Carceri, l’inferno infinito dietro le sbarre e quella riforma che non arriva di Gigi Di Fiore Il Mattino, 9 febbraio 2022 “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti”. Due righe appena, per denunciare uno dei grandi drammi nazionali: nel suo discorso sul giuramento, il presidente Sergio Mattarella non ha dimenticato le difficoltà del nostro sistema carcerario. Le dimissioni, pochi giorni fa, del responsabile del Dap, Dino Petralia, che lascerà in anticipo il primo marzo a pochi mesi dalla pensione, sono per il governo il nuovo problema da affrontare. Sovraffollamento, suicidi di detenuti, tensioni violente, strutture fatiscenti sono questioni aperte in un Paese che, anche sul suo sistema carcerario, si gioca la sua dignità, come ha evidenziato il capo dello Stato. I suicidi - Otto suicidi di detenuti nei primi 24 giorni dell’anno, uno ogni tre giorni: le condizioni carcerarie creano sofferenze, difficoltà, disagi. Ha commentato il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma: “Occorre un dialogo largo, per affrontare le difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuate nella pandemia”. I dati dei suicidi in carcere sono preoccupanti: 54 nel 2021, l’anno precedente erano stati 61. Il sovraffollamento genera tensioni, ma anche difficoltà a gestire gli spazi carcerari sempre più ristretti, complice anche la pandemia. Al primo febbraio, secondo i dati del Dap, i detenuti positivi al Covid erano 3859 con 46 nuovi contagi, in prevalenza asintomatici. Un picco mai raggiunto da inizio pandemia. Per 24 dei detenuti ammalati di Covid è stato necessario il ricovero in ospedale. Un’altra difficoltà di gestione, causa scatenante delle rivolte nel marzo 2020, legate alle restrizioni sui colloqui e le visite per l’esplosione della pandemia. Il sovraffollamento - Nelle carceri italiane sono 53.586 i detenuti attuali. Numeri alti, per un organico di polizia penitenziaria di 36.939 agenti, che vivono come i detenuti le difficoltà della pandemia. Sono al momento 1581 gli agenti positivi al Covid. Il sovraffollamento preoccupa, oltre al presidente Mattarella, anche la ministra Marta Cartabia che in Parlamento due settimane fa parlò di “primo e più grave tra tutti i problemi”. Con dati aggiornati sui posti regolamentari dichiarati nelle carceri. Secondo i dati del Ministero, a metà gennaio, erano ben 6911 i detenuti in più nelle carceri rispetto alla capienza possibile. “Un problema che rende più difficile il lavoro degli operatori, a partire da quello della polizia penitenziaria troppo spesso vittima di aggressioni”, ha denunciato la ministra Cartabia. Insomma, più detenuti rispetto ai posti regolari nelle carceri, con ripercussioni sulla sicurezza e i problemi ad assicurare i percorsi di recupero richiamati anche dal capo dello Stato. Senza contare le condizioni delle strutture carcerarie, che avrebbero bisogno di lavori di ristrutturazione e adeguamento. E troppi detenuti, insieme con le carceri inadeguate, moltiplicano le difficoltà di gestione e tensioni anche violente. Lo dimostra l’aumento di denunce negli ultimi mesi. Le denunce - Non solo l’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere con i rinvii a giudizio di poche settimane fa, per i pestaggi ai detenuti nel 2020. Indagini sui comportamenti degli agenti penitenziari e su presunte violenze in carcere sono aperte in più parti d’Italia. Da Opera a Palermo, da Torino a Melfi. E poi, Ferrara, Firenze, Viterbo, Lucerà, Pavia, Voghera, Ascoli, Modena. Le denunce nascono da segnalazioni di morti “anomale” denunciate come suicidi, casi di overdose, pestaggi. Solo l’associazione Antigone con le sue segnalazioni ha fatto aprire 17 inchieste. Il caso limite, con la prima condanna in primo grado a tre anni per il reato di tortura, si è verificato a Ferrara nel gennaio dello scorso anno, nei confronti di un agente. Era andato a giudizio, per aver agito “con crudeltà e violenza grave”. Casi limite, con i sindacati degli agenti penitenziari che segnalano, descrivendo episodi concreti, le difficili condizioni del loro lavoro, in un continuo clima di tensioni e pericoli. È il dramma carceri, alle prese con problemi che con la loro soluzione, ha detto con chiarezza il capo dello Stato, assicurano “la migliore garanzia di sicurezza”. Un invito a interventi rapidi, rivolto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Che dovrà cominciare dalla nomina a marzo del nuovo direttore del Dap. Incarico delicato, da coprire in tempi rapidi, evitando le polemiche del passato. Mauro Palma: “La sicurezza è un problema, ma non basta la detenzione” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 9 febbraio 2022 Fondatore dell’associazione Antigone, Mauro Palma è da cinque anni il Garante nazionale dei diritti dei detenuti. Presidente Palma, nel suo discorso di giuramento, il presidente Sergio Mattarella ha inserito il problema del sovraffollamento carcerario. Che ne pensa? “È stata la conferma della sensibilità del presidente Mattarella su questo tema. L’ultima parte della frase del capo dello Stato evidenzia che la sicurezza collettiva coincide con la tutela della dignità delle persone detenute”. Che significa, per la gestione delle carceri? “Non significa più agenti penitenziari, ma intervenire con politiche complessive sul sovraffollamento delle strutture che è la vera piaga”. Il sovraffollamento alla base di tutti i problemi carcerari? “Non a caso il capo dello Stato lo ha denunciato. Ostacola le attività di recupero del detenuto, obiettivo costituzionale della detenzione”. I numeri sono da allarme? “Li fornì pochi giorni fa, in Parlamento, la ministra Cartabia. Ma sono numeri in continua evoluzione. Mentre parliamo, dai miei collegamenti in Rete vedo 50.478 detenuti attuali. Ma la popolazione detenuta reale è di 53.586 persone, aggiungendovi chi è in permesso o in semilibertà”. Quanti sarebbero, invece, i posti regolari? “Sono 47.720, ma i numeri totali hanno poi drammaticità ulteriori in singole strutture e addirittura, in una stessa struttura, in singoli padiglioni”. Come mai? “L’assegnazione dei detenuti nei padiglioni segue criteri di classificazione sui reati, le recidive, la pericolosità, la condanna. Quindi, in un una stessa struttura carceraria, si possono avere padiglioni quasi vuoti e altri in sofferenza”. Può fare qualche esempio? “Prendiamo il carcere napoletano di Poggioreale. In questo momento, ha 2.258 detenuti con 1.571 posti dichiarati. Ma, esaminando reparto per reparto, vedo che uno ha 99 detenuti con 53 posti disponibili; un altro addirittura ha 99 presenti per 29 posti. E poi, il paradosso che segnalavo prima, abbiamo un reparto con 19 posti e 5 detenuti. Naturalmente, non posso dire di quali padiglioni si tratta per motivi di sicurezza”. Con la pandemia, il sovraffollamento ha creato nuove emergenze? “Attualmente, ci sono 3.318 detenuti positivi. Per fortuna, solo 43 i sintomatici. Sono immaginabili gli sforzi e i problemi nel gestire con la pandemia spazi ristretti e sovraffollati. Per fortuna, i contagi sono in regressione”. Come si risolve il sovraffollamento? “Non è questione solo di struttura vecchie, la gestione ha bisogno di impegni intersettoriali che coinvolgano non solo il Dap, ma i magistrati e o il territorio. Se chi potrebbe scontare la detenzione a casa non sa dove andare, questo è un problema sociale che riguarda organismi territoriali. Pensi che gli ergastolani: sono solo 1.817, poi c’è una popolazione carceraria che sconta pene sotto i tre anni di 6.806 persone. Addirittura 1.172, hanno condanne inferiori a un anno”. Come vanno letti questi dati? “Molti pensano che il problema della sicurezza si risolva chiudendo la gente in carcere. Dai numeri, si capisce che gran parte dei detenuti dovrà prima o poi uscire e che nei loro confronti c’è il dovere della rieducazione, difficile con condanne di pochi mesi in condizioni di sovraffollamento”. Anche per questo aumentano le tensioni in carcere? “Sì, gli agenti penitenziari fanno un lavoro difficile, in situazioni che spesso non possono gestire. Mi riferisco alle difficoltà psicologiche o sociali dei detenuti. Credo occorrano più operatori sociali che sono pochi, Pensi che solo da poco sono stati assunti una sessantina di nuovi mediatori culturali”. Sospese le attività trattamentali. È una doppia pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2022 La sospensione, per via del Covid-19, delle attività trattamentali in carcere, sta generando una doppia pena per i detenuti. Noi, che viviamo fuori, durante il lockdown ci siamo iper-connessi per sopravvivere e vincere la solitudine, mentre carcere la sospensione di tutte le attività significa trascorrere tutto il tempo in una cella, a volte sovraffollata, in scarsità di stimoli. Le attività trattamentali sospese, non servono solo per far passare il tempo. In realtà fanno parte del trattamento in funzione rieducativa, consentono ai detenuti di portare avanti percorsi scolastici, di guadagnare qualche soldo, e tutto questo in alcune carceri si è di nuovo fermato. C’è il caso dei detenuti del carcere di Cagliari - Uta denunciato Maria Grazia Caligaris dell’associazione di volontariato “Socialismo Diritti Riforme”. Da due settimane la sospensione delle attività trattamentali, le limitazioni imposte ai colloqui con i familiari e la riduzione degli operatori, dovute alla variante Omicron del Covid sta mettendo a dura prova le condizioni fisiche e psicologiche delle persone private della libertà della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Uomini e donne vivono in una condizione di solitudine e preoccupazione che si ripercuote sui familiari in ansia per i propri parenti. “Secondo i familiari che si sono rivolti all’associazione - rivela Caligaris - le condizioni dentro l’Istituto son ormai invivibili anche per l’alto livello di aggressività tra i detenuti. La paura di contrarre il virus infatti genera insofferenza e sembra favorire rapporti di tensione con incomprensioni e sospetti. La situazione appare delicata anche nella sezione femminile dove, nonostante i numeri contenuti, poco più di una decina di persone, sono ristrette alcune donne con problematiche legate a disturbi di carattere psichico o in doppia diagnosi per tossicodipendenze che mal sopportano l’isolamento e reagiscono negativamente a qualunque osservazione. Lo scarso numero di Agenti e di Funzionari giuridico-pedagogici limita anche l’accesso alle misure alternative”. L’esponente di Socialismo Diritti e Riforme, osserva che la preoccupazione dei familiari si estende alle misure più adeguate al distanziamento e all’igiene dell’ambiente e della persona. “Lamentano l’uso insufficiente di disinfettanti nelle poche aree comuni destinate ai detenuti che non hanno contratto il virus. Insomma sembra che si sia creato un clima di ansia generalizzata che non favorisce rapporti sereni tra i guariti e i non contagiati. I virus riguarda ancora un’ottantina di detenuti anche se l’incidenza senza stabile e/o il lieve flessione”, denuncia sempre Caligaris. “La pandemia e le restrizioni che sono derivate - ha detto Marco Porcu, Direttore della Casa Circondariale - hanno creato eventi devastanti nella vita delle persone, in carcere ciò è ovviamente tutto amplificato. La curva dei contagi ha iniziato a scendere e ieri c’erano 7 positivi in meno. In questi giorni mi aspetto un’ulteriore discesa e comunque confido di poter ripristinare al più presto tutte le attività”. Maria Grazia Caligarsi si auspica è un intervento del Ministero della giustizia per favorire un maggior ricorso alle pene alternative ampliando i termini della liberazione anticipata o una norma del Parlamento per un provvedimento emergenziale di amnistia. “Troppi problemi nel carcere ingigantiti dal Covid richiedono un’iniziativa straordinaria. È inutile far finta di non vedere”, conclude amaramente l’esponente di Socialismo Diritti e Riforme. Ed è proprio il sovraffollamento che continua a gravare. Per usare le parole della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il sovraffollamento è una condizione che “esaspera anche i rapporti tra detenuti e rende più gravoso il lavoro degli operatori penitenziari, a partire da quello della polizia penitenziaria, troppo spesso vittima di aggressioni. Sovraffollamento significa maggiore difficoltà a garantire la sicurezza e significa maggiore fatica a proporre attività che consentano alla pena di favorire percorsi di recupero”. Un po’ di numeri dall’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. Il tasso di sovraffollamento è oggi pari al 106,2%. Posto però che la stessa amministrazione penitenziaria riconosce formalmente che “il dato sulla capienza non tiene conto di eventuali situazioni transitorie che comportano scostamenti temporanei dal valore indicato” e che presumibilmente i reparti chiusi potrebbero riguardare circa 4mila posti ulteriori, il tasso effettivo, seppur non ufficiale di affollamento, va a raggiungere il 115%. Dunque per poter scendere fino al 98% della capienza ufficiale regolamentare, considerata in alcuni paesi la percentuale fisiologica di un sistema che deve sempre prevedere la disponibilità di un certo numero di posti liberi per eventuali improvvise ondate di arresti o esecuzioni, sarebbe necessario deflazionare il sistema di altre 4mila unità che diverrebbero 8mila alla luce dei reparti transitoriamente chiusi. E questo anche per non ritrovarsi impreparati quando accadono emergenze sanitarie come la pandemia. Le pessime condizioni di sovraffollamento, ma anche sanitarie e sociali, in cui vivono i detenuti non sono certo una realtà emersa pochi mesi fa a causa del coronavirus, ma il quadro che ci offre questo inizio di 2022 non è dei migliori, secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Per questo è importante prevedere misure urgenti per ridurre il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Bisogna fare in modo che ciò avvenga”, argomenta Gonnella, secondo il quale è importante accelerare sulla strada delle riforme. Prevedere ad esempio forme di esecuzione della pena diverse, alternative al carcere, soprattutto in riferimento alle pene detentive brevi, potrebbe dare sollievo alle strutture congestionate. Ogni detenuto costa circa 130 euro al giorno. In confronto, le misure alternative costano meno di un decimo e hanno un impatto ben più significativo nella lotta alla recidiva e negli obiettivi di recupero sociale dei condannati. In tutto questo giace ancora la proposta di liberazione anticipata speciale, promossa dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva. Così come si è in attesa di dare concretezza alla relazione elaborata dalla commissione Ruotolo e consegnata il 17 dicembre scorso. Una relazione dove sono stati elaborati suggerimenti puntuali per migliorare la quotidianità penitenziaria, partendo da una visione costituzionale della pena, incentrata sui principi di umanizzazione e di rieducazione, sul valore del libero sviluppo della personalità attorno al quale ruota l’intera trama della Carta repubblicana. Allo stesso modo, il lavoro della commissione si è orientato nella direzione della valorizzazione di previsioni già contenute nell’attuale normativa penitenziaria, concernenti, tra l’altro, la responsabilizzazione del recluso, l’essenziale progressione trattamentale e la necessità di un costante rapporto con la società esterna. La relazione ha spostato l’attenzione non solo verso le persone detenute, ma tutti coloro che operano in carcere, svolgendo ruoli delicatissimi, accomunati dall’obiettivo di accompagnare il singolo nel percorso di reinserimento sociale, garantendo l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti. Carceri sovraffollate? Ecco la ricetta di FdI: costruirne di più e rispedire indietro migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 febbraio 2022 Altro che misure deflattive. Fratelli d’Italia presenta un piano di nuova edilizia penitenziaria e propone di far scontare le pene ai detenuti migranti nei loro paesi di origine. “Sono poco avvezzi all’ordine, alla disciplina ed al rispetto della divisa”. Altro