Servono più risorse per offrire alternative al carcere di Gian Luigi Gatta* Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2022 Assieme alla legge di bilancio, la Camera ha approvato un ordine del giorno con il quale impegna il governo “a garantire l’immediata copertura delle attuali vacanze degli Uffici dell’esecuzione penale esterna (Uepe, ndr) e un adeguato aumento delle loro piante organiche”. Le forze politiche che sostengono l’esecutivo, e che sul terreno della giustizia penale sono portatrici di visioni indubbiamente diverse, hanno convenuto sulla necessità di investire urgentemente sugli Uepe. L’ordine del giorno ha ottenuto un consenso trasversale e il plauso della ministra Cartabia: “L’esecuzione penale esterna è un settore sempre più strategico”. Cosa sono gli Uepe? Sono gli uffici territoriali che gestiscono l’esecuzione di misure e sanzioni penali diverse dal carcere: le misure “di comunità”. In Italia, come altrove in Europa e nel mondo, il carcere, benché la più tradizionale, non è l’unica risposta al reato. Secondo i principi costituzionali e internazionali, la detenzione è l’extrema ratio e, ove possibile, compatibilmente con le esigenze di difesa sociale connesse alla pericolosità del reo, gli obiettivi di risocializzazione e di riduzione del rischio di recidiva vanno perseguiti attraverso misure meno afflittive e desocializzanti del carcere, che consentano di eseguire la pena, in tutto o in parte, all’esterno. È una realtà poco conosciuta, che non fa parte dell’immaginario comune, come quella del carcere, ma che ha ed è destinata ad avere un ruolo sempre più centrale nel sistema sanzionatorio. Persino negli Stati Uniti - il Paese della mass incarceration - su 6,7 milioni di persone a vario titolo sotto il controllo della giustizia penale due terzi (44 milioni) sconta misure penali in comunità, mentre “solo” un terzo (2,3 milioni) si trova in carcere. In Francia il rapporto è analogo: 160mila persone eseguono la pena in comunità, 82mila in carcere. In Italia il rapporto è di circa uno a uno; pur con proporzioni diverse, il numero di quanti eseguono misure o sanzioni penali di comunità (68.830) è addirittura maggiore di quello dei detenuti in carcere (54.593). Nel 55% dei casi la pena si esegue fuori dal carcere, nella comunità; vuoi prima della condanna, previa sospensione del processo e messa alla prova (35% dei casi), vuoi dopo la condanna, attraverso l’affidamento in prova ai servizi sociali (28% dei casi), la detenzione domiciliare (16% dei casi) o il lavoro di pubblica utilità (13% dei casi). Per gestire in modo efficace ed effettivo 68.830 persone che, nella comunità, stanno oggi pagando il proprio debito con la giustizia, occorre personale specializzato, che predisponga e curi l’esecuzione dei programmi di trattamento. Qui sta il problema: i funzionari di servizio sociale negli Uepe sono 1.112 a fronte di una pianta organica di 1.211. Ciò significa che, mediamente, ciascuno segue contemporaneamente 62 persone sottoposte a misure. Non solo: sul tavolo dei funzionari vi sono anche i fascicoli relativi alle valutazioni per la concessione delle ulteriori misure: a oggi sono 45.29o. Ciò significa che ogni funzionario ha sulla propria scrivania, mediamente, ulteriori 40 fascicoli, per un totale di oltre 100. Numeri alla mano, è evidente come non si tratti solo di un problema di scopertura dell’organico, di per sé contenuta (5%); vi è l’urgente necessità di risorse finanziarie per ampliare quell’organico, abbassando il rapporto tra numero dei funzionari degli Uepe e numero delle persone affidate loro in carico, in linea con i migliori standard internazionali. Sono risorse di cui ha necessità la giustizia, come servizio pubblico, anche per raggiungere gli obiettivi posti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) (tra i quali la riduzione del 25% dei tempi medi dei procedimenti penali): le misure di comunità consentono una forte deflazione processuale, rappresentando incentivi a forme di definizione alternativa e anticipata del procedimento. Sono al centro della riforma della giustizia penale: uno dei tasselli del Pnrr che il governo è stato delegato dal Parlamento ad attuare nei prossimi mesi. Un apposito gruppo di lavoro costituito dalla ministra Cartabia e da me coordinato è da alcune settimane al lavoro per supportare l’attuazione della riforma, che prevede l’estensione della sospensione del procedimento con messa alla prova e una riforma organica delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, che amplia il novero delle misure di comunità, affidando ulteriori compiti agli Uepe. Anche per questo assume particolare rilievo l’impegno che il Parlamento ha chiesto al governo. D’altra parte, se i servizi sociali non hanno forze per seguire le misure di comunità, esse di fatto si svuotano di contenuto e non rappresentano “pene” alternative al carcere. *Ordinario di Diritto penale nell’Università degli Studi di Milano, Consigliere della ministra della giustizia Walter Verini (Pd): “Le carceri esplodono e non possono più aspettare: ora un decreto” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 gennaio 2022 “Condivido la proposta di legge di Roberto Giachetti di Italia Viva che punta alla liberazione anticipata speciale. Un’altra misura valida contro il sovraffollamento potrebbe essere l’ammissione all’affidamento in prova ai servizi sociali dei semiliberi che hanno ottenuto le licenze speciali per il Covid e che consente loro di non rientrare nelle ore notturne”. Tre suicidi dall’inizio dell’anno, il virus che dilaga, la radicale Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che da due giorni ha ripreso lo sciopero della fame “per aiutare governo e Parlamento a prendere le decisioni ormai non più rimandabili volte a ridurre la “congestione” dei corpi ristretti nelle carceri italiane”. Insomma lo stato di salute delle nostre carceri è forse da terapia intensiva. Ne parliamo con l’onorevole Walter Verini, membro dem in commissione Giustizia e Tesoriere del partito che ci dice: “Pronti a sostenere un decreto d’urgenza della Cartabia”. In generale, qual è il suo parere sulla relazione elaborata dalla Commissione ministeriale presieduta dal professor Marco Ruotolo? Si tratta di un lavoro davvero importante che, peraltro, si inserisce nel solco delle conclusioni degli Stati generali dell’Esecuzione penale. È un patrimonio non solo di elaborazione di proposte ma soprattutto di molti interventi che possono da subito essere praticati, attraverso modifiche del regolamento penitenziario, interventi del Dap, altre modalità. Sono cose che si possono fare subito. Sono certo che gli attuali vertici del Dap Petralia e Tartaglia - sapranno cogliere questa opportunità e agire di conseguenza e avranno tutto il nostro appoggio in questo percorso. Ma quali sono le altre vostre priorità? Noi come Pd auspichiamo che vengano da subito attuate modifiche per quanto concerne l’ampliamento della possibilità delle video chiamate per i colloqui e dell’uso controllato delle email, la predisposizione di colonne touch-screen multilingue per inviare le “domandine”, il potenziamento dell’affettività, l’approvazione della legge Siani, suggerita dalla Commissione, per non avere mai più bambini in carcere. E tanti altri micro-interventi che potrebbero rendere più dignitosa la pena in carcere. Nella relazione manca tuttavia un capitolo sulle misure alternative, cuore della riforma Orlando... Intervenire nel campo delle misure alternative significa modificare delle leggi e non semplicemente un regolamento. Non c’è dubbio che il tema delle alternative al carcere sia centrale. Prima o poi questo Paese arriverà a capire che il carcere deve costituire l’extrema ratio in moltissimi casi. In questo senso, pur nella consapevolezza che questa maggioranza è composita e complicata e che ha davanti a sé la scadenza molto delicata dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, il Partito Democratico sulla questione delle alternative al carcere si batterà. Proporremo delle misure che possono essere attuate sia per via parlamentare ma anche attraverso - perché no? - forme di decretazione di urgenza. Abbiamo sottoposto questa possibilità alla ministra Cartabia, conoscendo la sua sensibilità sul tema. Valuterà lei la fattibilità. Le misure alternative possono dare un contributo anche alla battaglia contro il sovraffollamento (aspetto che non era nel perimetro di valutazione della Commissione, ndr), insieme ad altre modifiche. Quali? Io condivido la proposta di legge dell’onorevole di Italia viva Roberto Giachetti che punta all’incremento della detrazione di pena (da 45 a 75 giorni per ogni semestre di pena scontata). Si può concedere ai detenuti sulla base di un reale percorso di trattamento e recupero. È evidente che la liberazione anticipata speciale non viene data dai magistrati di sorveglianza a reclusi con tasso di pericolosità sociale. E però anche loro un giorno usciranno: ed è per questo che dobbiamo puntare a carceri sempre più umane e in grado di reinserire il detenuto nella società. Un’altra misura valida per contrastare il sovraffollamento potrebbe essere l’ammissione all’affidamento in prova ai servizi sociali dei cosiddetti semiliberi che hanno ottenuto le licenze speciali per il Covid-19 e che consente loro di non rientrare nelle ore notturne. Questa previsione è stata prorogata fino al 31 marzo 2022 ma la si dovrebbe prolungare anche dopo il termine dello stato di emergenza. La ministra Cartabia ha detto: da gennaio il carcere sarà la mia priorità. Non è già tardi per una situazione emergenziale come quella del carcere che dura da decenni? Io credo che sia il nostro Paese a essere in ritardo. Faccio autocritica: noi nella scorsa legislatura non riuscimmo all’ultimo miglio a portare a termine una importante riforma del sistema penitenziario, nonostante l’impegno di Orlando e della commissione Giustizia della Camera. Fu un’occasione perduta. Se non ricordo male Orlando non si presentò neanche alla conferenza stampa di Gentiloni in aperta critica per la mancata approvazione della riforma... Appunto. Il governo di allora ritenne che non ci fossero le condizioni per andare avanti con la riforma, con le destre con i coltelli affilati e con gli slogan salviniani “marciscano in galera, buttiamo via la chiave”. Quindi attribuire oggi alla ministra Cartabia ritardi colpevoli (che sono di decenni) mi pare francamente fuoriluogo. Anzi la Guardasigilli ha già in questi mesi svolto un ruolo significativo. Per esempio? Portare con lei il presidente del Consiglio a Santa Maria Capua Vetere è stato un gesto importante; stringere una stretta collaborazione con gli attuali vertici del Dap che, tra l’altro, si caratterizzano per una costante presenza negli istituti di pena. Inoltre stanno per partire investimenti significativi per l’assunzione di personale di polizia e multidisciplinare. Insomma, in questi mesi si è ricreata a via Arenula una cornice che, utilizzando anche parte del buon lavoro fatto dal precedente governo e dal sottosegretario Giorgis (ad esempio sul fronte dell’edilizia penitenziaria e della necessaria videosorveglianza) crea le condizioni per migliorare la vita del carcere e per recuperare una cultura costituzionale della pena. Ma è stata la stessa Ministra a dire che alcuni istituti di pena “gridano vendetta”... Non c’è dubbio che la situazione attuale delle carceri sia molto difficile al momento ma oggi possiamo fare qualcosa di importante seguendo più strade: modifica del regolamento penitenziario, modifica delle leggi tramite percorso parlamentare, ipotesi di decreto d’urgenza del Ministero. Che noi sosterremo pienamente. A proposito di Polizia penitenziaria e di Santa Maria Capua Vetere, la Commissione Ruotolo suggerisce che ogni strumento di difesa in dotazione all’istituto penitenziario sia “contrassegnato con un identificativo numerico apposto in modo visibile. È tenuto un registro in cui è annotato il nominativo dell’operatore che, in ogni occasione, ne faccia uso”. Lei è d’accordo? La stragrande maggioranza degli agenti di Polizia penitenziaria non ha nulla a che vedere con quanto accaduto nel carcere sammaritano, e in generale con queste condotte. Credo che loro stessi non abbiano niente da temere da questa modifica. Tutto quello che serve a rendere più efficaci e trasparenti i percorsi trattamentali e la vita nelle carceri (nella piena sicurezza del personale) credo sia ben accetto. Lei condivide l’impressione di chi sostiene che per ora non si possa parlare di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario finché non ci sarà il nuovo presidente della Repubblica? È chiaro che questa scadenza del 24 gennaio assorbe quasi tutta l’attenzione del Parlamento e della politica. La Ministra ha compiuto il suo lavoro di possibile sintesi depositando a Palazzo Chigi da prima di Natale le sue proposte emendative. Non so se si riuscirà prima di quella data a tenere un Cdm che in qualche modo “licenzi” almeno politicamente queste proposte emendative: noi auspichiamo che questo passaggio venga fatto il prima possibile. Secondo noi ci devono essere le condizioni - e lavoreremo per questo - affinché il prima possibile, subito dopo l’elezione del presidente della Repubblica, si possano approvare queste norme. E consentire al Csm di preparare i regolamenti, votare con nuove norme per il rinnovo, dopo il difficile ma tenace impegno di questi anni delicati del Vicepresidente David Ermini. Anche così si potrà e dovrà aiutare la Magistratura in quel necessario e urgente processo di autorigenerazione. Cinque detenuti morti in meno di dieci giorni, tre i suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 gennaio 2022 Cinque morti dall’inizio del nuovo anno. Tre di loro sono suicidi. A Napoli è morto, dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, un detenuto con gravi problemi psichiatrici che aveva subito percosse dal compagno di cella con altrettanta patologia. Al carcere di Sanremo è morto un detenuto, già affetto d tubercolosi, che il mese scorso aveva incendiato il materasso, ustionandosi e intossicandosi gravemente. Sabato scorso, se non fosse stato per l’intervento tempestivo degli agenti penitenziari, rischiava di lasciarci le penne un detenuto del carcere di Brescia Canton Mombello che ha cercato di darsi fuoco con la bombola del gas. In tutto questo, il Covid 19 galoppa nelle carceri e accade, come il carcere di Poggioreale, che a causa del sovraffollamento, i detenuti si infettano a macchia d’olio. Numeri che stanno preoccupando in particolare il padiglione Firenze, i quali, da sabato scorso, hanno iniziato una mobilitazione come segno di protesta nei confronti della gestione dell’emergenza che stanno vivendo. Da ieri, i detenuti continuano la protesta con lo sciopero della spesa. Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria, dà notizia della morte per Covid di un agente a San Vittore: “Il primo morto del 2022 per Covid tra gli agenti penitenziari, un assistente capo coordinatore prossimo alla pensione Sergio C. in servizio presso l’istituto di San Vittore”. Bisogna aggiunge Di Giacomo, “necessariamente alzare la guardia sulla velocissima diffusione della pandemia nelle carceri”. Ma è proprio del carcere di Poggioreale, il detenuto morto che era stato ricoverato presso l’ospedale Cardarelli di Napoli a causa delle lesioni riportate e quale conseguenza di un’aggressione risalente a dieci giorni fa, subita da un compagno di cella anch’esso con patologie mentali. Il problema dei detenuti con gravi patologie psichiatriche è annoso. Il segretario generale della Uilpa, Gennarino De Fazio, ricorda che la soluzione del problema era emersa dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale conclusisi nel 2016. “Erano emerse sul tema proposte di riforma ragionevoli e condivisibili - ricorda De Fazio - ma poi cestinate dal governo che allora avrebbe dovuto attuarle. Noi pensiamo che, senza ricorrere a ulteriori studi e misure tampone immaginate, sebbene con i migliori propositi, da questa o quell’altra commissione, si potrebbero riprendere quelle idee per promuovere una riforma utile anche a far uscire il nostro Paese dall’illegalità”. Trattamenti inumani nelle carceri: un nuovo ricorso contro l’Italia marinacastellaneta.it, 11 gennaio 2022 Il Governo italiano deve rispondere alla comunicazione inviata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Karima Zemzami, ricorso n. 13015/20, pubblicato il 6 dicembre 2021, che porta nuovamente in primo piano le condizioni di vita dei detenuti nelle carceri italiane (Zemzami v. Italy). A presentare il ricorso alla Corte di Strasburgo è stata la sorella di un detenuto che si era ucciso in carcere senza che - ad avviso della ricorrente - le autorità italiane avessero adottato misure per proteggere la vita del fratello perché, prima del suicidio, non gli erano stati forniti trattamenti medici tempestivi e adeguati. Di conseguenza, per la ricorrente, sarebbe stato violato l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta trattamenti inumani e degradanti e l’articolo 2 sul diritto alla vita, anche a causa dell’assenza di indagini adeguate sulla morte del detenuto. La Corte ha comunicato il caso all’Italia chiedendo chiarimenti sull’eventuale conoscenza dell’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita del detenuto, tanto più che, malgrado fosse stato sottoposto a un regime di sorveglianza rafforzata, nessun agente penitenziario lo aveva controllato per circa due ore. Per quanto riguarda l’assenza di indagini adeguate, la Corte vuole chiarimenti sui motivi per i quali il fascicolo è stato aperto contro ignoti e non nei confronti del personale penitenziario o sanitario incaricato della sorveglianza del detenuto, nonché sui motivi che hanno portato a ben tre richieste di archiviazione da parte del pubblico ministero, tutte respinte dal giudice per le indagini preliminari. Carceri: Cartabia. “Interventi nelle prossime settimane” ansa.it, 11 gennaio 2022 La ministra della Giustizia: “È una priorità del governo”. Lo ha sottolineato la ministra della Giustizia Marta Cartabia, alla lezione inaugurale del Corso in Scienze giuridiche della Scuola di dottorato dell’Università Bicocca di Milano ricordando che si sono da poco conclusi i lavori della commissione Ruotolo. “Sul mondo del carcere abbiamo posto attenzione sin dall’inizio e vuole essere una priorità” ha detto Cartabia, annunciando che “alcune iniziative legislative saranno impegno del Ministero nelle prossime settimane”. Dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere “abbiamo messo in campo il lavoro di una commissione, presieduta da Marco Ruotolo, che ha concluso lavori a fine dicembre”, ha sottolineato la ministra riferendosi alla commissione ministeriale sull’Innovazione penitenziaria presieduta dal professor Marco Ruotolo che ha elaborato le proposte per migliorare la quotidianità dei detenuti e di chi vi lavora. “All’inizio del 2020 sappiamo cosa è successo nelle carceri per la paura del contagio. In questo periodo di pandemia, affrontare questi problemi significa anche assicurare le vaccinazioni, le mascherine e tutti i controlli necessari ma far proseguire allo stesso tempo una proposta di attività e di percorsi rieducativi anche in queste condizioni che sono particolarmente difficili nella vita in carcere”, ha concluso. Carceri, Cartabia: “Trasferimento detenuti è incremento di pena” askanews.it, 11 gennaio 2022 “Una cosa su cui ho chiesto subito di intervenire è quella dei trasferimenti. Durante le pandemie è stato ad esempio necessario redistribuire, ma allontanare una persona, in particolare un giovane, dalla zona dove ha i suoi legami, è un incremento di pena”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, parlando dei trasferimenti di detenuti, durante la presentazione del libro di Andrea Franzoso “Ero un bullo. La vera storia di Daniel Zaccaro”, sull’esperienza del giovane, ex detenuto, ora educatore presso la comunità Kayròs a Vimodrone (Milano). “Ci sono allora mille fronti sui quali chi ha responsabilità”, dai giudici di sorveglianza a altre professionalità del mondo carcerario, deve valutare “con i piedi saldamente sulla terra, ma con negli occhi storie come quelle di Daniel. Quella è la direzione verso la quale dobbiamo muoverci” ha aggiunto la Guardasigilli. “Abbassiamo quei ponti levatoi e permettiamo a chi è fuori di vedere anzitutto qual è la reale esperienza e da dove viene una storia che ti ha portato dentro al carcere e permettiamo anche di lasciarci vedere perché questo credo sia un beneficio per tutti, perché dietro quelle mura non c’è qualcosa di alieno, c’è un pezzo della nostra società, questo è un po’ il senso verso il quale stiamo cercando di prendere tante iniziative” ha concluso Cartabia. Giustizia sempre, giustizialismo mai: introdurre la responsabilità dei magistrati di Giorgio Pagliari Gazzetta di Parma, 11 gennaio 2022 Ho letto e riletto la lettera dell’ex Consigliere regionale, che si è tolto la vita, per capire le ragioni di tante (e così forti) reazioni soprattutto “togate”. Dico subito che non le ho trovate. A fine lettura (e rilettura), infatti, ho provato profondo rispetto per l’Uomo e per il suo dramma umano, apprezzando la dignità dimostrata nel raccontare la sua vicenda e la sua decisione. È, infatti, il messaggio di una Persona, che confessa la sua insostenibile situazione, caratterizzata dall’angoscia per il presente e per il futuro, dall’insostenibilità (prima di tutto psicologica) della propria condizione e dalla conseguente preoccupazione di diventare un problema, una fonte di dolore quotidiano, per la Famiglia e per gli amici. Una Persona, che, di fronte ad un tale quadro, decide di provocare alla Famiglia un dolore violento, ma comunque temporaneo, per darle una “chance” di futuro, che teme che la sua presenza avrebbe gravemente condizionato. Questo è il succo della riflessione d’addio, nella quale le parole crude relative alla sua vicenda giudiziaria trasudano, a mio modo di vedere, dolore più che rabbia e non hanno il carattere di una critica (pur legittima in linea di principio) “senza se e senza ma” al sistema giudiziario. Da un lato, infatti, non mancano apprezzamenti per un giudice; dall’altro, sono espresse valutazioni sugli uomini e sulle interpretazioni del ruolo; valutazioni critiche (non entro nel merito), che, per chi frequenta le aule giudiziarie, sono comprensibili e che stigmatizzano un atteggiamento giustizialista talvolta oggettivamente affiorante. Niente di oltraggioso; niente, che giustifichi certe levate di scudi e talune reazioni indignate. Sinceramente credo che tutto si sia sviluppato perché la lettera ha avuto la funzione della “goccia, che fa traboccare il vaso” determinando l’apertura di una discussione, che ha preso (solo) spunto da detta lettera, ma che si è allargata anche a temi nemmeno implicitamente toccati. Riprendo esclusivamente alcuni spunti di questa lettera, per niente “scandalosa”. Il primo spunto è la chiara critica al giustizialismo, che è una questione sistematica, ma anche di atteggiamento individuale. Giustizia e giustizialismo costituiscono un ossimoro. La giustizia ricerca il colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”; il giustizialismo tende sia a costruire artificiosamente il colpevole attraverso un uso strumentale dei meccanismi e delle regole, sia a considerare l’essenza dell’attività giudiziaria non l’accertamento della verità (pur sempre e solo processuale), ma l’individuazione ad ogni costo di un colpevole. Il giustizialismo è una piaga sociale, è l’uso distorto della funzione giudiziale sia inquirente che decidente; è l’espressione massima dello straripamento di potere, cioè, dell’uso della funzione per un fine diverso da quello che le è proprio. È la causa dei processi mediatici e di troppi errori giudiziari. E ciò che spinge alla politicizzazione dell’azione giudiziaria: politicizzazione, che - sia ben chiaro - è più marcata ed evidente non quando viene colpito un politico, ma quando tutto viene fondato su una ricostruzione pregiudiziale e agiuridica. È la negazione della presunzione costituzionale di non colpevolezza, che la Repubblica (nel suo significato più pregnante) deve garantire che non sia solo una petizione di principio formale, ma anche un dato della realtà, impedendo la criminalizzazione delle persone, per il solo fatto di essere indagate. Questo risultato richiede, tra l’altro, l’introduzione della responsabilità anche della magistratura inquirente per le proprie indagini, per la divulgazione delle informazioni e per i provvedimenti richiesti, qualora viziati da dolo, ignoranza, imperizia o negligenza. L’irresponsabilità, è ormai un vero privilegio anacronistico perché nessun altro dipendente pubblico ne è esente. Il secondo spunto è rappresentato - e non è una novità - dalla lunghezza dei processi, che è un anticipo di pena, talvolta con effetti più irreversibili di quelli propri della sentenza di condanna: la condizione di imputato esposto al pubblico ludibrio ha costi umani pesantissimi con risvolti personali e familiari drammatici, come bene illustra la lettera. Questo impone che questa condizione duri un tempo breve: quello strettamente necessario per celebrare i tre gradi del giudizio. Sotto questo profilo, dei passi avanti, sul piano delle regole processuali, sono stati compiuti, anche se insufficienti. Su queste basi, negare credito alla lettera è un atteggiamento pregiudiziale del tutto inaccettabile, ma lo è ancor di più continuare a “voltarsi dall’altra parte” e non accettare di “mettersi in discussione” e di collaborare alla soluzione dei problemi. La giustizia come ideale, come organizzazione e come servizio va ricostruita con la collaborazione di tutti. Così il processo nell’Anm può ribaltare di nuovo gli equilibri fra le correnti di Simona Musco Il Dubbio, 11 gennaio 2022 Un regolamento di conti. È questo, secondo molti, il senso del processo interno