Commissione Ruotolo: per le carceri nuovo appuntamento con le riforme di Fabio Fiorentin* Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2022 L'anno 2021 si è chiuso comunque con una buona notizia per la gravosa situazione delle carceri italiane. La Commissione presieduta dal professor Marco Ruotolo ha concluso a tempi di record i suoi lavori e ora si dovrà tradurre in fatti concreti la nuova spinta riformatrice voluta dalla Ministra Cartabia. La fine dell’anno si accompagna spesso al tempo dei bilanci. Per la giustizia, l’anno che si è appena concluso non è certo trascorso senza novità e alcune riforme di ampio respiro sono ora attese alla prova dei fatti. Guardando, poi, alla materia penitenziaria, si è trattato di un anno particolarmente fecondo: varata la legge delega in materia di riforma delle sanzioni sostitutive e in tema di giustizia riparativa - ora in fase di attuazione - la ministra Cartabia ha confermato la speciale attenzione alla questione carceraria istituendo una Commissione di esperti, presieduta dal prof. Ruotolo, per la predisposizione di proposte di modifica normativa volte all’efficientamento del sistema penitenziario, al miglioramento della qualità della vita delle persone detenute e internate e degli stessi operatori che prestano la loro opera all’interno degli stabilimenti penitenziari. Si tratta di un’iniziativa che mira in parte a recuperare, sul versante normativo, il pesante ritardo accumulato in questi anni a causa della poco coraggiosa scelta politica di non recepire le proposte di riforma organica dell’ordinamento penitenziario formulate in particolare dalla “Commissione Giostra” alla fine del 2017; in parte ad affrontare, con nuove soluzioni organizzative, la gravissima situazione di diffusa violazione dei diritti fondamentali causata dalle degradate condizioni detentive in molti istituti di pena del nostro Paese e dalla cronica insufficienza delle risorse stanziate per il settore penitenziario. A testimoniare la gravità della situazione sul fronte del rispetto dei diritti fondamentali nelle carceri sta il dato eloquente delle migliaia di ricorsi proposti da detenuti e internati per la dedotta violazione dei diritti assicurati dalla legge di ordinamento penitenziario e dal suo regolamento esecutivo e l’altrettanto imponente contenzioso per il riconoscimento degli indennizzi relativi alla violazione, da parte dell’Italia, dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo con riguardo alle condizioni materiali di detenzione e al patologico fenomeno del sovraffollamento carcerario. Si tratta di numeri talmente imponenti da superare, ormai, nei ruoli di udienza dei magistrati di sorveglianza, quello totale di tutte le altre tipologie di procedimenti che afferiscono alle competenze monocratiche dei giudici di sorveglianza. Altrettanto evidente è il continuo aumento gli atti di autolesionismo da parte delle persone detenute e il ricorso sempre più massiccio da parte della popolazione detenuta all’assunzione di farmaci per il controllo del disagio psichico. La sofferenza non investe, però, soltanto i ristretti: grande disagio mostrano anche gli operatori, soprattutto gli appartenenti alla Polizia penitenziaria, che vivono a costante contatto con la realtà delle sezioni detentive, tra i quali il tasso di suicidi tocca livelli allarmanti e le cui difficili condizioni di lavoro favoriscono l’esplosione di violenze come quelle - ormai tristemente note - che hanno interessato l’istituto di Santa Maria Capua Vetere. Di fronte a una situazione così complessa, si imporrebbero interventi strutturali e non di semplice maquillage e in questa direzione sembrano muoversi anche le soluzioni elaborate dalla commissione di esperti che ha appena concluso il proprio mandato. Scorrendo le pagine della relazione finale dei lavori, depositata in questi giorni, si apprezzano, anzitutto, le proposte di revisione di molte disposizioni del regolamento penitenziario del 2000 e di modifica di alcune norme primarie (in particolare, della legge 354/1975), che rispondono all’obiettivo di una maggiore aderenza alle coordinate costituzionali e ai principi extranazionali delle regole che disciplinano la vita quotidiana nelle carceri. Gli esperti hanno, altresì, individuato otto linee guida per la rimodulazione dei programmi di formazione del personale e 35 azioni amministrative, che potrebbero essere immediatamente attuate a normativa vigente per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute e internate. Sul versante della quotidianità penitenziaria, gli interventi proposti riguardano, tra l’altro, alcuni profili amministrativi: - la previsione della presenza, per almeno un giorno al mese, di un funzionario comunale, degli uffici consolari e delle questure per consentire il compimento di atti giuridici da parte dei detenuti e internati; - l’implementazione dell’assistenza sanitaria per la popolazione detenuta (articolo 11 Op); previsioni volte a consentire una più rapida effettuazione dell’osservazione della personalità e dei regolamenti di istituto (articolo 16 Op); la previsione che “mette a regime” i colloqui a distanza (articolo 18 Op); - l’adozione della procedura camerale partecipata (articolo 666 e 678 del Cpp) per la trattazione dei reclami in materia di sorveglianza particolare (articolo 14-bis, Op); interventi in materia di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria con la valorizzazione del ruolo di coordinamento e di impulso del Prap regionale (articolo 25-bis Op); - il superamento del metodo del sorteggio per la composizione delle rappresentanze delle persone detenute (articolo 31 Op). La commissione di esperti ha, inoltre, proposto di intervenire a tutela della maternità e della prole di tenera età, riservando a ipotesi eccezionali l’applicazione della custodia cautelare per le detenute madri negli Icam, modificando altresì l’istituto del rinvio dell’esecuzione della pena (articoli 146 e 147 del Cp), recependo a livello normativo il dictum della sentenza costituzionale n. 99/2019. In rapporto alle detenute madri, in particolare, la relazione forse avrebbe potuto prospettare delle direttive atte a garantire finalmente un’adeguata assistenza psicologica nella fase, delicatissima, del post parto e della gestione della maternità nell’ambiente detentivo, in preparazione anche della ammissione alle misure extramurarie. Sul piano trattamentale, si segnala la proposta per cui i permessi ordinari possono essere concessi anche nei casi di eventi di “particolare rilevanza” nella vita del detenuto (articolo 30, comma 2, Op) e la previsione dell’aumento a 60 giorni della misura annua dei permessi premio che possono essere concessi ai sensi dell’articolo 30-ter Op. La proposta della commissione coinvolge, tuttavia, soprattutto il regolamento penitenziario (Dpr 230/2000). In particolare, se ne propone l’arricchimento con l’enunciazione espressa dei princìpi di autonomia, responsabilità, socializzazione e integrazione; la valorizzazione del terzo settore anche nella compilazione del programma di trattamento (articolo 29 regolamento di esecuzione); l’adeguamento delle previsioni concernenti i locali di pernottamento alle determinazioni della Corte Edu per quanto riguarda la violazione dell’articolo 3 Cedu, recependo a livello normativo il riferimento allo spazio individuale minimo di tre metri quadri; l’adeguamento dell’assistenza sanitaria ai principi e ai provvedimenti attuativi del riordino della medicina penitenziaria (articolo 17); la previsione di specifiche garanzie per i soggetti stranieri (articolo 35); la disciplina dei colloqui a distanza (articoli 37 e 39); la possibilità di autorizzazione all’uso personale, anche nella camera di pernottamento, di dispositivi elettronici (articolo 40); alcune tutele in materia di trasferimenti per assicurare la continuità di percorsi di istruzione e di formazione professionale (articoli 41-44); l’introduzione di meccanismi di mediazione nel procedimento disciplinare (articolo 81); alcune modifiche per favorire una più adeguata preparazione del condannato o dell’internato al rilascio dall’istituto (articolo 88). Particolare attenzione è dedicata dalla relazione alla gestione dell’ordine e della sicurezza all’interno degli istituti penitenziari. Le proposte più innovative riguardano la disciplina delle perquisizioni straordinarie, già interessata da alcune circolari del Dap e del Dgmc. La commissione Ruotolo ha individuato, inoltre, interventi da realizzare con tempi certi, quali l’adeguamento delle camere di detenzione e dei servizi igienici; la riattivazione dei sistemi di videosorveglianza interni; la riorganizzazione degli stabilimenti di pena nel segno della valorizzazione della vocazione specifica di ciascun istituto; la ridefinizione anche sul piano amministrativo della disciplina dei trasferimenti delle persone detenute; direttive più rigorose che regolino operativamente l’uso della forza; il potenziamento del ruolo del gruppo di osservazione e trattamento; il ripristino dei reparti ospedalieri nelle strutture regionali; l’organizzazione delle “unità operative di reparto” per favorire una maggiore stabilità della presenza degli operatori di Polizia penitenziaria nelle sezioni così da favorire una migliore conoscenza dei soggetti detenuti. Alcune soluzioni prospettate riguardano l’impiego delle nuove tecnologie in ambito penitenziario, tanto sotto il profilo della sicurezza (sistemi anti-droni, metal detector fissi, body scanner, controlli biometrici per gli accessi in carcere) quanto nell’ambito dei profili trattamentali (utilizzo dei sistemi di videocollegamento per lo svolgimento dei colloqui a distanza e totem touch per le richieste dei detenuti) o didattici. Viene, altresì, proposta la possibilità di dotare i detenuti di telefoni cellulari, sia pure in modo non generalizzato e salve particolari esigenze cautelari. Sulla tutela del diritto alla salute, la relazione della commissione riprende alcune proposte già elaborate dagli Stati generali sull’esecuzione penale, in tema di telemedicina, di formazione e tenuta del fascicolo sanitario elettronico proponendo, inoltre, l’introduzione del principio di territorialità nell’erogazione delle prestazioni sanitarie e l’implementazione dell’attenzione sul rischio suicidario in carcere. Alcune soluzioni in materia di misure di sicurezza per infermità mentale si ispirano, inoltre, alle proposte elaborate dalla “Commissione Pelissero”. Sul versante del lavoro e della formazione professionale, la relazione propone articolate modifiche volte a integrare le lavorazioni penitenziarie nell’ambito dei programmi di sviluppo regionali. Viene, altresì, implementato il ruolo di volano che può essere esercitato da Cassa delle Ammende. Da segnalare anche le proposte di modifica della normativa primaria e secondaria volti a realizzare la tendenziale equiparazione del lavoro dei detenuti al lavoro delle persone libere. In tema di tutela dei diritti, le proposte si indirizzano nell’ampliare in modo significativo la possibilità di ricorso dei detenuti avverso provvedimenti e condotte dell’amministrazione che siano lesive di posizioni soggettive delle persone detenute. La commissione ha sottolineato, infine, l’esigenza di una valorizzazione dei ruoli dei singoli operatori, attraverso una più ampia e articolata formazione dei medesimi. La prospettiva tracciata dalla Commissione Ruotolo, pur procedendo da un sostrato di spunti e proposte di riforma già affacciati in precedenti lavori (quali gli Stati Generali o la Commissione Giostra), ne sviluppa e - per così dire - ne completa la traiettoria ideale, focalizzando l’attenzione in particolare sulle esigenze trattamentali e sulle condizioni materiali di detenzione. In questa prospettiva, la relazione finale ha l’indubbio merito di indicare alcune soluzioni operative attuabili a legislazione vigente. Quanto alle numerose proposte di modifica normativa contenute nell’articolato predisposto dai commissari sarà, invece, necessario verificarne la fattibilità sul piano politico, soprattutto per quelle parti che dilatano l’ampiezza di benefici penitenziari già esistenti o ne introducono di nuovi e che, inevitabilmente, andranno a toccare la sensibilità di una buona parte della maggioranza che sostiene l’attuale Esecutivo. La riforma imporrebbe inoltre, se effettivamente messa a regime, un nuovo e pesante aggravio dei compiti della magistratura di sorveglianza, impattando su un sistema che, negli ultimi dieci anni, è stato continuamente sovraccaricato di nuove competenze (basti pensare all’onere di gestire l’imponente contenzioso in materia di violazione dell’articolo 3 Cedu per il sovraffollamento penitenziario e per la violazione dei diritti fondamentali dei detenuti e degli internati) e che, da ultimo, ha dovuto affrontare con i pochi strumenti a disposizione l’emergenza