Covid, grave impatto sulla salute mentale anche dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2022 L’emergenza Covid 19 viene letta quasi esclusivamente da punto di vista della salute fisica. Ma come ha recentemente affermato David Lazzari, presidente nazionale dell’ordine degli psicologi, tra i reduci del Covid e una popolazione smarrita e stanca, spesso impaurita da questa emergenza che non sembra finire. è da tempo in atto un’altra emergenza: ed è quella psicologica che solo la politica pare non vuol vedere. Lo si evince dal fatto che a fronte dei miliardi investiti per fronteggiare la salute fisica nella pandemia, la salute psicologica è stata oggetto di attenzione ed investimenti quasi inesistenti. L’ultimo atto è stata la bocciatura da parte del governo al ‘bonus psicologo’. Questo nel mondo libero. Se pensiamo però per quanto riguarda la popolazione detenuta, dove ogni problematica dietro le sbarre è amplificato, l’investimento nella salute psichica è prossima allo zero. Diversi studi hanno considerato gli effetti della pandemia sulla sfera psichica. Il Covid 19 non è solo un virus che colpisce la salute fisica di chi lo contrae, ma porta con sé una serie di conseguenze psicologiche non trascurabili: la paura, il senso di solitudine e di abbandono durante il periodo di isolamento in casa o durante il ricovero in ospedale. La letteratura scientifica ci dimostra che un certo numero di persone ha sperimentato un notevole disagio psicologico durante la pandemia in termini di ansia, depressione e sintomi da stress post- traumatico. A livello della popolazione generale, i risultati sono relativamente coerenti in termini di gravità: la maggior parte degli individui soffre di disturbi lievi- moderati, mentre i soggetti che riportano sintomi gravi sono una minoranza. Alcune categorie però si sono rivelate particolarmente vulnerabili e hanno manifestato i sintomi mentali con più frequenza e gravità: gli operatori sanitari, specie quelli più a contatto con i portatori dell’infezione; i pazienti affetti da Covid-19; gli anziani, specie se affetti da patologie croniche; i bambini e gli adolescenti; il genere femminile più di quello maschile; le persone neurolabili o affette da disturbi psichiatrici preesistenti (specie quelle borderline rispetto quelle in stato di male avanzato che possono non cogliere completamente il pericolo del momento). Gli esperti di questo settore sottolineano la necessità di prestare un’attenzione specifica anche ad altri gruppi a rischio di disagio che potrebbero necessitare di interventi mirati come i detenuti, le donne incinte, i migranti e i giovani. Nel sito dell’ospedale Niguarda di Milano, si apprende che molte strutture ospedaliere italiane hanno assistito ad un aumento del numero di richieste di ricovero in psichiatria da parte dei più giovani. Molte di queste avvengono per atti di autolesionismo e tentati suicidi, anche se di pari passo si è potuto assistere ad un forte aumento dei ricoveri per anoressia. Questo incremento è stato confermato anche dall’Ospedale Niguarda: sono moltissimi i giovani che hanno richiesto una prima visita presso il Centro Psicosociale Giovani. Poi ci sono i risultati di un recente studio italiano effettuato dall’Università dell’Aquila e dall’Università La Sapienza di Roma che evidenziano alcuni dati importanti. Nella popolazione generale sono state stata identificate varie risposte psicologiche negative: oltre all’ansia, alla depressione e agli alti livelli di stress sono state individuate anche insonnia, risentimento, preoccupazioni riguardo la propria salute e quella dei propri cari, sensibilità ai rischi sociali, insoddisfazione nella vita, fobie, evitamento, comportamenti compulsivi, sintomi fisici e compromissione del funzionamento sociale. I risultati hanno mostrato, ad eccezione del livello di istruzione, che i giovani adulti (di età compresa tra 18 e 40 anni) e il genere femminile hanno subito un forte impatto negativo. Non esiste invece uno studio per quanto riguarda l’impatto della pandemia, dal punto di vista psicologico, in carcere. Come evidenza il rapporto di Antigone, l’Oms conferma il disturbo psichico come la patologia più frequente in carcere, mentre dal punto di vista strettamente nazionale troviamo più di un detenuto su 4 in terapia psichiatrica, con una media del 27,6%. In alcuni istituti addirittura quasi tutti i detenuti sono in terapia psichiatrica, secondo i dati riportati nel rapporto di Antigone del 2020. Parliamo di una fotografia delle carceri italiane prima del Covid- 19 e sono elementi preoccupanti: nel carcere di Spoleto risultava in terapia il 97% dei reclusi, a Lucca il 90% mentre a Vercelli l’86%. La presenza di psichiatri in questi istituti era garantita di media per 7,4 ore settimanali ogni 100 detenuti, mentre gli psicologi risultavano presenti per una media di 11,8 ore settimanali ogni 100 detenuti. In 19 degli istituti visitati da Antigone era presente un’articolazione per la salute mentale. Sempre Antigone, questa volta nel corso dell’anno 2021, ha potuto verificare che ogni 100 detenuti erano in media disponibili 8 ore di servizio psichiatrico e 17 di servizio psicologico, anche se, sempre in media, il 7% dei detenuti aveva una diagnosi psichiatrica grave e il 26% faceva uso di stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Quella della salute mentale sicuramente costituisce una delle questioni di maggior rilevanza, anche in termini di complessità, che interessano il mondo carcerario. Figuriamoci ai tempi della pandemia. Secondo uno studio elaborato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, il bisogno di psicologia è cresciuto molto nel Paese: due italiani su tre lo chiedono in aiuto al medico di famiglia, negli ospedali, nei servizi sociali e, appunto, nelle carceri. Covid, allarme carceri: oltre 1.500 i detenuti positivi Italia Oggi, 12 gennaio 2022 Erano meno di 200 all’inizio di dicembre. A loro si aggiungono i quasi 1.500 operatori (agenti e funzionari), anch’essi contagiati dal coronavirus. Antigone: “misure urgenti su sovraffollamento e riforme. Sono oltre 1.500 i detenuti positivi al Covid-19 negli istituti di pena italiani (per la precisione 1.532). Erano meno di 200 all’inizio di dicembre. A loro si aggiungono i quasi 1.500 operatori (agenti e funzionari), anch’essi contagiati dal coronavirus. La variante Omicron ha portato ad un’impennata dei contagi anche in carcere, dove la popolazione detenuta non ha ancora ricevuto nella sua interezza la terza dose del vaccino (va ricordato che i detenuti, alla partenza della campagna vaccinale furono inseriti tra le categorie prioritarie) e la cui situazione di salute, in molti casi, non è ottimale a causa di patologie pregresse. A questo quadro si aggiungono le informazioni che arrivano da alcuni istituti, dove pare sia saltata la possibilità di separare positivi e negativi per l’assenza di spazi dove spostare proprio chi risulta contagiato. Inoltre, in altri casi, pare che le direzioni abbiano smesso di fornire mascherine nuove ai reclusi. Aumenta la preoccupazione, anche a fronte di un numero di persone ristrette che, dopo il calo registrato allo scoppio della pandemia, ha ripreso lentamente a salire fino a tornare stabilmente sopra i 54.000 reclusi, a fronte di una capienza ufficiale di 50.000 posti (ma quella effettiva sappiamo essere inferiore per via di reparti chiusi o in ristrutturazione). Dall’inizio dell’anno - come riporta Ristretti Orizzonti - vanno segnalati anche tre suicidi: a Salerno, Vibo Valentia e Foggia. A Napoli è morto, dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, un detenuto che aveva subito percosse dal compagno di cella, mentre a Sanremo è morto un detenuto, già affetto da tubercolosi, che il mese scorso aveva incendiato il materasso, ustionadosi e intossicandosi gravemente. “Il quadro che ci offre questo inizio di 2022 - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - non è dei migliori. Per questo è importante prevedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Bisogna fare in modo che ciò avvenga”. IL Presidente di Antigone prosegue: “è importante accelerare sulla strada delle riforme. Molte cose si possono fare anche senza passare dalla via legislativa, ma attraverso una modifica del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Una strada che ha suggerito anche la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal Prof. Marco Ruotolo. Proprio sul piano delle riforme accogliamo con favore - conclude Gonnella - le parole pronunciate lunedì dalla Ministra Marta Cartabia, la quale ha posto gli interventi sul carcere tra le priorità”. Covid-19 in carcere: record di positivi, ma solo 2% con sintomi di Marco Belli gnewsonline.it, 12 gennaio 2022 Omicron si fa largo anche nel mondo delle carceri facendo impennare il numero dei contagi. I nuovi dati aggiornati a ieri del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registrano infatti 1.532 detenuti positivi (quasi il doppio rispetto alla scorsa settimana), corrispondenti al 2,86% della popolazione reclusa effettivamente presente (53.561 unità). Tuttavia, sebbene dotata di una maggiore trasmissibilità rispetto alle precedenti varianti, Omicron sembra causare eventi meno gravi: soltanto il 2% dei detenuti positivi risulta infatti sintomatico; di questi 31 reclusi, 20 vengono curati all’interno degli istituti e 11 sono attualmente ricoverati presso strutture ospedaliere. L’improvviso balzo dei contagi riguarda anche gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Negli ultimi sette giorni, il totale dei positivi è salito a 1.426, con un significativo rialzo di 550 unità: quasi tutti in isolamento in casa o in caserma, soltanto 4 ricoverati in ospedale. Raggiungono quota 70 invece i contagi fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione (+22 rispetto a sette giorni fa), tutti presso il proprio domicilio. Anche la campagna vaccinale in favore della popolazione detenuta registra l’ennesimo consistente aumento: nell’ultima settimana, secondo i dati forniti dall’Anagrafe Nazionale Vaccini del Ministero della Salute, sono state somministrate altre 1.330 dosi, che portano il totale a 97.934 sieri anti-Covid-19. Per quanto riguarda infine l’obbligo di essere in possesso del green-pass rafforzato, che dal 15 dicembre scorso riguarda tutto il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, ovunque presti servizio, e il personale delle Funzioni Centrali che lavora negli istituti penitenziari, alla data di ieri risultano 58 i poliziotti penitenziari e 24 le unità di personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione che risultano assenti ingiustificati ai sensi decreto-legge 26.11.2021, n. 172. La storia di una società non è scritta solo sui muri delle prigioni, ma anche sui loro servizi igienici di Luigi Manconi La Repubblica, 12 gennaio 2022 Ho sempre diffidato di quello che in genere viene considerato un antico proverbio cinese. Ma vitaepensiero.it precisa che sarebbe piuttosto “di discussa origine”. Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Devo dire che, in realtà, avverto costantemente la tentazione di osservare con la più scrupolosa attenzione proprio il dito indicante, perché potrebbe rivelare più cose di quanto si creda. E perché quel motto rivela un notevole disprezzo per dettagli e particolari, dove - ancora secondo una massima - si nasconderebbe il diavolo oppure Dio. Dunque, quando nella mia precedente rubrica ho parlato di “paradigma del bidet”, attribuendo doverosamente il copyright all’avvocata Maria Brucale, sapevo di andare incontro a guai. La totale assenza di bidet, specialmente nelle celle delle sezioni femminili, esprime un notevole disprezzo per la salute e la dignità delle persone recluse, oltre a misurare il degrado generalizzato del sistema penitenziario nazionale. Apriti cielo: la cosa non è passata inosservata e ha scatenato numerose reazioni. Il riferimento a quell’apparecchio igienico sembra richiamare una immagine del carcere che costituisce una sorta di ossessione paranoide per le fantasie di vendetta che si scaricano su di esso. In altre parole, la richiesta del bidet sembra connotare quel presunto “hotel a 5 stelle”, fornito di “televisione a colori” contro cui si indirizzano tutti i livori, i rancori e le pulsioni più torve del giustizialismo nazionale. Ecco un altro dettaglio interessante: se invece che “a colori”, volessimo che in ogni cella vi fosse un più severo e afflittivo apparecchio in bianco e in nero (non più prodotto in alcun paese al mondo), dovremmo aprire una nuova fabbrica di televisori destinati esclusivamente alla prigione. Ma torniamo al bidet. Tutti gli aspiranti cosmopoliti de’ noantri e i globalisti da Touring Club si sono affrettati a ricordare che il bidet “esiste solo in Italia”. E, addirittura, una lettrice residente in Francia ha voluto spiegare che “come altri 65 milioni di francesi”, lei “non soffre di questa mancanza”. Che dire? Tutti critici che non vogliono guardare il dito, ovvero il bidet: e, pertanto, preferiscono non sapere che, in gran parte delle celle, un uomo - e tanto più una donna, per ragioni che forse è superfluo richiamare - può trovarsi a usare lo stesso rubinetto e lo stesso limitato spazio per bere, lavarsi viso, mani e ascelle, per il bucato, per riempire d’acqua una pentola e farla bollire e, infine, per pulirsi genitali e culo. Io mi fermo qui perché, davvero, mi mancano gli argomenti; davvero, se ciò che ho scritto non viene inteso è certamente colpa mia, ma non ho che da arrendermi; davvero, non penso di poter ricorrere a ulteriori motivazioni razionali, se finora non sono riuscito a trasmettere il senso di quella situazione. Anche per questa ragione è quanto mai preziosa l’attività, così spesso ignorata e denigrata, di quelle migliaia di volontari che operano in carcere, silenziosamente e faticosamente. Non perché sono “buoni”, ma perché hanno un profondo spirito civico e sanno che offrire ai detenuti una opportunità significa offrirla a tutti noi. Penso al lavoro che fanno da decenni associazioni come Ristretti Orizzonti di Ornella Favero e Francesco Morelli, Antigone di Susanna Marietti e Patrizio Gonnella, A Buon Diritto di Valentina Calderone e Federica Graziani, L’altro Diritto di Emilio Santoro e Sofia Ciuffoletti, A Roma insieme di Leda Colombini e Giovanna Longo e numerosi gruppi e comitati locali. E preti, suore, militanti politici, avvocati, filosofi e sociologi, tutti convinti che “la storia di una società è scritta sui muri delle prigioni”. L’auspicio del capo del Dap: la domanda di cultura nelle carceri diventi “sistema” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 gennaio 2022 “Se il disegno di legge “Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari” - primo firmatario il deputato Raffaele Bruno di M5s - diventerà legge, come auspichiamo, si potrà superare la realtà a macchia di leopardo e far diventare “sistema” questa domanda di politica culturale nelle carceri”. Lo ha detto Bernardo Petralia, il capo dell’Amministrazione penitenziaria in audizione da remoto davanti alla Commissione giustizia della Camera. Il capo del Dap, nel sostenere questo suo auspicio, ha sottolineato che l’attività teatrale nelle carceri