Figli di un Dio minore di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 13 gennaio 2022 Leggo con interesse che il Capo Dipartimento nell’audizione alla Commissione Giustizia della Camera auspica che diventi strutturale e organizzata la domanda culturale che sale dalle carceri; mi sembra finalmente un’apertura nei confronti di tanti professionisti quasi sempre impegnati a titolo gratuito negli Istituti del nostro Paese. Ma immediatamente mi accorgo che si parla solo ed esclusivamente di attività teatrale quasi che il teatro sia l’unica forma culturale riconosciuta all’interno delle carceri e questo francamente mi arriva come un pugno nello stomaco. E, a essere sincera, anche come una perturbante stranezza del sistema. Il teatro sì, sempre e comunque ma la lettura no, la scrittura no, la musica no e nemmeno quel faticoso lavoro di redazione, di informazione, di discussione che da molto più di dieci anni conducono testate quali Ristretti Orizzonti di Padova, Carte Bollate di Milano-Bollate, L’Oblò di San Vittore, Spazio di Bergamo... Esclusi anche i percorsi di approfondimento sulla Costituzione, sulle tante professioni religiose presenti nel nostro Paese e all’interno delle carceri o di avvicinamento alla cultura e alla pratica della mediazione. Se non fosse che è vero, sembrerebbe effettivamente un coup de theatre. Tutta l’attività teatrale promossa “a prescindere”, tutto il resto bocciato. Mi sembra una visione molto miope e discriminatoria e mi suscita domande a cui non riesco a dare risposta. Forse perché una risposta chiara non c’è. Oppure ce ne sono tante ma più che risposte potrebbero essere semplicemente altri dubbi. Forse perché l’attività teatrale è più tranquillizzante per un’organizzazione ancora molto verticistica e chiusa come il carcere? Perché ‘l’urlo teatrale’ provoca la catarsi ma non si ferma ad analizzare la realtà? O perché il teatro è una fantastica vetrina per tutti e quindi anche per l’istituzione? Non lo so e non desidero nemmeno entrare in un’odiosa competizione tra professioni e arti che godono di uguale dignità, qualora siano condotte da persone in possesso di serie e comprovate competenze. Questa e soltanto questa mi sembra la linea di demarcazione. Il resto pare davvero un limite culturalmente insostenibile. *Giornalista, responsabile della redazione di Ristretti Parma Quattro suicidi, 1.500 contagi: anno nuovo stesso inferno di Angela Stella Il Riformista, 13 gennaio 2022 Positivi 1.500 reclusi e 1.500 operatori, l’assenza di spazi impedisce di isolare i contagiati, denuncia Antigone. Aumenta pure il sovraffollamento. Il governo valuta la liberazione anticipata speciale. Palma: soluzione giusta. “Da gennaio il carcere sarà la mia priorità” ha detto qualche giorno fa la ministra della giustizia Marta Cartabia. Nell’attesa di capire cosa ne farà delle proposte elaborate dalla Commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo, l’insofferenza verso le criticità che affliggono il carcere aumenta. E non a torto: sono oltre 1.500 i detenuti positivi al Covid-19 negli istituti di pena italiani. “Erano meno di 200 all’inizio di dicembre”, fa sapere Antigone che rileva: “a loro si aggiungono i quasi 1.500 operatori, anch’essi contagiati dal coronavirus. La variante Omicron ha portato ad un’impennata dei contagi anche in carcere, dove la popolazione detenuta non ha ancora ricevuto nella sua interezza la terza dose del vaccino e la cui situazione di salute, in molti casi, non è ottimale a causa di patologie pregresse”. Su questo punto, però, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, vuole trasmettere messaggi non allarmistici: “Ieri (due giorni fa, ndr) i positivi erano 1583, ma con un numero molto basso di sintomatici pari a 31 detenuti. Questi dati ci fanno guardare con meno preoccupazione alla situazione. Ma va detta un’altra cosa: l’andamento del contagio che si registra all’esterno si verifica in carcere con un leggero ritardo. Quindi dovremmo attenderci un innalzamento nei prossimi giorni”. A questo quadro, tuttavia, si aggiungono le informazioni che arrivano da alcuni istituti dove, per quanto rileva sempre Antigone, “pare sia saltata la possibilità di separare positivi e negativi per l’assenza di spazi dove spostare proprio chi risulta contagiato. Inoltre, in altri casi, pare che le direzioni abbiano smesso di fornire mascherine nuove ai reclusi”. Insieme all’emergenza sanitaria c’è sempre quella relativa al sovraffollamento: “dopo il calo registrato allo scoppio della pandemia - si legge sempre in una nota di Antigone - la popolazione detenuta ha ripreso lentamente a salire fino a tornare stabilmente sopra i 54.000 reclusi, a fronte di una capienza ufficiale di 50.000 posti (ma quella effettiva sappiamo essere inferiore per via di reparti chiusi o in ristrutturazione). “Il quadro che ci offre questo inizio di 2022 - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - non è dei migliori. Per questo è importante prevedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Bisogna fare in modo che ciò avvenga”. Per Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, “la situazione è gravissima e, purtroppo, l’approccio del Governo al problema continua a essere del tutto inefficace e inadeguato. A fronte di focolai di vastissime proporzioni, cercare di contrastare il virus e le sue nuove varianti con un protocollo di sicurezza sanitario dell’ottobre 2020 e con 6.000 (leggasi seimila!) mascherine FFP2 è velleitario, pericoloso e persino sconsiderato”. Inoltre dall’inizio dell’anno - come riporta Ristretti Orizzonti - vanno segnalati anche quattro suicidi: a Salerno, Vibo Valentia, Foggia, Brindisi. A Napoli è morto, dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, un detenuto che aveva subìto percosse dal compagno di cella, mentre a Sanremo è morto un detenuto, già affetto da tubercolosi, che il mese scorso aveva incendiato il materasso, ustionandosi e intossicandosi gravemente. “La questione dei suicidi mi preoccupa di più - ci dice ancora Mauro Palma - perché in qualche modo, e non per responsabilità soggettive, sono anche il prodotto di un profondo stato d’ansia. Quella che abbiamo tutti noi si proietta maggiormente all’interno del carcere. Il ragazzo che si è suicidato oggi (ieri, ndr) a Brindisi era entrato alle 21 e si è suicidato alle 5. Questa idea di essere caduti in un baratro va allontanata. Non vedo più tanto dei suicidi da parte di reclusi di lunga detenzione ma suicidi espressione di debolezza soggettiva rispetto ad una situazione oggettivamente difficile che è quella degli istituti di pena, resa ancor più complessa dalla situazione del carcere in questo preciso momento”. Ed è proprio per questa situazione drammatica che la radicale Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, dal 10 gennaio è di nuovo in sciopero della fame, dopo aver interrotto il precedente di venticinque giorni il 30 dicembre: “Non è solo questione di pandemia: le condizioni di detenzione nel nostro Paese sono fuorilegge da sempre. Marco Pannella si è battuto per una vita e ci esortava “a non distrarci nemmeno un giorno”. La pandemia ha aggravato all’inverosimile una situazione già fortemente compromessa dal punto di vista del rispetto dei principi costituzionali. E c’è sempre il furbo di turno che solennemente afferma “occorre costruire nuove carceri per assicurare condizioni di vita dignitose”; poi c’è il più furbo di tutti, Nicola Gratteri, che dice “bastano 4 carceri da cinquemila posti!”. Ma questi furbissimi lo sanno che, già oggi, non ci sono i direttori, gli educatori, gli agenti, gli assistenti sociali, gli amministrativi, i magistrati di sorveglianza? Chi ci mettono a lavorare nelle nuove fantomatiche carceri da costruire?”. Il riferimento è anche a quello che ha detto ieri il presidente di Fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida a margine del Convegno sulla Giustizia promosso da FdI, commentando lo sciopero della fame di Bernardini: se è vero che “le proteste sulle condizioni carcerarie sono corrette” però “non è condivisibile liberare i detenuti perché le carceri sono strapiene. Nelle carceri si deve stare in condizioni dignitose, vanno costruite nuove carceri per ospitare più persone e in modo adeguato”. Nonostante sia sotto di 7 chili e non abbia recuperato ancora le forze Bernardini va dunque avanti con la sua iniziativa nonviolenta “soprattutto per me stessa perché mi aiuta a concentrarmi sul fenomeno, devastante per una democrazia, della violazione dei diritti umani in luoghi privativi della libertà. E, oggi, con una ragione di speranza in più: il dialogo mai interrotto sia con la ministra della Giustizia Marta Cartabia, sia con il nuovo capo del Dap Bernardo Petralia”. Intanto la buona notizia è che “il Ministero sta valutando con particolare attenzione le proposte di legge sul tema della liberazione anticipata speciale” aveva detto due giorni fa a Radio Uno Rai, il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Su tale soluzione è d’accordo anche il garante Palma: “Io ero stato promotore della liberazione anticipata speciale quando presiedevo la commissione istituita per rispondere alla sentenza Torreggiani: se allora rappresentava uno strumento per la secca diminuzione dei numeri dei reclusi, oggi è anche altro, ossia il riconoscimento della maggiore penalità che è data dall’essere in carcere in queste condizioni. Una giornata di pena scontata in queste condizioni, in un certo senso, ha un surplus di penalità maggiore che non una giornata di pena in condizioni normali”. Critiche arrivano anche dall’avvocato Gianpaolo Catanzariti, co-responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle camere Penali: “Siamo costretti a registrare, ancora una volta, l’ignavia della politica dinanzi all’emergenza carcere, un magma pronto ad esplodere con gravi conseguenze per tutti. Avere lasciato al caso la quotidianità penitenziaria credo sia stato l’ennesimo imperdonabile errore. Il tempo delle riflessioni, degli studi, delle elaborazioni è finito da un pezzo. L’abbandono fragoroso del carcere di Torino da parte della direttrice pro tempore e i 4 detenuti suicidi rappresentano l’ennesimo segnale di una disperata “fuga per la dignità”“. Il penalista si riferisce al fatto che ieri Rosalia Marino, direttore reggente della casa circondariale Lorusso e Cutugno del capoluogo piemontese, ha lasciato la direzione del penitenziario non senza polemiche: “Non ci sono più le condizioni per andare avanti - ha detto la Marino a Repubblica - Quando ho letto del carcere di Torino come “il peggiore di tutta Italia, il carcere della vergogna”, mi sarei aspettata un moto di indignazione, di rabbia, una qualsiasi reazione da parte di coloro che vivono e lavorano in questo carcere da anni, anche e soprattutto dopo i gravi fatti che continuano a ferire questo istituto e l’intera amministrazione. Ma questo non è accaduto e ho capito che il mio lavoro a Torino era finito. Ero davvero da sola”. Per tutto questo, conclude Catanzariti: “è il momento di agire. Le dichiarate attenzioni della ministra Cartabia sul dossier “carceri” dimostrano, ancora una volta, che la direttrice di marcia intrapresa nel recente passato è stata del tutto errata. Timidi segnali di pentimento delle forze politiche si intravedono all’orizzonte. Ma adesso è il momento della collaborazione “utile e rilevante” da parte di tutti, a partire dalle maggiori forze presenti in Parlamento. Occorre adottare misure urgenti e necessarie ancor prima che inizino le operazioni di voto per l’elezione del nuovo Capo dello Stato. Svuotare immediatamente le carceri e potenziare presidi a tutela della salute di operatori e detenuti è la vera priorità democratica di inizio anno. Basta volerlo!”. Un altro suicidio in carcere, tra Covid e sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2022 Non si arrestano i contagi in carcere, ma nemmeno i suicidi. Ieri mattina, un detenuto ventiduenne di origine marocchina si è suicidato nel carcere di Brindisi: l’uomo è stato trovato senza vita dalla Polizia penitenziaria. Era stato arrestato ieri per resistenza a pubblico ufficiale. Si è suicidato in cella, ed era isolato secondo il protocollo Covid. A rendere noto il fatto è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa penitenziaria, sottolineando che ci sono stati nei primi 12 giorni dell’anno 4 detenuti morti per suicidio e uno a seguito di un’aggressione subita in cella. “Se le circostanze non fossero tragiche, aggiungendo tre evasi - dichiara duramente il sindacalista - ci sarebbe da chiedersi se dal governo non abbiano per caso pensato di risolvere così il sovraffollamento e l’emergenza penitenziaria. Il sistema è allo sbando e la politica ha la responsabilità morale di ogni vittima. La ministra Cartabia - conclude De Fazio - assicura attenzione e priorità, noi continuiamo a vedere solo trascuratezza e pressapochismo”. La questione è seria da sotto tutti i punti di vista. Seppur solo il 2 percento degli infettati dal Covid presentano sintomi, il contagio in carcere ha subito una impennata da record. L’associazione Antigone ricorda che a dicembre erano meno di 200, ma ora sono oltre 1.500 i detenuti positivi al Covid-19 negli istituti di pena italiani. La variante Omicron ha portato a un’impennata dei contagi anche in carcere, dove la popolazione detenuta - denuncia Antigone - “non ha ancora ricevuto nella sua interezza la terza dose del vaccino (va ricordato che i detenuti, alla partenza della campagna vaccinale furono inseriti tra le categorie prioritarie) e la cui situazione di salute, in molti casi, non è ottimale a causa di patologie pregresse”. A questo quadro si aggiungono le informazioni che arrivano da alcuni istituti, dove pare sia saltata la possibilità di separare positivi e negativi per l’assenza di spazi dove spostare proprio chi risulta contagiato. Inoltre, altra notizia riportata da Antigone, in altri casi, pare che le direzioni abbiano smesso di fornire mascherine nuove ai reclusi. Il contagio aumenta con l’aumentare del sovraffollamento. La preoccupazione, anche a fronte di un numero di persone ristrette che, dopo il calo registrato allo scoppio della pandemia, ha ripreso lentamente a salire fino a tornare stabilmente sopra i 54.000 reclusi, a fronte di una capienza di 50.000 posti. Numeri ufficiali, ma la capienza effettiva è inferiore per via di reparti chiusi o in ristrutturazione. “Il quadro che ci offre questo inizio di 2022 - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - non è dei migliori. Per questo è importante prevedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Bisogna fare in modo che ciò avvenga”. Per il presidente di Antigone “è importante accelerare sulla strada delle riforme. Molte cose si possono fare anche senza passare dalla via legislativa, ma attraverso una modifica del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Una strada che ha suggerito anche la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal professor Marco Ruotolo. Proprio sul piano delle riforme accogliamo con favore - conclude Gonnella - le parole pronunciate lunedì dalla ministra Marta Cartabia, la quale ha posto gli interventi sul carcere tra le priorità”. Ricordiamo che Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, ha ripreso lo sciopero della fame a partire dal 10 gennaio scorso per aiutare governo e Parlamento a far presto per ridurre la “congestione” di corpi nelle carceri italiane. Come ha ricordato Mario Barbaro, membro della segreteria del Partito Radicale e del Consiglio direttivo di Nessuno Tocchi Caino, Marco Pannella sosteneva che “laddove c’è strage di diritto c’è strage di persone”. Le nostre carceri, di fatto, sono incostituzionali. Per far fronte al sovraffollamento, soprattutto in questo periodo emergenziale, Bernardini chiede l’approvazione di un decreto dove venga contemplata la liberazione speciale anticipata proposta da un emendamento a firma dell’onorevole Roberto Giachetti. Sulle pagine de Il Dubbio il deputato del Pd Walter Verini si è detto favorevole all’approvazione e durante la trasmissione di Radio 1 Rai ‘Che giorno è’, il sottosegretario alla giustizia Francesco Paolo Sisto ha rivelato che la ministra Cartabia lo starebbe valutando. Ma il tempo passa, e si rischia ancora una volta di perdere l’ennesima occasione come ai tempi dell’allora guardasigilli Andrea Orlando. La retorica carceraria del governo e i “vitelli da abbattere” di Ascanio Celestini Il Manifesto, 13 gennaio 2022 Santa Maria Capua Vetere. Le accuse sono di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. L’udienza preliminare a tappe è cominciata a dicembre, proseguita l’altro ieri e rimandata al 25 gennaio. Ma la domanda che mi faccio non è se avremo giustizia. Mi chiedo se i macellai che vanno ad abbattere i vitelli sono mele marce o un esercito che combatte in prima linea. Vorrei parlare delle immagini televisive di Draghi e Cartabia che arrivano nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a riportare ordine e democrazia nell’ennesima macelleria messicana. La