che misure deflattive. Per Fratelli d’Italia la soluzione al sovraffollamento carcerario è una soltanto: costruire più carceri. Come? Attraverso un piano di nuova edilizia penitenziaria. A cui si aggiunge un’altra proposta: far scontare ai detenuti immigrati le pene nei propri Paesi d’origine. Il tutto condito da considerazioni dal sapore “nostalgico”, per così dire. Perché di certo non si può trascurare che i detenuti magrebini sono “persone poco avvezze all’ordine, alla disciplina ed al rispetto della divisa”. Il rapporto presentato al Senato - “L’ascolto continuo è il nostro modo di agire senza rinunciare alle nostre posizioni”, spiega il capogruppo alla Camera di Fdi, Francesco Lollobrigida, intervenendo al convegno al Senato “Report carceri”, al quale hanno partecipato anche le più importanti sigle sindacali della Polizia penitenziaria. “La prima - aggiunge - è la certezza della pena, siamo contrari alle pene alternative che rappresentano una elusione delle stesse pene da scontare. Sul sovraffollamento riteniamo che vadano costruite nuove carceri così come va reclutato nuovo personale quando questo è carente. Abbiamo chiesto di elevare al 5 percento lo stanziamento del Pnrr sulla giustizia dall’1,5 per cento mala nostra richiesta è stata bocciata. Abbiamo presentato una risoluzione per caricare sugli Stati il costo dei detenuti stranieri detenuti in Italia che sono 20mila su un totale di 50mila e che hanno un costo giornaliero di 130 euro al giorno. Non siamo a favore di soluzioni minimali ma per interventi concreti che vadano ad incidere sul sistema carcerario italiano”. Il senatore di Fdi Patrizio La Pietra, estensore del “Report Toscana” sulle carceri, sottolinea come “la visita a tutti gli istituti penitenziari della Toscana aveva l’obiettivo di verificare le condizioni di lavoro di chi opera al suo interno, con particolare attenzione all’attività della polizia penitenziaria, visto che ci si concentra sempre e solo sulle condizioni del detenuto”. “Ci siamo confrontati con direttori e comandanti - dice - e il quadro che ne è emerso è purtroppo drammatico: condizioni di lavoro al limite della sicurezza, anche sanitaria”. Ma non è tutto. La Pietra aggiunge che “per i dati riscontrati in Toscana il problema principale non è il sovraffollamento delle strutture, bensì il numero di detenuti stranieri, che rappresenta circa il 65/70% del totale, di cui oltre la metà magrebini e sub sahariani, persone poco avvezze all’ordine, alla disciplina ed al rispetto della divisa”. Altro dato - ha prosegue La Pietra - sono i numeri del personale di polizia effettivo che insieme alla mancanza di ufficiali e sottufficiali crea una disomogeneità di ruoli non giustificabile e alla quale segue, inevitabilmente, una gestione della distribuzione dei ruoli schizofrenica e senza logica. Ovviamente anche lo stato di conservazione delle strutture e il loro stato di abbandono per anni di mancata manutenzione o per difetti strutturali di costruzione crea problematiche, in quanto comporta limiti per la socializzazione oltre che per la sicurezza. Da questi confronti abbiamo teorizzato dei suggerimenti, quali: la richiesta di body-web per garantire più sicurezza e le modifiche alla forma della libertà anticipata. E ancora, la fornitura di attrezzature, caschi, scudi e sfollagente, perché in quasi tutti gli istituti sono vecchi e non omologati, molti risalenti agli anni novanta e naturalmente in numero esiguo. Adesso non sono più sufficienti le pacche sulle spalle, occorrono azioni concrete. La sicurezza all’interno delle carceri è fondamentale, e solo la Polizia Penitenziaria può garantirla. Se non ci sono numeri adeguati del personale, strutture idonee e regole certe non si può nemmeno garantire la rieducazione dei detenuti”. Lo svuota-carceri (che non c’è) - Per il responsabile del dipartimento Giustizia di FdI, il deputato Andrea Delmastro, “le rivolte scoppiate nella pandemia sono state eterodirette dall’esterno con una evidente sincronia che ha portato allo svuota-carceri per mafiosi e post mafiosi messi agli arresti domiciliari. Le carceri andavano schermate ma la risposta è stata mettere sotto accusa gli agenti della Polizia Penitenziaria che hanno cercato di sedare le rivolte. Il fatto che il ministro Cartabia abbia incontrato, subito dopo la sua nomina a ministro, il garante dei detenuti e non i rappresentanti della Polizia Penitenziaria, la dice lunga sull’approccio di questo governo sul tema delle carceri. Sul sovraffollamento FdI è per un piano di nuova edilizia penitenziaria e per rispedire a casa nel proprio paese di origine chi ha commesso reati in Italia, in modo da porre finalmente rimedio a questa situazione in cui gli agenti non si stentano più abbandonati dallo Stato”. Sul tema delle risorse si è soffermato il responsabile del Dipartimento Forze dell’Ordine di FdI, Emanuele Prisco, per il quale “affinché siano garantite le condizioni del detenuto, servono le risorse da stanziare su chi garantisce il rispetto delle regole e i luoghi sul quale si scontano le pene. È necessario garantire la serenità, il che significa: stipendi adeguati, sicurezza sul lavoro ed uno Stato che tuteli. La decisione di dar vita alle Rems non ha fatto altro che aggiungere carichi di lavoro enorme alla polizia penitenziaria, senza garantire un rapporto detenuto - operatore 1 a 1. La Camera ha votato per uno sblocco delle assunzioni dopo che la follia del decreto Madia che aveva falcidiato il numero del personale, un aumento però, ancora non pervenuto”. “Le carenze nelle carceri non sono solo fra gli agenti della Polizia Penitenziaria - sottolinea l’avv. Edoardo Burelli, responsabile Giustizia di FdI in Toscana - ma anche nel personale amministrativo e sanitario, soprattutto psicologi. E questo aumenta il senso di abbandono fra gli agenti cui bisogna porre rimedio”. Per Daniela Caputo, dell’associazione funzionari della Polizia Penitenziaria, “è necessario creare un Dipartimento ad hoc dedicato alla Polizia penitenziaria per dare una risposta forte a livello formativo alle esigenze del corpo”. Secondo Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp “servono risorse, umane e strutturali per il Corpo della Polizia penitenziaria. Il mondo carcerario è lasciato in uno stato di abbandono, lo dimostrano anche le rivolte che ci sono state e successivamente alle quali non c’è stata nessuna commissione di indagine parlamentare”. Raffaele Pellegrino, segretario nazionale vicario del Sinappe, rileva che “di fatto in Italia non esiste una politica penitenziaria e le carceri sono solo dei contenitori in cui non si dovrebbe consentire la commistione dei detenuti con disagi psichiatrici con quelli ordinari e in cui gli agenti sono costretti a fare i front man quando invece ci dovrebbero essere altre figure professionali ad occuparsene”. Per Pasquale Salemme, segretario nazionale del Sappe, “la Polizia Penitenziaria è abbandonata dalle istituzioni e oggi il detenuto si sente più forte. Abbiamo bisogno che la politica ci restituisca dignità”. Per Francesco Lanza, responsabile area dirigenza dell’Uspp, “è necessario che a capo del Dap non venga messo un magistrato ma un dirigente dello stesso Dipartimento, a garanzia di competenza e di conoscenza del mondo penitenziario”. Nelle sue conclusioni il senatore Alberto Balboni, responsabile del Dipartimento Sicurezza, legalità e immigrazione di FdI, dice che “tre sono le criticità del mondo carcerario: quello relativo alle risorse umane e strumentali, servono 7.500 agenti in più senza contare il livello di età avanzato di molti poliziotti penitenziari che impone una immediata risposta quando invece questo governo destina l’80 percento delle risorse stanziate per il comparto Giustizia all’ufficio del processo. La seconda criticità sono le risorse strutturali, nel Pnrr sono previsti solo 8 nuovi padiglioni quando siamo di fronte ad un evidente sovraffollamento. La terza sono le regole, come si fa a mantenere la disciplina se chi la deve imporre ha perso ogni autorità? La politica a questo può dare risposte a costo zero. Quando c’è la volontà politica le risposte possono arrivare”. Riforma della giustizia: un sistema misto per l’elezione del Csm e stop alle porte girevoli di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 febbraio 2022 Venerdì in Consiglio dei ministri: quota proporzionale. I partiti di centrodestra insistono invece perché venga scelto il sistema del sorteggio. Il tentativo di fare in fretta si scontra con la necessitò di modificare le proposte iniziali, per coniugare le diverse richieste ed esigenze delle parti in causa: la politica da un lato e la magistratura dall’altro, con posizioni differenti all’interno dei due fronti. Un contesto complicato, ma non c’è tempo da perdere. Le trattative per la riforma della giustizia, e in particolare dell’organo di autogoverno delle toghe, procedono a tappe forzate e la Guardasigilli Marta Cartabia lancia una nuova idea per provare a sciogliere il nodo più complicato: il sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura (le prossime consultazioni sono previste in estate). L’ultimo rilancio illustrato ieri ai partiti è un metodo maggioritario binominale, come ipotizzato inizialmente, ma con una quota proporzionale per assicurare la contendibilità dei seggi e il pluralismo, lasciando spazio a candidature slegate dalle correnti o di gruppi minoritari. Nelle consultazioni con i partiti di maggioranza avvenute prima di Natale, la ministra aveva suggerito, come correttivo del maggioritario binominale, una quota di 4 o 6 seggi (a seconda che il numero dei togati resti a 16 oppure salga a 20, come sembra più probabile) da assegnare ai migliori terzi; ora, dopo ulteriori consultazioni e il vertice che c’è stato l’altro ieri a Palazzo Chigi con il premier Draghi e il sottosegretario Roberto Garofoli, Cartabia ha pensato di riservare quello spicchio di rappresentanza a candidati eletti con il sistema proporzionale puro. Per andare incontro alle istanze degli stessi giudici che, nel referendum consultivo indetto dall’Associazione magistrati, si sono espressi abbastanza chiaramente contro il maggioritario. Con questo escamotage la ministra spera di placare le riserve delle toghe, ma il rischio è che la soluzione apra un nuovo conflitto con e tra i partiti che sostengono il governo. Nella maggioranza c’è infatti la componente di centrodestra (Lega e Forza Italia) che, per eliminare il ruolo delle correnti, insiste a chiedere il sorteggio “temperato”: vale a dire l’estrazione di una rosa di candidati all’interno dei quali pubblici ministeri e giudici possano eleggere i venti consiglieri togati. Una strada che però la ministra, in linea con la commissione guidata dal professor Massimo Luciani che lo scorso anno su suo incarico ha presentato un ventaglio di possibili riforme, considera in contrasto con la Costituzione. L’articolo 104 stabilisce infatti che i consiglieri togati “sono eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie”, e non prevede filtri né livelli minimi di carriera per candidarsi. L’altro punto controverso è il rientro nei ranghi dei magistrati eletti in Parlamento o negli enti locali, al termine del mandato politico. Una questione che sta molto a cuore ai Cinque Stelle, ma della quale s’era già occupato lo stesso Csm cinque anni fa, proponendo al Parlamento di fermare le cosiddette “porte girevoli” con una legge. Ma non è successo nulla. Cartabia propone intanto di impedire il doppio incarico: attualmente è possibile svolgere il ruolo di amministratore o consigliere di enti locali in un luogo ed esercitare le funzioni giudiziarie in un altro, cosa che non dovrà più accadere. E non sarà possibile candidarsi nei centri in cui si è prestato servizio negli ultimi tre anni. Per quanto riguarda il ritorno al lavoro, invece, la riforma dovrebbe prevedere che terminate le “cariche elettive” i magistrati non possano assumere funzioni giurisdizionali, le stessi di prima o anche diverse. Questo significa che potrebbero essere inseriti in uffici come il Massimario della Cassazione, in ruoli amministrativi presso enti statali o soluzioni simili. Senza più indossare la toga dei pm o dei giudici, affinché non risulti incrinata l’immagine di imparzialità che quelle funzioni richiedono. Ma se questa soluzione fosse limitata agli “eletti”, resterebbero fuori gli incarichi extragiudiziari a chiamata diretta, nei ministeri, negli enti locali o altre istituzioni che abbiano anche valenza politica. E non è detto che una simile differenza di trattamento sia accettata dai partiti. Innanzitutto dai grillini, che di questa questione hanno fatto una sorta di bandiera. E poi perché il numero di magistrati attualmente fuori ruolo per questo tipo di incarichi è maggiore di quelli scesi in politica dopo il vaglio elettorale. Riforma Cartabia, mai più in toga i magistrati-politici di Liana Milella La Repubblica, 9 febbraio 2022 Definitivo stop alle “porte girevoli” per le toghe in politica, e una legge elettorale maggioritaria con uno spruzzo di proporzionale. Sono queste le ultime novità sulla riforma del Csm dopo una serata di confronti tra la Guardasigilli Marta Cartabia e i singoli partiti. Nessun testo ufficiale ancora, ma una certezza politica. La riforma del Csm arriverà venerdì a Palazzo Chigi. La notizia filtra a ridosso degli incontri. E si tratta di un’accelerazione voluta dal premier Mario Draghi che intende chiudere in settimana il capitolo del Csm, soprattutto dopo le parole di Sergio Mattarella nel suo discorso di insediamento. Con una conseguenza concreta: già mercoledì 16, rispettando il calendario della commissione Giustizia, gli emendamenti della ministra saranno pronti per i sub-emendamenti parlamentari. E il testo potrà marciare spedito verso l’approdo in aula previsto per l’ultima settimana di marzo. Incontri singoli dunque, nell’ordine M5S, il Pd, la Lega, Forza Italia, Leu, Azione. Che svelano anche i primi problemi d’intesa politica sulla riforma. Perché da Lega e Forza Italia, ma anche da Azione, arriva la richiesta di una netta discontinuità rispetto alle regole in vigore, soprattutto per la selezione dei componenti togati del Csm, per cui il centrodestra vede come unico sistema il sorteggio, accettando solo che sia “temperato”, cioè prima il sorteggio tra tutte le toghe e poi un voto sui candidati. La Lega chiede una riforma “ampia e incisiva”. A tutti Marta Cartabia ha spiegato il senso del summit di tre ore dell’altro ieri col sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli e del colloquio con lo stesso Draghi. Due novità. Innanzitutto sul destino dei magistrati che scendono in politica, a qualsiasi livello. Cartabia torna al testo del predecessore Bonafede, e va anche oltre: al termine di un incarico parlamentare e di governo, ma anche in un’amministrazione locale, la toga non potrà più tornare indietro, ma si vedrà assicurato un posto in via Arenula, oppure in un altro ministero, o ancora a palazzo Chigi. “Una soluzione drastica - dice il presidente di Anm, Giuseppe Santalucia a Repubblica - che merita una riflessione sul piano della compatibilità costituzionale”. Una regola che Bonafede prevedeva per deputati, senatori e uomini di governo, ma che con Cartabia, dopo il caso Maresca, dovrà valere anche per consiglieri comunali e regionali. Assoluta incompatibilità inoltre negli enti locali tra il ruolo politico e quello di magistrato: chi viene eletto dovrà mettersi in aspettativa. Soluzione che M5S definisce “molto apprezzabile” perché conferma l’impianto della Bonafede. “Sono regole che con forza abbiamo voluto introdurre sin dall’inizio”, dicono dal M5S. Regole che, però, Enrico Costa di Azione respinge “perché lasciano aperto il varco al rientro in toga per ministri, sottosegretari o assessori regionali che arrivino dalle magistrature”. Quanto alla legge elettorale, Cartabia conferma la sua soluzione, una legge maggioritaria binominale, ma con l’aggiunta di un tocco di proporzionale, perché ci sarà un recupero per i migliori terzi con questo sistema: a patto che i candidati si siano