all’Associazione nazionale magistrati, ultimo capitolo di una storia che finora ha mietuto un’unica vittima: l’ex zar delle nomine Luca Palamara. Sul banco degli “imputati”, due anni e mezzo dopo la pubblicazione delle chat che svelarono il manuale Cencelli degli incarichi negli uffici giudiziari italiani, centinaia di toghe, colpevoli di aver messaggiato con Palamara, ex leader del sindacato dei giudici, chiedendo raccomandazioni e favori. La lista degli incolpati, secondo quanto rivelato dal Riformista, conterrebbe ad oggi 70 nomi, tra i quali quelli del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e dell’ex leader di Magistratura democratica (e segretario Anm) Giuseppe Cascini, attualmente togato al Csm. Si tratta degli unici due nomi trapelati, quasi a conferma del boomerang che si è abbattuto sull’ala sinistra della magistratura, “sopravvissuta” allo scandalo dell’Hotel Champagne. Il procedimento arriva a ridosso delle elezioni dei nuovi membri del Csm, prevista per luglio, e potrebbe spostare nuovamente gli equilibri, mantenendo però intatto il potere delle correnti. Lo scenario, insomma, potrebbe rimanere identico a quello precedente allo scandalo, in una sorta di eterno ritorno dell’uguale, anche grazie allo stallo che si registra in merito alla riforma del Csm, che porta con sé anche la modifica della legge elettorale. L’ipotesi attualmente sul tavolo è quella di un sistema maggioritario con collegi binominali, turno unico e unica preferenza. Ma sono diverse le voci che chiedono di valutare l’ipotesi del sorteggio, respinta dalla ministra Marta Cartabia: tra queste Forza Italia e Articolo 101, il gruppo di magistrati “dissidenti” dell’Anm. “Serve una classe dirigente svincolata dalle correnti e questo procedimento potrebbe rappresentare un’occasione per puntare sul sorteggio, cosa che una politica avveduta e coraggiosa sceglierebbe, anche solo come tentativo, per vedere se le cose cambiano”, sottolinea un ex membro del Csm. Convinto anche della strumentalità dell’intera vicenda: “Chi sta finendo la consiliatura entra nelle mire di chi subentra, esattamente come accaduto a Luca Palamara - spiega -, l’unico punito con il massimo della pena”. Più in generale il tema riguarda i consiglieri del Csm coinvolti nei procedimenti disciplinari, ed è proprio per questo, forse, che i nomi di Cascini e Salvi sono i primi ad essere venuti fuori dal mucchio. Anche perché non si sono mai astenuti, benché coinvolti nelle chat. Ma la scadenza imminente della consiliatura ha distrutto ogni rete di protezione, facilitando dunque la fuga di notizie, partita magari da chi aveva qualche sassolino nella scarpa. Secondo voci interne all’associazione, potrebbero essere molti di più di 70 i nomi che finiranno a processo per violazione del codice etico e che potrebbero imbattersi in una censura: sono infatti circa 60mila le pagine di chat acquisite dal perito incaricato dall’Anm. La lentezza dell’iter sarebbe legata in primo luogo a questioni tecniche: la procura di Perugia ha infatti inviato al ministero della Giustizia, alla procura generale della Cassazione e al Csm le chat di tutti i magistrati che hanno chiacchierato con Palamara, per valutare eventuali azioni disciplinari e incompatibilità ambientali. Nulla, invece, è stato inviato all’Anm, che pure ne aveva fatto richiesta e che ha dovuto dunque procurarsi da sé i documenti ed estrarre i file riferiti ai propri iscritti uno per uno. Ciò ha ritardato enormemente le operazioni: il lavoro dei periti è stato ultimato solo a novembre scorso, e il collegio dei probiviri ha preso in mano i documenti a dicembre. Da qui le prime 70 iscrizioni, che potrebbero diventare molte di più. Anche perché nel mirino ci sono tutte le condotte di autopromozione ed eteropromozione, criticate soprattutto dai “101”, tra i primi a puntare il dito contro il pg della Cassazione, autore di una circolare che ha escluso l’autopromozione dalle condotte punibili in sede disciplinare, ma tirato in ballo da Palamara. Sia nel suo libro “Il sistema” sia davanti al gup di Perugia, l’ex capo Anm riferì infatti che Salvi gli offrì un pranzo “con lo scopo di “autosponsorizzarsi”“ per l’incarico a piazza Cavour. Articolo 101 aveva chiesto sin da subito che il pg chiarisse la sua posizione o querelasse Palamara, nella convinzione che “chi ha più responsabilità ha più doveri di trasparenza”. La vicenda, ora, può tornare utile anche a Palamara, che dopo la sua radiazione ha annunciato di voler presentare ricorso alla Cedu, alla quale chiederà di verificare se il giudice che lo ha giudicato è terzo e imparziale, nonché di valutare la mancata ammissione, nel corso del procedimento disciplinare, dei testimoni richiesti, ai quali l’ex capo Anm voleva far spiegare come si era sviluppata la prassi delle nomine e degli accordi. La decisione di tenerli fuori, oggi che l’Anm vuole fare ciò che il Csm ha impedito, potrebbe assumere un significato particolare. Sorpresa: ora è l’Anm a invocare la presunzione d’innocenza di Errico Novi Corriere della Sera, 11 gennaio 2022 Avevamo dubbi, certo, sulle norme che tutelano la presunzione d’innocenza. Non tanto per sfiducia in quella legge, divenuta formalmente tale da quando lo scorso 14 dicembre il decreto legislativo di Marta Cartabia è entrato in vigore. A preoccupare era il rischio che il circuito mediatico-giudiziario riuscisse in un modo o nell’altro ad aggirare i divieti. Ma è una delle recenti vicende penali di maggiore risonanza a dimostrare il contrario, o almeno a segnalare come le nuove norme abbiano fatto breccia proprio fra i magistrati: ci riferiamo all’indagine di Foggia sul caporalato, che vede coinvolta l’imprenditrice Rosalba Livrerio Bisceglia e che ha avuto un pesantissimo effetto sul marito di quest’ultima, il prefetto Michele Di Bari, di fatto costretto a dimettersi da capo del dipartimento Immigrazione del Viminale. Ebbene, è l’Anm di Bari-Foggia con una nota, ad additare la stampa per il “clamore mediatico” con cui l’inchiesta è stata presentata, e per le “conseguenze negative” provocate proprio sull’importantissimo dirigente ministeriale. Proviamo a riassumere. Bisceglia è indagata con altre 15 persone dalla Procura di Foggia, ed è accusata in particolare di “intermediazione illecita” (per i presunti rapporti con due “caporali”, un gambiano e un senegalese) e “sfruttamento di manodopera” (all’interno della propria azienda agricola, tra le maggiori del Foggiano). L’imprenditrice è appunto moglie di Michele Di Bari, originario di Mattinata, sul Gargano, ex prefetto di Modena e Reggio Calabria e, fino a pochi giorni fa, dirigente al ministero dell’Interno, proprio come capo del dipartimento Immigrazione. Lo scorso 10 dicembre a carico di Bisceglia vengono ordinate, dal gip di Foggia Margherita Grippo, due misure cautelari: obbligo di dimora e contestuale obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Ma una settimana fa arriva una prima svolta: in seguito all’interrogatorio davanti alla stessa gip, la moglie del prefetto ottiene la revoca delle misure cautelari. Diversi organi di stampa segnalano come il dietrofront del Tribunale sveli ancora una volta quali terribili effetti collaterali possano discendere da conclusioni raggiunte con eccessiva precipitazione dall’autorità giudiziaria. Ad esempio, il maggiore quotidiano nazionale, il Corriere della Sera, scrive: “Tra intercettazioni “inequivocabili” e ricostruzioni “inoppugnabili” contenute in 117 pagine di ordinanza è stato procurato un danno enorme a due persone, l’una accusata di reati infamanti e l’altra praticamente costretta a dimettersi per la carica pubblica ricoperta. Quando invece, dice il difensore dell’imprenditrice, tutti i pagamenti ai braccianti sono avvenuti con bonifico e nel rispetto dei contratti di lavoro provinciale e nazionale. Domanda: ma verificare tutto questo “prima”? No?”. Risponde (non solo al Corriere) innanzitutto il procuratore di Foggia Ludovico Vaccaro. Parla sì - con una nota ufficiale, così come prescritto dalle nuove norme sulla presunzione d’innocenza - di “quadro indiziario” che “non risulta mutato” ma che “anzi, per certi versi può ritenersi confermato”. Poi però mostra di rispettare non solo la forma ma anche lo spirito della disciplina garantista appena introdotta: “Si precisa che il procedimento si trova nella fase delle indagini preliminari, che a carico di Livrerio Bisceglia sono stati raccolti indizi di colpevolezza ritenuti gravi dal gip che ha applicato la misura e che l’indagata non può essere considerata colpevole fino alla condanna definitiva”. Puntiglioso ma corretto. L’Anm Bari-Foggia, come detto all’inizio, va oltre: “Alcuni giornali hanno pubblicato con titoli a effetto la notizia della revoca della misura cautelare non detentiva cui era stata sottoposta la signora Livrerio Bisceglia”, premette il “sindacato” nella nota dello scorso 7 gennaio. Segue anche qui una difesa delle tesi accusatorie: “Sarebbe bene che tutti sapessero che la revoca della misura cautelare è stata disposta non perché siano venuti meno indizi di colpevolezza, ma perché il gip ha ritenuto venute meno le esigenze cautelari, cosa ben diversa e che non riguarda affatto gli elementi di accusa sino ad ora raccolti”. Fino alla paradossale accusa rivolta ai media, che nel caso di Bisceglia sarebbero sostanzialmente responsabili di aver danneggiato l’immagine dell’imprenditrice e del marito, e di aver provocato le dimissioni di quest’ultimo, ben a di là, sempre secondo l’Anm locale, della risonanza data dalla magistratura all’inchiesta: “Sarebbe bene che tutti sapessero che la signora Livrerio Bisceglia non è mai stata indicata come “una specie di capo nella piramide del caporalato” e che la Procura della Repubblica, dopo l’esecuzione delle misure cautelari, non ha emesso comunicati e non ha effettuato conferenze stampa, per evitare i clamori mediatici che invece altri hanno ritenuto di creare”. E ancora, si legge nella nota dell’Anm Bari-Foggia: “Sarebbe bene che tutti sapessero che, ferma la libertà di critica, i risultati di una indagine si accertano davanti ad un giudice in un palazzo di giustizia e non in trasmissioni televisive o articoli di giornale”. E qui verrebbe voglia di incorniciare la frase: è la tesi che i cosiddetti garantisti affermano da decenni, dai tempi di Mani pulite, in pratica. La legge sulla presunzione d’innocenza realizza dunque il miracolo di spingere le toghe ad appropriarsi di quel discorso. Non è finita qui: “Sarebbe bene sapere che né il pm né il giudice hanno mai affermato che gli indagati nella indagine sul caporalato fossero colpevoli e che essere indagati non significa essere colpevoli”. Altro passaggio da scolpire. Seguono critiche all’incompletezza dei report comparsi sui giornali, allo scarso, secondo l’Anm, “rispetto” nei confronti del pm e della gip. Fino alla lezione conclusiva: “Sarebbe bene che tutti si interroghino sul fatto che le conseguenze negative delle indagini sulla vita personale e professionale di chi ne è oggetto e di chi nelle stesse non è direttamente coinvolto possono anche dipendere dal clamore mediatico e da altre logiche che sono del tutto estranee al lavoro della magistratura”. In altre parole: se il prefetto Michele Di Bari si è dimesso da capo del dipartimento Immigrazione, sostiene la sezione Bari-Foggia dell’Anm, è colpa vostra, cari giornali. Poi certo, il finale è un ritorno al quadro indiziario rimasto grave, per giudice e pm, e al relativo “comunicato della Procura”, a cui, dice l’Anm, sarebbe cosa opportuna che “si dia la stessa pubblicità”. Ed è chiaro, c’è anche un interesse di parte, in questa così puntuale difesa della presunzione d’innocenza che le toghe pugliesi esibiscono. Però fino a poche settimane fa, fino a prima del decreto Cartabia, in rarissime occasioni un discorso simile era stato pubblicamente sostenuto dalla magistratura. E già questo innovativo comunicato stampa dimostra che sì, qualcosa, nella cultura del sistema giudiziario, le norme sulla presunzione d’innocenza rischiano di cambiare veramente. Addio Silvia, vittima collaterale della giustizia che umiliò Enzo Tortora di Valter Vecellio Il Dubbio, 11 gennaio 2022 Percorse anche lei il calvario giudiziario del presentatore e giornalista Rai Nessuno pagò per quell’errore, qualche magistrato fece anche carriera. Quante volte il padre, Enzo, lo si è sentito sospirare: “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro…”; quella bomba, infine, il 18 maggio del 1988 lo uccide. Il “tic- tac” della “bomba” comincia cinque anni prima: il 17 giugno 1983, quando su ordine della procura di Napoli Tortora viene arrestato a Roma nel cuore della notte, e poi, ore dopo “esibito”, in manette, portato in carcere a Regina Coeli tra due “ali” di fotografi e tele- cineoperatori adeguatamente informati. Un osceno circo mediatico. Quando le immagini vengono trasmesse dal “Tg2”, un gruppo di giornalisti, stomacato, irrompe nella stanza dell’allora direttore Ugo Zatterin, si fa consegnare la