pandemica che ha investito anche le carceri e che è tuttora in atto. Il rischio concreto è dunque che, in assenza di adeguamenti dell’organico dei magistrati e del personale amministrativo degli uffici di sorveglianza, anche la migliore delle riforme - pur animata dalle più nobili intenzioni - possa produrre un risultato pratico modesto o, addirittura, controproducente. * Magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Venezia, già componente della Commissione Giostra Esecuzione penale: il nuovo protocollo tra CNF e Garante nazionale dei detenuti di Sara Occhipinti altalex.com, 10 gennaio 2022 In arrivo a gennaio un nuovo protocollo di intesa tra Consiglio Nazionale Forense e Garante dei detenuti per tutelare i vulnerabili (detenute madri e minori) e i migranti. Dopo l’esperienza del primo Protocollo di intesa sottoscritto nel 2017, il Presidente del CNF Maria Masi e il Garante dei diritti dei detenuti, Mario Palma, annunciano, con una nota congiunta (testo in calce), l’intenzione di rinnovare la reciproca collaborazione istituzionale. La meta comune che unisce l’impegno dell’avvocatura e del Garante è rappresentata dalla tutela della dignità dell’essere umano nella delicata fase della privazione della libertà personale conseguente alla pena. È avvertita con urgenza, da entrambe le parti, la necessità di promuovere ogni azione finalizzata a preservare il principio di rieducazione e riabilitazione della pena. Dall’avvio della collaborazione con il CNF, nata col Protocollo del 2017, sono sorte numerose iniziative finalizzate ad implementare la formazione dell’avvocatura sul valore del diritto penitenziario ed a sensibilizzare sul tema la società civile. Dall’intesa del 2017 è nato il supporto legale al Garante e sono state attivate iniziative per la diffusione della conoscenza della Carta nazionale dei diritti della persona detenuta. L’esigenza di rinnovare i contenuti dell’intesa tra Avvocatura e Garante nasce in questo momento a causa del mutato quadro normativo, derivante dalla riforma del processo penale. A questo si aggiunge la necessità di dare risposte alle nuove esigenze che emergono nelle carceri, a causa del perdurante stato di emergenza sanitaria. Al centro dell’attenzione dell’azione congiunta - si legge nella nota - gli effetti delle novità giuridiche emergenti dalla riforma penale, il ruolo della magistratura di sorveglianza, dell’avvocatura e dell’amministrazione penitenziaria nell’esecuzione delle pene, e l’importanza di dare maggiore tutela ai diritti fondamentali di migranti e vulnerabili come le detenute madri ed i minori. Lo scopo di una collaborazione istituzionalizzata che emerge dalla lettura del comunicato, è quello di sviluppare “azioni congiunte per creare una rete informativa e una interlocuzione tra l’avvocatura e il Garante”. Per esempio, attraverso la diffusione tramite il CNF a tutti i consigli dell’Ordine, delle iniziative promosse dal Garante delle persone private di libertà. Ricordiamo infatti che il ruolo del Garante di monitorare il rispetto dei diritti dei detenuti, non si limita alla denuncia delle situazioni problematiche della detenzione, ma si spinge fino alla ricerca di proposte risolutive dei problemi insorti. E ancora, il nuovo Protocollo punta ad istituire una formazione giuridica congiunta sull’esecuzione penale, che coinvolga tanto il personale dell’ufficio del Garante che gli avvocati che si occupano di esecuzione. Infine, tra le azioni congiunte annunciate da CNF e Garante, c’è anche l’intenzione di coinvolgere gli Ordini degli avvocati nella designazione del Garante Comunale. Un altro anno di processi a distanza: avvocati furiosi di Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2022 Collegamenti da remoto per le indagini e le sentenze: “Così si ledono i diritti degli imputati. Scelte del governo illogiche”. Collegamenti da remoto durante le indagini preliminari, i detenuti che seguono le udienze dei loro processi in videoconferenza, camere di consiglio fuori dalle mura dei tribunali. Le norme per i processi decise dal governo Conte durante la prima ondata di contagi Covid saranno valide per tutto il 2022. È quanto stabilito nel milleproroghe firmato da Mario Draghi alla fine dello scorso anno. Con tanto di irritazione da parte della categoria degli avvocati che gridano alla violazione della sacralità del processo e dei diritti dei loro assistiti. Le disposizioni in materia di giustizia civile, penale, amministrativa e tributaria sono elencate all’articolo 16 del milleproroghe. Se per molti magistrati la misura è adeguata, per tanti altri avvocati un termine così lungo non è pensabile: “Si poteva procedere con una proroga fino al 31 marzo, come fatto per il processo tributario. E poi in caso rinnovare”, spiega Antonino Galletti, presidente dell’ordine degli avvocati di Roma. Perché il punto è anche questo: la stretta per i processi civili e penali è prevista fino al 31 dicembre 2022, mentre per il processo tributario per ora solo fino al 31 marzo 2022. “Non riconosco alcuna logica in questa scelta del governo. I giudici e gli avvocati amministrativi si infettano meno dei penalisti?”, aggiunge Galletti. Le norme al centro della questione prevedono diverse modalità nella trattazione dei procedimenti. Per citarne alcune: nel corso delle indagini preliminari pm e polizia giudiziaria possono avvalersi di collegamenti da remoto per quegli atti che richiedono la partecipazione dell’indagato, della persona offesa, di un consulente o di avvocato, “salvo che il difensore… si opponga, quando l’atto richiede la sua presenza”. I detenuti potranno partecipare alle udienze tramite videocollegamento. E ancora: da remoto saranno anche le decisioni collegiali dei processi civili e penali: “Il luogo da cui si collegano i magistrati - dice il decreto legge al quale fa riferimento il milleproroghe - è considerato Camera di consiglio a tutti gli effetti di legge”. Norme contestate da più di un avvocato. Per Cesare Placanica, responsabile dell’osservatorio “Unione Camere Penali sul giusto processo”, “questa proroga danneggia la sacralità del processo, e con esso anche i diritti di indagati e detenuti. Come si può pretendere che avvocati, indagati, pm e giudici, ognuno da una parte diversa perché collegati da remoto, riescano a confrontarsi in modo corretto? Il giudice inoltre non ha sottomano tutte le carte processuali. In camera di consiglio il fascicolo è sul tavolo, cosa che non avviene nelle udienze da remoto. La mancanza di fisicità del fascicolo evita che vi sia una reale collegialità delle decisioni”. Sulla stessa linea l’avvocato Galletti. “Le disposizioni sui processi - spiega - sono state prolungate non si capisce in base a quale calcolo statistico, senza nessuna previsione, fino al 31 dicembre: è un termine sicuramente eccessivo soprattutto in alcuni settori come il penale dove l’oralità ha un ruolo importante”. Per aggirare l’ostacolo in alcuni distretti sono stati creati dei protocolli d’intesa: “Come è avvenuto a Roma - prosegue Galletti - dove per le sentenze è previsto che i magistrati si riuniscano fisicamente in Corte d’appello. Invece questo provvedimento consente al collegio di riunirsi da remoto, ognuno da casa propria. Nessuno si sente tranquillo a farsi giudicare da tre magistrati di cui uno in ciabatte a casa, l’altro al mare e un altro ancora a Cortina”. Sono posizioni non condivise dalla categoria dei magistrati. Per Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, “questa normativa di emergenza è l’unico modo che consente alla giustizia di andare avanti. In passato, durante il primo lockdown, vi è stato di certo un rallentamento della macchina della giustizia dovuta a quella iniziale sospensione. L’udienza per sua natura è un assembramento, per questo la misura a mio parere resta adeguata rispetto al periodo che stiamo vivendo”. E non rileva un rallentamento dell’attività Elisabetta Garzo, presidente del tribunale di Napoli. “È vero — spiega — è sorta un po’ di incertezza da parte degli avvocati che si sono meravigliati del fatto che non ci fosse stata una proroga al 31 marzo, ma al 31 dicembre. Però non è che influisce particolarmente: non è vero che da remoto i giudizi civili vanno a rilento. Posso dire che, dati alla mano, non vi è stata una diminuzione dei giudizi trattati, anzi abbiamo mantenuto i carichi esigibili e il numero dei procedimenti definiti nel passato. Quindi da questo punto di vista la trattazione dei procedimenti da remoto in sede civile è stata abbastanza vincente a mio giudizio”. Magistratura, l’Anm apre il “processo” per le chat di Palamara di Liana Milella La Repubblica, 10 gennaio 2022 Settanta toghe rischiano fino all’espulsione. Gli interrogatori dureranno sei-sette mesi e rischiano di destabilizzare le prossime elezioni per il Csm previste in estate. Nel sindacato si apre la caccia alla talpa che ha diffuso la notizia giusto a 10 giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Torna l’incubo delle chat di Palamara. Questa volta all’Anm, ma con il rischio “strumentale”, dubita più d’uno, di favorire o penalizzare le correnti proprio a ridosso, o durante, le prossime elezioni per il Csm, previste a luglio. Sempre che la nuova legge elettorale, che il governo deve ancora presentare, sia pronta in tempo. Sono passati due anni dalla prima diffusione delle chat che coinvolgono oltre 500 nomi - era maggio 2020, in pieno Covid - e solo adesso l’Anm avvia il giudizio, in base al codice etico che tutti i giudici iscritti al sindacato sono tenuto a rispettare, che coinvolge 70 magistrati in procinto di ricevere l’atto di incolpazione. Ma ricostruiamo i fatti e le possibili conseguenze. Con una premessa. I lavori del collegio dei probiviri, nominati a gennaio 2021 dalla giunta presieduta da Giuseppe Santalucia, dovrebbero essere coperti dal più totale riserbo. I verbali delle sedute però vengono depositati in segreteria. I cinque componenti, tutti giudici in pensione, dovrebbero rispettare la riservatezza. Ecco i loro nomi e la loro “appartenenza” correntizia: il presidente è Gioacchino Romeo, ex toga della Cassazione, vicino ad Articolo 101, l’unica corrente all’opposizione nell’attuale giunta che regge il governo dell’Anm e con un forte radicamento in Sicilia. E poi: Roberto Alfonso, ex Pg di Milano, di Magistratura indipendente. Elena Riva Crugnola, ex giudice del tribunale di Milano, toga della sinistra di Magistratura democratica. Mario Rosario Ciancio, ex presidente di sezione del tribunale di Roma, di Autonomia e indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo. Francesco Greco, ex capo della procura di Napoli Nord, di Unicost. Su di loro - ovviamente scelti col bilancino delle correnti - è caduto l’incubo delle chat. Che la procura di Perugia ha inviato gratis al Csm e al ministero della Giustizia, ma non ha consegnato automaticamente anche all’Anm. Che ha dovuto procurarsi da sola le chat. Una procedura complessa, che ha comportato la nomina di un perito e una selezione file per file delle sole chat degli iscritti all’Anm. Un’acquisizione “costosa” e che ha anche richiesto tempo. Il che spiega perché solo adesso siamo alle incolpazioni. Il cui numero - 70 appunto - avrebbe dovuto restare segreto. E la cui diffusione invece - dovuta alle pagine del Riformista - già suscita polemiche e rimostranze dentro la stessa Anm, perché il sospetto è che sulle chat dell’ex pm di Roma, ex componente del Csm, ed ex presidente dell’Anm Luca Palamara, si possa giocare la battaglia non solo per le prossime elezioni del Csm, ma soprattutto per la futura nomina del nuovo procuratore generale della Cassazione, visto che l’attuale figura in carica - Giovanni Salvi, ex pm ed ex Pg di Roma, nonché ex procuratore di Catania - scade a luglio. Singolarmente, proprio chi, più di altri, sostiene la necessità di rispettare la nuova legge sulla presunzione di innocenza, nel diffondere il numero dei prossimi incolpati, cita il togato del Csm Giuseppe Cascini e il Pg Salvi, che il 21 gennaio terrà la relazione sullo stato della giustizia in Italia assieme al primo presidente Pietro Curzio. Ma il nome di Salvi non sarebbe in quella lista, e non ci sono conferme ufficiali che ci possa essere quello di Cascini per via di un incontro con Palamara di cui più volte l’ex pm ha spiegato le ragioni, nonché ha presentato una querela per quanto racconta Palamara. Anche se, a incolparlo con un commento sul Fatto quotidiano, è Antonio Esposito, l’ex toga della Cassazione che presiedeva il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi per frode fiscale per Mediaset. E il cui figlio Ferdinando - ex pm a Milano - è stato radiato dalla magistratura per aver ottenuto un attico a prezzo di favore in area piazza Duomo. Del collegio disciplinare del Csm faceva parte anche Cascini. Di cui adesso Esposito padre dice che non può più far parte del Csm. Contro