L’esecuzione penale esterna e l’impegno della ministra di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 gennaio 2022 Per usare le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, l’esecuzione penale esterna è un settore sempre più strategico. Un settore che, però, come denunciato da Il Dubbio a settembre scorso, rischia di collassare se non viene incrementato l’organico dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe). Per questo, a fine dicembre scorso, è stato sottoscritto un ordine del giorno con il quale il Parlamento impegna il governo a intervenire con urgenza. “Sto già verificando con il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, quale possa essere la prima occasione - ha affermato la Guardasigilli - per tener fede a quest’importante impegno”. Ricordiamo che per seguire i detenuti in misura alternativa, si prevede che l’organico sia dotato di 3.478 unità, ma in questo momento sono in servizio 1.527 persone. Una evidente sproporzione denunciata da circa 250 funzionari del servizio sociale che si occupano della presa a carico degli imputati raggiunti da misure alternative alla detenzione. Il Dubbio aveva potuto verificare che con una valanga di lettere i sindacati e l’ordine professionale sono stati sommersi per chiedere aiuto. Gli operatori sono preoccupati, credono fermamente alla missione del loro lavoro, ma si sentono abbandonati a sé stessi. Le misure alternative alla detenzione sono fondamentali per la deflazione della popolazione detenuta e la riduzione della recidiva. Per renderle efficaci, di grandissima importanza è il contributo dell’Uepe che instaura un rapporto “collaborativo” con l’imputato inteso a verificare sia l’esatta esecuzione dell’affidamento in prova che il corretto reinserimento nel tessuto sociale. A renderlo operativo sono gli assistenti sociali che prendono in carico la persona, seguendolo passo dopo passo. Questo sulla carta, ma nei fatti non è più possibile a causa dell’insufficienza del personale. Il rapporto tra funzionari dell’Uepe e gli imputati o condannati, è uno a 180. Dal punto di vista pratico è già insostenibile seguire tutti e la giusta riforma Cartabia che amplierà la platea degli aventi diritto della messa alla prova, se non accompagnata da un sostanzioso incremento delle risorse umane, rischia di rendere vana la buona intenzione. A lungo, se non a breve termine, rischia di diventare un boomerang e dare linfa vitale a chi vorrebbe rinchiudere a prescindere le persone e buttare via la chiave. Come ha scritto recentemente sul Sole 24 ore il giurista Gian Luigi Gatta, consigliere della ministra della Giustizia, sono risorse di cui ha necessità la giustizia, come servizio pubblico, anche per raggiungere gli obiettivi posti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) (tra i quali la riduzione del 25% dei tempi medi dei procedimenti penali): le misure di comunità consentono una forte deflazione processuale, rappresentando incentivi a forme di definizione alternativa e anticipata del procedimento. Sono al centro della riforma della giustizia penale: uno dei tasselli del Pnrr che il governo è stato delegato dal Parlamento ad attuare nei prossimi mesi. Un apposito gruppo di lavoro costituito dalla ministra Cartabia e coordinato dal professor Gatta stesso, è da alcune settimane al lavoro per supportare l’attuazione della riforma, che prevede l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova e una riforma organica delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, che amplia il novero delle misure di comunità, affidando ulteriori compiti agli Uepe. Un motivo in più, affinché il governo tenga fede nell’impegno di incrementare l’organico degli uffici dell’esecuzione penale esterna. Stare chiusi in galera costa un occhio della testa di Rita Bernardini Il Riformista, 14 gennaio 2022 Ho ricevuto due lettere che hanno in comune una cosa: entrambi i detenuti che mi scrivono hanno perso l’uso dell’occhio sinistro. Per uno di loro il grave ritardo nel ricovero ha fatto la differenza. Due lettere dal carcere con un unico comune denominatore. Tutti e due i detenuti hanno perso l’occhio sinistro. Uno ha paura di perdere anche quello destro, l’altro chiede di essere trasferito in un centro clinico penitenziario perché dopo mesi non si è ancora venuti a capo della malattia “rara” che lo colpisce. Personalmente sono sommersa dalle disperate segnalazioni che arrivano da tutta Italia e così immagino lo siano tutti coloro che si occupano di carcere, a partire dai garanti e dalle associazioni. La diffusione del Covid ha aggravato all’inverosimile le condizioni di detenzione strutturalmente “fuorilegge” da decenni. Da qui lo sciopero della fame che ho ripreso e che coinvolge decine di persone; da qui l’essere speranza: per se stessi e per gli altri. F.G. è un quarantunenne ed è in carcere per scontare 2 anni e 8 mesi. Nel settembre 2019, mentre era detenuto nel carcere di Lecce, avverte l’area sanitaria di avere un occhio gonfio e molto arrossato. Dopo 37 giorni, arriva l’oculista che gli fa la diagnosi: “congiuntivite”, e gli prescrive un collirio al cortisone. Prende le prime due gocce e la mattina dopo da quell’occhio non ci vede più. Il detenuto chiede di essere portato in ospedale, ma ciò avviene solo dopo 17 giorni grazie alla protesta dei compagni di cella e a una dottoressa del carcere che si impietosisce. I medici dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce si arrabbiano: nell’occhio era finita una piccola scheggia che aveva provocato un piccolo foro: bastava andare subito in ospedale per toglierla e, invece, con il ritardato ricovero e con il cortisone prescritto, quel piccolo foro è diventato molto ampio provocando un ascesso corneale. All’ospedale di Lecce il detenuto rimane ricoverato per due mesi, con i medici che fanno di tutto per salvargli l’occhio, ma l’impresa appare impossibile. A dicembre gli viene sospesa la pena e lui può andare da “libero” al policlinico di Bari e successivamente al Careggi di Firenze per tentare un trapianto di cornea. Poi arriva il Covid, il detenuto ritorna in carcere e ora si trova ad Ascoli Piceno. Avrebbe bisogno di un monitoraggio costante (impossibile in carcere) perché l’occhio è ancora infetto e può coinvolgere l’altro dove gli mancano già 4 gradi e mezzo. Mi scrive “vivo con ansia e paura di diventare completamente cieco”. Il giudice gli ha concesso i domiciliari per potersi curare, ma il suo problema è che non ha una casa, un posto dove andare e chiede aiuto alle istituzioni. “Vi prego aiutatemi, sono solo senza genitori, non ho nessuno.” G.M. è un ex tossicodipendente di 34 anni e come molti è in carcere (a Pavia) per scontare una condanna di 5 anni e mezzo per reati legati alla sua condizione di dipendenza da sostanze vietate. Mi scrive: “incoscientemente facevo reati per drogarmi e così ho lasciato a casa moglie e figlio di tre anni. È da due anni che sono in carcere e in tutta la mia vita sono stato detenuto per circa 11 anni. Oggi ho capito i miei errori e ho deciso di cambiare radicalmente la mia vita perché amo mia moglie e il mio bambino. Mi sono anche avvicinato alla Chiesa e prego spesso Dio che stia vicino a me e ai miei cari. Purtroppo, tutte queste preghiere non sono bastate e mi sta capitando una sorta di castigo divino e questa è la ragione per cui le scrivo sperando in un suo aiuto. La mattina del 18 ottobre 2021 mi sono svegliato e ho scoperto che non ci vedevo più dall’occhio sinistro. Sono stato subito portato al Pronto Soccorso e, da quel giorno, è iniziato il mio calvario. Sono afflitto da una malattia rara che nessuno sa cosa sia: l’unica certezza è una lesione del nervo ottico che mi ha portato alla completa cecità dell’occhio sinistro, dolori muscolari diffusi, forti mal di testa e perdita frequente di sangue dal naso. Il Dirigente sanitario del carcere afferma che quello che mi sta capitando è anomalo alla mia età e pertanto mi sta sottoponendo a vari esami. La stessa comprensione che ho trovato nel dirigente sanitario e nel personale penitenziario spesso non la riscontro però nei medici di turno e negli infermieri che tardano nei soccorsi nei casi di emergenza. Uno di questi, un medico, un giorno mi ha detto “venite in galera e state male, poi una volta fuori state tutti bene!”. Ma ti rendi conto? Eppure, sa che ho perso un occhio e solo da un anno sono uscito da una forte depressione che mi ha portato più volte a tentare il suicidio”. G.M. racconta poi dettagliatamente tutti gli episodi che gli sono accaduti con tanto di date e chiede aiuto perché a Pavia, nel carcere, non sono in grado di curarlo. “Mi può stare anche bene rimanere in carcere, ma almeno mi trasferiscano in un centro clinico! Qui a Pavia ti fanno morire e ne ho visti qui morire o stare molto male, qui è una vera valle di lacrime…” Sul carcere, un muro di gomma. Non so più come parlarne. Troppa la voglia di dimenticare di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 gennaio 2022 Non più edilizia carceraria, ma meno detenuti. Non l’introduzione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti, ma educazione alla responsabilità. Oggi, più che in ogni altro momento della storia, chi fa informazione ha una responsabilità enorme, quella di ragionare insieme a chi legge; quella di non cedere alla scorciatoia del generare panico, dell’accrescere la preoccupazione per rendere il proprio ruolo “fondamentale”. Chi fa informazione fa servizio pubblico anche se per conto di un privato e non gli è richiesta tanto oggettività, ma un’opinione espressa con conoscenza, con cognizione di causa e - si spera - anche con onestà. Non sono molti i giornalisti e i quotidiani che ogni giorno si occupano di carcere. In realtà sono pochi - tra questi Il Dubbio, Il Riformista e il Manifesto - e lo fanno con competenza perché sanno di essere un punto di riferimento. Eppure non riescono, e non per propria responsabilità, a segnare una strada che altri sentano la necessità impellente di dover seguire. Mi sento dire che già la vita non è facile per chi non commette reati, perché occuparsi di chi è in prigione? Si sbatte il mostro in prima pagina senza dare conto delle archiviazioni, delle assoluzioni. Si parla di prescrizione come fosse un regalo all’imputato e non il diritto negato a essere giudicati in tempi umani. E siccome il carcere viene raccontato solo per mappare gli arresti, ci si accontenta di sapere che dentro finisce chi ha un debito con la comunità, chi deve pagare, scontare, essere privato della libertà - e in fondo anche di molto, molto altro - senza preoccuparsi mai di come viene impiegato il tempo che dovrebbe servire al reinserimento. Nemmeno so più in che termini parlarne, di carceri. Trovo un muro di gomma inconcepibile spesso anche tra gli interlocutori più attenti. Come se il solo parlarne potesse compromettere qualcosa, allontanare lettori, telespettatori, finanche amici in una conversazione informale. Spesso la risposta che ottengo è: la vita non è facile per me che non ho commesso alcun reato, perché mi dovrei preoccupare di chi sta in carcere? E così mi accorgo che manca non tanto e non solo la cultura del diritto, ma la cultura dei diritti e cioè la consapevolezza, che dovrebbe essere un dato condiviso, che di diritti non si occupa solo chi non ha preoccupazioni proprie, chi ha una vita agiata e quindi può concedersi il lusso di pensare agli altri. La cultura dei diritti dovrebbe appartenere a tutti e da tutti essere condivisa, perché un diritto negato diventa automaticamente un privilegio per pochi o, peggio, una concessione; perché siano chiari, una volta per tutte, i ruoli: chi è incudine e chi martello. La foto che ho deciso di mostrarvi questa settimana ritrae una donna che mostra a sua volta una foto, quella del figlio, Antonio Raddi, il ragazzo di 28 anni morto il 30 dicembre 2019 nel carcere delle Vallette a Torino, dopo aver perso 25 chili in pochi mesi. Antonio era tossicodipendente e aveva un’infezione polmonare che lo ha portato alla morte. Una morte che doveva essere evitata, una morte avvenuta mentre era affidato allo Stato che non ha saputo prendersi cura di lui. Ho voluto ricordare Antonio Raddi perché la famiglia si è opposta alla richiesta di archiviazione del Gip per quattro medici dell’istituto penitenziario indagati per omicidio colposo. E quindi la vicenda ha richiamato l’attenzione dei pochi che si occupano di queste vicende nell’indifferenza generale. L’indifferenza del rimosso, il rimosso della piaga enorme della tossicodipendenza, il rimosso della sofferenza che questa porta con sé. Il rimosso del disagio e del nulla che lo Stato e la comunità fanno per fornire aiuto concreto. Ho letto le parole che sul caso ha pronunciato la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, la quale si è occupata a fondo di questa tristissima e inaccettabile vicenda. In un’intervista sul manifesto, Gallo afferma che Antonio Raddi è stato visitato in carcere “ma con sguardo assuefatto”. Assuefatto perché tossicodipendente, assuefatto perché troppi detenuti e poco personale, assuefatto perché ormai sentiamo parlare continuamente di sofferenza tanto da non riuscire più a riconoscerla quando ci troviamo davanti quella vera, profonda e che non lascia scampo. Quando Netflix ha trasmesso Sanpa ho creduto, ho sperato, mi sono augurato potesse aprirsi un dibattito sul disagio e il crimine legato alle tossicodipendenze. Macché! Se ne è parlato per quanto? Un paio di settimane, forse. Poi silenzio. Meglio dimenticare. Il referendum dell’Anm: volete il sorteggio per eleggere il Csm? di Giulia Merlo Il Domani, 14 gennaio 2022 Il sindacato di magistrati celebra un referendum online il 27 e 28 gennaio e chiede agli iscritti, circa il 90 per cento delle toghe italiane, se preferiscono il sorteggio per individuare i candidati al Csm e se la legge elettorale deve essere proporzionale o maggioritaria. L’Associazione nazionale magistrati lancia un referendum online sulla riforma del sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. I quesiti sono due. Il primo chiede se si è favorevoli o contrari a che “i candidati al Csm siano scelti mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere”. Il secondo invece “quale