repressione violenta dei secondini risale all’aprile del 2020, ma le immagini riprese dalle telecamere interne cominciano a circolare molti mesi dopo. Lo scandalo finisce in tv, sui giornali, fluisce nei social. Così mi viene in mente un articolo scritto da Pier Paolo Pasolini sessant’anni fa dopo la strage di Reggio Emilia. Il 7 luglio del 1960 le forze dell’ordine ammazzano 5 manifestanti. C’è una registrazione fatta quel giorno. Si sentono i lacrimogeni e i colpi di arma da fuoco. “Spero che nessun registratore serva mai più a stampare dischi come questo” scrive Pasolini alla fine di agosto di quell’anno e si stupisce della “freddezza organizzata e quasi meccanica con cui la polizia ha sparato”. Ha “la sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una polizia italiana”, ma “due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti”. Cioè che le forze dell’ordine agiscano “quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia”. Il mondo dei ristretti sta a quello dei cittadini liberi come una terra africana al civile paese europeo che l’ha occupata militarmente. In quella colonia vengono spediti i cittadini ingestibili. Le pecore nere per le quali non c’è tempo da perdere per riportarle nel gregge. Tossici che diventano spacciatori o ladri; stranieri che non hanno il privilegio di una cittadinanza vera; recidivi di tutte le razze; vittime di un groviglio di errori e crimini commessi da un genitore, un compare, un giudice, un avvocato, da loro stessi e da tutti insieme. I viaggiatori democratici sono accolti dal direttore del carcere che è una donna bionda con un bel vestito a fiori e una mascherina rosa. La mascherina che reclamavano anche i detenuti lasciati nel patologico sovraffollamento carcerario italiano. Li accoglie a nome di tutto il personale “e in particolare a nome della polizia penitenziaria” dice. Un minuto dopo entra in scena il Presidente del Consiglio. Comincia con una frase che pare scritta per finire copiata su tutti i giornali. “Non siamo qui a celebrare trionfi, ma a affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte”. Cita l’articolo 27 e i diritti universali. Ricorda le condanne pecuniarie della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In fondo è un uomo che si occupa di soldi! Poi ringrazia il “corpo della polizia penitenziaria nel suo complesso” e se ne va. Un signore anziano in borghese, anche lui con la mascherina ben calzata, igienizza i microfoni, arriva la ministra e saluta le autorità, la direttrice, il comandante e il personale. Saluta anche i detenuti “con un particolare pensiero a tutti coloro che in questo luogo hanno subito atti di ingiustificabili violenze e umiliazioni”. “Occorre aver visto” dice scandendo le parole. Poi ricorda che nel PNRR ci sono i soldi per l’edilizia carceraria, per un padiglione anche a Santa Maria Capua Vetere. Ma ricorda pure che “la pena non è solo carcere” e infine che bisogna assumere nuovo personale. Servono “più fondi e più impegno per la formazione permanente”. Investire più quattrini per la polizia che “svolge un compito complessissimo dentro il carcere e la sua attività non è del tutto conosciuta all’esterno” perché oltre alla custodia deve “accompagnare il detenuto nel percorso di rieducazione”. Come si fa a cominciare con un particolare pensiero ai detenuti che “hanno subito atti di ingiustificabili violenze e umiliazioni” e poi chiudere con un elogio alla polizia che svolge una attività non “del tutto conosciuta all’esterno”? È proprio per quell’attività che la ministra e il Presidente sono venuti in visita. Proprio perché l’abbiamo conosciuta all’esterno. In Parlamento la Cartabia aveva detto che le immagini video di Santa Maria ricordavano i “fatti di violenza altrettanto inaudita” del G8 di Genova. Perché c’era bisogno di riportare il discorso sulla retorica dell’edilizia carceraria, delle pene rieducative e, dunque, delle mele marce? Perché i due eleganti viaggiatori terminano il loro viaggio nella pittoresca colonia e se ne tornano nel salotto del civile paese europeo. Mentre la truppa d’occupazione resta nel fortino e domani tornerà in trincea. I secondini stanno in prima linea. Quando scrivono i loro messaggini sono più espliciti del Presidente, della Ministra e dei loro ghostwriters. Luigi Romano ha raccolto questa storia in “La settimana santa” pubblicato da Napoli Monitor. Le frasi delle guardie sono prive di retorica. “U tiemp re buoni azioni è fernut”. E uno aggiunge: vi aspettiamo giù in trincea. E poi Li abbattiamo come vitelli. Oppure Arrivano i lupi. Un detenuto si prende un calcio in faccia. Sei l’antistato, sei un uomo di merda, dovete ringraziare la Madonna se siete ancora vivi. Andrei a prendere la pistola e ti sparerei in bocca. Le accuse sono di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine. L’udienza preliminare a tappe è cominciata a dicembre, proseguita l’altro ieri e rimandata al 25 gennaio. Ma la domanda che mi faccio non è se avremo giustizia. Mi chiedo se i macellai che vanno ad abbattere i vitelli sono mele marce o un esercito che combatte in prima linea. “Occorre aver visto” dice Marta Cartabia e sembra dire che non ne sapeva niente come i generali che seguono la guerra muovendo il dito sulla carta geografica, ma non conoscono le marocchinate della soldatesca. E mentre Draghi si preoccupa delle multe da pagare per il sovraffollamento, infine, io mi chiedo: il carcere è un luogo di rieducazione o uno stato straniero da sottomettere? Lo sanno tutti che in guerra ci si va per vincerla e non per rieducare civilmente il nemico. I soldati che accarezzano i bambini stanno solo nelle parate. “Nelle carceri italiane mancano 4 mila agenti, aumentano tensioni ed evasioni” di Edoardo Izzo La Stampa, 13 gennaio 2022 Altro allarme rappresentato dal Covid: “Ci sono Penitenziari con 20 o 30 agenti a casa perché non possono lavorare”. È sempre più emergenza nelle carceri italiane dove, anche a causa della pandemia da Covid-19, gli agenti sono sempre meno e i detenuti crescono sempre di più. Questo crea problemi di gestione e aumenta il rischio di evasioni. “Dovremmo essere 41 mila agenti in servizio - già ridotto dai 44 mila iniziali dopo la legge Madia - ma siamo 36 mila e 500. Troppo pochi e il Covid ci ha dato il colpo di grazia”, spiega a La Stampa Giovanni Battista Durante, segretario aggiunto del Sappe, il sindacato della Polizia Penitenziaria. E già perché il Sars-Cov2 che, nell’inverno passato ha ucciso diversi agenti, quest’anno - grazie alla campagna vaccinale - è sì meno mortale, ma costringe all’isolamento. “Noi abbiamo periodi di picchi del Covid con oltre 1000 agenti in isolamento perché positivi al tampone. Ci sono Penitenziari con 20 o 30 agenti a casa perché non possono lavorare. I detenuti così sono sempre in maggioranza”, riflette il sindacalista. Ma anche la metodologia, a parere della Penitenziaria, non favorisce il controllo. “Ora c’è la vigilanza da remoto e dinamica - dice Durante -, con detenuti che per 8, 12 ore al giorno non sono in cella, ma nei corridoi. Così è più semplice perdere il controllo”. E anche per questo alle volte alcuni detenuti, sfruttando la situazione, riescono ad evadere. Sono 5 infatti le evasioni avvenute nel 2021 in Italia: riguardano 7 detenuti, tutti riarrestati successivamente. E il 2022 non è partito meglio. Gli ultimi episodi sono avvenuti nei giorni scorsi. Florin Mocian, rumeno di 22 anni, e Hassin Kilifi, marocchino 40enne nato a Marrakech, considerato a rischio di affiliazione terroristica, sono evasi ieri dal carcere di Avellino e sono oggi ricercati da tutte le forze dell’ordine. Un terzo detenuto, un 45enne di origine albanese, è stato catturato invece dai carabinieri in collaborazione con la Polizia Penitenziaria mentre tentava di allontanarsi dal carcere. Ad Avellino, nel 2012 ci fu un’altra evasione dal carcere, ma i quattro detenuti vennero subito acciuffati. Cosi come nel capoluogo irpino un tentativo, da parte di due rumeni, non riuscito, si è registrato anche nel giugno 2020. Insomma le evasioni nel nostro paese sono sempre di moda. E solo alcune fanno notizia anche per le modalità che sono state utilizzate, per poter essere messe in atto. Ad esempio nel 2018 due detenuti italiani fuggirono da Rebibbia seguendo il copione della disneyana Banda Bassotti cioè tagliando le sbarre della finestra della cella e calando poi con le lenzuola annodate. A Vercelli li hanno imitati nei giorni scorsi. Secondo quanto fa sapere il Sappe, due detenuti albanesi, con fine pena 2029 perché riconosciuti responsabili di rapina nelle ville del Casallese e Vercellese, “si sono calati dalla cella e si sono recati nel perimetro interno del carcere. Si sono poi arrampicati sul muro di cinta e, aiutati da un complice che ha lanciato loro delle corde, si sono calati dal muro ma uno dei due è caduto, rompendosi un braccio, ed è stato bloccato dagli agenti mentre l’altro è riuscito a fuggire con l’aiuto proprio del complice”. Si tratta di episodi particolari, di cui la cronaca ha parlato molto e che hanno colpito l’opinione pubblica. E suscita sempre un certo scalpore quando evadono delinquenti che sono ritenuti pericolosi, ad esempio dei killer. Scrive il giornale della Polizia Penitenziaria: “Ci si chiede se il tutto sia da imputare a delle falle nel sistema di sicurezza oppure se veramente questi detenuti sono così organizzati, da riuscire a mettere a punto, in modo illecito, la riconquista della libertà”. Preoccupanti e più frequenti i disordini nelle carceri. A Marassi: un agente è stato preso a sputi in faccia da un detenuto affetto da epatite mentre un altro carcerato distruggeva letteralmente la propria cella sradicandone il termosifone. Commenta sul quotidiano online FarodiRoma Fabio Pagani, segretario regionale della Uilpp, che coglie l’occasione per chiedere provvedimenti urgenti per una situazione che sembra essere sempre di più fuori controllo: “Il collega preso a sputi è stato portato d’urgenza al pronto soccorso, aspettiamo di sapere se è rimasto contagiato, abbiamo perso il conto dei poliziotti della penitenziaria rimasti feriti. Un quadro preoccupante fatto da scelte sbagliate da parte dei vertici. Auspichiamo che vengano presi immediati provvedimenti nei confronti dei detenuti violenti, oltre al trasferimento in altro carcere, in attesa che, come previsto da una recente circolare del Ministero di Grazia e Giustizia l’istituzione di sezioni per detenuti pericolosi”. Attività teatrali in carcere, arriva anche il sostegno del Garante nazionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2022 Non solo il capo del Dap Bernardo Petralia, ma anche il Garante Nazionale delle persone private della libertà sostiene la proposta di legge, a firma del deputato Raffaele Bruno di M5S, per il sostegno della attività teatrali in carcere. Il presidente Mauro Palma lo fa con un suo lungo articolo apparso sul sito del Garante. Ripercorrendo la sua esperienza internazionale come Presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e anche, nel 2013, come protagonista diretto nel formulare la strategia nazionale per rispondere a quanto richiesto dalla sentenza pilota Torreggiani della Corte europea, ha potuto constatare che l’esperienza teatrale diffusa in molti Istituti penitenziari è stata sempre presentata e apprezzata come elemento di forza e punto di valore del nostro sistema. “In effetti - scrive Mauro Palma -, già numericamente emerge l’importanza di questa esperienza, ormai sedimentata e chiede di essere maggiormente supportata fino a divenire una delle modalità specifiche in cui si articola l’esecuzione penale. Ciò proprio per il valore che questa esperienza porta nella riscoperta di ciò che più volte ho definito il proprio “sé” culturale che è componente essenziale per quella consapevolezza che è condizione necessaria per un ritorno positivo alla società”. Mauro Palma ricorda che più volte è stata ribadita, in Commissioni specifiche sulla pena detentiva e sulla sua esecuzione, la necessità di lavorare per una riscoperta - o in alcuni casi scoperta - di una triplice dimensione del proprio “sé”. C’è la necessità di guardare alle attività sportive non come modo di spendere energie e impiegare tempo, “ma anche per riscoprire le proprie possibilità, delle regole necessarie e anche di quelle regole che riguardano la propria efficienza fisica”. Poi c’è la dimensione della propria soggettività espressiva e, quindi, culturale, di cui “ciascuno è portatore e che riguarda la lettura, la musica, la produzione scritta e l’espressione scenica intesa come momento di riflessione di sé stesso in altro e di aiuto dello ‘specchio’ come modo di guardarsi”. Secondo Palma, queste attività non possono essere viste solo come ‘ aggiuntive’ e, come tale, “destinatarie di un’attenzione ancillare, bensì devono costituire un asse fondamentale del progetto di rieducazione personale e sociale che la Costituzione richiede come finalità ineludibile di ogni pena”. Poi c’è la terza direzione, più classica e riconosciuta ed è quella che riguarda l’istruzione e la formazione professionale. “Ferma restando la positività di questa terza direzione - prosegue Palma- colpisce la disattenzione che spesso l’Amministrazione dell’esecuzione penale ha mostrato verso le altre due, considerandole come attività positive, ma aggiuntive e non meritevoli, quindi, di una strutturazione stabile e un riconoscimento effettivo all’interno del percorso detentivo”. Secondo il Garante, l’attività teatrale incide proprio sulle prime due direzioni. Quello di Mauro Palma è un lungo articolo pieno di rilevanti considerazioni. Tutte vertono in un pieno appoggio all’iniziativa legislativa che il Parlamento sta discutendo e aprono alla speranza di una sua approvazione. Giustizia da ridefinire di Michele Damiani Italia Oggi, 13 gennaio 2022 Una circolare dedicata all’obbligo di green pass per gli avvocati e un’altra relativa all’applicazione dello smart working, con circa 20.000 computer dedicati a chi dovrà operare in lavoro agile. I due provvedimenti saranno emanati a breve dal Ministero della giustizia, anche per venire incontro alle difficoltà di interpretazione della nuova norma già lamentate dalla categoria degli avvocati. Entro questa settimana, inoltre, saranno pubblicate le graduatorie relative alle procedure di assunzione degli addetti all’ufficio per il processo, con la presa di possesso che avverrà entro il mese di febbraio. A comunicare le prossime mosse del dicastero guidato da Marta Cartabia sono i tre sindacati confederali, che l’11 gennaio hanno incontrato il capo dipartimento del ministero. “Preliminarmente”, si legge nella nota congiunta di Cgil, Cisl e Uil diffusa a commento dell’incontro, “il capo dipartimento ha preannunciato la imminente emanazione di due circolari: una è relativa all’applicazione dello smart working alla luce della recrudescenza della pandemia; una seconda riguarda invece l’applicazione del dl 1/22 che, all’articolo 3, ha esteso l’obbligo del possesso del green pass anche ai difensori, ai consulenti, ai periti e agli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia”. Con riferimento allo smart working, come accennato, il capo dipartimento ha dichiarato che sono disponibili circa 20.000 pc “i quali, ad eccezione di 2250 che saranno assegnati agli addetti all’ufficio per il processo di prossima assunzione, sono riservati ai lavoratori che saranno collocati in smart working”. Tra gli argomenti trattati durante l’incontro anche l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, con le anticipazioni anche per quanto riguarda le assunzioni per l’ufficio del processo: “in materia di Pnrr”, si legge ancora nella nota, “ed in particolare in tema di ufficio per il processo, il capo dipartimento e il direttore generale del personale hanno precisato che entro questa settimana saranno pubblicate le graduatorie relative alle procedure di assunzione degli addetti all’ufficio per il processo e che la presa di possesso avverrà entro il prossimo mese di febbraio”. I primi ad essere assunti saranno gli addetti assegnati alla Corte di cassazione. Precisazioni anche in merito al ruolo degli assunti: “non tutti”, fanno sapere ancora le sigle confederali, “saranno chiamati a svolgere un’attività esclusivamente di studio dei fascicoli ma, secondo le esigenze dell’ufficio e su richiesta della dirigenza, potranno svolgere tutte le attività comprese quelle pre e post udienza e la stessa assistenza all’udienza”. In merito agli altri interventi sulla giustizia presenti nel Pnrr, dalla digitalizzazione all’edilizia giudiziaria, il capo dipartimento ha prima “menzionato l’assunzione dei 5.410 amministrativi a tempo determinato, i cui bandi saranno pubblicati a partire dalla prossima primavera”, per poi “manifestare l’interesse dell’amministrazione a stabilizzare tali lavoratori entro il 2026 assieme agli addetti all’ufficio per il processo”. I tanti dossier sulla giustizia aperti porteranno al ripetersi dell’incontro avvenuto l’11 gennaio: “la riunione”, concludono le tre sigle sindacali confederali, “è