preventivamente apparentati tra collegi differenti. Garantita ovviamente la parità di genere. Gli avvocati, nonché i docenti universitari, spuntano un deciso successo perché avranno diritto di voto nei consigli giudiziari. Riforma del Csm, i togati eletti con il “cartabiellum” di Errico Novi Il Dubbio, 9 febbraio 2022 Venerdì l’ok del governo. Addio alle porte girevoli. Voto degli avvocati sulle carriere dei giudici, passa il lodo del Pd. Intanto il metodo: consultazioni bilaterali. Marta Cartabia decide di costruire l’intesa sulla riforma del Csm con una convocazione lampo, e per incontri separati, delle forze di maggioranza. Si corre, dopo l’impulso di Sergio Mattarella, l’incontro di lunedì con Mario Draghi e in vista del via libera atteso per venerdì in Consiglio dei ministri. Il giro con i partiti finisce tardi: Lucia Annibali (Italia viva) e Enrico Costa (Azione) lasciano via Arenula intorno alle 21. Il colloquio “singolo” è una forma prudente e schematica con cui la guardasigilli verifica la convergenza sui due punti più scivolosi: legge elettorale per i togati, di impianto maggioritario ma con correzione proporzionale, e fine delle porte girevoli fra magistratura e politica, con differenze a seconda dell’incarico. “Contiamo di depositare gli emendamenti a Montecitorio in tempo per l’inizio dell’esame in commissione Giustizia, previsto per il 16 febbraio”, premette Cartabia a tutti gli interlocutori. Nel merito, il sistema di voto prevede l’assegnazione del seggio al vincitore in ciascun collegio, con un recupero proporzionale attraverso cui si dovrebbe attribuire un terzo dei posti disponibili, incrementati dagli attuali 16 a 20 (da 8 a 10 per i laici). Riguardo al divieto di rientro nella giurisdizione per le toghe sedotte dalla politica, si tratterà, spiega la guardasigilli, di una “preclusione definitiva per gli eletti, mentre per chi si candida e non è eletto, e per chi viene scelto come ministro o assessore, lo stop durerà tre anni”. Non si perderà lo status di magistrato né lo stipendio, come impone l’articolo 51 della Costituzione, ma si lavorerà per esempio nelle agenzie internazionali, al ministero della Giustizia o, forse, al massimario della Cassazione. Alcune forze ne escono particolarmente soddisfatte. Di sicuro il Movimento 5 Stelle, che diffonde, dopo l’incontro, una nota in cui si conferma che “sulle porte girevoli resta sostanzialmente l’impianto della riforma Bonafede, e questo è molto apprezzabile. Sulla legge elettorale ci sono correttivi nella direzione da noi auspicata”, aggiungono i pentastellati, “ma temiamo che ancora non siano sufficienti a evitare spartizioni fra correnti. In ogni caso ci riserviamo di analizzare il testo”. E la soluzione, nel dettaglio, è come detto un maggioritario corretto. Tra gli interlocutori informati a turno da Cartabia c’è anche un parlamentare-avvocato come Federico Conte, capogruppo di Leu in commissione, che appena sente la descrizione del sistema di voto esclama: “Scusi ministra, ma un maggioritario con recupero proporzionale fa pensare al mattarellum: potremmo ribattezzarlo cartabiellum…”. E lei, la guardasigilli, si concede una risata liberatoria. “È giusto aver evitato soluzioni assurde come il sorteggio”, commenta sempre Conte dopo le consultazioni, “le aggregazioni esistono, ci saranno sempre: i vizi degenerativi vanno superati in termini culturali, non di messa al bando delle correnti”. Da segnalare che va in archivio anche il divieto di eleggere i parlamentari: per i laici resta la sola incompatibilità con la carica politica. Alcuni dettagli andranno chiariti testi alla mano (ieri Cartabia ha esposto gli emendamenti solo per riassunto, senza mostrare ancora l’articolato). Non è certo che venga preservata, per i togati da eleggere, la tradizionale distinzione tra giudicanti e requirenti. Di sicuro però, dopo l’incontro di due giorni fa con Draghi, la ministra teneva a trovare una convergenza di massima tra i partiti sui punti più caldi, che sono appunto le porte girevoli e la legge elettorale. Sul resto arrivano conferme: per esempio sul diritto di voto riconosciuto agli avvocati nei Consigli giudiziari anche quando si formulano i pareri sulle valutazioni di professionalità dei magistrati: una battaglia a cui tenevano molto sia Forza Italia che il Pd. Gli azzurri presentano a via Arenula una delegazione da primissima linea: Mariastella Gelmini, Antonio Tajani, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto e il capogruppo in commissione Pierantonio Zanettin, aspetto che segnala la delicatezza del passaggio di ieri. Ha buone chance di entrare nel pacchetto Cartabia una proposta di FI per “allontanare”, almeno, le carriere di pm e giudice: consentiti al massimo due passaggi di funzione, da chiedere solo nella prima fase del percorso in magistratura. Il sì al voto dei laici sulla professionalità delle toghe premia, come detto, anche la tenacia del Pd, che pure aveva depositato a riguardo emendamenti in commissione. A passare è proprio la formula ipotizzata dai dem: a votare nel Consiglio giudiziario sarà sì l’avvocato che abitualmente vi siede, ma dopo che sulla professionalità di quel magistrato si sarà espresso, in modo collegiale, il Consiglio dell’Ordine. “Così si spersonalizza il procedimento e si spazza via ogni timore di conflitto d’interesse”, spiega Walter Verini, relatore della riforma sul Csm, oltre che tesoriere al Nazareno: è lui, insieme con la responsabile Giustizia Anna Rossomando, a incontrare Cartabia. Una riflessione va fatta, e riguarda ancora la legge elettorale. Com’è intuibile il recupero proporzionale avverrà fra candidati collegati fra loro: tradotto, servirà a garantire un seggio alle correnti minori. Il colpo viene inflitto non all’associazionismo ma alle degenerazioni, non ultima il rischio di un anomalo bipolarismo nella magistratura. Ancora sul sistema di voto: passano alcune modulazioni a cui pure teneva particolarmente il Pd. Ci sarà non solo parità di genere obbligatoria fra i candidati ma un vantaggio per l’aspirante togato appartenente al genere meno rappresentato tra gli altri eletti. “Mi pare ci siano le condizioni per un lavoro proficuo e costruttivo in commissione”, conclude Verini, “con le soluzioni illustrate dalla ministra sembrano ridursi i rischi di attrito nella maggioranza: certamente dal 16 si lavorerà con speditezza”. Sembra la volta buona. “La riforma Cartabia rischia di rafforzare il correntismo. Per il Csm meglio il sorteggio” di Carmelo Caruso Il Foglio, 9 febbraio 2022 Parla Sebastiano Ardita. “Non ho nulla contro i magistrati che intendono fare politica, ma non vedo per loro un futuro credibile con la toga”. Quello che sta per dire lo dice un membro del Csm. È Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Catania e fondatore della corrente Autonomia e indipendenza. Le domande e le risposte, prima in breve. La riforma del Csm finirà nella palude parlamentare? “Qualunque cosa accada mi auguro che a nessuno venga in mente di prorogare questo Csm”. La proposta della ministra Cartabia? “Riduce l’ampiezza dei collegi e mantiene il sistema uninominale. Farebbe scomparire ogni minoranza e dare ancora più forza alle correnti che cerca di avversare. Si rischia di sbagliare”. L’ipotesi del sorteggio per il Csm? “L’unico sistema che nell’immediato può scalzare il sistema delle correnti”. E ora le risposte, ma articolate. Dunque, caro Ardita, abbiamo visto proprio tutto o la crisi della magistratura deve essere ulteriormente raccontata? “Credo che ancora sia presto per tracciare un quadro definitivo. Ma bisogna distinguere. Una cosa è la crisi della giustizia, che riguarda in gran parte l’incapacità della politica di procedere con riforme efficaci e risolutive, un’altra è la crisi della magistratura intesa nel suo complesso come potere dello stato e che riguarda in modo essenziale l’autogoverno e la rappresentanza”. Cosa è la corrente? Quando è diventata cordata? Perché è ritenuta ancora necessaria? “Esiste tra i magistrati un élite organizzata politicamente e capace di ottenere il consenso per esprimere la componente nell’organo di governo che è il Csm. Se possiamo dirla tutta l’egemonia delle correnti non solo non giova ai magistrati, ma li indebolisce ancor di più”. Perché è un fenomeno inestinguibile? “La stragrande parte dei magistrati detesta la logica di appartenenza e si affida a quei pochi che intendono proporsi per l’autogoverno, ma è stanca di essere considerata come una sorta di contropotere rispetto al potere politico”. Nel Cdm di venerdì, il governo avrebbe intenzione di presentare gli emendamenti di riforma del Csm. Draghi ce la farà? “È difficile prevedere ciò che accadrà”. Che tipo di riforma è? “Politicamente scomoda. L’attuale sistema maggioritario nazionale - anche se non prevede liste di correnti - non garantisce di liberarsi dal loro predominio. Tuttavia la vastità del collegio potrebbe consentire anche a realtà minoritarie di avere qualche piccola rappresentanza e di contrapporsi all’egemonia delle correnti più forti”. Cosa non funziona della proposta Cartabia? “Riduce l’ampiezza dei collegi mantenendo il sistema uninominale. Di fatto porterebbe a un sistema bipolare e farebbe scomparire ogni minoranza”. Quindi l’alternativa? “Il sistema proporzionale con voti di lista, che salvaguarderebbe anche le minoranze ma sul piano simbolico rappresenterebbe un ritorno al passato”. Insomma, il pericolo? “Direi il dilemma: peggiorare il sistema dando ancor più forza alle correnti sul presupposto dichiarato di avversarle; o dare spazio alle minoranze, ma ritornando alle liste dei gruppi? Si rischia di sbagliare”. Lei del sorteggio cosa ne pensa? “Che sarebbe l’unico sistema capace di scalzare nell’immediato il sistema delle correnti. Se non proprio un modello definitivo potrebbe almeno rappresentare una sorta di “governo tecnico” provvisorio”. Chi sono quelli che lo avversano? “Tutti i poteri forti”. E perché? “Perché non sarebbe un Csm controllabile. Forse potrebbe garantire finalmente l’autonomia e l’indipendenza dei singoli magistrati. Non piace né ai poteri interni, né a quelli esterni alla magistratura, e dunque non si farà”. Altro tema oggetto della riforma: i magistrati fuori ruolo. Si può davvero rinunciare? “Ci sono settori nei quali l’impiego dei magistrati è indispensabile. Per esempio per scrivere le leggi, non nel senso di determinarne il merito ma di assicurare una forma chiara leggibile e coordinata con precedenti disposizioni”. Si ripete mai più “casi Maresca”. È d’accordo sul fermare “le porte girevoli”? “Le porte girevoli danno ai cittadini una pessima idea della giustizia. Non ho nulla contro i magistrati che intendono fare politica, ma non vedo per loro un futuro credibile con la toga”. Lei non è mai stato tentato dal fare politica? “Non sono mai stato tentato dalla politica proprio perché la considero una scelta senza ritorno e ho desiderato continuare a fare il magistrato”. Infine. La scelta di parlamentarizzare la riforma ci porterà alla palude parlamentare o ci farà raggiungere una soluzione? “Non conosco le dinamiche parlamentari, ma avverto dalla sua domanda che evidentemente il rischio c’è. Qualunque cosa accada mi auguro solo che si decida in fretta e a nessuno venga in mente di prorogare la durata di questo Csm”. Giustizia, riforma Csm. Perantoni (M5S): “Pericolosi i referendum leghisti” di Conchita Sannino La Repubblica, 9 febbraio 2022 Il presidente della commissione Giustizia della Camera: ““Non vorrei che con la scusa di fermare il correntismo, si volesse abbattere direttamente il Csm, come vuole qualcuno”. La prolungata attesa della riforma del Csm? “Si è perso troppo tempo e non parlo di questi mesi: ora c’è l’urgenza di essere concreti”. Le porte girevoli dei magistrati-politici? “Lo stop a quel fenomeno è per noi irrinunciabile”. Il corto circuito con i referendum della Lega? “Non vorrei che con la scusa di fermare il correntismo, si volesse abbattere direttamente il Csm, come vuole qualcuno”. Mario Perantoni è il presidente M5s della commissione Giustizia alla Camera: il “tavolo” intorno a cui si dovrà trovare la sintesi per quel “rinnovamento” dell’ordinamento giudiziario che il Presidente Mattarella torna a chiedere con fermezza. Presidente Perantoni, al di là delle facili standing ovation del Parlamento, pensa ci siano i tempi per chiudere la riforma del Csm entro la scadenza del Consiglio? “Certo, i tempi ci sono, auspico fortemente che il governo faccia la sua parte secondo i ritmi del Parlamento...” Il testo della ministra Cartabia arriverà mercoledì 16... “Potremo procedere avendo sul tavolo anche le idee del governo. L’esigenza e l’urgenza di rinnovamento del Consiglio sono fortissime”. Sul sistema elettorale: la Lega spinge sui sorteggi, il M5s è per piccoli collegi uninominali con ballottaggio: non è poco contro il dominio delle correnti? “Certo sarà estremamente difficile, eliminare del tutto il problema del correntismo: che è un problema culturale della nostra classe dirigente. Ma guardiamoci dagli slogan ed anche da chi vorrebbe “abbattere” non solo le correnti”. Sembra si giunga alla svolta per un radicale no alle porte girevoli... “Per noi resta ferma la proposta Bonafede: il magistrato che entra in politica non può tornare a ricoprire ruolo e funzione che aveva prima. Per il resto è irrinunciabile muoversi nei confini costituzionali”. E la separazione delle carriere? “Irricevibile. C’è chi vorrebbe usare la riforma per ‘abbattere’, il Csm come se questo organo non affondasse le sue radici nella Costituzione”. La senatrice leghista Bongiorno prevede che i referendum anzi scuoteranno la politica... “Attenti alle proposte di sapore eversivo che travolgono i cardini delle istituzioni repubblicane più che riformare ciò che va corretto”. Il M5s è dilaniato, specie dopo la sospensione di Conte. Vi saranno ulteriori effetti sulle condotte parlamentari? “Non è vero che siamo dilaniati. Discutiamo sì, ma sentiamo la responsabilità di dare risposte al Paese. Conte si è assunto molte responsabilità, prima guidando il Paese e poi il Movimento con grande passione e spirito di servizio. Facile dare colpe, Ma è uno sport che non mi piace praticare”. “L’Anm non ci rappresenta”. Le toghe che dissentono esistono ma non hanno voce di Eduardo Savarese Il Riformista, 9 febbraio 2022 Un tema che potrebbe costituire un forte collante potrebbe anche risiedere nella volontà di svolgere davvero il ruolo di coraggiosi “watchdogs”: una sorta di tribunato della plebe della magistratura associata. La Corte europea dei diritti dell’uomo lo scorso 21 ottobre ha condannato la Bulgaria per violazione della libertà di espressione del pensiero (articolo 10 della Convenzione). La ricorrente era una giudice penale in servizio presso il Tribunale di Sofia, nonché presidente della più rilevante associazione di magistrati bulgari. La signora Todorova, infatti, ha sostenuto di aver subito procedimenti disciplinari che avevano condotto alla sua radiazione dall’ordine giudiziario apparentemente indotti da ritardi accumulati nello scrivere sentenze, ma nella sostanza motivati dalle critiche serrate che, negli anni e nel suo ruolo associativo, ella aveva mosso alle decisioni del Csm bulgaro - soprattutto di nomina dei capi di uffici giudiziari di vertice. E la Corte le ha dato ragione, evidenziando che un uso distorto del procedimento disciplinare, nelle mani di un Csm ostile, suoni come una campana a morto per l’indipendenza dei giudici. Non solo. La Corte ha ritenuto che le associazioni di giudici, quando criticano le scelte istituzionali sulla giustizia, sono dei veri e propri “watchdogs”, con una funzione assimilabile addirittura a quella della stampa: in una società democratica, infatti, giustizia e indipendenza dei giudici sono temi e valori, rispettivamente, da preservare, quanto alla libertà di pensiero, da ogni interferenza indebita. Mentre leggevo fatti e motivazione della decisione europea, andavo pensando alla situazione italiana e a un tema da qualche tempo al centro di riflessioni di ogni genere, dentro e fuori la magistratura, su riforma del Csm, degenerazione correntizia, meccanismo di elezione dei componenti togati, ruolo della presidenza della Repubblica. Ci sono stati almeno tre eventi, diversi ma ugualmente rilevanti a mio parere, in quest’ultimo anno: 1) le decisioni del Consiglio di Stato su nomine eccellenti del Csm: il consesso più alto della giustizia amministrativa ha annullato sia la nomina di Prestipino alla Procura di Roma, sia le nomine del primo presidente e del presidente aggiunto della Corte di Cassazione. Le sentenze amministrative rivelano un grave deficit di motivazione nelle delibere del Csm. Di fronte a queste decisioni il Csm ha sempre ritenuto di insistere nelle posizioni originarie. Non interessa qui stabilire se sia più politicizzato il Consiglio di Stato o il Consiglio superiore. Il fatto è di per sé grave e meriterebbe la massima attenzione da parte della magistratura tutta. 