sistema ritieni preferibile per l’elezione della componente togata del Csm” con la possibilità di scegliere se proporzionale o maggioritario. Il referendum si svolgerà il 27 e 28 gennaio prossimo e gli aventi diritto al voto devono accreditarsi per votare entro il 25 gennaio, sul sito dell’Anm. La riforma sospesa - L’iniziativa si innesta nel difficile iter della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Il testo è ancora bloccato: manca il maxiemendamento ministeriale che contiene proprio la riscrittura delle regole per eleggere i componenti togati del Csm. Tuttavia, la ministra della Giustizia Marta Cartabia - che aveva annunciato il testo prima di Natale - ha anticipato oralmente ai magistrati i contenuti della riforma. Il testo proposto avrà un sistema maggioritario binominale, con collegi piccoli e nessun sorteggio per scegliere i candidati. La ministra, però, ha fatto sapere che la proposta è aperta a emendamenti parlamentari. Questo significa che c’è ancora spazio per il dialogo sia tra i partiti che tra le toghe. Tutti i partiti di centrodestra sembrano contrari alla soluzione ministeriale e propongono il sorteggio temperato. Tra i gruppi associativi della magistratura, invece, solo Magistratura indipendente ha accolto positivamente la proposta della ministra. Gli altri gruppi invece ritengono che si favorisca proprio quel correntismo che la riforma dovrebbe disinnescare. Per Domani, sul tema si sono espressi il segretario di Magistratura Indipendente, Angelo Piraino, il segretario di Magistratura Democratica, Stefano Musolino, e la segretaria di Unicost, Mariarosa Savaglio. Il sondaggio tra gli iscritti - Di qui l’iniziativa dell’Anm, che punta a restituire la parola ai singoli magistrati, cercando di mettere a fuoco quale sia l’orientamento della categoria, al netto delle toghe più politicizzate. La speranza è che al referendum online partecipi la maggior parte degli aventi diritto, in modo da dare una delega più forte all’Anm per andare poi a dialogare sui tavoli ministeriali. Il trend in passato non è stato positivo per la partecipazione sindacale. Alle passate elezioni dell’Anm, gli aventi diritto al voto erano 9.401, si erano registrati a votare in 7.100 ma a votare erano stati 6.101. Circa il 64 per cento. Se le posizioni dei singoli gruppi associativi sono state chiarite nel corso dei mesi con singoli documenti, quella dei magistrati sui territori non è mai stata sondata. Il segnale di attenzione dell’Anm dovrebbe servire a ridare voce ad una categoria che oggi continua ad essere in crisi e che si ritrova divisa anche davanti alla riforma imminente. Silenziato il referendum tra le toghe per cambiare il Csm più screditato della storia di Paolo Comi Il Riformista, 14 gennaio 2022 C’è un referendum “misterioso” di cui nessuno parla. È quello sul sistema di elezione dei togati del Consiglio superiore della magistratura. I magistrati iscritti all’Anm, il prossimo 27 e 28 gennaio, proprio all’indomani delle votazioni per le elezioni del capo dello Stato, saranno chiamati alle urne (virtuali) per un referendum consultivo su due quesiti: la preferenza per il sorteggio e la scelta del modello elettorale da adottare, proporzionale o maggioritario. Il referendum era stato proposto nei mesi scorsi dalle toghe di Articolo 101, il gruppo nato per contrapporsi al sistema correntizio che condiziona da anni l’assegnazione delle nomine e degli incarichi al Csm. La data scelta, fine gennaio, aveva svuotato d’interesse la consultazione referendaria. Tutti, infatti, si attendevano che la ministra della Giustizia Marta Cartabia a novembre, al massimo dicembre, avesse presentato i propri emendamenti alla riforma del Csm in discussione alla Camera. E fra gli emendamenti uno doveva essere inerente il nuovo sistema elettorale che avrebbe limitato il potere delle correnti. Non avendoli presentati, il referendum assume adesso tutt’altro significato. Ed è forse per questo che è sparito dai radar: nessuno ne parla al punto che molti magistrati interpellati dal Riformista non sanno che è stato indetto e che se vogliono votare devono registrarsi su una apposita piattaforma entro il 25 gennaio. La sfida è apertissima. I vertici dell’Anm e la Guardasigilli sono fermamente contrari ai quesiti proposti. Il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto non perde occasione per ricordare che fino a quando sarà a via Arenula il sorteggio non passerà mai. Cosa succederebbe, allora, se la base della magistratura esprimesse un voto contrario, sposando quindi il sorteggio? Il rischio delegittimazione è dietro l’angolo. L’inerzia del Ministero, comunque, sta condizionando il dibattito sulla riforma del Csm. A ciò si aggiunge l’elezione del nuovo capo dello Stato. Sergio Mattarella, che molti vorrebbero ancora al Quirinale, è stato il garante in questi anni di questo Csm. Travolto dallo scandalo del Palamaragate, Mattarella non ha esercitato la propria moral suasion per porre fine all’attuale consiliatura, accettando che ben 6 togati su 16 si dimettessero e avallando così tre elezioni suppletive. Un record assoluto nella storia del Csm. In questo contesto, il voto referendario potrebbe dare uno scossone al “Sistema”. Ed è forse questo il motivo per il quale nessuno ne parla. Lasciare incompiuta la riforma del Csm: un lusso che il paese non può permettersi di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 14 gennaio 2022 Il tempo scorre inesorabile. Sono trascorsi quasi trent’anni da tangentopoli e dalla sostanziale eliminazione di amnistia e indulto, con la sostituzione dell’articolo 79 della Costituzione; ventinove anni dalla radicale trasformazione dell’autorizzazione a procedere, con la modifica dell’articolo 68 della Costituzione, che ha certamente indebolito la politica nei confronti della magistratura. Fenomeni e riforme che, pur partendo da problemi reali (la corruzione) e da un uso troppo ampio (di amnistia e indulto) e talvolta addirittura vergognoso di istituti finalizzati alla garanzia della funzione legislativa (nel caso della autorizzazione a procedere), hanno finito per gettare il bambino con l’acqua sporca. Si è così - per via giudiziaria, prima, e politica, dopo - provocata una onda lunga di populismo penale, legislativo e giudiziario. E la politica (certo, mi riferisco alla buona politica e non a chi la ha tradita commettendo reati) ha ceduto il passo alla magistratura. Tuttavia, neanche la magistratura ha dato buona prova di sé. Non mi riferisco, ovviamente, al lavoro di tantissimi magistrati, bravi e corretti; mi riferisco semmai a coloro che non fanno il loro dovere. E penso a talune derive della magistratura associata e del Consiglio Superiore della Magistratura, che è organo di rilevanza costituzionale. Da qualche anno, con la vicenda Palamara, con le dimissioni di ben sei membri del Csm, i difetti (per utilizzare una espressione soft) del sistema sono divenuti evidenti per tutti. E lo stesso Capo dello Stato Sergio Mattarella, che è anche Presidente del Csm, ha sollecitato più volte il Governo e le forze politiche ad approvare una seria riforma del Consiglio superiore che “sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della competizione elettorale, sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Ma, come detto, il tempo passa inesorabile. È trascorso ormai quasi un anno dall’insediamento del Governo Draghi. E dalla percepita consapevolezza che alla Ministra Cartabia fosse chiara la grave situazione e nota la condivisibile ed autorevole preoccupazione del Presidente Mattarella. Come a tutti noi è chiaro che l’attuale presenza di una ampia maggioranza impone particolari cautele. Si può comprendere, allora, che la Ministra abbia incaricato una Commissione, presieduta dal costituzionalista Luciani, di occuparsi delle questioni concernenti l’ordinamento giudiziario ed il Consiglio Superiore della Magistratura. E che lo abbia fatto a partire dal progetto del precedente governo, il d. d. l. AC 2681, sulla medesima materia. Ma, ancora una volta, sono trascorsi altri mesi da quando la Commissione Luciani (peraltro, assai prudente nell’indicare soluzioni innovative) ha depositato le sue conclusioni. E della riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm si sono perse le tracce. Mentre tra luglio e settembre si vota per rinnovare il Consiglio. Di tempo, dunque, non ve ne è più. Sempre il Presidente Mattarella ha ammonito: “Non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Negli ultimi giorni sembra diffondersi l’idea di porre mano subito al solo sistema elettorale del Csm. Questione, certo importante. Io, che del Csm sono stato componente “laico”, ho sempre pensato che la soluzione migliore sia quella di ricorrere ad un sorteggio temperato, capace di spezzare il fortissimo legame tra correnti ed eletti: prima sorteggio tra tutti i magistrati e poi votazione tra i sorteggiati. E recentemente a favore del sorteggio si sono espressi (talvolta invocando il sorteggio “puro”, che io però ritengo non conforme a Costituzione) il procuratore Cafiero De Raho e il procuratore di Catanzaro Gratteri, alcuni consiglieri del Csm (Di Matteo e Ardita) e i magistrati di Articolo 101, gruppo nato in polemica con le correnti. Altre soluzioni (come il maggioritario, cui sembrerebbe tendere la riforma Cartabia), magari imposte dalla fretta di fare una riforma, a mio avviso ci farebbero perdere una occasione non facilmente ripetibile e non risolverebbero il problema del correntismo. Ma ci sono altre questioni che non possono essere trascurate: fissare regole rigorose e certe per la valutazione di professionalità dei magistrati e la loro progressione in carriera; impedire al massimo i passaggi da pm a giudice (basterebbe applicare l’articolo 111 della Costituzione...); eliminare le “porte girevoli”, evitando la possibilità di fare contemporaneamente il magistrato e ricoprire incarichi elettivi, e non consentendo il rientro nella giurisdizione dopo il mandato (meglio sarebbe destinare gli eletti ad altri incarichi nella Pa); porre un deciso freno ai magistrati fuori ruolo (oggi 200); negare la possibilità di “nomine a pacchetto”, impedendo l’allineamento dei concorsi che favorisce la spartizione correntizia. Tanto, forse troppo lavoro da fare in un tempo ormai ristretto. Ma più si indugia, più il tempo verrà a mancare; come pure le riforme possibili. E necessarie. E a perdere sarà il Paese, e noi tutti. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Già componente del Csm Spataro: “Siete voi giornalisti ad alimentare l’anomalia dei pm supereroi” di Errico Novi Il Dubbio, 14 gennaio 2022 “Giusto il diritto di voto per gli avvocati sulle promozioni dei giudici. Il difensore può indurre il pm a rivedere le tesi accusatorie”. Parla l’ex procuratore Armando Spataro. “Non è corretta la litania di chi attacca sempre i pm, definendoli “devianti”. O per esser più precisi, le norme del codice e quelle sull’ordinamento dei magistrati non favoriscono affatto il moralismo ostentato da alcuni pubblici ministeri, ed è certamente sbagliato generalizzare. Piuttosto, mi permetta di dire che siete anche voi giornalisti ad aver alimentato carriere di inquirenti segnate da un’eccessiva visibilità”. Armando Spataro non solo ha guidato uffici giudiziari importantissimi come la Procura di Torino ma rappresenta un punto di riferimento anche nell’associazionismo giudiziario: è stato il leader di Movimento per la giustizia, da cui poi, con Md, è nata Area, e i suoi interventi pubblici segnano puntualmente il dibattito su toghe e processi. È perciò naturale chiedergli se le esigenze di efficienza imposte dal Recovery, e rilanciate da altre voci autorevoli, ad esempio Giuseppe Pignatone, possano snaturare la figura del pm in un prosecutor all’americana, sempre a caccia di successi statistici con cui sostenere le ambizioni di carriera. “No, il nostro sistema non è concepito così, glielo posso assicurare”. D’accordo, partiamo però da una tesi esposta alcuni anni fa da Piergiorgio Morosini in un’intervista al Dubbio: il carrierismo può spingere un magistrato a trascurare la tutela dei diritti, perché l’ambizione può realizzarsi se il solo principio d’azione è la sintonia col capo dell’ufficio. È così? Aspetti. Non sono affatto d’accordo sull’idea che l’ambizione possa indurre un magistrato a trascurare i diritti, inclusi quelli dell’indagato. Cercare anche elementi favorevoli alla persona accusata non è una facoltà, ma un obbligo che il codice fa ricadere sul pm. Un procuratore è chiamato ad apporre il proprio visto sull’atto di un sostituto solo se si tratta di richieste di misure cautelari. Mai e poi mai, ad esempio, può sostituire un pm nel corso del dibattimento perché non ne condivide le convinzioni. C’è gerarchizzazione sul piano delle scelte organizzative, non sulle valutazioni di merito nei procedimenti. È vero invece, riguardo le questioni poste da Morosini, che le statistiche di volta in volta adottate dal Csm come rilevanti ai fini delle valutazioni di professionalità rischiano di condizionare il lavoro di molti magistrati. Ma certo non esistono statistiche che premiano chi chiede più rinvii a giudizio e meno archiviazioni. Insomma, siamo lontani da una deriva americana... Evidentemente. E potrei ricordare di aver ottemperato all’obbligo di cercare anche prove favorevoli all’imputato anche in casi davvero delicatissimi, ma lo fanno in tanti. A cosa si riferisce? Ad esempio, al processo Alunni, parliamo di terrorismo, in cui chiesi la condanna di un imputato, ma poi l’arringa del difensore, Achille Melchionda, mi insinuò il dubbio. Decisi di approfondirlo e, in un’indagine parallela, Roberto Sandalo mi confermò che il giovane imputato era stato usato da Prima linea ma non ne era membro. Intervenni in replica e chiesi l’assoluzione. E in genere il pm cerca davvero la verità anziché il successo? L’avvocato non è tenuto a perseguire la verità processuale ma, legittimamente, l’esito più favorevole per l’assistito, persino se ne conosce la colpevolezza. Il pm, ripeto, deve perseguire l’accertamento della verità processuale. E guai al pubblico ministero che consideri tale vincolo come un optional. L’avvocato aiuta il pm a coltivare quella che lei, in un recente