casetta con le immagini, e provvede a distruggerle. Silvia Tortora ha appena vent’anni; lei e la sorella Gaia, figlie amatissime di Enzo, assistono allo scempio, alla barbarie che massacra il padre. Coincidenza dei numeri: Silvia ci lascia quando ha gli stessi anni del suo babbo. “Ormai divido la gente in due categorie molto semplici”, dice Enzo: “quelli che conoscono sulla pelle l’infamia di una carcerazione in un regime cosiddetto democratico, protratta all’infinito, protratta per anni; e quelli che non hanno la jattura di conoscerla”. “Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto”, dice Silvia. “I processi continuano all’infinito. Anzi in tutti questi anni c’è stata una esplosione numerica”. Stessa amarezza, stesso severo “rimprovero” a chi può e non fa, a chi deve e non vuole; a chi non muove un dito, e inerte, indifferente, complice, assiste allo sfacelo di una giustizia che non è tale, e si risolve in arbitrio, decimazione. Ancora oggi risulta incredibile che il babbo di Silvia lo si sia potuto descrivere: “cinico mercante di morte” ; e senza un’ombra di prova a sostegno di questa gravissima, infamante affermazione. E’ perfino accaduto che il Pubblico Ministero, rivolto a noi increduli, si sia rivolto severo assicurando che “più cercavamo le prove della sua innocenza, più trovavamo quelle della sua colpevolezza”. Solo che le prove non c’erano; e neppure ci si era dati pena di cercarle: un supposto numero di telefono di Tortora, e scovato in un’agendina della compagna di un camorrista, nessuno l’aveva controllato; e quando anni dopo è la difesa a farlo, si scopre che non di Tortora si tratta, ma di Tortona. Nella grafia, la “N” scambiata per “R”, anche così si può finire in galera. Chi più chi meno, tutti i magistrati dell’affaire Tortora hanno fatto carriera; e dei falsi collaboratori di giustizia, non uno che sia stato chiamato a rispondere delle menzogne propalate; quanto ai giornalisti: se non m’inganno uno solo, è stato condannato per aver scritto che Tortora si era impadronito dei fondi per i terremotati dell’Irpinia. Quella “bomba” che devasta Enzo non può non aver segnato anche Silvia. Provate a immaginare cosa può essere vedersi un padre stimato, amato, accusato d’essere affiliato alla camorra, spacciatore di droga, ladro. Provate a immaginare che devastazione può essere il vedere il proprio genitore ammanettato, condotto in carcere, e poi processato: la sua parola ridotta a niente, mentre vengono creduti personaggi come Giovanni Pandico: camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo alla quinta si “ricorda” che Tortora è camorrista; o come Pasquale Barra ‘o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello, ne addenta l’intestino. Immaginatelo voi cosa può voler dire ogni giorno, per mesi, comperare un giornale, accendere la TV, e leggere e sentire sul conto del proprio padre farneticazioni che non si sa come contrastare, controbattere, respingere. Perché nelle ore successive all’arresto si fu davvero in pochi a credere infondate e assurde quelle infamanti accuse, e anche se tra noi c’erano Enzo Biagi e Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Giacomo Ascheri, Piero Angela, Massimo Fini…; tra i politici Marco Pannella; dopo, molto dopo, si sono accodati gli altri. Giorni durissimi, per Silvia e Gaia; e per la compagna di Enzo, Francesca Scopellitti. Poi la candidatura per il Parlamento Europeo, offerta dal Partito Radicale, l’elezione; le successive dimissioni per non sottrarsi alla richiesta avanzata dalla magistratura di arresto; l’impegno totale per la giustizia giusta; il fisico già minato, e l’irriducibile volontà di tornare in RAI, a quel “Portobello” da cui era stato strappato, per poter dire: “… A che punto eravamo rimasti?”. Nel ripercorrere questa vicenda non posso negare di essere afferrato da un senso di sgomento, di angoscia: la consapevolezza di vivere in un paese dove la magistratura fa paura. Una situazione che Silvia ha vissuto e patito con grande dignità e fierezza; quella dignità e fierezza - buon sangue non mente! - figlie di suo padre. I sei referendum per la giustizia più giusta che, Corte Costituzionale piacendo, si spera di poter votare a primavera: vanno difesi e vinti anche nel nome di Enzo, e ora di Silvia. Milano. Morto in carcere Mario Bonturi, era accusato dell’omicidio di un gioielliere riviera24.it, 11 gennaio 2022 È morto Mario Bonturi, 64 anni, unico imputato del processo per la morte dell’orafo imperiese Luciano Amoretti, 77 anni, avvenuta a Sanremo nella notte tra l’1 e il 2 agosto del 2020. La morte di Bonturi, che ha avuto un malore nel carcere di Milano Opera, dove era detenuto, per poi spirare presso l’Ospedale di Rozzano, pone fine al processo per omicidio. Il prossimo 13 gennaio, dunque, il presidente della Corte d’Assise pronuncerà sentenza di non luogo a procedere per la morte dell’imputato. Cagliari. Su una sedia a rotelle con il Parkinson, ha 78 anni ed è in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 gennaio 2022 È un 78enne affetto dal morbo di Parkinson, aggravato da una grave instabilità motoria causato da diverse cadute tanto da essersi fratturato il femore. Vive in cella con la carrozzella ed è assistito da un piantone. Ha diverse patologie e soffre di attacchi intensi di ansia tanto da prendere gli psicofarmaci. A causa di una incostante difficoltà nella deglutizione, diventa difficoltosa l’assunzione regolare di farmaci. Le condizioni di salute di A.P., 78 anni, campano, detenuto in regime di Alta Sicurezza ricoverato nel Sai (Servizio Assistenza Intensiva) della Casa Circondariale di Cagliari- Uta, trasferito da poco dal carcere di Parma, suscitano preoccupazioni. A segnalare la vicenda è Maria Grazia Caligaris, dell’associazione “Socialismo diritti riforme” avendo ricevuto una segnalazione dai familiari che hanno denunciato una nuova caduta dell’anziano detenuto verificatasi nei giorni scorsi. “A. P. - sottolinea Caligaris - si trova dai primi giorni di dicembre nella Casa Circondariale di Cagliari, proveniente da Parma. Nonostante le cure dei sanitari però, le condizioni generali non appaiono compatibili con un regime detentivo. Il suo quadro clinico infatti appare molto complesso e aggravato dall’età e dallo stato depressivo”. Caligaris sottolinea che si tratta di una persona in tarda età costretta a stare su una sedia a rotelle e quasi del tutto incapace di badare a sé stessa, non riuscendo più a governare il tremore degli arti. Uno stato che, come documenta la cartella clinica e una perizia redatta da Ciro Florio ex direttore del Reparto di Neurologia- Stoke Unit dell’Ospedale “A Cardarelli” di Napoli grava pesantemente anche sulla sua condizione psicologica. Il Dubbio ha potuto visionare la cartella clinica e la perizia, e in effetti il quadro è a dir poco preoccupante. Dalla perizia redatta da Cirio Florio, ex direttore del reparto neurologia dell’ospedale Cardarelli di Napoli, si apprende che l’anziano detenuto ha raggiunto l’ambulatorio del carcere obbligato in sedie a rotelle accompagnato da un piantone, essendo impedito nel muoversi autonomamente mantiene la stazione eretta con estrema difficoltà e solo se sorretto, con ampie oscillazioni del corpo ostacolato dal tremore e dalla evidente paura di cadere. La perizia ribadisce che A. P. risulta più volte caduto in carcere “come non sempre correttamente riportato nelle cartelle cliniche nonostante più volte denunciate quali conseguenze delle molteplici comorbidità della malattia di base (ipotensione ortostatica, abuso di lassativi, cattiva alimentazione, scarso controllo farmacologico ecc.) fino ad arrivare alla frattura del femore del 20 maggio nel carcere di Parma, e nonostante il medico del carcere in data 5 maggio avesse allertato del rischio obbligando il paziente a non alzarsi da solo dal letto e a ridurre la somministrazione del farmaco antiprostatico Xatral a giorni alterni, a causa dei noti effetti ipotensivanti dello stesso”. Non solo. La perizia sottolinea che, già in epoca precedente alla frattura, “il fisiatra del carcere aveva prescritto un trattamento riabilitativo che il terapista del carcere non si era sentito di praticare preoccupato per le condizioni mediche generali del paziente come poi il trauma ha tragicamente confermato”. Poi si va sul punto che rende bene l’idea di come il carcere peggiora la situazione. La fisiochinesiterapia riabilitativa rappresenta il fondamentale trattamento nelle forme avanzate di Parkinson, come in questo caso, che come anche sostenuto dal medico legale e dai medici del carcere “non può essere gestito correttamente - si legge nella perizia - nell’attuale carcere e verosimilmente anche in altri”. Si sottolinea che l’unico trattamento dimostratosi valido si è ottenuto solo “quando il paziente aveva effettuato una intensiva terapia riabilitativa in clinica specializzata all’epoca degli arresti domiciliari, e da una attenta somministrazione dei molteplici farmaci, condizione oggi ancora più valida in considerazione dell’aggravante della frattura di femore occorsa nel carcere e riabilitata pochissimo (4+9 brevi sedute) nonché tardivamente”. Maria Grazia Caligaris, alla luce delle evidenze sottolineate dai medici, denuncia che davanti a una condizione così pesante in cui il tremore impedisce all’uomo perfino di mangiare senza un aiuto, non sembra che permanere in una struttura penitenziaria possa far migliorare il suo stato e possa consentirgli di vivere la detenzione in maniera dignitosa soddisfacendo le ragioni per le quali ha senso un programma di riabilitazione sociale. “Occorre infine ricordare - conclude l’esponente di Sdr - che se il morbo di Parkinson, benché a progressione degenerativa inarrestabile, può essere in parte gestito con interventi riabilitativi mirati, costanti e praticati in ambiente idoneo, ciò non sembra poter avvenire in un carcere. L’auspicio è che al più presto possa accedere a una pena alternativa o a un ricovero in una residenza sanitaria assistenziale, in attesa che le sue condizioni di salute gli permettano un eventuale ritorno in carcere. Mantenere una persona in così gravi difficoltà in un regime detentivo appare in contrasto con il comune senso di umanità”. Il 5 gennaio scorso risulta che il detenuto recluso attualmente nel carcere Uta di Cagliari, in tarda sera, è caduto riportando escoriazioni in varie parti del corpo. L’avvocato Raffale Esposito del foro di Napoli che l’assiste, ha invitato una sollecitazione al magistrato di sorveglianza di Cagliari. Sottolinea che l’ultimo episodio “rappresenta un’ulteriore dimostrazione della impossibilità, da parte del carcere, di far fronte alla grave patologia che affligge A. P. e del conseguente pericolo che corre ogni giorno che passa”. Per questo, facendo seguito all’istanza di sospensione della pena, già depositata, ha colto l’occasione per sollecitare la magistratura di sorveglianza, affinché acquisisca il referto medico relativo alla caduta recente e solleciti la Direzione Sanitaria del carcere di Uta alla redazione della relazione sanitaria. Ancona. Focolaio Covid a Montacuto, positivi detenuti e poliziotti Cronache Maceratesi, 11 gennaio 2022 I primi due casi sono stati registrati ieri ma il numero è poi aumentato nel pomeriggio di oggi. Proprio questa mattina sono state montate le protezioni per effettuare i colloqui in presenza mentre dal 20 gennaio sarà obbligatorio il Green Pass per familiari e avvocati. Risultati positivi al Covid nella serata di ieri, da 2 detenuti iniziali si è arrivati ai circa 20 di questo pomeriggio. Cresce purtroppo velocemente il numero dei carcerati di Montacuto che, a seguito degli screening, risultano avere sintomi influenzali correlati alla pandemia facendo registrare un vero e proprio focolaio all’interno della casa circondariale di Ancona. I primi due casi sono stati registrati nei confronti di due extracomunitari: uno che aveva fatto solo una dose del vaccino e l’altro invece non vaccinato a causa di patologie pregresse. Per tali ragioni due sezioni comuni del carcere, che sarebbero la quinta e la sesta, sono state chiuse e gli screening procedono ininterrottamente anche nei confronti degli agenti della polizia Penitenziaria per i quali al momento ne risulterebbero due. Le condizioni dei detenuti e agenti non desterebbero preoccupazioni. Nel frattempo, all’interno di un’altra sezione, si sta allestendo un’area di isolamento dove collocare i detenuti positivi. Il contagio potrebbe essere avvenuto durante qualche colloquio famigliare e il virus si sarebbe poi diffuso nelle aree comuni dei detenuti. Il Green Pass richiesto agli avvocati e ai parenti per accedere alle sale ed effettuare il colloquio in presenza entrerà in vigore dal 20 gennaio mentre da oggi sono presenti i pannelli di protezione. Avellino. Evadono dal carcere calandosi con le lenzuola: due detenuti in fuga, uno preso di Pierluigi Melillo La Repubblica, 11 gennaio 2022 È accaduto a Bellizzi in provincia di Avellino. In fuga un cittadino marocchino