2) la decisione della Giunta per le autorizzazioni a procedere, prima, e della stragrande maggioranza della Camera stessa, poi, di ritenere inutilizzabili le intercettazioni riguardanti Cosimo Ferri, magistrato che dal 2018 siede in Parlamento, coinvolto nel noto procedimento disciplinare che ha portato alla radiazione di Luca Palamara dall’ordine giudiziario. Quella decisione contiene passaggi del tutto diversi, quanto a ricostruzione e, soprattutto, apprezzamento dei fatti (modalità delle intercettazioni), rispetto alla motivazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che ha confermato la radiazione di Palamara decisa dalla sezione disciplinare del Csm: a luglio 2021 la Corte ritenne infatti utilizzabili quelle intercettazioni. Va detto che alcune circostanze di fatto sono emerse soltanto successivamente e il Parlamento ha potuto debitamente analizzare materiale probatorio non acquisito dalla Corte. Ma anche qui: non interessa sapere se abbia ragione la Corte o il Parlamento. Dalla storia dei prossimi anni emergerà un quadro sempre più chiaro. Resta che il fatto è rilevante e meritevole della massima attenzione. 3) l’Anm ha indetto un referendum tra i suoi iscritti riguardante il sorteggio dei magistrati da designare alle elezioni del Csm e il metodo preferito (proporzionale o maggioritario). Non ci interessa stabilire ora se il sorteggio sia meglio o peggio. Io - che non ho votato perché fuori dall’Anm - penso che sia meglio, secondo l’insegnamento ignaziano del magis: invece di aspettare la rigenerazione delle correnti, meglio tentare da subito di spezzare la presa che le correnti hanno sul Csm. Un numero significativo di magistrati, 1787, ha espresso la propria preferenza per il sorteggio. Fino a poco tempo fa, il tema del sorteggio sembrava una roba esotica, un po’ anticostituzionale e un po’ populista. Ora, che nel 2022, a sei mesi dal rinnovo del Csm, il 42 per cento dei votanti abbia detto: meglio il sorteggio, è di per sé un fatto meritevole della massima attenzione. Ebbene, su tutti e tre questi fatti rilevantissimi avrebbe dovuto esserci un incessante, ferreo confronto dentro e con l’Anm, unico organismo associativo dei magistrati, il “watchdog” italiano. Non mi è sembrato di sentire, però, alcuna voce critica strutturale. D’altra parte, se le correnti che abitano nell’Anm sono, tranne il movimento dei 101, rappresentate nel Csm, è forse difficile anche solo immaginare che la prima critichi o sconfessi la sua proiezione dentro il secondo: Castore e Polluce tendono a restare solidali. Questa è la ragione per cui sarebbe fondamentale che la magistratura italiana organizzasse la sua dissidenza - che esiste - in forme associative plurime e ovviamente distinte dall’Anm. Non contrapposte, né alternative, o almeno non necessariamente. Ma diverse, ed anche solo per fini limitati. Penso all’iniziativa di recente intrapresa dal comitato “Altra proposta” per concretizzare un’ipotesi di individuazione mediante sorteggio temperato dei candidati al Csm 2022. Un tema che potrebbe costituire un forte collante associativo potrebbe anche risiedere nella volontà di svolgere per davvero il ruolo di coraggiosi “watchdogs”: una sorta di “tribunato della plebe della magistratura associata” che abbia come scopo principale, oltre a sollecitare o criticare riforme legislative mancanti o inutili o addirittura dannose, quello di controllare il controllore costituzionale che veglia (o dovrebbe vegliare) su autonomia e indipendenza della magistratura. Controllore che, si badi bene, coinvolge il Csm in tutte le sue articolazioni, dalla presidenza in giù. Ci avviamo all’ennesima campagna elettorale per il rinnovo del Csm. Liberarlo dalle correnti non è un risultato conseguibile nell’immediato. Ma sapere che esistono uno, due, tre organismi associativi diversi dall’Anm che, per statuto, intendano discutere, verificare e criticare anche aspramente non solo le decisioni governative che non piacciono, ma anche, e soprattutto, il ruolo giocato dall’organo costituzionale di autogoverno, può innescare un circolo virtuoso in termini di un pluralismo vitale per una vera società democratica. La magistratura diffusa deve trovare il modo di aprire finestre sigillate da ormai trent’anni. Snelli organismi associativi - magari col piglio e il coraggio del tribunato - segnerebbero un possibile ricambio d’aria: come ci insegna la Corte europea dei diritti dell’uomo, un associazionismo giudiziario capace di critica compiuta, tanto più se plurale e, dunque, naturalmente diversificato, è strumento essenziale per una sana vita democratica, allo stesso modo della stampa libera. E se queste forme di libertà dovessero essere in qualunque modo compresse, sapremmo a chi ricorrere. Un’Alta Corte per giudicare le toghe, tanti consensi bipartisan di Angela Stella Il Riformista, 9 febbraio 2022 Mentre ieri la Ministra Cartabia incontrava per l’ennesima volta il premier Mario Draghi per fare il punto sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, nel dibattito rispuntava da più parti il tema, lanciato tempo fa da Luciano Violante, di un’Alta Corte, che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Consiglio Superiore della Magistratura. La questione è tornata alla ribalta soprattutto dopo l’ultima pesante frizione tra Csm e Consiglio di Stato che ha decapitato i vertici della Cassazione a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. A rilanciare la proposta è stata ieri la responsabile giustizia del Partito democratico e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, dalle pagine di Repubblica: “Siamo talmente a favore, che abbiamo già presentato al Senato un disegno di legge a mia prima firma per istituirla. Nel Csm resterà una sezione disciplinare che giudica i magistrati - ha spiegato l’esponente dem - mentre l’Alta corte sarà un giudice di appello e ricorso per tutte le magistrature. Tutte le impugnazioni sia contro le decisioni disciplinari, che sulle nomine contestate saranno trattate lì”. La composizione ricalcherebbe quella della Corte Costituzionale: un terzo dei componenti eletti dal Capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Al Senato è incardinato appunto un ddl di natura costituzionale proprio a firma Rossomando: “Modifiche al Titolo IV della Parte II della Costituzione in materia di istituzione dell’Alta Corte”, annunciato nella seduta del 28 ottobre 2021, ma anticipato in un documento di maggio su tutte le riforme della giustizia da mettere in cantiere. E confermato da una recente dichiarazione sempre a questo giornale del dem Walter Verini. Sulla possibilità che possa essere approvata una legge, occorre un’ampia volontà politica: “Sarebbe una bella dimostrazione di reale volontà riformatrice del Parlamento” ha concluso la Rossomando. Nello specifico, secondo l’articolo 138 della Costituzione, “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Quindi bisognerebbe davvero accelerare per raggiungere l’obiettivo in questa legislatura, non contando il possibile ostruzionismo della lobby della magistratura. Ma sulla primogenitura della proposta dell’Alta Corte, ieri è arrivata anche una nota della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: “Apprendo con soddisfazione che il Pd aderisce alla nostra proposta di un’Alta Corte esterna che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Csm. La commistione tra parte amministrativa e disciplinare è un elemento distorsivo che ha condizionato nel tempo nomine e carriere a piacimento della maggioranza, e dunque superare questo meccanismo va nella direzione da noi sempre indicata per arrivare a una reale riforma della giustizia. Vogliamo credere alle buone intenzioni e confidiamo sia la volta buona”. Ad accogliere positivamente l’iniziativa parlamentare sull’Alta Corte è stato il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, parlando all’Adnkronos: “L’ho sempre considerata una proposta sensata e interessante sulla quale si può lavorare. Bisognerà vedere nel dettaglio, naturalmente, come verrebbe strutturata e da chi sarà composta, ma il fatto di creare un soggetto giudicante in qualche modo esterno al Csm mi sembra una buona idea. Dunque l’apertura del Pd va salutata positivamente”. Tra il dire e il fare la distanza è lunga e il leader dei penalisti ne è consapevole: “Mi auguro - conclude Caiazza - che non rimarrà tutto sulla carta, ma in ogni caso il varo dell’Alta Corte segnerebbe un passo ma ancora insufficiente. Bisogna comunque affrontare con coraggio i grandi temi della modifica dell’attuale automatismo dell’avanzamento delle carriere e il tema del distacco dei magistrati presso l’esecutivo. Sono due grandi temi che se non vengono affrontati non consentiranno una riforma autentica della crisi della magistratura italiana”. La guerra tra toghe e politica arriva anche alla Corte dei conti di Giulia Merlo Il Domani, 9 febbraio 2022 Nello scontro tra politica e magistratura è in corso una battaglia laterale, che riguarda il parlamento e la Corte dei conti e tocca anche i controlli sui fondi del Pnrr. Al centro c’è un disegno di legge in discussione in commissione Affari costituzionali al Senato, depositato a prima firma dal leghista Stefano Candiani ma appoggiato da tutta la maggioranza ad esclusione del Movimento 5 Stelle. Il testo sulla carta amplia i poteri della Corte ma - secondo i magistrati contabili - trascina indebitamente la magistratura contabile nell’orbita della politica. Il testo, che reca la dicitura “disciplina relativa alla Corte dei conti a tutela del corretto riavvio del Paese”, ne rafforza la funzione consultiva. Le sezioni riunite e le sezioni regionali, infatti, a richiesta rispettivamente delle amministrazioni centrali e degli enti locali, avranno il potere di rendere pareri in materia di contabilità pubblica; inoltre le regioni e gli enti locali potranno sottoporre al controllo preventivo di legittimità della Corte i provvedimenti sui contratti. Infine, la Corte dovrà svolgere controllo concomitante sui progetti del Pnrr e, in caso di gravi ritardi o violazioni, potrà nominare un commissario che “sostituisce, ad ogni effetto, il dirigente re­sponsabile dell’esecuzione”. Autonomia e terzietà - Formalmente, le nuove funzioni aumentano il potere della Corte. Così, “attraverso i pareri preventivi si velocizzano gli iter: le amministrazioni locali sottopongono alla Corte le decisioni potenzialmente problematiche che stanno per prendere, la Corte esprime un parere e se l’amministrazione lo segue poi non sarà più soggetta a controllo”, spiega il senatore Gianclaudio Bressa, che è relatore del testo e lo considera un modo per rendere la Corte dei conti più integrata con il lavoro delle amministrazioni, soprattutto in vista della spendita dei fondi del Pnrr. L’opinione non è condivisa dai magistrati contabili. L’aumento di potere, infatti, viene visto come un tentativo di creare una sorta di corresponsabilità tra l’operato della Corte e quello delle amministrazioni, snaturando la sua funzione di magistratura. “A differenza di quanto avviene per le altre magistrature, il nostro lavoro implica un continuo contatto con la politica perché controlliamo atti e gestioni pubbliche, sia delle amministrazioni locali che del governo e, nei casi più gravi, condanniamo a risarcire i danni arrecati al patrimonio pubblico. Per essere terzi e indipendenti, quindi, avremmo bisogno di un rafforzamento delle nostre garanzie di autonomia ed indipendenza e di essere collocati il più lontano possibile dalla politica”, spiega Luigi Caso, presidente dell’Associazione magistrati della Corte dei conti. Applicato al controllo sui fondi del Pnrr, potrebbe generarsi un cortocircuito. Come potrebbe la Corte dei conti monitorare la corretta spendita dei fondi, se è stata lei stessa a indicare come stipulare i contratti oppure ha nominato un commissario a cui ha indicato le funzioni da svolgere? Il timore è anche un altro: che la Corte venga sommersa di nuovi atti e pareri, che l’attuale organico potrebbe non essere in grado di smaltire velocemente. Con il rischio che scatti la logica dell’esimente: inoltrata richiesta di parere senza aver ricevuto tempestiva risposta, l’amministrazione si sentirebbe sgravata di responsabilità. Dunque, in caso di contestazione, la responsabilità indiretta sarebbe anche della Corte per non aver adempiuto al suo ruolo consultivo. Nella disputa sulle questioni sostanziali, però, qualcuno potrebbe ricevere un indiretto vantaggio. Il Consiglio di presidenza - In commissione sono state svolte audizioni dei membri del Consiglio di presidenza, che è l’organo di governo autonomo della magistratura contabile e svolge funzioni simili a quelle del Consiglio superiore della magistratura. La peculiarità della Corte dei conti, però, è la composizione. Diversamente rispetto alle altre magistrature, il rapporto numerico tra consiglieri laici e togati è paritario: quattro vengono nominati dal parlamento e quattro dai 600 magistrati contabili, oltre ai tre membri di diritto che sono il presidente della Corte dei conti, il procuratore generale e il presidente aggiunto. Durante le audizioni la spaccatura è stata netta: il presidente Guido Carlino e il procuratore generale Angelo Canale hanno usato parole dure per contestare la riforma (cosa che ha fortemente infastidito i membri della commissione Affari costituzionali) e il parere reso dalle Sezioni riunite della Corte è stato negativo. I membri laici Giuseppe Fava e Francesco Saverio Marini, invece, hanno avuto toni decisamente più concilianti. Parallelamente a queste audizioni, è stato depositato il 31 gennaio a prima firma della Lega un emendamento al Milleproroghe, che prevede la proroga di tutti i consiglieri - sia laici che togati- fino al 2026, “al fine di implementare compiutamente le nuove funzioni istituzionali attribuite”. Così i consiglieri rimarrebbero in carica per più di otto anni, “proprio nel momento in cui il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha parlato di necessità di rigenerazione della magistratura”, nota Caso. Il perchè di questa iniziativa parlamentare, invece, si può spiegare solo con una ipotesi, riportata da una fonte interna alla commissione: “I consiglieri laici e una parte dei togati sono favorevoli alla riforma e questa è l’ultima occasione utile per approvarla. Quindi tenerli al loro posto favorisce un orientamento positivo dentro la Corte”. Per questo, anche gli altri gruppi parlamentari sosterrebbero l’emendamento a firma Lega. In realtà, il parere formale (che comunque non è vincolante) è già stato reso in senso negativo ed è di appannaggio delle Sezioni riunite e non del Consiglio di presidenza. Tuttavia, l’investimento sarebbe sulla capacità di “moral suasion” dei prorogati. Il fatto rimane: il parlamento è disposto a bloccare fino al 2026 quattro caselle di sua nomina, ben retribuite e che fanno gola a molti, e che altrimenti scadrebbero nel 2022. Dopo il primo round dello scontro in commissione, nessuna delle due parti intende arretrare: ad essere dirimente sarà il parere del governo al disegno di legge che è di pura iniziativa parlamentare. Elemento dirimente nella valutazione potrebbe essere l’ammontare delle