articolo, definisce “etica del dubbio”? Può indurre il dubbio, certamente. Anche se il pm non può trascurare la diversa natura delle funzioni. Ma la gerarchia può condizionare la coerenza delle scelte, per gli inquirenti? Da Borrelli a Minale, ho avuto dirigenti che mai hanno trasformato la gerarchia organizzativa in ingerenza. E personalmente, da aggiunto e poi da procuratore della Repubblica, ho sempre ascoltato non solo i magistrati del mio ufficio ma, per tante misure organizzative, anche il Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Chieda a Mario Napoli, attuale consigliere Cnf, quante volte mi sono confrontato con lui prima di adottare una circolare. Ne vuole un’altra? Prego... Ho fatto rimuovere, appena insediatomi da procuratore a Torino, tutti i cartelli con l’espressione “procuratore capo”: basta “procuratore”. Non c’è correlazione, per il pm, fra percentuale di fascicoli tradotti in condanne e carriera: bene. Però un pm che, con indagini comunque clamorose, acquisisce fama di giustiziere, costringe persino il Csm a premiarlo nella carriera. O no? Intende riferirsi a qualche pm che si presenta come colui che persegue il “bene”, e perciò il consenso popolare, anziché la verità processuale? Mi lasci dire una cosa: il paradigma imporrebbe un po’ di autocritica anche a voi giornalisti. Non è possibile assecondare chi, come magistrato inquirente, afferma di perseguire la vittoria del “bene” e di voler ricostruire la storia del Paese. E chi critica un simile modello non può essere additato come un insensibile servo del potere. In ogni caso non credo che per il Csm conti la fama mediatica più della professionalità. Da sottoscrivere integralmente, procuratore... Il dottor Ingroia dichiarò che, anche in caso di sconfitta delle tesi d’accusa nel “processo trattativa”, si sarebbe conseguito comunque un prezioso disvelamento della storia. Ma il mestiere di storico è diverso, e al pm ciò non compete: cerca le prove e chiede la condanna se convinto della colpevolezza degli imputati. Allora condivide la norma del ddl penale che modifica i presupposti per il rinvio a giudizio? La considero mera modifica lessicale, perché la precedente formulazione già induceva il pm a chiedere il processo quando era persuaso della consistenza delle accuse, e non certo a pensare di andare a dibattimento per vedere lì cosa succede. E questa visione è prevalente, fra i magistrati? Sarò ingenuo ma sono convinto di sì. Certo è molto più facile sparare ad alzo zero contro una pur sparuta minoranza che si regola diversamente. Da docente della Scuola superiore della magistratura, non manco mai di ricordare ai giovani che il pm è tenuto a pensare come il giudice, nel senso della disposizione alla ricerca della verità, il che è anche l’inattaccabile motivo dell’unicità delle carriere. Non c’è un carrierismo patologico che dilaga, lei dice. Ma la riforma del Csm deve introdurre regole più chiare sulle promozioni? Sono convinto sia giusto raccogliere i pareri dell’avvocatura in vista delle nomine per i direttivi. E sono favorevole a che le valutazioni di professionalità, nei Consigli giudiziari, siano discusse anche col contributo del Foro. Anche con diritto di voto? Sì. Ma sarebbe necessaria una reciprocità. Ad esempio, che il magistrato possa intervenire nelle procedure per questioni delicate riguardanti un avvocato. Lei si è espresso chiaramente a favore delle nuove norme sulla presunzione d’innocenza... Da procuratore della Repubblica ho convocato in tutto quattro conferenze stampa, una delle quali con l’Ordine degli avvocati per segnalare le gravi carenze di personale a Torino. Non capisco le obiezioni sul vincolo di comunicare soprattutto attraverso comunicati stampa, assai più difficili da travisare. Può verificare dalle mie circolari sui rapporti coi media che ho dato indicazioni rigorose ben prima della stessa direttiva europea appena recepita. Torniamo alle promozioni: condivide le pagelle legate agli insuccessi processuali? Ogni mancato accoglimento di un’impostazione accusatoria va considerato nella sua singolarità. Si potrà approfondire qualche caso clamoroso di difformità fra tesi d’accusa ed esito del processo, ma non credo alla statistica impersonale. L’errore potrebbe essere anche dei giudicantiL’obiettivo di tutte le riforme sulla giustizia è l’efficienza: va pagata col sacrificio delle garanzie?Il nostro sistema processuale, coi suoi tre gradi di giudizio ed il possibile interscambio di carriere, è considerato, a livello internazionale, un modello a cui tendere. Non condivido l’idea di coloro che vorrebbero ridurli a due o abolire l’appello del pm: se abbiamo un sistema che consente un secondo giudizio di merito e uno di legittimità, è giusto che resti possibile accedervi, secondo il principio di parità, per entrambe le parti. Le garanzie sono concepite per l’imputato, ma questo non vuol dire menomare il ruolo del pm, che è parte pubblica. Napoli. Poggioreale scoppia, l’allarme dei Garanti: “Manca persino la carta igienica” di Viviana Lanza Il Riformista, 14 gennaio 2022 Sfondato il tetto di 2.200 detenuti: Poggioreale torna ad essere superaffollato. E in giorni come questi, di picco pandemico e diffusione rapida della variante Omicron, è una condizione di emergenza nell’emergenza. Difficile, in queste condizioni e con simili numeri di popolazione detenuta, garantire persino bisogni più elementari, come il cambio di lenzuola con una frequenza inferiore ai quindici giorni, quasi impossibile in alcune celle assicurare il distanziamento. C’è chi, tra i reclusi di Poggioreale provenienti da altre regioni, non riesce a fare i colloqui e ci sono ritardi nei turni delle videochiamate. C’è chi non riceve il pacco viveri dai familiari, impossibilitati a raggiungere fisicamente il carcere in questi giorni di caos e pandemia. Ieri mattina il garante campano Samuele Ciambriello e il garante cittadino Pietro Ioia sono tornati a verificare di persona la situazione nella casa circondariale di Poggioreale e al termine della visita sono tornati a denunciare le distorsioni di un sistema giustizia che non riesce a fronteggiare l’emergenza Covid. “Attualmente nelle carceri campane risultano contagiati 184 agenti e 215 detenuti”, hanno detto elencando il dato a livello regionale, relativo alle quindici carceri della Campania. Nel solo carcere di Poggioreale i positivi tra i reclusi sono 113, a cui si aggiungono 50 agenti della penitenziaria. Il personale dunque, già in sottorganico per i cronici vuoti di personale, si ritrova in questo periodo dimezzato a causa di positività e quarantene, con tutto quello che questo comporta nel ritmo di vita all’interno dell’istituto di pena. “I detenuti sono smarriti, stanchi, amareggiati - hanno sottolineato i garanti - Il Covid ha amplificato i problemi nelle carceri. Molti di loro ci hanno raccontato che non sono garantiti nemmeno i servizi primari, come il cambio delle lenzuola e persino la fornitura di carta igienica e tutto ciò che riguarda la prevenzione igienico sanitaria”. “Alcuni detenuti - hanno aggiunto - attendono le dosi di vaccino, altri addirittura attendono ancora la prima dose ed altri i tamponi. Ci hanno raccontato di aver vissuto la convivenza negli stessi spazi tra positivi e non. E il rischio concreto è che a breve non ci saranno più spazi a sufficienza per tutti per cui la quarantena diventerà un rito”. Dopo aver incontrato i detenuti dei padiglioni Firenze e Avellino, i garanti Ciambriello e Ioia hanno evidenziato un altro aspetto molto grave e delicato, quello relativo alle videochiamate per i detenuti di fuori regione ma anche campani, che non riescono per problemi familiari ad effettuare colloqui in presenza. “A questi - hanno raccontato i garanti - non vengono garantite le videochiamate, nonostante la direttiva del Ministero reciti “che sarà data la massima possibilità ai detenuti e agli internati di mantenere i rapporti con la famiglia attraverso la modalità del video-colloquio e l’aumento delle telefonate oltre i limiti previsti dal regolamento” come scrive il direttore generale dei detenuti e del trattamento, Gianfranco De Gesu”, hanno sottolineato i garanti sollecitando ancora una volta misure urgenti da parte del Governo e del Ministro della Giustizia per ridurre il sovraffollamento carcerario. “C’è bisogno di un decreto urgente della ministra Cartabia per le carceri e c’è bisogno di intensificate le misure alternative al carcere”, hanno concluso Ciambriello e Ioia. Dal 20 gennaio anche per i familiari che si recano in carcere per i colloqui con i reclusi scatterà l’obbligo del Green pass, una misura che si è ritenuta necessaria per arginare il rischio di contagi. Giusto. Ma ora serve intervenire anche all’interno delle celle dove continuano a stare in sette, otto o più persone. A Poggioreale si sono attualmente anche una cinquantina di detenuti di altre regioni, inviati nel penitenziario cittadino perché non c’è posto nelle celle di isolamento in altre regioni. Aggiungendo numeri alla popolazione detenuta che a Poggioreale è stata sempre in sovrannumero, e ora più che mai. Torino. Il carcere ha un problema dietro l’altro ilpost.it, 14 gennaio 2022 Tra le inchieste sulle violenze ai detenuti, le proteste dei sindacati di polizia e una popolazione carceraria difficile da gestire, ora non riesce a trovare un nuovo direttore. Il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, meglio conosciuto come Le Vallette, ha un nuovo problema: i tre dirigenti classificati ai primi posti del bando promosso dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per individuare il nuovo direttore hanno rinunciato, accettando invece incarichi in altre sedi. Quasi contemporaneamente l’attuale reggente, Rosalia Marino, ha annunciato il suo rientro nel carcere di Novara, che aveva già diretto in precedenza. Ora il Dap dovrà istituire un nuovo bando, i cui tempi non saranno brevi. Nel frattempo, dal carcere di Bollate, riconosciuto in tutta Europa come carcere modello, è arrivata con il ruolo di reggente la direttrice Cosima Buccoliero. La notizia delle rinunce rischia di aumentare un clima teso che caratterizza da tempo il carcere. La casa circondariale Lorusso e Cutugno, più di altre, ha enormi problemi. Bernardo Petralia, capo del Dap, l’ha definito “l’osservato speciale e particolarissimo insieme al carcere di Firenze”. Parlando con La Stampa della rinuncia dei tre dirigenti, Petralia ha detto: “Certo dispiace perché avevamo svolto una selezione molto articolata valutando alte professionalità, eravamo felici e ora ci troviamo nelle condizioni di dover riproporre il bando per dirigere il Lorusso e Cutugno al più presto possibile”. Rosalia Marino, la reggente uscente, era in carica dal luglio 2020 dopo la rimozione del direttore precedente, Cosimo Minervini, coinvolto in un’inchiesta sulle presunte gravi violenze compiute ai danni dei detenuti. Una persona che lavora nel carcere e che preferisce restare anonima ha detto al Post che “la direttrice ha creato con i lavoratori del Lorusso e Cutugno un muro contro muro, senza possibilità di dialogo e ascolto. Questa è una casa circondariale con una carenza di organico ormai insopportabile e tanti problemi che negli ultimi tempi si sono decisamente accentuati”. Marino, in un’intervista rilasciata a Repubblica il 12 gennaio, ha detto di aver deciso di lasciare l’incarico, che era comunque come “reggente” e quindi non definitivo, dopo aver letto che il carcere di Torino veniva definito “il peggiore di tutta Italia, il carcere della vergogna”. Aveva spiegato che si sarebbe aspettata “un moto di indignazione, di rabbia, una qualsiasi reazione da parte di coloro che vivono e lavorano in questo carcere da anni”, e di aver invece incontrato un “silenzio assordante, l’assenza di una qualunque reazione se non quella di cercare un capro espiatorio” La direttrice uscente ha poi elencato quelli che sono, secondo lei, i gravi problemi del carcere torinese che definisce “l’istituto penitenziario più complesso e articolato dell’intero territorio nazionale”: un tasso di sovraffollamento molto alto, un intero padiglione a vocazione sanitaria, una Atsm (articolazione per la tutela della salute mentale) maschile e femminile, e un reparto (servizio assistenza intensificata). “Qui”, dice Marino “vengono trasferiti detenuti con problemi fisici e psichiatrici che necessitano di cure adeguate”. Nel novembre scorso la quasi totalità dei sindacati della polizia penitenziaria aveva indetto un sit-in per denunciare i diversi problemi. Venivano elencati nel comunicato “turni di lavoro massacranti, continuo stravolgimento della programmazione dei turni, continui sbeffeggi, gravi aggressioni da parte della popolazione detenuta, presenza di soggetti affetti da problematiche di natura psichiatrica i quali, oltretutto, senza la possibilità di essere impegnati nell’arco della giornata sono lasciati liberi nelle sezioni di regime aperto dove, non di rado, ingaggiano scontri fisici anche con gli altri detenuti”. Il carcere di Torino, dicono i sindacati, è sovraffollato oltre il 35% della capienza e la carenza di organico è grave. La capienza regolamentare è di 1.062 detenuti, le presenze giornaliere sono però circa 1.400. Secondo le relazioni del garante gli spazi sono insufficienti per l’alto numero dei detenuti, e il numero di donne e uomini della polizia penitenziaria è ridotto rispetto alle effettive esigenze. Monica Gallo, garante dei detenuti di Torino, spiega che “la struttura è degradata, il numero dei circuiti penitenziari è troppo elevato, manca il personale di polizia penitenziaria e mancano gli educatori. È un problema che non riguarda solo Torino: in Italia su 56mila detenuti gli educatori sono 640”. Al Lorusso e Cutugno il 50% dei detenuti è straniero, “eppure”, continua la garante dei detenuti, “non c’è neanche un mediatore culturale. E poi il direttore, con cui noi abbiamo sempre lavorato in maniera proficua, non ha avuto dei vice, cosa che sarebbe stata fondamentale in una struttura così grande”. Uno dei punti critici del carcere torinese è stato rappresentato negli ultimi anni dalla sezione psichiatrica Sestante. Da dicembre la struttura che la ospitava è chiusa, in fase di ristrutturazione. Gallo lo definì “un luogo inumano e degradante”. Susanna Marietti, presidente dell’associazione nazionale Antigone, attiva nella tutela di diritti e garanzie nel sistema penale, aveva definito il Sestante “un luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente”. In una lettera scritta ai giornali nel novembre scorso Marietti aveva raccontato così ciò che aveva visto nella sezione: “Al Sestante si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”. Le criticità non riguardano però solo la sezione Sestante. A luglio è stato chiesto il rinvio a giudizio per 24 guardie carcerarie coinvolte in un’inchiesta sulle presunte torture avvenute all’interno del carcere. L’inchiesta, che è ancora in fase preliminare, coinvolse l’allora direttore Domenico Minervini e l’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza, che il Dap decise subito di rimuovere. Gli episodi su cui è concentrata l’inchiesta avvennero nel padiglione C, dove si sarebbero verificate violenze ai danni di detenuti accusati di reati sessuali, ma anche di carcerati con problemi di natura mentale. Torino. Il grido che sale dalle carceri di Marina Lomunno vocetempo.it, 14 gennaio 2022 Intervista a Rosalia Marino, direttrice uscente dal penitenziario di Torino, racconta il mondo dei reclusi e la battaglia per l’”umanizzazione” delle pene. L’unità di crisi del Piemonte ha aperto un hub vaccinale fra le mura del penitenziario. Rosalia Marino, direttore reggente della Casa Circondariale torinese “Lorusso e Cutugno” dal 2020, lascia in questi giorni la direzione del Penitenziario per ritornare a dirigere quello di Novara. Dal 12 gennaio prende il testimone la collega Cosima Buccoliero, che dirige attualmente il carcere minorile Beccaria di Milano. Abbiamo incontrato la dottoressa Marino per tracciare un bilancio di questo difficile biennio e per capire le motivazioni del trasferimento. Dottoressa Marino, lei ha assunto nel 2020 la direzione del “Lorusso e Cutugno” in una situazione difficile - oltre che per le carenze croniche di personale, il degrado delle strutture - anche per i fatti di violenza su alcuni ristretti che hanno portato a 25 richieste di rinvio a giudizio tra cui l’ex direttore del carcere e il capo degli agenti penitenziari. Perché ha accettato? Ho assunto l’incarico di direttore reggente della Casa Circondariale di Torino, su richiesta del superiore Ufficio Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) il 29 luglio 2020, e per la seconda volta, purtroppo, in un momento estremamente difficile per l’Istituto e per il personale, dopo la rimozione dei vertici a seguito dei noti accadimenti. La prima volta fu nel gennaio 2014, solo per pochi mesi, dopo l’omicidio-suicidio del 17 dicembre 2013 costato la vita a due agenti di polizia penitenziaria, l’assistente capo Giuseppe Capitani e l’ispettore Giampaolo Melis. Un incarico senza alcun dubbio molto complesso e difficile, per la cronica carenza di personale, per l’obsolescenza della struttura, per il sovraffollamento, a cui si aggiungeva anche la complicata gestione dell’emergenza sanitaria. Ma ho accettato per la profonda passione che nutro nei confronti di questo lavoro e perché credo fortemente nella funzione rieducativa ed utile della pena, anche rifiutando a febbraio 2021 l’incarico di direttore titolare della Casa di Reclusione di Bollate. Un anno e sei mesi non sono molti, ma sufficienti, data la sua lunga esperienza di direzione carceraria, per farsi un’idea di cosa ha bisogno il “Lorusso e Cutugno” per essere un luogo dove chi esce dopo lo sconto di pena si reinserisca nella società. Quali sono gli interventi necessari? Raccontare il carcere è difficile. Raccontare il carcere di Torino lo è molto di più. Perché è l’Istituto penitenziario più complesso ed articolato dell’intero territorio nazionale, con vari circuiti detentivi, con un tasso di sovraffollamento molto alto, con problematiche strutturali importanti, con un intero padiglione detentivo a vocazione sanitaria, con una sezione filtro, unica in tutta Italia, una Atsm (Articolazione territoriale di Salute mentale maschile e femminile) ed un Reparto Sai (Servizio assistenza sanitaria intensificata). Ciò significa che a Torino vengono trasferiti da tutto il territorio nazionale detenuti con problematiche fisiche e psichiatriche che necessitano di cure sanitarie continue ed adeguate. Tuttavia, nonostante l’emergenza sanitaria, la gravissima carenza di personale di tutti i ruoli, l’assenza di vicedirettori, il clima non certamente sereno per il personale, grazie alla preziosa collaborazione di coloro che hanno creduto in me e nel mio lavoro, ho cercato di lavorare sulle criticità, quali la grave carenza di assistenza sanitaria, soprattutto di medici specialisti; la semplificazione dei circuiti detentivi; l’ampliamento delle opportunità lavorative per i detenuti, con l’obiettivo primario di cercare di introdurre cambiamenti concreti in grado di migliorare la vita quotidiana di coloro che vivono e lavorano in carcere; ma soprattutto, vista la vastità dell’Istituto, di rafforzare e riorganizzare la Mof (Manutenzione ordinaria fabbricato) prevedendo una squadra di detenuti e di personale addetto per ogni padiglione detentivo al fine di monitorare le problematiche ed effettuare in modo più rapido ed efficace i lavori di manutenzione ordinaria. La direttrice Rosalia Marino con i detenuti del primo Liceo artistico Durante la sua direzione è scoppiata la pandemia e lei si è battuta fin da subito perché le carceri fossero considerate come Rsa e si vaccinassero il più in fretta possibile detenuti e dipendenti. Quale situazione lascia alla sua collega sul fronte dei vaccini e sulla gestione della emergenza sanitaria? Un risultato importante è stato senza alcun dubbio l’aver firmato un Protocollo, grazie al dott. Antonio Rinaudo, responsabile dell’Unità di crisi del Piemonte, per istituire all’interno dell’Istituto un Hub vaccinale che sin dal mese di marzo 2021 sta consentendo la vaccinazione mensile dei detenuti ed anche del personale e che ha permesso di tenere sotto controllo la diffusione del virus. La Casa Circondariale di Torino è individuata con delibera regionale quale sede con Assistenza Hub, quindi con una copertura medica ed infermieristica h 24 e soprattutto con una specialistica completa. Purtroppo - anche se nel corso di questo periodo di reggenza siamo riusciti ad ottenere il ripristino di molte specializzazioni che mancavano, delle ore settimanali di assistenza sanitaria che erano state improvvisamente decurtate nel mese di luglio, la ripresa della funzionalità della sala radiologica che ha ridotto notevolmente le visite mediche esterne - la strada da percorrere per garantire una assistenza sanitaria adeguata è ancora molto complicata. Ancora, durante la sua direzione, sebbene in piena pandemia e nonostante tante restrizioni negli ingressi, le attività formative non si sono fermate: il 30 ottobre scorso è stata inaugurata una “galleria d’arte” affrescata dai detenuti che frequentano anche il Primo liceo artistico di Torino. Spesso lei ha sottolineato quanto queste opportunità, scolastiche, lavorative, formative contano perché il tempo della pena sia davvero un periodo di rieducazione e faccia calare la recidiva altra piaga del sistema carcerario italiano… Altro progetto importante soprattutto per il suo profondo significato e che ho voluto fortemente è stato il risanamento igienico-sanitario del lunghissimo corridoio che conduce al Padiglione C (tristemente noto per i recenti fatti di cronaca) e la realizzazione di una sorta di galleria d’arte, un bellissimo ed importante progetto di decorazione pittorica ideato e realizzato da un artista del territorio, Giulio Lucente, con la collaborazione di artisti di strada e di detenuti e della Caritas che ha contribuito fornendo i materiali necessari per la realizzazione degli affreschi. Moltissimi sono stati gli interventi, i lavori ed i progetti portati a termine, impossibile da elencare tutti, tra questi le salette skype per le videochiamate; molti sono in corso di realizzazione, tra cui la ristrutturazione del Sestante (il reparto psichiatrico), del Sai, il nuovo sito dell’istituto che consentirà ai familiari ed avvocati di effettuare tramite una app la prenotazione dei colloqui, la Dad per i percorsi scolastici e soprattutto universitari grazie al Progetto Cisco, il Progetto Carioca e la Cucina per il Reparto Femminile; e molti altri ancora di prossima realizzazione. Quale ruolo può avere la società civile, il volontariato, perché il carcere possa essere considerato non un ghetto ai margini della società, ma un luogo dove chi “sbaglia non rimanga sbagliato” per tutta la vita come dice Papa Francesco? Grazie alla preziosa collaborazione di un gran numero di personale interno ed esterno, al volontariato che ringrazio di cuore, abbiamo lavorato e fatto davvero tanto per l’istituto di Torino. Abbiamo accesso i riflettori sui problemi dell’assistenza sanitaria, sul sovraffollamento, sulla presenza dei numerosi circuiti detentivi, sulla necessità di una maggiore apertura del carcere al territorio per ampliare e migliorare le opportunità lavorative dei detenuti. Senza dubbio, bisogna lavorare tanto per aprire questo carcere al territorio che conta, alle aziende, al mondo delle imprese, ma per realizzare ciò è necessario risolvere alla radice i molteplici problemi strutturali e di organico che questo istituto si trascina da molti anni. È necessaria una stabilità direzionale, uno staff di dirigenti, di funzionari, ripristinare tutti gli organici, semplificare i circuiti detentivi, ridurre la capienza dei detenuti, ma soprattutto migliorare l’assistenza sanitaria e psichiatrica. Perché nonostante le criticità, ma anche i risultati positivi in un tempo così complicato per il carcere di Torino, ha deciso di lasciarne la direzione? Ho deciso di rinunciare all’incarico di direttore titolare di Torino per il profondo rispetto che nutro per me stessa e per il mio lavoro. Quando ho letto titoli di giornale sul carcere di Torino come il “Carcere peggiore di tutta Italia, il carcere della vergogna” (in seguito alla denuncia sporta dall’associazione Antigone sulla situazione di degrado della Sezione Sestante per detenuti psichiatrici, ndr) mi aspettavo un moto di indignazione, di rabbia, una qualsiasi reazione da parte di coloro che vivono e lavorano in questo carcere da anni, anche e soprattutto dopo i gravi fatti che continuano a ferire questo Istituto e l’intera amministrazione. Ma questo non è accaduto. Il silenzio assordante, l’assenza di una qualunque reazione, mi ha colpito nel profondo. Allora ho capito che il mio lavoro a Torino era finito. Che ero davvero da sola e che non avrei più potuto continuare il mio lavoro in questo istituto. L’energia, l’entusiasmo e la passione che nutro per questo lavoro e che mi aveva fatto accettare l’incarico non bastavano più. Roma. Bruno in carcere a 87 anni e col tumore. “Il giudice lo salvi” di Luca Monaco La Repubblica, 14 gennaio 2022 Da un mese a Rebibbia nonostante le condizioni di salute e il rischio Covid. La denuncia del Garante dei detenuti. L’avvocato “Per ottenere gli arresti domiciliari si attende solo il parere del Tribunale di sorveglianza che però non arriva”. A 87 anni suonati, malato di tumore, con la variante Omicron del Covid che infesta il Paese e anche le carceri, Bruno da un mese è detenuto a Rebibbia in attesa di assere mandato a casa, agli arresti domiciliari. Sono i tempi lunghi della Giustizia. Perché il pensionato, non solo non avrebbe mai dovuto entrare in carcere, in ogni caso a questo punto doveva essere già fuori, così rischia di morire. “Ne ho parlato ieri con il garante nazionale Mauro Palma - afferma Gabriella Stramaccioni, la garante dei detenuti di Roma - riscontra tutta l’assurdità di questa vicenda”. Romano di San Paolo, una moglie e due figli, Bruno il 14 dicembre è stato condannato dalla corte di Cassazione a cinque anni di reclusione. Il giorno dopo è arrivato l’ordine di esecuzione della pena: la polizia è andata a prenderlo a casa e l’ha portato al commissariato Colombo, dove ha trascorso la notte in attesa che venisse assegnato a un carcere. Il 16 dicembre è entrato a Rebibbia, dove è rimasto in quarantena fino a Capodanno. Poi èstato spostato nel reparto G9. Il reato per il quale è stato condannato non prevede misure alternative al carcere. L’87enne è diabetico, ha avuto un tumore al pancreas e a ottobre gli è stato trovato un nodulo di 7 millimetri al polmone sinistro. Il suo stato di salute lo rende incompatibile con il sistema carcerario: è l’unico motivo per il quale può essere scarcerato. Bruno aspettava di essere visitato da un mese. Venerdì scorso finalmente il certificato che dà conto del suo stato di salute è stato spedito al tribunale di Sorveglianza. A una settimana di distanza nulla si è mosso: l’87enne è ancora detenuto. Sempre venerdì “il giudice - spiega l’avvocato Mario Miano - ha chiesto al commissariato di controllare il domicilio e appurare che i familiari siano d’accordo ad accoglierlo ai domiciliari. L’operazione è stata eseguita”. La moglie lo aspetta da settimane. Manca solo il provvedimento del giudice. “Il carcere ha fatto tutto quello che doveva fare - dice Stramaccioni - è la Sorveglianza che deve decidere. Faccia in fretta”. Ponga fine allo strazio di Bruno Bari. Papà in carcere dona un rene alla figlia di 12 anni e le salva la vita di Valeria D’Autilia La Stampa, 14 gennaio 2022 Per la ragazzina il trapianto era l’unica speranza: dopo un anno di dialisi il rene aveva smesso di rispondere al trattamento. Via libera del magistrato di sorveglianza. Sul suo letto di ospedale c’è un peluche di Ih-Oh. Il personaggio di Winnie the Pooh con una lunga coda - che perde facilmente - agganciata con un chiodo al resto del corpo. Una volta riattaccata, l’asinello di pezza guadagna nuovamente la fiducia in sé. E anche la vita di questa ragazzina di 12 anni era attaccata a una piccola speranza: trovare un rene nuovo. Un gesto, grande, fatto dal suo papà. Una decisione immediata, senza pensarci, come solo un genitore può fare. Un donatore speciale, che ha detto di sì dal carcere in cui è detenuto. Dalla Puglia arriva questa storia di amore e