il Pg Salvi, invece, più volte sono intervenuti i componenti della lista di Articolo 101 “rimproverandogli” la circolare con cui, quando la Cassazione ha cominciato l’analisi delle chat di Palamara e ha individuato i possibili criteri per giudicarle, ha escluso che “l’autopromozione” potesse essere punita. Poiché Palamara racconta, nel suo libro “Il sistema”, che con Salvi ci fu un pranzo quando il Csm doveva scegliere il precedente procuratore generale - la scelta allora cadde su Riccardo Fuzio di Unicost, la stessa corrente di Palamara - da qui è nata la polemica sull’autopromozione. Nessuna indiscrezione invece sugli altri nomi, tra i quali potrebbero esserci molti magistrati che già sono stati “processati” dal Csm, o per un trasferimento d’ufficio in prima commissione, o direttamente dalla sezione disciplinare dopo l’incolpazione di Salvi. Magistrati magari già assolti, ma che ugualmente potrebbero rispondere di una violazione del codice etico dell’Anm che è più ampio di quello disciplinare del Csm. Tre le “condanne” che potrebbero subire. La più blanda è la censura. Poi l’interdizione dai diritti di socio per non oltre 5 anni, infine l’espulsione dall’Anm se il fatto commesso risulta eccezionalmente grave, com’è avvenuto nel caso di Palamara che è stato espulso dall’Anm il 19 settembre del 2020 e venti giorni dopo è stato rimosso dalla magistratura dal Csm, decisione confermata, nonostante il suo ricorso, anche dalla Cassazione. Naturalmente il processo deontologico si ferma se il soggetto incolpato decide di dimettersi dall’Anm. E già nei mesi scorsi molte toghe citate nelle chat hanno lasciato il sindacato dei giudici. Dopo l’uscita della notizia dei 70 incolpati è possibile adesso ipotizzare anche i tempi, che saranno assai lunghi, del loro “processo”. I cinque componenti del collegio dei probiviri hanno in programma abitualmente due sedute al mese. Nelle quali prevedono di sentire, ogni volta, tra i 10 e i 12 incolpati che, una volta ricevuto l’atto di accusa, saranno chiamati per un formale interrogatorio. Questo significa, con un calcolo a spanne, che ci vorranno almeno sette mesi per ascoltarli tutti. Quindi si arriverebbe a luglio, giusto quando si dovranno svolgere le elezioni per il futuro Csm. Nel 2018 per i togati si votò nella prima settimana di luglio. Un fatto è certo, il 2022 comincia male per l’Anm. Un sorpreso e irato Santalucia non ha voluto in alcun modo commentare la fuga di notizie sui 70 potenziali incolpati. Ma è inevitabile che dentro la giunta dell’Anm si aprirà un “processo” per scoprire il possibile colpevole. Soprattutto perché il collegio dei probiviri avrebbe fornito ai componenti della giunta un primo screening solo sul numero dei possibili incolpati. E quindi l’uscita solo di alcuni nomi della sinistra di Area potrebbe indirizzare le “indagini” verso le correnti di centrodestra. Comunque è la prima volta, da quando si è insediato il collegio disciplinare, che si verifica una fuga di notizie, coincidente proprio con il momento in cui il collegio stesso fornisce informazioni ai componenti della giunta. Minori allontanati dalle famiglie solo con la convalida del giudice di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2022 La riforma della giustizia civile riscrive le regole dei procedimenti che riguardano le crisi familiari. E lo fa in due tempi. Per la maggior parte delle norme, la riforma detta solo i principi e i criteri di delega, che dovranno essere tradotti in disposizioni dai decreti legislativi del Governo, da adottare entro i124 dicembre 2022. Ma ci sono alcune disposizioni che si applicheranno direttamente, senza bisogno di attuazione, ai procedimenti avviati dal 22 giugno 2022, vale a dire 18o giorni dopo l’entrata in vigore della riforma, legge 206/2021, avvenuta il 24 dicembre 2021. Queste norme sono contenute nei commi da 27 a 34 dell’articolo unico della legge 206/2021. Sono misure che incideranno sul diritto dei minori e delle loro famiglie e su alcune regole del processo di famiglia senza il filtro dell’attuazione, che potrebbe permettere un miglior coordinamento con le norme attuali. Vediamole. Tribunale per i minorenni Il comma 27 modifica l’articolo 403 del Codice civile, intervenendo sulle norme che regolano i provvedimenti di allontanamento dei minori dall’ambiente familiare. In particolare, mutano i presupposti per questo atto ed è previsto un immediato coinvolgimento del pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni e poi la convalida da parte del giudice, per scongiurare gli abusi. Il comma 28 modifica invece il riparto della competenza tra il tribunale ordinario e quello per i minorenni, riscrivendo l’articolo 38 delle disposizioni per l’attuazione del Codice civile. Si riconosce al tribunale ordinario la possibilità di giudicare sulla decadenza e sulla limitazione della responsabilità genitoriale quando è in corso un giudizio di separazione odi divorzio, ma si introduce anche una nuova competenza del tribunale peri minorenni a occuparsi dei ricorsi previsti dall’articolo 709-ter del Codice di procedura civile, anche se l’istanza è stata presentata al tribunale ordinario. Ma dato che si tratta di istanze urgenti tese a far cessare comportamenti contrari alle disposizioni che garantiscono l’esercizio della bigenitorialità, è prevedibile che il debutto di questa norma, in mancanza di coordinamento tra l’operatività dei due tribunali, provocherà disservizi. Basti pensare, ad esempio, che ai tribunali peri minorenni non è ancora stato esteso il processo civile telematico. Il comma 30 modifica l’articolo 78 del Codice di procedura civile, prevedendo l’obbligo - a pena di nullità degli atti del procedimento - della nomina di un curatore speciale del minore quando il pubblico ministero ha chiesto la decadenza dalla responsabilità genitoriale di entrambi i genitori o quando un genitore ha chiesto la decadenza dell’altro, se viene adottato un provvedimento di allontanamento dei minori dall’ambiente familiare e in tutti i casi in cui è stata rilevata una situazione di pregiudizio per il minore tale da precluderne l’adeguata rappresentanza processuale da parte di entrambi i genitori (oltre che quando ne fa richiesta il minore con almeno 14 anni). Inoltre, il giudice può nominare un curatore speciale, con un provvedimento “succitamente motivato”, quando rilevala temporanea inadeguatezza dei genitori a rappresentare gli interessi del figlio. Un cambio di passo rispetto alle norme in vigore finora (per cui il legame di rappresentanza tra genitori e figli si spezza solo se il genitore è di danno al minore) che potrebbe prestarsi a notevoli difformità interpretative. Il comma 31 introduce la possibilità dell’ascolto del minore da parte del curatore speciale, con la modifica dell’articolo 8o del Codice di procedura civile. Vengono così di fatto indebolite le garanzie in favore del minore, che sinora era sentito da un giudice con l’assistenza, raccomandata, di un esperto. Il comma 33 interviene sull’articolo 709-ter del Codice di procedura civile, precisando che il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori verso l’altro può anche essere disposto individuando la somma giornaliera dovuta per ciascun giorno di violazione o di inosservanza dei provvedimenti del giudice. Il comma 34 modifica i criteri per l’accesso all’albo dei consulenti tecnici d’ufficio per i processi di famiglia con l’inserimento di nuove professionalità (neuropsichiatria infantile, psicologia dell’età evolutiva e psicologia giuridica o forense). Il comma 35, infine, estende l’ambito d’azione della negoziazione assistita: si potrà usare anche per accordarsi sull’affidamento e il mantenimento dei figli delle coppie di fatto, sull’assegno di mantenimento chiesto ai genitori dal figlio maggiorenne ma non autosufficiente economicamente e sugli alimenti. Rito unificato (con poche deroghe): più difese contro le violenze di Giorgio Vaccaro Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2022 La riforma civile tiene a battesimo anche il nuovo rito unificato “in materia di persone, minorenni e famiglie”. Oltre al tribunale unificato per le persone, per i minorenni e per le famiglie, la riforma civile tiene a battesimo anche il nuovo rito unificato “in materia di persone, minorenni e famiglie” (legge 206/2021, comma 23 dell’articolo unico), che si applicherà a tutti i procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie di competenza del tribunale ordinario, del tribunale per i minorenni e del giudice tutelare (escluse le adozioni e i ricorsi in materia di immigrazione). Sul nuovo procedimento la riforma stabilisce i principi di delega: un testo denso, la cui attuazione, affidata ai decreti legislativi che il Governo dovrà emanare entro il 24 dicembre 2022, sarà un passaggio fondamentale per delineare il nuovo assetto del processo della famiglia. Qui analizziamo i punti che potrebbero creare più incertezze applicative. Contrasto alla violenza La riforma (al comma 23, lettera b) mira a rafforzare il contrasto ai fenomeni di violenza nelle relazioni prevedendo che “in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate”: su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, con gli ordini di protezione contro gli abusi familiari disposti dal giudice in base all’articolo 342-bis del Codice civile; le necessarie modalità di coordinamento con, le altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; la riduzione dei termini processuali; e disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria. Sempre alla lettera b) compare poi con una disposizione che potrebbe incrementare la conflittualità. Viene previsto che qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, il giudice, personalmente (senza quindi coinvolgere un esperto come si fa ora), sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto (compito delicato, perché hanno un’origine articolata) e assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell’affidamento dei figli e degli incontri con loro eventuali episodi di violenza. In ogni caso, sarà necessario garantire, se necessario, che gli eventuali incontri trai genitori e il figlio avvengano con l’accompagnamento dei servizi sociali e non compromettano la sicurezza della vittima. Sempre a tutela del minore viene previsto che, qualora il giudice ritenga di avvalersi di un consulente, lo nomina con provvedimento motivato, indicando gli accertamenti da svolgere; il consulente si dovrà attenere “ai protocolli e alle metodologie riconosciuti dalla comunità scientifica, senza effettuare valutazioni su caratteristiche e profili di personalità estranee agli stessi”. Un principio di delega che mira a mettere uno stop all’utilizzo nei tribunali di teorie non riconosciute dalla comunità scientifica, in linea con le conclusioni raggiunte dalla Cassazione. Giudice relatore In base alla lettera c) del comma 23, si prevedrà la competenza del tribunale in composizione collegiale, ma con facoltà di delega per la trattazione e l’istruzione al giudice relatore, che terrà le udienze e adotterà provvedimenti decisori, anche provvisori, e che potrà delegare ai giudici onorari alcuni adempimenti (esclusi l’ascolto dei minorenni, l’assunzione dei testimoni e gli atti riservati al giudice togato). Anzi: anche prima che si instauri il contraddittorio, il giudice relatore potrà assumere provvedimenti d’urgenza nell’interesse delle parti e dei minori, fissando l’udienza di comparizione delle parti per confermare, modificare o revocare questi provvedimenti entro 15 giorni. Una scelta che potrebbe tradursi in una compressione del diritto di difesa. Inoltre, il giudice relatore, tranne che nei casi in cui sono allegate violenze di genere, potrà invitare le parti a tentare un percorso di mediazione familiare. Ancora, la lettera f) del comma 23 prevede che il giudizio sarà introdotto con ricorso, redatto in modo sintetico, in cui dovranno essere indicati, “a pena di decadenza”, i mezzi di prova e i documenti di cui il ricorrente intende avvalersi. Una disposizione in linea con quanto previsto sempre dalla riforma per il processo di cognizione di primo grado davanti al tribunale in composizione monocratica. L’obiettivo è arrivare alla prima udienza con più elementi possibile, per accelerare i tempi. Ma, dall’altra parte, nei procedimenti di famiglia, mettere sul piatto da subito tutti gli elementi di prova, senza possibilità di modularli, potrebbe avere l’effetto paradossale di aumentare la conflittualità tra le parti. Piemonte. Covid nelle carceri, l’allarme dei Sindacati e dei Radicali iltorinese.it, 10 gennaio 2022 Esplodono i focolai di Covid nelle carceri del Piemonte, ad Asti e Torino sono state individuate le situazioni più preoccupanti. “Alle Vallette sono 56 i detenuti contagiati (tutti asintomatici) e 9 gli agenti, con un aumento del 122% di contagi negli istituti