio Superiore della Magistratura”. Così Antonino Galletti, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, commenta la pronuncia del CdS sulla nomina del Primo Presidente e del Presidente Aggiunto della Suprema Corte. “A una settimana dall’Inaugurazione dell’Anno giudiziario - spiega Galletti - ci troviamo dinanzi a una decisione che certo non intacca il prestigio di figure istituzionali stimatissime quali il Presidente Curzio e il Presidente Cassano, ma sicuramente mette in discussione i meccanismi che in seno al CSM hanno portato alla loro nomina, viziati secondo il Consiglio di Stato da logiche meritevoli di censura”. “Al Ministro Cartabia chiediamo di procedere rapidamente nella riforma del CSM - conclude Galletti - per evitare che altre sentenze come queste o, come accaduto in passato, altre nomine reiterate dal Consiglio Superiore, nonostante la bocciatura giurisdizionale, generino smarrimento nei cittadini e negli operatori tutti della Giustizia”. La beffa dell’improcedibilità: muore il processo ma non il reato di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 15 gennaio 2022 Nella norma non ci sono profili di incostituzionalità legati all’inefficacia per gli illeciti commessi prima del 2020, dice la Suprema corte. “Utile a bilanciare la legge Bonafede”. Da quando la prescrizione è stata sostituita dall’improcedibilità, nemmeno il favor rei si può invocare nel processo d’appello. Il motivo? La causa di improcedibilità configura un istituto di natura processuale anziché sostanziale, qual è invece la prescrizione. E non solo: il nuovo meccanismo estingue l’azione penale e non il reato. Lo ha chiarito la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, relatore Rosa Pezzullo, con la sentenza numero 334, rigettando una questione di legittimità costituzionale che le era stato chiesto di sollevare a novembre scorso. L’improcedibilità, dunque, pur interrompendo il processo di appello se non dovesse concludersi nei tempi fissati dal legislatore, appare sempre più come un palliativo al blocco della prescrizione di bonafediana memoria, non offrendo all’imputato le stesse garanzie costituzionali. Assieme alla delega al governo per l’efficienza del processo penale, nella legge 134/2021 compariva infatti anche l’articolo 2 che introduceva novità per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, con modifiche ai codici penale e di procedura penale. Tra queste modifiche anche l’introduzione del nuovo articolo 344 bis che riguardava la causa di “improcedibilità” del processo in appello. Nata sotto la spinta delle esigenze di affrontare le gravi carenze strutturali in tema di celerità dei processi, è finita di recente nel mirino della Corte di Cassazione che ha dovuto affrontare il tema della sua natura non sostanziale, chiarendo l’efficacia del principio del “tempus regit actum”. La vicenda, in particolare, riguardava una condanna per reati di bancarotta che a giugno 2020 veniva, dalla Corte di Appello de L’Aquila, parzialmente riformata per intervenuta prescrizione di un solo capo d’imputazione. L’imputato impugnava la decisione ma, nelle more della pendenza del ricorso, interveniva la legge 134/2021 che introduceva il nuovo istituto della improcedibilità. È in quella occasione che la difesa sollevava la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli articoli 3 e 117 della Costituzione, in quanto la legge ne limitava l’applicazione ai soli reati commessi dal primo gennaio 2020, con ciò violando il principio del favor rei, previsto dall’articolo 2 del codice penale. Ma tale principio appunto non può, per la Cassazione, riguardare la causa di improcedibilità, in quanto essa non è norma di natura sostanziale ma processuale. Prima ancora di entrare in questo tema, la sentenza della Corte chiarisce subito la coerenza dell’istituto con la Costituzione. L’improcedibilità, con la sua dichiarata finalità della celere definizione dei processi di impugnazione, troverebbe riferimento nell’articolo 111 della Costituzione, che regola la ragionevole durata dei processi. Non solo: la previsione di un tempo di massima durata del processo di appello, contenuta nella norma della improcedibilità, diventerebbe la garanzia del bilanciamento rispetto all’articolo 161 bis del codice penale, introdotto dal precedente governo del Guardasigilli Alfonso Bonafede con la legge “spazzacorrotti” e che stabilisce che “il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado”. Ma come detto vi è di più. Secondo gli ermellini, la natura processuale è evidente sia per la collocazione della norma che regola l’improcedibilità nel codice di procedura penale, sia per il fatto che il meccanismo estintivo, basato sul superamento temporale predefinito dal legislatore, incide non sull’esistenza del reato - come avviene con la prescrizione che lo estingue - ma solo sulla possibilità di proseguirne l’azione penale. Va detto, in conclusione, che la Cassazione non considera neppure irragionevole la scelta di limitare l’applicazione della causa estintiva ai soli reati commessi da gennaio del 2020, anzi, ritiene tale indirizzo di carattere compensativo perché per i reati commessi prima di quella data non opererebbe il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Le regole valgono anche per noi avvocati di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 15 gennaio 2022 Le misure adottate dal governo non possono che riguardare anche i penalisti, al pari dei medici, dei docenti e di altri esercenti funzioni sociali di difesa primaria dei diritti dei cittadini. Quelli che protestano per fortuna sono pochi. Questa maledetta pandemia ha da subito posto problemi complessi in tema di esercizio del diritto di difesa, come era ovvio che fosse. Accadde, lo ricorderete, nel primo e nel secondo lockdown ai quali siamo stati tutti costretti, canti sui balconi, inno nazionale quotidiano eccetera. Il tentativo che subimmo, insidioso quanti altri mai perché forte di una obiettiva quanto inedita condizione di emergenza sanitaria, fu quello della smaterializzazione del processo. “Facciamo i processi su Zoom”, ci venne detto. L’Unione delle Camere Penali Italiane reagì con durezza e determinazione. Vada eccezionalmente per le udienze di convalida degli arresti; d’accordo sulle udienze di discussione in Corte di appello e di Cassazione solo su richiesta espressa del difensore (ma senza camere di consiglio da remoto, in ogni caso); ma per il resto guai a “ridurre ad icona”, dicemmo, il diritto di difesa, che è garantito solo da un processo svolto fisicamente nelle aule. Se non si può fare, si rinvii a quando sarà possibile. L’Associazione magistrati impegnò tutte le sue forze contro la nostra posizione, che infine tuttavia prevalse, un risultato che orgogliosamente rivendichiamo come pressoché miracoloso (governo Conte 2, Ministro Alfonso Bonafede, giusto per non perdere memoria delle cose). Abbiamo anche combattuto contro gli abusi regolamentari degli accessi agli uffici piovuti come la grandine su tutti gli uffici giudiziari italiani; contro la pretesa - infine sanzionata dalla Corte Costituzionale di sospensione del corso della prescrizione per carenze organizzative autodiagnosticate dai capi degli uffici; e molto altro ancora. Questo hanno fatto, in tempi di Covid, le Camere Penali italiane a tutela del diritto di difesa che, come dovrebbe essere a tutti noto, è un diritto dei cittadini, non una guarentigia corporativa degli avvocati. Una parte non piccola dei quali, aggiungo, all’epoca protestò contro quelle nostre battaglie, invocando il diritto al lavoro (che ovviamente sarebbe stato largamente favorito dalla celebrazione dei processi su piattaforma digitale). L’avvento dei vaccini ha consentito un seppur parziale e precario recupero della normalità: siamo potuti uscire dalle nostre case e rientrare nelle aule di giustizia a fare il nostro mestiere. Ora infuria (in tutto il mondo) la quarta ondata pandemica, e si rischia di nuovo di guardare la vita dal balcone di casa. Come è a tutti noto, questa pandemia intanto impatta sulla vita sociale e sulla libertà ed i diritti di tutti noi, in quanto le sue conseguenze cliniche più gravi, ancorché percentualmente modeste, impongono il ricovero nei reparti di terapia intensiva, che hanno ridottissimi limiti di capienza. È altrettanto pacifico che i vaccinati, pur solo parzialmente protetti dal contagio, lo sono invece ampiamente dalle conseguenze patologiche più gravi o letali. Il Governo ha dunque ritenuto di adottare misure volte manifestamente ad incentivare la copertura vaccinale, oltre che a ridurre fortemente gli accessi nei luoghi pubblici alle persone più esposte al contagio. Queste misure non possono che riguardare anche gli avvocati, al pari dei medici, dei docenti, e di altri esercenti funzioni sociali di difesa primaria dei diritti dei cittadini. Dunque, la indignata invocazione - da parte, fortunatamente, di una assai ristretta minoranza di noi avvocati - di una pretesa violazione del diritto di difesa dei cittadini assistiti dagli avvocati (perché di questo si tratta) che non intendano vaccinarsi né acquisire certificazione sanitaria abilitativa all’accesso agli uffici giudiziari, appare frutto di un radicale fraintendimento dei principi in gioco. Quella di non vaccinarsi e addirittura di contestare l’onere di certificazione sanitaria è una scelta del singolo cittadino avvocato, che perciò stesso non può intestare in capo a chi la compie una condizione di impedimento legittimamente invocabile (salva, ovviamente, la documentata impossibilità di acquisire la certificazione richiesta). Certo, si può ben contestare - tema certamente complesso