e un rumeno, mentre un uomo di origine albanese è stato subito catturato. Si sono calati dalla cella con delle lenzuola annodate dopo aver effettuato un foro nella parete. Come in un film la fuga di tre detenuti nella notte dal carcere di Bellizzi Irpino, situato alla periferia est della città capoluogo. A scappare, secondo le prime informazioni, sono stati tre detenuti stranieri che erano ristretti nella prima sezione penale. Due detenuti, un rumeno e un marocchino, sono ancora in fuga mentre un albanese è stato catturato mentre si trovava ancora all’interno del muro di cinta. A dare l’allarme sono stati gli agenti della Polizia Penitenziaria. Nel corso delle ricerche un’auto rubata sarebbe stata intercettata nella notte nel territorio di Luogosano da una pattuglia impegnata nel servizio di vigilanza sul territorio. Potrebbe essere stata utilizzata per un primo tragitto dagli evasi. Indagini in corso da parte delle forze dell’ordine che hanno già effettuato un primo sopralluogo all’interno del penitenziario avellinese. I fuggitivi avrebbero forato il muro della cella e guadagnato l’esterno calandosi con lenzuola annodate. È scattata subito una maxi operazione delle forze dell’Ordine e della Polizia Penitenziaria con posti di blocco e controlli a bus e treni. Ed è polemica, intanto, con il sindacato che lancia accuse pesanti. “Non servono studi accademici come quelli voluti dalla Ministra Cartabia per dire che i detenuti vanno rieducati offrendo loro telefonini, lavoro e umanizzazione della pena, che già esistono nel vigente ordinamento penitenziario. Senza pensare di dotare la polizia Penitenziaria idonee risorse umane e strumentali significa essere miopi rispetto a chi fa spregio delle leggi e delle regole penitenziarie e favorire colpevolmente evasioni e disordini ormai all’ordine del giorno”. Così, in una nota, il presidente del sindacato di Polizia Penitenziaria Uspp, Giuseppe Moretti, e il segretario regionale della Campania, Ciro Auricchio, commentano l’evasione avvenuta la scorsa notte ad Avellino. “Spiace - sottolineano - l’assordante silenzio in cui vengono lasciati gli agenti che restano troppo spesso gli unici a pagare senza avere colpe sullo stato di sicurezza delle carceri. È da tempo che denunciamo lo stato di abbandono delle carceri in Campania sia in termini di personale mancano 600 agenti di polizia penitenziaria in regione sia in termini di strumenti tecnologici avanzati”, concludono i due sindacalisti. Cuneo. Criticità strutturali e logistiche delle carceri, il dossier presentato in Provincia cuneodice.it, 11 gennaio 2022 Sono intervenuti il presidente Federico Borgna, l’assessore ai Servizi Sociali di Cuneo Patrizia Manassero, i garanti di Alba, Cuneo e Saluzzo, oltre al garante regionale Bruno Mellano Criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi, il dossier presentato in Provincia. È stato presentato nei giorni scorsi nella sede della Provincia il sesto “Dossier delle criticità strutturali e logistiche delle carceri piemontesi”, con un focus particolare sulla realtà penitenziaria della Granda. Sono intervenuti il presidente della Provincia Cuneo, Federico Borgna, l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Cuneo Patrizia Manassero, i Garanti di Alba (Alessandro Prandi), Cuneo (Alberto Valmaggia) e Saluzzo (Paolo Allemano) oltre al garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, Bruno Mellano. Scopo dell’incontro era quello di portare all’attenzione delle amministrazioni nazionali e territoriali le croniche esigenze e criticità strutturali dei tredici istituti penitenziari per adulti piemontesi e dell’istituto penale minorile di Torino. Questo soprattutto alla luce dell’emergenza sanitaria e del piano straordinario di interventi che il ministero intende finanziarie con risorse proprie e con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, rilanciando proposte operative e segnalando priorità di intervento. Il sesto Dossier è stato elaborato dal Garante regionale delle persone detenute in collaborazione con il Coordinamento piemontese dei garanti comunali per corrispondere alle richieste della ministra Marta Cartabia che ha istituito una Commissione con l’obiettivo di “migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”. Quella del carcere è una realtà complicata, come spesso riportato da notizie di cronaca. Tra i problemi più urgenti ci sono gli interventi strutturali per rendere il carcere, oltre che umano e dignitoso, anche utile e efficace, in una fase in cui si prevedono consistenti investimenti di denaro. In Piemonte ci sono 13 istituti penitenziari oggetto del dossier, oltre all’Istituto penale minorile di Torino. Quattro carceri sono sul territorio della Granda. A Cuneo esiste una Casa circondariale (278 posti) e un reparto di massima sicurezza 41 bis. Ad Alba la casa di reclusione “Montalto” ha una capienza di 33 persone, ne ospita oggi 40. La struttura di Fossano a “custodia attenuata” è dedicata ai detenuti a fine pena e oggi conta 93 presenze per una capienza regolamentare di 133. Saluzzo dispone di un carcere di “alta sicurezza” con 395 presenze, ma con una capienza che può arrivare alle 485 unità. I relatori hanno descritto le carenze strutturali e logistiche degli spazi che, se riqualificati, potrebbero diventare risorse per altri utilizzi e attività. Nuove opportunità potrebbero arrivare dai fondi europei complementari al Piano nazionale di ripresa e resilienza che ammontano a 132,9 milioni di euro per un totale di circa 180 milioni da dedicare ad interventi strutturali mirati per numerose realtà di detenzione penale. Il dossier verrà inviato alla ministra di Giustizia Marta Cartabia, ai sottosegretari di Stato Francesco Paolo Sisto e Anna Macina, al capodipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia, al vice capodipartimento Dap Roberto Tartaglia, al nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta (Prap) Rita Russo, al capodipartimento della Giustizia minorile e di comunità Gemma Tuccillo e al responsabile del Centro di giustizia minorile del Piemonte Antonio Papalardo. Roma. A Rebibbia, un calcio alla prigione di Giulia Torlone e Giampiero Corelli La Repubblica, 11 gennaio 2022 Alla prima convocazione si sono presentate in più di sessanta e non saltano un allenamento. Sono le detenute-giocatrici dell’Atletico Diritti, che dal carcere sognano una nuova vita. Il campo di cemento, i muri col filo spinato. Da un lato gli spalti, dall’altro finestre con le inferriate da cui qualcuno sbircia, incita, fa il tifo. Ogni sabato alle tre del pomeriggio, dal 2018, su questo campetto gioca la squadra femminile di calcio a cinque di Rebibbia. La prima in Italia formata da sole detenute. Le partite si disputano sempre in casa, perché uscire dal carcere a molte non è permesso. “Sono una leonessa, un giorno qui dentro è un giorno di guerra” ci racconta Alessandra, giocatrice, in cella da dieci mesi. “Non è facile stare dietro alle sbarre, giocare a pallone è il nostro unico momento di svago. E la vittoria è uscire di qua con un’altra testa”. Atletico Diritti, anche in carcere le ragazze fanno gol - La squadra è l’Atletico Diritti, nata su iniziativa dell’associazione Antigone, che da anni monitora le condizioni carcerarie, e di Progetto Diritti, onlus che offre assistenza legale. Una partecipazione così grande e immediata ha stupito persino gli organizzatori. È bastato un avviso in bacheca e l’indomani c’erano più di sessanta iscritte. Non solo sartoria - “Avevamo già all’attivo una squadra di calcio, una di cricket e una di basket tutte maschili” racconta Susanna Marietti, presidente di Atletico Diritti e coordinatrice nazionale di Antigone. “Abbiamo introdotto il calcio in un istituto penitenziario femminile per dare un segnale di rottura e abbattere lo stereotipo per cui le donne in carcere siano destinate solo al cucito, alla sartoria o al teatro. Oggi possiamo dire che uno sport tipicamente maschile è diventato l’attività caratterizzante di Rebibbia”. La formazione non guarda al tipo di reato, perché si è voluto offrire a tutte l’opportunità di usare il calcio per recuperare valori spesso disattesi: rispetto dell’avversario, senso del gruppo, sana voglia di vincere. L’avere pescato le giocatrici dal circuito di media sicurezza (da cui sono esclusi i reati associativi), ha comportato un campionato solo interno, ma ha dato una possibilità a tutte. “Il primo giorno abbiamo diviso le ragazze per squadra, in campo, dicendo solo: “Questa è la palla, giocate”. Erano totalmente spiazzate, continuavano a chiedere quali fossero le regole da rispettare” ricorda Alessia Giuliani, funzionaria giuridico-pedagogica ed educatrice di Rebibbia. La questione delle regole è sempre molto dibattuta: per le detenute è un’imposizione meramente burocratica, per gli agenti del carcere l’unico modo per far funzionare un istituto con 320 donne, il più grande d’Europa. “È difficile spiegare a una persona che viene da abbandoni scolastici, che vive in assenza di modelli familiari sani, il rispetto delle norme. Perché le confondono con la punizione” continua Giuliani. “Lo sport ti aiuta a capire che la regola è funzionale alla vittoria, e una volta abituata a rispettarla su un campo da calcio, riportarla all’esterno diventa semplice”. I risultati si vedono: le ragazze della squadra sono quelle che non hanno rapporti disciplinari interni alla sezione e non saltano neanche un allenamento senza giustificazione. Per Bianca, 26 anni e in carcere da tre, giocare nell’Atletico Diritti significa liberarsi dai dolori. Ha i capelli biondi, un inconfondibile accento del Brasile e per lei la squadra è “una famiglia, con tutte le sue stranezze”. La formazione è eterogenea: italiane, rom, tunisine, ognuna con il suo personale approccio allo sport. Tra colloqui e palleggi - Carolina Antonucci, l’appassionata allenatrice della squadra, non nega le difficoltà che la detenzione comporta anche in campo. “Le ragazze che sono qui hanno spesso problemi legati alle dipendenze e le terapie per contrastarle influiscono sul loro umore e comportamento” racconta. “Ci sono giorni in cui ci alleniamo dopo colloqui tra detenute e familiari che non sono andati bene, in cui l’enorme sofferenza di chi è rinchiusa qui si fa sentire. E non posso aspettarmi che sul campo diano il meglio di sé. Accettare problemi e mancanze è quello che un allenatore qui deve imparare a fare”. Sul piccolo campo di Rebibbia i problemi personali diventano di squadra, così come vittorie e sconfitte. “Quante volte abbiamo gioito e sofferto insieme. Vedere le ragazze piangere per una sconfitta mi ha dato la dimensione di quello che stiamo facendo, di come l’Atletico Diritti per loro sia sinonimo di libertà” conclude Antonucci. Durante il lockdown dello scorso anno la capitana della squadra ha incontrato papa Francesco e a breve la formazione verrà ricevuta dal presidente della Camera, Roberto Fico. Le partite, al momento, sono sospese per poter rifare il campo in modo da renderlo idoneo per l’iscrizione della squadra a un torneo federale. L’idea è quella di riprendere al più presto con un triangolare in cui parteciperà la rappresentativa delle giornaliste. Che l’Atletico Diritti sia un progetto riuscito lo dimostrano anche le decine di detenute che, a pochi giorni dal termine della pena, chiedono di poter restare nel gruppo. Proprio in questi giorni due di loro usciranno, ma da settimane bussano alla porta dell’educatrice di Rebibbia con la stessa domanda: “Dottore’, lo troviamo un modo per poter restare in squadra?”