mostra delle statistiche sorprendenti: nel 2021 sono stati realizzati laboratori ed esperienze teatrali in 144 strutture penitenziarie, con un totale di 124 laboratori che a volte hanno lavorato su più sedi e questo spiega la non perfetta coincidenza tra i numeri. “In 69 casi si tratta di laboratori che durano da 4- 10 anni, e in ben 45 casi hanno una attività che si svolge da oltre 10 anni”, ha detto sempre Petralia per indicare quanto questa attività trattamentale per il recupero e l’inclusione sociale dei detenuti sia importante. “L’urlo teatrale fa uscire la rabbia che hanno dentro e li reindirizza a una nuova vita lontana dalla delinquenza”, ha proseguito Petralia, chiosando che “è vero, c’è tanto da fare per le carceri che hanno strutture fatiscenti, c’è il problema della carenza del personale, ma occorre affrontare anche il tema della politica culturale nel carcere e occorre riversarvi dentro degli operatori esterni”. Il capo del Dap ha ritenuto positivo il fatto che il ddl “Bruno” preveda un fondo per finanziare le attività teatrali e pagare gli operatori esterni. Per Petralia che viene da una famiglia di musicisti e musicofili - come lui stesso ha raccontato durante l’audizione - “il contatto con ogni forma artistica è sempre positivo e ci migliora”. In 37 laboratori c’è stata formazione per i detenuti come scenografi, in 35 come musicisti, in 30 come danzatori e mimi: “Questa ricchezza di esperienze ci fa capire - ha detto Petralia - come sia urgente dare una sistemazione normativa a questa domanda di politica culturale che viene dalle mura carcerarie”. L’approvazione della legge sulla stabilizzazione del teatro nelle carceri, secondo il capo del Dap, quindi “aiuterà a superare questa macchia di leopardo”. Riforma del Csm, Costa: “Subito l’ok dei ministri o la Camera fa da sola” di Errico Novi Il Dubbio, 12 gennaio 2022 Ottimismo a via Arenula per la riforma del Csm: governo pronto a sbloccare il testo Cartabia. Ma l’elezione dei nuovi togati è vicina. Doveva essere la riforma del riscatto. La politica che nel trentennale di Mani pulite riafferma il primato sull’ordine giudiziario. Ma rischia di non esserci alcuna riforma. Al momento, il ddl delega sul Csm è un’entità astratta. Sospeso fra un testo base proposto nell’ormai lontana estate 2020 da Alfonso Bonafede e un ampio restyling di Marta Cartabia mai depositato a Montecitorio, in attesa di un benestare in Consiglio dei ministri rinviato ormai da settimane. In mezzo, la commissione Giustizia della Camera. Che attende le proposte della guardasigilli da mesi, visto che gli emendamenti parlamentari sono stati presentati addirittura a inizio giugno. Così, un deputato fin qui in prima linea nella confortante “primavera garantista” inaugurata con l’avvento di Cartabia a via Arenula, Enrico Costa, prova a dare la sveglia: “Inverò domattina (oggi per chi legge. ndr) una lettera al presidente della commissione Mario Perantoni. Gli chiederò”, spiega il parlamentare e responsabile Giustizia di Azione, “di convocare subito un calendario dei lavori affinché si proceda all’esame delle modifiche emendative già depositate a giugno da noi deputati, fatto salvo un termine breve da indicare al governo affinché si pronunci sul testo. Passata la scadenza, noi deputati della commissione Giustizia dovremmo procedere in ogni caso a votare il ddl”. In pratica un ultimatum. Servirà? Difficile dirlo. Anche perché interpretare il lungo silenzio di Palazzo Chigi sul “restyling Cartabia” è impossibile. Da via Arenula filtra una lettura pacificatoria, senza increspature polemiche: si è ritenuto, osserva una fonte autorevole, che ci fossero “priorità non contendibili, legate alla pandemia”, e che in un contesto simile non si potesse affrontare in Consiglio dei ministri la riforma del Csm. “Ma c’è anche la convinzione”, si fa ancora notare dal ministero, “che lo stop sarà seguito da una rapida ripartenza, da un timing condiviso abbastanza serrato da consentire un doppio effetto: approvare la legge delega in poche settimane e lasciare tempo sufficiente affinché entro fine legislatura, siano definitivamente adottati i decreti attuativi”. Anche perché, osservano sempre fonti qualificate del ministero della Giustizia, alcuni aspetti della riforma “potrebbero essere immediatamente precettivi: ad esempio la legge elettorale per i togati, che potrebbe entrare in vigore in tempo perché si abbia a luglio un Consiglio superiore eletto con nuove regole, come il presidente Mattarella ha esortato a fare. È avvenuto con le norme sull’improcedibilità contenute nel ddl penale, può avvenire di nuovo”. Ed è vero. Ma i tempi sono strettissimi. Se pure la Camera e poi il Senato compissero il miracolo di consegnare, diciamo entro lo scoccare della primavera, per fine marzo, il ddl delega sul Csm, a quel punto Palazzo dei Marescialli e l’intera macchina elettorale della magistratura dovrebbero fare le capriole per predisporre il voto entro luglio. Non impossibile ma difficilissimo. E in ogni caso Costa, di nuovo, avanza innanzitutto una preoccupazione: che “si verifichi di nuovo quanto avvenuto nove anni fa con la riforma ordinamentale dell’allora guardasigilli Severino: alcune deleghe furono esercitate, altre decaddero. Vedo lo stesso rischio”. Al che viene spontaneo sottoporre al deputato e responsabile Giustizia di Azione un’ipotesi estrema: possibile che, di fronte alla fragilità di un quadro politico pronto a frantumarsi sul voto per il Colle, il premier Draghi e la guardasigilli Cartabia decidano di stralciare dalla riforma le sole norme elettorali sul Csm? Solo in questo modo le si riuscirebbe ad approvare in tempo per scegliere i nuovi togati con regole diverse. Ebbene, Costa scavalca a sinistra l’ipotesi: “Nulla si può escludere, è chiaro che lo stralcio di una riforma per la sola elezione dei togati è possibile, ma non credo proprio sarebbe risolutivo”. E perché? “Su un sistema di voto, le correnti possono sempre riuscire a mettere le mani. Ci vorrebbe il sorteggio, ma persino in un caso del genere, peraltro remoto, le correnti potrebbero avvicinare i magistrati selezionati come candidabili e proporre loro l’appoggio. È un’altra, la soluzione: sottrarre alle correnti il vero potere, vale a dire il controllo arbitrario sulle nomine”. Come? “Con tre passi: primo, rendere più severe, credibili ed efficaci le norme sulle valutazioni di professionalità di tutti i magistrati. Secondo, fare altrettanto con il sistema disciplinare dell’organo di autogoverno. Terzo, e cosa più importante, collegare i criteri per la nomina dei capi alle stesse valutazioni di professionalità, e quindi alle performance reali del giudice, anche in riferimento agli esiti processuali. Oggi invece”, ricorda Costa, “siamo di fronte a valutazioni altamente positive, e dunque livellatissime verso l’alto, per l’intera magistratura. Col risultato che, a parità di eccellenze, solo l’appartenenza alla corrente giusta, la capacità di relazione, può portare ad aggiudicarsi la guida di una Procura o la presidenza di un Tribunale. Più rendi credibili le norme sul merito, più le affidi alla sola legislazione primaria, più sottrai potere alle correnti”. Obiettivo ambizioso: una vera riforma, in effetti, dovrebbe rispondere allo schema prospettato da Costa. Ma forse è troppo. Perché a quanto pare l’idea del responsabile Giustizia di Azione non susciterà una hola, nell’ufficio di presidenza della commissione Giustizia. Oggi la “direzione strategica” dell’organismo parlamentare presieduto dal 5S Perantoni si riunirà, e valuterà anche la lettera di Costa. Ma è difficile che passi la sfida al governo. Non sembra disposto ad assecondarla lo stesso Movimento 5 Stelle. Resta, però, quanto riferito sul Dubbio di venerdì scorso dal capogruppo grillino in commissione, Eugenio Saitta, che è anche uno dei due relatori della riforma sul Csm: “Saremmo ben lieti di esaminare gli emendamenti della ministra Cartabia anche nel caso in cui fossero presentati qui in commissione senza il passaggio a Palazzo Chigi”. Idea condivisa da tutti i deputati del Movimento, a quanto si apprende, e che lo stesso Perantoni non considera azzardata. Anche perché, si fa notare, il passaggio del “restyling Cartabia” in Consiglio dei ministri non è proprio coerente con l’impegno assunto dalla guardasigilli con i partiti un mese fa: “Il mio sarà un testo aperto”. Se quel testo venisse “bollinato” dal Consiglio dei ministri, come farebbe, la commissione Giustizia della Camera, a modificarlo? Tutto fila. Il punto è che il governo, per ora, non batte un colpo. E che l’idea di una riforma capace di raddrizzare le storture correntizie, del genere prospettato da Costa per intenderci, si allontana. Come si allontana il riscatto della politica atteso da qualche decennio. Rimborso delle spese legali agli assolti, via libera al decreto di Valentina Stella Il Dubbio, 12 gennaio 2022 Definiti criteri e tempi: vi possono accedere i destinatari di una assoluzione definitiva pronunciata “perché il fatto non sussiste”, “perché non ha commesso il fatto”, “perché il fatto non costituisce reato”. Il fondo totale è pari a 8 milioni annui. Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze Daniele Franco ha emanato un decreto che definisce finalmente i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti. Chi può accedere al rimborso - Si legge nel decreto che i soggetti che vi possono accedere sono quelli destinatari di una sentenza di assoluzione definitiva pronunciata “perché il fatto non sussiste”, “perché non ha commesso il fatto”, “perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato”, escluso il caso in cui quest’ultima pronuncia sia intervenuta a seguito della depenalizzazione dei fatti oggetto dell’imputazione. Gli esclusi. Non possono accedere al fondo anche coloro che: pur essendo stati assolti per alcuni capi di imputazione, siano stati però condannati per altri; per i quali è giunta sentenza di estinzione del reato per prescrizione o amnistia; abbiano beneficiato nel medesimo procedimento del patrocinio a spese dello Stato; abbiano ottenuto la condanna del querelante alla rifusione delle spese di lite. L’entità del rimborso - Il rimborso è riconosciuto nel limite massimo di 10.500 euro, ripartito in tre quote annuali, a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Come presentare la domanda - Il richiedente, ossia l’imputato stesso, presenta istanza di accesso al fondo “esclusivamente tramite apposita piattaforma telematica accessibile dal sito giustizia.it mediante le credenziali SPID di livello due”. Tra gli elementi che dovranno essere inclusi nella richiesta ci sono, tra gli altri: “la durata del processo oggetto della sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, calcolata dalla data di emissione del provvedimento con il quale è stata esercitata l’azione penale alla data in cui sentenza di assoluzione è diventata definitiva”; “l’attestazione che l’importo di cui si chiede il rimborso è stato versato al professionista legale tramite bonifico, a seguito di emissione della parcella vidimata dal Consiglio dell’ordine”. I tempi - La domanda dovrà essere presentata entro il 31 marzo dell’anno successivo a quello in cui la sentenza è diventata irrevocabile; tuttavia, con riferimento alle sentenze diventate irrevocabili nel corso del 2021, le domande potranno essere presentate a partire dal prossimo 1° marzo fino al 30 giugno 2022. I criteri di valutazione delle istanze - Non essendo il fondo illimitato ma pari a 8 milioni annui, sarà data precedenza: alle istanze relative ad imputato irrevocabilmente assolto con sentenza resa dalla Corte di Cassazione, ovvero dal giudice del rinvio, o comunque all’esito di un processo complessivamente durato oltre otto anni; a quelle rese dal giudice di appello o comunque all’esito di un processo durato più di cinque e fino a otto anni; a quelle rese dal giudice di primo grado o comunque all’esito di un processo durato in tutto fino a cinque anni. Nell’ambito di ciascun gruppo verrà data preferenza alle istanze per processi più lunghi e a parità di durata a quelle con imputati con reddito inferiore. Il Ministero effettuerà un controllo di effettiva corrispondenza tra quanto dichiarato e quanto emerge dalla documentazione allegata, tramite proprio personale o avvalendosi di Equitalia giustizia S.p.A. Ora si attende la pubblicazione del decreto in Gazzetta ufficiale. Se si è giunti a questo importante risultato, il merito è dell’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, che presentò un emendamento alla passata legge di bilancio e ha pungolato il Ministero affinché emanasse il decreto: “è sicuramente importante che la procedura possa partire; tuttavia, a differenza della norma il cui testo era molto snello, mi pare che con il decreto sia stata prevista una eccessiva burocratizzazione per compilare la domanda di accesso al Fondo. Si arriverà al punto che l’imputato assolto dovrà rivolgersi nuovamente all’avvocato e pagarlo per aiutarlo a compilare la richiesta”. Così i tre gradi di giudizio rallentano la giustizia di Giuseppe Pignatone La Stampa, 12 gennaio 2022 “Troppe leggi, troppe norme, troppi processi” ha ripetuto anche di recente la ministra Cartabia, individuando con precisione quella che - insieme alla cronica, finora, insufficienza delle risorse - è la causa principale dei tempi lunghi che affliggono la giustizia penale. Ho già sottolineato su questo giornale (Troppi reati frenano la giustizia, 8 ottobre 2019, Tre proposte per la giustizia, 10 maggio 2021) l’importanza del dato quantitativo che rende irragionevole ogni confronto con altri Paesi. Mi limito qui a citare il fatto che le notizie di reato e quindi i procedimenti, che incamera un pm italiano sono otto volte superiori alla media europea. Peraltro, data l’obbligatorietà dell’azione penale scritta in Costituzione, il pm deve trattare ogni singolo fascicolo, sottoponendolo al vaglio di un giudice anche in caso di archiviazione. È un dato numerico che lascia poche speranze e che potrebbe essere ridimensionato solo da una seria depenalizzazione, opzione ancora oggi esclusa dalle forze politiche. Sui “troppi processi” che ne conseguono, la Guardasigilli è già intervenuta introducendo norme per evitare che almeno parte dei procedimenti definiti dalle Procure arrivi al dibattimento. Sapremo nei prossimi anni se e in quale misura sarà stato raggiunto questo risultato. Tra le concause dei tempi inaccettabili del fare giustizia, vanno considerati anche l’innata litigiosità degli italiani, confermata dalle statistiche, e la storica presenza delle mafie nel nostro Paese. Quelli di mafia sono spesso processi molto complessi e con imputati detenuti: hanno quindi la priorità e rallentano il trattamento di tutti gli altri. Non è un caso che tra le sedi più in difficoltà ci siano proprio quelle di Napoli e di Reggio Calabria. Ma sui tempi lunghi della giustizia incide in modo altrettanto significativo la scelta (del tutto politica) di mantenere nel nostro ordinamento, nonostante l’adozione del rito accusatorio, tre gradi di giudizio (e altri tre gradi previsti per ogni misura cautelare), tutti fondati sull’obbligo di motivazione. Anche in questo caso non sono possibili paragoni con i sistemi di