l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni; assai meno richiederne una deroga per la categoria degli avvocati. Noi della Giunta Ucpi abbiamo con convinzione ritenuto di indicare una scelta precisa tra il dovere di solidarietà sociale e di garanzia della salute della collettività cui la pandemia ci richiama tutti, ed una malintesa e solo indiretta tutela del diritto di difesa, sulla quale, come ho appena ricordato, non abbiamo certo da ricevere lezioni da nessuno. Mi sia infine consentita una nota personale: nella mia vita ho avuto la fortuna di partecipare, e perfino di dare il mio piccolo contributo, a quarant’anni delle più straordinarie battaglie libertarie di questo Paese. Ricevere lezioni di libertarismo da chi nemmeno le ricorda, ed anzi spesso proviene con ostentato orgoglio da storie politiche dichiaratamente totalitarie ed illiberali, un po’ mi fa sorridere, ma molto di più mi racconta l’impazzimento che sembra attraversare questi nostri difficilissimi tempi. Il mancato risarcimento a Contrada, le motivazioni: “Rispettate le regole del giusto processo” di Liana Milella La Repubblica, 15 gennaio 2022 La Cassazione aveva annullato con rinvio la prima pronuncia di secondo grado. La decisione della Corte di giustizia europea che dichiarò illegittima la condanna di Bruno Contrada, ex numero due del Sside ritenuto responsabile del reato di concorso in associazione mafiosa, “non influisce sulle fonti di prova che hanno portato i giudici di merito ad affermarne la penale responsabilità, profilo sul quale la Cedu non ha mosso rilievi. Le motivazioni della “bocciatura” della Corte di Strasburgo poggiano infatti sulla “imprevedibilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa” all’epoca dei fatti contestati a Contrada e non sul fatto che “gli elementi posti a fondamento del giudizio siano stati acquisiti nel rispetto delle regole del giusto processo”. E’ il ragionamento della Corte d’appello di Palermo che, su rinvio della Cassazione, è tornata a pronunciarsi sul risarcimento per ingiusta detenzione per Contrada. Una prima sentenza glielo aveva concesso, poi i giudici romani avevano annullato con rinvio il provvedimento chiedendo un nuovo processo che ha negato il risarcimento all’ex poliziotto. Oggi la corte ha depositato le motivazioni della sentenza. La sentenza della Cassazione, che revocò gli effetti penali della condanna di Contrada dopo la pronuncia della Cedu, secondo la corte d’appello, non ha affatto escluso la sussistenza dei fatti contestati al funzionario di polizia e processualmente accertati. “I giudici hanno ritenuto provate sulla base di una piattaforma probatoria ponderosa ed eterogena una serie di comportamenti illeciti di Contrada”, si legge nel provvedimento. Pertanto per la corte d’appello l’ex numero due del Sisde “non può essere considerato vittima”. I giudici addebitano a Contrada “opache e compromettenti frequentazioni che sarebbero scevre da ragioni di servizio e di comportamenti volti a favorire e rafforzare la mafia”. Per cui sostiene la corte era prevedibile per chiunque e in particolare per un poliziotto che lo Stato avrebbe reagito con provvedimenti restrittivi e sanzionatori. La misura cautelare per cui si chiede il risarcimento indipendentemente dal fatto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non fosse codificato all’epoca, non solo era giustificata ma “si imponeva come doverosa in relazione alla oggettiva gravità e perduranza delle condotte criminose”. Contro il risarcimento del danno per ingiusta detenzione all’ex 007 si è sempre opposto il pg Carlo Marzella. Quasi 2000 “interdittive anti-mafia” in 4 anni: così si combatte l’infiltrazione nell’economia di Giulio Marotta La Repubblica, 15 gennaio 2022 Imprese deboli e fondi pubblici obiettivi principali della criminalità organizzata. De Raho: “La modernizzazione delle mafie si completa investendo in aziende che non hanno accesso al credito bancario per la crisi. Le mafie non hanno bisogno di firmare atti, non hanno bisogno di documenti; al contrario occultano comportamenti illeciti con lo schermo di soggetti solo apparentemente sani, entrano così nel mercato dell’economia legale”. Nel mirino anche il Pnrr. Le ingenti risorse economiche che derivano dalle attività illecite (narcotraffico, traffico d’armi, estorsioni, gioco d’azzardo e scommesse, contrabbando) vengono riciclate dalle organizzazioni criminali nell’economia legale, anche attraverso un’attività di infiltrazione nelle imprese in difficoltà finanziaria. Per contrastare la presenza mafiosa nell’economia è essenziale il lavoro di intelligence degli apparati dello Stato per realizzare un’attività costante di prevenzione. In questo contesto le interdittive antimafia colpiscono gli operatori economici in affari o in rapporto con le organizzazioni criminali o che ne subiscono il condizionamento. Le imprese destinatarie di interdittiva non possono infatti stipulare contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture con pubbliche amministrazioni, enti pubblici ed aziende vigilate dallo Stato; nel caso di un contratto già in corso, ne è disposta la revoca oppure possono essere adottati provvedimenti di sostituzione degli amministratori dell’impresa e di controllo sulla sua attività, che ne permettano una gestione corretta, garantendo la prosecuzione di opere o servizi di importanza strategica (decreto-legge n. 90 del 2014). Le nuove strategie delle organizzazioni mafiose - Le indagini della magistratura e l’analisi della Direzione investigativa antimafia confermano l’evoluzione delle organizzazioni di tipo mafioso, volte a sviluppare una fitta rete di relazioni e complicità per infiltrarsi in modo “silenzioso” nella realtà politica ed economica, ricorrendo in misura più residuale all’uso della violenza: se infatti calano gli “omicidi di tipo mafioso” e le “associazioni mafiose”, c’è un sensibile aumento dei reati collegati alle infiltrazioni della criminalità organizzata nei settori produttivi e all’accaparramento illecito di fondi pubblici (corruzione, concussione, turbativa d’asta): tutto ciò permette ai clan mafiosi di “mimetizzare” meglio la propria attività criminale. Come sottolineato dal Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, “la modernizzazione delle mafie si completa nel reinvestire capitali in soggetti economici deboli; in quei soggetti che non trovano più un accesso al credito bancario per la crisi. Le mafie non hanno bisogno di firmare atti, non hanno bisogno di documenti; al contrario occultano comportamenti illeciti con lo schermo di soggetti solo apparentemente sani, entrano così nel mercato dell’economia legale. Questo è veramente preoccupante”. Codice antimafia e interdittive - Il codice antimafia prevede una serie di misure per impedire lo svolgimento di attività economiche delle organizzazioni criminali, a partire dagli appalti pubblici (sin dall’avvio delle procedure di gara). In particolare, la legge prevede l’obbligo per le Amministrazioni pubbliche di verificare l’assenza del pericolo di infiltrazione mafiosa per i contratti di importo superiore a 150 milioni di euro e, sotto questa soglia, per alcune tipologie di lavori, considerate “come maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa” (ad esempio trasporto di materiali e rifiuti, guardiania, concessioni di terreni agricoli legati a finanziamenti europei). Gli enti locali sciolti per mafia sono comunque obbligati a richiedere sempre la certificazione per 5 anni dalla data dello scioglimento, indipendentemente dal valore della transazione. Nel corso del tempo, sotto la spinta di alcuni protocolli di legalità, le Amministrazioni richiedono la certificazione antimafia anche per contratti, contributi e sovvenzioni di limitato importo, nonché in caso di concessione di licenze e autorizzazioni per lo svolgimento di un’attività economica, indipendentemente cioè dall’erogazione di risorse pubbliche (come avvenuto, ad esempio, nei casi del servizio di autotrasporto o della gestione di una sala giochi). Per assicurare la verifica preventiva dell’assenza di infiltrazioni mafiose nelle aziende che hanno rapporti con le pubbliche amministrazioni, sono stati istituite le white list, cui si devono iscrivere le imprese, previa autorizzazione della prefettura, che appunto certifica l’assenza di cause ostative alla partecipazione ad appalti pubblici ed alla stipula dei contratti. A tal fine le imprese devono sempre comunicare le variazioni dell’assetto proprietario e dei propri organi sociali in modo da consentire le attività di verifica da parte della prefettura. L’interdittiva antimafia, così come l’iscrizione alle white list, è rilasciata dalle Prefetture, al termine di approfonditi accertamenti sui possibili collegamenti tra imprese e criminalità organizzata. In quest’ambito un ruolo essenziale è svolto dalla Direzione investigativa antimafia (la DIA è nata 30 anni fa su un’intuizione di Giovanni Falcone), che effettua un monitoraggio costante degli appalti ed assicura una rapida istruttoria delle richieste di verifiche antimafia inoltrate dalle Prefetture. La Banca Dati Nazionale unica della documentazione Antimafia, gestita dal Ministero dell’Interno e alimentata dalle Prefetture, grazie anche alle segnalazioni delle transazioni sospette provenienti dai diversi apparati dello Stato e dalle stesse associazioni di categoria, consente alle stazioni appaltanti e agli addetti ai lavori di conoscere la posizione antimafia aggiornata delle imprese. Il database consente anche di accelerare il rilascio di tutte le comunicazioni antimafia. I dati sulle interdittive (1826 provvedimenti adottati dalle prefetture negli ultimi 