riscatto e di come un legame tra padre e figlia vada oltre. Lei malata da quando aveva 7 anni. Come tutti i bambini in dialisi, una convivenza con problemi nella calcificazione delle ossa e perdita di peso. L’insufficienza renale terminale le era stata diagnosticata all’ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari. E dopo cure, visite e terapie, la prospettiva del trapianto era risultata l’unica possibilità per continuare a vivere. Alla notizia, il padre non si tira indietro: propone di prendere il suo rene per salvare la piccola. Inizia una fase che coinvolge nefrologi, immunologi, patologi clinici, psicologi. Ma non basta, perché per completare la procedura per trapianto da vivente - in questo caso - è necessaria l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza, perché il donatore è detenuto in una struttura penitenziaria. E il definitivo lasciapassare non tarda ad arrivare. “Ho dovuto procedere all’espianto dell’organo con guardie carcerarie che erano in sala operatoria. Dovevano guardarlo a vista”. Il professore Michele Battaglia ha guidato l’equipe medica del Policlinico di Bari che si è occupata del delicato intervento. “Un’esperienza indimenticabile. È stato il mio ultimo giorno di lavoro, a settembre scorso, prima di andare in pensione. E mi sono trovato di fronte a un padre che ha fatto un gesto straordinario. Lui era felicissimo. Se ci penso, mi viene la pelle d’oca ancora oggi”. Battaglia intanto prosegue il suo impegno in sala operatoria con un contratto a titolo gratuito per affiancare il suo successore. Il ricordo di quei giorni è ancora vivo. È stata utilizzata una tecnica robotica e anche per il donatore vivente ci sono percentuali di rischio. “È andato tutto per il meglio, dopo 48 ore il padre è stato dimesso” per tornare nella sua cella. Poi il turno della piccola paziente. Tante ore sotto i ferri, con la questione del diverso volume dell’organo donato da un adulto su un corpo con un peso notevolmente inferiore. Intervento delicato e momenti di attesa, soprattutto nella fase di ripartenza del rene. “La cosa che mi ha impressionato nel post operatorio è stato il silenzio di questa bambina, che all’inizio non parlava. Si limitava a guardare noi medici, mentre la madre cercava di interpretare i suoi gesti. Ho rivisto questo atteggiamento in molti pazienti della sua età, purtroppo abituati a convivere con esami e ospedali”. Anche il coordinatore del Centro regionale trapianti, Loreto Gesualdo, non nasconde l’emozione e parla di un caso che li ha molto coinvolti. “A questo bellissimo atto di amore paterno è corrisposto il grande impegno per rendere possibile un dono che salvato la vita alla piccola, superando tutte le barriere”. A qualche mese di distanza, la dodicenne è sotto osservazione periodica del reparto di nefrologia pediatrica del Policlinico barese che, solo nel 2021, ha registrato 123 trapianti d’organo. “Dietro ogni trapianto ci sono storie di grande umanità” ricorda il direttore generale, Giovanni Migliore. E poi ci sono le lacrime della mamma, che si confondono alle parole, tra commozione e sofferenza. “Ho una bambina fortissima. Ringrazio tutti con il cuore in mano, ringrazio mio marito perché ha fatto una cosa molto importante e oggi non possiamo essere vicini”. Mentre pronuncia queste frasi brilla una collanina, semplice, con quattro piccole sagome: due persone adulte e due bambini, mano nella mano. Un legame da tenere sempre con sé, magari da guardare ogni tanto, per trovare la forza di essere felici. Sassari. Nomina del Garante dei detenuti: candidati 4 uomini e 5 donne di Mariangela Pala L’Unione Sarda, 14 gennaio 2022 Procedura avviata in tempi brevi, come promesso, quella prevista per la nomina del nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale, il successore di Antonello Unida revocato dall’incarico il 16 dicembre scorso per le sue esternazioni da “no vax” e anti green pass. Cinque donne e quattro uomini hanno risposto all’avviso di nomina firmato dal presidente del consiglio di Sassari, Maurilio Murru, nove persone candidate che attraverso selezione si ridurranno ad una terna, una scelta di competenza del consiglio comunale. La partita è ancora aperta e non trapelano indiscrezioni, ma secondo il regolamento comunale le tre persone individuate dovranno essere di indiscusso prestigio e di notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, delle attività sociali negli istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale. I curricula dei candidati passeranno all’esame dei membri della conferenza dei capigruppo che dovrà selezionate la terna successivamente sottoposta al vaglio del consiglio comunale. Se sulla revoca di Unida aveva deciso solo la maggioranza con 17 voti favorevoli su 18 presenti, con l’opposizione che aveva sbattuto la porta uscendo dall’aula, sulla nuova nomina si ripresenta lo stesso il rischio. Difficile sanare lo strappo tra le opposizioni e chi siede nei banchi della maggioranza, la decisione della revoca del garante dei detenuti presa con voto segreto e a porte chiuse non era stata gradita dalla minoranza. Pavia. La diocesi raccoglie l’appello: “Una raccolta per i detenuti” di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 14 gennaio 2022 Il vicario si muove dopo la segnalazione del cappellano, don Crotti. Servono anzitutto indumenti e materiale per l’igiene personale. La pandemia ha avuto riflessi negativi ovunque. Nel mondo della fragilità ancor più. E così dal cappellano del carcere pavese don Dario Crotti arriva l’appello. “La situazione a Torre del Gallo in questi mesi non è facile, per varie situazioni - spiega il sacerdote, da sempre in prima linea sul fronte emarginazione - si vivono realtà complesse come la ripresa forte del numero dei contagi, le situazioni di grave povertà e la totale assenza di riferimenti familiari per molti detenuti, che non fanno alcun colloquio e non possono contare sul sostegno di nessuna persona vicina”. E anche le attività all’interno del carcere sono ormai ridotte al lumicino, a partire dalla scuola che dovrebbe peraltro essere un diritto garantito. La cronaca ricorda che tre persone, di 47, 36 e 37 anni, a Torre del Gallo si sono tolte la vita nel giro di un mese, a novembre. E sono stati numerosissimi gli atti di autolesionismo - come ha più volte ricordato Laura Cesaris, garante dei detenuti in provincia di Pavia - segnalati negli ultimi mesi. Alcuni anche gravi. Manca anche l’assistenza sanitaria, i medici sono pochi e con frequenti dimissioni per raggiungere destinazioni più gradite. A tutto questo si aggiungono l’inadeguatezza dell’edilizia penitenziaria e spesso l’abbandono del detenuto da parte dei familiari. Ecco allora che il vicario generale della diocesi di Pavia, don Luigi Pedrini, ha raccolto l’appello di don Dario Crotti e ha scritto a tutti i sacerdoti della diocesi. Di che cosa hanno bisogno i detenuti? Indumenti intimi in primis, dalle canottiere ai boxer; poi tute da ginnastica, scarpe da tennis e materiale per l’igiene personale: shampoo, sapone, dentifrici e spazzolini. E c’è anche chi desidererebbe avere un calendario nella propria cella (solo in carta o cartoncino) e magari una corona del rosario per cercare conforto nella preghiera. “Si vorrebbe con questa raccolta preparare tramite i volontari disponibili kit di prima necessità ed emergenza”, fa presente don Pedrini. Ciascuna parrocchia quindi è invitata a raccogliere del materiale, che verrà poi ritirato da don Dario Crotti. Reggio Emilia. “Liberi Art”, detenuti contro la violenza di Stella Bonfrisco Il Resto del Carlino, 14 gennaio 2022 Alla biblioteca San Pellegrino-Marco Gerra (via Rivoluzione d’ottobre oggi alle 17 viene inaugurata la mostra “Liberi Art”, un progetto del quale sono protagonisti alcuni detenuti che attraverso l’arte e i diversi linguaggi espressivi hanno potuto esprimere il loro potenziale creativo realizzando opere e contemporaneamente portando all’attenzione riflessioni su temi legati all’attualità come il contrasto alla mafia, la promozione dell’inclusione, la religione, la guerra, la giustizia e la libertà. In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne - 25 novembre - 13 detenuti hanno partecipato alla realizzazione delle opere a tema accompagnate da segnalibri che verranno donati alla città. La mostra sarà visibile fino al 14 febbraio negli orari di apertura della biblioteca. Si tratta di 28 opere, tra cui una ispirata all’Enciclica di Papa Francesco ‘Fratelli Tutti’. “Questa iniziativa - dice l’assessora alle Pari opportunità Annalisa Rabitti - crea un ponte di dialogo tra ciò che accade all’interno delle mura di un carcere e la vita che scorre al di fuori, sostenendo un percorso detentivo che sia anche rieducativo affinché la spinta sia quella di costruire una maggiore responsabilità e appartenenza sociale. L’arte ha permesso ai detenuti di esprimere idee ed emozioni facendosi al contempo portatori e promotori di messaggi culturali di sensibilizzazione. Come amministratori abbiamo accolto con grande interesse la possibilità di dare voce a chi al momento non ce l’ha”. L’esposizione è promossa dal Comune di Reggio e dall’artista Anna Protopapa - delegata dell’associazione Gens Nova O.D.V. Emilia Romagna e volontaria degli Istituti Penitenziari di Reggio - realizzata nell’ambito dell’omonimo progetto rieducativo rivolto ai detenuti. È possibile partecipare all’iniziativa prenotandosi all’indirizzo mail ufficio.pariopportunita@comune.re.it o telefonando al numero 0522456975 (massimo 25 partecipanti). “Nebbia”, il nuovo podcast del Corriere di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 gennaio 2022 Da lunedì parte la serie “Nebbia”: 10 puntate dedicate ad alcune delle pagine più nere della cronaca italiana, scritte dall’inviato del Corriere Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola. Saviano: “Un podcast importante perché smonta i depistaggi e rimette le cose in ordine” Perché è importante ascoltare “Nebbia”, il podcast scritto da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola (in collaborazione con Debora Campanella e Francesco Giambertone)? Perché questa serie - che parte lunedì, e che troverete all’indirizzo corriere.it/podcast/nebbia - riesce nell’impresa, difficilissima, d’essere riepilogativa dando allo stesso tempo nuove coordinate interpretative. La può ascoltare chi già conosce queste storie e non troverà nulla di ridondante perché fornisce nuovi elementi; e la può ascoltare chi non sa cosa sia accaduto in Italia negli anni di piombo perché riepiloga, spiega, fa sintesi. La puntata su piazza Fontana esplode sui timpani come la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano, il 12 dicembre 1969. E attraverso la ricostruzione delle dinamiche, delle responsabilità, delle connivenze, dei depistaggi, dei processi, delle vittime, dei magistrati, dei servizi segreti e di chi ha sempre cercato a ogni costo una verità che potesse spiegare sangue e sofferenza, questo podcast racconta il Paese, le sue corruzioni, le anomalie, gli imbrogli. Storie che ci sembra non abbiano mai raggiunto la verità. Invece le verità storiche ci sono, eccome... eppure, nel percepito, siamo ancora al grado zero. Se a qualcosa sono serviti i depistaggi - i veri obiettivi smascherati da questo lungo racconto - è stato certamente a confondere il sentire comune. Se su piazza Fontana o piazza della Loggia si chiede: sai dirmi chi è stato? Ancora oggi “si è trattato di attentati neofascisti” non è la prima risposta che si ottiene. Nebbia, appunto. Nella nebbia tutto si confonde. Nella nebbia tutto sembra uguale, indistinto. Ogni ostacolo percepito come pericolo. La pista anarchica ha fornito il più longevo degli alibi alle forze eversive neofasciste con la complicità di quei comparti dei servizi segreti che siamo soliti definire “deviati”. “Deviati” perché credere che non lo fossero ci spaventa come cittadini. “Nebbia” racconta come la violenza neofascista in questo Paese sia stata profondamente egemone e come sia stata sempre utilizzata per impedire un percorso democratico e riformista. Ma il racconto non ha nulla di ideologico. Viene infatti raccontato molto bene il codardo attentato di Primavalle alla famiglia missina dei Mattei, attraverso la viva voce dell’ultimo dei fratelli, Giampaolo, sopravvissuto al rogo in cui morirono morti Virgilio (22 anni) e Stefano (8 anni). Questo podcast mette in ordine gli eventi, tiene viva l’attenzione di chi ascolta grazie alle voci dei testimoni che non raccontano solo ciò che accadde, ma restituiscono un clima politico da cui non si può prescindere per comprendere il presente. Lo trovo un ottimo strumento che i docenti potranno utilizzare per introdurre le studentesse e gli studenti di oggi a un momento storico su cui pesano valutazioni e giudizi politici che spesso impediscono di parlarne senza pregiudizi. E poi c’è la potenza della parola pronunciata e ascoltata, della parola impressa su nastro e restituita all’orecchio di chi, ascoltando, ricrea un mondo. I podcast a differenza di un articolo o di un video hanno una caratteristica: relazionandoti con la parola puoi ascoltare e quindi concentrarti immaginando. Il podcast conserva quella dinamica che in genere viviamo con i libri: leggiamo e immaginiamo. Un documentario possiamo guardarlo, può commuoversi, naturalmente informarci. Con il podcast è diverso, perché a creare tutto siamo noi. Il podcast conserva, della lettura, la capacità di immaginazione. La puntata sul sequestro Moro è esplicativa del metodo utilizzato: mettere in relazione le diverse teorie. C’è chi sostiene che i brigatisti non potevano aver fatto da soli l’agguato di via Fani e c’è chi propone la tesi opposta, ovvero che abbiano agito senza aiuti e, infine, tutto viene messo a confronto con la posizione, alternativa alle prime due, per cui i brigatisti, pur agendo da soli, siano stati in qualche modo giocati dall’esterno. La voce di Giovanni Bianconi qui si sente forte e chiara, perché questo è stato sempre il suo metodo impeccabile, dagli articoli ai numerosi romanzi di non-fiction: affrontare la Storia italiana, affrontarla in senso letterale, cioè faccia a faccia, fronte contro fronte, per vedere alla fine chi resta in piedi, chi