. Bologna. Il laboratorio teatrale alla Dozza di Fabrizio Pomes bandieragialla.it, 11 gennaio 2022 Il passaparola attivato nei corridoi della sezione penale della casa circondariale di Bologna da parte di chi aveva partecipato al precedente laboratorio di teatro è stato accolto, nonostante l’iniziale scetticismo, da un nutrito numero di detenuti. Le domande iniziali erano tante: recitare per chi? Che ce ne facciamo dell’attestato di attori? Solcheremo palcoscenici in giro per l’Italia? L’ho fatte in altre carceri e non è servito a nulla, e ora anche qui? Ma i dubbi non hanno frenato la voglia di ripartire dopo la chiusura di tutte le attività dopo l’emergenza sanitaria e il desiderio, da parte dei detenuti, di riappropriarsi delle occasioni di risocializzazione. Ai primi incontri eravamo una quindicina, poi, come sempre capita, ognuno ha deciso se proseguire o meno in base alle proprie attitudini e sensibilità; siamo quindi rimasti una decina. E’ difficile descrivere l’esperienza, perché è una sintesi di umanità, professionalità, impegno e dedizione tanto da parte degli “insegnati” quanto da parte dei detenuti. Insegnati forse è una parola impropria, perché ci riporta ai tempi della scuola, mentre in realtà i conduttori dell’attività sono giovani scenografi, attori e video maker che si sono impegnati con amore ed entusiasmo a fornirci gli strumenti per approcciare l’esperienza teatrale; con il sorriso sono riusciti anche a contenere l’esuberanza dei detenuti che sempre si manifesta nell’incontro con realtà esterne al carcere. Il lavoro che ci ha visti impegnati nei primi mesi del progetto ha previsto la realizzazione di un cortometraggio e di un documentario oltre che lo studio teorico che ha spaziato da Shakespeare a Brecht fra i vari generi teatrali quali il teatro antico, la commedia dell’arte, il melodramma, l’opera lirica, fino al teatro dell’assurdo. Un lavoraccio per Paolo, Giacomo e Mattia, che si sono prodigati con grande sensibilità, con il coordinamento artistico di Micaela, a tirare fuori dai partecipanti tutte le migliori qualità teatrali, ma soprattutto umane. È stata infatti una bella sfida far recitare monologhi del Misantropo di Moliere, del Re Lear di Shakespeare, del Minetti di Thomas Bernhard, delle Tre sorelle di Checov o dell’Enrico IV di Pirandello a detenuti che litigano anche con la più elementare lettura. Il prodotto finale è un miracolo nato dalla corrispondenza empatica fra detenuti e tutor e dalla magia operata da Marco che ha curato le riprese e i montaggi. Alla fine, contro ogni più ottimistica previsione, il lavoro è stato completato e presentato il 22 dicembre scorso al teatro dell’Argine di S. Lazzaro nell’ambito della terza edizione di Per Aspera ad Astra. In Assenza - storie di teatro in carcere ai tempi della pandemia, è il titolo dell’evento che è possibile vedere sulla pagina Facebook del Teatro dell’Argine. Il progetto Per Aspera ad Astra sostiene il lavoro di diverse compagnie teatrali all’interno delle carceri, un lavoro fatto di formazione, di creazione artistica, di scambio. La capacità delle diverse compagnie di fare sintesi per riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza è sto promosso da Arci e sostenuto dall’impegno economico di fondazioni bancarie, nel caso emiliano di Fondazione Del Monte di Bologna e Ravenna. Abbiamo quindi sperimentato il laboratorio teatrale come attività particolarmente viva, uno specchio critico con cui analizzare le grandi questioni sociali, svelando l’ipocrisia di una società fintamente “per bene”. Prendiamo allora in prestito l’Amleto “il vero scopo del teatro, dai suoi inizi sino ad ora, era ed è porgere, per così dire, uno specchio alla natura; mostrare alla virtù il proprio aspetto, al vizio la propria immagine e all’epoca nostra, al corpo intimo del tempo, la propria forma, l’impronta che stampa”. E guardandosi in quello specchio Amleto vede un uomo che non riesce più ad agire senza prima pensare, a scindere l’azione dal pensiero. Amleto è un uomo che dubita, il mondo di Amleto è il nostro, un mondo a misura d’uomo, il cui peso delle azioni ricade completamente sull’uomo. Il carcere che “ripara”: storia di un “bullo” diventato educatore di Serena Uccello Il Sole 24 Ore, 11 gennaio 2022 Attraverso una storia vera il libro di Andrea Franzoso racconta un modello “virtuoso” in cui la detenzione diventa uno strumento di recupero e reinserimento, così come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Così l’articolo 27 della nostra Costituzione. Questo il principio, ma la realtà? Quanto davvero la detenzione è anche uno percorso di recupero e di reinserimento? Il dato italiano sul tasso di recidiva è impietoso: il settanta percento indica l’affanno di un sistema che non riesce né a salvare né a salvarsi. Esistono tuttavia eccezione che confermano quanto il contrario, cioè la creazione di un sistema pienamente centrato sul dettato costituzionale, sia possibile. Quanto cioè la detenzione può essere può essere sia percorso penale che trattamentale. Un altro carcere - Una di queste eccezioni è la storia di Daniel Zaccaro, raccontata da Marco Franzoso in “Ero un bullo” - in libreria per DeAgostini dal 11 gennaio - e presentata in anteprima da Franzoso presso la comunità Kayrós insieme al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, alla direttrice dell’istituto Beccaria, Cosima Buccoliero, e al cantante Marracash. “Alle 19 portarono Daniel in carcere. Seduto sul sedile posteriore, si sentiva completamente stordito. Guardava fuori dal finestrino e non vedeva niente. Superato il semaforo di via Inganni, il carabiniere alla guida lo guardò tramite lo specchietto retrovisore e cercò di sdrammatizzare con una battuta: “Ci siamo quasi, Zaccaro. Benvenuto al Grand Hôtel”. Daniel sbuffò dalle narici abbozzando un sorriso. Il militare che gli sedeva accanto tentò di rassicurarlo: “Tranquillo, due mesi al massimo e sarai fuori. Sei giovane, cerca di mettere la testa a posto”. E poi arrivarono davanti al cancello del Beccaria. Quando lo vide spalancarsi lentamente davanti a sé, Daniel sentì stringersi un nodo alla gola. Superato quel portone, sarò segnato per sempre: un delinquente. Questa considerazione era accompagnata da sentimenti confusi: angoscia e assegnazione ma anche orgoglio e ribellione. Nella mente di Daniel era in corso una guerra”. Daniel vive a Quarto Oggiaro, un quartiere difficile alle porte di Milano, in famiglia pochi soldi e tante liti. Cresce per strada, in cortile e alle medie Daniel diventa un bullo temuto da tutti. Oltre alle regole non scritte, che andavano in qualche modo rispettate, rimaneva un ostacolo non da poco: il suo aspetto fisico. Daniel era il più piccolo della classe, e questo per lui era inaccettabile. Sapeva di avere coraggio da vendere, e doveva trovare l’occasione giusta per dimostrare quello che valeva. Curioso, sveglio, non vedeva l’ora di mettersi alla prova”. E come tutti i bulli ambisce alla “carriera criminale”: violenze, pestaggi, furti, rapine. “Il 4 novembre 2007, mentre andava a scuola in treno, assieme a Maxim e a Dennis aveva picchiato un ragazzo. Gli avevano sferrato un pugno in faccia per strappargli di mano il cellulare. Il ragazzo che aveva subito l’aggressione si era messo nelle mani di un avvocato, e ne era uscito un casino. E Rita si ritrovava a dover pagare dei bei soldi di anticipo al legale che aveva rimediato per il figlio. Ma quello era soltanto l’inizio”. Fino a quando non finisce al carcere minorile: adolescente indomabile, carico di rabbia e aggressività. Per tutti è un ragazzo perduto, irrecuperabile. La svolta arriva con l’incontro con il cappellano del “Beccaria”, don Claudio, e l’affido alla sua comunità. Ma proprio quando sembra aver messo la testa a posto, ricade in errore e viene arrestato di nuovo. Stavolta finisce a San Vittore. Daniel si sente smarrito, pensa di aver deluso tutti. Ma don Claudio non lo abbandona. E di lui si prende cura anche una professoressa di lettere in pensione, Fiorella, che fa la volontaria in carcere. “L’unico sollievo arrivava dai libri. Ogni sezione del carcere aveva una stanza adibita a biblioteca. Per Daniel quel luogo diventò una scatola magica: si chiudeva dentro e si perdeva fra gli scaffali immergendosi nelle pagine dei volumi. Lì si sentiva finalmente libero. E poi, la biblioteca era tutta per lui: non ci andava nessun altro”. Daniel riprende così gli studi che aveva interrotto, si diploma, decide di iscriversi all’università. Oggi fa l’educatore, e aiuta altri ragazzi difficili a cambiare strada. “2 marzo 2020, Campetto da calcio di Kayrós. Mentre raggiungeva in macchina la comunità, Daniel si ricordò che quel giorno ricorrevano dieci anni dal suo primo arresto: Dieci anni, sembra impossibile”. La giustizia che “ripara” e riabilita - Nella storia di Daniel ci sono due elementi fondamentali che delineano il suo recupero: l’incontro con i libri, l’istruzione, e l’incontro con adulti autorevoli. Un aspetto questo che ha sottolineato la direttrice del Beccaria, Cosima Buccoliero: “Questo libro è un libro importante per i ragazzi, perché apre loro una speranza, li spinge a superare le difficoltà e a pensare che un’altra storia è possibile sempre. Ma è un libro necessario agli adulti perché ci insegna l’importanza dell’essere credibili. Si sofferma sulla necessità di comunicare con i più giovani. E poi è un segnale di ottimismo per noi operatori che dobbiamo avere sempre chiaro qual è il nostro obiettivo. E il nostro obiettivo è aiutare i ragazzi ad impiegare il tempo della pena in un modo che consenta loro di superare le fasi più critiche ed intanto acquisire strumenti per nuove opportunità”. “Dobbiamo creare tutte le condizioni, le risorse e gli strumenti, anche in un momento di pandemia come questo, per creare le giuste condizioni che favoriscano la rieducazione nelle carceri”, ha sottolineato il ministro della Giustizia, Marta Cartabia. In questo senso “è necessario soprattutto dedicarsi alla formazione di tutto il personale della Polizia Penitenziaria, anche perché tante volte è proprio da loro che parte un’occasione”, ha aggiunto il guardasigilli. L’articolo 27 della Costituzione Italiana “deve essere una finestra aperta per tutti, in vista di una seconda possibilità. Più che una speranza è una certezza perché c’è tutto un coro e una comunità che rende possibile questa scintilla di fiducia e di certezza”, ha concluso Cartabia. Accoglienza negata, guerre, vaccini, ambiente: il Papa incalza gli Stati di Luca Kocci Il Manifesto, 11 gennaio 2022 Il discorso ai 183 ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Bergoglio contro l’uso politico dei migranti “trasformati in arma di ricatto”. E a qualcuno saranno fischiate le orecchie. “Non ci si può trincerare dietro muri e fili spinati” per respingere i migranti, “con il pretesto di difendere la sicurezza o uno stile di vita”. Papa Francesco parla agli ambasciatori dei 183 Stati che hanno rapporti diplomatici con la Santa sede - ricevuti ieri in Vaticano - e rivolge loro un nuovo appello a favore di donne e uomini “costretti ad abbandonare” i propri Paesi. Non una politica generalizzata delle porte aperte - non è mai stata la linea di Oltretevere - ma un’accoglienza possibile. “A nessuno può essere chiesto quanto è impossibilitato a fare, ma vi è una netta differenza fra accogliere, seppure limitatamente, e respingere totalmente”, dice il pontefice, che aggiunge: “Occorre vincere l’indifferenza e rigettare il pensiero che i migranti siano un problema di altri. L’esito di tale approccio lo si vede nella disumanizzazione dei migranti concentrati in hotspot, dove finiscono per essere facile preda della criminalità e dei trafficanti, o per tentare disperati tentativi di fuga che a volte si concludono con la morte”. Infine, e a qualche ambasciatore presente nell’aula delle benedizioni saranno “fischiate le orecchie”, Bergoglio denuncia “l’uso politico” dei migranti, “trasformati in arma di ricatto politico, in una sorta di merce di contrattazione”. Sono appuntamenti importanti quelli di inizio anno con i diplomatici, perché i pontefici si rivolgono direttamente agli Stati, indicando l’agenda dei temi che la Santa sede ritiene più importanti. Con i predecessori di Bergoglio, grande attenzione era dedicata soprattutto ai “principi non negoziabili”. In realtà anche Francesco fa un richiamo al “diritto alla vita, dal concepimento sino alla fine naturale”, ma i fuochi del discorso sono i temi sociali. Come l’ambiente e gli “effetti negativi del cambiamento climatico”. Alla Cop26 di Glasgow “alcuni passi” sono stati fatti, ma “piuttosto deboli rispetto alla consistenza del problema”, denuncia il papa, che invita i governi a darsi da fare in vista della Cop27 di novembre in Egitto, perché per la Terra “il tempo a disposizione è sempre meno”. O le guerre, i conflitti che si consumano “nell’indifferenza della comunità internazionale”, come nello Yemen; che ancora non si risolvono dopo anni (Israele-Palestina, Siria, Africa); e che si infiammano (Ucraina, Caucaso). Colpa della crisi del “multilateralismo”. Ma anche della proliferazione delle armi, fra cui quelle “nucleari”, di cui non l’uso ma anche il solo “possesso è immorale”. Infine la pandemia. “I vaccini non sono strumenti magici di guarigione”, ma dove è stato possibile usarli hanno funzionato, perché “il rischio di un decorso grave della malattia è diminuito”. Per questo, chiede Bergoglio, bisogna garantirli anche ai Paesi impoveriti. “Le organizzazioni mondiali del commercio e della proprietà intellettuale adeguino i propri strumenti giuridici, affinché le regole monopolistiche non costituiscano ulteriori ostacoli”. Ovvero liberalizzino i brevetti. Un “buco nero illegale”, Europol deve cancellare decine di milioni di dati di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 11 gennaio 2022 I fatti e le cifre. La notizia è che il garante europeo per la protezione dei dati ha ordinato all’Europol, il coordinamento fra le polizie del vecchio continente, di cancellare tutte le informazioni che ha raccolto violando le leggi. E di farlo subito, immediatamente, a cominciare da quelle “vecchie” più di sei mesi. Tutte quelle, insomma, raccolte fino a luglio dell’anno scorso. I numeri, poi. Le cifre sono allarmanti: i server dell’Europol conservano - nascondono - quattro petabyte di dati, nomi, volti, indirizzi. Tutto. Tradotto in un’unità di misura comprensibile: è come se la polizia