4 anni) confermano l’estrema rilevanza del fenomeno delle infiltrazioni mafiose nell’economia legale. Va sottolineato che, accanto alle regioni con tradizionale radicamento mafioso (Calabria, Sicilia, Campani, Puglia) moltissime interdittive sono state emanate a carico di imprese che operano nel Nord Italia (in particolare Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte), a conferma delle analisi dell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia sul fatto che le organizzazioni mafiose non conoscono confini di settore e geografici. “La mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, la mafia foggiana - ha detto De Raho - nascono su specifici territori per poi proiettarsi altrove. Questo è il segno della loro forza, costituire proprie cellule che sono cosche, ‘ndrine, clan in altre regioni d’Italia. A questo segue la proiezione delle strutture economiche che operano su tutto il territorio nazionale per reinvestire e occultare i capitali accumulati. Quindi da una parte il controllo del territorio di provenienza anche attraverso l’uso della forza, e dall’altra parte il controllo dell’economia nei territori che vengono infiltrati. II salto di qualità è quando si superano i confini nazionali, quando la proiezione è di livello europeo e oltre oceano, ecco che diventa chiara la proiezione globale delle mafie. Una rete criminale che non ha confini o frontiere”. Cosa vuol dire “infiltrazione mafiosa nelle imprese” - L’interdittiva antimafia è una misura di carattere preventivo, che prescinde dall’accertamento di responsabilità penali o dall’esistenza di un vincolo associativo di tipo mafioso (le organizzazioni criminali utilizzano spesso prestanome incensurati per esercitare l’attività imprenditoriale). Colpisce perciò non solo i soggetti affiliati o contigui alla mafia ma anche le aziende le cui scelte sono condizionate (ad esempio attraverso l’intimidazione o l’estorsione) ed asservite ai loro interessi (vedi Consiglio di Stato n. 4061/2021, n. 5734/2021 e n. 7855/2021). E l’interdittiva è applicabile anche in caso di “tentativi di infiltrazione mafiosa”, al fine di prevenire ogni possibile pericolo di ingerenza dei clan criminali nella vita delle imprese (Consiglio di Stato n. 3379/2021). Il codice antimafia individua alcuni elementi-spia dell’infiltrazione mafiosa, come la condanna per taluni gravi delitti (ad esempio in relazione ad una gara d’appalto: vedi Consiglio di Stato n. 7503/2021), l’esistenza di misure di prevenzione o la mancata denuncia di delitti di concussione e di estorsione da parte dell’imprenditore. Al tempo stesso, nell’impossibilità di indicare in astratto tutte le modalità con cui si concretizzano i tentativi di infiltrazione mafiosa lascia comunque un ampio margine di discrezionalità alle prefetture nell’individuazione delle prove raccolte sul pericolo di infiltrazione mafiosa: l’elasticità della norma risulta necessaria proprio per evitare la facile elusione, da parte delle organizzazioni criminali, delle prescrizioni del codice che altrimenti perderebbe qualsiasi efficacia. Dall’esame delle interdittive e dalla giurisprudenza amministrativa (che ha dato un importantissimo contributo a precisare le condizioni necessarie per giustificare un’interdittiva antimafia) assumono particolare valore, innanzitutto, i legami tra diverse imprese, per tener conto delle continue mutazioni societarie effettuate dalle organizzazioni criminali per eludere la normativa antimafia (vedi ad esempio le sentenze del Consiglio di Stato n. 7545/2021, n. 7502/2021 e n. 7890/2021): parti di aziende colpite da interdittiva sono cedute ad altre società con nomi, sedi e rappresentanti diversi mentre le associazioni mafiose continuano ad esercitare un controllo “dietro le quinte” (Consiglio di Stato n.3530/2021); oppure può verificarsi il caso di un’azienda che si avvale della collaborazione continuativa, in termini di mezzi e personale (ad esempio per un subappalto), di un’altra impresa già colpita da informazione interdittiva (Consiglio di Stato n. 3890/2016 e n. 7503/2021). Può anche assumere rilievo, ai fini dell’interdittiva antimafia, l’assunzione di un numero elevato di persone con precedenti penali gravi, ovvero i rapporti di frequentazione assidua dei titolari, soci, amministratori con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia (Consiglio di Stato n. 4293/2021 e n. 5042/2021). Anche i rapporti di parentela, che di per sé non costituiscono un elemento di prova, possono essere utilizzati ai fini dell’interdittiva quando sia dimostrata l’esistenza di una effettiva “disponibilità” dell’impresa verso le attività dei gruppi criminali sotto il profilo finanziario, commerciale, lavorativo etc. (Consiglio di Stato n. 2651/2020 e n. 4056/2021): tali organizzazioni inseriscono spesso nell’azienda familiari incensurati ma facilmente controllabili, in ragione proprio dei fortissimi vincoli familiari che caratterizzano i clan mafiosi (Consiglio di Stato n. 5770/2021). La legittimità costituzionale della disciplina del codice antimafia - I giudici hanno affrontato in molteplici occasioni il tema della legittimità costituzionale della normativa sulla certificazione antimafia, con riferimento anche all’utilizzo estensivo di tale istituto al fine di impedire l’esercizio di ogni attività economica da parte di aziende legate ad organizzazioni criminali. In particolare, la Corte costituzionale (sentenze n. 4 del 2018 e n. 57 del 2020), ha giudicato non fondate le questioni di costituzionalità, sottolineando che di fronte di una situazione di particolare pericolo di inquinamento dell’economia legale si giustifica anche la compressione del diritto di impresa: “Il legislatore, rispetto agli elementi di allarme desunti dalla consultazione della banca dati può legittimamente reagire attraverso l’inibizione, sia delle attività contrattuali con la pubblica amministrazione, sia di quelle in senso lato autorizzatorie, prevedendo l’adozione di un’informazione antimafia interdittiva che produce gli effetti anche della comunicazione antimafia”. I giudici amministrativi hanno evidenziato che il codice antimafia è volto a garantire non solo il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, ma anche un sano regime concorrenziale tra le imprese (spesso le aziende legate alla criminalità organizzata operano in una situazione di parziale illegalità: evasione fiscale e contributiva, mancato rispetto della normativa sul lavoro); l’interdittiva, emessa al termine di un’approfondita analisi dei fatti, consente alle prefetture di intervenire in modo tempestivo e di prevenire così comportamenti e pratiche lesive dei valori sopra enunciati. Gli accertamenti devono comunque essere effettuati con estremo rigore, e adeguatamente motivati, tenendo conto anche di circostanze sopravvenute che modifichino il quadro indiziario delineato dalla prefettura: a tal fine l’azienda ha diritto a chiedere il riesame della pratica ovvero a presentare ricorso. Proprio la giurisprudenza amministrativa, cui spetta un’accurata valutazione degli elementi raccolti e degli argomenti difensivi dei soggetti interessati, ha dato un importante contributo a precisare le condizioni indispensabili per emanare un’interdittiva antimafia (vedi le sentenze del Consiglio di Stato n. 2141/2019 e n. 1825/2021). E l’inadeguatezza degli elementi raccolti dalla prefettura determina l’annullamento dell’interdittiva (Consiglio di Stato n. 5312/2021 e n. 7316/2021). Recentemente sono state inoltre rafforzate le garanzie dei soggetti coinvolti nelle procedure di verifica delle prefetture: con il decreto-legge n. 152 del 2021, infatti, è ora prevista la possibilità delle aziende, raggiunte da un “preavviso di interdittiva” (con cui sono precisati gli elementi rilevatori del tentativo di infiltrazione mafiosa) di essere ascoltate e presentare una memoria difensiva (art. 48). Al termine del procedimento, il prefetto può valutare l’applicazione, nel caso specifico, delle disposizioni che consentono la prosecuzione dell’attività dell’impresa in regime di controllo giudiziario. Gli appetiti delle mafie sulle risorse del PNRR - Da più parti sono stati sollevati allarmi sul forte interesse delle mafie di accedere alle ingenti risorse messe a disposizione dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per contrastare le organizzazioni criminali sarà pertanto necessario attivare tutti gli strumenti previsti dalla normativa antimafia, alla luce anche delle più recenti disposizioni. Si segnalano al riguardo gli interventi in materia di riciclaggio e lo scambio di informazioni finanziarie tra le diverse amministrazioni per le indagini riguardanti la criminalità organizzata e altri gravi reati (vedi in particolare la direttiva UE 2019/1153); ovvero l’applicazione per un periodo di 6/12 mesi, in alternativa all’interdittiva, di una serie di misure di controllo sull’attività dell’impresa (interventi di natura organizzativa, obbligo di comunicare tutti i documenti di rilievo per la gestione aziendale, utilizzo di un conto corrente dedicato per favorire la tracciabilità delle operazioni finanziarie, eventuale nomina da parte del prefetto di esperti che collaborino con l’azienda etc.), nei casi meno gravi di agevolazione “occasionale” ai clan mafiosi (decreto-legge n. 152 del 2021, art. 47 e 49). Quest’ultima disposizione appare volta a “recuperare alla legalità” imprese, coinvolte in fenomeni di infiltrazione mafiosa, che manifestino la capacità di affrancarsi completamente dalla criminalità organizzata: al termine di tale periodo di “controllo attivo” la prefettura potrà infatti rilasciare un’informazione antimafia liberatoria. Come