stata rinviata ad un prossimo incontro che si terrà dopo l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ossia verosimilmente verso la fine del mese di gennaio”. “Caro Pignatone, per velocizzare i processi aboliamo l’appello dei pm” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 gennaio 2022 La replica dell’avvocatura all’ex procuratore di Roma, che si era scagliato contro i troppi legali cassazionisti chiedendo la possibilità della reformatio in peius. Il già procuratore della Repubblica di Roma, e attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone, dalle pagine de La Stampa esprime sostanzialmente quattro concetti che vanno nella direzione di voler limitare i principi cardine del giusto processo. Vediamoli: “1. Sui tempi lunghi della giustizia incide in modo altrettanto significativo la scelta (del tutto politica) di mantenere nel nostro ordinamento, nonostante l’adozione del rito accusatorio, tre gradi di giudizio; 2. In Francia e in Germania, solo per fare un esempio, gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all’estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata; 3. Conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità); 4. Quanto all’appello, ci sono Paesi come la Francia che prevedono la reformatio in peius cioè la possibilità che il giudice, se rigetta l’appello, possa aumentare la pena inflitta in primo grado: il che impone una certa prudenza nell’impugnazione. Quando si è proposto questo correttivo in Italia si è gridato allo scandalo”. A replicare a Pignatone ci pensa il professor Paolo Ferrua, emerito di diritto processuale penale presso l’Università di Torino: “Il ricorso in Cassazione contro ogni sentenza è garantito dall’art. 111 ultimo comma della Costituzione. Quanto all’appello, quello del pubblico ministero può essere tranquillamente abolito, non essendo tutelato né dalla Costituzione né dalle fonti sovranazionali. Si risolverebbe così l’anomalia della condanna pronunciata per la prima volta in appello, mentre il ricorso in Cassazione sarebbe sufficiente a rimediare ad ogni grave ingiustizia nell’assoluzione. L’appello dell’imputato non può, invece, essere soppresso, perché l’art. 14 comma 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici garantisce ad ogni condannato il diritto al “riesame” della colpevolezza e il ricorso in Cassazione è strutturalmente inidoneo ad assicurare un riesame della colpevolezza”. Quanto al divieto della riforma in peggio, “è vero - conclude Ferrua - che la Costituzione non impedirebbe formalmente la sua eliminazione. Tuttavia, la ritengo del tutto inopportuna perché si risolverebbe in un effetto gravemente intimidatorio per il condannato; tale da indurlo a rinunciare ad esercitare il suo diritto, soprattutto nei frequenti casi complessi o “difficili”, nei quali sono ipotizzabili diverse soluzioni in fatto o in diritto. Equità vuole che proprio in tali casi prevalga, nel dubbio, la soluzione più favorevole all’imputato; il divieto della riforma in peggio corrisponde puntualmente a questa esigenza”. Contraria alle affermazioni del magistrato anche la vice presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, l’avvocato Paola Rubini: “Un processo senza garanzie, quale quello senza più appello e Cassazione, per definizione non sarebbe un giusto processo. Pensiamo, ad esempio, agli errori giudiziari: le statistiche sono drammatiche. Se non avessimo avuto il secondo grado di giudizio, Enzo Tortora sarebbe un condannato definitivo, seppur innocente. In più, se non ci fosse la possibilità del ricorso per Cassazione, anche con due precedenti sentenze conformi di condanna, non avremmo gli annullamenti con rinvio, con successive assoluzioni. Più gradi di giudizio servono a garantire una maggiore ponderazione delle sentenze, che equivale ad avvicinarsi il più possibile alla decisione più corretta, a quella che si chiama giustizia più giusta. Avere la possibilità di più gradi di giudizio significa ridurre il rischio di errore giudiziario. Sono quindi delle garanzie di giustizia irrinunciabili non per i singoli difensori ma per l’intera collettività. In definitiva quella di Pignatone a me pare una prospettiva distorta, una rinuncia alla giustizia con la “g” maiuscola. Le garanzie dei cittadini non possono soccombere all’efficientismo”. Per quanto riguarda il divieto di reformatio in peius, “è un falso problema che è stato superato dal nostro legislatore. Fino al 2018 il pubblico ministero poteva proporre appello incidentale per superare il divieto; con la riforma Orlando questa possibilità è venuta meno ma è rimasta comunque quella di impugnare la sentenza di primo grado, con la medesima conseguenza ossia di fare cadere il divieto. In questa cornice, se l’imputato fa appello la domanda può essere accolta o respinta. Tuttavia faccio notare che se c’è un’alta percentuale di sentenze di primo grado che vengono riformate significa che i motivi di appello sono fondati”. Per tutto il resto, “ritengo che non sia una obiezione costruttiva quella di dire che ci sono troppi avvocati che, in più, puntano alla prescrizione: sappiamo tutti che la prescrizione è stata oggetto di riforma e sappiamo anche che in Cassazione il paracadute utilizzato è quello della manifesta infondatezza dei motivi che rende inoperante la prescrizione”. Anche per l’avvocato Giovanna Ollà, coordinatrice della Commissione diritto penale e procedura penale del Cnf, “quelle sollevate da Pignatone sono critiche già smentite nei fatti e nelle statistiche da diverso tempo. È una favola quella per cui sono gli avvocati a portare a prescrizione i processi: l’impedimento del legale e dell’imputato sono sospensivi del corso della prescrizione. Inoltre, secondo gli ultimi rapporti Eurispes, i rinvii delle udienze non sono imputabili a noi, ma a gravissime carenze strutturali della macchina giudiziaria, quali i difetti di notifica”. In aggiunta, “non capisco - prosegue Ollà - perché il fatto che ci sia un numero ristretto di abilitati in Cassazione dovrebbe portare ad una riduzione dei ricorsi. Comunque da un po’ è stata introdotta la riforma per cui per essere abilitati in Cassazione occorre superare un esame piuttosto significativo”. Infine, “il criterio di prudenza invocato da Pignatone in tema di reformatio in peius rischia di diventare il criterio della paura. Ciò altera anche il principio di accertamento della verità: o ci crediamo nel giudizio di appello o non ci crediamo”. “Contrada si trova processato per fatti gravi, senza essere indagato o convocato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 gennaio 2022 Il suo legale annuncia ricorso alla Cedu: “mai stato convocato neanche per le indagini preliminari”. Ma per Il giudice del rito abbreviato per l’omicidio Agostino, l’ex 007 e “Faccia da mostro” si incontravano con i boss. Nemmeno durante il fascismo poteva capitare di ritrovarsi accusati, direttamente in sentenza, per fatti gravi senza subire almeno formalmente un processo con tutte le garanzie del caso. Nella nostra Repubblica democratica, un tempo definita culla del diritto, può succedere eccome. Lo ha scoperto per caso l’avvocato Stefano Giordano, legale dell’ex 007 Bruno Contrada, quando il suo assistito nei giorni scorsi è stato invitato a comparire, come testimone, al processo del delitto Agostino. A quel punto, autonomamente, l’avvocato Giordano è venuto in possesso della requisitoria della Procura Generale di Palermo e della sentenza del processo per la morte di Agostino celebrata con il rito abbreviato. Ed è in questa sentenza - a firma del Gup di Palermo Alfredo Montalto, l’allora giudice del processo trattativa di primo grado - che ritrova il nome di Bruno Contrada come persona coinvolta in fatti gravi. Ma senza, come detto, essere stato indagato, inquisito o interrogato sui fatti. “Appare assurdo - denuncia l’avvocato Giordano - come in questo Paese sia ancora consentito fare processi senza tutelare i diritti delle persone che vengono giudicate e quindi senza le garanzie che la Costituzione, la Cedu ed il codice pongono a tutela dell’indagato e dell’imputato. È certamente agevole celebrare i processi contro persone che non hanno alcuna possibilità di difendersi”. Secondo l’avvocato, è stata commessa una grave violazione, per questo annuncia che porterà il caso davanti ai giudici della Corte Europea di Strasburgo. “La sentenza - spiega sempre il legale di Contrada -, mai comunicata al mio assistito né al sottoscritto da alcun organo giudiziario, contiene gravi violazioni convenzionali, tra cui il diritto alla presunzione di innocenza e il diritto di accesso al giudice, tutelati dagli artt. 3 e 13 Cedu”. Ricordiamo che si tratta di una sentenza emessa a marzo del 2021. Il gup di Palermo Alfredo Montalto ha condannato il boss Nino Madonia accusato del duplice omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio commesso il 5 agosto 1989. Il processo si è svolto con rito abbreviato. Del duplice omicidio era imputato anche il boss Gaetano Scotto che, a differenza di Madonia, ha scelto il rito ordinario e quindi era in fase di udienza preliminare. Il gup lo ha rinviato a giudizio. Il processo a suo carico è cominciato il 26 maggio scorso. Nella sentenza in questione, recuperata da pochi giorni dall’avvocato Giordano, in effetti compare anche Bruno Contrada. Il giudice Montalto scrive che, come possibile concomitante movente dell’omicidio dell’agente Agostino e della moglie, oltre a confermare anche sotto tale diverso profilo la matrice mafiosa, “conduce ancora una volta il delitto nell’alveo degli interessi precipui del “mandamento” di Resuttana capeggiato dai Madonia, con i quali, infatti, tutti gli esponenti delle Forze dell’ordine e dei Servizi di sicurezza oggetto di indagini intrattenevano, a vario titolo, rapporti. Ci si intende riferire a Bruno Contrada, ad Arnaldo La Barbera e allo stesso Giovanni Aiello”. Ed ecco che fa un riferimento ancora più esplicito. Il Gup dichiara attendibile il pentito Vito Galatolo, il quale testimonia che ebbe a vedere personalmente Contrada in occasione di alcune visite in vicolo Pipitone e “in alcune di tali occasioni contestualmente ad una persona, “appartenente ai servizi segreti”, soprannominata il “mostro” perché “aveva la guancia destra deturpata da un taglio, la pelle rugosa e arrossata”. Quest’ultimo sarebbe Giovanni Aiello, conosciuto con il soprannome “Faccia da mostro”. Anche lui compare in sentenza, senza essere processato. La differenza con Contrada, è che lui è morto da qualche anno. “I predetti - prosegue il Gup -, in particolare, nel vicolo Pipitone, si incontravano con Antonino Madonia (ma anche con Vincenzo Galatolo e Gaetano Scotto) con il quale si appartavano “all’interno della casuzza… … …a volte anche un’ora o due ore” e ciò nel periodo precedente all’arresto del Madonia (29 dicembre 1989) ancorché imprecisamente indicato dal Galatolo, in sede di incidente probatorio, negli anni “87 - 88 - 89 fino all’arresto di Nino Madonia” tenuto conto che il Madonia sino al 5 novembre 1988 era detenuto e, quindi, certamente non poteva essersi trovato presente nel vicolo Pipitone”. Ma per il Gup Montalto, questa imprecisione temporale “non inficia minimamente la complessiva attendibilità della dichiarazione di Vito Galatolo”. Per completezza, c’è da dire che per la stessa dichiarazione di questo pentito, ben due procure (quella di Caltanissetta e Catania) hanno chiesto l’archiviazione, perché secondo i Pm è risultato inattendibile. Ma evidentemente, per la procura generale di Palermo no. Parere confermato dal gup Montalto. Resta il fatto che Contrada (ma anche Aiello, alias “faccia da mostro”, mai inquisito), si ritrova in sentenza per un fatto gravissimo e senza essere indagato o sentito nel merito. Secondo questo assunto cristallizzato in sentenza, l’ex 007 avrebbe partecipato alle riunioni con esponenti mafiosi dove si decidevano alcuni tra i delitti più atroci. Sempre il giudice Montalto, scrive in sentenza che “secondo quanto riferito da Vito Galatolo, una delle visite di Contrada ed Aiello, in occasione della quale questi incontrarono Nino Madonia, Pino Galatolo, Vincenzo Galatolo, Gaetano Scotto e Raffaele Galatolo, fu notata dall’Agostino che stava effettuando un appostamento proprio nel vicolo Pipitone”. In una sentenza, Contrada viene indicato come frequentatore degli esponenti mafiosi nella casa al vicolo del Pipitone di Palermo dove si decidevano le stragi. Fatti gravissimi, ma senza essere mai stato né convocato né sentito nel processo e né durante la fase delle indagini preliminari. È possibile? Ma non è finita qui. C’è il processo Agostino, quello con rito ordinario, in Corte d’Assise di Palermo e Contrada è stato invitato a deporre come testimone. Attraverso il suo legale, l’ex funzionario di polizia ha fatto avere alla Corte che celebra il dibattimento un certificato medico che attesta le sue gravi condizioni di salute. Ma la questione è ancora più surreale. Contrada viene sentito come testimone, quindi privo di garanzie rispetto a una persona imputata. Il paradosso è che formalmente non è imputato, ma viene sentito nel processo del delitto Agostino dove, parallelamente, in quello abbreviato appare in sentenza come persona indirettamente legata all’omicidio. E senza, ribadiamolo, essere inquisito. “Per entrambi i motivi - annuncia l’avvocato Giordano - agiremo davanti alla Corte Europea per la violazione di questi diritti e sarà mia cura interloquire con la Procura Generale e soprattutto con la Corte di Assise, in via ufficiale, affinché il dottor Contrada possa rendere dichiarazioni, eventualmente dal domicilio, nella veste di indagato di reato connesso”. Brindisi. Il suicidio dopo l’arresto: tragedia in carcere di Michele Iurlaro antennasud.com, 13 gennaio 2022 Era stato arrestato solo poche ore prima per resistenza a pubblico ufficiale. All’alba di mercoledì è stato ritrovato senza vita nella sua cella un 22enne originario del Marocco. Tragedia, ennesima, nel carcere di via Appia, a Brindisi. I numeri, ma non sono numeri, dicono che, dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane, sono 4 i detenuti morti per suicidio, mentre un altro detenuto è deceduto in seguito ad una aggressione subita in cella. Lunedì mattina l’ennesima tragedia, con la Polizia penitenziaria che, poco prima delle 6, ha trovato il corpo senza vita del marocchino. Dura la critica di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Penitenziari. “Il sistema - attacca De Fazio - è allo sbando e la politica ha la responsabilità morale di ogni vittima. La ministra Cartabia - conclude il sindacalista - assicura attenzione e priorità, noi continuiamo a vedere solo trascuratezza e pressapochismo”. Torino. “Il carcere deve recuperare la funzione rieducativa”. Lo Russo chiede una svolta di Federica Cravero La Repubblica, 13 gennaio 2022 “Personale e investimenti, senza non si migliora”, dice la garante Monica Gallo. Negli uffici solo un paio di ragionieri a gestire una macchina da più di 1.400 detenuti. “A Torino il carcere deve recuperare la funzione rieducativa. Il tasso di recidiva è molto più alto che altrove e occorre lavorare per ridurlo. Bisogna aiutare i detenuti a reinserirsi: se non risolviamo questo problema in modo strutturale non possiamo davvero fare dei passi avanti anche in tema di sicurezza”. Questa è la riflessione di Stefano Lo Russo, che da sindaco ha deciso di introdurre nella sua giunta una specifica delega ai rapporti con il carcere, affidata all’assessora Gianna Pentenero. Dunque si sentiva sola dentro il carcere la direttrice Rosalia Marino, che ieri ha lasciato il suo incarico, ma sono in molti a garantire che non lo era fuori. Dentro le mura dei padiglioni di via Pianezza, in effetti, la reggente del Lorusso e Cutugno (che non ha accettato il posto da titolare) non aveva neanche un vicedirettore, quando fino a qualche anno fa ce n’erano otto a seguire i vari settori che compongono un istituto tanto complesso. “Finché non ci saranno iniezioni di personale e reali investimenti sul carcere non si potranno davvero migliorare le cose”, è il giudizio di Monica Gallo, garante dei detenuti della città di Torino. Invece al Lorusso e Cutugno gli uffici che nel tempo si sono svuotati degli amministrativi e sono rimasti appena un paio di ragionieri a far fronte agli acquisti e alla manutenzione di locali vecchi e sovraffollati, con più di 1.400 detenuti. Eppure in molti guardano oggi alla possibilità di potenziare le relazioni con la città, dal lavoro al terzo settore, e di far tornare il carcere torinese al tempo in cui era diventato un modello di apertura verso il territorio e di reinserimento dei detenuti. “Da anni la città svolge cantieri di lavoro con detenuti - spiega l’assessora Gianna Pentenero. Dei progetti esistono già, ma si tratta di valorizzarli e potenziarli. Per questo però occorre che il sistema degli enti locali lavori in un’unica direzione e l’energia che la città sta mettendo è un’opportunità che ci auguriamo venga colta”. Così anche Angelica Musy, che in memoria del marito