altri Paesi europei. Non solo con quelli anglosassoni, in cui il verdetto è emesso da una giuria senza motivazione, ma anche con altri più simili al nostro come quelli continentali. Vero è che anche questi prevedono i tre gradi di giudizio, ma mentre in Italia a ogni sentenza di condanna possono seguire (e di solito seguono) l’appello e il ricorso in Cassazione, altrove esistono filtri efficaci per ridurre il numero delle impugnazioni. In Francia e in Germania, solo per fare un esempio, gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all’estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata. Questo spiega anche perché le sentenze di quelle Corti sono poche migliaia l’anno a fronte delle oltre 50mila emesse dai giudici di Piazza Cavour, costretti a occuparsi anche di processi di importanza trascurabile e di questioni riproposte all’infinito, dato che comunque conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità), o in una nuova legge o in un mutamento di giurisprudenza che capovolga il giudizio o almeno mitighi la pena. Una valanga di decisioni che peraltro implica un certo tasso di contraddittorietà e quindi un’erosione di autorevolezza dell’organo che dovrebbe assicurare l’uniformità della giurisprudenza. Quanto all’appello, ci sono Paesi come la Francia che prevedono la reformatio in pejus, cioè la possibilità che il giudice, se rigetta l’appello, possa aumentare la pena inflitta in primo grado: il che impone una certa prudenza nell’impugnazione, dato che questa comporta un rischio che l’avvocato e il cliente devono calcolare per non proporre appelli temerari che potrebbero ritorcersi contro l’imputato. Quando si è proposto questo correttivo in Italia si è gridato allo scandalo per la presunta violazione della Costituzione e delle convenzioni internazionali. Timori in realtà infondati, se non pretestuosi, dato che questi filtri sono già stati adottati da Paesi saldamente democratici e di indiscussa civiltà giuridica. Perciò, se è legittima la scelta di non porre limiti alle impugnazioni, è altrettanto certo che una opzione diversa non costituirebbe automaticamente una violazione di diritti fondamentali. La riforma Cartabia ha innovato ben poco in tema di impugnazioni, ma la ricerca di un diverso equilibrio tra le opposte esigenze in questa materia dovrà - io credo - essere nuovamente presa in esame in un futuro assai prossimo, se si vorranno conseguire gli obiettivi fissati in tema di giustizia dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Gli avvocati chiedono di posticipare l’obbligo di green pass in tribunale di Giulia Merlo Il Domani, 12 gennaio 2022 La norma nel decreto legge non è chiara sulla data di entrata in vigore dell’obbligo. I legali chiedono una interpretazione autentica della ministra che la fissi al 1 febbraio ma molti uffici giudiziari, tra cui la Cassazione, ha imposto l’obbligo dall’8 gennaio. La poca chiarezza del decreto legge 1/2022, quello che ridisegna le norme in materia di certificazioni verdi Covid, genera confusione anche nei tribunali. Il testo prevede l’obbligo per gli avvocati di esibire il green pass all’ingresso dei tribunali, ma ad essere di dubbia interpretazione è la data di inizio dell’obbligo. Un tema non di poco conto, considerando che la mancata presenza dei difensori può produrre il rinvio delle udienze e dunque mettere in discussione il diritto di difesa. Cartabia faccia un’interpretazione autentica - Il tema è stato posto con una nota congiunta dal Consiglio nazionale forense e dall’Organismo congressuale forense, che espongono in questi termini il problema e chiedono che intervenga la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, per dare una interpretazione autentica della norma, fissando al 1 febbraio l’entrata in vigore dell’obbligo. “Alcuni Capi ufficio giudiziari hanno ritenuto vigente l’obbligo fin da sabato 8 gennaio, giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Al contrario, in coerenza con la lettera del pur complesso disposto normativo, e soprattutto in ossequio al principio di ragionevolezza, non possono sussistere dubbi circa la sussunzione dell’ipotesi nel disposto dell’art. 9-bis, c. 1-bis lett. b del d.l. n. 52/2021 come modificato dal d.l. n. 1/2022 che disciplina, tra l’altro, l’accesso ai pubblici uffici e, dunque, anche ai Tribunali. Tale previsione subordina l’entrata in vigore dell’obbligo all’adozione (o testualmente “all’efficacia”, sic!) di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato su proposta del ministro della Salute, d’intesa con i Ministri dell’economia e delle finanze, della giustizia, dello sviluppo economico e della pubblica amministrazione, volto a individuare gli specifici settori per i quali l’obbligo non sussiste, trattandosi di “servizi ed attività” “necessari per assicurare il soddisfacimento di esigenze essenziali e primarie della persona”“. La sintesi operativa, però, è estrema confusione nella gestione degli uffici, diversa a seconda dell’interpretazione del presidente del tribunale: c’è chi ha imposto l’obbligo dall’8 gennaio e chi invece ancora non lo sta applicando. La linea dei magistrati - Tra i magistrati, invece, sembra prevalere la linea dell’inizio immediato dell’obbligo. La procura generale della Cassazione, infatti, ha inviato una nota a tutti gli uffici in cui si fissano le regole: “Per quanto di immediata applicazione a decorrere dall’8 gennaio sino al 31 marzo 2022, si prevede, per l’accesso al Palazzo di giustizia, l’obbligo di possedere e di esibire su richiesta, la certificazione verde Covid-19 (C.d. green pass base), anche derivante da tampone, oltre che per tutto il personale delle amministrazioni pubbliche e per i magistrati, anche per gli avvocati, per i quali in precedenza non era richiesto”. Mentre “dal 15 febbraio p.v., sarà richiesto per gli over cinquantenni il possesso del C.d. green pass rafforzato, ossia generato dal vaccino”. La spaccatura - Il testo, però, crea un regime strano all’interno dei tribunali: obbligo di green pass per magistrati, cancellieri e avvocati, ma non per i clienti o i testimoni che vengono ascoltati in udienza. L’articolo 3, infatti, ha esteso l’obbligo di esibizione per l’accesso agli uffici giudiziari anche “ai difensori, ai consulenti, ai periti e agli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia”. Proprio questa divisione avvocato-cliente crea un precedente: rende virtualmente possibile che il rappresentato sia in aula, ma non il suo rappresentante legale. Soprattutto nel caso dei tribunali in cui la normativa del 7 gennaio sia stata applicata già dal giorno successivo, non dando il tempo ai legali non vaccinati di adeguarsi. I controlli - Il tipo di green pass da esibire è quello “base”, ovvero quello che si ottiene anche con il tampone. Mentre per tutti gli over50, quindi anche gli avvocati, scatta l’obbligo di vaccino e quindi per loro serve il green pass rafforzato. “Ancora troppi casi come quello di Enzo Tortora”, parla l’avvocato Giovanni Palumbo di Viviana Lanza Il Riformista, 12 gennaio 2022 “Mi domando cara Silvia che cosa posso insegnarti dalle mura di Regina Coeli. Fra le mura della 16 bis dove fa un caldo atroce. Siamo in sei disperati e fuori si vede il cielo. Che posso insegnarti, mi chiedo, perché a te, devi saperlo, è a te che il mio cuore più spesso vola…”. Era l’estate del 1983, Enzo Tortora aveva da poco iniziato il terribile calvario giudiziario che lo portò in cella da innocente. Silvia, sua figlia, è morta ieri a Roma. Aveva 59 anni, come suo padre quando morì. E come suo padre, era una giornalista che aveva scelto di raccontare la verità dei fatti e si è spesa in nome del garantismo. La notizia della sua morte ha aggiunto dolore e amarezza al ricordo di una delle pagine più dolorose della storia giudiziaria napoletana, oltre che nazionale. Enzo Tortora fu ingiustamente detenuto e processato. “Mai più” si disse dopo lo scandalo giudiziario che lo travolse. E invece cosa è cambiato in questi quasi quarant’anni? Napoli continua ad essere la capitale delle ingiuste detenzioni, e sebbene sia un distretto giudiziario molto ampio con numeri ben superiori a quelli di altri distretti è pur vero che detiene questo triste primato da quasi dieci anni. Le ingiuste detenzioni sono state 101 nel 2020, a febbraio si conosceranno i casi del 2021 e ai dati ufficiali bisognerà aggiungere un centinaio o più di innocenti invisibili che non hanno avuto accesso al risarcimento per l’ingiusta detenzione per un “cavillo” (è accaduto che il risarcimento, per esempio, sia stato negato a chi da indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere, perché pur avvalendosi di un proprio diritto avrebbe contribuito all’errore degli inquirenti che lo avevano messo in carcere per accuse poi rivelatesi infondate) oppure per una scelta personale (sono molti quelli che dopo anni di processo vissuti da innocenti ingiustamente detenuti non hanno più né la forza economica né quella mentale di intraprendere un nuovo percorso giudiziario seppure per vedersi riconosciuto un proprio diritto, cioè quello al risarcimento per il danno subìto dalla detenzione ingiusta). L’ingiusta detenzione è una delle più dolorose piaghe del nostro sistema giustizia. “Il mio compito- scriveva Tortora dopo il suo arresto del 17 giugno 1983, in una delle tante lettere inviate alla compagna Francesca Scapelliti - è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza, ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali”. Il processo a Enzo Tortora si svolse a Napoli negli anni del post-terremoto, dei magistrati che si giocavano la carriera anche sulle indagini sulla camorra e dei primi collaboratori di giustizia. Il processo seguiva il vecchio codice penale e ai pentiti Gianni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra i pubblici ministeri dell’epoca diedero credito al punto da mandare in galera un innocente. Tortora fu ritenuto coinvolto in un giro di droga che riguardava uomini della Nco di Raffaele Cutolo. Tutto falso. L’avvocato Giovanni Palumbo era all’epoca un giovane penalista e affiancava suo padre, l’avvocato Tommaso Palumbo, nella difesa di due imputati che secondo la fantasiosa ricostruzione dei pentiti avrebbero fornito droga al famoso giornalista. “Ricordo ogni udienza, era chiaro sin dal primo momento che ai pentiti si era dato troppo spazio creando confusione tra falsità e verità ma ci vollero anni per dimostrarlo”. Le parole di Tortora rivolte ai giudici prima che andassero in camera di consiglio (“Devo concludere dicendo: ho fiducia. Io sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io spero, dal profondo del cuore che lo siate anche voi”) sono il momento che l’avvocato Palumbo ricorda con maggiore commozione. E di fronte ai dati, ancora oggi impietosi, sugli innocenti in cella commenta: “Non ci sarà nessuna riforma veramente efficace finché nel nostro sistema non sarà attuata una vera svolta culturale e abbandonata del tutto quella mentalità di tipo inquisitorio che ancora resiste”. Caso Contrada, slitta ancora il risarcimento per ingiusta detenzione di Davide Varì Il Dubbio, 12 gennaio 2022 La Corte di Appello di Palermo ha rigettato in sede di rinvio l’istanza di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada “per la pena sofferta con effetto della sentenza dichiarata ineseguibili e improduttiva di effetti penali dalla Cassazione del 2017”. Nel gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di risarcimento della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. Ripassando quindi la palla ai giudici palermitani. “Apprendiamo senza stupore il verdetto della Corte a seguito di un procedimento svoltosi in maniera assai poco serena, e alle cui conclusioni mi sono rifiutato di prendere parte”, afferma l’avvocato Stefano Giordano, difensore di Contrada. “Formuleremo tutte le nostre deduzioni in ordine al malgoverno della legge penale e degli strumenti internazionali nel ricorso per Cassazione che verrà depositato ritualmente nei prossimi giorni. Da subito posso dire che l’ordinanza oggi depositata viola per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezionalità per quanto riguarda la sua esecuzione”. “Ai sensi dell’art. 46 della Cedu pertanto, il giudice interno si è sottratto all’obbligo di esecuzione delle sentenze europee che hanno dichiarato l’illegittimità del processo celebrato a carico di Bruno Contrada e la presenza di trattamenti inumani e degradanti nella illegittima detenzione del mio assistito. Insieme al ricorso per Cassazione depositeremo nei giorni a seguire un dossier articolato presso il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa perché per l’ennesima volta, non solo lo Stato Italiano commette delle gravissime violazioni ai danni dei suoi cittadini, ma reitera dette violazioni rifiutandosi di eseguire il giudicato europeo, causando gravi problemi di incompatibilità tra la giurisprudenza italiana e la normativa europea. Valuteremo nei prossimi giorni le ulteriori iniziative da intraprendere a seguito di questa ennesima sconfitta della giustizia italiana”, conclude l’avvocato Giordano. La sentenza della Corte Europea sul caso Contrada, ex dirigente della Polizia di Stato condannato nel 2007 in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, risale al 2015. La Cedu ha condannato lo Stato Italiano per la violazione dell’art 7 della Convenzione in quanto al momento della condanna il reato non era ancora previsto dal nostro ordinamento. Lo scorso luglio la stessa Corte ha bacchettato il governo italiano per l’utilizzo sproporzionato delle intercettazioni e perquisizioni nei confronti di Contrada, e ha chiesto di fornire risposta ad alcuni specifici quesiti, riguardanti la chiarezza e la precisione della legge italiana in materia di perquisizioni e intercettazioni; la necessità e la proporzionalità delle attività investigative svolte nel caso concreto; nonché la sussistenza nell’ordinamento interno di strumenti processuali idonei a contestare quelle attività. Marche. Focolai Covid in carcere, il Garante: “Situazione che desta preoccupazione” redattoresociale.it, 12 gennaio 2022 Giulianelli: “Necessità di effettuare quanto prima le terze dosi e di prestare attenzione alla situazione sanitaria nel suo complesso”. Il Garante proseguirà l’azione di monitoraggio da remoto. “Nell’ambito del nostro consueto monitoraggio abbiamo appreso che durante le ultime settimane si sono sviluppati diversi focolai in alcune strutture carcerarie. Nonostante l’attivazione di tutti i protocolli previsti, l’aumento generalizzato dei contagi ha purtroppo varcato anche le soglie degli istituti”. Lo sottolinea in una nota il Garante per i diritti della persona della Regione Marche, Giancarlo Giulianelli, che evidenzia una “situazione che desta ovviamente preoccupazione su diversi fronti” e richiama l’attenzione sulla “necessità di effettuare quanto prima le terze dosi e di prestare attenzione alla situazione sanitaria nel suo complesso, che già da tempo presenta diverse criticità”. “Sappiano che lo sforzo comune messo in campo in tutti i settori per fronteggiare la pandemia è notevole e che le difficoltà sono altrettanto considerevoli. Il nostro auspicio - conclude Giulianelli - è che anche per il mondo