osservato dal Procuratore Nazionale Antimafia, sarà importante verificare la concreta applicazione della nuova normativa, al fine di verificare, attraverso un costante monitoraggio, la piena funzionalità dei diversi strumenti previsti dal codice antimafia per il contrasto delle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’economia. Torino. In carcere è tutti contro tutti di Davide Ferrario Corriere di Torino, 15 gennaio 2022 Qualche giorno fa Rosalia Marino, direttrice reggente del “Lorusso e Cutugno”, se ne è andata, esternando la delusione per l’abbandono in cui il carcere delle Vallette è stato lasciato da tutti. Non solo: i primi tre classificati del concorso per il nuovo direttore hanno rinunciato, preferendo altre sedi. Oggi, purtroppo, è facile leggere sulla stampa che il penitenziario di Torino è “il peggiore del Paese”, perfino di certi istituti che hanno causato all’Italia le ripetute condanne della Corte Europea. È una bruttissima notizia per la città, in particolare per chi delle Vallette ha una conoscenza diretta. Io ci ho fatto il volontario per sette anni, girandoci anche un film con guardie e detenuti (Tutta colpa di Giuda, nel 2009, con Kasia Smutniak e Fabio Troiano): e quell’istituzione non assomigliava per nulla a quella di oggi. Mi risuonano però in mente le parole profetiche di Pietro Buffa, il direttore che in quegli anni ne aveva fatto un istituto modello: “Lei filmerà gli ultimi momenti di un’idea di carcere destinata a sparire”. Quell’”idea” era un progetto in cui carcere e società si parlavano e si aprivano vicendevolmente: perché la galera non è un luogo “altro”, ma il diretto prodotto di ciò che gli sta intorno. Certo, si sa che la maggioranza dell’opinione pubblica prende alla lettera la definizione di “penitenziario”: e cioè un luogo di pena il cui unico scopo è il castigo. Ma anche tralasciando il dettato costituzionale, per cui la pena non deve essere afflittiva ma tesa al recupero del detenuto, basterebbe pensare a quanto costa un sistema così inefficiente. Che direste di un ospedale in cui i malati non vengono curati ma solo parcheggiati e poi rimessi fuori tali e quali a prima del ricovero? È esattamente quello che succede nelle galere italiane. Eppure a Torino, nel primo decennio del 2000, c’erano numerosi progetti di attività per i detenuti; c’era una mailing list di 1500 cittadini “normali” che a turno incontravano i detenuti nel cinema-teatro; c’erano attività che educavano al lavoro. Soprattutto, c’era un clima umano che è drammaticamente peggiorato proprio a causa dell’abbandono dell’istituzione a sé stessa di cui parla l’ex-direttrice. Chi conosce la galera solo dai film, non capisce che ogni carcere è una sorta di piccolo paese dove convivono forzatamente non solo i condannati, ma anche gli agenti e il resto del personale: che del sistema non sono i padroni, ma gli ostaggi. Un sistema che si regge su un equilibrio fragile, che dipende molto dalla capacità dei direttori di gestire i rapporti tra detenuti e personale. Al netto di tutti i buonismi, la mia esperienza alle Vallette fu quella di un luogo in cui, nell’ inevitabilità del rapporto carcerato carceriere, esisteva un sostanziale rispetto. Oggi, a quel che leggo e che mi viene detto, è invece in corso una sorta di guerra di tutti contro tutti, che produce violenza indifferenziata e spesso autolesionista. Il primo segnale del degrado del Lorusso e Cutugno fu infatti il terribile evento del dicembre 2013, che coinvolse due agenti, uno dei quali uccise l’altro e poi si sparò davanti ai colleghi in mensa. Da lì in poi delle Vallette si è parlato solo per vicende sempre più drammatiche: torture ai detenuti, suicidi, proteste per mancanza di personale, morti per incuria. Il “Sestante”, la sezione per gli psichiatrici, è stata chiusa a novembre in quanto “reparto degli orrori”. Questo declino, che dura da anni, si è svolto nell’ indifferenza. Nona caso il carcere è piantato là, in fondo alla città, in un cul-de-sac, separato dal resto del mondo. Non si tratta solo di una misura di sicurezza: rivela l’inconscia reazione della società. Come disse Claudia Clementi, la direttrice che succedette a Buffa cercando di continuarne il lavoro: “Il carcere è percepito come una discarica sociale dove non si fa nemmeno la raccolta differenziata”. Firenze. Cartabia annuncia: “11 milioni per rifare tutto Sollicciano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 gennaio 2022 L’annuncio nel giorno della visita della ministra Cartabia: “Qui molte criticità”. L’annuncio è arrivato al termine dell’attesa visita della ministra Cartabia a Sollicciano. Undici milioni, di cui 7 dello Stato e 4 della Regione, saranno investiti per rifare il carcere attraverso lavori strutturali. La visita della ministra è stata anche l’occasione per vedere da vicino le pessime condizioni in cui versa la struttura: “Ma anche il carcere fa parte della Repubblica”, ha sottolineato Cartabia. Undici milioni per rifare Sollicciano. È quanto stanziato dal Ministero della Giustizia (7 milioni) e dalla Regione (4 milioni) per dare nuova vita, entro il 2024, al penitenziario fiorentino. Una svolta importante annunciata ieri dalla ministra della giustizia Marta Cartabia che, dopo l’invito del sindaco Dario Nardella, è arrivata in visita al carcere incontrando alcuni detenuti e agenti, rendendosi personalmente conto del degrado in cui versa l’istituto. La cifra più corposa (4,5 milioni) sarà utilizzata per realizzare opere di efficientamento energetico: installazione di pannelli fotovoltaici e sostituzione degli infissi nelle aree detentive, negli uffici e nelle caserme. Ci sono poi 2,6 milioni che saranno destinati alla sistemazione delle facciate esterne, alla coibentazione di tutti i padiglioni detentivi con la conduzione di acqua calda nei reparti dove adesso manca. Quasi 2 milioni andranno al potenziamento della videosorveglianza esterna, con tanto di sistema anti scavalcamento. E ancora 1,4 milioni serviranno per realizzare due campi da calcetto. Saranno poi rifatte le docce, rimossi i parapetti in degrado presenti sul camminamento di ronda e ristrutturati chiesa e teatro del reparto femminile. “Questo penitenziario ha molte criticità a partire dalle strutture, gli edifici e i locali, per continuare con le condizioni generali che portano a situazioni di aggressioni nei confronti della polizia che sono situazioni gravi e difficili da gestire - ha detto la ministra Cartabia - Difficoltà di vigilanza ma anche condizioni che mettono i detenuti in situazioni tali da praticare forme di autolesionismo e tentativi di suicidio. Tutto questo - ha aggiunto - richiede risposte articolate e complete ma venire a visitare il carcere ha anche significato vedere dei lavori in corso, ho potuto constatare con i miei occhi che non si tratta solo di progetti ma che una forte importante ristrutturazione straordinaria è in atto. Tutta la Repubblica in tutte le sue autorità di vario livello - ha concluso - si interessa al carcere, perché è parte delle Repubblica Italiana”. “È fondamentale - ha detto il sindaco Nardella - che Sollicciano non sia vissuto come un luogo avulso ed estraneo alla vita della città, che si possa fare il massimo dell’investimento possibile sul reinserimento sociale dei detenuti perché possano uscire migliori di come sono entrati proprio per evitare che i livelli di recidiva possano essere alti a scapito della comunità della stessa città. Abbiamo anche chiesto un impegno a valutare e a studiare tutte quelle che sono le possibili azioni di intervento strutturale su quella che è una struttura carceraria che ha molti limiti funzionali”. La ministra ha anche incontrato il cappellano del carcere don Vincenzo Russo, che ha lasciato a Cartabia una lettera: “La pandemia da Covid - è scritto nella missiva - si è affiancata alla presenza in carcere di persone malate, tossicodipendenti, disagiati psichici, malati comuni e gravi, che faticano ad avere cure adeguate ed assistenza”. E proprio il Covid è un’emergenza di Sollicciano, visto che sono circa cento i detenuti positivi, tutti trasferiti in un singolo reparto in isolamento dal resto della popolazione carceraria. Salerno. “Fuorni, intrappolati nell’inferno” di Gaetano de Stefano La Città di Salerno, 15 gennaio 2022 Protestano i familiari dei detenuti: applicate la liberazione anticipata speciale. Protestano i detenuti del carcere di Salerno-Fuorni. E lo fanno attraverso la “battitura”, ossia facendo “suonare” le inferriate delle celle percuotendole con utensili o qualsiasi altro attrezzo utile per produrre il tintinnio. Che diventa quasi una nenia alle 9.30 in punto, quando viene dato il là al “concerto”. Fuori, a dare man forte alla protesta pacifica, ci sono i parenti dei detenuti, assieme a Donato Salzano dell’Associazione Radicale “Maurizio Provenza” che chiedono la “liberazione anticipata speciale” per “scongiurare il flagello in atto in queste ore nelle carceri con la diffusione del virus”. E che il sindaco di Salerno, Enzo Napoli firmi la petizione “per una somministrazione del vaccino e la diagnostica efficace e in sicurezza in città fuori e dentro le mura del carcere” tenuto conto che il virus sta facendo danni anche all’interno del carcere di Fuorni, con 7 detenuti e 21 agenti di polizia penitenziaria positivi. Alla protesta pacifica s’aggiunge anche il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, che ascolta i familiari che denunciano anche le lungaggini burocratiche per i colloqui e la precarietà dello spazio antistante il carcere dove attendono di essere chiamati per entrare nella struttura penitenziaria. I problemi del carcere. Ciambriello, quindi, entra