ha creato un fondo che sostiene attività per i detenuti: “Per il bene della città occorre implementare lavoro e attività, se non si vuole che i reclusi escano più arrabbiati di quando sono entrati. Chi prenderà ora in mano il Lorusso e Cutugno avrà un compito difficilissimo”. Ad aggravare la situazione è intervenuta la pandemia, che ha bloccato diverse attività e ha anche allontanato numerosi medici, andati a coprire altri ruoli. Questo è stato un brutto colpo all’assistenza sanitaria dei detenuti che, assieme alle cure psichiatriche, è una delle note più dolenti dell’istituto penitenziario di Torino. “La risposta è stata un deciso intervento della direzione dell’Asl, che ha disposto l’intervento in carcere delle strutture specialistiche aziendali per colmare le ore di visite rimaste scoperte”, spiega Roberto Testi, da qualche mese direttore sanitario del carcere. E anche sul Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica al centro di un’inchiesta della magistratura, Testi replica: “Era un fiore all’occhiello del penitenziario. I problemi strutturali esistono e adesso sono oggetto di ristrutturazione, ma non bisogna dimenticare che qui arrivavano da tutta Italia detenuti che non si sapeva dove collocare e come trattare altrove”. Torino. Vincono il concorso e rinunciano al posto da direttore: il carcere resta senza guida di Giuseppe Legato La Stampa, 13 gennaio 2022 Il Dap aveva fatto una selezione per un responsabile di eccellenza. Al momento, la reggenza è affidata alla ex responsabile del penitenziario di Bollate. Sarà certamente una coincidenza sfortunata, ma il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, da ieri con il secondo direttore pro-tempore, non riesce a trovare una guida stabile. E se l’ultima figura apicale - Rosalia Marino - ha annunciato ieri di tornare a Novara precisando di essersi sentita “lasciata sola” durante la reggenza torinese, crea ulteriore incertezza sapere che il bando per nominare la guida definitiva del penitenziario si è chiuso con tre rinunce di altrettanti vincitori. E cioè i dirigenti che si erano classificati ai primi tre posti dopo attenta selezione del Dap, hanno accettato ruoli direttivi in altre sedi. Da Roma spiegano che i motivi sono legati a ragioni di vicinanza alla sede di residenza. “Certo dispiace - argomenta il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia - perché avevamo svolto una selezione molto articolata valutando alte professionalità, eravamo felici e ora ci troviamo nelle condizioni di dover riproporre il bando per dirigere il Lorusso e Cutugno al più presto possibile”. La precisazione è d’obbligo: “La nuova reggente Cosima Buccoliero arriva dal carcere di Bollate (noto come penitenziario modello e pioniere di riuscite politiche di rieducazione dei detenuti, ndr) è persona preparata che farà certamente bene”. Le rinunce maturate dai primi tre classificati certo non contribuiscono a distendere il clima attorno al penitenziario che lo stesso Petralia, a La Stampa, poche settimane fa, ha definito “l’osservato speciale e particolarissimo del dipartimento insieme al carcere di Firenze”. Tra le inchieste in corso - per presunte torture in cui sono imputate una ventina di agenti e che è ancora in fase di udienza preliminare -, le sempre più frequenti denunce dei detenuti, le lamentele delle stesse guardie penitenziarie attraverso i sindacati con cui sottolineano il sovraffollamento della struttura (35% più del massimo consentito) e le “quotidiane aggressioni da parte dei detenuti accompagnate da sbeffeggi”, il clima è scoraggiante. A questa situazione si è aggiunta la più recente inchiesta penale sul reparto (ribattezzato della vergogna) psichiatrico del carcere, il cosiddetto “Sestante”, chiuso d’imperio dal capo del Dap i cui lavori di ristrutturazione - per sua rassicurazione diretta - sono “vicini alla conclusione”. La Garante dei detenuti Monica Gallo vede nero: “L’addio della direttrice Marino è una ferita nella ferita - racconta -. Quando dice che quella di Torino è la struttura più complessa d’Italia fa un’affermazione corretta. Nella classificazione sulla complessità delle carceri Torino è al primo posto. C’è una varietà di circuiti molto ampia. La popolazione all’interno va dai sex offender alle madri con bambini, passando dalle persone con disagi psichiatrici. E poi è grande - aggiunge Gallo, autrice di numerosi esposti e segnalazioni sulle criticità del penitenziario -, quindi è difficile sapersi muovere all’interno. Una sola persona a dirigere non basta: il direttore o la direttrice non può essere lasciata sola. Ha bisogno almeno di uno o due vice che la aiutino”. Milano. La ferita di Piazza Duomo e la sfida della “cura Cartabia” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 gennaio 2022 Le violenze di capodanno su nove ragazze, il silenzio delle istituzioni. Davanti a uno strappo così profondo chiediamo pure più sicurezza oggi, ma non servirà se dopo non sapremo ricucire. Sarebbe bello poter applicare la “cura Cartabia” per Milano, la città italiana più europea e da sempre con l’orgoglio da prima della classe, ancora stressata e sconvolta per la ferita di capodanno in piazza Duomo. Sarebbe bello poter applicare da subito la giustizia riparativa, e far prevalere la concordia sul conflitto, la conciliazione sulla vendetta. Sarebbe bello, ma per ora impossibile. Perché nove donne aggredite e violate dal branco nella notte dei divertimenti e della speranza di un futuro immediato migliore, con le forze di polizia ammutolite, distratte e impotenti sono una ferita difficile da sanare. Perché è successo nel centro di Milano, come nella notte che separava il 2015 dal 2016 a Colonia e poi più volte a Parigi, e sembrava roba che non ci riguardasse, problemi da banlieu con i suoi francesi immigrati di seconda e terza generazione. Milano si è svegliata con problemi giganteschi, se il sindaco Beppe Sala ha atteso ben undici giorni prima di prenderne atto e mettere la faccia nei nostri televisori per chiedere scusa e annunciare la costituzione di parte civile del Comune nei futuri eventuali processi. Ma questo è il futuro, mentre il presente è che per dieci giorni, dal sindaco al prefetto al questore, tutti sembravano ammutoliti, impotenti. A queste ragazze è successo qualcosa di spaventoso: accerchiate da gruppi di giovinastri sovreccitati e violenti, strattonate, quasi spogliate nonostante il freddo e i piumini, palpeggiate, le loro lacrime, le loro grida irrise. E non si può neanche suggerire loro, la prossima volta, di non avventurarsi la notte nelle strade deserte. Il tutto è successo in mezzo a una folla persino eccessiva, in tempi di pandemia, nella città in cui la giunta di sinistra ha sempre fatto vanto di essere prima nell’accoglienza e tradizionalmente nella politica sociale. E proprio qui nel milanese, a Vimodrone, due giorni fa è arrivata la ministra Marta Cartabia. Con ancora nelle orecchie l’eco di quel che era successo, è venuta ad ascoltare una storia bella, edificante, quella di Daniel Zaccaro, ex ragazzo di Quarto Oggiaro, adolescenza segnata dal carcere, uno di “quelli lì”, un po’ come quelli delle violenze di piazza Duomo. Daniel è diventato il protagonista di un libro, scritto da Andrea Franzoso, dal titolo “Era un bullo”. Uno di quelli che l’hanno salvato - ma sono in tanti, dagli educatori agli agenti di polizia penitenziaria è don Claudio Burgio, uno che ha fatto esperienza come cappellano a San Vittore e al minorile Beccaria, e che l’ha seguito per sette anni. Sette anni difficili e a volte turbolenti. Ma ce l’hanno fatta. Ce l’ha fatta. Oggi Daniel è un educatore e aiuta gli altri a superare lo stereotipo del quartiere-ghetto, ragazzi spesso rassegnati a un destino che pare segnare non solo quelli appena arrivati dai Paesi del nord Africa, ma anche quelli di seconda generazione. In piazza Duomo c’erano gli uni e gli altri. E sarebbe una bella sconfitta politica dover ammettere che l’accoglienza non si è trasformata in integrazione. La “cura Cartabia” ha al centro l’articolo 27 della Costituzione, e non è un paradosso, piuttosto una sfida ricordarlo proprio ora, nel momento in cui in consiglio comunale a Milano le opposizioni chiedono le dimissioni dell’assessore alla sicurezza e tanti cittadini si fanno vivi anche con il sindaco per chiedere un intervento più energico anche della polizia locale, in centro come nei quartieri. Ci sono problemi di uso e abuso di alcool e di sostanze psicotrope, ma anche di tanti ragazzi che ciondolano dalla mattina alla sera davanti ai bar e quando passa una ragazza si comportano subito da branco. C’è un autobus che fa un percorso circolare, la 90-91, dove nessuna donna si avventurerebbe mai da sola. E il timore oggi è che lo choc di capodanno possa sfociare in intolleranza se non in razzismo. Anche per questo adesso la magistratura sta correndo ai ripari, e lunedì notte, dopo aver visionato una serie di immagini postate sui social, la procura ha firmato il decreto che ha portato alle diciotto perquisizioni, all’individuazione di alcuni partecipanti al branco e infine ieri al fermo di due di loro. I reati di cui saranno accusati sono gravissimi, e vanno dallo stupro di gruppo alla rapina. Ed è qui che dovrebbe venire in soccorso la “cura Cartabia”. Perché il loro destino sarà segnato dal carcere, e non sarà una detenzione facile, vista la tipologia dei reati di cui dovranno rispondere. Per i minorenni si apriranno percorsi rieducativi, e si spera anche per i giovani adulti. È difficile dirlo oggi, con la ferita ancora aperta, ma proprio dieci giorni fa, mentre accoglieva a Venezia le delegazioni straniere convenute alla prima Conferenza dei ministri di giustizia del Consiglio d’Europa, la guardasigilli aveva parlato di “giustizia riparativa”. Non come “strumento di clemenza”, ma come “giustizia che aiuta il trasgressore ad assumersi la sua responsabilità nei confronti della vittima e nei confronti della comunità, attraverso l’incontro e il dialogo”. Chiediamo pure più polizia e maggiore sicurezza a Milano, adesso. Ma se non sapremo ricucire dopo, ci saranno tante violenze “di capodanno”, temiamo. Roma. In carcere la realtà virtuale aiuta a ritrovare sé stessi di Luigi Lupo Il Domani, 13 gennaio 2022 In una cella di Rebibbia Luciana ha deciso di scrivere la sua storia, poi diventata materiale per una “virtual room”. Un’elaborazione del trauma che l’ha aiutata a lasciarsi il passato alle spalle. È la fine dell’estate del 2016: Luciana ha 21 anni, proviene dal Brasile da cui le viene chiesto di trasportare una valigetta in Svizzera. Il volo fa scalo a Fiumicino: il bagaglio, nel fondo di rivestimento, contiene cocaina. La ragazza viene arrestata e portata a Rebibbia. Un momento che lei non dimenticherà mai ma che ha potuto processare ed elaborare rivivendolo in un ambiente virtuale costruito ad hoc. Merito del progetto STEPs, che ha coinvolto il Cpia1 di Roma, centro provinciale per l’istruzione degli adulti, e due partner europei, dalla Grecia e dal Portogallo, nell’ambito del programma Erasmus KA2. Nelle vesti di Karla - Nel carcere femminile di Rebibbia, il più popoloso d’Europa, Luciana, giovane di origine brasiliana, che ha perso la madre a tredici anni e ha conosciuto suo padre solo pochi anni fa, ha deciso - sostenuta dalla professoressa Marina Tutino, che ha fortemente voluto il progetto STEPs nella struttura capitolina - di raccontare in forma scritta la sua storia, poi diventata materiale narrativo per una virtual room. Indossando il classico casco della vr, Luciana ha rivisto sé stessa nelle vesti di Karla: ha rivissuto il momento dell’arresto così come, muovendosi nello spazio virtuale, i quadri prodotti durante gli anni tra le sbarre. “L’immersione nell’ambiente virtuale”, racconta Luciana a Domani, “è stata sia emozionante sia sconfortante. Ho visto la mia storia al di fuori: non mi aspettavo di vivere tante emozioni tutte nello stesso momento”. “All’inizio”, aggiunge Tutino, “ha pianto e ci ha chiesto di interrompere il processo. Poi ha avuto il coraggio di proseguire”. Quel momento le ha marcato la vita ma ritrovarselo ricostruito e adattato, con un’attrice nei suoi panni, le è stato fortemente d’aiuto. Racconta la professoressa Marina Tutino che Luciana “ne è uscita con nuove consapevolezze”. Una sorta di elaborazione del trauma che le è servita a rifarsi una vita lasciando il passato alle spalle. Ambienti virtuali - Ogni unità di realtà virtuale (vr) fornisce un quadro in cui il singolo prigioniero o ex-prigioniero può spostarsi fra gli ambienti virtuali con dispositivi specifici. Navigando per gli ambienti virtuali, gli utenti vedono una serie di elementi correlati al proprio profilo e alla loro storia. Di solito questi oggetti sono legati alla causa della prigionia, al reato: possono essere articoli di giornale, foto, narrazioni o video. Gli elementi esatti che si adattano al profilo dell’utente vengono selezionati e caricati nel framework dall’organizzatore della sessione. Anche la storia di Mario, detenuto per sei anni e mezzo, nel carcere di Larissa, in Grecia, è diventata un plot per l’ideazione di un ambiente virtuale. L’uomo, originario di un villaggio della Macedonia, si era ritrovato senza lavoro e con una poderosa somma da pagare per curare la malattia di uno dei figli. Disperato, una notte ha incontrato in un bar due truffatori che lo hanno coinvolto in una rapina. La polizia lo ha fermato, da lì è scattata una pena di quindici anni e mezzo, poi dimezzata per buona condotta. Nella virtual room, anche Mario ha ritrovato sé stesso. E così anche per “Pistolas”, il nome con cui veniva chiamato dal suo boss, un giovane canadese, trasferitosi in Portogallo. A undici anni ha provato per la prima volta un mix di eroina e cocaina, si è unito al racket che lo ha fatto diventare “il pegno”. Colui che avrebbe dovuto rimanere in prigione per accontentare gli altri membri della banda. Storie forti, affrontate dai protagonisti, interpretati da attori virtuali, in una sorta di metaverso. Gli utenti indossano gli occhiali e le cuffie vr e iniziano a interagire con l’unità tramite sensori portatili e interfacce utente dedicate. Possono scegliere un determinato oggetto e ascoltarlo, guardarlo o leggerlo. Possono muoversi all’interno della stanza fisica, dove è ospitata l’installazione, interagire con la stanza virtuale e con tutti gli elementi che vi compaiono. L’unità vr monitora durante l’esperienza comportamenti e scelte dei partecipanti. Queste informazioni di tracciamento vengono caricate direttamente nella sottounità statistica della piattaforma e i dati sono disponibili per le successive elaborazioni. Raccontare il reato - I plot per le virtual room nascono da racconti scritti dai detenuti delle tre carceri. “Ne abbiamo raccolte 61”, prosegue Marina Tutino. “Da una didattica in classe, finalizzata al raggiungimento del diploma di terza media o alla conoscenza della lingua, siamo passati a un lavoro laboratoriale orientato allo storytelling. Un progetto che instaura relazioni molto forti tra insegnanti e alunni, l’empatia è tale che i detenuti trovano la forza di raccontare il reato commesso”. A Rebibbia, quella di Luciana è stata l’unica narrazione a diventare plot per l’immersione virtuale e la nascita di Karla’s Story. La riabilitazione psicologica dei detenuti tramite la vr si ispira al teatro documentale ma soprattutto al “Rimini Protokoll”, un collettivo di scrittori e registi di Berlino, che lavora con varie forme teatrali al fine di ridurre o eliminare completamente la distanza tra gli artisti e il pubblico. Le loro “situation rooms” riuniscono venti persone, provenienti da vari continenti, le cui vite sono state plasmate dall’uso delle armi, in un’ambientazione cinematografica che ricrea il mondo globalizzato di pistole e lanciagranate, autoritari e rifugiati, percorsi e incontri inaspettati. L’ambiente è costituito da un enorme spazio con stanze autonome. Con le narrazioni personali dei loro “residenti”, le immagini iniziano a muoversi e gli spettatori seguono i loro percorsi individuali attraverso le loro singole fotocamere e cuffie. Cominciano a vivere loro stessi nell’edificio e si immergono per novanta minuti nella vita degli altri, seguendo la prospettiva personale dei protagonisti. Un po’ come è accaduto a Mario, Pistolas e Luciana. La ragazza è ora fuori dal carcere, pian piano, dopo la detenzione e l’esperienza nella virtual room, ha cominciato a costruirsi una nuova vita: “All’inizio”, racconta, “è stato un po’ difficile perché comunque tu hai l’impressione che ti possono giudicare per quello che hai fatto. Ma sono riuscita a mettere alle spalle questo pensiero ossessivo e sono andata avanti, ho trovato lavoro in un ristorante alla cucina, facendo vedere le mie capacità e oggi sono un aiuto cuoco a tempo pieno”. Un esempio di quello che il carcere dovrebbe essere: un luogo di rieducazione e reinserimento nella società. E la realtà virtuale sembra poter sostenere questo compito. Milano. Uncinetti in cerca di liberta di Giovanna Canzi La Repubblica, 13 