carcerario ci sia la dovuta attenzione. Questo per evitare che i problemi esistenti vadano ad acuirsi e per salvaguardare la salute dei detenuti e di quanti operano quotidianamente negli istituti penitenziari”. Il Garante proseguirà l’azione di monitoraggio da remoto, garantendo in questo mondo una presenza costante ed i colloqui richiesti dai detenuti, che non si sono fermati anche durante il periodo festivo. Brindisi. Detenuto si toglie la vita in carcere, già 4 suicidi in cella dall’inizio dell’anno internapoli.it, 12 gennaio 2022 Detenuto di origine marocchina è stato trovato morte alle 5.50 di stamani, dalla Polizia Penitenziaria, presso la Casa Circondariale di Brindisi. Nei primi 12 giorni dell’anno 4 detenuti morti suicidi e uno a seguito di un’aggressione subita in cella. “Se le circostanze non fossero tragiche, aggiungendo tre evasi, ci sarebbe da chiedersi se dal Governo non abbiano per caso pensato di risolvere così il sovraffollamento e l’emergenza penitenziaria. Il sistema è allo sbando e la politica ha la responsabilità morale di ogni vittima. La Ministra Cartabia assicura attenzione e priorità, noi continuiamo a vedere solo trascuratezza e pressapochismo”, afferma Gennarino De Fazio, segretario generale Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Brescia. Quasi il doppio dei detenuti, il Nerio Fischione è sotto stress di Federica Pacella Il Giorno, 12 gennaio 2022 Secondo il Ministero in carcere si trovano 354 persone invece delle 189 previste. Nulla di nuovo sotto il tetto della casa circondariale ‘Nerio Fischione’ di Brescia. I dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 dicembre parlano di 354 detenuti presenti (158 stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 189, quasi il doppio. Più contenuto il sovraffollamento nel carcere di Verziano, dove sono detenute 97 persone (39 donne, 24 stranieri) a fronte della capienza regolamentare di 71. “Il dato degli stranieri - sottolinea Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale - non va letto come una correlazione con la loro maggiore pericolosità. L’assenza di una rete esterna, infatti, non consente di accedere a misure alternative, per cui si registra un numero elevato sul totale”. Rispetto a una decina di anni fa, ora al ‘Nerio Fischione’ è aumentato il numero di detenuti definitivi, che dovrebbero essere tutti presi in carico dagli educatori per un progetto di reinserimento sociale. “Ma gli educatori sono sotto organico - spiega Ravagnani - per cui diventa tutto più complicato”. Problemi cronici, a cui si aggiungono ora anche le preoccupazioni legate alla pandemia: in una situazione di sovraffollamento, infatti, mantenere il distanziamento diventa complesso. “C’è da sperare - auspica Ravagnani - che si facciano provvedimenti speciali o che passi la liberazione anticipata speciale (sconto di pena di 75 giorni, anziché di 45, in determinate circostanze, ndr) perché con questi numeri sembra proprio che l’ultimo interesse del Governo sia quello di togliere i detenuti dal rischio di contagio”. ndividuare ulteriori spazi per l’isolamento quando di spazio non ce n’è è impresa ardua. Ad ammalarsi sono sia i detenuti che gli operatori. “C’è proprio una scarsa attenzione o forse ipocrisia verso il carcere: l’unica strada è ridurre i numeri. La liberazione anticipata speciale aveva funzionato senza problemi, anche se sarebbe da rivedere la procedura per non intasare i Tribunali di Sorveglianza”. Santa Maria Capua Vetere. Violenze in carcere, 80 detenuti chiedono di costituirsi parte civile di Paolo Cuozzo Corriere del Mezzogiorno, 12 gennaio 2022 Per la dura repressione del 6 aprile 2020 si stabilisce se rinviare giudizio 108 tra agenti della penitenziaria e funzionari del Dap. Dopo la pausa per le festività natalizie, nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere è ripresa l’udienza preliminare del processo in cui sono imputati 108 tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap per le violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere della stessa città del Casertano il 6 aprile 2020. Il primo a denunciare i fatti due mesi dopo fu il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Nelle ore e nei giorni a seguire vennero poi a galla gli episodi di violenze, attuati per reprimere le rivolte scoppiate all’indomani dello stop ai colloqui con i familiari per via dell’emergenza Covid. I primi indagati furono quarantaquattro agenti, che incassarono però anche la solidarietà di Matteo Salvini. Tre agenti imputati e un avvocato hanno sollevato legittimo impedimento perché affetti da Covid. Il Gup Pasquale D’Angelo dovrà decidere se rinviare a giudizio gli imputati, come richiesto dagli inquirenti, per i reati di tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico, contestati a vario titolo, e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine (addebitato a 12 imputati). Il giudice dovrà decidere se ammettere come parte civile gli 80 detenuti che hanno fatto richiesta in tal senso (ai 56 dell’ultima udienza se ne sono aggiunti altri 24), tre associazioni, il Garante campano dei detenuti, ed enti come l’Asl di Caserta e il ministero di Grazia e Giustizia, che ne avevano fatto richiesta alla prima udienza del 15 dicembre scorso e, anche sulla base delle eccezioni avanzate dagli avvocati degli imputati, se ammettere tali parti e soprattutto dovrà dirimere la questione tecnico-giuridica relativa al ministero di Grazia e Giustizia, che alcuni detenuti vogliono citare come responsabile civile, per cui il Dicastero di Via Arenula potrebbe trovarsi nella doppia veste di parte civile contro gli agenti imputati e di responsabile per le condotte degli stessi, chiamato dunque tanto a chiedere i danni ai poliziotti quanto a risarcire quelli provocati dagli stessi nelle esercizio delle loro funzioni. Intanto oggi altri 24 detenuti vittime di pestaggi hanno richiesto di potersi costituire parte civile (il termine per costituirsi scade con la dichiarazione di apertura del dibattimento) e su tali istanze il Gup D’Angelo deciderà nell’udienza del 25 gennaio prossimo. Sanremo (Im). Detenuto si ustiona per protesta, medici costretti ad amputargli la mano imperiapost.it, 12 gennaio 2022 La denuncia del Consigliere Regionale Sansa: “Situazione fuori controllo”. Il consigliere regionale Ferruccio Sansa, candidato al vertice della Regione Liguria alle ultime elezioni, interviene in merito alla situazione delle carceri in Liguria e nello specifico, per quel che riguarda la casa circondariale di Sanremo. “Lo sapevate che a dicembre nel carcere di Sanremo un detenuto per protesta ha dato fuoco alla sua cella e dopo tre settimane di sofferenze atroci è morto per le ustioni? No, non lo sapevate. Nessuno praticamente lo sa. Lo sapevate che a ottobre un altro detenuto, sempre a Sanremo, per protesta ha messo le mani sul fornello e si è procurato ustioni terribili che hanno costretto i medici ad amputargli una mano? No, non lo sapevate. Nessuno conosce più cosa succede nelle carceri liguri. E lo sapevate cosa scrive Guido Pregnolato, dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria Liguria? Nel carcere di Sanremo nell’ultimo periodo si sono contati “due tentati suicidi per impiccagione, due incendi a distanza di poche ore, esplosioni dolose di bombolette del gas”. Insomma, la situazione in quel carcere pare totalmente fuori controllo. Detenuti e agenti di polizia penitenziaria vivono e lavorano in condizioni insostenibili. Ma la Regione da più di un anno non riesce a scegliere il Garante dei Detenuti. Così come non riesce a indicare il difensore civico, il garante dei minori e quello delle vittime di reato. C’è troppa voglia di poltrone. La prima volta che ne abbiamo parlato, il rappresentante della Lega mi ha risposto: “Tre posti a noi e uno a voi. Il Garante dei detenuti potete sceglierlo voi, non ci interessa niente chi mettete”. Come nella peggior prima Repubblica. Gli ho risposto: “Vorrei che la gente fuori da questa stanza sentisse quello che dici. A noi non interessa avere nessuna poltrona. I garanti non devono essere scelti per tessera di partito, ma per capacità”. Intanto sono passati altri sei mesi. Nelle carceri la gente muore. Ci sono minori che hanno bisogno di un garante. Cittadini che hanno diritto di chiedere aiuto a un difensore civico. Ma non si può, perché i partiti vogliono mettere i loro uomini in ogni posto libero”. Milano. Contagi Covid in aumento anche nel carcere di San Vittore di Eleonora Dragotto milanotoday.it, 12 gennaio 2022 I familiari: “Svuotate le carceri”. Il sindacato di polizia penitenziaria: “Aumento repentino dovuto anche a un ricalcolo. Ma gestione del Governo è inadeguata”. Impennata di contagi in Lombardia, con ben 45mila nuovi positivi registrati nella giornata di martedì 11 gennaio. E, di riflesso, aumento dei casi anche nelle strutture detentive di Milano, tra le quali il carcere di San Vittore, dove alcune famiglie dei detenuti chiedono di svuotare la struttura. “Nel corso della nostra visita annuale di giugno la situazione era molto diversa”, ci spiega la presidente di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini. San Vittore nel frattempo è rimasto un hub covid, qui arrivano i detenuti in situazione di contagio, ma altri centri di questo tipo sono stati aperti, ad esempio a Bollate e Opera. “Al momento i numeri in Lombardia sono alti e questo si riverbera all’interno, dove comunque gli spazi sono limitati”, continua Verdolini. Per i detenuti le occasioni di contagio sono legate ai nuovi ingressi e al contatto con il personale. “Quando in un reparto si registra un positivo - chiarisce la presidente di Antigone Lombardia - si procede alla messa in quarantena del reparto. A San Vittore l’hub è nel primo raggio, separato dal resto della struttura. Quando noi abbiamo visitato la struttura tutte le misure per prevenire ulteriori contagi erano state adottate”. Il quadro sembrerebbe quindi quello di un aumento dei casi che rispecchia quello generale dovuto alla variante omicron, ma senza che la crescita dei contagi sia stata esponenziale. La gestione prevede infatti una quarantena all’ingresso e, nel caso di test positivo, il trasferimento del detenuto che ha contratto il virus nell’hub. Da non dimenticare, poi, che buona parte della popolazione detenuta si è sottoposta al vaccino e che i colloqui con l’esterno sono possibili solo in presenza del green pass di entrambe le persone. Nonostante questo, le famiglie dei detenuti lamentano una situazione a rischio, preoccupati che il sovraffollamento possa moltiplicare i contagi e, di conseguenza, anche i casi più gravi. A morire nei giorni scorsi, proprio a causa del covid, è stato un agente di polizia penitenziaria. In servizio a San Vittore, Sergio C., lavorava come assistente capo coordinatore ed era prossimo alla pensione. “Balzo in avanti del numero dei detenuti e degli operatori positivi al covid nelle carceri che, con 1.532 detenuti e 1.496 operatori positivi, aumentano in quattro giorni del 36 percento, con il numero dei primi che supera quello dei secondi - denuncia il Sindacato polizia penitenziaria (Uilpa) -. Tuttavia, fermo restando il dilagare del contagio anche nei penitenziari, pensiamo che il repentino aumento sia dovuto pure a un ricalcolo dei dati dopo che lo scorso 7 gennaio ne avevamo denunciato l’erroneità”. “Potenzialmente - riflette Verdolini - nei due anni di pandemia le carceri avrebbero potuto costituire luoghi di grandissima diffusione del covid”. Invece misure di prevenzione e un attento monitoraggio hanno scongiurato il peggio. “Sia chiaro che la situazione è comunque gravissima - è invece l’allarme lanciato da Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa - e che, purtroppo, l’approccio del Governo al problema continua a essere del tutto inefficace e inadeguato. A fronte di focolai di vastissime proporzioni, come a Verona (143 detenuti positivi), a Torino (115 detenuti positivi), ad Asti (109 detenuti positivi), a Prato (107 detenuti positivi), a Milano Opera (95 detenuti positivi), a Napoli Poggioreale (93 detenuti positivi), a Firenze Sollicciano (67 detenuti positivi), a Milano San Vittore (66 detenuti positivi), a Santa Maria Capua Vetere (51 detenuti positivi), a Taranto (44 detenuti positivi), etc., cercare di contrastare il virus e le sue nuove varianti con un protocollo di sicurezza sanitario dell’ottobre 2020 e con 6mila (leggasi seimila!) mascherine Ffp2 è velleitario, pericoloso e persino sconsiderato”. Torino. La direttrice del carcere va via: “Lasciata sola, tra mille problemi” di Federica Cravero La Repubblica, 12 gennaio 2022 Rosalia Marino rinuncia a diventare titolare del Lorusso e Cutugno. “Ringrazio chi ha lavorato con me e ringrazio per l’opportunità e la fiducia che mi sono state date, ma non ci sono più le condizioni per andare avanti”. Con queste parole Rosalia Marino, direttore reggente della casa circondariale Lorusso e Cutugno oggi lascia la direzione del penitenziario. Avrebbe potuto diventare titolare, invece ha scelto di ritornare a dirigere quello di Novara. Sarà sostituta temporaneamente da Cosima Buccoliero. Marino era arrivata nel luglio 2020, dopo un’inchiesta per torture che aveva travolto il precedente direttore e il comandante di reparto, oltre a numerosi agenti. Come è stato subentrare in un momento così difficile? “In verità questa è stata la seconda volta che il Dap mi ha chiesto di venire a Torino come reggente. La prima fu nel gennaio 2014, per pochi mesi, dopo l’omicidio-suicidio costato la vita a due agenti di polizia penitenziaria. Un incarico difficile ma ce ho accettato perché credo nel cambiamento e nella funzione rieducativa della pena”. Perché se ne va ora? “Ho deciso di rinunciare all’incarico di direttore titolare per il profondo rispetto che nutro per me stessa e per il mio lavoro. Quando ho letto del carcere di Torino come “il peggiore di tutta Italia, il carcere della vergogna”, mi sarei aspettata un moto di indignazione, di rabbia, una qualsiasi reazione da parte di coloro che vivono e lavorano in questo carcere da anni, anche e soprattutto dopo i gravi fatti che continuano a ferire questo istituto e l’intera amministrazione. Ma questo non è accaduto. Il silenzio assordante, l’assenza di una qualunque reazione se non quella di cercare un “capro espiatorio”, mi ha colpito e ho capito che il mio lavoro a Torino era finito. Ero davvero da sola. L’energia, l’entusiasmo e la passione non bastavano più”. Come sono stati questi 18 mesi? “Difficili, complicati, faticosi, anche per l’assenza di vicedirettori, ma comunque importanti anche per le persone che ho incontrato e che mi hanno aiutato e creduto in me”. Che problemi ha il Lorusso e Cutugno? “Quello di Torino è l’istituto penitenziario più complesso e articolato dell’intero territorio nazionale, con vari circuiti detentivi, un tasso di sovraffollamento molto alto, problematiche strutturali importanti, un intero padiglione detentivo a vocazione sanitaria, una sezione filtro unica in Italia, una Atsm, articolazione di salute mentale maschile e femminile, e un reparto Sai, di assistenza sanitaria intensificata. Perciò qui vengono trasferiti da tutta Italia detenuti con problemi fisici e psichiatrici che necessitano