risorse finanziarie attribuite al bilancio autonomo della Corte dal disegno di legge: “pari allo 0,5 per mille delle spese finali del bilancio dello Stato”: una cifra importante, che si aggira intorno ai 300 milioni di euro, che dovrà essere validata dalla ragioneria. Il dato politico è che, se il disegno di legge venisse approvato, si modificherebbero in modo sostanziale i compiti e forse anche la natura della magistratura contabile. Se non passasse, invece, la Corte dei conti confermerebbe la forza del suo autogoverno contro una politica che ha tentato di “addomesticarla”. Giustizia tributaria lenta? Arriva la “soluzione europea” di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 9 febbraio 2022 La riforma della giustizia tributaria è da tempo al centro del dibattito giuridico come dimostrato dalle numerose proposte di legge presentate in Parlamento dal 2013 ad oggi. Nello stesso Pnrr il contenzioso tributario viene definito come un “settore cruciale per l’impatto che può avere sulla fiducia degli operatori economici, anche nella prospettiva degli investimenti esteri”. La Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria ha individuato due possibili soluzione: una prima opzione prevede l’istituzione di una vera e propria quinta magistratura composta da giudici professionali a tempo pieno selezionati tramite concorso pubblico. La seconda prevede il mantenimento in ambito tributario di una magistratura “onoraria” (non professionale, quale quella attuale) ma con l’introduzione di requisiti di accesso (limiti di età, laurea in giurisprudenza o economia, iscrizione albo avvocato o commercialisti). Invece per le controversie del secondo grado di giudizio, si prevede l’istituzione di una apposita sezione per le liti di valore superiore a 25.000 euro formata da magistrati togati, professionisti o professori che svolgano le funzioni di giudice tributario. “Senza esprimere un giudizio sul merito delle due soluzioni proposte - afferma Marco Cerrato, partner di Maisto e Associati - ritengo che entrambe presentino importanti profili di novità e che certamente avranno un impatto positivo sul sistema della giustizia tributaria, evitando o quanto meno limitando la proliferazione di ricorsi in Cassazione. L’auspicio è che una delle due soluzioni venga adottata al più presto in modo che gli investitori possano riporre affidamento, in caso di eventuali controversie con l’amministrazione finanziaria, su una giustizia tributaria di qualità e più rapida”. Europa: la terza via - Eppure esiste un’alternativa forse ancora poco nota, una recente novità che porterà i suoi frutti, nei rapporti tra investitori (soprattutto esteri) e fisco italiano, presumibilmente già dal 2023. Si tratta di un’ipotesi vagliata da molte aziende straniere con attività in Italia e italiane con attività all’estero: tutto parte dalla Direttiva (UE) 2017/1852 del Consiglio, del 10 ottobre 2017, in ambito di meccanismi di risoluzione delle controversie in materia fiscale nell’Unione europea, direttiva recepita in Italia con il decreto legislativo 19 giugno 2020, n. 49.”La direttiva e il decreto italiano di recepimento - spiega Cerrato - offrono un valido ed efficace strumento di risoluzione delle controversie in materia fiscale all’interno dell’Unione europea che può essere attivato anche a prescindere dall’instaurazione del contenzioso nazionale. In tal modo, per i contribuenti italiani ed esteri sottoposti a contestazioni in materia di fiscalità internazionale sarà possibile sottrarsi alla giustizia tributaria rimettendo la soluzione della potenziale controversia con il fisco a una procedura che dovrà essere instaurata tra l’Agenzia delle Entrate italiana e l’amministrazione finanziaria estera corrispondente e che dovrà necessariamente portare ad una soluzione tra le amministrazioni, per il tramite (in caso di mancato accordo tra le due organizzazioni), di un meccanismo arbitrale vincolante per le amministrazioni stesse”. Il raggio d’azione? “Si tratta in sostanza di tutte le possibili controversie derivanti dall’interpretazione e dall’applicazione dei trattati bilaterali per evitare le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio conclusi tra Italia e altri Stati comunitari e che potrebbero portare a doppia imposizione internazionale”. Trent’anni fa iniziava Mani Pulite, con politici corrotti e magistrati come supereroi di Giacomo Papi Vanity Fair, 9 febbraio 2022 All’inizio fu una notizia a pagina 13, poi venne giù tutto. Trent’anni fa iniziava Mani Pulite: politici corrotti, magistrati come supereroi, telecamere. Un Paese a caccia di colpevoli per sentirsi innocente. Se chiedi a un ragazzo oggi che cosa vuol dire “Mani pulite”, penserà all’amuchina. Non è facile spiegargli che anche trent’anni fa, molto prima del Covid, qualcuno pensò che per salvare il mondo bastasse lavarsi le mani, soprattutto quelle degli altri. Quell’inchiesta tracciò un prima e un dopo e preparò molto di quello che siamo. Per raccontarla, forse si potrebbe partire dal Palazzo di Giustizia di Milano che improvvisamente, da un giorno all’altro, cominciò a inghiottire politici, assessori, industriali, banchieri, tutti quelli che sembravano onnipotenti, come un monolite alieno di marmo bianco precipitato dal cielo e conficcato nel cuore della città. Intorno a quel palazzo, per mesi, si radunarono giornalisti, passanti e folle eccitate all’idea che finalmente la giustizia si abbattesse sugli intoccabili, su chi per decenni aveva nutrito, nutrendosi e nutrendo, la macchina della democrazia. La corruzione era ovunque, spensierata, famelica, perfino annoiata, un settore economico a sé che gonfiava i costi ma anche i guadagni di chi lavorava con la pubblica amministrazione, sommando un 10 per cento di tangenti a ogni appalto. Prima, però, bisognerebbe spiegare che lo scricchiolio della valanga sembrava un fatto tra gli altri. Sul Corriere della Sera di martedì 18 febbraio 1992 la notizia era in prima pagina, in basso a destra: “Milano, arrestato il presidente dei Martinitt. Accusato di concussione finisce in carcere Mario Chiesa, socialista”. L’articolo era a pagina 13: “Portaborse arrestato. Il mondo politico milanese è stato scosso da un clamoroso arresto. Ieri sera i carabinieri, su ordine della magistratura, hanno arrestato l’ingegner Mario Chiesa, 47 anni, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio cui fanno capo la Baggina e i Martinitt, due istituzioni storiche che si prendono cura degli anziani e dei bambini senza genitori. L’accusa è gravissima: concussione, cioè aver preteso bustarelle approfittando del proprio ruolo di funzionario pubblico”. Il 3 marzo, Bettino Craxi, onnipotente e prepotentissimo segretario del Partito socialista, provò a minimizzare: “Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti, mi trovo davanti un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’anni, non in cinque, ma in cinquant’anni, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi contro la pubblica amministrazione”. Fu inutile. Anzi, probabilmente a sentirsi definire “mariuolo”, Chiesa si offese. La valanga non si poteva più fermare. Mario Chiesa non era il primo socialista a essere arrestato. Due giorni prima a Volla, in provincia di Napoli, il consigliere comunale Giuseppe Riccardi era finito in galera per tentata estorsione, ma la sua posizione periferica gli consentì di schivare la Storia. Ma Chiesa operava a Milano, la città da cui il Psi governava l’Italia con la Democrazia cristiana, ma anche quella dove i giudici erano più agguerriti. Il più determinato si chiamava Antonio Di Pietro, parlava un italiano bislacco con forte accento molisano e gli piaceva molto fare confessare gli imputati e stare al centro della scena. Tra il 1992 e il 1994 furono emanati 25.400 avvisi di garanzia, eseguiti 4.525 arresti, con 1.069 politici coinvolti soltanto dal pool di Milano, per un totale di 1.300 condanne o patteggiamenti definitivi, 430 assoluzioni e 41 suicidi. Fu un crollo violentissimo, ma distillato giorno per giorno. Un intero sistema veniva spazzato via perché intorno alle tangenti non girava soltanto il potere dei partiti, ma un’intera economia di cui a cascata beneficiavano milioni di italiani, ai danni dei conti dello Stato. Uno studio del Centro Einaudi diretto da Mario Deaglio calcolò che in Italia le opere pubbliche costavano quattro volte di più della media europea e che la corruzione valeva 10 mila miliardi di lire all’anno, con un impatto del “15% del deficit complessivo”. Intorno al monolite bianco del Palazzo di Giustizia si consumò, cioè, un rito di espiazione mediatico collettivo, officiato da giudici sacerdoti, che travolse i partiti che erano al potere dal dopoguerra e che sembrava dovessero restarci per sempre. E fu una sorpresa perché quei partiti, dopo il crollo del comunismo cominciato con il muro di Berlino nel 1989, si preparavano a godere un trionfo e ad assistere alla fine del loro principale avversario, il Partito comunista italiano. Solo che il comunismo, crollando, si stava già trasformando in qualcos’altro. Sul Corriere del 18 febbraio 1992 c’è già tutto: “Fidel ammette il tracollo di Cuba”, “Cina. Dodici grandi magazzini apriranno filiali nelle Repubbliche della CSI”. Mentre sempre sul Corriere il politologo americano Francis Fukuyama intervistato da Gianni Riotta, parlava di “fine della storia”, la globalizzazione ridisegnava il mondo e la cronaca italiana: ““Giustiziati” due immigrati” a Reggio Calabria, “Duemila cinesi reclutati come schiavi” a Milano. E l’Europa già dettava le sue regole: “Latte, supermulta della Cee all’Italia?”. Cambiava la cultura: quel giorno la Cassazione stabilì l’arresto per “urla, botte e tormenti in famiglia, anche se “saltuari” (le donne venivano uccise anche allora, ma la parola “femminicidio” non esisteva). La politica intanto ribolliva, preparando il presente. Il 18 febbraio 1992 il telefinanziere Giorgio Mendella annunciò la nascita di un nuovo partito con “un messaggio registrato su cassette”, la stessa idea che avrebbe avuto Silvio Berlusconi due anni dopo, il 26 gennaio 1994, quando “scese in campo” per “battere i comunisti” (che non esistevano più), dopo le stragi di mafia e gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino. Lo stesso giorno Beppe Grillo debuttava al Teatro Smeraldo di Milano (oggi negozio Eataly) con uno spettacolo in cui rispondeva in diretta alle telefonate della gente che insultava i politici: “Siamo in gentocrazia”, disse in un’intervista, abbozzando il programma del Movimento 5 stelle, “e nessuno ha più timore di farsi avanti e dire la sua”. Nel potere italiano si era spalancata una voragine che andava riempita. Tutto crollava tra gli applausi e le urla. Bettino Craxi, dopo essere stato tempestato di monetine e processato in tv, scappò in Tunisia. I magistrati diventarono supereroi, vendicatori e purificatori della Storia. Era tutto vero: il sistema non reggeva più la corruzione della politica. Però si scoprì una scorciatoia che ci affligge ancora, ogni giorno, anche sui social: che il modo più semplice per sentirsi innocenti è trovare i colpevoli. La giustizia aveva sostituito la Provvidenza. E la politica. Era tutto già scritto, in fondo. Sull’avancorpo di sinistra del Palazzo di Giustizia - costruito dal fascismo ed esempio straordinario del razionalismo monumentale di Marcello Piacentini - si legge un’immensa iscrizione in latino: “Iurisprudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia iusti atque iniusti scientia”, la Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti. Degli “affari divini”, addirittura. Mani Pulite, Colombo: “Dopo 30 anni nulla è cambiato, la corruzione non è finita” di paolo colonnello La Stampa, 9 febbraio 2022 Ancora irrisolto il nodo politica-magistratura, l’intervista al pm protagonista del pool: “I rimedi per uscirne sono la scuola, la Costituzione e la dignità citata da Mattarella”. Ormai quasi oggetto di una damnatio memoriae, la vicenda di Mani Pulite, di cui il prossimo 17 febbraio si celebra il trentennale, rimane una grande questione italiana irrisolta, non tanto per gli esiti - scolpiti in decine di sentenze - quanto per i problemi sollevati che, al di là del clamore mediatico, ancora infestano la nostra vita pubblica: il rapporto tra politica e magistratura e il rapporto tra il potere e la corruzione. Così almeno la pensa uno dei protagonisti di quegli anni, l’ex giudice Gherardo Colombo, che rispetto agli altri componenti originari del pool che indagò su Tangentopoli, verso il codice penale e la sua procedura, compresi gli strumenti coercitivi come il carcere, ha sempre avuto un atteggiamento critico. Dottor Colombo, Mani Pulite fu un disegno di potere portato avanti da alcune procure violente? “Proprio per niente: Mani Pulite è stata un’indagine condotta seguendo in modo pedissequo le regole dell’epoca”. Che portarono agli eccessi carcerari di cui molti ancora vi accusano... “Forse contestualizzare aiuta. Per anni siamo stati accusati di aver abusato della custodia cautelare, di averla usata per “far parlare”. Ma mettiamoci di fronte alla gravità dei reati che via via scoprivamo, al pericolo concreto di inquinamento della prova e di reiterazione dipendente dall’esistenza di un vero sistema di corruzione legato al finanziamento illecito, e paragoniamo la mole delle nostre richieste al giudice perché applicasse la custodia cautelare con il numero delle persone quotidianamente arrestate a Milano per reati di strada; consideriamo quanta documentazione abbiamo raccolto sui reati contestati; osserviamo quante volte la corte di Cassazione ha censurato i provvedimenti del gip (non ne ricordo) e forse si vede il tutto con occhi diversi. Già solo questo paragone ridimensionerebbe, e di molto, la questione”. Secondo i revisori critici, mancò il rispetto delle regole... “Ora sembra che il tema della custodia cautelare non interessi più molto. Ora mi pare che l’accusa riguardi i fatti: i reati ce li saremmo inventati noi. Allora si vada a vedere la montagna di documenti bancari e societari, tra cui le transazioni finanziarie estero su estero, le agende, gli appunti che “fotografavano” i movimenti illeciti di denaro e il loro perché. A volte mi viene il sospetto che le aggressioni alle indagini di Mani Pulite dipendano da una inconscia ripulsa verso l’applicazione della legge penale al di fuori dai reati di sangue e da quelli da strada. La rivendicazione inconsapevole che una fascia della società, non solo della politica, debba essere esonerata dal controllo”. Però avete ghigliottinato un’intera classe politica... “A parte che non abbiamo ghigliottinato niente e nessuno, ci siamo trovati di fronte a decine di migliaia di reati. Cosa dovevamo fare, girarci dall’altra parte? Una soluzione l’avevo proposta, ma è stata lasciata cadere nel nulla”. Ne parleremo. Ci sono state alla fine anche tante assoluzioni o prescrizioni... “Non c’è dubbio, molte posizioni si sono risolte dopo condanne in primo e secondo grado grazie ai termini di prescrizione dimezzati per legge in corso d’opera o al cambio in corsa di altre regole essenziali. Il falso in bilancio è stato sottoposto a un dimagrimento forzoso, altrettanto è successo per l’abuso di ufficio. E così non poche condanne si sono trasformate in prescrizioni o in assoluzioni “perché il fatto non è più previsto come reato” (che vuol dire che quando è stato commesso lo era)”. Rapporto tra politica e magistratura: perché non si riesce a venirne a capo? “È evidente quanto funzioni male il sistema penale, quello in cui sono vissuto oltre trent’anni. Alcune disfunzioni dipendono da motivi strutturali (notevoli carenze di organico, per esempio). È necessario porvi rimedio e mi pare che sia stato assunto un impegno serio in questa direzione. A mio parere, però, è necessario che si esca dalla centralità del sistema penale: il ricorso al processo dovrebbe essere marginale e la pena dovrebbe essere uno strumento residuale completamente scevro dal senso di vendetta”. Dunque, meglio affidarsi alla politica? “Vede, non possiamo neanche dire che funzioni