gennaio 2022 Dal 14 esposti i risultati di un progetto di Nadia Nespoli con i detenuti del carcere di Bollate. “Il filo è il medium per affermare il colore”. Se tutto il tempo è eternamente presente/tutto il tempo non è riscattabile scrive T.S. Eliot nei “Quattro quartetti”. Ed eternamente presente è il tempo che abita gli istituti penitenziari sulle cui pareti sfilano giganteschi orologi fermi a ore diverse. Un monito che ricorda come nei luoghi di detenzione il dio Kronos ha un volto implacabile. Un tempo di cui qualcuno, però, si prende cura, non solo dando conforto ma anche aprendo nuove prospettive. Creative ed esistenziali. Come l’artista Nadia Nespoli che dal 2012 ha proposto al carcere di Bollate il laboratorio Artemisia durante il quale i detenuti provano a riannodare i fili della propria esistenza attraverso diverse attività artistiche. Fra queste ce ne è una particolarmente evocativa, antica e dalla ritualità terapeutica: l’uncinetto. L’artista, da sempre impegnata a esplorare l’iconografia devozionale popolare e ora approdata all’uso del filo per realizzare monocromi che indagano i temi della ripetizione, della cancellazione e della meditazione, ha condiviso questa pratica con chi si trova a scontare una pena proponendo un progetto i cui risultati saranno esposti in una mostra dal 14 gennaio al 15 febbraio allo Spazio Aperto San Fedele. Curata da Margherita Zanoletti e realizzata da San Fedele Arte in collaborazione con l’associazione Sesta Opera San Fedele, la Fondazione Carlo Maria Martini, la Fondazione Maimeri, Montali Studios e Soqquadri, “Offerte di tempo” raccoglie nove lavori che hanno preso vita all’interno del carcere e altri cinque realizzati dall’artista. Ogni tela, frutto di ore e ore di lavoro, è un manufatto votivo, un dono per affrontare il male e per provare a ripararlo. “La particolarità dell’esposizione”, sottolinea la curatrice “è l’interrelazione fra il progetto di ricerca dell’artista e l’esperienza condivisa da cui è scaturito un dialogo a più voci”. Durante i laboratori di Bollate Nespoli ha, infatti, affidato alle detenute e ai detenuti delle matasse di filo di cotone chiedendo loro di realizzare con il punto alto una tela, senza mai disfarla durante l’esecuzione. Ognuna delle opere (intitolata con il nome di chi l’ha realizzata) porta con sé un’evocazione di mani e dita che intrecciano un tessuto fatto di pieni e di vuoti. “Il filo” - spiega l’artista “è il medium per un progetto esclusivamente pittorico. I colori sono fortissimi: l’arancione, il viola, il giallo, il bianco.” Un filo che facendosi parola inaugura un cammino che possa accogliere un’umanità in cerca di liberazione dalla disumanizzazione, dallo sfinimento, dalla pena. Torino. “Il Dio Carcerato”, Davide Pelanda presenta il suo ultimo libro ilrisveglio-ita.newsmemory.com, 13 gennaio 2022 Domani, venerdì 14 gennaio a Ciriè, con la sociologa Valeria Fabbretti. Da Ca’ Libro in via Nino Costa 17 a Ciriè, domani venerdì 14 gennaio alle Davide Pelanda presenterà “H Dio Carcerata H ruolo della dimensione religiosa nei penitenziari italiani”. (Casa editrice Mezzelene). Interverranno all’incontro Valeria Fabretti, docente di Sociologia alla Sapienza di Roma e Carmelo Musumeci, scrittore, ex ergastolano e attivista. Si potrà partecipare sia in presenza, previa prenotazione (011.920 7949 o info@libreriacalibro.it) e muniti di green pass, sia in streaming accedendo alla stanza: meet.jit.si/GruppodiletturaCaLibro. Pelanda, docente e scrittore, in ‘Il Dio carcerato” racconta uno spazio difficile da affrontare, da capire, da raccontare, da guardare e persino da immagi-Uno spazio che normalmente respingiamo in quanto luogo dell’alterità negativa, che delimita quanto una società reputa incompatibile con la propria stessa sopravvivenza e considera opposto alla propria identità. In stridente contrasto con l’estrema dinamicità del tempo e dello spazio che caratterizza le vite “normali”, proprio per questo il carcere può costituire un punto di vista altro per fotografare e meglio comprendere la società in cui viviamo. “Il tentativo fatto da Davide Pelanda in questo libro - ha scritto Valeria Fata-etti - è ancora più impegnativo, perché la lente usata per provare a mettere a fuoco l’istituzione carceraria in Italia e i vissuti di chi vi si trova recluso è quella particolare della religione e della spiritualità. Una chiave significativa e, credo, più capace di altre di introdurre alle pratiche e ai significati dello stare in carcere”. Fra le declinazioni dell’approccio spirituale al carcere quella, attualissima, della pluralità religiosa, la stessa proposta dal mondo fuori. Pluralità che necessiterebbe di pieno riconoscimento culturale e giuridico per diventare pluralismo. Biblioterapia, una cura attiva anche durante le guerre di Maria Teresa Carbone Il Manifesto, 13 gennaio 2022 Il valore dei libri e della lettura per mitigare la inquietudine dopo due anni di pandemia. Com’è difficile, in questi giorni, non sentirsi confusi, logorati, a volte furibondi - a due anni dall’inizio della pandemia, e pur con l’inestimabile risorsa dei vaccini, la vita di tutti continua a procedere sotto il segno dell’incertezza, se non della paura: ogni progetto, dal più piccolo al più grande, porta con sé una quantità di punti interrogativi ai quali, almeno per ora, nessuno saprebbe dare risposte certe. Da qui, da questa sensazione condivisa in ogni angolo della terra, la giornalista Katrya Bolger prende avvio per un articolo uscito sulla rivista canadese The Walrus in cui descrive il ruolo che i libri possono avere, non certo per risolvere la situazione, ma per mitigare l’inquietudine, per offrire strumenti di comprensione e di conforto. Parliamo insomma di quella che con una qualche pomposità viene definita anche in Italia biblioterapia, un termine, precisa Bolger, usato per la prima volta nel 1916 (non a caso, probabilmente, durante la prima guerra mondiale) in un articolo satirico su The Atlantic. Ma non c’è nulla di pomposo nell’idea, del resto molto antica, che leggere sia, o possa essere, di notevole aiuto nell’affrontare le avversità dell’esistenza. Sicuramente lo è stato per Anne Boulton, docente alla Laurentian University nell’Ontario, che - come racconta Bolger - ha trovato nel percorso di letture elaborato appunto con l’aiuto di un terapeuta il sostegno di cui aveva bisogno. Certo, “i libri sono stati solo una parte del processo”, ma hanno fornito a Boulton “punti di partenza per conversazioni che l’hanno portata a riflettere sui suoi problemi da prospettive nuove”, anche perché “il filtro della letteratura consente di guardare in modo meno duro, meno esposto, alle questioni più dolorose”. E sempre nei nostri tempi pandemici non si è trattato di biblioterapia, ma senza dubbio ha giovato a tante persone l’esperimento ideato dalla scrittrice statunitense di origine cinese Yiyun Li, i cui libri sono tradotti in Italia da Einaudi e più di recente dalla casa editrice NN, che ne ha proposto fra l’altro nel 2018 il memoir Caro amico dalla mia vita scrivo a te nella tua e lo scorso anno il romanzo Dove le ragioni finiscono. A clausura appena cominciata, nel marzo 2020 Yiyun Li, con l’aiuto della casa editrice nonprofit A Public Space, ha avviato una lettura collettiva di Guerra e pace. Inatteso e gigantesco è stato il successo del progetto che, intitolato #TolstoyTogether e condiviso attraverso incontri Zoom e via Twitter (a cui in realtà la scrittrice non è neppure iscritta), è stato poi replicato ed è diventato ora un libro, una sorta di conversazione globale intorno al capolavoro di Tolstoj. Su The Millions, in una intervista al giornalista John Maher, uno che su sua stessa ammissione non ha mai letto Guerra e pace e forse non lo leggerà mai, Yiyun Li - che invece Guerra e pace lo legge tutti gli anni, in alternanza con Moby Dick, sei mesi per ciascuno - ha raccontato com’è nata l’idea: “L’isolamento era appena cominciato, mi sono detta che in un momento di grande incertezza sarebbe stato bello invitare le persone a leggere un libro lunghissimo e che la fine della lettura avrebbe coinciso con la fine della pandemia”. Illusioni perdute! Ma l’esperienza ha rivelato alla scrittrice che in un gruppo di lettura, soprattutto così allargato, le sorprese sono infinite: “C’è chi guarda alle finanze della famiglia Rostov e si accorge che ‘stanno perdendo un sacco di soldi perché hanno 200 cani nella loro tenuta’ e chi legge Guerra e Pace attraverso la fisica quantistica. Non si legge per ottenere un consenso, ma per arrivare a qualcosa, e questo qualcosa è l’aspetto più interessante”. Non è una terapia, ma insomma, quasi. Franzoso e la storia (vera) dell’ex bullo che ora è educatore di Francesca Visentin Corriere del Veneto, 13 gennaio 2022 Il libro di Andrea Franzoso sulla vera storia di Daniel Zaccaro: la rabbia, i pestaggi, le rapine e il carcere, poi la nuova vita Ora è laureato, accoglie, salva e motiva i giovani “ribelli”. Rabbia. Tanta rabbia per un mondo che non riusciva a capirlo. Adulti deludenti, di cui non si fidava. E violenza, dentro e fuori la famiglia, in un quartiere di periferia dove vale solo la legge del più forte: se non diventi bullo finisci bullizzato. Daniel Zaccaro è cresciuto parando i colpi, tra i cortili delle case popolari di Milano. Spaesato, replicando ciò che vedeva, la violenza. Bullo a scuola e per strada, furti e pestaggi, fino alla prima rapina in banca, a 17 anni e molte altre, soldi facili. La possibilità di comprarsi giubbotti e scarpe firmate, di sentirsi qualcuno. Fino all’arresto, il carcere minorile, il Beccaria e San Vittore, quasi quattro anni dietro le sbarre. Poi la svolta, l’incontro con adulti positivi, che riescono a capirlo, don Claudio Burgio della comunità Kayros, insegnanti, psicologi. E la voglia di ripartire, lo studio, la laurea. Oggi Daniel Zaccaro, 29 anni, fa l’educatore. Recupera gli adolescenti “irriducibili”, accoglie, sostiene, insegna. La sua storia raccontata dallo scrittore veneziano Andrea Franzoso è diventata un libro, Ero un bullo (De Agostini), presentato a Milano dalla ministra Marta Cartabia insieme al rapper Marracash. Andrea Franzoso, perchè ha deciso di raccontare la storia di Daniel Zaccaro? “Mi aveva colpito la foto sul giornale di un ragazzo appena laureato, Daniel, e una donna che lo abbracciava, lei era la giudice Fiorillo che l’aveva condannato più volte per rapina... Mi è sembrata una bella storia, motivazionale, un esempio. Ho cercato don Claudio Burgio della comunità Kayros dove Daniel ha fatto il percorso di recupero e quindi l’ho conosciuto, cercando l’empatia giusta per raccontare il suo mondo, la rabbia dell’adolescenza e l’impegno attuale per aiutare gli altri. Dove ho iniziato? Gli ho chiesto la sua playlist, tutte canzoni rap, da lì, da quelle parole in cui si riconosce, mi sono sintonizzato sulla sua vita. Quelle canzoni hanno fatto riflettere anche me”. Cosa l’ha colpita di più di Daniel Zaccaro? “La sua vita mi è sembrata subito un romanzo. Tanti gli episodi. Ad esempio, è entrato in carcere il giorno del suo 18esimo compleanno, aveva già organizzato la festa con i soldi dell’ultima rapina in una discoteca che si chiamava Il borgo del tempo perso... Per raccontare di lui, ho parlato con tutti quelli che lo conoscevano, la madre, la sorella, le ex fidanzate, gli amici, psicologi, insegnanti, educatori della comunità, ho studiato a fondo gli atti giudiziari. Tra le figure che non dimentico, c’è quella del brigadiere Stara, che in carcere faceva lavorare i ragazzi dando loro fiducia, assumendosi grande responsabilità pur di coinvolgerli in qualcosa che li motivasse, una persona seria, affidabile, questo colpiva molto i giovani detenuti, per la prima volta si sentivano visti, ascoltati. E poi l’insegnante Fiorella Torelli, che ha avvicinato Daniel allo studio, gli ha trasmesso la passione per i libri e la lettura, da allora legge moltissimo. L’incontro con Fiorella ha fatto scattare in lui la molla per riprendere a studiare e laurearsi”. Quando la rabbia di Daniel si è trasformata in energia positiva e voglia di cambiare vita? “Alla radice della rabbia che aveva Daniel e molti ragazzi come lui, c’è la mancanza di parole e di comunicazione, faceva fatica ad esprimere ciò che aveva dentro, non aveva trovato nessuno con la voglia di capirlo e di entrare nel suo mondo, quindi si sfogava con il corpo, con la violenza. L’incontro con adulti positivi come don Claudio, l’insegnate Fiorella e altri, gli ha fatto cambiare prospettiva. La lettura è stata un veicolo importante, nei libri trovava le parole, riusciva a dare un nome a ciò che provava e la rabbia ha iniziato a defluire”. Franzoso scrittore, ex carabiniere, bullizzato da ragazzino e Zaccaro ex bullo, come siete riusciti a trovare un linguaggio comune? “Sì, siamo due persone molto diverse, ci siamo trovate ai poli opposti, io ero carabiniere, lui faceva rapine, io sono stato bullizzato a scuola, lui bullizzava, ma quello che ci accomuna, e l’ha sottolineato Daniel, è la stessa fame, la stessa energia, curiosità e ricerca. Entrambi abbiamo vissuto molte vite, siamo irrequieti, esigenti. Abbiamo trovato subito un linguaggio comune. Oggi lui mi consiglia musica, brani e cantanti rap, io gli suggerisco libri, gli è piaciuto molto L’avversario di Carrère”. Qual è l’obiettivo di questo libro? “È parlare ai ragazzi, ma soprattutto agli adulti. Ci sono tanti spunti che riguardano l’educazione, l’ascolto, la fiducia, c’è il tema della credibilità degli adulti. I ragazzi hanno bisogno di persone credibili, esempi da seguire, di recuperare ascolto e fiducia, trovare appigli sicuri. Questa storia mi ha permesso di guardare la persona oltre il criminale che è stato, credo che tanti genitori, insegnanti, educatori dovrebbero farsi un esame di coscienza e sintonizzarsi in maniera diversa, più empatica e accogliente nei confronti dei ragazzi. Nessuno è cattivo, nessuno è perduto, la differenza la fanno le opportunità, il contesto e gli adulti di riferimento”. Il libro “Ero un bullo” andrà nelle scuole? “Sì, diventerà un momento di confronto, educazione, ascolto”. Per Said. Verità e giustizia per le vittime della detenzione amministrativa in Italia lasciatecientrare.it, 13 gennaio 2022 Said Zigoui, marocchino di 44 anni, detenuto nel CPT di Lamezia Terme (CZ), muore il 12.01.2005 nell’ospedale di Messina. Nel novembre 2004, Said Zigoui aveva appena finito di scontare una pena di 5 anni nel carcere di Frosinone. Come accade quasi in automatico, le persone straniere che hanno commesso reati in materia di stupefacenti, una volta scarcerate non sono persone libere, ma vengono considerate pericolose socialmente e indesiderate dall’Italia. Devono essere emarginate dalla società per essere espulse, quindi portate direttamente in un centro per il rimpatrio. Said finì nel CPT di Lamezia Terme (Calabria), gestito dalla cooperativa “Malgrado Tutto”. La famiglia di Said, che si trovava a oltre 1500 chilometri di distanza, a Quinto Vercellese, riceveva spesso sue chiamate. Soffriva per questa nuova detenzione. Il CPT è peggio del carcere. Il 7 dicembre 2004 Said accusava forti dolori addominali e, dopo una radiografia, venne ricoverato all’Ospedale civico di Lamezia Terme. Non si conoscono le cause ma è probabile che avesse ingerito qualcosa, forse lamette. Said era ricoverato e temeva di dover tornare nel CPT. Il 9 gennaio pare essersi buttato dalla finestra al secondo piano dell’ospedale. Riportò gravi danni celebrali e lesioni interne. Venne trasferito con un elicottero in Sicilia, nel reparto di rianimazione del Policlinico Universitario di Messina, era in coma quasi irreversibile. La sua condizione era disperata, non era possibile intervenire chirurgicamente. Il cuore di Said cessò di battere qualche giorno più tardi, mercoledì 12 gennaio alle 13:45. La moglie arrivò con il figlioletto all’ospedale siciliano solo qualche ora più tardi, pensava che il marito stesse male, ma l’attendeva una terribile scoperta. Era arrivata troppo tardi, Said era morto. Gli avvocati della famiglia chiesero che venissero effettuati gli esami autoptico e tossicologico per fare chiarezza. L’autopsia venne eseguita dopo qualche giorno (la mattina del 14 gennaio) ma ancora oggi non ne conosciamo l’esito, tantomeno quello delle indagini che seguirono questa tragedia annunciata. Le condizioni indecenti in cui era gestito il CPT di Lamezia Terme e le violazioni perpetrate ai danni dei detenuti erano note da tempo. Il Centro era già stato oggetto di numerose denunce da parte di associazioni e attivisti (Forum dei Diritti, Associazione Multietnica “La Kasbah” di Cosenza, CSOA Angelina Cartella, Libera Associazione di Idee, Associazione BAOBAB, Piana Social Forum, Radio “Ciroma”, Tirreno Social Forum, Comunità Kurda Calabrese, Dipartimento Migranti PRC Cosenza, ARCI Lamezia, Filo Rosso, Confederazione Cobas Cosenza) che portarono di un esposto alla Procura di Lamezia Terme da parte di un parlamentare nel 2004. Ormai divenuto CIE, venne chiuso solo nel 2012. Al suo posto aprì un centro di