di pena italiani in 10 giorni che dimostra la pericolosità di una situazione che era stata più volte denunciata”, sottolinea il sindacato di polizia penitenziaria Osapp. Un problema questo che si accompagna soprattutto al sovraffollamento delle carceri più volte denunciato dal sindacato polizia penitenziaria e da esponenti di ‘Nessuno Tocchi Caino’, Associazione Marco Pannella di Torino e segreteria del Partito Radicale. Proprio due di loro, Mario Barbaro (Segreteria Partito Radicale) e Sergio Rovasio (Presidente Associazione Marco Pannella di Torino), scenderanno in campo a fianco di Rita Bernardini (Presidente di Nessuno Tocchi Caino) per chiedere di “Fare presto nel ridurre la ‘congestione’ di corpi nelle carceri”. In una lettera di agosto 2021 indirizzata al presidente della Regione Alberto Cirio e all’assessore alla Sanità Luigi Icardi i militanti chiedevano di intervenire per limitare il più possibile alcune carenze: i militanti ponevano l’attenzione sul carcere Lorusso-Cotugno elencando i problemi riscontrati in ambito sanitario che si vanno ad aggiungere al sovraffollamento del carcere e alle condizioni di detenzione che, per gli scriventi, non rispettano le normative italiane ed europee. “Ridurre la popolazione carceraria” - L’urgenza oggi è quella di ridurre la popolazione carceraria con provvedimenti del Governo e del Parlamento, sostengono Mario Barbaro e Sergio Rovasio che aggiungono: “Purtroppo le notizie che ci giungono non fanno che confermare l’aggravarsi della situazione. Al Carcere di Torino la situazione è drammatica così come abbiamo più volte evidenziato: sovraffollamento (quasi 1.400 detenuti su 1.060 posti di capienza regolamentare), presenza di topi e blatte e gravi carenze sanitarie, solo per citare alcuni punti. Ora si aggiunge la denuncia da parte dell’Osapp, il Sindacato di Polizia Penitenziaria, sui focolai di covid che avanzano prepotentemente all’interno dei penitenziari e che esprime preoccupazione per le carceri piemontesi”. Annunciato lo sciopero dalla fame - L’Associazione Marco Pannella di Torino sarà a fianco di Rita Bernardini (Presidente di Nessuno Tocchi Caino) che riprenderà lo sciopero della fame a partire dalla mezzanotte del 10 gennaio 2022 per “aiutare Governo e Parlamento a far presto per ridurre la ‘congestione’ di corpi nelle carceri italiane. La coraggiosa iniziativa di Rita Bernardini è un’iniziativa di amore nei confronti del diritto e della democrazia. Fare presto è un imperativo”, dicono Mario Barbaro e Sergio Rovasio. “Comunichiamo dunque che a partire dalla mezzanotte del 10 gennaio ripartirà l’iniziativa di sciopero della fame a staffetta (una persona al giorno, ndr) da parte dei militanti dell’Associazione Marco Pannella di Torino. Scriveremo nuovamente al Presidente della Regione Piemonte Cirio e all’Assessore alla Sanità Icardi affinché venga messa in campo da subito ogni iniziativa volta ad alleviare la situazione insostenibile presente nelle carceri del Piemonte”, concludono. Prato. Focolaio Covid in carcere alla Dogaia, più di 80 positivi fra detenuti e agenti di Elena Duranti La Nazione, 10 gennaio 2022 Il Covid non risparmia neppure il carcere. Sono più di 80 i contagiati, fra detenuti e operatori, all’interno della Dogaia. È un vero e proprio focolaio quello scoppiato nella casa circondariale di via Montagnola che rischia di mettere a rischio la sicurezza di tutti. In particolare - come spiegato dall’Unione sindacati di polizia penitenziaria (Uspp) - il focolaio ha colpito una sezione del carcere dove i detenuti risultati positivi sono ben 44. La gestione di queste persone - secondo quanto denuncia il sindacato - è difficoltosa in quanto il protocollo sanitario interno è completamente saltato. Intervenire, in caso di disordini, sarebbe complicato e metterebbe a rischio gli agenti. Motivo per cui l’Uspp ha scritto una lettera aperta non solo direttore della Dogaia, Vincenzo Tedeschi, ma anche al direttore generale dell’Asl Paolo Marchese Morello e al dipartimento di prevenzione, al dipartimento amministrazione penitenziaria di Roma e al provveditore regionale, chiedendo di prendere subito provvedimenti per bloccare il focolaio. “All’istituto è in atto un preoccupante focolaio le cui proporzioni ancora non si conoscono, anche e soprattutto a causa di ingiustificabili lentezze nell’effettuare tamponi ai detenuti e al personale che a qualsiasi titolo accede in istituto - scrive il segretario dell’Uspp, Paolo Alonge. Con queste modalità di gestione, la situazione è destinata a peggiorare”. Secondo quanto riferisce il sindacato, i medici, gli infermieri e gli altri operatori sanitari escono dalla zona infermeria del carcere con indosso la vestizione prevista per il contatto con casi positivi (tute bianche, guanti, mascherina FFP2) e così vestiti vanno in giro per i vari reparti dell’istituto, compresi quelli dove sono presenti detenuti positivi. Inoltre, gli agenti che presentano sintomi influenzali non vengono sottoposti subito a tampone ma vengono invitati a eseguirlo altrove e a loro spese anche se il sospetto di contagio è avvenuto in carcere e quindi sul lavoro. “A causa della crescita dei contagi - aggiunge Alonge - sono aumentate anche le tensioni che sono di difficile gestione a causa della carenza di personale di polizia, aggravata dalla positività di circa 19 agenti. Non è accettabile una tale confusione, ma soprattutto non è tollerabile che ognuno faccia come meglio crede senza seguire schemi di sicurezza sanitaria delineati”. Il sindacato chiede di intervenire con urgenza per evitare che la situazione degeneri. “Il personale sta sopportando pesanti carichi di lavoro e forti sollecitazioni emotive”, conclude Alonge. Padova. Accolto il ricorso di un detenuto cui l’Inps aveva negato la Naspi di Luigi Perissinotto collettiva.it, 10 gennaio 2022 Inca Padova: una sentenza destinata a fare scuola. “Una vittoria che ha fatto da apripista in molti casi simili - commenta la Cgil. Qui altri 4 ricorsi e presso il carcere 2 Palazzi sono almeno una cinquantina nella medesima situazione”. Si era a circa metà novembre quando il giudice Roberto Beghini del Tribunale del Lavoro di Padova, scriveva queste parole nella Sentenza n. 603/2021: “Per questo motivo (il Tribunale del Lavoro di Padova) accoglie il ricorso ed accerta il diritto del ricorrente alla NASpI (…) e condanna l’Inps a rifondergli le spese di giudizio (…)”. Si chiudeva quindi così, con una vittoria per il Patronato Inca e la Cgil, la prima ripresa di un match la cui chiusura definitiva deve ancora arrivare ma, a meno di clamorose e francamente illogiche sorprese, pare già segnata. Si trattava di decidere chi avesse ragione tra un detenuto di origini tunisine che dopo aver svolto per diversi mesi, nel corso del 2019, un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione penitenziaria, una volta cessata, aveva presentato domanda all’Inps al fine dell’ottenimento dell’indennità di disoccupazione (NASpI) vedendosela respingere, oppure l’INPS che con il messaggio n 909 del 2019, informava che i detenuti/lavoratori dipendenti dell’Amministrazione carceraria non avevano diritto alla NASpI. “Una decisione, secondo noi, assolutamente arbitraria e contro cui, in comune accordo con la segreteria confederale della Camera del Lavoro di Padova, abbiamo deciso di fare ricorso “accompagnando” 4 detenuti/lavoratori in questo percorso per far valere i propri diritti”. È soddisfatta Antonella Franceschin, direttrice dell’Inca Cgil Padova, che aggiunge: “Questa decisione dell’INPS ci sembrava una evidente forzatura e anche foriera di chiare ingiustizie dal momento che riguardava solo i detenuti/lavoratori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (come era il caso del ricorrente che aveva lavorato come addetto alla distribuzione dei pasti) e non quelli in forza a una delle cooperative che operano all’interno del carcere, determinando così una disparità di trattamento che non aveva nessun fondamento”. “Secondo l’Inps - conclude la Direttrice dell’Inca Cgil Padova - la posizione del detenuto/lavoratore era del tutto simile a quella di qualsiasi dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che in quanto tali non hanno diritto alla NASpI. Una posizione decisamente singolare e che fa a pugni con la realtà, come ha giustamente dimostrato la sentenza. Una buona notizia per almeno una cinquantina di detenuti/lavoratori che si trovano nella stessa identica situazione. Per parte nostra, ringraziamo Graziano Boschiero, l’operatore dello sportello Inca all’interno del carcere 2 Palazzi che ha seguito fin dall’inizio la vicenda. Accanto a lui, ringraziamo l’Avv. Marta Capuzzo dello Studio Legale Moro per questo ennesimo ottimo risultato”. “Una vicenda - interviene l’Avvocata Marta Capuzzo - iniziata nel 2019 per effetto dell’annuncio da parte dell’INPS che informava che i detenuti/lavoratori assunti alle dipendenze delle amministrazioni penitenziarie non avevano più diritto alla NASpI. Naturalmente, una decisione che ha incontrato fin da subito l’opinione contraria sia del Patronato Inca che della Cgil, che hanno deciso così di darci mandato per intentare la causa. Personalmente, oltre a questo caso, ne sto seguendo anche altri presso il Tribunale di Venezia che sono finiti esattamente nella stessa maniera. Siamo solo all’inizio ma queste sentenze stanno sostanzialmente facendo scuola e determinando un orientamento giuridico per tanti altri casi simili”. “Il giudice - conclude l’Avvocata Capuzzo - nella prima riflessione contenuta nella sentenza, ravvisa e specifica esplicitamente che il trattamento di disoccupazione ha una natura generalizzata e vale per tutti, ad eccezione di quei casi espressamente esclusi dalla norma tra i quali, è evidente, non sono assolutamente presenti i detenuti/lavoratori. Al contrario, vige un principio (previsto sia da norme internazionali che da quelle che regolano l’ordinamento penitenziario) secondo il quale l’organizzazione e i metodi di lavoro all’interno del carcere devono rispecchiare quelli previsti fuori da esso, cioè nella società libera. Un principio che, in questo caso, l’INPS non rispettava”. L’affermazione di un principio di civiltà e giustizia - “Consideriamo questa sentenza - interviene Palma Sergio della segreteria confederale della Cgil di Padova - la conferma del pieno riconoscimento di un diritto, e cioè che il riconoscimento del lavoro deve valere sempre in termini etici, morali ed economici indipendentemente che lo si svolga dentro o fuori un istituto di pena, come in questo caso”. “Un eroe” ci spiega quanto sono fragili le mille verità che costruiamo di Fabio Ferzetti L’Espresso, 10 gennaio 2022 Un ex carcerato diventa simbolo di redenzione, ma poi le cose si complicano. Il nuovo film di Farhadi. Un uomo esce di prigione con un sorriso così largo stampato in faccia che viene voglia di credergli. A tutti i costi. In carcere per debiti Rahim, così si chiama, ha una sorella che bada a suo figlio, un nuovo amore segreto, la radiosa Farkhondeh, e un tesoro da sfruttare. Farkhondeh infatti ha trovato per strada una borsa piena di monete d’oro (siamo a Shiraz, culla dell’antica cultura persiana). Vendendole Rahim potrà rimborsare in parte il suo debito, chiedere clemenza al creditore, evitare di tornare in prigione dopo le 48 ore di permesso. L’uomo però ha un’altra idea. Troverà chi ha perduto la borsa e gliela restituirà. Tanta onestà colpisce i dirigenti del carcere. Il resto lo fanno tv, social media e associazioni benefiche. Così il sorridente Rahim diventa un eroe nazionale, simbolo di redenzione. Fioccano offerte, anche di lavoro. Poi tutto si complica. Forse, insinua il creditore (suo ex cognato), la strategia di Rahim non è così limpida. Forse, mormorano i detenuti, quella storia edificante serve a coprire le magagne del carcere. Sui social dilagano invidia e sospetti. L’immagine di Rahim si sgretola e con essa le nostre certezze. Nei film di Farhadi, del resto, nessuno dice mai tutta la verità. Tutti prima o poi trovano buone ragioni per tacere, deformare, abbellire la realtà. E nessuno - tantomeno il regista - dà mai una versione sicura dei fatti. Non a caso l’unico personaggio innocente di “Un eroe”, Gran Premio a Cannes e ora candidato all’Oscar (dopo quelli vinti da “Il cliente” e “Una separazione”) è il figlio di Rahim. Un ragazzino, per giunta balbuziente. Eppure l’inizio prometteva tutt’altro. Al cinema spesso le parole dicono una cosa, le immagini un’altra. Il magnifico incipit, con la lunga ascensione di Rahim alla tomba monumentale di Serse, parla solo di speranza e grandezza. L’incontro con Farkhondeh, in un tripudio di salti di montaggio e carezze trattenute (siamo pur sempre in Iran) testimonia nobiltà e purezza. Mentre gli interni familiari e lavorativi, con quelle mille sottotrame che si avviluppano alla storia principale, scolpiscono