di cure adeguate”. Una situazione diversa dal 2014? “ Rispetto a sei anni prima ho trovato un istituto con una ancora più grave carenza di personale di tutti i ruoli, con notevoli problematiche di assistenza sanitaria, carenza di medici specialisti e moltissimi problemi strutturali”. Come avete affrontato la pandemia? “Abbiamo attivato all’interno dell’istituto un hub vaccinale che da marzo 2021 consente la vaccinazione dei detenuti e del personale e che ha permesso di tenere sotto controllo la diffusione del virus”. Molte vicende che hanno travolto il carcere riguardano la sfera sanitaria. È un problema irrisolto? “Siamo riusciti ad ottenere il ripristino di molte specializzazioni che mancavano, delle ore settimanali di assistenza sanitaria che erano state improvvisamente decurtate nel mese di luglio, la ripresa della funzionalità della sala radiologica che ha ridotto notevolmente le visite mediche esterne. Abbiamo anche ottenuto i fondi per ristrutturare finalmente il Sestante ed il Sai. Ma la strada da percorrere per garantire un’assistenza sanitaria adeguata è ancora molto lunga e complicata”. Cosa lascia in eredità? “Ho cercato di focalizzare il mio lavoro sul miglioramento delle criticità, in primis l’assistenza sanitaria, il sovraffollamento, la presenza di numerosi circuiti detentivi, la urgente necessità di aprire il carcere al territorio che conta, alle aziende, al mondo delle imprese. Poi abbiamo effettuato molti lavori di manutenzione, come il risanamento del lungo corridoio del Padiglione C, tristemente noto per i fatti di cronaca, con la realizzazione di una galleria d’arte. Abbiamo creato le salette Skype per consentire le videochiamate e realizzato il nuovo sito dell’istituto, che consentirà ai familiari ed avvocati di prenotare i colloqui tramite un’app. Inoltre abbiamo attivato la Dad per i percorsi scolastici e soprattutto universitari grazie al progetto Cisco, il progetto Carioca e la cucina per il reparto femminile, oltra a molti altri di prossima realizzazione”. Tornasse indietro, prenderebbe altre decisioni? “Mentre ero reggente a Torino avevo avuto la possibilità di assumere l’incarico di direttore titolare a Bollate ma ho rinunciato. In questi giorni ho pensato spesso a quella decisione, ma nella vita ogni esperienza serve a crescere e l’esperienza di Torino è stata molto importante. Non si vince né si perde. Fare questo lavoro vuol dire cercare di dare un contributo alla società, provare a essere utile dando una opportunità a chi la vuole cogliere. Chi fa questo lavoro è perché crede che la pena detentiva possa e debba essere una occasione di riscatto e di profondo cambiamento per coloro che hanno sbagliato. Io ho cercato di operare sempre nella legalità, nel rispetto del mio mandato istituzionale, senza perdere mai di vista gli obiettivi, ma soprattutto ho cercato di garantire una stabilità direzionale, anche nel tentativo di restituire serenità ad una parte del personale che viveva momenti non semplici”. Torino. Dall’inchiesta sulle torture al detenuto che perse 30 chili, tutte le ombre sulle Vallette di Ottavia Giustetti La Repubblica, 12 gennaio 2022 Dopo le violenze sugli autori di reati sessuali sembrava iniziata una svolta. Poi è scoppiata la grana del “Sestante”. I diciotto mesi che sembravano segnare l’inizio di un percorso di rinascita per il carcere Lorusso e Cutugno di Torino, oggi suonano come una resa. Era il 29 luglio 2020 quando veniva ufficializzata la notizia che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria azzerava i vertici in carica alle Vallette come effetto delle drammatiche rivelazioni dell’inchiesta sulle continue violenze subite dai detenuti, sulle morti sospette, sull’omertà che faceva tremare l’intero sistema carcere. Un’indagine difficile allora scardinava il muro di silenzio che avvolgeva l’intera struttura grazie soprattutto alla tenace determinazione della garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, che non aveva rinunciato a portare all’esterno la testimonianza dei reclusi maltrattati, picchiati e umiliati soprattutto nella sezione dei “sex offender”, detenuti colpevoli di reati sessuali. Nonostante le pressioni che continuamente arrivavano dall’interno. Anche la procura di Torino aveva seguito passo dopo passo questo tragitto, collezionando meticolosamente i casi di pestaggi da parte delle guardie carcerarie e arrivando a coinvolgere come indagati 24 persone, tra cui l’ex direttore, Domenico Minervini e il comandante della polizia penitenziaria, Giovanni Battista Albertotanza. L’accusa, per la prima volta era di tortura. Il capo del Dap, Bernardo Petralia, decise di destituire entrambi dal loro incarico in attesa del processo e di sostituirli con due donne chiamando da Novara Rosalia Marino e promuovendo la vicecomandante Mara Lupi. La senzazione era che l’amministrazione penitenziaria volesse proprio voltare pegina. Ma come si è arrivati, allora, a riparlare in pochi mesi di carcere vergogna, di reparto degli orrori, riferito al Sestante, il reparto di osservazione psichiatrica, che la presidente nazionale di Antigone, Susanna Marietti ha raccontato come “luogo vergognoso in cui si rinuncia a vite umane come se valessero niente”? “Celle piccole, sporche, letti in metallo scrostato attaccati al pavimento coi chiodi. Ho visto un uomo - scriveva a novembre - sdraiato con la faccia per terra, al buio, bagni turchi intasati dalle feci da quattro giorni, detenuti con gli occhi a mezz’asta, incapaci anche di parlare e raccontare il proprio disagio”. Il Sestante è l’ultimo scandalo. Un reparto tra le mura del carcere che però è sotto la gestione del sistema sanitario regionale. Un limbo, dice chi lo conosce, che è rimasto risucchiato nel vortice di lentezze e disinteresse. Non da parte di Rosalia Marino, che avrebbe voluto intervenire più in fretta. Ma che comunque si è dovuta rassegnare a dodici mesi di attesa, e allo scoppiare dell’ennesimo scandalo, perché finalmente a dicembre tutto venisse sigillato e partisse il cantiere da 800 mila euro. Ora dovrebbe essere trasformato in un luogo civile. Tutta la gestione sanitaria è finita nel mirino. Tanto che il responsabile, Antonio Pellegrino, si è dimesso, appena prima che uscissero altre tragiche storie di detenuti mal curati, abbandonati alle loro condizioni precarie di salute, alla rinuncia all’assistenza psichiatrica. Denunce che sollevano polemiche, come quella dei famigliari di Antonio Raddi, morto a 28 anni appena, con un’infezione inarrestabile dopo aver perso 30 chili in sei mesi. Era sotto gli occhi di tutti. “Sembrava di vedere il povero Stefano Cucchi”, hanno denunciato i genitori e, ancora una volta, la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo. Dopo la sua morte, un altro caso è affiorato: quello di un rapper affetto da schizofrenia salvato prima che fosse troppo tardi. Sembrano altri tempi quelli in cui delle Vallette si parlava sui giornali per i catering di Liberamensa, gestiti da detenuti, usati tanto per matrimoni radical- chic che per rinfreschi istituzionali, uno dei tentativi dei primi anni Duemila di cambiare la percezione del carcere all’esterno: non più ghetto ma realtà aperta a tutti, in grado di arrivare fino nel centro della città. Ora, invece, anche la collaborazione con il mondo delle associazioni torinesi non sembra riuscire a fare la differenza, e si passa di mano in mano con una serie di esperimenti che si rivelano puntualmente anelli di una catena di flop. Come l’apertura di un bar all’interno del Tribunale che in cinque anni avrà tirato su la saracinesca si e no qualche mese, tra un fallimento e l’altro delle cooperative che lo gestivano. Anche il Covid ha contribuito alla crisi. Ma non era ieri l’idillio come non è oggi il totale fallimento. Le Vallette sono uno delle carceri più complesse d’Italia, una realtà dura dove il cambiamento richiede tempo e collaborazione da parte delle istituzioni. Da quella prima inchiesta scoppiata nel 2020 sopravvive una tentazione nuova, talvolta un boomerang a livello di immagine, ma autentica: la voglia di non chiudere più gli occhi davanti alle ingiustizie. Torino. “Bulli e teppisti, con la pandemia il disagio è dentro e fuori la scuola” Di Chiara Sandrucci Corriere di Torino, 12 gennaio 2022 Protocollo di intesa per contrastare il fenomeno con la giustizia riparativa. Dai fatti di piazza San Carlo ai saccheggi in via Roma, fino alle baby gang in giro per il centro di Torino o le trasferte in piazza Duomo a Milano. “Il bullismo di solito è associato alla scuola, ma con la pandemia si è in parte trasferito per le strade”. Lo ha sostenuto ieri Emma Avezzù, procuratrice del Tribunale dei minori di Torino, firmando in Comune il nuovo Protocollo d’intesa per contrastare il fenomeno con la prevenzione e azioni di giustizia riparativa. “Non si tratta di bande molto organizzate, ma gruppi che si formano di volta in volta - ha proseguito la procuratrice -. Lo scopo è lo stesso del bullismo: affermare la propria superiorità sugli altri, anche se tale non è, con la forza del gruppo”. La giustizia arriva per ultima, se e quando il bullismo diventa reato. A scuola, sul web o per strada. Per evitarlo, è necessario spingere ancora di più sulla prevenzione negli ambienti a rischio e sulla progettazione di iniziative di giustizia riparativa che coinvolgano vittime, autori, famiglie e comunità. “La sanzione è necessaria, ma va anche avviato un processo educativo - ha osservato Avezzù -. Nell’ambito familiare, i genitori devono imparare a fare i genitori, a farsi rispettare”. Il nuovo Protocollo, frutto dell’esperienza già maturata a partire dal 2017, è stato firmato dalla Procura per i minorenni, l’ufficio scolastico regionale, il Comune di Torino, l’asl Città di Torino, l’università degli Studi, l’ordine degli psicologi, le associazioni del Terzo Settore già operanti sul territorio. “Le scuole fanno tanto, ma hanno bisogno di un lavoro di squadra e non vanno lasciate sole”, ha ricordato Tecla Riverso, direttrice dell’ufficio scolastico territoriale, all’incontro nella Sala delle colonne presenziato dalla vicesindaca Michela Favaro con delega alla Legalità e dagli assessori all’istruzione Carlotta Salerno e al Welfare Jacopo Rosatelli. Tutti hanno parlato di sinergia tra i vari servizi. Sportelli psicologici compresi. “Non c’è una presenza strutturata della psicologia nelle scuole - ha osservato Giancarlo Marenco, presidente dell’ordine degli psicologi. Dietro una personalità prevaricatrice ci sono sempre aspetti di fragilità su cui si può lavorare”. Palermo. Emma Dante: “Con i miei Vespri racconto i tanti siciliani vittime della mafia” di Mario Di Caro La Repubblica, 12 gennaio 2022 Il 20 gennaio la regista inaugura la stagione del Massimo di Palermo con una rilettura dell’opera di Verdi. Macché francesi, gli invasori della Sicilia sono i mafiosi e la rivolta dei Vespri è una metafora del dopo-stragi ‘92. Nelle mani di Emma Dante I vespri siciliani di Verdi, l’opera che il 20 gennaio inaugura la stagione del Teatro Massimo di Palermo nella versione francese (in diretta streaming su Arte.tv/it), diventa una contrapposizione tra oppressori-boss e siciliani inerti in una sfida tra tarantella e break-dance: saranno, insomma, i Vespri dell’antimafia tanto che a un certo punto in una piazza palermitana ricostruita dallo scenografo Carmine Maringola sfileranno i gonfaloni con i ritratti di Giovanni Falcone, Boris Giuliano, Pippo Fava e altre vittime illustri di Cosa nostra. Emma, quando il Massimo le ha proposto la regia di un’opera ambientata nella sua Palermo, cosa le è scattato nella mente? “Quando ho cominciato a studiarla mi sono resa conto che è l’opera più difficile che ho fatto finora: è un’opera immensa, esageratamente imponente dal punto di vista drammaturgico, una ‘grand soap opera’ come la chiamo io. Ci sono tanti livelli che per una palermitana come me sono un invito a nozze: l’amore paterno, la passione, la Sicilia, la tradizione, l’atteggiamento mafioso, l’abuso, la prevaricazione. È un’opera estremamente violenta”. Più violenta di Macbeth, che lei mise in scena nel 2018 sempre al Massimo? “Sì. Monforte, il governatore francese, è un grande boss che tiene tutto il popolo al laccio, è un sovrano del Male come lo sono i boss che hanno tenuto per anni indisturbati le redini della mafia, i latitanti che hanno fatto le loro vite sino alla fine. Questo racconta Vespri, questo tipo di oppressione che ha a che fare con l’opinione pubblica: gli oppressori di Vespri ti rubano tutto, pure l’acqua, e controllano ogni cosa. I siciliani, invece, sono l’anima fragile della Sicilia, sono indolenti, pavidi, un po’ omertosi, che hanno dentro il grande fuoco della giustizia però sono rimasti sedati per troppo tempo. E l’ouverture, una musica bellissima, racconta molto bene lo spirito di un popolo che cova vendetta ma non ce la fa a ribellarsi”. Allora ci dica cosa ha ideato per l’ouverture... “Ho pensato a un’immagine fortissima: Strehler in Cavalleria rusticana faceva scendere il sipario tagliafuoco sopra un carretto siciliano spaccandolo in due. Lui così raccontò la morte della tradizione siciliana”. E lei invece? “Partendo da questa suggestione ho ripensato a quando vidi in una bottega tre pupi completamente arrugginiti. Vespri per me significa questo: gli oppressori si prendono la tradizione del popolo e la fanno deteriorare, la buttano via. E allora prima dell’ingresso del direttore d’orchestra si apre leggermente il sipario e un oppressore scarica sul proscenio alcuni attori vestiti da pupi arrugginiti, e lì parte l’ouverture: il teatro che vomita la sua tradizione, pupi inerti che a poco a poco si rianimano in una piazza”. La scintilla che accese la rivolta fu la molestia di un soldato francese a una donna siciliana. Questo episodio quanto ha pungolato la sua sensibilità? “Questo arriva nel secondo atto ed è un momento terribile: le spose felici danzano con i loro mariti, gli oppressori si eccitano guardandole e le rapiscono caricandosele sulle spalle come fossero dei sacchi di rifiuti. Le spose si dimenano, i mariti sono impotenti sotto il tiro della pistola, e gli oppressori chiuderanno le donne dentro una sorta di grande sacco per l’immondizia”. La processione con i ritratti delle vittime di mafia vuole ribadire che in Sicilia resiste un forte sentimento antimafia? “Con quella scena ho voluto dire che noi siamo figli di questi martiri. Helene che piange il fratello morto ammazzato non può che farmi pensare a Rita Borsellino. Così quando l’oppressore obbliga Helene a cantare ci sarà una marcia della memoria con gli stendardi che richiama le tante fiaccolate antimafia: il coro di Vespri siamo noi siciliani che abbiamo fatto i lenzuoli bianchi della protesta dopo le stragi, noi che a un certo punto ci siamo svegliati e abbiamo riempito le strade con i nostri ‘no’. L’idea di fare una parata in un’opera ambientata a Palermo mi sembrava il minimo: questi ritratti ci colpiranno il cuore”. La lirica è diventata importante nel suo percorso e lei si diverte a smontare le opere: è così? “Sì. mi sembra una macchina che permette di fare grandi cose. Mi piace smontare i cliché ma Bohème, per esempio, è rimasta fedele a se stessa: sono solo uscita dalla mansarda