nella Casa circondariale, accompagnato dalla direttrice dell’Istituto Rita Romano, dalla comandante Grazia Salerno, e s’incontra coi detenuti delle sezioni 3A e 3B e una delegazione dell’alta sicurezza e del reparto femminile. E all’uscita “svela” i principali problemi riscontrati, tra cui sovraffollamento, malasanità, ritardi della magistratura di sorveglianza, celle fatiscenti. “Sono questi i temi - evidenzia il garante dei detenuti - posti al centro sia di una lettera che mi hanno inviato i detenuti che della protesta. Nei vari reparti ho potuto riscontare queste criticità. Incredibilmente, dopo aver effettuato il tampone l’esito sia della positività che negatività al Covid-19 viene comunicato, in qualche caso, da alcuni dei loro familiari, prima che dalla stessa direzione sanitaria dell’Istituto”. Assenza di spazi sanitari. È carente, per usare un eufemismo, anche l’organizzazione sanitaria. “Nei singoli reparti - rimarca Ciambriello - non c’è uno spazio sanitario, ma un’unità centrale. Ho visto diversi detenuti malati oncologici o con patologie post operatorie, che stanno nelle celle normali insieme agli altri. Mi auguro che al più presto anche questo carcere si doti di un servizio di assistenza integrata, un reparto di infermeria perché il diritto alla salute, alla dignità del detenuto alla vita è fondamentale come la certezza della pena”. Difficoltà d’accesso anche per i medici privati, “in primis dentisti - precisa Ciambriello - a cui non vengono concessi spazi e attrezzature sanitarie presenti all’interno dell’Istituto”. Sos sovraffollamento. Anche il numero dei detenuti è maggiore rispetto alla capienza dichiarata sul sito del Ministero della Giustizia. Attualmente sono nella struttura, che può contenere al massimo 390 reclusi, 471 persone, di cui 413 uomini (70 nell’alta sicurezza) 34 donne, 17 semiliberi che sono in licenza straordinaria nelle rispettive abitazioni, nonché 7 detenuti ristretti nell’articolazione psichiatra. Le carenze d’organico. Tra i mali atavici del carcere di Fuorni c’è anche la carenza d’organico. “La struttura - spiega Ciambriello - dovrebbe avere un vice-direttore che purtroppo non c’è, un comandante, e due vice che non ci sono; c’è solo una “vice” che esercita la funzione di comandante. Mancano 34 agenti: durante i turni notturni, all’interno dell’Istituto, ne restano appena 9 per custodire l’intero istituto. La politica non potenzia il numero degli agenti, degli educatori e assistenti sociali. Tra l’altro i detenuti hanno messo in risalto proprio l’assenza delle assistenti sociali”. E note dolenti arrivano anche dai procedimenti penali che, il più delle volte, sono lunghissimi. “La magistratura di sorveglianza - rivela Ciambriello - in qualche caso ha fissato le udienze dopo la scarcerazione; altri detenuti, in particolare donne, per un periodo sono usciti in permesso, beneficio previsto dalla normativa che ora però gli è stato negato”. Viterbo. “Non mi curano”, detenuto in sciopero della fame da una settimana Corriere di Viterbo, 15 gennaio 2022 Detenuto in sciopero della fame da oltre una settimana per assenza di cure. È la storia di Bernd Feil, 57enne, di origini tedesche, recluso presso il carcere di Mammagialla, il quale da più di 7 giorni ha iniziato la sua personale protesta per non aver ottenuto l’assistenza sanitaria adeguata dopo che gli è stata diagnosticata la rottura del tendine d’Achille al piede destro. Dopo l’infortunio e i successivi accertamenti clinici, le richieste del cinquantenne, che sta scontando una pena nella prigione viterbese, secondo l’avvocato Paolo Labbate che lo rappresenta, sembra non siano ancora state prese in considerazione. “Bernd parla e capisce benissimo l’italiano. La madre è originaria della Calabria. In questo periodo abbiano inoltrato diverse sollecitazioni a chi di dovere per smuovere le acque. Nonostante tra l’altro una pec inviata alla dirigente del penitenziario e la segnalazione partita dallo stesso detenuto ancora non abbiamo avuto alcun riscontro - ha riferito il legale del 57enne. Ieri mattina sono andato a trovarlo per discutere con lui delle sue vicende giudiziarie e purtroppo non sta bene. Ho constatato che è dimagrito parecchio. E com’è comprensibile è anche molto provato sia dai dolori ma soprattutto dal digiuno che ha deciso di intraprendere nella speranza che qualcuno intervenga”. Il difensore del detenuto ha fatto sapere inoltre di aver provveduto proprio in questi giorni a informare della situazione e della condizione detentiva del proprio assistito anche l’ambasciata tedesca. Firenze. “One Man Jail”: teatro e tecnologia come ponte tra carcere e città firenzetoday.it, 15 gennaio 2022 Intrecciare teatro e tecnologia, per ribaltare regole e percezioni portando il carcere fuori dal carcere. È in arrivo a Firenze “One Man Jail: le prigioni della mente”, l’unico spettacolo in Italia che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere. Dopo il rinvio sarà al Teatro Cantiere Florida il 25 e 26 gennaio 2022. Proposto e prodotto da Compagnia Interazioni Elementari, diretta da Claudio Suzzi, “One Man Jail: le prigioni della mente” grazie alla diretta streaming, materializzerà sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci, per raccontare una storia di ossessioni e libertà, mentre il pubblico si trasformerà per due ore in un gruppo di prigionieri, o forse si accorgerà di esserlo sempre stato, in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori. La storia è quella di Frank Petroletti - interpretato dall’attore Filippo Frittelli- comico che, all’apice del successo, viene arrestato e incarcerato. All’interno della prigione, di fronte a un pubblico di detenuti ostili e disinteressati, si prepara a esibirsi nella sua ultima performance. Lo show, caustico e strampalato, lo porterà ad affrontare le proprie paure e i pensieri che lo tengono realmente prigioniero, a liberarsi dai personaggi che affollano la sua mente, per raggiungere un “altrove” forse meno rassicurante di quello che gli si vorrebbe far credere. Lo spettacolo si inserisce all’interno del progetto “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di educazione ai mestieri dello spettacolo e della performance tramite l’utilizzo di tecnologie digitali, che vuole andare a colmare due bisogni fondamentali di chi abita l’istituto di detenzione minorile: stabilire un collegamento con la comunità esterna e ottenere una formazione lavorativa, in grado di aprire prospettive future per i giovani detenuti, già a partire dal periodo di permanenza in carcere. L’obiettivo principale non è solo coinvolgere i giovani detenuti del Meucci, ma anche e soprattutto sensibilizzare la comunità fuori. “Lavoriamo perché i ragazzi vengano scritturati come attori - spiega il regista Claudio Suzzi, fondatore di Interazioni Elementari e ideatore di Streaming Theater - remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo circuitare il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si base la produzione. In un processo di incontro tra il carcere e le città, vogliamo coinvolgere un pubblico più ampio puntando, grazie al teatro, ad un maggiore sviluppo della cittadinanza attiva e alla partecipazione delle comunità locali, in modo da creare una maggiore inclusione sociale”. Un percorso che vorrebbe continuare anche dopo il ritorno in libertà dei suoi protagonisti: “Il coronamento di questo lavoro sarebbe potergli dare un seguito anche fuori dal carcere, ma al momento è impossibile per mancanza di uno spazio dedicato, una sede a Firenze, senza la quale la Compagnia Interazioni Elementari non potrà continuare a lungo il suo lavoro. Abbiamo bisogno di un luogo dove far mettere radici al progetto e alla Compagnia, e per questo confidiamo nella sensibilità, nell’ascolto e nel sostegno delle autorità locali toscane e fiorentine”. “Attraverso l’uso dello streaming - continua Suzzi - con lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” proviamo a capovolgere tre punti di vista. Il primo riguarda le modalità di fruizione del teatro in carcere. Di solito viene chiesto allo spettatore di entrare nell’istituto penitenziario, con tutte le limitazioni del caso. Con il collegamento live rendiamo la possibilità di incontro tra città e carcere molto più semplice e replicabile. Il secondo è quello che trasforma un’attività educativa, il teatro appunto, in una possibilità di lavoro vera e propria. Altro ribaltamento è quello relativo alla trama dello spettacolo: il teatro diventa un carcere, il pubblico si trasforma in un gruppo di detenuti, mentre la prigione, da cui realmente trasmettiamo, simboleggia la mente del protagonista”. La compagnia teatrale Interazioni Elementari, nata nel 2014 a Parigi come gruppo informale e costituitasi poi nel 2017 a Firenze come Associazione di Promozione Sociale, porta avanti attività di formazione, produzione e organizzazione di eventi sul territorio nazionale ed europeo. I componenti, artisti e operatori di diverse generazioni e provenienze, sono uniti da una visione comune delle arti teatrali e performative che punta sul rapporto tra ricerca artistica e società. Dal 2017 organizza laboratori di teatro per i detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze e dal 2018, sia dentro che fuori dal carcere, organizza il Festival Spiragli - Teatri dietro le quinte, nel quadro del programma dell’Estate Fiorentina del Comune di Firenze e finanziato dal Bando Cultura della Città Metropolitana di Firenze. Il progetto è finanziato dal bando “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento delle politiche giovanili e del Servizio civile universale e dalla Regione