una cultura e un paese ancor più complessi della sceneggiatura. Se Farhadi non ha mai problemi di censura è perché lavora sullo scarto tra ciò che vediamo e ciò che crediamo di capire. Di qui premi, ma anche accuse e insinuazioni. Proprio come l’eroe del suo film. Il divario culturale sul suicidio assistito nei paesi occidentali di Asher Colombo Il Domani, 10 gennaio 2022 In Olanda c’è una morte medicalmente assistita ogni 27 decessi, in California una ogni 1.000, ma i due stati si somigliano dal punto di vista medico. È una questione di mentalità, che sta cambiando. Anche in Italia. Sembra ormai inevitabile che tre elementi tra loro inestricabilmente intrecciati siano destinati a convergere a breve e a riaccendere, con le consuete modalità carsiche, il dibattito sul cosiddetto “fine vita” in Italia. Il primo è il referendum, previsto la prossima primavera, per la modifica dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente. Il secondo è il pronunciamento n. 242/2019 della Corte costituzionale, a proposito del caso Dj Fabo/Marco Cappato, per violazione dell’articolo 580 del codice penale che punisce l’istigazione e l’aiuto al suicidio. In questa sentenza la Corte ha rilevato elementi di criticità dell’articolo, e indicato quattro criteri di esclusione della punibilità. Il terzo, innescato dal precedente, è l’iter della proposta di legge sul suicidio assistito di cui sono relatori i parlamentari Alfredo Bazoli (Partito democratico) e Nicola Provenza (Movimento Cinque stelle). Questa si pone in una posizione per così dire intermedia tra la situazione attuale di chiusura assoluta e quella che scaturirebbe da un eventuale successo del referendum, che collocherebbe di colpo l’Italia ai primi posti, se non al primo, in termini di apertura all’eutanasia. Come spesso accade, non solo in Italia, il dibattito su questi temi ha assunto la forma di una contrapposizione tra punti di vista difficilmente negoziabili che fanno riferimenti a valori etici inconciliabili. È un dibattito anche utile, ma che potrebbe trarre qualche beneficio da un’osservazione non partigiana delle esperienze fatte nei paesi in cui norme di questo tipo sono già state introdotte. Non tanto, come spesso avviene, in termini di confronti tra le norme, quanto in termini di valutazione delle dinamiche che concretamente quelle norme hanno generato. Morte assistita - A oggi, forme di legalizzazione, o depenalizzazione, di una o più forme di morte medicalmente assistita sono state adottate da nove paesi. Sei si trovano in Europa: Svizzera, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania, Spagna. Tre sono nelle Americhe: Colombia, Canada e undici dei cinquanta stati Usa. Le forme sono diverse. Si va dal suicidio medicalmente assistito all’eutanasia volontaria, fino a casi di eutanasia non volontaria. L’Istituto Cattaneo ha preso in considerazione, e analizzato tutti i dati disponibili fino a questo momento allo scopo di analizzare le dimensioni e l’andamento nel tempo di queste morti medicalmente assistite. A suscitare la prima sorpresa sono le forti differenze assunte dalle dimensioni del fenomeno. Il numero di morti medicalmente assistite, genericamente intese, varia da una media di poco più di 1 ogni mille decessi nello stato della California, a una di quasi 27 in Olanda. Stessa incidenza di tumori - In generale è facile vedere che, passando da una sponda all’altra dell’Oceano, quelle che le leggi americane definiscono “morti con dignità” o “scelte di fine vita” crescono decisamente, e raggiungono il loro massimo in Belgio e proprio in Olanda. Dato che la stragrande maggioranza delle richieste di accesso alla morte medicalmente assistita riguarda tipicamente pazienti oncologici (dove i dati sono disponibili, oltre due terzi del totale) si potrebbe presumere che le dimensioni del fenomeno siano riconducibili a divari nell’incidenza dei tumori. Tuttavia, il tasso di decessi per tumore è massimo in Olanda, negli stati di Washington e Oregon, e minimo in Belgio e Svizzera. Non sembra quindi che distanze così macroscopiche possano essere ricondotte a divari nella diffusione dei tumori tra la popolazione. Se in Olanda l’incidenza delle morti medicalmente assistite è superiore a quella di Svizzera e Belgio, e se l’incidenza delle morti assistite in questi paesi è superiore a quella che si registra in Usa, questo sembra piuttosto riconducibile a differenze nelle opinioni pubbliche. I livelli di resistenza di queste ad accettare l’idea che alla vita possa essere messa fine in base a una scelta deliberata - sia essa di un individuo, di una famiglia, del personale medico, o anche di un’istituzione o di una qualche combinazione tra questi attori - varia molto. Questione di scelta - L’accettabilità dell’eutanasia raggiunge i suoi valori massimi proprio in Olanda, Belgio, Svizzera, e quelli minimi negli Stati Uniti. È un gradiente che rispecchia, fra gli altri, differenze nel livello di secolarizzazione. Le religioni monoteiste hanno sempre esercitato un impatto decisivo sugli atteggiamenti verso i suicidi e l’eutanasia, e non smettono di farlo nemmeno oggi. In quest’ottica va inquadrata la collocazione dell’Italia, il cui livello di accettazione della morte medicalmente assistita è certamente molto cresciuto negli ultimi anni e risulta oggi superiore a quello che si registra nella maggioranza degli stati americani, ma è comunque inferiore a quello rilevabile nei quattro paesi europei, e perfino in due tra gli assai meno secolarizzati Stati Uniti. La crescita - Ma c’è una seconda questione che le esperienze consolidate aiutano a inquadrare meglio. Se consideriamo l’andamento delle morti assistite nei vari paesi è facile osservare due dinamiche. La prima è che in tutti si è registrata una crescita quasi costante. A dieci anni dall’introduzione delle morti assistite il tasso annuo di crescita ha variato tra l’8 per cento dell’Olanda e oltre il 15 epr cento della Svizzera. La seconda è che nessuno dei paesi considerati ha mai interrotto la propria corsa. Significa che chi introduce la morta assistita è destinato a vederla correre su un piano inclinato, come paventano i critici della legalizzazione? Difficile dirlo al momento. È una dinamica compatibile con spiegazioni diverse: l’invecchiamento della popolazione, un rilassamento delle definizioni o dei criteri stessi di accesso, un processo di progressivo abbassamento delle resistenze a richiedere una pratica mano a mano che questa si diffonde e viene percepita come sempre più “normale”. A guardare bene però sono in gioco anche fattori istituzionali. Questione individuale - Dove il percorso è più concepito come una questione individuale con un ruolo solo ancillare dei medici, come in Svizzera, la crescita appare più marcata. Ed è proprio sui fattori istituzionali, sulle norme certo, ma anche sulle concrete procedure di accesso e di valutazione delle richieste che si giocherà la vera partita quindi. Nelle settimane che ci aspettano il confronto su questi temi tornerà più acceso di prima. Ma se è lecito nutrire dubbi che possano davvero essere i fatti a indirizzare un dibattito così polarizzato, è altrettanto chiaro che prendere posizione su un tema controverso senza tenere conto proprio dei fatti è poco auspicabile. Europol è l’avamposto della sorveglianza di massa di Apostolis Fotiadis, Daniel Howden, Ludek Stavinoha e Giacomo Zandonini Il Domani, 10 gennaio 2022 L’agenzia di polizia europea ha raccolto una montagna di dati sui cittadini, seguendo il modello della Nsa americana In questo sistema opaco pochissimi europei sono consapevoli di essere stati schedati pur non avendo commesso reati. L’agenzia di polizia dell’Unione europea, Europol, sarà costretta a cancellare una parte significativa di un enorme archivio di dati personali che ha accumulato illegalmente negli ultimi anni. A ordinarlo è lo European Data Protection Supervisor (Edps), il garante europeo per la protezione della privacy. A finire sotto i riflettori del garante è quella che gli esperti descrivono come una “montagna di big data”, contenente miliardi di informazioni. Dati sensibili estratti da inchieste sulla criminalità organizzata, da operazioni di hackeraggio di piattaforme telefoniche criptate o ancora da controlli su richiedenti asilo che non hanno commesso alcun reato. Secondo documenti interni, le banche dati di Europol contengono almeno 4 petabyte di dati. Per farsi un’idea, è l’equivalente del contenuto di tre milioni di Cd-Rom o di un quinto del materiale digitale raccolto nella Library of Congress degli Stati Uniti, tra le biblioteche più grandi del mondo. Secondo gli esperti di privacy, un tale volume di informazioni fa pensare che Europol svolga compiti di sorveglianza di massa, ricalcando i passi della National Security Agency (Nsa), l’agenzia di polizia statunitense che - come rivelato nel 2013 dal whistleblower Edward Snowden - spiava illegalmente cittadini innocenti. Disseminati tra questi 4 quadrilioni di dati personali, ci sono i dati di 250mila persone implicate o collegate a inchieste sul terrorismo, e di migliaia di altri individui che, per motivi diversi, erano parte della loro rete di contatti. Si tratta di informazioni accumulate negli ultimi sei anni, in seguito a una serie di operazioni di polizia. Il 10 gennaio il garante Ue rende pubblica la sua decisione di ordinare ad Europol di cancellare una parte di questi dati, trattenuti in modo illegittimo. L’agenzia avrà tutto il 2022 per farlo, separandoli da altri che detiene legalmente. Quello che oppone le due autorità dell’Ue è un conflitto inusuale, che vede la piccola autorità per la privacy contrapporsi a una sempre più potente agenzia di polizia, destinata a diventare un riferimento per l’impiego di algoritmi e intelligenza artificiale nelle questioni di sicurezza europee. “Le forze dell’ordine hanno bisogno degli strumenti, delle risorse e del tempo per analizzare dati che ricevono in modo legale” ha detto a Domani Ylva Johansson, la commissaria Ue per gli Affari interni, aggiungendo che “in Europa, la piattaforma che sostiene le polizie nazionali, impegnate in questo compito sovrumano, è Europol”. Tra i vertici dell’Ue ci sono però divergenze fondamentali su quali equilibri mantenere tra esigenze di privacy e di sicurezza. E nel mondo ovattato delle istituzioni dell’Unione, la presa di posizione del garante è percepita come un elemento radicale, che alza la posta in gioco in un dibattito che riguarda il futuro della privacy nel continente. Secondo Chloé Berthélémy, esperta di protezione dei dati per la rete European Digital Rights, Europol sta seguendo i passi della Nsa statunitense, pur con risorse tecnologiche molto inferiori. “La capacità di Europol di raccogliere grandi quantità di dati e di accumularli in quella che possiamo definire una ‘montagna di big data’ sta trasformando l’agenzia in una sorta di buco nero”, ha spiegato. Europol e i suoi sostenitori, ai vertici delle istituzioni di Bruxelles, negano però ogni irregolarità e ritengono anzi che l’annuncio del garante sia una testimonianza del funzionamento del sistema. Omettono però di aver fatto tutto il possibile per ritardare la decisione dell’Edps. Ora che il dado è tratto, Europol ha dichiarato al team di questa inchiesta che il garante probabilmente interpreta la legge in modo poco flessibile. “Il regolamento di Europol - ha comunicato l’agenzia, in un curioso ragionamento giudiziario - non può essere inteso come un requisito impossibile da rispettare [dalla stessa Europol]”. La decisione del garante arriva in un momento cruciale: l’Ue è infatti nella fase finale di un lungo negoziato per modificare il Regolamento di Europol, accrescendone incredibilmente i poteri. L’obiettivo è anche di legalizzare retrospettivamente la “montagna di dati”, utilizzandone il contenuto come base per sviluppare nuovi sistemi di analisi tramite l’intelligenza artificiale. Nata nel 1999 per coordinare forze di polizia nazionali, Europol ha visto crescere fondi, ruolo e aspettative a partire dal 2015, quando, dopo l’attacco al Bataclan di Parigi, è stata presentata come una soluzione al terrorismo jihadista ed ha iniziato a ricevere e immagazzinare dati personali da Stati, forze di polizia e organizzazioni internazionali. Sulla carta, Europol è vincolata ad un regolamento che definisce nel dettaglio quali dati personali può registrare e processare e per quanto tempo. Si tratta di dati di sospetti, testimoni ed informatori, che abbiano una rilevanza in casi di terrorismo o criminalità internazionale. Ma spesso, secondo Edps, questo trattamento dei dati è stato lasciato al caso. Le dimensioni e l’origine di una parte significativa dei dati presenti nella ‘ montagna’ la rendono evidentemente poco trasparente. Sono pochissimi i cittadini europei che, pur non avendo commesso reati, hanno scoperto di essere finiti in questo