l’avrà vinta: il racconto della storia o gli inestricabili sentieri percorsi da chi la storia la fa. Infine, questo podcast ha la capacità di riportare al centro i delitti politici di mafia, che sono completamente smarriti dalla memoria pubblica, dal dibattito pubblico: quanto le organizzazioni criminali siano state e continuino a essere una forza economica in grado di condizionare la politica spesso si rischia di archiviarlo come storia collaterale. Di qui la scelta di far iniziare la serie, sul Corriere.it, proprio dalla puntata dedicata all’omicidio del presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella, di cui il 6 gennaio è ricorso il 42esimo anniversario, assieme agli assassinii del segretario siciliano del Pci, Pio La Torre, e del generale neoprefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il podcast affronta la questione mostrando quanto peso abbiano avuto, sul piano nazionale, le scelte della Comissione di Cosa Nostra e quanto sia stato un errore considerare queste scelte locali, meridionali. Arricchiscono queste puntate le testimonianze, le interviste di vittime, parenti, magistrati che si sono occupati dei vari casi. La sensazione di trovarsi ad affrontare una discesa nell’irrisolto viene bilanciata dall’attenzione geometrica a mettere in fila tutto ciò che si ha a disposizione e che spesso sono fatti incontestabili. E non parlo solo di verità giudiziarie, di sentenze. Ci sono stragisti che se la sono cavata, assassini che collaborando sono riusciti ad avere una vita normale, e vittime che non riescono uscire dal dramma della propria ferita. C’è un’immagine che lascia il segno. Paolo Dendena racconta di quando, non ancora ventenne, con la sorella Francesca (fondatrice dell’associazione parenti delle vittime di piazza Fontana, morta nel 2010) attraversavano a bordo di lentissimi treni l’Italia, per assistere alle udienze di un processo inspiegabilmente trasferito a Catanzaro. Per spiegare al magistrato le ragioni di quello sforzo costante, Francesca Dendena pronuncia questa frase: “Ho bisogno di avere qualcuno da perdonare”. Per dire di voler conoscere chi aveva ucciso suo padre, lasciandola orfana a 17 anni, dice “ho bisogno di qualcuno da perdonare”. Ecco: in quella frase c’è esattamente tutto il senso del podcast. Non è possibile trovare pace se non c’è verità. Questa serialità racconta il continuo tentativo di chi in questo Paese così confuso, stratificato, così facile all’illusione e con la stessa facilità alla delusione, sia ossessionato dal cercare la verità, e continui a farlo. La “nebbia” è il termine esatto con cui descrivere questo clima. La luce non sconfigge la nebbia: permette solo di vedere dove mettere il passo. Quello che sconfigge la nebbia è solo la mutazione delle condizioni. E questa mutazione chissà se sarà possibile ottenerla, non ho molta speranza. Ma spero nella conoscenza. E quindi confido di poter andare avanti nella nebbia. Questo sono persuaso sia ancora possibile. E questa serialità ascoltata tutta di seguito crea un senso di paura, vertigine, sconforto, ma ti dà anche strumenti: l’elmetto e la torcia che, nella nebbia, mettono al sicuro il tuo passo. Le puntate 1. L’attentato di piazza Fontana, del 12 dicembre 1969 2. Piazza della Loggia a Brescia, il 28 maggio 1974 3. Il sequestro del leader della Dc Aldo Moro, rapito delle Br nel ‘78 4. La violenza politica degli Anni Settanta 5. Chi, che cosa, ha abbattuto il DC9 Itavia sul cielo di Ustica il 27 giugno del 1980? 6. La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 7. L’omicidio di Piersanti Mattarella e gli altri delitti di mafia con sapore politico 8. I misteri della Loggia P2 9. Le indagini sull’omicidio Borsellino e i depistaggi 10. Cosa resta di Mani pulite? Il podcast - “Nebbia. Le verità nascoste della Storia della Repubblica” è un podcast del Corriere con Audible. Scritto da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, in collaborazione con Debora Campanella e Francesco Giambertone, letto da Luca Lancise, musiche di Federico Chiari. Il progetto grafico è di Michele Lovison. Lo si trova qui: corriere.it/podcast/nebbia La scelta politica di aprire la scuola di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 14 gennaio 2022 Quando il presidente del Consiglio presentò il suo governo al Parlamento, la menzione che fece del dovere di fare tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura, poteva parere qualcosa di obbligato nel quadro del programma di qualunque governo. Qualcosa che non poteva mancare e che dunque rimaneva poco significativo, tanto più che le contingenze spingevano l’attenzione verso i temi propri delle emergenze sanitaria ed economica. Eppure, una maggiore attenzione avrebbe dovuto essere prestata a quel passaggio (e ad altri che non riguardavano economia e sanità) e confrontarlo con l’insistenza con la quale Mario Draghi era ed è ancora spesso indicato con il “banchiere” o il “tecnico” di economia e finanza. Così suggerendo che in qualche modo sia fuori posto nel ruolo del presidente del Consiglio, che, come stabilisce la Costituzione, dirige la politica generale del governo e ne mantiene l’unità di indirizzo politico. Con quelle etichette non se ne vuole indicare l’esperienza e l’alta qualificazione in un settore specifico, importante ma non esaustivo; se ne vuole invece ridurre o immiserire il profilo professionale a fronte della più importante qualità che avrebbe un presidente “politico”. Quest’ultimo carattere, senza specificare, viene assegnato a chi ha fatto tirocinio e poi è cresciuto nella vita dei partiti politici. Ciò che non è necessariamente negativo, ma non mette in luce la natura fondamentale che dovrebbe avere l’azione politica e il ruolo “politico” di chi la svolge. Si tratta della non settorialità, della completezza della considerazione e della conoscenza dei bisogni della società, della visione di prospettiva di lungo periodo, dell’attitudine alle scelte di priorità, dell’interesse per la costruzione di un tipo di società e non di un altro. Dopo l’ultima conferenza stampa del presidente del Consiglio sarebbe bene far cessare l’equivoco (e la falsificazione) e considerare che Mario Draghi è sì un tecnico, nel senso che sa di cosa parla quando affronta temi di economia e finanza, ma è anche un politico a tutto tondo. Cosa è infatti, se non una scelta pienamente e consapevolmente politica, quella che il presidente del Consiglio ha illustrato e rivendicato nella conferenza stampa insieme al ministro dell’Istruzione, in favore della riapertura delle scuole secondo il calendario prestabilito? Certo il terreno su cui il governo si è mosso è segnato dai dati della epidemia, dalle interpretazioni e previsioni (non univoche) che ne danno gli esperti epidemiologi, dalle indicazioni che vengono dallo stato oggettivo in cui operano le scuole, eccetera. Ma da tutto ciò non derivano conseguenze obbligate; semmai qualche controindicazione o impedimento alla adozione dell’una o dell’altra soluzione tra le diverse possibili. Ed allora, come è normale e bene che sia, intervengono le scelte politiche. Che sono certo sempre discutibili, ma sono doverose e legittime quando l’autorità competente ne assume la responsabilità, non pretendendo di essere puramente e semplicemente guidata dai dati della realtà (indicati dai tecnici). La scelta politica del governo sottostante le misure riguardanti la scuola è in favore della scuola e dell’insegnamento in presenza. L’effetto della qualità dell’istruzione è stato indicato anche sul piano, tutto politico, della lotta alle diseguaglianze sociali. Elsa Fornero ha illustrato su questo giornale l’importanza della istruzione, ai suoi vari livelli, sottolineando il valore della scelta della scuola come vera priorità strategica del Paese. Nello stato di crisi in cui ci troviamo, anche sul piano economico, con le difficoltà diverse che patiscono le varie categorie sociali, le scelte avrebbero potuto essere diverse o meno esplicite. Importante, dunque, che questa sia quella adottata. Le conseguenze non si esauriscono nel breve periodo e non si legano alle complessità operative dell’organizzazione scolastica. L’indirizzo politico adottato dal governo -anche ricordando quanto il presidente disse in Parlamento presentando il governo- va inteso, salutato e sorvegliato come un impegno di lungo periodo. Indirizzo politico benvenuto, che la fine della pandemia consentirà di vedere dispiegarsi nell’impegno amministrativo e finanziario ed anche nell’apertura del necessario dibattito preliminare alle attese riforme. Le violenze di Capodanno a Milano e i Drughi dell’era Covid di Brunella Giovara La Repubblica, 14 gennaio 2022 È stata un’esplosione di rabbia, contro la preda più debole che è sempre la donna, intrappolata urlante nella calca e tra le transenne. È stata un’arancia meccanica. E riguarda tutti noi. Partiamo da Milano, dal Capodanno disgraziato in piazza Duomo dove quaranta, forse cinquanta giovani hanno dato la caccia ad alcune ragazze che erano lì per festeggiare insieme a qualche migliaio di persone (non in un angolo buio, non in una strada isolata, ma sotto i riflettori, con la polizia a due passi, le telecamere accese). Le hanno circondate, spogliate, toccate, violentate, in una specie di sabba furioso che si è poi spostato in altre zone del centro e che ha lasciato altre vittime scioccate - adesso siamo a 10 e nuove ne stanno arrivando - così come quelli che hanno assistito e cercato di salvarle, e anche noi, che lo abbiamo saputo la mattina dopo, un anno che si è aperto sotto un cielo già nero. Una esplosione di rabbia, contro la preda più debole che è sempre la donna, intrappolata urlante nella calca e tra le transenne, una di loro ha poi detto “ho sentito 50 mani su di me...”, è stata un’arancia meccanica en plen air. Poi ne abbiamo saputa un’altra, che è dello scorso Capodanno, e siamo a Roma, quartiere Primavalle, festa clandestina - c’era il lockdown - in una villetta, una minorenne drogata e stuprata da tre appena più grandi di lei. Intercettato, uno ha poi detto all’amico “adesso ho paura di mio padre quando lo saprà”. Non “sono stato uno stronzo, mi pento, chiedo scusa”. No, solo la paura del babbo. Come Alex DeLarge, capo dei Drughi, tutti questi ragazzi così naturalmente aggressivi meriterebbero il famoso trattamento “Ludovico” del film: le pinze che gli tengono aperti gli occhi, obbligati a vedere in loop orribili scene di violenza senza poter distogliere lo sguardo (e del resto, ormai sappiamo che durante lo stupro di gruppo c’è sempre qualcuno che riprende la scena con il cellulare, e poi la manda agli amici). Città diverse, contesti diversi, stessa generazione. Generazione Covid, la definisce qualcuno. Nel primo caso, due ragazzi fermati, e sono un italiano di famiglia marocchina, l’altro è egiziano di 18 anni. Però ci sono anche degli “italiani italiani” come i tre di Primavalle, di cui nessuno può dire che sono di seconda generazione, o che hanno la violenza tribale nel sangue perché arrivano dal Maghreb, e altre sciocchezze del genere. È colpa del Covid? Gli psicologi rilevano il particolare peso della pandemia su adolescenti e giovani, un peso non più sopportabile che ha già represso la loro voglia di vivere nel momento in cui questa deve esprimersi, spento molte energie, sviluppato aggressività verso gli altri, verso se stessi. Però, può anche essere un bell’alibi. Se a casa ti insegnano che le donne vanno rispettate, che il rapporto sessuale deve essere voluto e condiviso, un giovane maschio pur stressato da lunga prigionia casalinga non può ritrovarsi a dare la caccia in piazza a una giovane femmina (con altri 40 pari età). O ingannarla versandole un farmaco nel bicchiere, e poi violentarla (in tre). Naturalmente, non sono tutti selvaggi, questi ragazzi della generazione Covid. Ma spesso hanno genitori indifferenti, o distratti, che non li guardano abbastanza, che non vedono o non vogliono vedere. Padri e madri di bravi ragazzi, dopo dicono tutti così. Più dei loro figli, meriterebbero un bel trattamento Ludovico. Pinze, occhi spalancati. Molti adulti non hanno voluto guardare i video del Capodanno milanese, dicendo “mi fa troppo schifo”, e subito dopo “mio figlio mai farebbe una cosa del genere”. Ovvero, non è una cosa che ci riguarda. Invece bisogna guardarlo. Fa schifo sì, e non si vede neanche tutto. Riguarda tutti noi, lì potrebbe esserci anche uno dei nostri figli, lì nel sabba, o nel chiuso di una villetta perbene. Le violenze di Capodanno a Milano e il fattore integrazione di Lorenzo Vidino La Repubblica, 14 gennaio 2022 L’esperienza della Francia e di altri Paesi europei ci mostra che trascurare la questione per buonismo o per evitare strumentali accuse di razzismo non è una scelta oculata. Servono interventi di lungo respiro, che coinvolgano il mondo della scuola, le comunità e il volontariato. Gli eventi della notte di Capodanno in Piazza Duomo a Milano oltraggiano ma preoccupano in maniera particolare se debitamente contestualizzati. Colpisce il fatto che, se a Colonia nel 2016 ad aggredire inermi ragazze erano stati perlopiù immigrati appena arrivati in Germania, a Milano gli indagati sono in maggioranza ragazzi di origine nordafricana ma nati o perlomeno cresciuti nel nostro Paese, sociologicamente italianissimi. Prova che, se in molti casi l’integrazione funziona, esistono sacche di disagio personale e/o sociale tra le seconde generazioni in cui fa presa una sottocultura che sposa, spesso in maniera confusa, identità arabo/islamica, mitizzazione della criminalità e machismo. Dinamiche già viste da anni in Paesi europei che hanno vissuto il fenomeno migratorio ben prima di noi. Il governo francese, per esempio, mantiene una lista di circa 700 Zones urbaines sensibles, aree dove il controllo delle istituzioni è debole, il tasso di criminalità è alto, quelli di scolarizzazione e occupazione bassi. Ma ciò che rende queste zone particolarmente preoccupanti è la presenza diffusa di modelli culturali quali la cultura gangsta-rap e il fondamentalismo islamista con valori diversi se non diametralmente opposti a quelli della République. Una parte dei giovani residenti in queste zone adotta due identità, quella arabo-islamica e quella di