cambiando il punto di vista”. C’è un nuovo spettacolo in cantiere? “Sto pensando di completare la trilogia di Basile dopo Scortecata e Pupo di zucchero con un’altra fiaba e vorrei metterle in scena tutte e tre a Parigi”. Diritti, migranti, centralità del parlamento Ue: “Sassoli un grande europeo” di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 12 gennaio 2022 Da Ursula von der Leyen a Gentiloni, il ricordo commosso delle istituzioni. Il suo mandato era in scadenza, il 18 gennaio la presidenza potrebbe passare all’antiabortista Metsola del Ppe. David Sassoli lascia un grande vuoto, umano e politico. Ieri, dopo la diffusione nella notte della notizia del decesso del presidente del Parlamento europeo, deputato del gruppo S&D, gli omaggi si sono susseguiti. “Triste e commosso”, il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Per la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ci ha lasciati “un grande europeo”, per il commissario Paolo Gentiloni, “un leader democratico ed europeista”. Il vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans, ricorda la “sua gentilezza” che “era un’ispirazione per tutti”. Dalla Francia, il sottosegretario agli Affari europei, Clément Beaune, ha reso omaggio a “un combattente dell’Europa, un difensore sincero e coraggioso della democrazia e dei valori europei”. Sassoli, da europeista convinto, ha lavorato per dare maggiore centralità al Parlamento europeo, l’unica istituzione che ha un vero legame con i cittadini, eletta direttamente. Al primo lockdown, ha aperto le porte dell’istituzione per accogliere i senza tetto, in particolare le donne sole, a cui ha offerto una mensa. Ha esercitato tutta la pressione possibile sulla Commissione e sul Consiglio per mantenere la “condizionalità” tra rispetto dello stato di diritto e versamento dei finanziamenti (legame spezzato da Ungheria e Polonia), ha insistito sulla necessità di accogliere i profughi, ha invitato la capitana Carola Rackete in aula, per il 70esimo anniversario del discorso fondatore di Robert Schumann ha invitato le ong che si occupano di migranti. Ha combattuto i nazionalismi crescenti: “Non siamo un incidente della storia - ha detto nel discorso inaugurale della sua presidenza - ma figli e nipoti di coloro che sono riusciti a trovare l’antidoto alla degenerazione nazionalista che ha avvelenato la nostra storia”. La Russia gli aveva proibito l’entrata sul suo territorio, come ritorsione per le sanzioni europee a causa dell’aggressività verso l’Ucraina. Sassoli era stato eletto presidente dell’Europarlamento nel luglio 2019, da una “coalizione Ursula”, frutto di un accordo tra il primo gruppo del Parlamento, il Ppe, e S&D, i socialisti, che rappresentano la seconda forza, a cui avevano aderito anche Renew e i Verdi. È un compromesso tipico di Bruxelles, che prevede anche questa volta un passaggio del testimone alla tesa dell’Europarlamento, tra un esponente di S&D e uno del Ppe, a metà mandato. L’appuntamento è per il 18 gennaio. I socialisti si trovano con le mani quasi vuote, l’ultimo socialista in un posto importante è Josep Borrell, Alto rappresentante per gli Affari esteri, di fronte a un Ppe che guida già la Commissione (con Ursula von der Leyen) e l’Eurogruppo (con Paschal Donohoe) e a Renew che vuole garantire il posto a Charles Michel alla presidenza del Consiglio. Quarantadue anni dopo la presidenza di Simone Veil, che ha dato il suo nome alla legge di depenalizzazione dell’aborto in Francia nel 1975, il Parlamento europeo si prepara ora a eleggere alla successione di David Sassoli, l’antiabortista Roberta Metsola, esponente del Ppe, 42 anni, eletta di Malta, l’ultimo paese Ue dove l’aborto è illegale (ora nei fatti raggiunto dalla Polonia con la nuova legge fatta votare dal Pis). Potrebbero esserci sorprese, il voto è segreto e molti, nei Verdi ma anche in Renew e persino in S&D, i più ligi alle regole dell’alternanza, sono scontenti. La “cultura” che vuole cancellare il passato di Antonio Polito Corriere della Sera, 12 gennaio 2022 Colpisce che sia il Papa a criticare l’ansia di abbattere statue, ostracizzare classici della letteratura, censurare autori e registi che dilaga negli Usa e in Inghilterra. I più recenti discorsi di papa Francesco smentiscono ulteriormente, se mai ce ne fosse stato bisogno, le accuse di chi lo vorrebbe “cripto-comunista”, o “globalista”, se non addirittura propenso al relativismo culturale. E forse per questo sono passati per lo più sotto silenzio. “L’inverno demografico - ha detto per esempio all’Angelus il giorno di Santo Stefano - è contro le nostre famiglie, contro la Patria, contro il futuro”; dove quel riferimento alla Patria contesta l’illusione della accoglienza indiscriminata, e l’idea in fondo un po’ razzista che immagina di poter usare la manodopera di un popolo in migrazione, quello africano, per risolvere i problemi di un popolo in declino demografico, quello italiano, in una sorta di nuova “società servile”. Ma ancor più significativo è stato il durissimo attacco che il Pontefice ha mosso, davanti ai membri del corpo diplomatico in Vaticano, contro la cosiddetta “cancel culture”, che negli Stati Uniti e nell’anglosfera dilaga come presunto strumento di affermazione dei diritti delle minoranze, bollata dall’Economist in quanto arma della “illiberal left”. Il punto critico per Francesco è che quest’ansia di abbattere statue e monumenti, ostracizzare classici della letteratura e del teatro, censurare autori e registi, “rinnega il passato” nel nome di un “bene supremo indistinto e politicamente corretto”. Un falso idolo, insomma, si potrebbe chiosare; con il rischio di una “colonizzazione ideologica che non lascia spazio alla libertà di espressione”. F rancesco vede insomma un problema liberale che sembra sfuggire a molti liberal: e cioè che “si va elaborando un pensiero unico, pericoloso, costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi”. A qualcuno potrebbe apparire singolare questa concezione “storicistica” nel capo di una Chiesa che crede alla Provvidenza; ma da molto tempo il cattolicesimo ha fondato sul “libero arbitrio” la capacità dell’uomo di intervenire nella vicenda terrena, presupposto e spiegazione della diversità delle culture e delle epoche. La Provvidenza non cancella, al massimo converte. Il cristianesimo è così intimamente partecipe della “lunga durata” della storia in Europa, e delle sue innumerevoli contraddizioni e colpe, da aver imparato ad apprezzare i cambiamenti di significato che le azioni umane possono assumere attraverso i secoli. La rigidità della “cancel culture”, non a caso nata invece in un mondo caratterizzato da una prospettiva storica molto più “corta”, la cui data d’inizio è la scoperta di Colombo, probabilmente contesterebbe qui da noi anche il Colosseo, in fin dei conti un simbolo della crudeltà del mondo romano nei confronti dei “diversi”, schiavi o cristiani che fossero. Ma la Chiesa ha invece “assorbito” quel monumento così fatale trasformandolo nel ‘600 in un luogo di culto e tempio, e nel ‘700 consacrando l’arena e proibendone la profanazione, al punto che ancora oggi essa è la destinazione finale della Via Crucis del Papa il Venerdì Santo. Qualche voce laica contro la “cancel culture”, seppure con estrema prudenza visti i tratti da nuovo “maccartismo” che spesso assume, comincia a sollevarsi. Noam Chomsky, che pure è un radicale di sinistra come altri non ce n’è, ha dichiarato alla nostra Marilisa Palumbo sul 7 del Corriere che essa “è sbagliata come principio e suicida dal punto di vista tattico: è un regalo alla destra”. La New York Review of Books, ha notato sempre sul Corriere Giovanni Berardinelli, ha criticato il libro di uno storico secondo il quale la stessa indipendenza americana sarebbe stata voluta nel 1776 per difendere il regime schiavista, e quindi anch’essa andrebbe ripudiata come una “libertà bianca”, di conseguenza razzista. Nel 2020 è apparso un manifesto di centinaia di intellettuali contro la “cancel culture” che spesso, insieme con le idee o le statue, tenta di “cancellare” anche le persone, attraverso il linciaggio sui social e vere e proprie campagne virali di boicottaggio, appiccicando loro l’etichetta di misogino, omofobo, o transfobico, come è successo a Woody Allen, a Kevin Spacey, a J. K. Rowling. Naturalmente la “cancel culture” non è il male del nostro tempo, ma ne è una significativa manifestazione. È in ogni caso un pericolo per la libertà ben più serio di una campagna vaccinale o del green pass. E sorprende che in Italia debba essere il Papa ad accorgersene, nel sostanziale silenzio di tanti intellettuali laici e progressisti. Migranti, da Schengen alla Fortezza Europa: i muri servono per fermarli? I dati di Domenico Affinito e Milena Gabanelli Corriere della Sera, 12 gennaio 2022 Quasi la metà degli Stati dell’Unione Europea vuole che Bruxelles paghi la costruzione di barriere fisiche per frenare la migrazione irregolare. Lo hanno chiesto il 7 ottobre 2021 con una lettera di 4 pagine alla Commissione europea i ministri degli interni di Austria, Bulgaria, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Grecia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Slovacchia. I ministri sostengono che una recinzione è “un’efficace misura di confine che serve l’interesse di tutta l’Unione, non solo degli Stati membri del primo arrivo” e che andrebbe “adeguatamente finanziata dal bilancio dell’Ue in via prioritaria”. Il ministro degli interni austriaco, Karl Nehammer, ha anche dichiarato che il sistema di quote dell’UE per la distribuzione dei richiedenti asilo sarebbe “inutile” fino a quando le frontiere esterne non saranno “rigorosamente” protette. Sono passati 22 anni dall’accordo di Schengen e l’inversione di tendenza è iniziata con la crisi in Siria del 2012. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri: a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Nel ventesimo secolo l’Europa conosceva solo tre muri, tutti di difesa territoriale, a Berlino, Cipro e in Irlanda del Nord. Oggi ne conta 16 per oltre mille km, tutti in chiave anti-migranti. I muri in Europa - La costruzione di muri e recinzioni anti-migranti è iniziata negli anni ‘90, con il caso della Spagna a Ceuta (1993) e Melilla (1996), per bloccare gli arrivi dal Marocco, ma è dal 2012 con la crisi siriana che il fenomeno è esploso in Europa. Comincia la Grecia con una barriera di fossati e doppio filo spinato di 150 km e alta 4 metri lungo le rive del fiume Evros, al confine con la Turchia, per arginare la fuga dei siriani diretti in Europa. Poi è stata la volta della Bulgaria, sempre al confine con la Turchia per bloccare i profughi siriani: il muro è stato definitivamente concluso nel 2017 per una lunghezza complessiva di circa 200 km, con filo spinato, torrette presidiate da soldati e guardia di frontiera con camere a infrarossi e sensibili al calore. La rotta balcanica, percorsa dai profughi in fuga dai conflitti in Medio Oriente e Afghanistan, è stata via via chiusa dal 2015. L’Ungheria ha prima bloccato quasi tutto il confine con la Croazia (300 km di barriera su 329) e nei due anni successivi ne ha alzato un’altra lunga tutti i 151 km di confine con la Serbia. La Macedonia ha blindato 33 km al confine con la Grecia, l’Austria ha disposto 3,7 km di filo spinato lungo il confine con la Slovenia che, a sua volta, ha chiuso 200 dei 670 km che li divide dalla Croazia. A quel punto la rotta da oriente verso l’Europa si è spostata più a nord, e così nel 2016 la Norvegia ha eretto una barriera di 200 km e alta 4 metri lungo il confine con la Russia; lo stesso hanno fatto nel 2017 la Lituania e la Lettonia. Lituania, Lettonia e Polonia hanno anche annunciato nuove barriere di 508, 134 e 130 km lungo il confine con la Bielorussia. I muri non servono - Scelte che non hanno funzionato, come dimostrano i dati di Iom. Gli arrivi via terra sono stati 26.395 nel 2016, 15.662 nel 2017, 31.257 nel 2018, 24.636 nel 2019, 13.666 nel 2020 e 33.296 nel 2021: per una media di 24.152 all’anno. Quelli via mare, invece, sono stati 363.581 nel 2016, 171.837 nel 2017, 115.399 nel 2018, 103.836 nel 2019, 85.809 nel 2020 e 111.144 nel 2021: per una media di 158.601 all’anno. Costruire muri ha però alimentato la strumentalizzazione politica, cavalcata dai partiti xenofobi che sono cresciuti in popolarità ed esercitano pressioni che limitano le soluzioni. Oggi tra i 28 membri dell’UE ci sono 39 partiti politici che promuovono una violenta retorica anti-migranti, e in dieci Stati membri (Austria, Danimarca, Germania, Francia, Finlandia, Svezia, Italia, Ungheria, Polonia e Paesi Bassi) hanno una forte presenza in Parlamento. Italia: abbiamo bisogno di migranti - Però poi i migranti servono. Se n’è accorto il Regno Unito dopo la Brexit, rimasto senza camionisti che distribuissero le merci ed è stato costretto a mettere in campo l’esercito. Se ne accorge l’Italia: le nostre imprese hanno bisogno di braccia che sostengano la crescita ed hanno chiesto a Draghi di rivedere la politica migratoria. A dicembre il Governo ha deliberato il nuovo Decreto Flussi che disciplina l’ingresso dei lavoratori stranieri. Per il 2022 il numero è fissato a 69.700 per sostenere i settori agricolo, turistico-alberghiero, autotrasporto merci ed edilizia. Una svolta rispetto agli ultimi sei anni, quando il numero complessivo era sempre rimasto costante a quota 30.850. Le altre barriere nel mondo - Il 2020 sarà anche ricordato come l’anno delle grandi divisioni. Oggi esistono 70 muri nel mondo: 40 mila chilometri di recinzioni, quanto basta per coprire l’intera circonferenza della Terra secondo i calcoli di Elizabeth Vallet dell’Università di Montreal. Undici furono costruiti tra il 1947 e il 1991, durante la guerra fredda, sette tra il 1991 e il 2001, ventidue tra il 2001 e il 2009. E ben 30 negli ultimi 10 anni. Senza considerare altri 7 già finanziati e in via di completamento. L’Asia è quella che ne ospita di più, 36, ma è anche il continente più esteso al mondo. Fra i più importanti ci sono quelli tra Macao, Hong Kong e la Cina, la barriera tra Israele e Cisgiordania, quella tra Corea del Nord e Corea del Sud e i muri tra India e Pakistan, tra Iran e i Paesi confinanti. Nessuno ha mai realmente funzionato, se non là dove sparano dalle torrette di controllo (Corea del Nord). Chi vuole fuggire trova sempre un modo, a costo della propria vita, basta leggere i numeri degli annegati sulla rotta mediterranea. Anche qui parlano chiaro i dati (fonte Unhcr): nel 2010 i richiedenti asilo e rifugiati nel mondo erano 16 milioni, saliti a 24,2 nel 2015 e diventati 34,4 nel 2020. Lo stesso trend è stato seguito dal numero e dalla percentuale dei migranti totali. La politica europea è un boomerang, ma non cambia - La scelta dell’Unione Europea in questi anni è stata quella di cercare di frenare i flussi migratori prima dell’ingresso, pagando, e gestire i rimpatri. In questa chiave vanno tutti gli accordi firmati con i Paesi satelliti, come quello del 2016 con la Turchia alla quale sono stati già destinati 6 miliardi di euro per evitare le partenze irregolari verso tutti gli Stati membri. Altri 3,5 miliardi arriveranno ad Erdogan nei prossimi quattro anni, mentre 2,2 miliardi andranno in