database e nessuno sembra essere riuscito ad ottenere informazioni dettagliate su quali dati siano effettivamente registrati. Tra di loro c’è l’attivista olandese Frank van der Linde. Uno dei rari fili visibili in una matassa altrimenti indistinguibile di dati. Van der Linde, le cui esperienze con la polizia sono limitate all’aver forzato una finestra per entrare in un edificio da usare come dormitorio per persone senza dimora, è stato rimosso nel 2019 da un registro olandese di potenziali terroristi su cui tenere gli occhi aperti. Un anno prima si era però trasferito a Berlino. Senza che lo sapesse, la polizia olandese lo aveva comunque segnalato ai colleghi tedeschi e a Europol. L’attivista lo scoprirà per caso, accedendo ad alcuni file personali consegnatili dal comune di Amsterdam. Quando chiede alle autorità olandesi di aiutarlo a rimuovere i dati, si trova di fronte ad un muro. Chiede allora ad Europol che, nel giugno 2020, gli risponde di non avere nessuna informazione a cui fosse “autorizzato ad accedere”. L’attivista si rivolge così all’Edps. Van der Linde, che aspetta risposte da oltre un anno, è convinto che i suoi dati convivano con quelli di centinaia di migliaia di persone. Criminali, sospetti, testimoni, vittime e persone legate, in modo generico, all’ambiente o alla località frequentati da uno di loro. “Mi inquieta quanto sia facile finire registrati in un archivio di questo tipo, quanto la polizia abbia l’abitudine di scambiare dati personali oltre i confini, e quanto sia difficile essere rimossi da queste banche dati una volta che ci si finisce”, dice Van der Linde. Un’irrequietezza condivisa da tempo dal garante europeo. In una prima comunicazione, del settembre 2019, il garante sosteneva infatti che i dati acquisiti da Europol fossero poi immagazzinati senza i necessari controlli, ovvero senza verificare che i titolari di quei dati appartenessero alle categorie per cui l’agenzia è autorizzata a conservare informazioni sensibili. Certo l’accesso a questi dati è strettamente sorvegliato e una parte importante della ‘montagna’ è composta da dati trattenuti e usati in modo legale. Ma la parte restante? Il garante ritiene che gli sforzi di Europol di rispondere alle sue osservazioni del 2019 non siano stati sufficienti e, nel settembre 2020, avvia quindi una procedura formale di ammonimento, chiedendo di trovare una soluzione in tempi rapidi. Al cuore delle preoccupazioni dell’Edps c’è il fatto che “i titolari dei dati rischiano di essere ingiustamente collegati ad attività criminali all’interno dell’Ue, il che può danneggiare potenzialmente la loro vita personale e famigliare, la libertà di movimento e di impiego che questa garantisce”. Nasce qui un conflitto, registrato da una serie di documenti interni, ottenuti tramite richieste di accesso agli atti, che mostrano come Europol abbia cercato di prendere tempo, mentre il garante insisteva sul fatto che non avessero risolto la “violazione legale”. L’agenzia di polizia sembra così attendere l’approvazione del suo nuovo regolamento per ottenere una copertura di pratiche adottate per sei anni senza una vera base legale. Un conflitto che ha innervosito la Commissione europea, tanto da spingere Monique Pariat, direttrice generale per gli Affari interni, ad organizzare un incontro prenatalizio, a dicembre 2021. Fonti vicine all’incontro dicono che il garante sia stato invitato a “smorzare” ogni critica pubblica dell’operato di Europol. Il garante, Wojciech Wiewiórowski, ha detto a Domani che l’incontro di dicembre è stato “l’ultimo momento per Europol per aggiungere alcune informazioni che non erano state aggiunte nelle ultime risposte alla nostra lettera”. L’incontro però non ha offerto risposte alle inquietudini di Wiewiórowski sulla legalità della registrazione dei dati, quindi, ha proseguito, “non c’era altro modo di risolvere il problema: dovevamo adottare una decisione di cancellare tutti quei dati trattenuti da più di sei mesi”. Per Niovi Vavoula, ricercatrice alla Queen Mary University di Londra, “la nuova legislazione è un modo di prendersi gioco del sistema: Europol e la Commissione hanno cercato ex-post di rettificare il fatto di aver detenuto questi dati per anni, illegalmente”. Ma la legge, spiega, “non funziona così, non puoi cambiare le norme per riparare passate condotte illegali”. Le preoccupazioni degli esperti non si limitano però alla durata del trattenimento dei dati personali. Europol, dicono, mira alla sorveglianza di massa. Nel giugno 2021, durante un dibattito interno della Commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento Ue, alcuni eurodeputati hanno paragonato Europol alla Nsa. A sorpresa, Wiewiórowski ha sottoscritto il paragone, spiegando come Europol usi argomenti simili a quelli usati dall’agenzia Usa per difendere quelle operazioni di raccolta di dati e di sorveglianza rivelate da Snowden. “Dopo lo scandalo Prism - dice Wiewiórowski ai deputati riferendosi al programma di sorveglianza statunitense - la Nsa disse che non stavano processando dati ma solo raccogliendoli, e che li avrebbero usati solo se neccessari per delle inchieste”. Un approccio che, per il garante, “non risponde alle norme europee sulla gestione dei dati personali”. Eric Topfer, un esperto di sorveglianza del German Institute for Human Rights, sostiene che con il nuovo regolamento, la cui approvazione avverrà nei prossimi mesi, l’agenzia potrà ottenere dati personali da banche, compagnie aeree, società private e servizi di email. “Se Europol dovrà solo chiedere alcune tipologie di informazioni per averle servite su un piatto d’argento, questo significa che ci stiamo avvicinando al modello della Nsa” spiega. Vent’anni di Guantanamo, la prova del fallimento della crociata contro il terrorismo di Domenico Quirico La Stampa, 10 gennaio 2022 Il campo di prigionia americano veniva aperto a Cuba l’11 gennaio 2002, su quei 114 chilometri quadrati la più grande potenza del mondo ha creato un mostro. Ho conosciuto un prigioniero di Guantanamo. Otto anni aveva passato laggiù, otto anni. Era nel contingente dei primi arrivati, “i peggiori dei peggiori” come li insolentì il segretario alla difesa americano Rumsfeld. L’undici gennaio 2002 fu l’inizio, anche lui incatenato nella stiva di un aereo decollato dall’Afghanistan appena ripulito da Al Qaeda e taleban, sedici ore di volo da Kandahar, davanti agli occhi una maschera da fonditore e alla bocca una museruola come quella dei cani. “Adesso sei proprietà dei marines degli Stati Uniti” gli dissero i guardiani: poi la tuta arancione, la gabbia, il campo “X Ray”, che adesso non esiste più, è solo una distesa abbandonata di erbe alte e di lamiere arrugginite che friggono nel caldo tropicale. Ho incontrato Adel Ben Mabrouk nella sua città, Tunisi, da uomo libero. Lo aveva fatto uscire da Guantanamo Obama; frustrante, patetico, fallito tentativo di chiudere il lager di Bush di quel presidente velleitario, sempre incompiuto. Doveva essere trasferito nel suo Paese di origine: offriva con piacere le indigene galere per continuare Guantanamo Ben Ali, autocrate modernista e implacabile nemico dei jihadisti. Ma il destino non aveva smesso di rimescolare con i suoi gesti da cieco. Quando era sbarcato a Tunisi non c’era più nulla: Ben Ali la gendarmeria i giudici le prigioni. Tutto evaporato. C’era invece la rivoluzione. Dall’aeroporto aveva raggiunto casa sua, tranquillo come un lavoratore che ha finito il suo turno e si prepara a iniziarne un altro. Nulla era rimasto indietro che non fosse compiuto. Aveva sciolto il suo passato. Aspettava le ore della preghiera seduto davanti al portone, guardando i venditori di verdura e cianfrusaglie immobili agli angoli di quel quartiere di sommessa povertà, senza grida, senza gesti, goffamente abbarbicati ai marciapiedi. Il suo volto era tagliente, solo linee, respiro e occhi. Le donne passavano davanti a lui e con gesto automatico di rispetto stringevano il velo abbassando gli occhi, gli uomini e i ragazzi si inchinavano, un segno di ammirazione per l’eroe, l’invitto di Guantanamo. Volevo parlare di Bin Laden, dell’operazione Geronimo, del capo di Al Qaeda ucciso dai soldati americani, il corpo gettato in mare come un volgare rifiuto per non creare un luogo di pellegrinaggio. Perché aveva fatto parte della guardia personale dello sceicco Osama, gli aveva parlato, aveva combattuto al suo fianco, aveva giurato di morire con lui nei giorni ardenti e feroci di Tora Bora. Prima che i pachistani lo tradissero “vendendolo agli americani per denaro”, e salpasse verso quel lungo naufragio di Guantanamo. I suoi occhi brillavano a quella parola. Si poteva guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai. Del resto, per quanto riguarda l’essenziale, l’uomo è ciò che nasconde. Guantanamo... che parola! La più misteriosa parola del mondo: il tramonto della civiltà occidentale, il vergognoso, informe crepuscolo degli dei americani, i tribunali di eccezione del Patriot Act con arresti abusivi, mancanza di prove, confessioni strappate sotto tortura, invenzioni giuridiche per aggirare la convenzione di Ginevra e le garanzie della costituzione americana, le bandiere scolorite dei diritti dell’uomo, la marea montante del fango. Tutto questo è ancora oggi, dopo venti anni, Guantanamo, “la sconfitta quotidiana” come ben la definiva Biden quando era vice presidente. Ma che da presidente neppure lui ha ordinato di chiudere. Troppo pericoloso per il vinto di Kabul. Lo strumento della vendetta si è avviluppata attorno ai vincitori e li lega per sempre. Accettò di parlare di tutto, il “waterboarding”‘, la ripetitiva tortura dell’acqua che avete visto in mille film, il ricorso al rumore per impedire che i prigionieri dormissero, la alimentazione forzata per annullare gli scioperi della fame con tubi infilati nell’ano e la bocca sigillata per impedire di vomitare, gli interrogatori duri. “Ma non ti dirò nulla dello sceicco Obama... “, avvertì subito. Poi ho capito perché: non ce n’era bisogno. Guantanamo era già, in sé, la perfetta, implacabile descrizione della vittoria del miliardario del terrore. Con cinque taglierini, il costo di due posti al cinema, aveva spinto Bush a volere quello che lui voleva, a precipitarsi nel non diritto. In quei 117 chilometri quadrati dell’isola di Cuba, avanzo dal 1898 di una delle prime manifestazioni dell’imperialismo americano, la guerra contro la Spagna, c’era la catena di cui la più grande potenza del mondo non riusciva più a liberarsi. Bin Laden aveva fatto cadere il suo nemico nell’errore di creare un mostro. Sì. Guantanamo è un mostro americano. Non perché ha messo in prigione degli innocenti. Gli ottocento che vi sono stati rinchiusi erano jihadisti, assassini, molti ideatori e esecutori di attentati sanguinosi, volevano purificare il mondo uccidendo gli uomini. La mostruosità, il peccato originale di Guantanamo e della guerra al terrorismo, è nel fatto che una democrazia non ha saputo trovare una forma di giustizia per punirli senza a sua volta commettere ingiustizie. Senza diventare come loro. Guantanamo, purtroppo, non è un anniversario. È la fotografia della nostra sconfitta come Occidente, nel suo essere ancora lì, intangibile, forse eterna, con i suoi 400 milioni di dollari l’anno di costo per una quarantina di detenuti rimasti, i suoi cartelli surreali che invitano a non dar da mangiare alle iguane, le tavole dei pesci rari, i percorsi natura che nessuno può utilizzare perché tutto è vietato, con una nuova scuola per i figli del personale appena inaugurata e impianti per ridurre le spese di elettricità e acqua potabile costati decine di milioni di dollari. Il processo a tre attentatori dei massacri di Bali e Giakarta del 2003 che provocarono 215 morti va avanti stancamente, quasi con imbarazzo, il rito degli avvocati che incontrano clienti incatenati alle sedie, i volti nascosti, l’obbligo di non descrivere i luoghi. Sono rimasti alcuni detenuti “di alto valore”, li chiamano così: come il pachistano Khaled Mohammed detto “KSM”, uno dei cervelli dell’undici settembre; o il saudita Rahim al Nashiri, uno degli attentatori della “Uss Cole” nel 2000. E poi i “detenuti illimitati”, troppo pericolosi per essere liberati ma i cui processi sono appesi a confessioni ottenute con la tortura. Come si fa, come i gatti, a cancellare le tracce, a ricoprire di sabbia la sporcizia prodotta? Guantanamo è la prova del fallimento della crociata contro il terrorismo. Poco tempo dopo il nostro incontro Adel è partito per la Siria, Al Qaeda chiamava di nuovo a raccolta i suoi. È morto fulminato da un cecchino vicino a Idlib. Anche lui faceva della guerra una igiene esistenziale, era certo che la vicinanza con la morte sul campo di battaglia desse un senso alla vita. Rischiare la propria vita per un dio totalitario significava acquisire un’anima. quando è uscito da Guantanamo