bene il complesso delle istituzioni che generalmente viene identificato nella “politica”. Credo che ci sia un problema a proposito dell’applicazione del principio della divisione dei poteri; mi pare che da parte della “politica” esista una certa insofferenza generale all’esercizio del controllo dei comportamenti devianti dei singoli da parte della magistratura; e che talvolta nella magistratura i principi di autonomia e indipendenza si trasformino in insofferenza al principio di responsabilità. Forse potrebbe aiutare riflettere sullo scopo e sugli strumenti idonei a raggiungerlo”. Ovvero? “Un equilibrio tra le varie funzioni (separate ed autonome, secondo un principio cardine dello stato di diritto, della democrazia), che a mio parere necessita anzitutto di consapevolezza e cultura condivisa, che implica tanta scuola”. Con la sua idea Mani Pulite si sarebbe potuta fare? “Bisogna intendersi sul senso delle parole, se per “mani pulite” intende lo svelamento del sistema della corruzione credo proprio di sì. Era il senso dell’idea che espressi già nel 1992: raccontare quel che è successo, restituire ciò di cui ci si è appropriati, allontanarsi dalla vita pubblica per un certo numero di anni avrebbe potuto essere uno strumento per svelare e riparare in parte i guasti e per evitare processo e carcere. Regola semplicissima, se l’idea fosse stata coltivata saremmo usciti da Tangentopoli per davvero in tempi ragionevoli. Avremmo potuto far emergere del tutto il sistema della corruzione con conseguenze assai meno pesanti per le persone coinvolte”. Perché non se ne parlò più? “Non se ne fece nulla proprio perché, a mio parere, avrebbe consentito di svelare completamente il sistema. Cosa che non è avvenuta e di cui, secondo me, continuiamo a portarci dietro l’eredità”. Il Cardinal Martini definì Mani Pulite “il nostro passaggio nel Mar Rosso” verso la liberazione. Davvero è stato così? “Purtroppo non mi pare. Questo è il Paese del gattopardo, tutto cambi perché nulla cambi. No, non è stato attraversato il Mar Rosso. Vogliamo sintetizzare le conseguenze di Mani Pulite? Sono finite le indagini ma non è finita la corruzione. La sfiducia cresce vorticosamente, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Siamo senza rimedio? “Un rimedio esiste: bisognerebbe investire tanto, e nel modo appropriato, nella cultura e nell’educazione, nella scuola, nella formazione delle persone, dei giornalisti, dei magistrati, della pubblica amministrazione. Il presidente Mattarella, nel discorso di insediamento, ha fatto una lezione sulla dignità, che è la parola fondativa della Costituzione. La Costituzione è la nostra prima legge, se non cerchiamo di rispettarla mettendo al primo posto il riconoscimento universale della dignità umana e la pratica della solidarietà sarà ben difficile guardare al futuro con speranza”. Delitto Cerciello: i carabinieri nelle chat augurano agli autori una fine “alla Cucchi” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 9 febbraio 2022 Depositate nuove carte al processo nei confronti del militare che bendò Natale Hjorth. “Ammazzateli più che potete” inneggia uno dei militari. “Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi...”. Il macabro auspicio viene dall’interno della caserma di via in Selci, elite investigativa dei carabinieri. È il 26 luglio 2019, giorno del fermo di Gabriel Christian Natale Hjorth, uno dei due indiziati per l’omicidio (avvenuto poche ore prima) di Mario Cerciello Rega, tra i militari, forse, uno dei più rispettati. Inciso: la sentenza nei confronti dei due militari che pestarono Cucchi (Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo) arriverà solo il 14 novembre 2019, ma l’Arma ha già annunciato l’intenzione di costituirsi parte civile al processo sui depistaggi e la verità su quell’episodio risalente al 2009 sta già facendo il giro di caserme e presidi, sussurrato. Eppure qui la consapevolezza è al limite della rivendicazione. Al processo nei confronti di Fabio Manganaro, il militare accusato di aver sottoposto Natale Hjorth a misura di rigore non consentita dalla legge - la benda sugli occhi immortalata in foto - sono state depositate le chat circolate quel giorno fra i carabinieri del Nucleo investigativo e altri colleghi. L’ingegnere Sergio Civino, incaricato dalla pm Maria Sabina Calabretta di estrarre i dati dagli apparecchi in uso ai militari, ha analizzato il contenuto dei messaggi, molti dei quali tradiscono rabbia, giustizialismo, vendetta: “Ammazzateli più che potete”, inneggia lo stesso che propone un pestaggio “alla Cucchi”. Mentre un collega teorizza trattamenti d’altre epoche e latitudini: “Non mi venite a dire: “Arrestiamoli e basta” - scrive -. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero quando fanno queste cose. Per carità, c’è gente che nonostante le difficoltà passate riesce a integrarsi, a lavorare e a farsi una famiglia ma poi ci sono ‘sti soggetti che sono come le bestie”. Alcuni si vantano: “Appena li hanno portati al Reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi...”. Altri ancora inneggiano: “Pena di morteeeeeeee...” Qualcuno fra i militari collegati in chat, timidamente, avanza dubbi riguardo al bendaggio di Natale Hjorth: “Una cavolata”. Ma il suo garantismo è travolto dalle esclamazioni di segno opposto: “Lat sfunnat e mazzate?” Li avete sfondati di mazzate? scrive in dialetto un collega. “Bisogna squagliarli nell’acido” è il suggerimento di un altro, un carabiniere tanto furioso quanto confuso (non è ancora riuscito a vedere Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, dunque pensa che siano due neri). Di colpo si fa strada il parere di una rappresentanza sindacale che suggerisce prudenza e introduce il tema dei diritti: “Poi sta quello del Cobar... che ha detto che non si toccano”, spiega uno. Risposta: “Ammazzate pure a lui”. Infine la chiosa, sbrigativa: “Che dito nel c... queste associazioni di m...” Dalle frasi inviate via smartphone emerge la consapevolezza diffusa che a prevalere possa essere la linea giustizialista, per usare un eufemismo: “Li dovrebbe prendere un’altra stazione”, dice un militare. Mentre un collega che ha fiutato gli umori generali replica: “Perché seriamente c’è il rischio che appena sbagliano a parlare li pestate”. Infine l’equivoco creato dalla segnalazione venuta in un primo momento dal superstite Andrea Varriale, il primo ad accusare erroneamente due extracomunitari: “Erano ‘sti due scemi. Non erano negri?”, domanda un militare. La prossima udienza sarà il 5 aprile e Natale Hjorth testimonierà sui fatti di quel giorno. Internet, diritto all’oblio da ponderare: sì alla deindicizzazione ma salvando la copia cache di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2022 La Corte di cassazione, con la sentenza n. 3952 depositata oggi, ha così accolto il ricorso di Yahoo! contro il Garante della Privacy. Frenata della Cassazione sul diritto all’oblio su internet. Per la Suprema corte se va riconosciuto il diritto alla deindicizzazione dei risultati con cui il motore di ricerca associa il nome di un privato cittadino ad una vicenda giudiziaria di interesse mediatico ma ormai superata, resta invece in forse la pretesa di eliminare in toto la notizia attraverso la cancellazione anche delle pagine e delle copie cache. Va infatti operato un “bilanciamento” prima di impedire completamente l’accesso alla informazione relativa alla vicenda qualora operata mediante altre chiavi di ricerca. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 3952 depositata oggi, ha così accolto il ricorso di Yahoo! Emea Limited e Yahoo Italia Srl contro il Garante della Privacy. Secondo il Tribunale di Milano invece il provvedimento dell’Authority che aveva ordinato alla società di rimuovere tutte le Url, cancellando anche le copie cache, era corretta in quanto i diritti fondamentali della persona interessata dovevano “prevalere non solo sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse del pubblico a trovare l’informazione”. La Prima sezione civile ricorda che la deindicizzazione si è affermata “come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua ad avere memoria”. In tal modo lo strumento “asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente”, oppure evita che una persona che ne ignori il coinvolgimento si imbatta nelle relative notizie “per ragioni casuali”. In questo senso la deindicizzazione opera già un bilanciamento determinando sì la cancellazione del contenuto dall’elenco dei risultati di ricerca ma soltanto quando essa è effettuata a partire da quel nome. Il contenuto resta invece disponibile quando si utilizzano altri criteri per l’interrogazione. Su questa linea la Cassazione (7559/2029) ha ritenuto soddisfatto il bilanciamento degli interessi dalla permanenza dell’articolo nell’archivio del quotidiano a condizione però che venisse deindicizzato dai siti generalisti. La cancellazione delle copie cache invece preclude al motore di ricerca di indicizzare i contenuti attraverso parole chiave anche diverse da quella corrispondente al nome dell’interessato. La decisione impugnata è stata allora censurata per aver stabilito una sorta di automatismo tra deindicizzazione e cancellazione del dato (nel caso presente nelle copie cache). Infatti, prosegue la Corte, di fronte ad una richiesta di cancellazione della copia cache “rimane centrale l’esigenza di ponderare gli interessi contrapposti”. E il bilanciamento non coincide con quello operante ai fini della deindicizzazione, “giacché l’eventuale sacrificio del diritto all’informazione non ha ad oggetto una notizia raggiungibile attraverso una ricerca condotta a partire del nome della persona, in funzione del richiamato diritto di questa a non essere trovata facilmente sulla rete, quanto la notizia in sé considerata, siccome raggiungibile attraverso ogni diversa chiave di ricerca”. Così, tornando alla vicenda specifica, siccome “venivano in questione articoli giornalistici e ulteriori contenuti riguardanti la vicenda …, era necessario non solo prendere in considerazione i dati personali di […] e verificare l’interesse a conoscere atti di indagine relativi allo stesso, ma, in senso più ampio, l’interesse a continuare ad essere informati sulla vicenda di cronaca nel suo complesso, per come accessibile attraverso l’attività del motore di ricerca”. “Deve pertanto concludersi - si legge nella decisione che afferma un principio di diritto - nel senso che la cancellazione delle copie cache relative a una informazione accessibile attraverso il motore di ricerca, in quanto incidente sulla capacità, da parte del detto motore di ricerca, di fornire una risposta all’interrogazione posta dall’utente attraverso una o più parole chiave, non consegue alla constatazione della sussistenza delle condizioni per la deindicizzazione del dato a partire dal nome della persona, ma esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato col diritto avente ad oggetto la diffusione e l’acquisizione dell’informazione, relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona”. Palermo. Giovane detenuto si suicida all’Ucciardone di Riccardo Campolo palermotoday.it, 9 febbraio 2022 Aveva 25 anni e si trovava nel carcere di via Enrico Albanese da settembre dopo una condanna definitiva a 3 anni e 8 mesi per alcune rapine. L’ex avvocato aveva presentato delle istanze per una perizia psichiatrica che però non avrebbe portato a nulla. Il direttore a PalermoToday: “Grande rammarico e massima vicinanza alla famiglia” È stato trovato in cella, con un lenzuolo stretto attorno al collo, e nonostante l’intervento dei sanitari non ce l’ha fatta. Un detenuto di 25 anni, F.M., si è suicidato ieri nel carcere Ucciardone dove era recluso da settembre per una condanna definitiva a 3 anni e 8 mesi. A trovarlo è stato il personale di vigilanza che ha chiamato subito i medici e gli operatori sanitari per provare a rianimarlo. Dopo l’accaduto sono i carabinieri hanno avviato le indagini ed eseguito i rilievi per cercare di chiarire cosa abbia spinto il giovane a togliersi la vita. Il ragazzo, condannato in via definitiva, aveva anche altri procedimenti penali pendenti e si trovava, al momento del decesso, in una cella d’isolamento. Terminata l’ispezione del medico legale, la salma è stata portata al Policlinico in attesa che il pm decida se disporre l’autopsia. Il 25enne era stato condannato dal tribunale di Termini per alcune rapine messe a segno in una tabaccheria, una merceria e un bar della provincia palermitana. Circa un anno e mezzo fa l’avvocato che seguiva il ragazzo aveva presentato delle istanze perché venisse eseguita, proprio per timore che potesse farsi male o addirittura suicidarsi, una perizia psichiatrica che però non avrebbe portato al risultato sperato. Da ottobre scorso il caso era stato affidato a un altro legale che, con un incidente di esecuzione, era riuscito a riunire alcuni procedimenti ottenendo uno sconto e portando la pena complessiva sotto la soglia dei 5 anni. “Esprimo grande rammarico per l’accaduto - spiega a PalermoToday il direttore dell’Ucciardone, Fabio Prestopino - e massima vicinanza alla famiglia in questo momento così difficile. Non posso aggiungere altro”. Santa Maria Capua Vetere. Falsi certificati medici dopo torture, Asl e Ministeri citati in giudizio di Attilio Nettuno casertanews.it, 9 febbraio 2022 I medici hanno attestato anche la negatività al Covid su reclusi mai visitati. Giudice prende tempo su istanza di citazione responsabili civili. Il Ministero della Giustizia ed il Ministero della Salute oltre all’Asl citati come responsabili civili nel processo per le torture avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. È quanto accaduto nel corso dell’udienza preliminare - a carico di 106 tra agenti e funzionari dell’amministrazione penitenziaria e due medici - celebrata dinanzi al gup Pasquale D’Angelo all’aula bunker di Santa Maria Capua Vetere. Le parti civili - circa 90 detenuti oltre ai familiari di Hakimi Lamine (il detenuto morto in seguito ai pestaggi), al Ministero della Giustizia, i garanti nazionale e regionale e l’Asl - hanno depositato l’istanza per la citazione del responsabile civile. Non solo è stata formalizzata quella per il Ministero della Giustizia (già anticipata nelle precedenti udienze) ma anche l’Asl ed il Ministero della Salute per i falsi referti redatti ai detenuti vittime dei pestaggi in cui veniva fatta risalire l’origine delle lesioni nel “contenimento” di una protesta oltre a certificare l’assenza di sintomi Covid - in seguito al contatto con un detenuto sospetto positivo - senza averli visitati. Il legale dell’Asl, l’avvocato Marco Alois, si è opposto all’istanza. Il giudice scioglierà la riserva alla prossima udienza. Asl e Ministero della Giustizia sono state già ammesse come parti civili ma potrebbero rivestire la doppia veste processuale di ‘parti offese’ e responsabili civili. Tra gli avvocati che difendono i detenuti vittime delle aggressioni ci sono: Carmine D’Onofrio (tra i primi a depositare una denuncia per uno dei detenuti facendo avviare l’indagine), Luca Viggiano, Goffredo Grasso, Fabio Della Corte, Giuseppe De Lucia, Gennaro Caracciolo, Ferdinando Letizia, Marco Argirò, Pasquale Delisati, Andrea Balletta e Giovanni Plomitallo. Si è costituita anche l’Asl di Caserta con l’avvocato Marco Alois e l’avvocatura dello Stato per il Ministero della Giustizia. Tra i difensori degli imputati sono impegnati - tra gli altri - gli avvocati Giuseppe Stellato, Mariano Omarto, Vittorio Giaquinto, Carlo De Stavola, Raffaele Costanzo, Angelo Raucci, Roberto Barbato, Dezio Ferraro, Elisabetta Carfora, Domenico Di Stasio, Valerio Stravino, Gerardo Marrocco, Massimo Trigari, Luca Di Caprio, Mario Corsiero, Rossana Ferraro, Ernesto De Angelis, Claudio Botti, Vitale Stefanelli, Michele Spina, Fabrizio Giordano, Raffaele Russo, Valerio Alfonso Stravino, Antonio Leone, Domenico Pigrini, Ciro Balbo, Dario Mancino, Natalina Mastellone, Gabriele Piatto, Massimiliano Di Fuccia, Carlo De Benedictis, Rosario Avenia, Domenico Scarpone, Eduardo Razzino e Nicola