europea avesse archiviato tre milioni di cd-rom con informazioni su un numero sterminato di persone. A loro insaputa, senza che fossero coinvolte in alcuna indagine. E dopo la notizia e le cifre, un nome. È di un ragazzo olandese, un attivista. Si chiama Frank van der Linde. Probabilmente tutto comincia da lui, da qui. Anni fa fu fermato dalla polizia di Amsterdam mentre tentava di forzare il portone di ingresso di un palazzo disabitato, per dare un alloggio a decine di senza tetto. Bastò quel gesto perché fosse inserito in una lista di sospetti “estremisti”. Qualche mese dopo quell’episodio, si trasferì, per studio, a Berlino, prima di tornare in Olanda. E qui, casualmente - consultando un fascicolo “declassificato” della polizia di Amsterdam - ha scoperto che i suoi dati erano stati segnalati anche alla polizia tedesca. Tramite l’Europol. Siamo nel 2019. Frank chiese e ottenne che il suo nome venisse cancellato dalla “lista nera” olandese e chiese la stessa cosa all’Europol. La cui risposta aumentò le sue preoccupazioni: da Bruxelles gli dissero che non aveva diritto ad avere alcuna informazione. Senza rassegnarsi, il ragazzo si è rivolto allora direttamente a Wojciech Wiewiórowski, il supervisore di European Data Protection, il garante dei dati, insomma. Che non s’è limitato ad archiviare burocraticamente la denuncia, anche perché da tempo circolavano voci sulla raccolta illegittima di informazioni. Così, l’ente ha scritto ad Europol. Chiedendo anche una prima verifica. Prima verifica che avrebbe già rivelato come la raccolta di dati delle polizie violasse tutti i regolamenti europei. Perché c’erano - e ci sono - dati personali di milioni di persone la cui unica colpa è quella di essere nell’elenco telefonico di un sospettato, di abitare vicino ad un fermato, di aver acquistato qualcosa in un negozio che era sotto controllo, di aver ricevuto una email. O di aver provato ad arrivare in Europa da paesi in guerra, scappando dalla fame. E milioni di altri casi, milioni di individui. Europei, cittadini del mondo, migranti, tutti schedati. Da quella primissima indagine - tre anni fa - è cominciato un confronto istituzionale serratissimo fra il garante dei dati e l’Europol, che ovviamente ha coinvolto anche le alte sfere del governo europeo. Un confronto, meglio: uno scontro, che avrebbe dovuto restare semi riservato ma che il Guardian (che ha tirato fuori l’intera storia) è riuscito a “visionare”. Scoprendo che l’Europol non ha mai risposto seriamente alle richieste di Wiewiórowski, ammettendo qualche probabile violazione delle normative, spiegando che comunque anche quegli eccessi erano e sono necessari “se si vuole prevenire il terrorismo”. Ma soprattutto l’Europol ha provato a prendere tempo. Perché? La spiegazione è semplice: da anni, il coordinamento delle polizie sollecita e aspetta nuove norme che le consentano di aggirare il rigoroso regolamento per la protezione dei dati. Nuove leggi - le vorrebbero addirittura retroattive - che le permettano di invadere la vita di chiunque e di conservarne la memoria. E a proposito basti ricordare che in piena tempesta per lo scandalo Pegasus (il software utilizzato dai governi, eletti o autoritari, per spiare giornalisti ed attivisti) la direttrice esecutiva dell’Europol, la belga Catherine De Bolle chiese il permesso di usare programmi per violare le comunicazioni criptate. Per poter leggere tutti i messaggi, di chiunque. Anche quelli di WhatsApp. Di più: l’Europol chiede e aspetta una via per sottrarsi alle normative europee anche per quello che riguarda l’intelligenza predittiva, come si chiama, la possibilità cioè di usare l’intelligenza artificiale su quell’immenso data base per “prevenire comportamenti delittuosi delle persone”. In violazione a qualsiasi diritto umano. E l’organismo delle polizie sembra già aver trovato orecchie sensibili nella politica a Bruxelles. Tanto che la commissaria per gli affari interni della Ue, Ylva Johansson - svedese, socialdemocratica, va ricordato - ha dichiarato che, insomma, va bene tutto, va bene la privacy “ma le forze dell’ordine hanno bisogno di nuovi strumenti, risorse e tempo per supportare le autorità di polizia nazionali in compiti difficilissimi”. Che - non è un commento di chi scrive ma è il giudizio sempre di Wojciech Wiewiórowski - ricordano esattamente le parole usate dalla Nsa, l’agenzia di sicurezza americana, per rispondere alle accuse di Snowden. Questo il quadro. Per ora quindi non c’è un giudice ma un garante a Bruxelles. Da solo. Bielorussia, l’inganno dei “viaggi della speranza” dal Medio Oriente alla frontiera europea di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2022 Secondo le informazioni più recenti, sono almeno 500 le persone attualmente bloccate in Bielorussia e minacciate di essere rimpatriate verso gli Stati di origine, soprattutto Siria e Iraq, col conseguente rischio di subire violazioni dei diritti umani. Come noto, a partire dal giugno 2021 le autorità della Bielorussia hanno dato vita a un vero e proprio traffico di esseri umani, portando con propri aerei di linea migliaia di persone dal Medio Oriente con la promessa di un facile ingresso in Europa: un’azione ritorsiva contro le sanzioni introdotte dall’Unione europea a seguito delle massicce violazioni dei diritti umani seguite al contestato esito delle elezioni presidenziali dell’agosto 2020. Lungo la frontiera tra Bielorussia e Polonia, per tutta la seconda metà del 2021, è stata una gara a chi si è comportato peggio: uomini, donne e bambini spinti da un lato e respinti dall’altro. Cani, pestaggi, lacrimogeni. Le forze di sicurezza bielorusse trasferivano i migranti dalla capitale Minsk verso una zona di esclusione circondata da filo spinato lungo i confini con Polonia, Lituania e Lettonia. Una volta lì, queste persone non potevano tornare indietro e restavano bloccate in condizioni inumane per giorni o settimane: lasciate senza cibo o con quantità minime di acqua e pane, senza rifugi né servizi igienici. Chi poteva pagare per la propria “liberazione”, veniva fatto tornare indietro. Gli altri erano costretti con la violenza a entrare in Polonia, inseguiti dai cani e obbligati a passare attraverso corsi d’acqua gelati. Questa è la testimonianza di un siriano che faceva parte di un gruppo di 80 persone trasportate da un mezzo militare verso la frontiera: “Ci hanno scaricati. C’erano una decina di soldati con quattro cani. Hanno detto che se non avessimo corso ci avrebbero picchiati e avrebbero sguinzagliato i cani. I soldati picchiavano chiunque non corresse velocemente. Dopo averci inseguiti per 200 metri sono tornati indietro, lasciandoci in mezzo alla foresta. Le famiglie erano state separate. Chi era stato morso dai cani stava sanguinando”. Nella maggior parte dei casi, le persone che avevano attraversato il confine polacco venivano immediatamente fermate e respinte dall’altro lato della frontiera, costrette a guadare i fiumi in senso inverso. Nonostante avessero espresso l’intenzione di chiedere asilo nell’Unione europea e nonostante mostrassero chiari segni delle violenze subite dal lato bielorusso, sono state vittime di una lunga serie di espulsioni di massa che hanno completamente disatteso gli obblighi di diritto internazionale e della normativa dell’Unione europea. “Ci hanno fatti salire su un camion militare. Eravamo tra 50 e 60 persone. Dopo un’ora di viaggio ci hanno lasciato nella zona di esclusione. A bordo del camion un soldato ci ha spruzzato contro il gas al peperoncino: mio figlio e mia figlia hanno pianto per oltre un’ora”, ha raccontato un siriano che viaggiava con la moglie e i due figli. Questa è invece la testimonianza di uno yazida proveniente dall’Iraq: “Dopo un’ora che eravamo entrati in Polonia ci hanno trovati. Ci hanno portato sulla riva di un fiume, sarà stato largo 10-15 metri ma era in piena e le acque erano profonde. Ci hanno spinto in acqua, chi si opponeva veniva picchiato. Anche loro avevano i cani. Le donne, i bambini e qualche adulto sono stati portati da un’altra parte. Ho visto un uomo portato via dalla corrente. Chi non sapeva nuotare rischiava di annegare”. Molte persone in contatto con Amnesty International e ancora presenti in Bielorussia, hanno riferito del rischio di rimpatrio forzato: verso la Siria e non verso gli Stati da cui erano partiti (tra cui Egitto, Libano e Turchia) a causa dei divieti di reingresso vigenti. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. La vita di Leonard Peltier rubata con le armi del diritto di Roberta De Monticelli Il Domani, 11 gennaio 2022 Roman Polanski ha fatto un bel film sul caso Dreyfus, che abbiamo visto in molti (versione italiana L’ufficiale e la spia). Fiumi di inchiostro, non ultimo il libro di Robert Harris da cui è tratta la sceneggiatura del film, sono stati versati su quel caso. La nostra coscienza di alcune ingiustizie paradigmatiche della nostra storia, che vedono l’odio razziale o sociale di larghe componenti della società sfogarsi su una vittima designata - un capro espiatorio - è molto acuta. Ma perché allora è così debole, quasi inesistente, quella che abbiamo delle ingiustizie presenti, di quelle che avvengono sotto i nostri occhi distratti o indifferenti, e magari durano quanto la nostra vita, eppure continuiamo a ignorarle? È il caso della vita intera che è stata sottratta quarantacinque anni fa a Leonard Peltier, indiano americano nativo del Dakota, attivista dei diritti umani in difesa della dignità del suo popolo, nato nel 1944 e arrestato dall’Fbi nel 1974, in seguito condannato a due ergastoli per l’omicidio di due agenti e mai liberato nonostante nel frattempo - e già da una ventina d’anni - siano venuti alla luce i falsi che hanno permesso di costruire e sostenere questa accusa in assenza di qualunque prova di colpevolezza. Esattamente come nel caso Dreyfus - salvo che qui non c’è stato alcun riscatto, alcuna catarsi. Ho ricevuto un video con cui Luisa Morgantini, una delle donne più ammirevoli per la generosità e la tenacia priva di risvolti ideologici con cui si batte da una vita contro le ingiustizie ignorate dai più, ex vicepresidente del parlamento europeo, presidente di Assopace Palestina, fra le fondatrici dell’associazione Donne in nero, lancia un ennesimo appello per la liberazione di Leonardo Peltier, che si trova facilmente su YouTube. Chi è - Riporto qui alcune informazioni su Peltier, per la cui liberazione il parlamento europeo ha emesso già due risoluzioni, nel 1994 e nel 1999 - oltre a un recente pronunciamento nel 2021 - all’indirizzo del governo federale statunitense perché conceda la grazia a quest’uomo il cui processo Amnesty International ha denunciato come farsa giudiziaria. Sono tratte da una breve nota di presentazione dal libro autobiografico di Peltier “La mia danza del sole. Scritti dalla prigione”, Fazi, 2005). “Accusato ingiustamente dal governo americano - ricorrendo a strumenti legali, paralegali e illegali - dell’omicidio di due agenti dell’Fbi nel 1975 (un breve resoconto tecnico della farsa giudiziaria è affidato all’ex ministro della Giustizia degli Stati Uniti Ramsley Clark, autore della prefazione), Peltier, al tempo uno dei leader di spicco dell’American Indian Movement (Aim), marcisce in condizioni disumane in una prigione di massima sicurezza da quarantacinque anni. Nonostante la sua innocenza sia ormai unanimemente sostenuta dall’opinione pubblica mondiale, nonostante una campagna internazionale in suo favore che ha coinvolto il Dalai Lama, Nelson Mandela, il subcomandante Marcos, Desmond Tutu, Rigoberta Menchù, Robert Redford (che sulla vicenda di Peltier ha prodotto il documentario Incident at Oglala), Oliver Stone, Howard Zinn, Peter Matthiessen, il parlamento europeo e Amnesty international, per il governo americano il caso del prigioniero 89637-132 è chiuso. Non sorprende dunque che Peltier sia divenuto un simbolo dell’oppressione di tutti i popoli indigeni del mondo e che la sua vicenda abbia ispirato libri (Nello spirito di Cavallo Pazzo di Peter Matthiessen), film (Cuore di tuono di Michael Apted, per esempio) e canzoni (i Rage against the machine hanno dedicato a lui la canzone Freedom). In parte lucidissimo manifesto politico, in parte toccante memoir, questa è la straordinaria storia della sua vita, raccontata per la prima volta da Peltier in persona. Una meravigliosa testimonianza spirituale e filosofica che rivela un modo di concepire la vita, ma soprattutto la politica, che trascende la dialettica tradizionale occidentale e i suoi schemi (amico nemico, destra sinistra e così via): i nativi la chiamano la danza del sole”. Edificare l’umano - A oggi Peltier è stato proposto per il premio Nobel sette volte. È ampiamente riconosciuto per il suo operato umanitario e ha ricevuto numerosi riconoscimenti nell’ambito dei diritti umani. Di recente ha ricevuto il riconoscimento 2015 Defender of Pachamama (Madre Terra) conferito dal presidente della Bolivia Evo Morales; nel 2016 il premio Frantz Fanon conferito