era un morto vivente pronto a trasformare in morte tutto ciò che toccava. La morte l’aveva contaminato e lui a sua volta contaminava la morte. Dopo venti anni dall’arrivo dei primi prigionieri nella base navale a Cuba gli americani hanno mangiato la polvere in Afghanistan. Uno dei detenuti afgani, Abdul Zakir, è ministro nel governo dell’Emirato islamico, altri sei sono tra i capi talebani di nuovo al potere. Non si contano tra i liberati quelli che combattono nelle finte “guerre al terrorismo” lanciate dai politici occidentali in combutta con i venditori di armi o per sostenere vecchi e nuovi complici. Non ci sono pentiti. La domanda ahimè senza risposta di Guantanamo ruota attorno a quello che deve essere il fondamento di ogni impresa umana: dove è la giustizia in tutto questo? Così quella guerra continua. È appena cominciata. Per noi tutto sta finendo, per loro tutto comincia. Aveva ragione Bush quando qualche giorno dopo l’11 settembre annunciava agli americani: “Questa crociata prenderà un po’ di tempo”. Stati Uniti. Guantanamo, a 20 anni dall’apertura rimane imprigionato nelle promesse di Elena Molinari Avvenire, 10 gennaio 2022 Il campo a Cuba resta attivo con ancora 39 uomini rinchiusi in un universo separato, fuori dalla portata del diritto federale o internazionale. Trump l’ha mantenuto e Biden non parla più di chiusura. L’11 gennaio 2002 i primi prigionieri della guerra al terrorismo sbarcarono a Guantanamo, un angolo nel sud di Cuba che gli americani avevano strappato all’isola oltre cent’anni prima in cambio dell’aiuto a liberarsi dagli spagnoli. Da allora quasi 800 detenuti sono passati per le celle del famigerato Camp X Ray, molti dei quali non sono mai stati formalmente accusati di un crimine o processati. Vent’anni dopo, il centro resta una macchia nella storia degli Stati Uniti e nella loro immagine di difensori dei diritti umani, con ancora 39 uomini rinchiusi in un universo separato, fuori dalla portata del diritto federale o internazionale. Del resto l’obiettivo di George W. Bush, quando aprì un campo di prigionia all’interno della base americana, era proprio di sottrarre la protezione delle convenzioni di Ginevra per rinchiudervi i “combattenti nemici illegali” catturati in Afghanistan e in Pakistan - uno status non contemplato nel lessico del diritto umanitario che l’Amministrazione repubblicana aveva coniato per i sospetti terroristi dopo gli attacchi dell’11 settembre. Anche la definizione di al-Qaeda come il nemico nella “guerra al terrore” globale dava all’Amministrazione Bush il diritto di trattare i suoi membri come prigionieri di guerra, piuttosto che criminali. Subito dopo il crollo delle Torri gemelle, infatti, la Casa Bianca cercò modi per mostrare al popolo americano che stava facendo tutto il possibile per consegnare i responsabili della strage alla giustizia. E, con l’azione militare in Afghanistan avviata il 7 ottobre 2001, lanciò la caccia ai possibili responsabili del più mortale attacco terrorista sul loro suolo. Come per le altre cosiddette politiche di “guerra al terrore”, inclusi gli “interrogatori rafforzati”, gli avvocati dell’Amministrazione (come il consigliere della Casa Bianca Alberto Gonzales) si misero al lavoro per trovare giustificazioni legali ad azioni contrarie ai valori americani, come la tortura e la detenzione senza processo. Nel frattempo, il Dipartimento di Stato cominciò a cercare un luogo adatto dove rinchiudere i sospetti che, anche quando non erano cittadini statunitensi, godevano di diritti costituzionali Usa quando si trovavano sul suolo americano. Nelle basi Usa in Iraq e Afghanistan venivano allestiti diversi “siti neri”, incluse la base aerea di Bagram a nord di Kabul e la famigerata prigione irachena di Abu Ghraib, dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a interrogatori con metodi disumani, tra cui il waterboarding e la privazione del sonno. Per i processi e la detenzione di lungo termine venendo considerate le basi militari Usa in tutto il mondo, ma molte presentavano svantaggi. Le basi in Europa sarebbero state soggette alle critiche della stampa locale e all’avversione dell’opinione pubblica; le posizioni nel mondo arabo sarebbero politicamente sensibili, considerando che coloro che i futuri carcerati sarebbero stati prevalentemente arabi. Guantanamo era offshore, e quindi soddisfaceva i requisiti di un “buco nero legale”, era isolata, e era già servita come centro di detenzione, quando George H.W. Bush vi aveva raccolto i rifugiati haitiani. Dopo 20 anni di critiche internazionali e denunce di molti gruppi umanitari su ciò che avveniva a Camp Delta, Guantanamo resta aperta, nonostante un presidente Usa, Barack Obama, nel 2009 ne avesse ordinato la chiusura. Incapace di superare le resistenze di molti Paesi d’origine dei carcerati e dello stesso Congresso, Obama ha fallito nel suo intento. Nel 2011 ha però istituito una commissione incaricata di riesaminare periodicamente i casi dei prigionieri, che ha ridotto la popolazione del centro da 245 a 41. Donald Trump invece ha emesso un ordine esecutivo per tenere aperta Guantanamo a tempo indeterminato. Joe Biden durante la campagna elettorale ha ribadito la promessa di Obama, ma a quasi un anno dall’avvio della sua presidenza, sta progettando di costruire una nuova aula di tribunale a Guantanamo Bay. Un passo che segnala l’interesse ad aprire o continuare i processi degli ultimi detenuti, ma che fa anche capire che la chiusura di Guantanamo, per ora, non è all’orizzonte. Turchia, si alza il velo sugli orrori di Erdogan di Antonio Ferrari Corriere della Sera, 10 gennaio 2022 La denuncia della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Il Paese trasformato in un carcere-lager, dove si moltiplicano i suicidi. La ferocia e le bugie del dittatore-sultano. Avevo spento la luce e mi ero imposto di tacere sulle mille porcherie che conosco, e di cui vengo costantemente informato, nella Turchia del dittatore-presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan. Era diventata quasi un’ossessione. Ma ora non posso più tacere. Le notizie e i video che tanti coraggiosi turchi mi mandano sono davvero mostruosi. Il Paese che amo da sempre è diventato una gigantesca e feroce prigione, preambolo di morte altamente probabile. Chi finisce in carcere, oltre a violenze di ogni genere, è spinto a suicidarsi. Sono centinaia gli arrestati che hanno avuto la forza di gridare la verità e che vanno a moltiplicare il numero di coloro che preferiscono togliersi la vita, impiccandosi, piuttosto che sottostare all’infamia della spietata dittatura. Non parlo dei fatti che ho denunciato per anni. Non parlo della vendita o svendita di terre turche per arricchire l’unico padrone e i suoi accoliti. Non parlo della telefonata di Erdogan al figlio, chiedendogli di far sparire oltre 20 milioni di dollari, frutto di traffici illeciti. Non parlo del ridicolo PHD all’Università di Bologna del figlio (oggetto di un’inchiesta giudiziaria), iscrittosi solo per poter raggiungere in fretta la Svizzera e depositare il malloppo. Non parlo dei soldi pagati ad Ankara dall’Unione europea per evitare un’invasione di profughi. Non parlo di ciò che Ankara fa nel Kurdistan contro l’Intrepida minoranza curda. Non parlo di una politica estera dissoluta. Silenzio imbarazzato su tutto. Eppure ho sempre creduto nel giornalismo vero, composto di cronaca, buona scrittura e capacità di analisi e di visione. Però credetemi. Mai avrei immaginato la catena degli orrori che mi raccontano e mi documentano. Amici magistrati, riusciti a sfuggire agli arresti, fuggono per salvarsi. Il 16 marzo di quest’anno la “Questione Giustizia” in Turchia è stata denunciata dalla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite. Pensate che nel 2020 ben 283.000 persone erano state arrestate, per ordine di Erdogan, perché accusate di terrorismo. E pensate che all’inizio del 2021 il numero era salito a 597.783. Un lager mostruoso. Lo dico con il cuore a pezzi perché avevo creduto, all’inizio, al riformismo di Erdogan. Quando era sindaco di Istanbul e persino quando era riuscito a diventare primo ministro. Era stata un’illusione. Ho conosciuto bene il dittatore-sultano, l’ho intervistato quattro volte, oltre ad averlo ascoltato e aver discusso animatamente con lui durante alcune conferenze-stampa a Istanbul e ad Ankara. Alcune decisioni, appena eletto presidente, mi hanno sconcertato, altre mi hanno sconvolto. La porcheria che il sultano aveva inventato la notte del presunto colpo di Stato, porcheria che aveva fatto rabbrividire il mondo, era davvero troppo. Ero riuscito a scoprire, con alcune importanti telefonate, e non dal mio super controllato cellulare, che Erdogan era in vacanza. Non era in volo, chiedendo asilo politico si leader di tutta Europa. Non sarebbe tornato ad Ankara ma a Istanbul la mattina dopo, sperando che avrebbero vinto gli allocchi creduloni. Ho giocato allora, alla vigilia del mio 70mo compleanno, tutte le carte della mia credibilità. Che mai avrei sacrificata per uno scoop improbabile. Il giorno dopo ero diventato, sempre improbabilmente, un genio. Da quel momento Erdogan nella mia mente si è quasi trasformato in un criminale. Oggi eliminerei il quasi. Ogni porcheria in Turchia è possibile. E anche l’Europa, che gli vende armi dovrebbe vergognarsi. A questo proposito Giorgio Gaber cantava “Mi fa male il mondo”. Quanto è vero e quanto mi manchi, caro amico Giorgio. Afghanistan, la fine delle bambine: figlie cedute in cambio di cibo di Marta Serafini Corriere della Sera, 10 gennaio 2022 In un Paese dove la metà della popolazione è così povera da non avere i beni di prima necessità, le famiglie le vendono per matrimoni. In cambio di cibo. Storia di Benazir e delle sue sorelle, cedute per 2 mila dollari. Il prezzo medio per una sposa bambina Schiva, con lunghe ciocche di capelli color ruggine tinti con l’henné, Benazir, accoccolata sul ciglio della strada, stringe nel palmo della mano una manciata di ghiaia. Quando le viene chiesto se sa di essere stata promessa in sposa, guarda a terra e affonda la testa tra le ginocchia. Nessuno ha spiegato a Benazir cosa le accadrà. “È troppo giovane per capire”, spiega alla Nbc suo padre, venditore ambulante di Shaidai, un villaggio nel deserto, ai margini delle montagne di Herat, nell’Afghanistan occidentale. Benazir ha 8 anni. Ed è stata venduta per duemila dollari. Il prezzo medio per una sposa bambina in Afghanistan. Parwana Malik ha nove anni. L’uomo che l’ha comprata racconta alla Cnn di avere 55 anni, ma per Parwana è solo “un vecchio” che la picchierà e la costringerà a lavorare nella sua casa. I suoi genitori affermano di non avere avuto scelta: vivevano in un campo di sfollati nella provincia nordoccidentale di Badghis, sfamandosi solo grazie agli aiuti umanitari e a lavori umili con una paga da pochi dollari al giorno. “Siamo in otto. Devo vendere mia figlia per mantenere in vita gli altri membri della famiglia”, racconta Abdul, padre della bambina. Parwana ha sperato fino all’ultimo di far cambiare idea ai suoi genitori: sognava di studiare per diventare insegnante. Poi il 24 ottobre, quel “vecchio”, di nome Qorban, è arrivato a casa sua e ha consegnato pecore, terra e contanti al padre di Parwana per un valore di 200 mila afghani, l’equivalente di 2.200 dollari. “Era a buon mercato e suo padre è molto povero e ha bisogno di soldi”, ha dichiarato Qorban. Magul, un’altra bambina di 10 anni della provincia di Ghor, piange ogni giorno al pensiero di essere venduta a un uomo di 70 anni. I suoi genitori hanno preso in prestito 200 mila afghani da un abitante del loro villaggio, ma senza un lavoro non possono saldare il debito. Il creditore ha trascinato il padre di Magul, Ibrahim, in una prigione talebana, minacciando di farlo incarcerare. “Non so cosa fare”, si dispera Ibrahim. “Anche se non gli do le mie figlie, le prenderà”. “Davvero non lo voglio. Se mi fanno andare, mi uccido”, singhiozza Magul, seduta sul pavimento della sua casa. “Non voglio lasciare i miei genitori”. Il commercio comincia quando sono ancora in fasce - “Abbiamo ricevuto rapporti credibili di famiglie che offrono figlie di appena 20 giorni per un futuro matrimonio in cambio di una dote”. Le parole di Henrietta Fore, direttore generale dell’Unicef, pesano come pietre. Matrimoni infantili, matrimoni forzati e spose bambine. Il fenomeno non è certo nuovo in Afghanistan. “Anche prima della recente instabilità politica, i partner dell’Unicef avevano registrato 183 matrimoni di bambini e 10 casi di vendita di bambine nel corso del 2018 e del 2019 solo nelle province di Herat e Baghdis. Le bambine avevano un’età compresa tra i 6 mesi e i 17 anni”, ha spiegato ancora Fore. Cifre dietro le quali si nasconde un fenomeno ben più esteso. Nonostante la legge afghana vieti di sposare minori sotto i 15 anni (ben al di sotto