Russo. Sassari. Gianfranco Favini nuovo Garante comunale dei detenuti La Nuova Sardegna, 9 febbraio 2022 Il posto era vacante dal 16 dicembre dopo la revoca dell’incarico ad Antonio Unida. Da oggi 8 febbraio Sassari ha di nuovo un garante dei detenuti. Gianfranco Favini, indicato lo scorso 3 febbraio dal Consiglio comunale, ha giurato di fronte al sindaco Nanni Campus e al presidente del Consiglio comunale, Maurilio Murru. L’incarico di garante dei diritti delle persone private della libertà personale era vacante dal 16 dicembre, quando l’assemblea civica aveva revocato Antonello Unida, che aveva perso la fiducia della maggioranza civica e grillina da cui era stato indicato a causa delle sue posizioni critiche verso la gestione governativa dell’emergenza pandemica. Favini, 75 anni, tributarista e insegnante di discipline economico-aziendali, è da sempre impegnato nel mondo del volontariato: fondatore nel 2003 e tuttora presidente dell’Associazione Alzheimer Sassari, è direttore del Centro diurno integrato di riabilitazione per le demenze e Alzheimer a San Camillo. Crotone. Federico Ferraro nominato Garante comunale dei Detenuti crotoneok.it, 9 febbraio 2022 Il sindaco Vincenzo Voce con proprio decreto, a seguito di procedura ad evidenza pubblica, ha nominato Garante Comunale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Federico Ferraro, di professione avvocato: un incarico che Ferraro ha già svolto tra il 2018 e il 2021. Il Garante, figura prevista dal Regolamento Comunale, opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale, anche mediante la promozione dell’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale ovvero limitate nella libertà di movimento domiciliate, residenti o dimoranti nel territorio del Comune di Crotone, con particolare riferimento ai diritti fondamentali, alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune medesimo, tenendo altresì conto della loro condizione di restrizione e la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani. Catanzaro. La residenza per detenuti psichiatrici di Girifalco vicina all’apertura lacnews24.it, 9 febbraio 2022 La struttura che sorge nel borgo del catanzarese è predisposta ad accogliere 40 ospiti, ma le liste di attesa contano in Italia centinaia di persone. Attesa da anni, necessaria e opportuna come non mai, Girifalco attende tra una manciata di mesi l’inaugurazione della sesta Rems italiana. Nei locali di fronte al vecchio manicomio, ora diventato ospedale monumentale, lì dove un tempo venivano alloggiati i malati considerati meno pericolosi, in due moduli sorgerà la residenza per detenuti con patologie psichiatriche, non in grado di intendere e di volere. Soggetti le cui condizioni non sono compatibili con una detenzione “normale”. Due i moduli predisposti, per un totale di 40 ospiti, ma le richieste accumulate sono molte di più. Non solo la Calabria, ma l’Italia tutta è indietro in questa battaglia di civiltà rivolta ai detenuti psichiatrici. In Calabria una residenza analoga si trova a Santa Sofia D’Epiro, nel cosentino, ma con un numero striminzito di posti e lunghe liste d’attesa. Le tappe della Rems - La Rems di Girifalco nasce progettualmente intorno al 2015, ma diversi sono stati gli intoppo burocratici che ne hanno rallentato il percorso. Non ultimo quel nubifragio che portò una strada a franare rovinosamente, bloccando i lavori. Ora dall’Asp sono state indette praticamente tutte le procedure di gara per i macchinari diagnostici. Un’ala della Rems, ci ricorda il sindaco Pietrantonio Cristofaro, è infatti dedicata alla diagnostica perché il primo obiettivo deve essere la cura e il recupero. Vanno poi espletati i concorsi per l’assunzione del personale necessario, fatto il collaudo dei lavori e così via. Senza incappare in imprevisti, la Rems di Girifalco potrebbe essere inaugurata entro l’estate. E questo costituirebbe un collante con il suo passato. La storia dell’ex manicomio - Il manicomio di Girifalco ha contraddistinto la storia del paese e della comunità, primo esempio di inclusione dei pazienti, che non era raro vedere passeggiare per le strade della cittadina. Dopo l’Unità d’Italia, la decisione di creare in Calabria un luogo dedicato agli ammalati psichiatrici visto che il più vicino fino ad allora era stato quello di Aversa. Ad occuparsene fu il prefetto di Catanzaro Colucci che verificò varie strutture ricadenti più o meno nello stesso pugno di territorio, fino a quando nel 1878 la scelta ricadde sul convento dei frati minori riformati di Girifalco. Fu l’alienista genovese Dario Maragliano ad occuparsi della riconversione in frenocomio, letteralmente asilo per alienati. Maragliano ne prese anche la direzione, era il 1880 quando nasce sulla carta l’ospedale psichiatrico provinciale di Catanzaro in Girifalco. Poi la legge Basaglia, la chiusura dei manicomi e l’inizio di un nuovo percorso. A Girifalco il 15 magio 1978 si chiudono le porte, fino ad allora erano state registrate 15.794 cartelle cliniche diventate poi importantissimo oggetto di studi e di riflessione. Milano. “Io prima bulla poi vittima: ora aiuto le altre ragazze” di Manuela Messina La Repubblica, 9 febbraio 2022 Il progetto della onlus “FareXBene” si chiama BullisNo: forma giovani educatrici a dare supporto a chi viene coinvolto in episodi di bullismo e cyberbullismo. “Il bullismo nelle scuole c’è, anche se ci sono professori e genitori che fanno finta che non ci sia”. Non sempre gli adulti lo riconoscono, al contrario ci sono ragazzi che, visto che certe esperienze le hanno già vissute ed elaborate, sanno anche aiutare gli altri. Tanto che sono diventati punto di riferimento dei loro coetanei. Margherita, 17 anni, che frequenta la quarta al liceo Carducci di Milano, oggi è “peer educator”, educatrice tra pari, nel progetto “BullisNO” della onlus “Fare X Bene”. È formata per dare supporto a chi, a scuola, viene coinvolto in un episodio di bullismo o di cyberbullismo, anche perché lei certe esperienze le ha vissute sulla propria pelle. “Sono stata bulla alle elementari, ma me ne sono accorta solo dopo”, racconta. “Grazie alla mia corporatura più robusta della media, ero sempre quella che correva più veloce, sia tra le ragazze che tra i ragazzi. Avevo la mia cerchia di amici e ho iniziato a prendere in giro gli altri”. Un giorno però, quella bambina così “popolare” diventa vittima. “Un compagno a scuola mi ha dato un calcio e in quel momento ho realizzato che il suo, come anche il mio, non erano atteggiamenti intelligenti”. Perché il punto è che i bulli (e anche le vittime) a volte non sanno nemmeno di esserlo. “Quando sono andata alle medie sono stata spettatrice di alcuni episodi. Non mi andava di restare a guardare e ho iniziato a difendere gli altri, ma questo non è piaciuto”. Margherita subisce così un “colpo basso” e viene accusata ingiustamente di avere rubato un portafogli a una compagna di classe. I professori la difendono, non credono che sia stata lei e non prendono provvedimenti verso nessuno, ma tutta la scuola la addita come ladra. “Mi sentivo sbagliata - continua - non capivo perché venivo attaccata. Mi sono chiusa in me stessa e non ho più permesso a nessuno di avvicinarmi”. Anche al liceo torna nuovamente a essere vittima su una chat di soli ragazzi, questa volta per il suo aspetto fisico. Ma ha la fortuna di incontrare Giusy Laganà, la fondatrice del progetto, grazie al quale elabora la propria esperienza riuscendo anche a metterla al servizio degli altri. Chiara, 15 anni, che frequenta il liceo scientifico Vittorio Veneto, è diventata educatrice tra pari già in prima media e oggi, a scuola e non solo, parla con criterio di argomenti importanti come bullismo, cyberbullismo e violenza di genere. “All’inizio a muovermi era pura curiosità, poi questa si è trasformata nell’esigenza di non volere restare indifferente”. Andando avanti, anche lei, nel diventare punto di riferimento per alcuni, si trasforma in un bersaglio per altri. “Solo perché avevo iniziato a difendere alcuni dei miei compagni, mi hanno esclusa dalla chat di classe e ne hanno fatta un’altra in cui parlavano male di me. Ne facevano parte anche alcune amiche strette, solo per essere accettate”. Per fortuna, grazie ai percorsi fatti, non si è fatta scoraggiare. “Ne ho parlato con i miei genitori, che è importantissimo anche perché intorno alle vittime di bullismo spesso viene a mancare la solidarietà. E abbiamo gestito insieme la situazione”. Detenuti tra rap e teatro, il racconto di Kento in ‘Barre aperte’ di Fabrizia Ferrazzoli dire.it, 9 febbraio 2022 Le chiama ‘realtà irrinunciabili’, Kento. Lui, rapper, scrittore e attivista che da tempo è impegnato negli istituti penali per minori con dei laboratori, ha la vocazione di dare voce a chi non è ascoltato. La sua esperienza didattica e d’incontro nelle carceri diventa così un progetto a sé che si chiama ‘Barre Aperte’. Una finestra aperta su una realtà troppe volte dimenticata, quella della detenzione minorile, che si fa racconto in questa web serie disponibile su YouTube e in anteprima su Repubblica TV. Otto episodi in tutto, che durano poco meno di 10 minuti, accendono i riflettori su vita, sogni e storie di ragazzi sottoposti a provvedimenti penali ma anche su professionisti e volontari impegnati nella formazione, umana e professionale, di chi vive recluso. In primo piano le attività artistiche dei teatri dell’Istituto Penale per Minorenni Beccaria di Milano e a quello di Airola, in provincia di Benevento. Scritta da Kento, con le riprese e il montaggio di Hélio Gomes, ‘Barre Aperte’ è un progetto realizzato da CCO - Crisi Come Opportunità e Associazione Puntozero, con il supporto di Fondazione Alta Mane Italia. Con ritmo serrato e veloce, Kento svela un percorso di musica e teatro dove il confine tra il dentro e il fuori sembra non esserci: “Le sbarre che dividono il carcere dal mondo dei liberi funzionano in entrambi i sensi, tengono i carcerati fuori dal mondo, ma tengono anche il mondo al di fuori di quella realtà, quindi tutti gli strumenti fisici e culturali che riescono a far superare queste sbarre sono secondo me fondamentali”. Ecco allora che il format ‘Barre Aperte’ diventa indispensabile per trasmettere il messaggio che un carcere non è nella città ma è della città. Puntata dopo puntata le testimonianze dei protagonisti mettono nero su bianco come le aspettative dei giovani cambino e come l’arte sia motore di una nuova consapevolezza emotiva e di una ritrovata autostima. “Il lavoro sul fronte artistico - spiega Kento all’Agenzia Dire - è importante almeno su cinque fronti: prima di tutto sul fronte della stima personale, in secondo luogo per l’inserimento nella socialità ristretta tra ragazzi, per la stima da parte degli adulti, del personale, degli operatori e di chiunque li segua. Inoltre l’attività artistica viene inserita nel fascicolo del detenuto e viene considerata uno step del suo percorso verso la libertà e infine, forse l’aspetto più significativo per me, è il cambiamento di ruolo: ragazzi a cui viene detto che cosa devono fare per una volta sono quello che dicono, sono quelli dalla parte della capsula del microfono”. E l’esperienza artistica diventa anche esperienza professionale: c’è un palco sì da calcare ma anche da disegnare per esempio con luci, fonia e scenografia. E poi, oltre al comparto audio, che richiede elettricisti e tecnici del suono, c’è quello video che, in pandemia, diventa la finestra per il mondo che c’è fuori. “CCO - Crisi Come Opportunità e Punto Zero che hanno realizzato ‘Barre Aperte’- racconta Giulia Agostini, Presidente di CCO- fanno parte di una rete nazionale di associazioni che portano l’arte negli istituti penitenziari minorili. Ci siamo messi insieme circa un paio di anni fa perché crediamo che insieme possiamo avere più forza verso le istituzioni e portare avanti delle istanze di miglioramenti per i ragazzi che in questo momento sono ristretti”. ‘Barre Aperte’ “può piacere o non piacere- conclude Kento- ma di sicuro è qualcosa che non si è ancora mai visto prima”. Giustizia, cannabis, eutanasia: può nascere un’Italia 2.0 di Andrea Pugiotto Il Riformista, 9 febbraio 2022 I giudici costituzionali decideranno se in primavera voteremo e su quali quesiti. La posta in gioco è alta: l’esercizio di voto e l’avvio di una stagione di riforme su temi di grande rilievo sociale. 1. La stagione referendaria avviata l’estate scorsa affronterà, il 15 febbraio, un tornante decisivo: il giudizio sull’ammissibilità dei quesiti in tema di eutanasia, cannabis e giustizia da parte della Consulta. Se e quali voteremo, in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno, dipenderà dalle sue decisioni. Il rischio di uno slittamento al 2023, infatti, è ormai sventato: da qui alle urne referendarie, difficilmente interverrà un decreto di scioglimento anticipato delle Camere, firmato da un Capo dello Stato appena rieletto, e controfirmato da un Presidente del Consiglio inchiodato a Palazzo Chigi per proseguire l’azione di governo. Egualmente remota è l’ipotesi che, in un così breve segmento di tempo, siano approvate leggi last minute innovative di quelle oggetto dei referendum, tali da disinnescarli. Quel tornante (e come ci si è arrivati) va allora illuminato a giorno. Perché conoscere serve a deliberare. Ma anche a misurare le decisioni che gli attori del procedimento referendario (promotori, Ufficio centrale di Cassazione, giudici costituzionali) hanno preso o assumeranno. La posta in gioco è alta: l’esercizio del diritto di voto e - sulla scia dei suoi esiti - l’avvio di una stagione di riforme su temi di grande rilievo sociale. Per il Paese, sarebbe un salutare remake. 2. L’atteso giudizio della Consulta ha, alle spalle, quello già espresso dall’Ufficio centrale per il referendum (UCR) presso la Cassazione. Fasi dello stesso procedimento, tra i due esiste una concatenzione logica e cronologica. Guardiamo allora al primo, colpevolmente trascurato dai commentatori. Eppure le relative ordinanze, depositate tra il 26 novembre e il 10 gennaio, hanno lasciato il segno, bocciando un referendum e denominando ufficialmente quelli promossi. Lette in filigrana, inoltre, mostrano dati di politica del diritto di sicuro interesse. 3. A conferma che la campagna referendaria popolare è una difficile corsa a ostacoli, è caduto il referendum sulla caccia: largamente inferiori al necessario le firme raccolte, anche a considerare quelle tardivamente depositate, benché i promotori si siano avvalsi di sottoscrizioni online. All’opposto, nel caso dei referendum eutanasia e cannabis capitanati dall’Associazione Coscioni, le operazioni di verifica e conteggio attestano che le firme digitali sono state decisive per superare la soglia delle 500.000 richieste. Alla prova dei fatti, esce così smentito l’assunto per cui le sottoscrizioni online assicurerebbero il necessario consenso referendario, dopandolo artificialmente. La tecnologia non basta. A fare la differenza è la credibilità del comitato promotore, la sua azione politica pregressa, la sua capacità di fare rete, mobilitandola. Detto altrimenti, serve la politica. E quando il referendum è proiezione di una riconoscibile politica, il timore di una click-democracy è solo lo spettro denunciato da precipitosi acchiappa fantasmi. 