dalla Fondazione Frantz Fanon in Francia. Ecco: dal punto di vista filosofico, cioè di chi, poverissimo di strumenti di indagine scientifica ed empirica, pensa e ragiona a mani nude, il caso Peltier pone una questione molto ardua. C’è chi ha passato la giovinezza in carcere, ma una volta liberato è riuscito a vivere e a eternarsi nel nome delle ragioni morali per cui aveva sofferto. Pensate a Nelson Mandela, o per restare all’Unione europea, ad Altiero Spinelli. C’è chi la vita l’ha persa per quelle ragioni morali, e in cambio ha guadagnato l’eternità - pensate a Martin Luther King. Ma per noi che non sappiamo se c’è in cielo un libro della vita o no - come purtroppo sembra più probabile - è una spina dolorosa, che queste figure di grandi edificatori debbano condividere la gloria terrena con altre figure, quelle che la loro gloria, e anche quella delle loro bandiere, non hanno esitato a costruirla sulle ragioni della forza, al prezzo di molto sangue. Da Napoleone a Lenin. Se a un uomo nato per edificare l’umano si può rubare l’intera vita, e non con la forza cieca dell’ingiustizia sociale, di cui periscono i più, ma con le armi del diritto e le insegne della Giustizia e della Libertà che aprono la Costituzione degli Stati Uniti d’America, come crederemo ancora in queste parole umane? Come sopravvivremo alla risata di scherno, diabolica, di cui cinismo della Realpolitik sta avvolgendo il mondo? Egitto. Omicidio Regeni, il gup: i Ros cerchino gli indagati, il governo si attivi con Il Cairo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 gennaio 2022 Nuova udienza dopo l’annullamento dei rinvii a giudizio dei quattro agenti dei servizi segreti egiziani che la Procura di Roma ritiene responsabili del sequestro, le torture e l’omicidio del ricercatore italiano. Il giudice dà tempo fino al prossimo 11 aprile. Erano in tanti ieri fuori da Piazzale Clodio, al presidio della Fnsi per chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni: il presidente Giulietti, l’Usigrai, c’erano i genitori di Mario Paciolla (ucciso in Colombia il 15 luglio 2020). C’erano Pif, Nicola Fratoianni e Aboubakar Soumahoro. Tutti a portare solidarietà ai genitori e alla sorella di Giulio, mentre si svolgeva la nuova udienza davanti al gup Roberto Ranazzi, dopo l’annullamento da parte della Terza corte d’Assise di Roma, lo scorso 14 ottobre, del rinvio a giudizio dei quattro membri dei servizi segreti egiziani (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif). Per la Procura di Roma sono loro - a vario titolo - responsabili di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. A parlare ieri è stato di nuovo il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco: ha chiesto di sollecitare il governo sul silenzio egiziano intorno alla rogatoria dell’aprile 2019, in cui la Procura chiedeva l’elezione di domicilio degli indagati. Perché il nocciolo della questione è lì: il rinvio a giudizio è stato annullato perché non sarebbe possibile verificare se gli indagati sono a conoscenza del procedimento. Il gup ha recepito le richieste della Procura: in primo luogo, ha chiesto al governo italiano di verificare se ci sono spazi per un’interlocuzione con Il Cairo e di attivarsi con l’Egitto perché risponda alla rogatoria e informi gli indagati del procedimento a loro carico. Inoltre il gup dà mandato ai carabinieri del Ros di proseguire le indagini per individuarne il domicilio. Lo potranno fare analizzando le banche dati delle forze dell’ordine, elenchi telefonici, social network, informazioni da fonti confidenziali. C’è tempo fino all’11 aprile, data della nuova udienza in cui il Gup verificherà l’esito delle indagini dei carabinieri e quello dell’attività del governo. “Siamo soddisfatti che la nostra battaglia di giustizia possa proseguire - ha detto la legale della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini - Chiediamo al governo di rispondere alle istanze del giudice”. Libia. Tripoli, polizia e milizie attaccano i rifugiati. Centinaia gli arresti di Giansandro Merli Il Manifesto, 11 gennaio 2022 Mediterraneo. Sgomberato l’accampamento nel centesimo giorno di protesta. Tende incendiate e feriti. Migranti imprigionati nel centro di Ain Zara. Le Ong: “Situazione disastrosa. Aumentare subito canali di uscita sicuri e legali”. Forze di polizia e miliziani libici hanno circondato i rifugiati allo scoccare della mezzanotte. Un’ora dopo li hanno arrestati in massa, usando violenza e armi da fuoco. È accaduto tra domenica e lunedì a Tripoli, nel centesimo giorno di protesta dei sopravvissuti ai rastrellamenti di inizio ottobre nel quartiere di Gargarish e alla detenzione nel centro di Al Mabani. Due i presidi attaccati simultaneamente: all’ex Community day centre (Cdc) di Unhcr, chiuso definitivamente a fine dicembre, e al quartier generale della stessa organizzazione. Nel primo fino ai giorni scorsi c’erano circa mille manifestanti. Quando hanno visto gli uomini armati bloccare i due accessi della strada sono usciti dalle tende alzando gli striscioni e intonando insieme: “Evacuation, evacuation”. Strenuo tentativo di resistenza. Tra gli uomini armati e i referenti della protesta si è intavolata una trattativa: questi ultimi hanno provato a dire che avrebbero accettato il trasferimento nel campo di prigionia di Ain Zara solo se questo fosse passato sotto la gestione dell’Unhcr. Gli uomini del Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che dipende dal ministero dell’Interno libico e da fine dicembre è guidato da Mohammed al-Khoja (accusato in passato di violenze e collusioni con i trafficanti), non hanno voluto sentire ragioni. La tensione è salita rapidamente: i rifugiati hanno preso a urlare, i libici a sparare e incendiare le tende costruite con materiali di fortuna. Majid Terab, un ragazzo sudanese di 25 anni, è rimasto colpito da un proiettile (non è in pericolo di vita). A parte alcuni rifugiati che sono riusciti a fuggire singolarmente, tutti gli altri sono stati caricati sui bus della polizia e portati ad Ain Zara. Stessa sorte per i circa 100 manifestanti che presidiavano il vicino centro di registrazione Unhcr: attaccati con violenza, catturati e trasferiti nella struttura detentiva, alla periferia sud della capitale libica. Tutto è avvenuto in diretta: i profili social dei rifugiati hanno rilanciato foto e video dello sgombero e poi dell’interno del centro di detenzione, strapieno e con una sezione dedicata a donne e bambini. “Ci siamo battuti con tutta la disperazione che ci portiamo addosso. Abbiamo usato tutto il coraggio a nostra disposizione per esporci e parlare in prima persona. 100 giorni di lotta per chiedere alla comunità internazionale di trasferirci in un luogo sicuro, perché qui l’Unhcr ha dimostrato di non essere in grado di proteggerci”, afferma David, uno dei manifestanti sfuggiti all’arresto. Fino a ieri sera l’Unhcr non aveva commentato pubblicamente l’accaduto. Al manifesto ha espresso “molta preoccupazione per le persone arrestate” rinnovando l’invito alle autorità libiche a “rispettare diritti umani e dignità di richiedenti asilo e rifugiati” e “liberare quelli detenuti arbitrariamente”. I rifugiati hanno puntato il dito anche contro José Sabadell, ambasciatore dell’Unione europea in Libia, che l’8 dicembre su Twitter aveva espresso preoccupazione per la situazione fuori dal Cdc. Non per le vite dei rifugiati, ma solo per lo staff e le attività dell’Unhcr. “Chiediamo alle autorità libiche di garantire sicurezza e proteggere persone e locali” è la frase incriminata. Dopo le violenze e gli arresti di ieri ha un suono ancora più cupo. Secondo il Norwegian council for refugees (Nrc) e l’International Rescue Committee’s (Irc) sono almeno 600 le persone arrestate nel rastrellamento. “Il culmine di una situazione disastrosa deterioratasi negli ultimi mesi”, ha commentato Dax Roque direttore per la Libia di Ncr. “Quanto accaduto ricorda che la situazione di migranti e rifugiati in Libia è insostenibile e necessita di un nuovo approccio che rispetti i diritti delle persone in movimento”, ha dichiarato Thomas Garofalo, omologo per Irc. Le due grandi organizzazioni umanitarie hanno rivolto un appello alla comunità internazionale: aumenti immediatamente i reinsediamenti e gli altri canali sicuri e legali per le persone che vogliono lasciare la Libia. Arabia Saudita. I rivali diventano fantasmi: murati vivi da Bin Salman di Roberta Zunini Il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2022 La principessa Basmah libera dopo tre anni. L’ex ministro Bin Nayef, che subì torture, resta rinchiuso. Che la principessa saudita Basmah bint Saud bin Abdulaziz Al-Saud avesse timore di morire dietro le sbarre assieme alla figlia Souhoud bint Shuja Al-Sharif dopo l’arresto nel 2019 ordinato dal cugino Mohammed bin Salman - lo spietato principe ereditario che governa de facto l’Arabia Saudita - lo si era appreso l’anno scorso quando aveva potuto fare la sua prima e unica telefonata dal carcere. Durante la chiamata a uno stretto familiare, sembra che la donna avesse fatto in tempo a dire che stava male e pertanto desiderava dare le proprie disposizioni testamentarie quando la linea si è interrotta. Nonostante sia un segreto di Pulcinella che nelle carceri saudite si faccia abbondante ricorso alla tortura e siano già morti molti prigionieri, a una esponente della popolosa famiglia reale saudita non poteva venire concesso di esplicitarlo né tantomeno rivelare di averla subita. Se la principessa e la figlia ora hanno potuto lasciare la prigione di massima sicurezza di Al-Ha’ir, vicino alla capitale Ryad, molti tra donne, attivisti, oppositori politici e membri della stessa casa regnante rimangono in carcerazione preventiva. Le purghe in ambito familiare del giovane Mohammed bin Salman, diventato noto per essere il mandante del raccapricciante omicidio del dissidente Jamal Khashoggi, erano iniziate nel 2017 poco dopo la sua designazione a ereditare le redini del Paese dopo la morte del padre, il vecchio e malato re Salman. Ma, fin da subito, Mbs aveva preso il comando della potenza del Golfo e allo scopo di consolidarlo ed evitare congiure di palazzo aveva mandato le sue guardie nelle lussuose dimore di parenti e dignitari affinché venissero arrestati per corruzione e rinchiusi in hotel a 5 stelle fino a quando non avessero restituito il ricavato delle tangenti bilionarie. Che, secondo l’allora neo reggente, avrebbero incassato grazie al loro ruolo in ambito politico. Quando gli incaricati delle Nazioni Unite avevano chiesto ai sauditi il motivo della carcerazione di Basmah e della figlia, la risposta era suonata surreale: la prima aveva tentato di viaggiare illegalmente fuori dal regno, mentre la ragazza era accusata di un crimine informatico non specificato. Insomma: per le donne, sempre e comunque il carcere duro, per gli uomini della famiglia quasi sempre residenze lussuose e super lussuose. Certo non si può affermare che ritrovarsi chiusi in una gabbia dorata cancelli il rischio di venire torturati sia fisicamente sia psicologicamente. L’esempio più eclatante è la vicenda del predecessore di Mbs. Il principe Mohammed bin Nayef, figlio del precedente monarca Abldullah, e pertanto cugino di primi grado di Mbs, è l’ex ministro degli Interni che il principe Mohammed ha estromesso dalla carica di principe ereditario nel 2017 per rivendicare il titolo per se stesso. Dopo la sua rimozione, Mohammed bin Nayef è stato messo agli arresti domiciliari fino a marzo 2020, quando è stato arrestato e detenuto. All’inizio della detenzione, Mohammed bin Nayef è stato tenuto in isolamento, privato del sonno e sospeso a testa in giù per le caviglie, secondo due persone informate sulla sua situazione, che hanno parlato in condizione di anonimato. Lo scorso autunno è stato trasferito in una lussuosa villa all’interno del complesso che circonda il palazzo del re Al-Yamamah a Ryad, laddove ancora si trova. L’ex futuro re è in isolamento totale, senza neanche una televisione o altri dispositivi elettronici e può ricevere solo poche visite molto brevi da parte dei familiari più stretti. Il gracile Nayef sembra abbia subito danni permanenti alle caviglie a causa del trattamento subito in carcere e non può più camminare senza il bastone. Il governo non ha presentato accuse formali contro di lui né ha spiegato il motivo per cui è detenuto. Anche uno dei suoi fratelli rimane in prigione. Altri uomini blasonati e dell’entourage reale sono ancora privati della libertà. Si tratta dell’ex ministro dell’Economia, Adel Faqih, e del veterano ministro di Stato ed ex ministro delle Finanze, Ibrahim Assaf, nonché importanti uomini d’affari tra cui l’uomo più ricco del Paese, il principe Waleed bin Talal, e i leader di alcune delle più note aziende e società di media, alcune delle quali erano strettamente associate agli ex re e ai loro parenti stretti, tra cui il direttore dell’emittente MBC, Waleed al Ibrahim, che aveva resistito ai tentativi di MbS di acquistare l’azienda.