Siria, Libano, Giordania e Iraq. Anche la sorveglianza è aumentata, con i sistemi informatici utilizzati per controllare la migrazione, come il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema di archiviazione dei dati Eurodac. Per pagare tutti questi controlli e sorveglianza, il bilancio di Frontex è passato da 6,2 milioni nel 2005 a 543 milioni nel 2021. Scelte che hanno consegnato un’arma di ricatto in mano ai leader politici più spregiudicati: lo fa il Marocco con la Spagna, lo sta facendo la Turchia di Erdogan, e da ultimo la Bielorussia di Lukashenko, che sta agevolando l’ingresso di profughi iracheni per poi spingerli sul confine europeo allo scopo di ottenere le cancellazioni delle sanzioni. Non si è percorsa, invece, la strada di aprire e gestire i flussi in maniera regolare, ma nemmeno quella di applicare uno schema di ridistribuzione dei migranti tra i diversi Paesi membri. La Commissione non ci è riuscita, come non è riuscita a fa passare l’idea di un contributo economico per i rimpatri da parte dei Paesi che rifiutano la redistribuzione verso quelli, come l’Italia, che si trova ad essere il primo Paese d’ingresso dalla rotta africana. In sostanza se ogni Paese pensa a sé, per quale ragione gli africani, iracheni, afgani, siriani, pakistani non dovrebbero pensare a loro stessi, e fermarsi di fronte ad un filo spinato? Cannabis legale in Canada, un quadro positivo di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 12 gennaio 2022 A tre anni dalla legalizzazione, il governo canadese ha pubblicato gli ultimi dati relativi a prevalenze e modalità di consumo di cannabis. Scontato l’effetto novità e quello di emersione dall’illegalità e dallo stigma, i consumi non “esplodono” ma paiono assestarsi su livelli paragonabili a quelli precedenti la legalizzazione. Questo nonostante il lockdown e l’evidente espansione del mercato legale, arrivato a 2,6mld di euro negli ultimi 12 mesi, con un aumento di valore del 60% rispetto ai precedenti. Eppure, i consumatori di cannabis diminuiscono: dopo l’aumento iniziale che aveva portato la prevalenza d’uso nel corso dell’anno dal 22 al 27%, questa scende al 25%. Parimenti scende anche il consumo frequente, che torna ai livelli del 2019 (17%). Il consumo abituale resta sostanzialmente invariato rispetto al periodo pre-legalizzazione. L’età media del primo approccio alla sostanza si alza: significa che gran parte dei nuovi consumatori sono sostanzialmente adulti, ma anche che i più giovani non sono più attratti come prima, e i dati 2020 avevano già dimostrato una diminuzione nel consumo negli adolescenti. Si conferma la progressiva sostituzione del mercato legale a quello illegale, nonostante le difficoltà iniziali e la persistenza del mercato nero e grigio, in particolare a causa dei prezzi e del sistema di distribuzione. Nel 2021 vi è stato un balzo deciso dell’acquisto nei negozi (dal 41% al 53%): insieme a store on line legali (11%) e all’autocoltivazione (8%) si arriva al 72% di fonti di approvvigionamento legale. Le stesse rappresentavano il 61% nel 2020 ed il 43% nel 2019. Se aggiungiamo quelle legate all’uso sociale, ovvero con amici (11%), condivisione fra gruppi di amici (5%) e famiglia (3%) si fa un salto al 91%. Il 63% dei rispondenti non ha mai utilizzato fonti illegali. La spesa rimane minore a quella del 2018 e sostanzialmente invariata nel post legalizzazione, anche se aumentano del 32% le persone che, probabilmente a causa della pandemia, dichiarano di consumarne di più, in particolare i minori di 25 anni. Quasi sempre esclusa dalla ricerca sulle droghe, la domanda sul perché si usa cannabis non è ancora entrata nel Canadian Cannabis Survey. C’è invece quella sugli effetti positivi e negativi percepiti nel suo uso, che qualcosa dice. I principali benefici sono sulla qualità della vita (52%), salute mentale (48%) e vita sociale (33%). Gli effetti negativi percepiti appaiono limitati: il 10% riporta peggioramenti sulla salute fisica, mentre il 7% riferisce effetti negativi sulla salute mentale e sulla performance lavorativa e scolastica. A quest’ultimo riguardo però l’80% ha dichiarato di non risentire effetti e il 13% di trarne invece benefici. Cambiano le modalità di consumo: se il fumo era quasi l’unico modo di assunzione pre-legalizzazione (89%), nel 2021 è sceso al 74% grazie alla diffusione dei vaporizzatori e alla disponibilità di edibili e oli. Emergono informazioni più credibili per chi usa e diminuiscono i comportamenti a rischio: i canadesi che riportano di aver guidato dopo aver usato la sostanza calano del 38%. Questo conferma anche un recente studio che, analizzando i dati USA dal 1985 al 2019, associa la diffusione della Marijuana Medica Legale alla diminuzione degli incidenti stradali, senza che le successive regolamentazioni di quella ricreativa generassero modifiche statisticamente rilevanti. Insomma, in questi primi tre anni di regolamentazione legale in Canada non vi è stato un boom del consumo di cannabis, men che meno fra gli adolescenti, l’età di primo approccio è progressivamente aumentata e il mercato legale si allarga a scapito delle narcomafie. È presto per trarre conclusioni definitive, ma qualche riflessione utile anche al dibattito italiano sul referendum cannabis, è possibile. Regeni, l’ora della politica di Luigi Manconi La Repubblica, 12 gennaio 2022 Con le richieste indirizzate dal giudice dell’udienza preliminare al governo italiano, qualunque margine residuale di ambiguità si è esaurito. Nella rete complessa di procedure e istanze che amministrano la giustizia, tanto più in una vicenda di dimensione internazionale come l’assassinio di Giulio Regeni, si rischia di non cogliere l’importanza di una decisione quale quella assunta lunedì 10 gennaio fa dal Tribunale di Roma. Con le richieste indirizzate dal giudice dell’udienza preliminare, Roberto Ranazzi, al governo italiano, qualunque margine residuale di ambiguità si è esaurito: e la politica viene chiamata a svolgere, finalmente, il proprio ruolo. Il giudice sollecita le autorità pubbliche italiane e, in particolare, il ministero della Giustizia e gli apparati dello Stato ad agire per ottenere informazioni circa il domicilio dei quattro appartenenti alla National Security Agency (Nsa), indicati dalla Procura di Roma come i responsabili della morte di Regeni. Ciò al fine di notificare loro l’iscrizione nel registro degli indagati e consentire lo svolgimento del processo a loro carico. Dunque, un’attività investigativa da condurre utilizzando qualsiasi tipo di fonte utile e, soprattutto, un impegno politico e diplomatico. Ovvero azioni di pressione affinché si realizzi, infine, “un’interlocuzione” efficace con il regime egiziano per ottenere la “cooperazione giudiziaria”, sempre annunciata e sempre risoltasi in un nulla di fatto. E, in particolare, per ricevere risposta alla rogatoria rivolta alla Procura del Cairo nell’aprile del 2019. Non solo: nell’ordinanza del Gup si ipotizza una soluzione normativa della quale è stata la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, la prima a parlare: la possibilità, cioè, di notificare i capi di imputazione presso lo stato di appartenenza degli indagati, qualora non fossero rintracciabili i domicili degli stessi. In altre parole, si chiede al governo italiano di fare ciò che non hanno mai voluto o potuto fare gli esecutivi succedutesi dal 2016 a oggi. Da parte dell’attuale governo, qualche segnale positivo. L’avvocatura dello Stato, già costituitasi parte civile per conto del nostro Paese, si è associata alle richieste indirizzate dal Gup al governo. Questa dimensione tutta politica della iniziativa che ora va intrapresa solleva una questione rimasta finora irrisolta. Quali strumenti di pressione e quali forme di condizionamento, quale capacità di negoziato e quale peso politico diplomatico l’Italia è in grado di esercitare nei confronti dell’Egitto? Finora è come se il nostro Paese vi avesse completamente rinunciato. In questi anni, i successivi governi hanno definito un “amico” il despota Al-Sisi; e non hanno attuato alcun programma di intervento incisivo nel campo delle relazioni tra i due Paesi: e, ancor meno, di quelle tra l’Europa e lo Stato nordafricano. Tutto questo in nome di una “strategia del Mediterraneo” che si è rivelata, alla resa dei conti, niente più che la solita politichetta dell’ammuina ispirata da interessi mediocri e da prospettive di corto respiro. Non c’è stata nell’ambito dei rapporti bilaterali una sola iniziativa che avesse un peso capace di indurre il regime di Al-Sisi ad ascoltare l’Italia, a rispettarne la sovranità, ad accogliere la sua domanda di verità e di giustizia: non nei rapporti economici e commerciali, non in quelli culturali e turistici, né in quelli militari e nemmeno in quelli sportivi. E così, in questi sei anni, tra Egitto e Italia, ha prevalso una rasserenante e rassicurante normalità politico-diplomatica. Come se nulla fosse accaduto: come se un nostro connazionale non fosse stato ucciso per mano di funzionari di quel regime. In proposito, la parabola della delegazione diplomatica italiana in Egitto è eloquente. Sin dal primo momento, i familiari di Giulio Regeni hanno sollecitato il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo. Cosa effettivamente avvenuta l’8 aprile del 2016. Ma poi, alla vigilia del ferragosto del 2017, nel pomeriggio di un torrido lunedì, il governo ha deciso il ritorno dell’ambasciatore al Cairo. Con la motivazione che, così, avrebbe potuto seguire “più da vicino e con maggiore efficacia” la cooperazione giudiziaria tra la procura di Roma e quella del Cairo. Il fallimento, va detto, è stato totale. Ora, il richiamo dell’ambasciatore in Italia può essere riproposto come una misura utile? Francamente, penso di sì, se non altro perché è l’unica in grado di certificare, inequivocabilmente, lo stato di crisi delle relazioni tra Italia ed Egitto. Ed è in una tale dimensione di crisi politico-diplomatica che può essere assunta una iniziativa capace di affrontare il regime egiziano, di incalzarlo, di chiamarlo in causa in tutte le sedi internazionali e di concludere alleanze con altri Paesi che possano, a loro volta, esercitare un’adeguata pressione. Contro l’ipotesi di questa misura, sono soliti insorgere gli ossequiosi cultori della Realpolitik da circolo del tennis (numerosi alla Farnesina e nello stesso governo): tutti appassionati di Risiko e devoti del cancelliere von Bismarck, più per pavidità che per intelligenza strategica. Ma, da loro, non una sola proposta alternativa, in grado di dare efficacia e forza all’iniziativa italiana. Lo status quo, al quale condannano il nostro Paese, è una condizione torpida e inerte, nella quale la sovranità dello Stato italiano è ulteriormente mortificata e Giulio Regeni viene oltraggiato ancora una volta. Inghilterra: partorisce in cella il figlio senza vita di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 12 gennaio 2022 La donna aveva chiesto soccorso per ben tre volte, e per tre volte il personale medico del carcere l’ha ignorata. Ora è bufera sulla ministra britannica. Louise Powell, 31 anni, aveva chiesto soccorso per ben tre volte, e per tre volte il personale medico del carcere femminile di Styal nel Cheshire (500 detenute) l’ha ignorata. Incinta di sette mesi e mezzo, pochi minuti dopo avrebbe messo al mondo la sua bambina, ma qualcosa chiaramente non stava andando per il verso giusto, troppo sangue, troppo dolore. Una guardia carceraria si accorge delle urla, prova a chiamare i medici e le infermiere, invano, il telefono suona ma dall’altro capo nessuna risposta. A quel punto la situazione diventa disperata, la guardia l’accompagna nel bagno più vicino, cerca di aiutarla come può, ma è troppo tardi: in condizioni degne di un paese del terzo mondo Louise partorisce Brooke, una neonata di circa due chili in fin di vita, che morirà poco più tardi a bordo di un’ambulanza partita anch’essa con colpevole ritardo. “Non potrò mai perdonare quei medici per avermi lasciata sola mentre chiedevo aiuto, mi sentivo come se stessi morendo, nessuna donna merita di subire un simile orrore, in carcere siamo trattate come numeri”, ha raccontato Louise Powell, nel frattempo tornata in libertà, in un’intervista alla Bbc. I fatti risalgono allo scorso giugno ma sono trapelati solamente negli ultimi giorni grazie a un’inchiesta del Prisons and Probation Ombudsman (PPO): secondo gli investigatori Louise Powell aveva segnalato i sanguinamenti il giorno precedente il parto, ma per l’infermiera che l’aveva visitata si trattava di normali perdite. Inoltre quando Brooke è uscita dalla pancia della madre respirava ancora; il ritardo dell’ambulanza potrebbe essere stato fatale. La vicenda, diventata un caso nazionale, ha scosso l’opinione pubblica britannica illuminando il dramma spesso invisibile della condizione carceraria nel Regno Unito: strutture inadeguate, affollate oltre la capienza prevista e un accesso alle cure da parte dei detenuti ben sotto gli standard di una nazione civile. Il difensore civico delle carceri e della libertà vigilata Sue McAllister ha accusato il personale sanitario della prigione: “La donna era in chiara sofferenza e stava sanguinando vistosamente, doveva essere curata diverse ore prima del parto, è stato commesso un gravissimo errore di giudizio, non si può lasciare senza cure qualcuno in quello stato, chiunque esso sia”. Secondo Jane Ryan avvocato di Louise Powell, Brooke, per quanto prematura, avrebbe potuto essere salvata se i medici fossero intervenuti tempestivamente e il parto fosse avvenuto nell’ospedale della prigione: “Ci sono state diverse opportunità, diverse finestre temporali per aiutare Louise ma il comportamento del personale medico è stato al limite del disumano, al contrario le guardie che l’hanno soccorsa sono state molto solerti e hanno fatto di tutto per salvare la bambina ma purtroppo non ne avevano i mezzi”. L’inchiesta del PPO ha prodotto un rapporto dettagliato che ora giace sul tavolo della ministra delle prigioni inglese Victoria Atkins. Rapporto in cui si chiede al governo di agire con rapidità e determinazione perché drammi del genere non accadano mai più. In particolare si raccomanda una formazione adeguata per le infermiere dei penitenziari femminile affinché siano in grado di riconoscere il travaglio precoce delle detenute in gravidanza e di intervenire efficacemente in caso di urgenze mediche. “Abbiamo già implementato le raccomandazioni del rapporto e sono già stati apportati importanti miglioramenti alle cure ricevute dalle detenute in gravidanza. Stiamo anche esaminando come possiamo monitorare meglio la gravidanza nelle carceri in modo che nessuna donna cada attraverso le crepe del sistema”, ha promesso Atkins messa alla berlina dai media. Il caso di Louise Powell putroppo non è isolato: otto mesi fa un’adolescente aveva messo alla luce un bambino morto nella prigione di Bronzfield, nel Middlesex priva di qualsiasi aiuto medico. Anche questa tragedia è emersa dopo un’inchiesta degli ispettori del PPO. Se il governo promette di attuare miglioramenti in tempi brevissimi, le associazioni che si battono per i diritti delle detenute e delle donne in gravidanza chiedono dal canto loro provvedimenti