Toscana, dal Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze e da Publiacqua S.p.A. In partenariato con Associazione Volontariato Penitenziario Onlus, Associazione Altro Diritto Onlus, Associazione di Promozione Sociale Progress. In collaborazione con Istituto Penale Minorile “G.Meucci” di Firenze, Assessorato all’Educazione, Università e Ricerca, Formazione Professionale, Diritti e Pari Opportunità del Comune di Firenze, Assessorato alla Cultura, Moda e Design del Comune di Firenze, Garante dei detenuti della Regione Toscana, Garante dei detenuti del Comune di Firenze, Associazione Antigone Onlus, Cinema Teatro di Castello e Teatro delle Arti Lastra a Signa. Milano. La mostra dei ragazzi detenuti al carcere minorile Beccaria milanotoday.it, 15 gennaio 2022 Le opere saranno esposte nella sede del Cpia 5 (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) di via Pontano. A Milano ci sarà una mostra dei ragazzi dell’Istituto penitenziario minorile Beccaria e della docente e pittrice Mariuccia Roccotelli. Le opere saranno esposte nella sede del Cpia 5 (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) di via Pontano. La libertà creativa degli artisti si lega idealmente alle opere realizzate dai ragazzi del Beccaria durante le lezioni con la pittrice e docente Mariuccia Roccotelli. “LiberArte”, titolo della mostra, si trasforma così nel manifesto della libertà espressiva, un percorso intimo e universale in cui ogni autore si mette a nudo raccontando dettagli di sé, dei suoi sogni ed emozioni. L’arte diviene quindi strumento di libertà e liberazione e un ideale ponte di collegamento fra culture ed etnie diverse che integrandosi si arricchiscono reciprocamente. Il linguaggio artistico non ha confini né pregiudizi, non isola anzi unisce. L’esperienza di Mariuccia Roccotelli, docente del Beccaria dal 2016, rivela come la pittura e tutte le espressioni artistiche possano diventare cardine per l’esplorazione e l’espressione delle proprie fragilità. In un contesto come quello di un penitenziario minorile è di primaria importanza intraprendere un percorso di rieducazione alla bellezza, che si trasforma in risorsa e bene collettivo. La mostra segna altresì l’inizio di una proficua collaborazione con il corso di Terapeutica artistica dell’Accademia di Brera che condivide le finalità di riqualificazione e rivalutazione degli spazi scolastici e detentivi attraverso il mezzo artistico. L’inaugurazione sarà il 20 gennaio 2022 alle 18. Dal 21 gennaio al 25 febbraio - dal lunedì al venerdì ore 9 alle 18 - sarà possibile visitare la mostra. Green pass e mascherina FFP2 sono obbligatori. L’avvocato detenuto che mette alla berlina la giustizia americana di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 15 gennaio 2022 Alla sua prima udienza come avversario gli capita il sostituto procuratore responsabile della sua condanna all’ergastolo che non nasconde lo smarrimento: “Ma come fai essere qui!?”, esclama stupito. La risposta è folgorante: “Impegno e buona volontà. Non so quale sia il tuo metodo”. In effetti Aaron Wallace, protagonista di For Life la serie scritta e ideata da Hank Steinberg, prodotta dal rapper 50 Cents e approdata da alcuni giorni su Netflix, è un monumento all’intelligenza e alla forza di volontà. “Non ha tempo per il dolore, non ha il tempo per la gioia e non ha nemmeno il tempo per la rabbia, è concentrato sul suo unico obiettivo: uscire dalla galera”, dice il bravissimo Nicholas Pinnock, l’attore che presta il volto a Wallace. Arrestato ingiustamente per spaccio di droga e condannato alla prigione a vita perché non ha voluto patteggiare una pena a vent’anni, Wallace potrebbe sprofondare nella disperazione, nell’inerzia vuota della prigionia. Ma ha carattere e convinzioni di ferro; non si dà mai per vinto e invece di piangersi addosso lancia la sua sfida al sistema giudiziario. Così decide di studiare legge dietro le sbarre, per sette lunghissimi anni. Ottiene la licenza di penalista e diventa l’avvocato- detenuto grazie alla cieca determinazione e sospinto dalla stima della direttrice della prigione in cui è recluso, Safiya Masry, una riformista illuminata e coraggiosa che tenta di arginare dall’interno le iniquità e le spietatezze dell’universo carcerario americano. La vita in carcere, “un luogo dove le promesse si chiamano debiti”, è un elemento centrale di For Life, l’occhio realista di Steinberg ci mostra i conflitti e le lotte di potere, tra i detenuti e tra chi fa funzionare la macchina infernale della prigionia, l’ottusità vendicativa delle guardie, il cinismo dell’amministrazione, l’iniziativa, spesso interessata e priva di scrupoli della procura. E lo fa senza retorica, senza piagnistei, con un tocco minimalista che compensa la verbosità, a tratti eccessiva, dello script. Wallace combatte per se stesso, certo, ma incarna il ruolo dei difensore con fervore e lucidità: “Sono un avvocato, farei di tutto per i miei clienti!”. Nel corso della storia lavora per trovare le prove che possano scagionarlo, per dimostrare la sua innocenza, scontrandosi con l’immoralità del potente e corrotto procuratore della contea Glenn Maskins, il villain della pellicola, l’uomo che ha fatto a pezzi la sua vita e che aspira all’ambita guida della Procura generale. La moglie Marie lo ha lasciato per il suo migliore amico e in fondo non crede del tutto alla sua innocenza oppure ha smesso di farlo per non soffrire ancora di più, la figlia Jasmine, che quando venne arrestato era appena una bambina e ora è un’adolescente inquieta e problematica ma totalmente schierata dalla parte del padre, si ritrova incinta a soli 17 anni. La sua esistenza di persona onesta e benestante (prima dell’arresto era proprietario di una discoteca) non c’è più. Ma la strada per riscattarsi e ottenere giustizia non è la guerra solitaria, la catarsi hollywoodiana dell’eroe, il “metodo” di Wallace consiste nell’aiutare gli altri detenuti, i suoi compagni, afroamericani vittime come lui di condanne sommarie e di pregiudizi razziali. Non rifiuta neanche la difesa sconveniente di nazisti e suprematisti bianchi dal quoziente intellettivo di uno scimmione, attirando gli strali della sua “comunità” per il quale diventa un “traditore”, ma è un prezzo che paga volentieri perché il diritto e i diritti sono un bene superiore, l’esatta misura della democrazia: “Ho fatto ciò che dovevo: tutti meritano un giusto processo”. For Life è liberamente ispirata a una storia vera, il terribile errore giudiziario ai danni di Isaac Wright Jr, arrestato nel 1989 con l’accusa di essere il boss di una rete di spacciatori di cocaina del New Jersey. Incastrato dalla polizia che ha nascosto le prove che lo discolpavano e perseguitato dal procuratore Nicholas Bissell, Wright Jr ha trascorso sette anni in prigione dove si è laureato in giurisprudenza e dopo aver ottenuto l’abilitazione professionale è riuscito a dimostrare con successo la sua innocenza (come quella di altri venti detenuti). Consulente della serie, nel 2020 si è persino candidato a sindaco di New York. Ci sono ben poche licenze letterarie nei tredici episodi che segnano la prima stagione e l’agognata rinconquista della normalità da parte di Aaron Wallace, ben poche le esagerazioni, le concessioni allo spettacolo, all’intimismo di maniera (il rapporto con la famiglia) o alle intemerate manichee, ogni scena, ogni intreccio è verosimile, spesso perché realmente accaduto, la narrazione resta lineare con episodi auto-conclusivi e una linea orizzontale che invece segue la vicenda personale del protagonista. For Life ci restituisce in tal senso un’impietosa fotografia della giustizia americana, bullizzata dalle ambizioni personali dei procuratori, dagli interessi politici e finanziari, dalla sciatteria dei giudici, da funzionari di polizia sadici e primitivi, da una burocrazia che schiaccia e umilia i detenuti senza un briciolo di umanità animata da feroci criteri sociali e razziali. La presunzione di innocenza è solo un vago miraggio mentre la giostra dei patteggiamenti seppellisce ogni anno miglia di innocenti delle prigioni federali. Un sistema malato, che consegna nelle mani dell’attorney un potere quasi divino e mai messo in discussione: “Noi giochiamo con la vita di tantissima gente, noi roviniamo tanta gente, ricordatelo sempre” si sfoga un vecchio collega di Maskins in quello che chiama “un sussulto di coscienza”. Maskins però non gli darà retta e continuerà a perseguitare Wallace fino all’inevitabile sconfitta finale. Le associazioni cattoliche: “L’Italia firmi lo stop agli armamenti nucleari” di Luca Kocci Il Manifesto, 15 gennaio 2022 Appello al governo. Tra i firmatari della missiva: Acli, Azione cattolica e Pax Christi. “L’Italia firmi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”. Lo chiedono, in un appello congiunto, i dirigenti nazionali di cinque fra le più importanti associazioni e movimenti cattolici italiani: Acli, Azione cattolica, Comunità papa Giovanni XXIII, movimento dei Focolari e Pax Christi. La prossima settimana sarà un anno esatto dall’entrata in vigore del Trattato che dichiara illegale l’uso delle armi nucleari (Tpnw), adottato dall’Onu il 7 luglio 2017 e diventato esecutivo il 22 gennaio 2021, ovvero novanta giorni dopo la ratifica da parte di cinquanta Stati. L’Italia non è fra questi. Così come ovviamente non ci sono le potenze atomiche “ufficiali” (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina), che però lo scorso 4 gennaio, in un messaggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno avuto l’ipocrisia di affermare che le armi nucleari rappresentano una grave minaccia per tutta l’umanità, che “non c’è modo di vincere una guerra nucleare” e