accoglienza che ha continuato a essere gestito dalla “Malgrado tutto”. Cannabis light, negozi illegali con il nuovo decreto governativo di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 13 gennaio 2022 Alla Conferenza Stato Regioni un testo che mette fuorilegge il settore della canapa. Sotto la cappa regolatoria della 309/90 tutti i tipi di marijuana, anche quella legale. Nella sessione inaugurale della VI Conferenza sulle droghe del novembre scorso, la ministra Gelmini e il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Fedriga l’avevano detto senza mezzi termini: siamo contrari a qualsiasi modifica del Testo Unico sulle droghe. Posto che non è ancora chiaro come e quando le raccomandazioni dell’incontro di Genova verranno condivise con il Parlamento - raccomandazioni che vanno in senso diametralmente opposto a quanto fatto in Italia negli ultimi decenni - la storica contrarietà a riforme di buon senso dei proibizionisti italiani ha trovato il modo di battere qualche colpo. Ieri la Conferenza Stato Regioni ha adottato un Decreto interministeriale che definisce “l’elenco delle specie di piante officinali coltivate nonché criteri di raccolta e prima trasformazione delle specie di piante officinali spontanee”. Al comma 4 del primo articolo del documento si rimanda sotto la cappa regolatoria della 309/90 “la coltivazione delle piante di Cannabis ai fini della produzione di foglie e infiorescenze o di sostanze attive a uso medicinale”; prescindendo che vi siano o meno sostanze psicoattive al di sopra dei limiti fissati dalla legge sulla filiera agroindustriale della canapa del 2016. Meraviglia che il presidente della Commissione agricoltura della Camera Gallinella del M5S non se ne sia accorto ed esulti. Questo passo indietro - la legge sulla canapa industriale fu adottata all’unanimità - rende coltivatori e rivenditori di infiorescenze di “cannabis light” passibili delle sanzioni derivanti dal Testo Unico sulle droghe che ne vieta la coltivazione senza un’autorizzazione del ministero della Salute. Il ministro Speranza non prese parte alla Conferenza sulle droghe, Patuanelli era invece in prima fila ad applaudire la ministra Dadone, possibile che anche lui non si sia accorto di quanto accaduto con la firma di funzionari del suo ministero? Peraltro esiste un tavolo sulla canapa industriale dove le associazioni di produttori già a giugno scorso avevano espresso ferma contrarietà al testo adottato ieri. A metà dicembre 2021 si è tenuta la prima riunione del tavolo tecnico tra ministero della Salute e associazioni di pazienti su iniziativa del sottosegretario Costa per ascoltare le esigenze di approvvigionamento quantitativo e qualitativo di cannabis. Perché intervenire con un provvedimento che, letteralmente, fa di tutta l’erba un fascio rischiando di mettere fuori gioco l’intera filiera delle infiorescenze e prodotti a base di Cbd? L’Organizzazione mondiale della Sanità, rilevando le proprietà terapeutiche del Cbd, ne ha più volte raccomandato l’esclusione dalle tabelle delle sostanze vietate proprio perché privo di effetti psicoattivi. A dicembre del 2020 la Commissione droghe dell’Onu ha cancellato la cannabis dalla IV tabella della Convenzione 1961 col voto favorevole dell’Italia. Infilare in un Decreto Interministeriale questo ritorno della produzione della cannabis light nelle maglie della 309/90, oltre che andar contro la scienza e il buon senso, è giuridicamente molto discutibile. Nel momento in cui occorre una regolamentazione che chiarisca cosa può esser coltivato e come decisioni come queste fanno fare enormi passi indietro. Prodotti con una determinata soglia di Cbd vanno trattati come farmaci, quelli con percentuali ancora minori come integratori, come già succede per molte altre sostanze anche in altri Stati dell’Ue. Per la Corte di Giustizia Europea, uno Stato membro non può vietare la commercializzazione del Cbd legalmente prodotto in un altro Stato dell’Unione. Si tratta di un settore con 3000 aziende che occupa oltre 10.000 persone prevalentemente giovani. Un comparto schiacciato tra incertezza normativa e attenzione morbosa a eradicare piante e sequestrare prodotti prima di verificarne la conformità con la legge causando decine di procedimenti. I ministri competenti dovranno adesso modificare il Decreto per renderlo in linea con la normativa vigente. In caso contrario occorre una risposta coordinata tra consumatori, pazienti e imprenditori per mandare in soffitta definitivamente provvedimenti anti-scientifici e ideologici adottati di nascosto dal Parlamento. Referendum cannabis, ok a 500 mila firme digitali. È la prima volta di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 gennaio 2022 La Corte di Cassazione ha convalidato le oltre 500 mila firme raccolte per il referendum sulla cannabis legale e la Corte Costituzionale ha già convocato la Camera di Consiglio per discutere l’ammissibilità del quesito referendario. “È una grande notizia”, commenta Riccardo Magi, presidente di +Europa, tra i promotori del referendum. “Anche perché - fa notare - si tratta per la prima volta di firme esclusivamente digitali grazie alla riforma che abbiamo conquistato con l’emendamento a mia prima firma”. Magi si riferisce all’emendamento al decreto Semplificazioni, approvato all’unanimità, che permette di raccogliere firme in promozione dei referendum su piattaforme digitali. Una semplificazione che però non ha prodotto lo stesso risultato per altre proposte referendarie, quali quella per l’abolizione della caccia. “Mentre c’è chi immagina addirittura di inserire nella follia proibizionista la cannabis industriale e la cannabis light, noi oggi festeggiamo questo primo successo”, esultano i dirigenti dei Radicali Italiani. La Consulta si pronuncerà il mese prossimo sulle proposte referendarie riguardante la cannabis, l’eutanasia legale e la giustizia (sei quesiti promossi dal Prntt e dalla Lega, per i quali sono state raccolte le firme, anche digitali, ma senza successo, tanto da dover ricorrere a 9 Consigli regionali di centro-destra che li hanno depositati). Inferno russo di Carlo Bonini e Federico Varese La Repubblica, 13 gennaio 2022 Stupri e torture nelle carceri di Putin. E la mafia dei “ladri in legge” reagisce con un documento che riscrive le regole dell’onore e dell’omertà dietro le sbarre. “Pace alla nostra Casa comune. Prosperità alla comunità dei ladri-in-legge”. Così inizia uno dei documenti più significativi e controversi mai prodotti dalla mafia russa. Apparso nelle principali prigioni della Federazione ai primi di dicembre del 2021, è scritto a mano, in bella grafia, con alcune parole sottolineate ripetutamente. Il testo, il primo ad essere firmato dalla “totalità dei ladri-in-legge” (la comunità dei boss), propone una reinterpretazione radicale dei principi che governano la vita quotidiana nelle carceri russe. Il documento è la risposta a decine di video emersi a novembre che dimostrano come le autorità in molti penitenziari stuprano i prigionieri riluttanti a collaborare. I video sono stati trafugati da un ex detenuto oggi nascosto in Francia, un Edward Snowden al contrario. La mano dura di Putin nei confronti dei carcerati non allineati e dei dissidenti sta cambiando le regole del mondo criminale: oggi è la mafia ad invocare “umanità e comprensione” per le vittime della tortura e a denunciare il regime. Putin, nel frattempo, ha licenziato il direttore generale delle carceri e affrontato il tema nella sua conferenza di fine anno. Noi abbiamo parlato con i principali protagonisti di questa storia. Gli intoccabili - Per capire la portata storica del documento di dicembre dobbiamo entrare virtualmente in una prigione russa, un’esperienza che non si augura al proprio peggior nemico. Una cella tipica dovrebbe ospitare non più di una decina di persone. Di norma, ne trovate circa trenta. Oltre a percepire l’effluvio di corpi pigiati e di acre sudore umano, si intravedono la latrina, un cucinotto e un tavolino. Non c’è un giaciglio per tutti: per coricarsi bisogna fare i turni, anche tre per notte. Il rumore indistinto di voci si interrompe e tutti squadrano il nuovo arrivato, il quale noterebbe probabilmente un paio di detenuti accucciati vicino al cesso. Non sono carcerati qualunque: questi poveri cristi appartengono alla casta degli intoccabili. Dove per intoccabile si deve intendere nel senso deteriore: indegno di essere anche solo sfiorato. Per questo i momenti più difficili per un nuovo arrivato sono i primi. Tutti si attendono che faccia un errore, che si rivolga agli intoccabili senza saperlo, magari che si corichi nella stessa branda. Un passo falso si paga con la degradazione nella casta più bassa della gerarchia del carcere. Gli epiteti per questi individui nel gergo criminale russo sono innumerevoli: “offesi”, “unti”, “emarginati”, “galletti”, “topi”, “pettine”, “margherite”, “blu”. In base alle regole non scritte ma ferree delle prigioni, gli omosessuali, chi ha toccato un pene, chi è stato cosparso di urina dagli altri carcerati e chi si è macchiato di atti di pedofilia, rientra automaticamente nella categoria dei dannati. Anche chi non ubbidisce alle regole o entra in conflitto con i boss delle celle - ad esempio per non aver pagato un debito di gioco oppure per aver fatto la spia - può essere degradato al ruolo di intoccabile. A quel punto la vita diventa un incubo. “È peggio di una condanna a morte”, mi disse una volta un ex carcerato. Gli intoccabili mangiano da soli, si lavano in un lavello separato, passano gli anni della detenzione a pulire le latrine e le fogne. Gli altri carcerati non possono prendere nulla dalle loro mani, né rivolgere loro la parola. Il cibo viene messo in un frigo separato e le posate sono marcate con un foro. Ogni cosa che toccano diventa impura. Subiscono vessazioni di ogni genere, anche sessuali, dai prigionieri autorevoli, come appunto i ladri-in-legge e i loro alleati. La cultura delle carceri è omofoba e condanna l’omosessualità passiva, mentre quella attiva è diffusa e tollerata. Gli intoccabili sono spesso ragazzi giovanissimi e inesperti che ben presto si ammalano di AIDS (è curioso che nelle carceri femminili le donne omosessuali siano invece all’apice della gerarchia criminale). Chi fraternizza con gli intoccabili oppure mostra umana compassione verso di loro rischia di essere assimilato ad essi. Un modo di dire diffuso nelle carceri russe è: “Peggio della Kolyma (il campo più duro del sistema sovietico, detto “il crematorio bianco”) c’è solo la vita del galletto”. Il sistema - Il nuovo arrivato deve proteggersi non solo dai ladri-in-legge, ma anche dall’amministrazione penitenziaria, che spesso manipola le regole informali per soggiogare e vessare la popolazione carceraria. Uno dei modi più semplici per rendere la vita impossibile ad un dissidente o ad un criminale famoso è condannarlo per reati di pedofilia. Così egli entrerà immediatamente nella casta degli intoccabili, anche se l’accusa è del tutto infondata (va detto che il mondo criminale non crede sempre alle condanne ufficiali e sospende il giudizio fino a quando non ha raccolto informazioni durante una sorta di indagine parallela). Un’altra strategia adottata in certe carceri è quella di utilizzare gli intoccabili per stuprare i nuovi arrivati. Questi ultimi di norma passano una quindicina di giorni in quarantena prima di essere condotti in cella. Durante questo periodo i secondini e altri carcerati alleati dell’amministrazione cercano di capire se la recluta sarà disposta a collaborare facendo l’informatore, ammettendo al processo le proprie colpe (vere o presunte) e denunciando altri se necessario, oppure se sarà una testa calda, determinata a far valere i propri diritti e a ribellarsi ai soprusi. Chi resiste verrà coperto di urina, stuprato e picchiato a sangue. Vladimir Pereverzin, un manager dell’azienda Yukos che ha passato sette anni in galera, ha raccontato di essere stato messo difronte ad una scelta: o firmi la tua confessione oppure diventi un intoccabile. Ivan Astashin, un ex seguace di Limonov con un passato di militante nelle organizzazioni nazionaliste russe, è stato recluso quasi dieci anni, tra i 18 e 28, prima a Krasnoyarsk e poi Norilsk, accusato di essere parte di una cellula terroristica. Ivan mi parla dalla cucina del suo piccolo appartamento di Mosca. Ha lo sguardo penetrante e i capelli rasati a zero: “Il sistema degli intoccabili non esisterebbe se l’amministrazione penitenziaria non fosse complice. Essa mette a disposizione tavoli separati, frigo, orari delle docce speciali e così via. Queste persone sono utili perché fanno lavori che nessuno vuole fare. Nella mia unità c’erano circa 150 detenuti e una quindicina di intoccabili. Quando il numero scendeva l’amministrazione ne trovava altri.” Ivan, che oggi lavora per un’associazione che difende i diritti dei detenuti, mi conferma che circa il 15% dell’intera popolazione maschile in carcere in Russia è nella casta degli intoccabili: più di sessantamila persone, un numero che, se confermato, fa inorridire. Le torture sono note da anni, ma fino ad ora mancavano prove inoppugnabili, oltre alle testimonianze delle vittime. Un avvocato che rappresenta gli intoccabili, Alexander Vinogradov, ha dichiarato che, dal 2013 al 2020, questi hanno inoltrato 4.300 denunce alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Senza alcun esito. La Corte rispediva la denuncia al ministero russo che scriveva al carcere il quale, dopo un’approfondita indagine, concludeva che la denuncia era infondata. Le cose sono cambiate di colpo grazie ad un giovane bielorusso di 31 anni, Sergei Savelyev. Le rivelazioni di Sergei - Sergei risponde alle domande di Repubblica da una località sicura in Francia, dove ha fatto domanda di asilo. Vi è arrivato la notte del 15 ottobre 2021, dopo una fuga rocambolesca dalla Russia e sette anni di galera. Durante gli ultimi due anni di detenzione ha raccolto più di mille video di torture eseguite da funzionari dell’amministrazione penitenziaria. I filmati stanno cominciando ad essere resi pubblici e hanno già scatenato un terremoto avvertito nelle celle di tutto il mondo post-sovietico e nelle segrete stanze del Cremlino. Sergei non corrisponde all’immagine del criminale di professione. Assomiglia piuttosto al tecnico informatico che chiami se hai problemi di connessione, è piccolo di statura e porta gli occhiali. Durante la conversazione passa da un russo forbito e grammaticalmente sofisticato al gergo delle carceri. “Sì, sono io, quello che ha passato all’associazione non governativa Gulagu.net quelle immagini terribili.” Dalla sua voce emerge la difficoltà di parlare di questi temi. La conversazione fatica un po’ ad ingranare, poi prosegue spedita. Nel 2013, Sergei viene arrestato a Krasnodar per reati di droga: accetta di prendere in consegna un pacco che presto si rivela contenere sostanze proibite e viene arrestato immediatamente. Sembra una trappola scattata per far fare bella figura a qualche poliziotto locale. “È una storia semplice e triste, come tante.” Passa più di un anno e mezzo in attesa di processo in un carcere nei pressi di Krasnodar. “La cella era disgustosa, l’intonaco ti cadeva in testa, si facevano i turni per dormire, gli scarafaggi erano creature mostruose, enormi, con lunghi peli rossi, che salivano dalle fogne.” Arrivata finalmente la condanna e viene spedito a Saratov, un carcere con una pessima reputazione. “Cambiare colore” - “Le autorità di Saratov pensano che il penitenziario di Krasnodar sia ‘nero’, cioè controllato dai ladri-in-legge e quindi vogliono farti ‘cambiare colore,’ con le buone o con le cattive.” Questo trattamento avviene nelle celle di quarantena, dove i nuovi arrivati devono passare due settimane. Lì gli “operativi” ti fanno domande, cercano di capire se sarai un piantagrane e ti picchiamo selvaggiamente. Una volta entrato nel carcere vero e proprio, Sergei viene assegnato all’infermeria, dove svolge mansioni d’ufficio. Compila moduli, redige verbali, smista chiamate, immette dati in un computer. Passa tutto il giorno in ufficio e torna in cella solo la sera tardi. Nel 2016 si ammala di polmonite e il medico di turno sospetta che abbia anche la tubercolosi. Per fare i raggi viene trasferito nell’Ospedale Regionale Tubercolosi Numero 1, universalmente noto con l’acronimo OTB-1, famoso non tanto per l’eccellenza diagnostica e terapeutica, ma per essere un centro torture. Sergei fa di tutto per non andare, ma senza successo. Dopo una serie di analisi, scopre di non aver mai avuto la tubercolosi. Ma ormai è lì e non può più ritornare al suo precedente incarico. Gli “operativi” che lo tengono sotto osservazione hanno decretato che è una persona affidabile e può essere utile nell’OTB-1. Finisce così a lavorare nell’ufficio di comando dell’ospedale. È un lavoro che non gli dispiace, simile al precedente, che gli permette di passare il meno tempo possibile in cella. Oltre a diversi compiti amministrativi, fare fotocopie e ordinare l’archivio, deve anche scaricare i video dei filmati registrati dalle fotocamere indossate degli agenti di servizio. “Servivano certe competenze informatiche per gestire le registrazioni,” dice. All’inizio, non vede nulla di interessante: un poliziotto ispeziona la mensa, un altro entra ed esce da una camerata, un terzo visita un deposito. Durante tutto questo tempo sa di essere sotto stretta osservazione. “Dopo circa due anni arriva la svolta: si fidano abbastanza di me, al punto da darmi i video delle torture, col compito di cancellarli oppure di inoltrarli ad altri uffici.” Le torture - Le torture non avvengono per caso, sono pianificate nei minimi dettagli, in stanze senza telecamere fisse al muro, sostiene Sergei. L’aguzzino porta una videocamera portatile, semplice ma efficace, e filma l’intero evento. Tutti sapevano che queste cose avvenivano, ma fino a quando non le ho viste con i miei occhi non mi sono sembrate reali. Ho cominciato a guardare il girato ed ero disgustato. All’inizio non sapevo cosa fare. Poi ho deciso di copiarli. Il piano prende forma intorno al 2019, quando Sergei decide di duplicare e nascondere i file che gli consegnano. A volte il tempo è troppo breve, oppure il detenuto è troppo controllato e non riesce ad agire. Sergei è l’unica persona nella storia del sistema penitenziario russo ad aver trafugato materiale così esplosivo. La quantità è straordinaria: due terabyte di materiale, migliaia di video raccolti in neppure due anni, correndo un rischio grandissimo. Le immagini sono inoppugnabili. “Dove hai trovato la forza?”