più radicali, in modo che nessuna donna sia costretta a partorire dietro le sbarre. “Non possiamo continuare a fingere: il sistema carcerario non è e non sarà mai un luogo sicuro o appropriato per partorire un bambino. Il governo deve permettere il rilascio anticipato delle detenute incinte, che in ogni caso non possono affrontare la gravidanza all’interno di strutture fatiscenti e sovraffollate”, dice Kirsty Kitchen dell’ong Birth Companions. In effetti Louise Powell, condannata a otto mesi per un’aggressione, non è certo un’incallita criminale e avrebbe potuto scontare tranquillamente la sua pena agli arresti domiciliari e come lei migliaia di altre donne costrette a vivere il parto come una roulette russa. Guantánamo, 20 anni dopo: l’anniversario della vergogna di Riccardo Noury Corriere della Sera, 12 gennaio 2022 L’11 gennaio 2002 il primo di circa 780 uomini di religione musulmana entrò nella prigione militare statunitense di Guantánamo Bay. Ben presto e negli anni a seguire, quel centro di detenzione situato in territorio cubano diventò il simbolo dello sfregio ai diritti umani. Guantánamo andava chiusa da tempo. Già all’epoca dell’amministrazione Bush, esperti di sicurezza nazionale ed esponenti politici avevano concordato che quel famigerato centro di tortura e di ingiustificata detenzione a tempo indeterminato doveva essere smantellato. Invece, a 20 anni da quell’11 gennaio 2002, a Guantánamo 39 uomini di religione musulmana continuano a essere detenuti a tempo indeterminato, in violazione del diritto a un giusto processo (cui non sono mai stati sottoposti) e di altri diritti riconosciuti a livello internazionale. Dodici di loro sono sotto la giurisdizione delle commissioni militari, tribunali che mai hanno garantito agli imputati il diritto a un giusto processo e che non sono destinati a fornire giustizia alle vittime e ai sopravvissuti degli attacchi dell’11 settembre 2001. Altri dieci detenuti, arrivati a Guantánamo tra il 2002 e il 2004, dovevano essere rilasciati da tempo ma si è in attesa di uno stato che li accolga. Gli ultimi 17 sono considerati pericolosi, non verranno né processati né rilasciati. Amnesty International ha sollecitato il presidente Biden a tenere fede al suo impegno di chiudere Guantánamo una volta per tutte. Più a lungo quella prigione resterà aperta, più a lungo la credibilità globale degli Usa nel campo dei diritti umani risulterà compromessa. Finché Guantánamo resterà aperta, la credibilità degli Usa nei diritti umani sarà compromessa di Ludovica Amici Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2022 È il simbolo dell’illegalità e della sospensione dei diritti umani. Degli eccessi degli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Noto all’opinione pubblica mondiale per via delle sistematiche violazioni delle Convenzioni di Ginevra. Per il maltrattamento dei prigionieri e la detenzione di sospetti per due decenni per lo più senza accusa. L’11 gennaio 2022 segna i venti anni da quando i primi detenuti sono stati inviati a Guantánamo Bay, centro di detenzione situato nella base navale statunitense nel sud-est di Cuba. Il campo ha ospitato quasi 800 uomini da quando è stato istituito durante la Guerra Mondiale al Terrore dell’amministrazione di George W. Bush. Un luogo nato quattro mesi dopo l’11 settembre 2001 per detenere i membri dell’organizzazione di Al-Qaeda e i sospetti complici degli autori degli attacchi. Prigionieri ritenuti collegati ad attività terroristiche, catturati in Afghanistan e Pakistan, anche tramite extraordinary rendition. Molti detenuti, per lo più uomini musulmani, sono stati trattenuti per anni senza accuse, processi o diritti legali fondamentali. Alcuni di loro sono stati torturati nei Black Site, le prigioni segrete della Cia, prima del loro trasferimento a Guantánamo. Sottoposti ad abusi disumani e umilianti tra cui il waterboarding e la privazione del sonno, utilizzati dagli agenti per estorcere informazioni e confessioni ai sospettati di terrorismo. Uomini che ora convivono con problemi cronici di salute e psicologici; con il disturbo da stress post-traumatico. Questi metodi utilizzati a Guantánamo sono diventati rapidamente una questione critica per Washington, accusata di detenzione illegale. Oggi sono 39 gli uomini rimasti sul sito ma non hanno ancora ricevuto un processo equo e continuano a essere detenuti a tempo indeterminato, in violazione del giusto processo legale. Il processo contro i cinque accusati di partecipazione diretta agli attacchi dell’11 settembre, incluso l’autoproclamato artefice Khalid Sheikh Mohammed, non è nemmeno iniziato. La maggioranza degli ex detenuti di Guantánamo è stata rimpatriata nei propri paesi d’origine, e circa il venti per cento è finito altrove: l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Regno Unito, la Slovacchia e l’Albania sono stati tra i maggiori paesi ad accoglierli. Ma molti rimangono nel limbo legale, vulnerabili all’espulsione, incapaci di lavorare o riunirsi con le loro famiglie. Come saranno gestiti gli uomini ancora detenuti o dove saranno ospitati? Gli Stati Uniti nel trasferire i detenuti fuori Guantánamo devono trovare degli accordi che garantiscano un trattamento umano dai loro paesi d’origine. Altrimenti fare in modo che un paese terzo accetti di reinsediarli. Joe Biden era vicepresidente quando Barack Obama ordinò la chiusura di Guantánamo nel gennaio 2009 per processare i prigionieri nei tribunali civili, ma la decisione fu poi sospesa. Il presidente Biden potrebbe ora chiuderlo, adempiendo alla sua promessa durante la campagna elettorale, portando a termine ciò che altre amministrazioni avevano cercato di fare. Per ora però non sembrano esserci grandi progressi e anzi, secondo quanto riportato dal New York Times, sarà ampliato con una nuova aula di tribunale da 4 milioni di dollari da costruire quest’anno che escluderà il pubblico dalla camera. L’ultima mossa verso la segretezza in questa operazione di detenzione in cui il pubblico poteva già vedere ben poco. Le organizzazioni per i diritti umani chiedono un’azione efficace da parte di Joe Biden e l’immediata chiusura. “Le commissioni militari istituite per processare i detenuti di Guantánamo non hanno garantito agli imputati il diritto a un giusto processo e non hanno fornito giustizia alle vittime e ai sopravvissuti degli attacchi dell’11 settembre 2001” ha dichiarato Amnesty International, sollecitando il presidente degli Stati Uniti a tenere fede al suo impegno di chiudere Guantánamo una volta per tutte. Perché “più a lungo quella prigione resterà aperta, più a lungo la credibilità globale degli Usa nel campo dei diritti umani risulterà compromessa”. È quindi necessario rinnovare una certa urgenza su questo tema. Fare un passo verso la ricerca di soluzioni per tutti i restanti detenuti a Guantánamo in modo che questo luogo, simbolo di torture e ingiustizie, possa chiudere e possa terminare anche questo capitolo della guerra al terrore consumato in nome della democrazia. La paura dei kazaki nelle vie di Almaty ferite dalla rivolta di Fabio Tonacci La Repubblica, 12 gennaio 2022 Il municipio è stato sventrato e dato alle fiamme, i bancomat sono stati divelti e le vetrine frantumate. “La città è stata lasciata in preda alla violenza”. Nominato un nuovo premier. “Nelzja!”. Il soldato sbuca all’improvviso dalla porta di destra, l’unica aperta delle tre da cui si entra in ciò che resta dell’Akimat, il municipio di Almaty. “Nelzja!”, urla una seconda volta. In russo significa “non si può”, ma non c’è bisogno del traduttore per intuire il messaggio. Bastano gli occhi spiritati del giovane militare e la canna del fucile d’assalto puntata addosso. Sette piani sopra la sua testa, sul tetto di questo edificio di imponente architettura post-sovietica che è stato il più importante della nazione prima del trasferimento della capitale a Nur-Sultan, un’inedita bandiera del Kazakistan è ammainata a mezz’asta. Dovrebbe essere azzurra e invece ha il colore del carbone. Annerita dalle fiamme che hanno illuminato la città nella notte più drammatica. Il Kazakistan oggi è come quel soldato: spaventato, in cerca di responsabili e responsabilità, pronto a sparare a vista. Almaty, la sua capitale economica e finanziaria, è come quella bandiera lassù: bruciata, immobile, oltraggiata, in attesa che qualcuno la aiuti a rialzarsi dopo il passaggio dell’Orda cui è seguita la sanguinosa repressione del regime. La scena di un delitto che il presidente kazako Karim-Jomart Tokayev non esita a definire “tentato colpo di Stato” presenta i segni tipici dell’assalto al Palazzo di Inverno. L’Akimat, ex sede dei governo circondata da un bel giardino innevato di aceri e betulle, è stato il primo centro del potere a cadere. I rivoltosi, prima di appiccare l’incendio a tutti i sette piani con la benzina, si sono scattati selfie nell’aula degli stucchi e delle riunioni. Come hanno fatto, con singolare coincidenza esattamente un anno fa, gli assalitori di Capitol Hill a Washington. Il municipio sventrato domina Piazza della Repubblica, che è deserta, cinturata da check-point e paracarri. Gli agenti perquisiscono i passanti, aprono borse, cancellano foto e video dei telefonini, gridano ordini con gli altoparlanti. Il cielo è una cappa grigia carica delle emissioni inquinanti delle centrali elettriche a carbone. Fanno - 4 gradi. Il “battesimo del freddo”, come chiamano il giorno in cui dalla sera alla mattina la temperatura scenderà fino a - 25, è atteso per la prossima settimana. È in questa piazza che, con un inspiegabile ritardo di diverse ore, a metà del 5 gennaio è cominciata la reazione delle forze di sicurezza. Soldati come il ragazzo che è di guardia all’Akimat hanno avuto l’autorizzazione a fare fuoco su chiunque si trovasse nei dintorni. Fermarli, vivi o morti. Sparavano anche i rivoltosi, con kalashnikov e pistole di fabbricazione sovietica. Dicono che solo ad Almaty siano decedute 107 persone. “Decine, ne hanno uccisi a decine, che cosa vuole che importi il numero esatto?”, bofonchia un operaio tartaro con la pettorina arancione mentre solleva mattoni di granito e rattoppa la piazza. L’Orda ha frantumato il pavimento per rimediare oggetti da tirare. Qualche passo più avanti, quando si arriva alla ex residenza presidenziale, si percepisce veramente quale furiosa e brutale battaglia si sia combattuta una settimana fa. Le carcasse bruciate di quattro auto sono ancora in strada. Tre giacciono su un fianco, una è rovesciata. Una quinta è piantata contro il cancello, tra rami di albero spezzati e detriti. La garitta di ferro battuto e intarsi dorati è sbriciolata, i vetri esplosi. Non sono passati da qui. Per entrare nella villa del capo dello Stato hanno preferito lanciare un camion in retromarcia a tutta velocità contro la recinzione. Sono sciamati dentro come vespe impazzite, spaccando macchine, depandance, uffici che poi hanno provato ad ardere. A protezione degli edifici sensibili adesso ci sono le forze speciali russe della 45esima Brigata. Hanno alzato barricate con sacchi di sabbia e mitragliatori, come in guerra. Putin ha assicurato che tra due giorni, se la situazione sarà sotto controllo, comincerà il ritiro delle truppe. Tokayev lo ringrazia dell’aiuto. Gli Stati Uniti non si fidano. I kazaki di Almaty non rilasciano commenti, hanno paura. Nell’Arbat, la via pedonale ristrutturata da un architetto italiano, nessuno sente il desiderio di sfogarsi davanti alla telecamera per tutte le botteghe senza più le porte, i bancomat divelti, le vetrine scassate, le centraline dei lampioni coi fili scoperti, il dedalo di vie interrotte e 93 check-point, i 23 centri commerciali Magnum depredati, i distributori coi serbatoi di carburante dissotterrati, le scuole che non riaprono. La Rete solo ieri è stata resa di nuovo accessibile dal governo, l’aeroporto invece è off-limit: da Nur-Sultan si arriva a bordo di treni vecchissimi che impiegano 15 ore per attraversare la steppa, un viaggio interminabile tra i sussulti delle carrozze. I negozianti riparano gli scaffali, senza fiatare. Gli stessi giornalisti locali fanno fatica a parlare, eppure ne avrebbero motivo visto che le sedi delle televisioni statali Khabar e Ktk sono state assaltate, così come il dipartimento dell’istruzione e il tribunale. Per avere una reazione, bisogna garantire di non fare nomi e cognomi. Allora sì che viene fuori l’insofferenza che, almeno in parte, può spiegare la sommossa. “Siamo disperati”, dice un kazako di 50 anni sceso in piazza non per aggredire ma per contestare. “I pensionati non vedono le pensioni, i dottori sono corrotti, le famiglie giovani non riescono a comprare casa se non indebitandosi con le banche a tassi di interesse assurdi”. Nell’anonimato spiegano che i poliziotti quel giorno hanno abbassato gli scudi, in segno di resa. E settimane prima della guerriglia ad Almaty c’erano macchine ministeriali, riconoscibili dalla targa (“Hanno due cifre invece di tre”) da cui uscivano stranieri mai visti prima. Da dove è venuta l’Orda? Chi l’ha guidata? Chi erano i 5-6 mila sediziosi che hanno sequestrato una protesta per il rincaro dei prezzi del Gpl nata pacifica e l’hanno tramutata in aggressione allo Stato? Gli unici punti fermi dell’enigma kazako è che sono arrivati da lontano ed erano organizzati. Il 4 gennaio, poco prima del calar del sole, una folla si è radunata fuori dall’Almaty Arena, palazzetto dello sport nel quartiere periferico di Momyshuly, abitato da musulmani e dagli oralmahi, kazaki nati all’estero cui è stata data la possibilità di rientrare dopo l’indipendenza. Da lì hanno preso a risalire le due arterie Tole Bi e Abaya: sono viali lunghi chilometri, dove sono cominciati i saccheggi. Hanno rubato pure profumi francesi e vestiti eleganti che hanno indossato mentre bruciavano il municipio. La polizia e la Guardia Nazionale avevano tutto il tempo per bloccarli e tenerli lontano dall’Akimat, eppure non sono intervenuti. “La città è stata lasciata in preda alla violenza, qualcuno deve ha dato loro l’ordine di ritirarsi”, ragiona Carmine, un pittore italiano che vive ad Almaty da trent’anni. Ne sono convinti in tanti, a cominciare dal presidente 68enne Tokayev che ieri ha nominato Alikhan Smailov primo ministro, dopo l’epurazione del governo di Askar Mamin: che si sia trattato, cioè, di un’operazione “terroristica” pianificata da tempo, con l’ausilio di forestieri kirghizi, tagiki, miliziani afghani islamisti entrati di nascosto nel Paese e la complicità di qualcuno che conta negli apparati. Forse proprio quel Karim Masimov arrestato per alto tradimento: ex primo ministro legato al padre “della patria” Nursultan Nazarbayev, fino a giovedì scorso era il capo dei servizi segreti interni. E c’è chi già scommette sull’esilio di Nazarbayev, la cui ultima apparizione pubblica risale a due settimane fa. “Queste sono giochi politici che fanno a Nur-Sultan, noi abbiamo altri problemi...”, dice una signora dal passo svelto. Sta andando all’obitorio di Kazybek Bi, dove c’è la fila per riconoscere i cadaveri di padri, fratelli, sorelle, figli. I rivoltosi si sono intrufolati anche lì dentro, per riprendersi i corpi dei loro caduti. Nella notte di Almaty, neanche i morti sono stati lasciati in pace.