residente della specifica banlieue, vedendo il resto del Paese - la polizia, la scuola, i francesi del centro città - come nemici da cacciare dal proprio territorio e umiliare. Una dinamica tribale e violenta che Macron e l’opinione pubblica francese vedono come uno dei maggiori problemi del Paese. Per anni si è detto che queste problematiche non ci riguardavano. Se è vero che siamo lontanissimi dalle dinamiche francesi, si cominciano a osservare anche da noi episodi preoccupanti. Sempre a Milano, in zona San Siro, lo scorso aprile 300 giovani assaltarono al grido di “fuori dalle nostre zone” la polizia mentre il rapper di origine marocchina Neima Ezza girava un suo video. Ezza è uno dei rapper italiani di seconda generazione che si ispira al rap francese - basta vedere il video di Offline, dove il testo “Macchine blindate, vetri oscurati, Osama Bin Laden, arabi e shqiptare (albanesi)” è accompagnato da immagini di una gang che, incappucciata, impugna armi automatiche, guida auto di lusso e compie una rapina per le vie di San Siro. Solo un esempio di una sottocultura che glorifica violenza, prevaricazione, criminalità e un orgoglio per le origini di per sé non problematico se non fosse spesso espresso in maniera antagonistica. Certo, la maggior parte dei quindicenni che ascoltano questo tipo di musica o si atteggiano da boss mimando i gesti di rapper delle periferie americane si limitano a postare video su TikTok. Ma non stupisce che da questo mondo escano baby gang come quella che nel 2017 portò lo scompiglio in piazza San Carlo a Torino e causò un morto e vari feriti tra la folla accalcata a vedere la finale di Champions o i ragazzi che hanno compiuto le molestie di Capodanno. O che rappasse, col nome di McKhalif, Anas El Abboubi, ragazzo marocchino residente nel bresciano che fu tra i primi foreign fighters italiani a combattere in Siria. Il problema è delicato e si presta a facili generalizzazioni (in primis sul rap, mentre in realtà molti rapper di seconda generazione lanciano messaggi positivi di integrazione e convivenza) e strumentalizzazioni politiche. Ma l’esperienza della Francia e altri Paesi europei ci mostra chiaramente che trascurarlo per buonismo o per evitare strumentali accuse di razzismo non è una scelta oculata. A Milano la Questura sta operando bene, monitorando il fenomeno e agendo con Daspo urbani mirati. Ma è chiaro che urgono interventi di lungo respiro, basati su integrazione e senso civico e che coinvolgano sempre più il mondo della scuola, le comunità e il volontariato. Ed è altresì chiaro che il problema non è solo di Milano ma di tanti centri urbani, anche ben più piccoli. Migrazioni e Unione Europea: il report di Human Rights Watch La Repubblica, 14 gennaio 2022 L’impegno per il rispetto dei diritti alle frontiere esterne vacilla per l’incapacità di mettere le persone al primo posto. Una sintesi della lunga relazione sulle protezioni internazionali negate alle persone lungo le diverse frontiere attraversate dai flussi migratori. L’Unione Europea e la maggior parte degli Stati membri continuano a disattendere l’impegno per i diritti umani e i valori democratici. È l’incipit di un lungo rapporto diffuso da Human Rights Watch (HRW). In pratica, tuttavia - si legge nel documento - le politiche e le azioni del sindacato e degli Stati membri spesso non sono all’altezza. Sulla migrazione, la risposta alla crisi in Afghanistan, l’emergenza umanitaria al confine tra Polonia e Bielorussia e i respingimenti a questo e ad altri confini esterni dell’UE hanno esemplificato l’attenzione alla chiusura delle frontiere e all’esternalizzazione della responsabilità per rifugiati, migranti e richiedenti asilo a spese dei diritti umani. Le risposte dello Stato al razzismo, alla violenza e alla discriminazione, che colpiscono le donne, le minoranze etniche e religiose, le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) e le persone con disabilità, sono spesso inadeguate e in alcuni casi aggravano l’abuso dei diritti. L’esempio in Afghanistan. La pandemia - come si ripete spesso - ha esacerbato profonde disuguaglianze e povertà nell’Unione Europea, nonostante alcune misure statali per mitigarle. Gli Stati membri dell’UE hanno utilizzato una retorica più forte per criticare gli attacchi allo Stato di diritto e alle istituzioni democratiche all’interno dell’UE, ma non sono riusciti a intraprendere un’azione decisiva prevista dai trattati dell’UE o ad attivare pienamente i meccanismi di condizionalità finanziaria. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo Gli Stati membri dell’UE hanno evacuato migliaia di afgani da Kabul ad agosto dopo l’acquisizione del potere dei talebani, ma in seguito si sono concentrati principalmente sulle misure per impedire la fuga delle persone dall’Afghanistan nei paesi vicini. Quegli impegni non rispettati di reinsediamento. Durante un forum dell’UE ad alto livello sulla protezione degli afgani a rischio, convocato nell’ottobre scorso, gli Stati membri dell’UE non hanno assunto impegni concreti di reinsediamento. - Spagna. A maggio ha sommariamente restituito migliaia di persone, compresi bambini non accompagnati, da Ceuta dopo che circa 10.000 persone sono entrate nell’enclave spagnola nordafricana entro 24 ore con presunta facilitazione da parte del Marocco. - Lituania, Lettonia e Polonia hanno dichiarato lo stato di emergenza, schierato truppe e respinto illegalmente le persone in Bielorussia dopo aver affermato che le autorità bielorusse stavano facilitando l’ingresso delle persone, inclusi iracheni e afgani negli Stati dell’UE. Ad agosto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ordinato a Lettonia e Polonia di fornire assistenza a gruppi di richiedenti asilo iracheni e afgani, rispettivamente, bloccati al confine con la Bielorussia, ma si sono riservati per un’udienza piena la questione se dovessero essere ammessi nel loro territorio. - La situazione è peggiorata in modo significativo a novembre, con migliaia di persone in condizioni invernali terribili al confine tra Polonia e Bielorussia e si stima che almeno nove persone siano morte nell’area. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, oltre 103.889 persone sono arrivate irregolarmente ai confini meridionali dell’UE entro la metà di novembre 2021, la maggior parte via mare, mentre almeno 1.319 sono morte o sono scomparse nel Mar Mediterraneo, quasi altrettante (1.401) come in tutto 2020. - I morti nel Mediterraneo. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) stima che 1.563 persone siano morte nel Mediterraneo e che 785 morti o scomparsi nell’Oceano Atlantico durante il loro viaggio verso le Isole Canarie spagnole nei primi otto mesi del 2021. Il bilancio delle vittime potrebbe essere molto più alto; l’Organizzazione Non Governativa (ONG) Walking Borders ha affermato che quasi 2.000 persone sono morte solo nei primi sei mesi. - Libia. L’UE e gli Stati membri hanno continuato a cooperare con la Libia, anche per facilitare le intercettazioni in mare e lo sbarco in Libia, nonostante i noti rischi di detenzione arbitraria, tortura e altri abusi. Almeno 27.551 persone, ben più del doppio del totale per il 2020, sono state sbarcate in Libia nei primi 10 mesi del 2021. Un’indagine delle Nazioni Unite, pubblicata a ottobre, ha affermato che ciò che sta accadendo in Libia si confidura un altro crimine contro l’umanità, aggiungendo che la complicità e quindi la responsabilità di altri Paesi deve essere indagata. Gli ostacoli alle ONG e l’esempio della Danimarca. Lo ha detto in più occasioni il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, rispettivamente a marzo e maggio. L’Unione Europea è stata esortata a condurre attività di ricerca e soccorso nel Mar Mediterraneo, a smettere di ostacolare il lavoro delle Organizzazioni Non Governative di soccorso e a condizionare la cooperazione con la Libia sul rispetto dei diritti umani. A settembre erano operative solo cinque navi di soccorso delle ONG, con gruppi che denunciavano l’ostruzione da parte di Italia e Malta. A giugno, la Danimarca ha modificato la sua legge sull’immigrazione in modo da poter inviare i richiedenti asilo in un altro paese per l’esame della loro domanda, senza alcuna garanzia di trasferimento in Danimarca in caso di esito positivo. L’Unione Africana e Frontex. L’Unione Africana ha condannato fermamente la mossa ad agosto e, ad oggi, nessun paese ha accettato di ospitare l’elaborazione offshore. Un’indagine del Parlamento europeo ha concluso a luglio che l’Agenzia dell’UE della guardia di frontiera e costiera, comunemente nota come Frontex, non è riuscita a prendere provvedimenti per fermare i respingimenti illegali, ignorando le segnalazioni e ritardando deliberatamente gli osservatori dei diritti di assunzione. Nonostante disponga di numerosi meccanismi di responsabilità, Frontex non è riuscita a indagare in modo credibile o a mitigare i respingimenti in cui operavano. Alla fine di ottobre, il Parlamento europeo ha congelato parte del bilancio dell’agenzia fino a quando non apporta miglioramenti relativi ai diritti umani. A settembre la Commissione Europea Discriminazioni sui vaccini e antisemitismo. Un rapporto di giugno dell’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA) dell’UE ha rilevato che in alcuni paesi richiedenti asilo e migranti privi di documenti hanno incontrato difficoltà nell’accesso ai vaccini Covid-19, ma altri Paesi hanno rinunciato a requisiti formali per facilitare l’accesso. In risposta al crescente antisemitismo e agli attacchi agli ebrei in molte parti d’Europa, compreso l’incitamento all’odio online, a settembre la Commissione europea del Consiglio d’Europa contro il razzismo e l’intolleranza ha emesso una raccomandazione di politica generale invitando i paesi europei, compresi gli stati dell’UE, ad affrontare la questione e in ottobre, la Commissione Europea ha pubblicato una strategia per combattere l’antisemitismo. Un’indagine della FRA sulle fermate di polizia nell’UE ha rilevato che le minoranze etniche complessive, i musulmani e coloro che non si identificano come eterosessuali sono stati tra quelli fermati più spesso. Ha inoltre rilevato che coloro che sperimentano la profilazione etnica ripongono meno fiducia nelle autorità pubbliche rispetto a coloro che non lo fanno. La sanzione giornaliera di 1 milione alla Polonia. A ottobre - si legge ancora nel report di HRW la Corte di giustizia dell’UE ha imposto una sanzione giornaliera di 1 milione di euro (circa 1.132.000 dollari USA) alla Polonia per non aver rispettato una richiesta della Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE) di luglio per bloccare una legge del 2020 che minava l’indipendenza dei giudici. A settembre, la Commissione UE ha avviato una procedura di follow-up contro la Polonia per non aver attuato una sentenza separata della CGUE che ha ritenuto illegale il regime disciplinare contro i giudici. A luglio, la commissione ha avviato un altro procedimento legale contro la Polonia per le “zone libere dall’ideologia LGBT” in diversi comuni. Il pronunciamento della Von der Leyen. A ottobre, la presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen ha commentato negativamente la sentenza del Tribunale costituzionale polacco sull’incostituzionalità del diritto dell’UE e si è impegnata a utilizzare tutti i poteri previsti dai trattati per proteggere la natura vincolante delle sentenze della CGUE. La Commissione ha aperto una causa supplementare a febbraio contro l’Ungheria per non aver attuato la sentenza della CGUE del 2020 che riteneva illegale la legge sulle ONG finanziate dall’estero e ha chiesto a novembre che la CGUE ordini sanzioni pecuniarie all’Ungheria per non aver attuato una sentenza della Corte del dicembre 2020, che ha ritenuto illegale la legge sull’asilo. Povertà e disuguaglianza. Stime ufficiali - si afferma nel rapporto di HRW - suggeriscono che 91,4 milioni di persone nell’UE (circa un quinto della popolazione), di cui 17,9 milioni erano bambini, sono a rischio di povertà o esclusione sociale (definita come una condizione di grave deprivazione materiale o sottoccupazione cronica), con livelli di disuguaglianza statica o in peggioramento dalla crisi finanziaria del 2008-2009. La European Food Banks Federation ha stimato a settembre che le sue organizzazioni membri fornivano aiuti alimentari a 12,8 milioni di persone bisognose, un aumento del 34,7% rispetto alla situazione pre-pandemia, evidenziando un forte aumento degli aiuti forniti alle persone che avevano perso il lavoro. Lo sgravio finanziario temporaneo da parte dei governi di molti stati dell’UE ha contribuito in parte a mitigare l’impatto negativo della pandemia di Covid-19 sulla disuguaglianza, che tuttavia si è ampliata. Stati Uniti. Libertà vigilata negata al killer di Robert Kennedy: è in carcere da 53 anni Corriere della Sera, 14 gennaio 2022 La decisione è stata presa dal governatore della California. Sirhan Sirhan assassinò il candidato presidente nel 1968 durante la campagna elettorale. Sirhan Sirhan, l’assassino di Robert Kennedy, resta in carcere. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha negato la concessione della libertà vigilata. Lo riporta la Cnn. La decisione è arrivata nonostante le raccomandazioni del California Parole Board e nonostante i due figli di Kennedy, Robert e Douglas, avessero espresso parere favorevole. Il resto della famiglia Kennedy resta contraria. Sirhan, 77 anni, giordano di origine palestinese, è recluso da 53 anni. Bob Kennedy, fratello di Jfk, fu ucciso nel marzo del ‘68 nella cucina dell’Hotel Ambassador di Los Angeles dopo un evento di campagna elettorale. Sirhan fu inizialmente condannato alla pena di morte, ma questa fu tramutata in ergastolo nel 1972, dopo che la Corte Suprema della California dichiarò incostituzionale la pena capitale. Il governatore Newsom non ha mai nascosto di essere un grande ammiratore della figura di Bob Kennedy, definendolo il suo “eroe politico”. “Dopo decenni di reclusione - ha scritto motivando la sua decisione - il detenuto ha fallito nell’affrontare le mancanze che lo hanno portato ad assassinare il senatore Kennedy. Al signor Sirhan manca quel discernimento che potrebbe evitargli di compiere lo stesso tipo di azioni pericolose del passato”. La Germania condanna all’ergastolo l’ex capo dell’intelligence di Assad di Sebastiano Canetta I Manifesto, 14 gennaio 2022 Giurisdizione universale per i crimini contro l’umanità. Anwar Raslan è accusato di aver partecipato all’omicidio di 58 detenuti e alla tortura di 4mila prigionieri. Condannato in base alla giurisdizione universale che permette alla Germania di processare i crimini contro l’Umanità anche se non commessi da tedeschi o entro i confini nazionali. Ieri il Tribunale di Coblenza ha stabilito il carcere a vita per Anwar Raslan, 58 anni, colonnello dei servizi di intelligence siriani, accusato di avere partecipato all’omicidio di 58 detenuti e alla tortura di almeno 4 mila prigionieri. Una sentenza storica arrivata dopo 108 giorni di processo: per la prima volta una figura di spicco dell’apparato repressivo di Assad viene trascinato alla sbarra di una corte ordinaria grazie al Codice dei crimini contro il Diritto internazionale che la Repubblica federale ha sussunto nel 2002. Ralsan era il capo della famigerata Unità 251 dei servizi segreti di Damasco e responsabile della sicurezza della capitale siriana. Tra l’aprile 2011 e il settembre 2012 si è reso complice di “gravi aggressioni sessuali, brutali percosse, presa di ostaggi e tortura mediante scosse elettriche” come hanno elencato nel dispositivo di condanna i magistrati di Coblenza. Il suo ergastolo segue il giudizio dello scorso febbraio al secondo imputato della stessa causa, Eyad Al Gharib, 44 anni, a cui sono stati comminati 4 anni e mezzo di carcere per “favoreggiamento” di crimini contro l’Umanità nei confronti di almeno 30 persone. In tutto sono 17 i testimoni che con la loro deposizione hanno inchiodato il colonnello Raslan alla propria responsabilità penale, la maggior parte residenti in Germania con lo status di rifugiati dopo essere scappati dalla Siria. A supportarli legalmente nell’aula di Coblenza durante i tre mesi di processo sono stati anzitutto i rappresentanti del Centro europeo per i diritti costituzionali e umani di Berlino, tra cui spicca l’avvocato Wolfgang Kaleck. È stato lui a dar voce a una delle testimoni-chiave che ieri ha festeggiato così la storica sentenza: “Sono arrivata in Germania da profuga nel 2015, come qualcuno senza alcun diritto né garanzie di sicurezza personale. Questo processo mi ridarà finalmente il controllo della vita perché rappresenta l’inizio della presa di coscienza dei crimini seriali commessi da Assad” sono le sintomatiche parole rilanciate dal canale pubblico Deutsche Welle. In più Kaleck ieri ha spiegato bene ai media come funziona la Siria di Assad, esattamente come aveva fatto davanti ai giudici per dimostrare il ruolo del colonnello Raslan in assenza di organigrammi ufficiali, anche se per il torturatore parlavano da sé già le sue firme in calce ai documenti riservati dei servizi di Damasco. “In Siria non c’è lo stato di Diritto e il Paese funziona secondo regole proprie. Tuttavia se qualcuno è a capo di un’unità investigativa coinvolta in gravi torture allora possiamo senza dubbio considerarlo responsabile” ha spiegato l’avvocato specializzato nei diritti umani.Attualmente sono circa una ventina gli alti funzionari del regime siriano al centro delle indagini preliminari dei giudici tedeschi che stanno raccogliendo le prove per il rinvio a giudizio. Il processo a Raslan dunque è solo l’inizio. Etiopia. Nessuna verità sull’uccisione dei tre operatori di Medici Senza Frontiere di Laura Pertici La Repubblica, 14 gennaio 2022 Stavano viaggiando nella regione quando si sono persi i contatti con loro. Il 25 giugno, il loro veicolo è stato ritrovato vuoto e, a pochi metri di distanza, i loro corpi senza vita. “Un pluriomicidio intenzionale”. A più di sei mesi dall’uccisione di tre operatori umanitari nel Tigray, in Etiopia, di Medici Senza Frontiere (Msf) le circostanze dell’attacco e le responsabilità di chi lo ha perpetuato restano poco chiare. Lo scorso 24 giugno Maria Hernandez (35 anni), coordinatrice per l’emergenza nel Tigray, Yohannes Halefom Reda (32 anni), assistente coordinatore, e Tedros Gebremariam Gebremichael (31 anni), autista, stavano viaggiando nella regione quando si sono persi i contatti con loro. Il 25 giugno, il loro veicolo è stato ritrovato vuoto e, a pochi metri di distanza, i loro corpi senza vita. Paula Gil, presidente di Medici Senza Frontiere Spagna, spiega in queste tre domande e risposte quanto è emerso ad oggi sull’attacco e gli sforzi di MSF per arrivare alla verità. Ad oggi quali sono le informazioni in possesso di MSF sulle circostanze dell’uccisione di Maria, Tedros e Yohannes? Negli ultimi 6 mesi abbiamo compiuto ogni sforzo possibile per capire cosa fosse accaduto ai nostri colleghi, relazionandoci continuamente con le parti in conflitto. Si sono svolti numerosi incontri con vari ministri della Repubblica Federale Democratica dell’Etiopia (FDRE - Federal Democratic Republic of Ethiopia) per assicurarci che fossero state avviate delle indagini e che i risultati fossero condivisi con MSF. Abbiamo rivolto le stesse richieste al Fronte di Liberazione del Tigray (TPLF). Inoltre, come procedura interna standard dopo incidenti di sicurezza critici, abbiamo raccolto e analizzato tutte le informazioni in nostro possesso che ci hanno permesso di ricostruire un quadro dettagliato del percorso seguito dal veicolo di MSF, oltre al luogo e all’ora dell’incidente e ad alcuni aspetti pratici di come si è svolto l’attacco. Ciò che fino ad oggi si sa. Quello che sappiamo a oggi, sulla base dei primi risultati di questa analisi interna, è che il 24 giugno María, Tedros e Yohannes si stavano dirigendo sulla strada a sud di Abi Adi per raggiungere alcuni feriti nelle aree colpite dagli intensi combattimenti tra le FDRE, i suoi alleati e il TPLF. Il team di MSF, basato ad Abi Adi, aveva preventivamente ricevuto informazioni sull’esistenza di un alto numero di feriti a Shoate Egum, un villaggio vicino al luogo in cui è avvenuto l’incidente. Poco dopo un’ora dall’inizio del viaggio, il loro veicolo si è fermato. I loro corpi senza vita sono stati successivamente ritrovati a 100-400 metri dall’auto. Le ferite sui loro corpi dimostrano come siano stati colpiti da arma da fuoco a distanza ravvicinata. Un omicidio intenzionale. Non sono stati dunque vittime di fuoco incrociato, ma l’uccisione dei tre operatori umanitari è stata intenzionale, considerando che indossavano vestititi e viaggiavano su un veicolo dove il simbolo di MSF era ben riconoscibile (logo e due bandiere dell’organizzazione). Il veicolo, inoltre, è stato colpito più volte e quasi totalmente bruciato. Cosa chiede MSF alle parti in conflitto per capire meglio la dinamica dell’incidente e per garantire che non si ripeta? Il dialogo è ancora aperto, ma secondo quanto emerso dagli incontri di agosto, novembre e dicembre 2021 con i rappresentanti della FDRE, le indagini sono ancora in corso. MSF ha chiesto anche al FPLT di condurre delle indagini e di condividerne i risultati, ancora non pervenuti. MSF ha condiviso i risultati preliminari della sua indagine interna con la FDRE anche a livello ministeriale. MSF ha chiesto inoltre chiarimenti sulla presenza e il coinvolgimento delle forze armate nel luogo e nel momento dell’incidente. Abbiamo spiegato che questo è un dovere nei confronti delle famiglie delle persone uccise e del nostro staff: dobbiamo fornire loro risposte su quanto accaduto ai loro cari. La stessa richiesta è stata avanzata al FPLT. Le dichiarazioni ostili verso le organizzazioni umanitarie. MSF ha richiesto un canale di comunicazione diretto con le forze armate etiopi e i loro alleati a livello federale e regionale per condividere informazioni sulle strutture e i movimenti medico-umanitari e garantire che le forze armate comprendano e rispettino le attività salvavita svolte dall’organizzazione. Anche se apprezziamo il dialogo costruttivo avuto fino ad oggi con la FDRE, siamo preoccupati per le dichiarazioni pubbliche rivolte contro le organizzazioni umanitarie che hanno avuto un impatto diretto sulle loro attività. In Etiopia, i membri dello staff di MSF sono stati sistematicamente minacciati, picchiati e detenuti. Per soddisfare gli ingenti bisogni medici della popolazione etiope in tutto il paese, abbiamo ribadito il nostro appello affinché la FDRE sostenga pubblicamente il lavoro delle organizzazioni umanitarie, un passo fondamentale per essere accettati dalle comunità e per permetterci di continuare a fornire assistenza medica salvavita in tutto il paese. Che operazioni svolge attualmente MSF in Etiopia? In seguito all’uccisione dei nostri colleghi, abbiamo dovuto prendere la dolorosa decisione di sospendere alcune attività nella regione del Tigray, in particolare nelle città di Abi Adi, Adigrat e Auxum. A luglio 2021 il governo etiope ha sospeso per tre mesi le attività di MSF ad Amhara, Gambella, nel Tigray nord-occidentale (Shire e Sheraro) e nella ragione dei Somali. La sospensione è stata revocata ad ottobre, ma per MSF non è stato possibile riavviare le attività mediche, principalmente per ragioni di sicurezza e a causa di ostacoli amministrativi. La sospenzione delle attività mediche. A novembre, dopo la dichiarazione dello stato d’emergenza in Etiopia, MSF ha dovuto sospendere ulteriori attività mediche in altre parti del paese dove riteniamo che non sia più possibile lavorare in sicurezza. Al momento MSF continua a fornire assistenza medica nella regione degli Afar e nella regione delle Nazioni, Nazionalità e Popoli del Sud (SNNPR), oltre all’invio di forniture mediche ad hoc nelle regioni di Amhara, Gambella e Somali. Gli ingenti bisogno umanitari inascoltati. Ad oggi, nonostante gli ingenti bisogni umanitari in molte regioni del paese, MSF non è ancora in grado di riavviare ed espandere la sua risposta per affrontare queste crisi. Rimaniamo impegnati a collaborare con la FDRE e tutte le altre parti in conflitto, attendendo che sia fatta piena luce sulle responsabilità e le circostanze che hanno portato a queste morti e cercando di raggiungere un accordo comune per fornire in sicurezza assistenza medica imparziale e indispensabile alla popolazione etiope, colpita dal conflitto o da altre crisi, in tutte le regioni del paese. Ucciso Khalid Balti, negoziatore tra talebani pakistani e Islamabad di Emanuele Giordana Il Manifesto, 14 gennaio 2022 Assassinio sulla Durand Line. Ci si domanda a chi possa servire la sua morte in un momento tanto delicato. C’è un giallo nato qualche giorno nella provincia afgana di Nangarhar lungo la Durand Line, la frontiera maledetta tra Pakistan e Afghanistan. Riguarda l’uccisione di uomo che rischia di complicare la già fragilissima trattativa tra i cosiddetti “talebani pachistani” e il governo di Islamabad, in stallo ormai dalla fine della tregua il 9 dicembre scorso. Un giallo e uno stallo cui stanno cercando di rimediare proprio i Talebani con la t maiuscola, i fratelli pashtun che ormai comandano a Kabul (è di lingua pashto la comunità di riferimento dei talebani sia in Afghanistan sia in Pakistan, dove sono chiamati pathan). Il giallo comincia il 10 gennaio quando inizia a circolare la notizia dell’assassinio di Khalid Balti, meglio conosciuto come Mohammad Khorasani e già portavoce del Tehreek-e-Taleban Pakistan (Ttp), cartello di gruppi jihadisti pashtun a geometria variabile. Khalid Balti, che sarebbe stato ucciso da uno sconosciuto almeno il giorno prima, non è un personaggio qualunque: tanto per cominciare, come dice il nome, viene da un’area non pashtun e dove la maggioranza non è omogenea, con un mix di culture religiose tra le più diverse in Pakistan, tra cui sciiti e ismaeliti. Ma l’uomo del Gilgit Baltistan viene probabilmente accettato perché è un mufti, ossia un giurista cui compete anche emanare fatwa, pareri non vincolanti ma di rilievo in materia di sharia. Tra l’altro, benché la regione non sia turbolenta, confina pur sempre con l’Azad Kashmir, zona di guerra e base di attività guerrigliere. Khalid Balti diviene portavoce del Ttp in sostituzione di Shahidullah Shahid (nel 2014 espulso per le sue simpatie con lo Stato islamico e poi ucciso), ruolo in seguito attribuito ad altri. Il 2014 è anche l’anno dell’operazione Zarb e Azb, che l’esercito di Islamabad scatena in giugno nel Waziristan, e Balti se ne deve andare. Passa in Afghanistan da dove svolge un ruolo di coordinamento delle azioni in Pakistan ma presumibilmente anche un lavoro importante di relazioni con i Talebani afgani. Sulla sua morte hanno aperto un’inchiesta sia il governo sia il Ttp (che ieri l’ha confermata e aveva già chiarito che il portavoce attuale, pur sempre con nome de guerre Khorasani, è vivo e vegeto). Non sapendo chi lo ha ucciso ci si domanda a chi possa servire la sua morte in un momento tanto delicato: la trattativa tra Ttp e Islamabad, favorita da Kabul. Non è la prima volta che il Ttp parla col governo ma la trattativa del febbraio 2014 si arena presto. L’operazione Zarb e Azb fa il resto (a luglio ha già creato un milione di sfollati). A sorpresa, nell’ottobre scorso i colloqui riprendono e arrivano a una tregua che scatta l’8 novembre per scadere dopo un mese ma senza essere rinnovata. Le accuse reciproche si sprecano e le armi tornano a cantare. Ma gli artefici del negoziato, i Talebani afgani, non restano con le mani in mano. Per Kabul una tregua tra Ttp e Islamabad significa guadagnare punti e restituire favori. Ma anche controllare un movimento pachistano ancora più eterogeneo di quello afgano, con schegge impazzite alcune delle quali passate allo Stato islamico mentre altre si sono associate al progetto di Al Bagdadi per poi far ritorno nel Ttp. Non è un dietro le quinte: l”inviato di Kabul per il Pakistan, sardar Ahmed Khan Shakib, ha appena dichiarato che i Talebani stanno facendo il possibile per riattivare il tavolo negoziale in uno stallo pericoloso. Della vicenda si occupano commissioni paritetiche dei due governi che, oltre al dialogo col Ttp, hanno sul tavolo anche l’annoso contenzioso sulla frontiera. E sul loro territorio, i Talebani sono stati chiari, non permetteranno santuari esterni che possano mettere in difficoltà Kabul.