. “Non saprei. L’ho fatto e basta. La cosa più importante per me è stata concepire un piano. Per fare questo dovevo criptare i file in maniera sicura. Facevo molta fatica a stare calmo, lo stress era enorme, ma alla fine ce l’ho fatta.” Una volta l’ufficio di Sergei viene perquisito da funzionari venuti apposta da Mosca, alla ricerca di materiale compromettente, per un’indagine che non lo riguardava. I file che aveva nascosto non vengono trovati. Allo scadere della pena torna a vivere in Bielorussia e, a partire dal febbraio del 2021, comincia a spedire i documenti all’associazione non governativa basata a Parigi Gulagu.net, fondata e diretta da Vladimir Osechkin. “All’inizio noi stessi non potevano credere che il materiale fosse autentico, sospettavamo che fosse una provocazione dell’FSB per metterci in difficoltà. Poi abbiamo cominciato a pensare che fosse autentico e provenisse da un funzionario delle carceri. Solo il 24 di settembre Sergei rivelò la sua identità, ci disse di essere in pericolo e che voleva scappare dalla Russia. Anche a quel punto non eravamo sicuri al cento per cento. Presto però ci siamo convinti, dopo aver raccolto informazioni da altri detenuti che lo conoscevano. Sergei ha fatto tutto da solo, è un eroe del nostro tempo”, dice Osechkin dalla sede di Galugu.net di Parigi. Quando Sergei capisce che la sua identità è stata compromessa, non gli resta che scappare in Francia, passando per la Turchia e la Tunisia, e chiedere asilo politico. L’orrore delle immagini - I video cominciano ad apparire il 10 novembre del 2021 sul canale YouTube di Gulagu.net. Sono troppo disturbanti per poterli guardare nella loro interezza: le vittime sono tenute ferme mentre vengono stuprate, le urla spaccano i timpani, i tentativi di resistenza sono futili. Il 25 giugno 2020, un uomo ordina ad un prigioniero, con le mani legate alla branda e le gambe sollevate sulla testiera, di dichiarare il suo nome forte e chiaro. L’operatore inquadra il volto in primo piano, insieme alle corde che lo legano, mentre un altro uomo lo tiene per le gambe. La vittima è quindi ripresa di lato, mentre un aguzzino lo stupra, senza usare il preservativo. Anche chi aderisce alla fratellanza dei ladri-in-legge viene preso di mira. Nel girato del 10 aprile del 2020, si vede un giovane, nudo, che giace a pancia in giù con le mani legate con un nastro adesivo dietro la schiena. L’aguzzino gli pianta un anfibio sulle scapole, lo chiama per nome e aggiunge: “Chi sei nella vita?” Il prigioniero risponde: “Nessuno, sono un pezzente.” Una voce fuori campo aggiunge: “Sei un galletto.” L’altro continua a premere l’anfibio sulla testa del prigioniero e lo apostrofa: Ma che ladro-in-legge vuoi essere tu... - La tortura è solo all’inizio, l’abiura della fratellanza già compiuta. Negli altri casi, viene punito chi si lamenta troppo, chi scrive denunce contro l’amministrazione, chi non vuole ritirare una testimonianza scomoda, chi è scappato dal campo, chi non vuole svolgere certi compiti onerosi. Capita anche che alla vittima venga chiesto di revocare il proprio difensore, se è troppo solerte nel suo lavoro. Se rifiuti sai cosa ti aspetta. E fa impressione scoprire che la chiesa ortodossa è a soli 100 metri di distanza da questo inferno, ma la carità cristiana non potrebbe essere più lontana. Come è possibile che altri prigionieri si macchino di delitti così turpi? “Molti sono stati stuprati a loro volta. In prigione non ci sono persone il cui destino non sia stato snaturato, la cui psiche non sia stata danneggiata. Io posso capire perché le guardie carcerarie e i loro alleati tra i prigionieri infliggano quel dolore, ma non li posso giustificare. La gran parte di loro non sono dei sadici, lo fanno per sopravvivere, il sistema crea mostri.” Gli chiedo se pensa che il suo gesto possa cambiare qualcosa. “C’è il rischio che, ora, vengano puniti gli esecutori materiali o i funzionari di basso rango, che compaiono nei video, e non chi ha ordinato gli stupri, chi ha permesso che essi avvenissero. Spero che il mio gesto spinga tutti a raccontare la propria storia.” Ma il codice criminale decreta che chi rivela la propria sventura entri automaticamente nella categoria degli intoccabili, rendendo molte confessioni di chi è oggi in carcere improbabili. Almeno fino a quando il codice stesso non cambia. Il documento dei ladri in legge - La dichiarazione di dicembre è una risposta diretta alla pubblicazione dei video di Sergei di circa un mese prima. I boss hanno deciso di cambiare le regole. Chi è stato stuprato con una scopa oppure un manganello da parte della polizia (definita ‘spazzatura’ in tutto il testo) non deve essere assimilato ad un intoccabile. Chi è stato violato con un pene non può, a buon diritto, mangiare e bere insieme ai boss, ma - e qui sta la novità - non deve neppure essere considerato un “galletto” e può interagire con gli altri carcerati. “Umiliare e irridere” le vittime degli stupri perpetrati dalle autorità e dai loro sgherri non è un atto degno di un uomo. Aggiungono i ladri-in-legge: “A livello umano, si può solo simpatizzare con loro.” Il testo continua con un appello a chi ha firmato documenti di collaborazione con le autorità e teme quindi di diventare un intoccabile. “Non è così, mille volte no. Comunicate la vostra situazione e gli uomini vi aiuteranno” (per ‘uomini’ si intendono i prigionieri che rispettano il codice delle prigioni). Chi è stato aggredito a Saratov oppure a Irkutsk (un altro famigerato centro di torture) non deve temere di raccontare la propria storia. Se sarà sincero, verrà trattato con compassione. Il testo si conclude con la firma, “la massa dei ladri-in-legge,” e con l’esortazione a diffonderne il contenuto. Secondo il sito che ha distribuito il testo, Baza, esso è stato scritto ad un conclave di ladri-in-legge in cui era presente anche Shakro il giovane (Zakhary Kalashov), un boss particolarmente influente. Appena il documento è stato reso noto sul canale Telegram dell’agenzia Baza si è scatenato il dibatto: è autentico oppure è un prodotto dei servizi segreti? Le teorie cospirative in un paese come la Russia abbondano. Alcuni sostengono che sia un falso messo in circolazione dalla stessa ONG Gulagu.net. Un lungo articolo pubblicato su Novaya Gazeta il 15 dicembre sviscera la questione intervistando diversi esperti ed ex carcerati. L’opinione generale (ma non del tutto unanime) è che esso sia autentico. Le analisi pubblicate sul sito MediaZona giungono alla medesima conclusione. Eva Merkacheva, una giornalista e attivista per i diritti umani, da poco silurata dalla commissione consultiva dell’Amministrazione carceraria federale, ha detto di aver ricevuto il testo da un detenuto vicino al mondo dei ladri-in-legge. “Non ho alcun dubbio sulla sua autenticità”. Anche Sergei dice di non credere che sia un falso: “I miei avvocati, collaboratori ed ex compagni di prigione mi hanno tutti confermato che è autentico. Del resto, se così non fosse, sarebbe stata pubblicata una smentita”. Per molti aspetti, la dichiarazione di dicembre è simile ad altre diffuse dai boss nel corso degli ultimi anni. Ad esempio, i concetti e le parole-chiave positivi, come il rispetto reciproco e l’unità, sono sottolineati due volte, con mano ferma. Un motto diffuso nel Gulag spiega che la doppia sottolineatura rimanda ad una persona “certa del proprio valore, che si regge sicura sulle proprie gambe”. Al contrario, i concetti negativi, come la ‘monnezza’ e il disordine, hanno una doppia sottolineatura ondulata, allo stesso modo come sono “vacillanti e senza spina dorsale coloro per i quali i ladri-in-legge non hanno rispetto.” Lo stile è molto simile a dichiarazioni di questo genere del passato. Ad esempio, la Dichiarazione di Dubai, un testo che annuncia il conferimento del titolo di boss a sedici persone durante una cerimonia avvenuta a Dubai nel 2012 (ne parlo in Vita di mafia) è strutturalmente identica, anch’essa scritta a mano e in corsivo. Anche in quel caso, il testo inizia rendendo omaggio alla comunità dei ladri-in-legge, per poi annunciare i nomi dei nuovi boss e le ultime novità. Allora il documento apparve sul sito PrimeCrime.ru. Internet e i canali Telegram sono oggi il nuovo radio-carcere, che raggiunge tutti. Ivan Astashin da Mosca mi racconta però che nel suo penitenziario le dichiarazioni arrivavano su fogli scritti a mano, passati da prigionieri in transito. “Nel mio periodo vi erano spesso editti sul consumo di droga. Uno, ad esempio, imponeva di non fare un uso smodato di eroina e metadone. Un altro proibiva tassativamente il consumo di nuove droghe sintetiche, come lo spice (un potente mix di erbe e sostanze chimiche). Tutti, anche noi politici, obbedivamo a questi ordini.” Vi è però una differenza cruciale rispetto alle dichiarazioni del passato (dette in gergo progon). Mentre quelle del passato portano in calce i nomi dei boss, questa non è firmata. Già a novembre l’influente ladro-in-legge Beso Kvinikhidze (Beso Rustavsky) parlò in pubblico contro la pratica degli “operativi” di violare i carcerati: “Ci sono persone che si uccidono per non perdere il proprio onore. E molti sono semplicemente assassinati dagli operativi durante la tortura.” Perché allora non firmare? Ivan Astashin non ha dubbi. Dice: “In base ad un nuovo articolo del Codice penale, introdotto nel 2019, chi si dichiara ladro-in-legge rischia una pena dagli 8 ai 15 anni; quindi, nessuno vuole firmare col proprio nome” (il primo processo di questo tipo è stato intentato a Tomsk ed è ancora in corso). La fonte - Per accertarsi dell’autenticità del documento, Repubblica ha contattato un alto esponente dei ladri-in-legge che oggi vive in Grecia. Che già in passato ha aiutato a decifrare questo mondo, facendo a chi scrive anche un regalo, un ciondolo che rappresenta una mano. Nel palmo stringe due dadi, mentre nel dorso vi è rappresentata la stella a otto punte dei vory-v-zakone (il termine russo per i ladri-in-legge). Il ciondolo è stato prodotto nei laboratori delle carceri greche. “Sì - ha risposto. Abbiamo ricevuto la dichiarazione all’inizio di dicembre, appena promulgata. È autentica e sappiamo chi l’ha scritta.” Ci tiene ad aggiungere che anche in passato se un “uomo” veniva stuprato con un oggetto, come un bastone o una scopa, oppure veniva cosparso di urina da parte delle guardie o dai prigionieri “venduti”, non sarebbe entrato nella casta degli intoccabili. “Altra cosa è essere toccati da un *** (pene).” In questo caso, la regola era - e continua ad essere - la degradazione nella casta degli intoccabili. La novità consiste che costui debba essere trattato con rispetto e compassione. La fonte aggiunge un dettaglio cruciale: “Nel nostro mondo, il documento ha creato molte discussioni. C’è una divisione profonda tra chi accetta la nuova risoluzione e chi difende le vecchie regole. Questo dibattito può sfociare in un conflitto e qualcuno può farsi male.” Potrebbe ripetersi quindi la lotta intestina ai ladri-in-legge scatenatasi durante la Seconda guerra mondiale, quando alcuni boss tradizionalisti, contrari ad ogni collaborazione con l’URSS, si rifiutarono di andare a combattere per l’Unione Sovietica? “Sì, è possibile,” mi ha risposto con la brevità che si addice al personaggio, ma ha aggiunto anche che spera che il conflitto non sarà così cruento. La fratellanza dei boss è comunque in difficoltà. Non esiste una regia unica, un Boss dei Boss che possa parlare a nome di tutta la mafia russa. Molti sono in carcere in Europa, con una visione diversa rispetto a chi è in Russia. Un conflitto sulla dichiarazione di dicembre rischia di indebolire ulteriormente la fratellanza. Olga Romanova, una giornalista finanziaria molto nota negli anni Novanta, la quale ha fondato nel 2008 l’associazione “Russia dietro le sbarre” dopo l’arresto del marito, risponde alle mie domande da Berlino, dove si è rifugiata di recente: “I ladri-in-legge stanno subendo una forte pressione dal sistema di potere ‘verticale’ di Putin. Fino a circa il biennio 2014-2015 vi era una alleanza di fatto tra potere e strutture criminali. Poi Putin si è reso conto che i ladri-in-legge stavano ottenendo troppi vantaggi e ha cominciato ad adottare una serie di misure legislative contro la fratellanza, per costringerli a collaborare da una posizione di inferiorità.” A suo parere, questo è anche il periodo in cui si è diffusa la tortura nelle carceri. Dal 2020 chi divulga la cultura del “mondo criminale” (definita in modo vago) può essere equiparato a chi promuove materiale estremista o terrorista. Per questo i giornali russi non hanno pubblicato per intero il documento di dicembre. Inoltre, un nuovo articolo del Codice penale prevede il carcere per la semplice appartenenza alla fratellanza, una fattispecie che ricalca l’associazione a delinquere di stampo mafioso. I difensori del Presidente fanno notare che le norme sono mutuate da altri paesi, come l’Italia e la Georgia. Di certo queste misure sono introdotte in un clima di crescente autoritarismo e possono essere usate per ridurre la libertà di stampa e di ricerca. Una nuova legge sugli “agenti stranieri” costringe molti giornali e siti a far precedere ogni loro articolo da un testo in maiuscolo che dichiara: “Questo contenuto è prodotto da un ente straniero”. La storica ONG Memorial, fondata dal premio Nobel Andrei Sakharov nel 1989 con lo scopo di tenere viva la memoria e lo studio delle repressioni staliniane, è stata sciolta nel dicembre del 2021 proprio per aver violato, secondo l’accusa, la legge sugli enti stranieri. Il terremoto - Le rivelazioni di Sergei stanno cominciando a fare effetto. Una volta resi pubblici i primi video, 400 carcerati a Saratov hanno denunciato abusi sessuali, torture ed estorsioni. Video simili sono emersi da altri quattro penitenziari. Sergei mi dice: “È un numero altissimo di persone che non hanno paura di parlare. Non si è mai visto niente di simile in passato.” Il racconto di un altro detenuto di Saratov, Alexei Makarov, conferma i filmati trafugati da Sergei. Secondo Makarov, almeno cento persone hanno subìto abusi e stupri nel periodo in cui lui era lì, dal 2018 al 2020. Prove di torture sistematiche sono apparse anche in altri penitenziari, quali Krasnoyarsk, Irkutsk, Angarsk e Blagoveshchensk. Denis Golikov ha ammesso (in un video pubblicato da Gulagu.net) di essere stato un torturatore nel campo di Irkutsk. “Quando arrivai in prigione pesavo 56 chili ed ero alto 173 centimetri. Gli operativi mi hanno imbottito di steroidi e sono ingrossato fino a 117 chili”. Per non essere stuprato egli stesso, è diventato un aguzzino. Secondo Gulagu.net, stupri di massa sono avvenuti nelle celle del carcere di Irkutsk per punire i carcerati che avevano inscenato una protesta. Tra aprile e novembre del 2020, 400 detenuti sono stati stuprati, ha detto Golikov. Lo scandalo ha spinto Putin a esonerare dall’incarico il direttore dell’amministrazione penitenziaria, Alexander Kalashnikov, un generale che proveniva dall’FSB. Lo ha sostituito con un viceministro ed ex poliziotto, Arkady Gostev, che dovrà gestire quasi mille e duecento penitenziari e un bilancio di 4 miliardi di euro, l’1.5% delle intere spese statali (la percentuale più alta in Europa). Circa una ventina di altri funzionari sono stati destituiti, tra cui il direttore dell’Ospedale Tubercolosi Numero 1 di Saratov e il direttore del carcere di Irtkusk, anch’esso al centro dello scandalo. Tra i licenziati vi è anche il vice di Kalashnikov, Anatoly Yakunin. Sergei dice di non aver mai