dello standard di 18 raccomandato a livello internazionale), il commercio è ampiamente praticato dalle famiglie. Unicef stima che il 28% delle donne afghane tra i 15 e i 49 anni si siano sposate prima dei 18 anni. La ong e il “badalè”, matrimonio basato sullo scambio - “Le nozze forzate in Afghanistan possono assumere forme diverse”, spiega a 7 il program manager di Hawca, ong afghana che collabora con l’italiana Cospe, e che chiede di restare anonimo per motivi di sicurezza. “Nella cultura pashtun il badalè un matrimonio basato sullo scambio, in cui due famiglie si mettono d’accordo per dare in sposa una figlia a un uomo dell’altro gruppo, appianando così i costi della dote. Il baad è invece un matrimonio compensatorio, nel senso che una donna di una famiglia viene data all’altra per riparare un torto subìto da questa seconda famiglia. Il baad teoricamente è vietato dalla legge, ma non si ha notizia di persone denunciate o di processi istruiti per questa pratica. In una società fortemente dominata dagli uomini, una cosa sono le leggi scritte, un’altra le consuetudini che ostacolano l’applicazione della legge. E ora che i talebani sono tornati al potere, nessuno si azzarda a denunciare queste unioni”. Agli inizi di dicembre, i talebani hanno emesso un “decreto speciale” col quale si vietano i matrimoni precoci e si afferma che “nessuno può costringere una donna a sposarsi con la coercizione o la pressione”. Tuttavia sono in pochi a credere che le cose cambieranno. “I talebani stanno fingendo di essere più liberali e rispettosi dei diritti delle donne per avere il riconoscimento internazionale e ottenere così lo sblocco dei fondi”, spiega il dottor Bahar Jalali, ex professore all’Università americana dell’Afghanistan. “Ma non sono sinceri. È solo uno stratagemma per cercare di apparire più moderati”. A peggiorare la situazione, come avvertono anche le Nazioni Unite, è “il divieto alle donne di svolgere la maggior parte dei lavori retribuiti. Un provvedimento che ha colpito proprio le famiglie dove le donne erano le colonne portanti. Anche nei settori in cui le donne possono ancora lavorare, come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, molte hanno deciso di lasciare per paura di rappresaglie”. Ma non solo. Il Covid-19, l’attuale crisi alimentare e l’inizio dell’inverno hanno ulteriormente acuito la situazione per le famiglie afghane. Già nel 2020, quasi la metà della popolazione era così povera da non avere beni di prima necessità come l’alimentazione di base o l’acqua pulita. Tutto ciò, affermano da Unicef, “sta spingendo sempre più famiglie nella povertà e le costringe a fare scelte disperate, come far lavorare i bambini e far sposare le ragazze in giovane età”. Ora secondo i dati dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, più di 18 milioni di afghani non sono in grado di nutrirsi ogni giorno. Questo numero è salito a quasi 23 milioni alla fine del 2021. E, a causa della fame, donne e bambini stanno diventando merce di scambio. Tra i casi peggiori restituiti dalle cronache locali c’è la vendita di una bambina di 6 anni e di un piccolo di 18 mesi, dati via rispettivamente per 3.350 dollari e 2.800 dollari. “Le ragazze afghane stanno di fatto diventando il prezzo da pagare per il cibo”, spiega l’attivista per i diritti delle donne afghane Mahbouba Seraj. “Senza la loro vendita, le famiglie morirebbero di fame”. “Tutte le cose che finiscono con il dolore” - A portare all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dei matrimoni infantili in Afghanistan è stata nel 2016 Zahra Yaganh. Trentanove anni, divorziata, due figli, e oggi passata in Maryland grazie ad un ponte aereo, in quello che è diventato uno dei libri più venduti in Afghanistan Yaganah ha raccontato la sua vita. Una straziante oppressione di cui, secondo lei, soffrono quasi tutte le donne. In Light of Ashes, scrive: “Odiavo il matrimonio, la prima notte di nozze, il concetto di marito e moglie e tutte le cose che finivano con il dolore. L’odio era un vestito che si adattava perfettamente al mio corpo. Di notte, quando fummo in camera da letto, senza alcuno scambio di parole tra di noi, mi trovai Sultan al mio fianco. Subito dopo un forte dolore trafisse il mio corpo. Non riuscivo a ricordare nulla dopo. Quando ho aperto gli occhi, mi sono ritrovata in un letto d’ospedale”. Le questioni di salute gestite dalla suocera - Il matrimonio precoce ha conseguenze devastanti sulla salute di una ragazza per via degli abusi fisici e sessuali ed equivale a una forma di schiavitù moderna. Quelli combinati intrappolano le donne in un ciclo di povertà. Molte sono troppo giovani per essere in grado di acconsentire al sesso e affrontano complicazioni durante il parto a causa dei loro corpi non sviluppati. I tassi di mortalità legati alla gravidanza per le ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni sono più del doppio del tasso per le donne di età compresa tra i 20 e i 24. “Per molte di loro il problema è anche la scarsa conoscenza del loro corpo. Le questioni di salute femminile vengono gestite all’interno delle famiglie dalla suocera”, racconta Eleonora Selmi, ostetrica di Medici Senza Frontiere che ha lavorato in Afghanistan. Il risultato è che, senza accesso alla contraccezione o ai servizi di salute riproduttiva, quasi il 10 per cento delle ragazze afghane di età compresa tra 15 e 19 anni ha già avuto un figlio, secondo i dati delle Nazioni Unite. “Ed ecco perché è particolarmente importante che le giovani abbiano accesso a buone strutture sanitarie, dove possano essere seguite da un’ostetrica”. A complicare il quadro, la credenza che la prima mestruazione renda una ragazzina pronta per avere rapporti sessuali o per essere madre. “In realtà, soprattutto dove l’età del primo ciclo è molto bassa, come in Afghanistan, questo non dovrebbe essere assolutamente un parametro ma purtroppo lo diventa”, conclude Selmi. A favorire i matrimoni infantili, il sempre più difficile accesso delle giovani afghane all’istruzione. Secondo Girls not Brides, un’organizzazione focalizzata sulla fine dei matrimoni precoci, le ragazze senza istruzione hanno tre volte più probabilità di sposarsi entro i 18 anni rispetto a quelle con un’istruzione secondaria o superiore. E, non a caso, il 60 per cento delle donne afghane di età compresa tra 20 e 24 anni senza istruzione si è sposata prima dei 18 anni. L’Etiopia è in bilico tra colloqui di pace e progetti di guerra di Mario Giro Il Domani, 10 gennaio 2022 Il conflitto potrebbe incistarsi diventando una guerra di attrito. Gli Usa stanno facendo tutto il possibile per far iniziare la trattativa di pace. Gli altri attori regionali o globali stanno invece decidendo con chi schierarsi. Le precondizioni di entrambe le parti per iniziare a trattare sono ancora molto distanti. Il conflitto ha assunto per ciò stesso un aspetto da guerra totale che non risparmia i civili e funziona col sistema della terra bruciata. Ecco perché la spinta al negoziato dovrebbe vedere anche l’Italia e l’Europa in prima fila. I tentativi di dialogo tra Etiopia e Tigrai falliscono prima ancora di cominciare a causa dei bombardamenti di Addis sul campo profughi di Dedebit a pochi chilometri da Sciré. L’occasione era la tregua de facto dei combattimenti e la decisione di ritiro delle forze del Tigray Defense Forces (TDF) dalle regioni di Afar e Amhara per concentrarsi nel proprio territorio. Pareva un buon momento per avviare esplorazioni in vista di una soluzione negoziata del conflitto. Jeffrey Feltman, l’inviato speciale americano, si è recato ad Addis nei giorni scorsi per discutere tali prospettive con le autorità di Addis. In quell’occasione il governo del premier Abyi Ahmed ha dichiarato che “non intende proseguire l’offensiva nel Tigrai”: un’apertura che è sembrata di buon auspicio. Ora i recenti bombardamenti paiono smentire tale impegno. La spinta diplomatica è giunta anche grazie alla lettera che il leader del Tigray People’s Liberation Front (Tplf) Debretsion Gebremichael ha scritto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres il 19 dicembre scorso, annunciando il ritiro delle sue forze dalle regioni di Afar e Amhara. “Confidiamo che il nostro coraggioso atto di ritiro rappresenterà un’apertura decisiva per la pace”, ha scritto Debretsion chiedendo una “immediata cessazione delle ostilità” seguita da trattative. La situazione della crisi resta tuttavia molto complessa. Il governo etiope ha reagito affermando che si tratta solo di una “pausa” nelle operazioni militari. Addis ha anche criticato le fake news di massacri e genocidio che i tigrini avrebbero fatto lievitare in questi mesi, anche se le agenzie umanitarie sono unanimi nel denunciare tali atti sia da una parte che dall’altra. Nonostante l’affaticamento militare di entrambe le parti dovuto alle pesanti perdite subite, l’inizio di colloqui rimane per ora un’ipotesi lontana. Lo stesso ritiro del Tdf, causato dall’attacco dei droni di Addis dopo che i tigrini erano ormai giunti a 200 km dalla capitale, potrebbe determinare l’incistarsi del conflitto, mediante il trincerarsi dei due fronti e l’inizio di una guerra di attrito (che pare essere già in atto tra tigrini e amhara) o di un congelamento dello scontro. Gli Stati Uniti stanno facendo tutto il possibile per avviare il negoziato, debolmente sostenuti dall’Europa, mentre le altre potenze (globali o regionali) interessate alla vicenda stanno soltanto valutando da che parte schierarsi in base ai rispettivi interessi. La questione della diga Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) ha sicuramente avvicinato l’Egitto al Tdf così come la disputa frontaliera tra Sudan e Etiopia a proposito dell’area di al Fashaga. Nell’anno di guerra fin qui trascorso non è parso che il governo di Addis abbia in qualche modo modificato la sua posizione inflessibile. Inoltre le sanzioni Usa, e cioè l’esclusione dalle facilitazioni commerciali dell’African Growth and Opportunity Act, non facilitano le buone disposizioni etiopiche nei confronti della pressione americana. Già quest’estate il premier etiopico si era rifiutato di incontrare la direttrice dell’Usaid Samantha Power, una delle personalità più in vista dell’amministrazione Biden. Nei media etiopici si continua a criticare Washington per il fatto di non considerare il Tplf come un gruppo terroristico. Anche i tigrini non sembrano ancora pronti a sedersi al tavolo e cercano di giungerci in posizione di forza, come da reali interlocutori. Il Tplf vuole un riconoscimento politico che Addis non è per ora disposta a concedere trattandoli da ribelli. L’alleanza etiopico-eritrea della prima fase del conflitto ha reso i tigrini estremamente diffidenti: credono di essere di fronte ad una minaccia esistenziale ed è altamente improbabile che accettino di ridimensionarsi. L’intervento delle forze armate eritree nei primi mesi di guerra rimane una ferita profonda. Accanto alle prime timide offerte di cessazione momentanea dei combattimenti, i falchi di entrambi i lati hanno affermato di essere pronti a una lotta ad oltranza. Nella sua lettera all’ONU, Debretsion dichiara orgogliosamente che le Tdf sono “intatte e imbattute sul terreno” e chiede come precondizione sui futuri colloqui il ritiro delle forze etiopiche, eritree e amhara dalle zone del Tigrai che ancora occupano. Qui sta un dettaglio diabolico: non c’è consenso (né c’era prima della guerra) sulla frontiera interna tra Tigrai e Amhara. I tigrini considerano di loro pertinenza etnica il distretto di Welkait ed altre aree frontaliere con il Sudan, abitate in prevalenza da amhara. In questo anno di guerra hanno più volte cercato di attaccare l’area che va fino al confine del Sudan, anche per sbloccare l’isolamento a cui sono sottoposti. La forte resistenza delle milizie amhara ha fatto sì che, per scendere verso Addis, le Tdf siano dovute passare dall’altra parte, cioè l’Afar. Si tratta di vecchi contenziosi che avevano provocato molte polemiche nell’Etiopia federale, con il ridisegno dei confini interni da parte del governo Melles Zenawi, ritracciati in seguito dal governo Abiy Ahmed. Il Tplf chiede in aggiunta una no-fly zone anti-droni sul Tigrai che rappresenta l’unico reale vantaggio strategico di Addis su Maccallé. Infine una richiesta urgente è l’apertura di passaggi e ponti aerei umanitari per consegnare cibo e aiuti che mancano crudelmente al Tigrai fin dall’inizio della guerra. Durante il loro ritiro dalle zone previamente occupate in questi mesi, le Tdf hanno portato via tutto ciò che potevano: un bottino che è servito per rifarsi del saccheggio subito nei primi mesi guerra. Il conflitto ha assunto per ciò stesso un aspetto da guerra totale che non risparmia i civili e funziona col sistema della terra bruciata. Ecco perché la spinta al negoziato dovrebbe vedere anche l’Italia e l’Europa in prima fila.