che per questo “non deve mai essere combattuta”. Dopo un primo appello lo scorso 2 giugno, “Per una Repubblica libera dalle armi nucleari”, che fu sottoscritto da 44 associazioni e movimenti del mondo cattolico, ora in cinque rilanciano l’iniziativa e chiamano a raccolta gli altri, chiedendo all’Italia di firmare, alla vigilia del primo anniversario dell’entrata in vigore del Trattato e anche in vista della Conferenza Onu di Vienna di marzo, quando si riuniranno i Paesi che finora lo hanno sottoscritto. Citano don Primo Mazzolari: “Abbiamo bisogno di giustizia sociale, non di atomiche”. E citano papa Francesco, che nel messaggio per la Giornata mondiale della pace ha denunciato l’aumento della spesa militare e il taglio agli investimenti per la scuola (v. il manifesto del 2 gennaio). E che lunedì scorso, incontrando in Vaticano gli ambasciatori dei 183 Paesi che hanno rapporti diplomatici con la Santa sede, ha detto che “le armi nucleari sono strumenti inadeguati e inappropriati a rispondere alle minacce contro la sicurezza”, “il loro possesso è immorale”, “la loro fabbricazione distoglie risorse alle prospettive di uno sviluppo umano integrale” e “il loro utilizzo, oltre a produrre conseguenze umanitarie e ambientali catastrofiche, minaccia l’esistenza stessa dell’umanità” (v. il manifesto del 2 gennaio). Ma citano anche la proposta dei cinquanta premi Nobel, fra cui i fisici italiani Carlo Rubbia e Giorgio Parisi: un negoziato comune tra tutti gli Stati membri dell’Onu per ridurre del 2% ogni anno, per cinque anni, le spese belliche di ciascun Paese, liberando così un “dividendo di pace” di mille miliardi di dollari entro il 2030. E la campagna “Italia Ripensaci” (promossa da Rete disarmo e da Senzatomica), ramo italiano della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari (Ican), che nel 2017 è stata premiata con il Nobel per la pace. “Intendiamo rinnovare il nostro appello affinché anche il nostro Paese ratifichi il Trattato Onu, unendosi così agli oltre cinquanta altri Stati che l’hanno già fatto”, scrivono nel documento Giuseppe Notarstefano (presidente nazionale Azione cattolica), Emiliano Manfredonia (presidente nazionale Acli), Giovanni Paolo Ramonda (responsabile generale Comunità papa Giovanni XXIII), Cristiana Formosa e Gabriele Bardo (responsabili nazionali Movimento Focolari) e monsignor Giovanni Ricchiuti (presidente nazionale di Pax Christi). “Chiediamo che il governo del nostro Paese sia presente, almeno in qualità di osservatore, alla Conferenza di Vienna del prossimo mese di marzo 2022, che riunirà tutti i Paesi che hanno ratificato il Trattato Onu”. Migranti. A Brindisi tre immigrati morti in pochi giorni di Lucia Portolano La Repubblica, 15 gennaio 2022 La Comunità africana: “Noi emarginati e lasciati senza aiuti”. Si chiede di fare luce sul decesso del 34enne Saidou Toure il cui corpo è stato trovato in un edificio diroccato al quartiere La Rosa: secondo le testimonianze si sarebbe sentito male mentre era al lavoro in campagna. Il cugino ha scoperto la sua morte quando è andato in questura. Lo chiamavano tutti 2pac (Tupac), come il famoso rapper americano. Aveva 45 anni e veniva dal Ghana, la mattina dell’8 gennaio è stato trovato morto in un casolare sulla strada che collega Brindisi a San Vito dei Normanni. Si trovava in Puglia per lavorare nei campi. È deceduto nel sonno. Lo stesso giorno, in un edificio fatiscente al quartiere La Rosa, sempre alla periferia di Brindisi, è stato ritrovato senza vita Saidou Toure, 34 anni, originario della Guinea. Il cugino non aveva sue notizie da due giorni. L’uomo lavorava in campagna, e secondo le testimonianze di alcuni migranti il 34enne aveva avuto un malore a lavoro. A bordo di una bicicletta che gli era stata prestata da un connazionale, aveva raggiunto questo casolare. Una struttura fatiscente, sporca e lasciata al degrado occupata da alcuni immigrati. Suo cugino lo ha cercato per due giorni, poi si è rivolto alla questura ed è lì che ha scoperto la morte del parente. Era stato rintracciato da alcuni conoscenti che non lo avevano più visto in giro. Il 34enne era arrivato in Italia circa due anni fa, aveva avuto qualche problema con la giustizia per immigrazione clandestina, ma ora aveva cambiato vita e lavorava nei campi per mandare i soldi a casa dove si trovano sua moglie e i suoi cinque figli. Tre giorni dopo il decesso di questi due uomini, in una cella del carcere di Brindisi, è stato trovato senza vita un ragazzo marocchino di 24 anni. Si è suicidato. Si trovava lì per resistenza a pubblico ufficiale dopo che era stato fermato perché sprovvisto di un biglietto ferroviario. Tre storie queste che la Comunità africana della provincia di Brindisi definisce il frutto di uno stato di emarginazione in cui si vivono gli immigrati. La Comunità chiede alla magistratura di far luce sulla morte di Saidou Toure. “Non è possibile che tutto sia stato archiviato così - dice Drissa Kone, presidente della Comunità africana - senza un’inchiesta, una richiesta di autopsia”. La stessa Comunità africana lancia un appello al presidente della Regione Michele Emiliano affinché intervenga sulle condizioni dei lavoratori agricoli immigrati che si prestano la loro manodopera nei campi della provincia brindisina. Intanto sulla morte dei lavoratori agricoli è intervenuta anche la Flai Cgil Brindisi. “Chiediamo che si verifichi se il decesso del bracciante sia legato alle sue condizioni di lavoro nei campi - afferma Cosimo La Porta, segretario Flai Cgil Brindisi - perché non possiamo fare finta che nulla sia accaduto solo perché si tratta di un immigrato. Mostruoso è il fatto che una persona che si sente male al lavoro, non riceva soccorsi e venga ritrovata due giorni dopo in un casolare, senza vita. È un fatto di una disumanità e di una gravità inaccettabile”. L’assurda detenzione in Francia del no Tav Emilio Scalzo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 gennaio 2022 “Giuro che non ho le ansie o il magone e non sono spaventato, sono pronto anche a una sentenza assurda, lo metto in conto. Ma ciò non toglie che delle volte mi guardo intorno e con il sorriso mi chiedo che ci faccio io qua dentro”. È la lettera di Emilio Scalzo - rinchiuso da oltre un mese nel carcere francese di d’Aix Luynes per un mandato europeo - inviata a Chiara Sasso, con la quale ha scritto il libro “A testa alta”, dedicato al percorso di vita di Scalzo stesso. È pescivendolo e atleta, capace di farsi carico dei problemi dei suoi otto fratelli (alle prese con mille peripezie, tra carcere e droga), ma prima di tutto punto di riferimento del movimento No Tav. Ma come mai si ritrova recluso nel carcere francese? Al 67enne Emilio Scalzo viene contestato, dal Tribunale francese di Gap, il reato di violenza aggravata nei confronti di un gendarme, avvenuta il 15 maggio 2021 a Monginevro, durante una manifestazione in solidarietà con i migranti, molti dei quali sono morti e continuano a morire nel tentativo disperato di attraversare la frontiera. Sulla base del mandato europeo, il 15 settembre 2021, Emilio è stato arrestato e trasferito nella Casa Circondariale Lo Russo e Cotugno di Torino. Il 16 settembre 2021, in sede di audizione, ha dichiarato di non prestare il proprio consenso alla consegna e di non rinunciare al principio di specialità. In data 23 settembre 2021, la custodia in carcere è stata sostituita con gli arresti domiciliari. Ma in un mese sono state avviate le procedure. Il primo dicembre gli agenti della Digos sono andati a prelevarlo nella sua abitazione di Bussoleno, in val di Susa. In quell’occasione si è svolto un comizio di solidarietà “per denunciare la vergognosa operazione e per stare a fianco a lui e alla sua famiglia”, avevano fatto sapere dal Movimento No Tav. Fra i partecipanti anche Michele Rech, meglio conosciuto come Zerocalcare: “Per lui c’è un mandato d’arresto per una cosa di cui tutti si riempiono la bocca, cioè la solidarietà con i migranti al confine”, ha detto il celebre fumettista, aggiungendo: “Emilio questa cosa l’ha praticata, da sempre”. Dal tre dicembre è recluso nel carcere francese. Eppure Scalzo nega di aver posto in essere l’azione che gli viene contestata. Afferma, e ritiene di poter provare, che si è semplicemente difeso dal tentativo dell’agente di colpirlo violentemente con il manganello, alzando un pezzo di legno raccolto a terra per ripararsi. Il gendarme si è fratturato il braccio, probabilmente perché aveva colpito il pezzo di legno. Ribadiamo che l’attivista è stato raggiunto da un mandato di arresto europeo (Mae), un procedimento diverso dall’estradizione. È una pratica squisitamente giudiziaria. Nel caso di Scalzo, il mandato è stato richiesto dal Procuratore della Repubblica francese del Tribunale di Gap, sulla base di una misura cautelare. Il Mae è stato trasmesso alla Corte d’appello di Torino che, nonostante la motivata opposizione avanzata dal legale Danilo Ghia, ha ritenuto di applicare la custodia cautelare in carcere. In generale il Mae viene utilizzato per reati di estrema gravità. Ma questo non è il caso di Scalzo, al quale contestano il reato di violenza ai danni di un gendarme francese. Eppure, perfino la Cassazione ha respinto il ricorso presentato dal suo avvocato. Prima dell’arresto di dicembre, l’avvocato Ghia ha presentato ricorso prima alla Corte d’Appello di Torino e poi alla Corte di Cassazione per chiedere la corretta applicazione degli articoli 24 e 20 della legge 69/ 2005, che disciplina il Mae. In particolare, l’articolo 24 prevede la possibilità che il Mae venga rifiutato, nel caso in cui l’imputato abbia a suo carico un processo nel Paese di origine. Ma niente da fare, ricorso respinto. Eppure Emilio Scalzo è sotto processo anche in Italia per l’occupazione della Casa Cantoniera di Oulx, comune dell’alta Val di Susa. Lo spazio era nato nel 2018 sotto il nome di “Chez JesOulx” dopo lo sgombero del sottoscala della chiesa di Claviere, al valico del Monginevro. Uno spazio che ha operato per tre anni, poi sgomberato, risultato fondamentale per l’assistenza dei migranti. In sostanza rispondeva a un bisogno di assistenza che la rete istituzionale composta dalla Croce Rossa e dal rifugio Fraternità Massi non riusciva a soddisfare. Ciò era reso ancora più evidente dal mutamento nella tipologia di persone che tentavano di attraversare il confine. Infatti dal 2020 la Val di Susa diventa un luogo di passaggio della cosiddetta “rotta balcanica”, ossia quel percorso di migrazione che vede l’arrivo in Europa attraverso i Balcani. Emilio Scalzo dovrà pagare anche per questo. Come ha scritto recentemente Luigi Manconi, “le sue colpe sembrano quelle che derivano inevitabilmente dal lottare contro i mulini a vento, che qui, tuttavia, corrispondono a poteri fortissimi e a politiche inique”. Iran. Amnesty: “Per Ahmadreza Djalali un drammatico compleanno in carcere” redattoresociale.it, 15 gennaio 2022 Lo scienziato è stato arrestato nell’aprile del 2016 con l’accusa di aver fatto la spia in favore di Israele e condannato all’impiccagione. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: “Continuiamo a chiedere la scarcerazione di un appassionato uomo di scienza”. Un compleanno tra i peggiori immaginabili. Con un cappio che gli fa macabramente compagnia dal 21 ottobre 2017, giorno della condanna all’impiccagione a morte emessa da un tribunale iraniano. “Oggi, 14 gennaio 2022, Ahmadreza Djalali trascorre il suo cinquantesimo compleanno chiuso in una cella minuscola, infestata da insetti, lontano dalla moglie e dai due figli che vivono a Stoccolma”, ricorda Amnesty International, che segue da vicino e con apprensione la sorte dello scienziato nato in Iran ma residente in Svezia. “Djalali è stato arrestato nell’aprile 2016 mentre si trovava nel suo paese di origine per motivi di lavoro e accusato di aver fatto la spia in favore di Israele. Nei suoi confronti non è mai stata presentata alcuna prova - afferma Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia -. In una lettera scritta dal carcere, nell’agosto 2017, ha accusato le autorità iraniane di aversi voluto vendicare per il suo rifiuto di collaborare a raccogliere informazioni riservate”. “Amnesty International Italia e l’Università del Piemonte Orientale, dove Djalali ha trascorso un lungo periodo di ricerca - conclude Noury -, continuano a chiedere la scarcerazione di un appassionato uomo di scienza”. Siria. “L’ergastolo a Raslan è un primo passo ma processare Assad per ora è impossibile” di Marta Serafini Corriere della Sera, 15 gennaio 2022 La magistrata Carla Del Ponte, che ha guidato il Tribunale Penale Internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia: “Salvato dal veto degli alleati”. “Il verdetto di Coblenza è un primo passo. Ma non si può paragonare al processo di Norimberga”. Carla Del Ponte, la “cacciatrice di serpenti” che ha mandato in carcere uomini come l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda, è tra i magistrati che più sanno quanto sia difficile fare giustizia, a maggior ragione se si tratta di criminali di guerra che decidono di usare il loro potere per fare del male agli innocenti. Dalla “sua” Svizzera ha letto della condanna all’ergastolo per Anwar Raslan, ex colonnello dei servizi siriani, responsabile di torture, omicidi e stupri. Cosa succede ora, si può sperare in un tribunale che giudichi il presidente Assad come fu per Milosevic? “No, perché il potere di veto esercitato dagli alleati di Damasco, in testa la Russia, impedisce al Consiglio di Sicurezza di istituire una corte permanente come nel caso della ex-Jugoslavia o del Ruanda. E perché la Siria non riconosce la Corte Penale internazionale. È un discorso politico non solo giuridico. Eppure il quadro potrebbe cambiare e un giorno Assad non essere più presidente”. Sbaglia chi paragona Coblenza a Norimberga? “L’ergastolo per un ufficiale dei servizi siriani responsabile di torture e omicidio è un buon segnale e spero che il lavoro dei magistrati tedeschi sia di esempio per le procure degli altri Stati che accolgono rifugiati siriani. Raslan però è un esecutore di massacri e torture. Un’altra cosa è portare a giudizio chi ha ordinato quegli orrori”. La Germania ha potuto processare Raslan perché applica il principio della giurisdizione universale che consente di perseguire anche chi ha commesso reati all’estero. Possono fare lo stesso anche altri Stati? “Sì. La Svizzera, ad esempio. Ma anche Paesi come l’Italia che non riconoscono questo principio all’interno del loro ordinamento potrebbero farlo dopo aver cambiato le proprie regole. Inoltre le prove ci sono. Basta rivolgersi alla commissione Onu sulla Siria che le ha raccolte”. Lei ci ha lavorato dal 2011. Poi la lasciò, in polemica proprio con il sistema politico internazionale… “Oltre alle torture commesse contro gli oppositori, la guerra in Siria sono i raid contro le persone in fila per il pane, il fetore dei lazzaretti, le morti per cancrena, le ragazze vendute come schiave che si impiccano con i loro veli, i bambini addestrati a uccidere. La comunità internazionale fa arrivare alle vittime aiuti umanitari, ma per il resto rimane a guardare. Ancora una volta evitiamo di assumerci la nostra responsabilità storica”. Per molti la guerra in Siria è la guerra all’Isis. Al terrorismo. Di recente sempre in Germania e nel nord Europa sono iniziati i processi ai miliziani poi fuggiti in Europa... “E questo è sacrosanto. Ma, ancora una volta, non basta: perseguire un gruppo terroristico è più semplice e più conveniente dal punto di vista politico che tentare di mandare in carcere un presidente”. In “Gli impuniti” (edito da Sperling & Kupfer) lei ricorda come un suo amico medico vide sul “Corriere” una foto che lo toccò profondamente: un padre siriano che piangeva, mentre un bambino gli accarezzava le guance bagnate. Lei ha provato a rintracciare quell’uomo. L’ha mai trovato? “No. Non avevamo altri indizi oltre alla foto, che scoprimmo essere stata scattata in Grecia. Ne portai con me una copia, che misi sotto il naso di ogni rappresentante delle ong che incontravo; scomodai amministrazioni, chiesi ai soccorritori di verificare i loro schedari. Era come cercare il famoso ago nel pagliaio. Purtroppo alla fine dovetti dire a quel medico che nessuno era in grado di fornirci informazioni. Ma non riesco a smettere di pensarci”. L’Onu tende la mano al popolo afghano (nonostante i talebani) di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 15 gennaio 2022 Il Paese è in piena crisi alimentare, la siccità e il freddo hanno peggiorato la situazione. Ma non si può scegliere tra la difesa dei diritti e la sopravvivenza di bambini e donne. Le prime risposte stanno arrivando. Come denunciava un editoriale del Corriere il 20 dicembre scorso, l’Afghanistan dei talebani sta morendo di fame. Le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie concordano su cifre che fanno spavento: un milione di bambini rischia di morire senza un aiuto urgente, ventitré milioni di donne e uomini (più della metà della popolazione afghana) sono sotto la soglia della sufficienza alimentare, sta entrando in crisi il sistema sanitario, una siccità mai prima così forte ha colpito l’agricoltura e adesso i rigori dell’inverno fanno il resto. Ebbene, finalmente qualcosa si muove. Il consiglio di sicurezza dell’Onu si è prima riunito per eliminare alcuni ostacoli all’invio di aiuti. Poi, in questi giorni, ha lanciato il suo più grande appello umanitario per un singolo Paese: 4,4 miliardi di dollari destinati all’Ocha (coordinamento degli aiuti) e altri 623 milioni di dollari per l’agenzia dei rifugiati, l’Unhcr diretta dall’italiano Filippo Grandi, che curerà l’assistenza ai sei milioni di afghani che sono riparati in Stati circostanti, in particolare in Pakistan, in Iran e in Tajikistan. La richiesta di finanziamento sta ricevendo risposte importanti, ma più importante di tutte è quella degli Stati Uniti, come dire dei principali sconfitti del 15 agosto 2021 a Kabul. Washington ha annunciato un aiuto di 308 milioni di dollari, che porta a quasi 800 milioni di dollari l’insieme degli aiuti statunitensi dopo l’ottobre scorso. L’Europa (l’Italia ha già affidato all’Ocha 10,7 milioni di euro) sta mettendo a punto un aiuto consistente, e contemporaneamente lavora a una possibile riapertura dell’ambasciata Ue a Kabul. Perché, beninteso, i problemi con i talebani rimangono. L’applicazione alle donne di una interpretazione fondamentalista della Sharia desta indignazione. Un governo “inclusivo” non è mai nato. Chi si oppone ai talebani o esprime il minimo pensiero “eretico” rischia grosso. I talebani vittoriosi, insomma, non sono certo cambiati in meglio. E allora è ragionevole aiutare almeno indirettamente un potere a noi avverso, abbiamo forse dimenticato i nostri soldati morti, sottovalutiamo forse le clamorose violazioni dei diritti umani che in Afghanistan avvengono? Una risposta l’ha data un diplomatico citato dal Financial Times: “Non possiamo e non dobbiamo scegliere tra la difesa dei diritti delle donne e la possibile morte per fame di tantissime donne”. È improbabile che i rapporti con i talebani migliorino nel prossimo futuro. Ma tendere una mano al popolo afghano che rischia il crollo umanitario, è un dovere che non contraddice e non cancella la politica e la storia.