incontrato Yakunin, ma questi era l’unico funzionario di alto rango ad aver cercato di porre un argine alla tortura sistematica, con diverse visite nelle carceri e incontri con vittime e avvocati difensori. “Yakunin sembrava davvero sincero nel voler riformare il sistema e mi spiace che un effetto non voluto delle mie rivelazioni sia stato il suo licenziamento”. Lo scandalo ha inferto un duro colpo alla gestione dell’FSB delle carceri russe. Il nuovo capo ha una buona reputazione e toccherà a lui metter in atto riforme per porre fine alla tortura sistematica. Certo un cambiamento sarà possibile solo se vi sarà una spinta decisiva da parte di Putin. Nella conferenza di fine anno, Ksenia Sobchack, la figlia del defunto sindaco di San Pietroburgo e mentore del giovane Putin, ha avuto il coraggio di chiedere all’inquilino del Cremlino cosa pensasse dello scandalo. Putin ha risposto: “Queste torture avvengono anche nei penitenziari americani e francesi. La giustizia russa ha aperto 17 indagini sul caso e i colpevoli saranno puniti.” Il 6 gennaio di quest’anno il Cremlino ha chiesto al Ministero della Giustizia di avanzare entro il primo giugno proposte per ridurre il bullismo nei luoghi di detenzione e alcuni deputati stanno per proporre una legge sulla tortura (oggi le guardie possono essere accusate solo di abuso di potere). Sergei commenta: “Si parla da almeno dieci anni di una legge sulla tortura nelle carceri. Certo è un segnale positivo che adesso ci sia un nuovo impeto, grazie alle nostre denunce.” Il suo caso personale non fa ben sperare: la procura di Mosca dapprima ha aperto un’indagine nei suoi confronti per la diffusione di segreti di stato, poi l’ha chiusa. Ma, teme Sergei, altre imputazioni contro di lui sono in arrivo. Quando un regime diventa autoritario, anche le mafie perdono autonomia, perché esso non tollera alcuna forma di potere alternativo e loro vengono schiacciate. Ad esempio, non esiste la mafia in Corea del Nord e nella Russia di Stalin la fratellanza fu quasi interamente decimata. Le grandi associazioni criminali prosperano nei regimi democratici, che combattono le mafie senza infrangere lo stato di diritto, senza torture o esecuzioni sommarie. Questo è il prezzo che si paga per rimanere umani. Torna alla mente la conversazione con Sergei. “Il carcere è un luogo che deforma l’anima,” dice, e aggiunge, a fatica, con la voce rotta: “In prigione ho perso le mie più grandi qualità umane, il senso dell’umorismo, la fiducia negli altri, la mia ingenuità. Mi sembra di essere affetto da una disabilità emotiva. Non sono certo che ritornerò mai ad essere quello che ero.” Senza volerlo, queste parole ricordano quelle scritte da Varlam Shalamov, che fu confinato nel Gulag sovietico negli anni Trenta e Quaranta per sedici anni (i suoi scritti sono stati tradotti in Italia per la prima volta dallo slavista Piero Sinatti). In un racconto, La quarantena del tifo, Shalamov descrive il suo alter ego con queste parole: “Lui era una scoria, uno scarto. Non provava altro che odio. Le piaghe dell’anima non potevano guarire tanto facilmente. E non guarirono mai più”. Le prigioni sono l’esame morale di una nazione, di un popolo. Chi non supera questa prova non può dirsi civile. Turchia. La repressione è la principale risorsa del regime di Erdogan di Fabio Marcelli Il Fatto Quotidiano, 13 gennaio 2022 Nei pressi della ridente cittadina di Silivri, a circa 120 chilometri da Istanbul, ferve il lavoro delle scavatrici. È in costante ampliamento il più grande carcere del pianeta, che ospita al momento oltre 25mila detenuti, in gran parte politici. Di fronte al carcere si erge il Tribunale penale dove ho assistito, martedì 4 gennaio, all’ennesima udienza del processo contro Selçuk Koza?açl?, presidente di un’associazione di avvocati progressisti, e Barkin Timtik, sorella di Ebru Timtik, avvocata morta durante lo sciopero della fame un anno e qualche mese fa e dirigente della stessa associazione. Un processo che dura da anni, trascinandosi incongruamente attraverso una molteplicità di fasi e procedure, con accuse tanto gravi (organizzazione terroristica) quanto infondate (dvd acquisiti all’estero e probabilmente manipolati, testimonianze provenienti da un soggetto psichicamente labile e da un probabile agente dei servizi). E i due imputati in questa branca dell’intricatissima procedura, al pari di molti loro compagni, hanno già trascorso almeno cinque anni in carcere duro. L’udienza di mercoledì mattina è durata quattro ore e si è conclusa colla decisione della Corte di accordare la perizia tecnica sui dvd menzionati e il conseguente rinvio al 23 marzo. Una piccola vittoria parziale della difesa in questa interminabile guerriglia giudiziaria che oppone le ragioni dello Stato di diritto all’imperiosa volontà politica del regime di Erdogan che ha completamente assoggettato la magistratura, sostituendo, licenziando o imprigionando i giudici non disponibili a rendersi strumento passivo del potere. La repressione costituisce oggi in effetti di gran lunga la principale risorsa del regime di Erdogan di fronte a un Paese attraversato da profonde spaccature e oggi in preda a una grave crisi economica. I processi si susseguono praticamente a ritmo quotidiano. Oggi ho assistito a un altro contro alcuni studenti dell’Università Bogazici, arrestati per avere tenuto una pacifica dimostrazione a favore della libertà di espressione e contro la nomina dall’alto del Rettore. La gravità delle lesioni ai più elementari lesioni dello Stato di diritto è stata confermata dal Presidente del Consiglio degli avvocati di Istanbul che ho incontrato ieri insieme ai delegati di importanti organizzazioni forensi italiane ed europee, il quale ha significativamente affermato che l’attacco contro Selçuk e Barkin costituisce un attacco contro tutti gli avvocati. La repressione di Erdogan riguarda tutti i settori sociali: professionisti (avvocati, medici, giornalisti), intellettuali, docenti, sindacalisti, femministe, membri del movimento Lgbt, studenti, lavoratori, alaviti, kurdi, politici di opposizione. La politica di grandeur internazionale abbinata all’allineamento sulle posizioni più retrive del pensiero islamico e all’esasperato nazionalismo sul piano interno sta chiaramente perdendo colpi anche per effetto della crisi economica. Alcuni settori progressisti fanno molto affidamento sulla Corte europea dei diritti umani, che in questa situazione rappresenta in effetti un punto di riferimento importante per la difesa di principi universali di diritto e giustizia. Ma come sappiamo la coerenza dei governi europei lascia molto a desiderare, come dimostrato dai finanziamenti accordati a Erdogan per contenere i flussi migratori e dalle continue vendite di armi, giustificate anche dalla comune appartenenza alla Nato. È invece oggi più che mai necessario prendere posizione e mobilitarsi per un’effettiva rigenerazione democratica della Turchia che deve vedere ovviamente come primo passo la liberazione di tutti i prigionieri politici, compreso lo storico leader kurdo Abdullah Ocalan. Si tratta di un passaggio fondamentale per la sicurezza e la pace dell’intera area mediterranea e mediorientale, che negli ultimi anni ha visto un susseguirsi di gravi conflitti colla conseguente crescita dei flussi di profughi e delle gravi violazioni dei diritti umani nell’area. Il governo italiano e quelli europei dovrebbero essere all’altezza dei loro compiti, agevolando questa effettiva democratizzazione della Turchia, da sempre ponte geografico e culturale tra Est ed Ovest e quindi di enorme significato strategico per tutta l’area. Compito oggi tanto più importante e urgente per l’evidente venir meno della tradizionale funzione di guida esercitata, nel bene e nel male, dagli Stati Uniti d’America. Occorre però onestamente dubitare che l’attuale Unione Europea divisa, confusa e preda delle lobby possa essere all’altezza di questo come di altri compiti. D’altronde, a ben vedere, una rigenerazione democratica è necessaria e urgente anche da noi. Anche da tale punto di vista siamo fratelli e sorelle di turchi, kurdi e degli altri popoli che vivono sul territorio della Repubblica di Turchia. Siria. Processo in Germania: “Così ho portato alla sbarra il torturatore del regime di Assad” di Marta Serafini Corriere della Sera, 13 gennaio 2022 Oggi la sentenza a Coblenza. Tra i testimoni un avvocato che lo ha rincontrato per caso. “Sarà giustizia non sarà vendetta”. Ci sarà anche Anwar Al Bunni in tribunale a Coblenza. È qui, alla confluenza tra il Reno e la Mosella, che oggi finalmente va a sentenza per la prima volta uno dei gerarchi di Assad, accusato di aver torturato, stuprato e ucciso migliaia di oppositori siriani. Anwar Raslan, 58 anni, rischia l’ergastolo. A portarlo alla sbarra, un altro Anwar. Al Bunni, 62 anni, attivista e avvocato. Al Bunni è in Germania da un paio di mesi quando si trova faccia a faccia con l’uomo che lo aveva incarcerato e torturato dieci anni prima. Entrambi stanno facendo la spesa in un negozio turco vicino a Marienfelde, centro per rifugiati di Berlino, che ora entrambi chiamano casa. Un lampo e un istante, per un attimo ad Al Bunni si accende qualcosa nella memoria. “Conosco quest’uomo”, dice alla moglie. Ma non riesce a ricordarsi chi sia. Poi la sensazione passa. E’ il 2014, un anno prima che Angela Merkel spalanchi le porte ai rifugiati siriani. “Dopo alcuni giorni, uno dei miei amici ha detto: “Sapevi che Anwar Raslan è a Marienfelde?”“. E a quel punto Al Bunni fa due più due. I due Anwar, nati a quattro anni di distanza, hanno entrambi studiato legge, ma hanno scelto lati opposti della barricata siriana. Raslan era diventato un agente di polizia, prima di trasferirsi ai servizi di intelligence, dove avrebbe incontrato e torturato Al Bunni. Al Bunni a sua volta prima di intraprendere la carriera legale, all’inizio degli anni ‘80 trova impiego nel settore edilizio. E in quegli anni partecipa alla costruzione della prigione di Sednaya, la stessa dove saranno imprigionati tutti gli oppositori politici. E tra le cui mura, per una beffa del destino, la sorella di Al Bunni, tre fratelli, una cognata e un cognato trascorreranno parte della loro detenzione. Ed è proprio per loro che Anwar diventa avvocato. Quando inizia il suo apprendistato legale a metà degli anni ‘80, insieme ad altri giovani avvocati chiede il conto al governo delle detenzioni ordinate da Hafez Assad. Nel 2006 viene condannato a cinque anni per “diffusione di notizie false”, aver fondato un gruppo politico senza licenza e aver trattato con l’estero. Ed è qui che per la prima volta si trova davanti Raslan. Quando viene rilasciato nel 2011, la situazione in Siria sta ulteriormente peggiorando. Così Al Bunni, prima manda moglie e figli all’estero. E di nascosto pianifica la sua fuga. Si tinge baffi e capelli di biondo e indossa delle lenti a contatto blu. Poi, grazie all’aiuto di un amico, riesce a passare in Libano, da lì vola a Berlino dove chiede asilo politico e dove ritroverà per caso il suo carnefice. “Subito dopo aver rincontrato Raslan non ci ho pensato più di tanto. Ma qualcosa continuava a ronzarmi in testa”. Al Bunni inizia a lavorare per trovare testimonianze e prove contro il regime. Non difficile nella Germania dove è scappata mezza Siria. E il nome di Raslan ritorna fuori. Lui l’Anwar cattivo ed ex colonnello del mukhabarat siriano, prima di disertare nel 2012, ha lavorato per l’intelligence militare, presumibilmente a capo della sezione 251. Lì, sostengono i pubblici ministeri, Raslan ha istituzionalizzato la tortura sottoponendo i suoi prigionieri a scosse elettriche, percosse e aggressioni sessuali. Oggi Al Bunni, dopo aver testimoniato contro Raslan, si troverà di nuovo faccia a faccia con il suo aguzzino. “Certo, per i siriani della mia generazione c’è ben poca speranza di vedere un Assad alla sbarra”, spiega ancora. La Siria non riconosce la Corte Penale internazionale e, per il momento, Bashar Assad sembra ancora saldo al comando. Sono allora i tribunali come quello di Coblenza l’unico luogo in cui si può sperare nella giustizia. “Ma solo in quei Paesi - e la Germania è tra questi - che includono la dottrina della giurisdizione universale nelle loro leggi, consentendo ai loro giudici di perseguire qualcuno per un crimine commesso in un altro Stato”. A poche ore dall’udienza, Al Bunni non smette di sorridere (oltre che di fumare). Dice di sentirsi ancora forte. E a chi gli chiede notizie, risponde sereno. “Non ho mai, mai perso la mia fede. Raslan trascorrerà in carcere gran parte della sua vita”. Afghanistan. La strategia occidentale: affamare il paese per indebolire i Talebani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 13 gennaio 2022 Malnutriti cinque milioni di bambini. Metà della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari. Appello disperato delle Nazioni unite: servono subito 4,4 miliardi di dollari. Ma l’Europa si accoda agli Usa e decide di non decidere. “Abbiamo bisogno di 4,4 miliardi di dollari per assistere in Afghanistan più di 22 milioni di persone con cibo, cure sanitarie, sostegno per salvargli la vita”. Così ha dichiarato ieri a Ginevra Martin Griffiths, sottosegretario generale dell’Onu per gli Affari umanitari. Si tratta “del più ampio appello mai fatto per l’assistenza umanitaria di un solo Paese ed è tre volte la cifra di cui c’era bisogno, e raccolta, nel 2021”. Una cifra enorme, ma utile solo a tamponare, non risolvere, la drammatica crisi afghana. Più di metà della popolazione dipende dall’assistenza umanitaria, “con un incremento del 30 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021”, “quattro milioni di bambini sotto i cinque anni rischiano la malnutrizione, di cui un milione in forma acuta”. Il messaggio di Martin Griffiths, per conto dell’Onu, “è urgente: non chiudete le porte alla popolazione”. Non chiudete i rubinetti finanziari. Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i Rifugiati, ha chiesto ulteriori 662 milioni di dollari per gestire la crisi migratoria in corso, dentro l’Afghanistan e nei Paesi confinanti. Una crisi destinata ad aggravarsi nei prossimi mesi, quando saranno ancora più evidenti gli effetti della caduta libera dell’economia la cui contrazione, ha ricordato Griffiths, in pochi mesi è stata “del 40 per cento”. Forse la più repentina e radicale della storia contemporanea. L’Onu batte cassa. Suona la sveglia alla politica, alla comunità internazionale. Che pure, a metà dello scorso ottobre, durante il G-20 straordinario sull’Afghanistan, molto aveva promesso. A condizione che l’aiuto non finisse nelle mani dei Talebani. L’Onu rassicura: i soldi non finiranno all’Emirato. Ma il nodo è politico. E nessuno lo affronta in modo esplicito. In Europa, come spesso accade, ci si accoda a Washington. Prima nell’avventura militare, fragorosamente fallita. Ora anche nello stallo diplomatico successivo alla conquista del potere dei Talebani, a metà agosto. Ci si accoda nell’incertezza sul che fare. Nell’evitare la domanda centrale: occorre lasciare che il Paese collassi, che sprofondi nella crisi più nera, che si destabilizzi una volta per tutte, pur di mantenere il principio che con i Talebani non si parla, oppure occorre impedirlo, riconoscendo che con i Talebani si deve parlare, pur senza riconoscerne il governo, che l’aiuto umanitario non è che un palliativo e che occorre prendere posizione, qui e ora, per impedire la catastrofe? A parte gli esponenti delle Nazioni unite, nessuno che prenda posizioni o che metta i nostri governi di fronte alle loro responsabilità. Eppure è urgente decidere, qui e ora, come ha detto lo stesso Martin Griffiths. Senza quei soldi, “non ci sarà un futuro”. Che Washington sia riluttante a mostrarsi flessibile nei confronti dei Talebani - notava due giorni fa sul New York Times Laurel Miller dell’International Crisis Group - è fisiologico. La sberla è stata tremenda. Sull’amministrazione Biden pesa il disastro della drammatica evacuazione di agosto, l’esatto contrario del “ritiro responsabile” di cui parlava fino a poche settimane prima. Pesa il fatto di aver legittimato politicamente un gruppo islamista radicale che, dopo aver condotto lunghi negoziati a Doha con l’inviato Usa, ha poi conquistato il potere con la forza, infischiandosene degli ammonimenti delle cancellerie euro-atlantiche. Pesa la preoccupazione di perdere ulteriore consenso elettorale, di favorire i Repubblicani, convinti che ai Talebani non si debba concedere nulla. E che anzi occorra usare la leva finanziaria come strumento di condizionamento. Ma se Washington ha fallito nell’ottenere ciò che voleva quando usava la leva militare, perché dovrebbe funzionare ora, con la sola leva finanziaria? E con quali rischi? Quello di mandare in malora un intero Paese, condannare metà della popolazione alla fame, costringere l’altra metà all’emigrazione è forse un rischio che va corso per non legittimare i Talebani? O non bisognerà correre il rischio opposto: parlare con i Talebani per evitare il tracollo di un intero Paese?