4. Per i sei referendum sulla giustizia, il controllo svolto dall’UCR è stato più agevole, perché promossi da nove consigli regionali (Basilicata, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Sardegna, Sicilia, Umbria, Veneto), tutti di centrodestra. Niente moduli vidimati da verificare, né firme autenticate con annessi certificati elettorali da controllare: solo delibere consiliari su identici quesiti, formalmente corrette, approvate a maggioranza assoluta. I promotori, dunque, sono esclusivamente le Regioni, nelle persone dei propri delegati designati dai rispettivi consigli. Non esiste, invece, alcun comitato promotore leghista-radicale, perché le centinaia di scatoloni stipati in via Bellerio e stracolmi di firme non sono mai stati portati in Cassazione. E poiché una sottoscrizione referendaria è tale solo se verificata e conteggiata dall’UCR, le complessive 4.275.000 firme (asseritamente) raccolte sono pari a 0. Giuridicamente, non esistono. Sottratte al necessario controllo di legalità, sono solo fittizie. Usciti di scena i promotori originari, a interloquire con l’UCR sulla denominazione dei quesiti sono rimasti i soli delegati regionali. E così sarà per le prossime tappe: la costituzione di parte nel giudizio di ammissibilità spetterà solo a loro, come pure gli spazi televisivi nella campagna referendaria che verrà. Inoltre, in qualità di potere dello Stato, solo gli effettivi promotori sono legittimati a sollevare conflitti di attribuzione a Corte, in difesa dei referendum. Le ordinanze in esame svelano anche l’identità dei delegati designati, in numero di due per Regione. Uno svetta sugli altri per caratura politica: Roberto Calderoli, nominato delegato supplente dalla Basilicata per tutti i sei quesiti promossi. Nessun esponente radicale compare, invece, in elenco. Sta qui, in questa egemonia leghista, l’autentica ragione del suicidio (politicamente assistito) dell’iniziale comitato promotore. La regia della campagna referendaria sarà dunque a trazione leghista: il suo tono (“Chi sbaglia paga” è lo slogan referendario del Carroccio), il volerne fare “un banco di prova per il cosiddetto centrodestra” (come dichiarato da Salvini), la posizione ancillare dei radicali, rischiano di minarne la vocazione trasversale, ostacolando così l’ampliamento del fronte garantista favorevole ai quesiti. 5. Per legge la denominazione dei referendum spetta all’UCR, sentiti i promotori: il titolo così deciso sarà riprodotto sulle schede, identificando l’oggetto della domanda abrogativa. Si tratta di un dato tutt’altro che formale, dal quale dipende l’espressione di “un voto pienamente consapevole, non condizionato, né condizionabile” (ord. 15 dicembre 2021). La scelta si è rivelata particolarmente controversa per tre quesiti: legge Severino, legge elettorale del Csm, eutanasia. Nel primo caso, è stata respinta la proposta dei delegati regionali di qualificare come sanzione l’incandidabilità conseguente al giudicato di condanna. L’UCR fa leva sulla lettera e sulla ratio della legge Severino, ma avrebbe anche potuto utilmente rivere chiamare due recenti sentenze della Corte EDU (17 giugno 2021, Miniscalco c. Italia e Galan c. Italia) che ne hanno egualmente escluso la natura materialmente penale. Nel secondo caso, il titolo proposto dalle Regioni (“Riforma delle elezioni dei membri togati del Csm”) è stato respinto come “fuorviante” perché riferito a un voto referendario “esclusivamente abrogativo”, mentre una riforma “implica l’introduzione nell’ordinamento di nuovi contenuti normativi”. L’UCR rivela così un approccio formalistico e arcaico all’istituto referendario, in realtà capace - abrogando in tutto o in parte una legge - di innovare comunque l’ordinamento. Non diversamente, anche il titolo proposto per il referendum eutanasia è stato respinto perché non rispettoso dei “limiti di un quesito di natura abrogativa” e invasivo di scelte rimesse al legislatore. Qui, per sovrappiù, l’UCR è inciampato in un fraintendimento circa il fine della richiesta referendaria: vediamo come e perché. 6. “Abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente)”: questo il titolo ufficiale del quesito che i promotori avrebbero voluto integrare con un sottotitolo esplicativo: “Disponibilità della propria vita mediante consenso libero, consapevole, informato”. Proposta respinta perché contenente “l’indicazione di un bilanciamento fra diritti di pari dignità costituzionale”: il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione. Indicazione che l’UCR giudica “non neutrale” né ricavabile dalla sent. n. 242/2019 sul caso Cappato. In realtà, il quesito mira ad altro. Vuole rovesciare quanto previsto dal codice Rocco, sostituendo al dodi vivere il diritto a disporre della propria vita, rimanendo presidiata la difesa della vita altrui, addirittura rafforzata dall’abrogazione del reato di omicidio del consenziente. Considerato che mai la giurisprudenza sull’art. 579 c.p. ha riconosciuto la presenza di un consenso validamente prestato, giococoforza il solo ambito in cui il principio di autodeterminazione potrà legittimamente operare è all’interno della legge n. 219 del 2017 in tema di consenso informato e testamento biologico. È la stessa procedura richiamata dalla Consulta nella citata sent. n. 242/2019. L’espressione “con il consenso di lui”, che sopravvive nell’art. 579 c.p. a seguito dell’abrogazione referendaria, presta il giusto aggancio a tale interpretazione sistematica. Il sottotitolo esplicativo proposto dal comitato promotore a questo serviva: rendere chiaro agli elettori quale principio giuridico il quesito intende introdurre. La decisione contraria dell’UCR è stata prontamente cavalcata dagli avversari del referendum (Giovanna Razzano, Il Sole-24 Ore, 17 gennaio 2022). Ciò nel malcelato auspicio che la denominazione del quesito irrompa nel giudizio sulla sua ammissibilità come criterio per contestarne la (presunta) ambiguità, emergente dallo scarto tra l’intento dei promotori e i suoi effetti normativi. Vedremo. In ogni caso, i giudici costituzionali sanno bene di essere vincolati a quanto stabilito dall’UCR limitatamente alla riconosciuta conformità del referendum alla legge n. 352 del 1970. Non anche alla denominazione del quesito, in ragione della piena autonomia che contraddistingue i due giudizi e i rispettivi esiti: lo confermano i casi in cui la Consulta ha espresso dissenso rispetto al titolo attribuito dall’UCR al referendum (cfr. sentt. nn. 40/1997 e 37/2000). 7. Questo è quanto deciso collegialmente dall’UCR. Sono provvedimenti delicati, perciò affidati a un organo giurisdizionale imparziale. Sarebbe stato saggio, allora, evitare il potenziale conflitto d’interessi di uno dei suoi membri, già parlamentare e sottosegretario, curatore del volume Eutanasia. Le ragioni del no (Edizioni Cantagalli, 2021), vicepresidente di un centro studi intervenuto a Corte in opposizione alle scelte sul “fine vita” patrocinate dall’Associazione Coscioni (cfr. ord. n. 207/2018, sent. n. 242/2019). Tocca dirlo: “gravi ragioni di convenienza” (art. 51, comma 2, c.p.c.) avrebbero suggerito una volontaria astensione. Fine vita, domani il testo in Aula. E la Lega annuncia battaglia di Davide Varì Il Dubbio, 9 febbraio 2022 In tutto gli emendamenti depositati sono oltre 200 e provengono quasi tutti dal centrodestra. Critico anche Magi (+Europa): “Testo imperfetto”. “Io non so come e se questa legge si intreccerà con il referendum sull’ eutanasia, so però che si tratta di un testo imperfetto e che presenta diversi nodi irrisolti”. Riccardo Magi di Più Europa ha presentato circa una “ventina di emendamenti” al testo sul suicidio assistito che torna domani pomeriggio all’esame dell’aula di Montecitorio, dopo lo slittamento tra legge di Bilancio e Colle. “Se non ci fosse stato il referendum - commenta Magi - non avremmo avuto neanche questa legge che pure è imperfetta. Per tre anni, nonostante il richiamo della Corte costituzionale, non si è fatto nulla. Poi sulla spinta del referendum si è approvato anche un po’ frettolosamente un testo senza sciogliere nodi giuridici in commissione che, temo, sarà ancora più difficile sciogliere in aula”. Diversi i punti controversi, secondo Magi. “Tra gli emendamenti che ho presentato c’è quello che fa riferimento all’essere stati coinvolti nelle cure palliative. Che vuol dire? Che è un obbligo farle per accedere al suicidio assistito? E poi si chiede al medico di fare una relazione sulle condizioni cliniche, psicologiche, sociali e familiari del richiedente. Ma il medico non è un’assistente sociale, non è suo compito stabilire le condizioni sociali e familiari e questo potrebbe creare un blocco”. Ed ancora: “Non c’è certezza sui tempi dei vari step della procedura e questo può creare un imbuto burocratico”. Infine il punto dell’obiezione di coscienza: “Questo rischia di essere un ostacolo decisivo, già vediamo i problemi che ci sono sull’aborto”. Le divisioni nella maggioranza, già emerse alla chiusura dei lavori in commissione, restano. Nella Lega, in Forza Italia, tra i centristi, oltre che in Fdi sul versante opposizione. In tutto gli emendamenti depositati sono oltre 200 e provengono nella quasi totalità da Fdi, Lega, Forza Italia e centristi tra Coraggio Italia e Noi con l’Italia, oltre ad alcuni presentati da Italia Viva e, appunto, da Riccardo Magi. Domani mattina verranno esaminati dal comitato dei 9. Nicola Provenza dei 5 Stelle relatore della legge insieme al dem Alfredo Bazoli è tuttavia “fiducioso”. Per due ordini di motivi, spiega all’Adnkronos. Per il lavoro di mediazione raggiunto in commissione. Lo stesso capogruppo leghista in Giustizia, Roberto Turri, si è detto “soddisfatto” per le modifiche accolte che restano però “insufficienti”. E poi Provenza confida sul fatto che il Parlamento non perderà l’occasione di “approvare finalmente una legge che ponga fine alle sofferenze inaudite di tante persone”. “La parola più usata dal presidente Mattarella nel suo discorso qui alla Camera - dice Provenza - è stata “dignità”. Ecco se la dignità del Parlamento deve manifestarsi, non c’è occasione migliore” di questa. Tuttavia il rischio di arrivare ad un’approvazione che non raccolga il consenso dell’intera maggioranza è concreto. Spiega Turri all’Adnkronos: “Noi restiamo contrari a questa legge, proveremo a migliorarla con i nostri emendamenti, spiegheremo la nostra posizione e daremo battaglia in aula”. Ma nessun ostruzionismo assicura: “No, non c’è alcun intento di questo tipo. Abbiamo presentato una cinquantina di emendamenti. Proveremo a far passare qualche modifica in aula”. Osserva il relatore Provenza: “La mediazione non può accontentare tutti. Abbiamo lavorato cercando di trovare un equilibrio sulle garanzie a tutela delle persone che richiedono la procedura del suicidio assistito, tra chi voleva introdurre moltissimi paletti e chi non voleva metterli proprio. Ma quella sintesi è stata raggiunta e io credo che il Parlamento non mancherà di dare finalmente una risposta-sollecitata anche dalla Corte Costituzionale- su un tema delicato ed eticamente sensibile, ma che non è possibile rimandare di fronte al Paese”. E sul quale pende un referendum. Il parlamento è fermo sul fine vita, Speranza prova a dargli una spinta di Sonia Ricci Il Domani, 9 febbraio 2022 La legge sul fine vita, ovvero le norme sull’aiuto medico fornito ai pazienti con malattie irreversibili che decidono di morire tramite suicidio, è bloccata dalle divisioni interne alla maggioranza e al parlamento. Le norme dovrebbero essere discusse dall’aula della Camera questa settimana, per poi passare al Senato, ma il governo non ha inserito il tema tra le sue priorità. Inoltre Lega e Fratelli d’Italia annunciano un’opposizione durissima e i tempi per avere una legge si prospettano molto lunghi. Senza dimenticare che il 15 febbraio la Corte costituzionale dovrà esprimersi sulla richiesta di un referendum sull’eutanasia legale. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha provato a velocizzare l’iter presentando un decreto ministeriale che prevede che i pareri sulle procedure di suicidio volontario dovranno essere rilasciati dai comitati etici regionali, organismi istituiti dalla legge Lorenzin che solitamente si occupano delle sperimentazioni in ambito sanitario. La decisione è arrivata dopo il caso di “Mario”. Il paziente di 43 anni tetraplegico che si è visto rifiutare dall’Asl delle Marche, nell’agosto 2020, l’accesso alle procedure di suicidio assistito, prima che un tribunale imponesse all’azienda sanitaria di procedere con l’iter facendo riferimento alla sentenza della Corte costituzionale del 2019 che ha depenalizzato l’aiuto al suicidio. Il decreto di Speranza cerca di risolvere la discrasia tra ciò che ha previsto la sentenza della Corte e il vuoto normativo attuale. Ma in mancanza di una legge fatta dal parlamento rappresenta solo un lieve progresso nella regolamentazione della materia. Il decreto potrebbe comunque accelerare l’iter della richiesta di suicidio assistito, evitando ai malati parte delle trafile burocratiche e i ricorsi di fronte ai tribunali. È di questo parere Marco Cappato, ex europarlamentare dei Radicali e attivista dell’associazione Luca Coscioni che si è occupata del caso di “Mario” e che sostiene che si tratti solo di “un piccolo passo avanti” perché contribuirà “a superare quei pretesti burocratici che vengono utilizzati per impedire ai malati l’esercizio dei loro diritti”. Ma più in generale l’impostazione delle azioni del governo e del parlamento rimane sbagliata, dice, perché “la sentenza della Corte è già legge, immediatamente applicabile, e dunque quello che Speranza avrebbero dovuto chiarire che c’è un dovere del sistema sanitario di adempiere e rispettare la richiesta dei malati”. L’iniziativa del ministro è sbagliatissima, ma per i motivi opposti, anche secondo 70 associazioni cattoliche (tra le quali Alleanza cattolica, Amci, Pro Vita e famiglia, Centro studi Livatino, Cism e Movimento per la vita) che, come riportato dall’agenzia Sir, l’organo d’informazione della Cei, hanno firmato un documento accusando Speranza di scavalcare il parlamento e di “stravolgere la funzione dei comitati etici”. Il decreto Speranza prende spunto proprio dalla cosiddetta “sentenza Cappato”, con cui la Consulta si è pronunciata sul caso dell’ex europarlamentare, accusato del reato di aiuto al suicidio per aver accompagnato Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo, a morire in Svizzera. La sentenza ha escluso la punibilità per chi aiuta un paziente a suicidarsi a patto che siano rispettate alcune condizioni. Quattro i criteri fissati dai giudici. Non è punibile colui che agevola “l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale” (il primo) e affetta da una patologia irreversibile, “fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili” (il secondo), ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (il terzo). I primi tre criteri, insieme alle modalità di esecuzione, devono essere “verificati da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” (il quarto). La norma arriva dopo alcuni mesi dal caso di “Mario” (nome di fantasia ndr). Nel 2020 il paziente ha chiesto all’Asl delle Marche di valutare la sussistenza delle condizioni enunciate dalla Corte ed evitare di doversi recare in Svizzera dove il suicidio medico è legale. Inizialmente la Asl ha risposto con un diniego e così “Mario” ha deciso di rivolgersi a un tribunale. Dopo una prima sentenza negativa, e un successivo ricorso, il tribunale di Ancona ha ribaltato la decisione del giudice precedente imponendo all’Asl di procedere con la relazione dei medici per attestare la presenza delle quattro condizioni previste dalla Corte. La relazione dell’azienda sanitaria è stata esaminata dal comitato etico regionale che ha sospeso il parere precisando che mancava la definizione del processo di somministrazione del farmaco eutanasico. Una decisione definitiva deve ancora essere presa. Il decreto di di Speranza non eviterà tutte le lungaggini del processo, né obbligherà medici e comitato a dare il via libera alle richieste, ma assegnando i parerei ai comitati, e quindi sgombrando il campo da possibili ambiguità, eviterà probabilmente ai pazienti come “Mario” di doversi rivolgere ai giudici per sollecitare le Asl. Rappresenta un segnale anche nei confronti del parlamento che sul tema promette una legge dal 2018 ma ancora non ha fatto nulla. Tenendo conto di quello che hanno già deciso i giudici costituzionali, mancano delle norme per imporre tempi certi e sanzioni alle Asl inadempienti. “Se un malato scrive alla Asl di competenza per chiedere l’aiuto medico per la morte volontaria, quanto tempo ha la Asl per fare le visite? E il comitato etico quanto tempo ha per potersi esprimere?”, si chiede Cappato. La legge in discussione in parlamento non fissa queste regole eppure sarebbero necessarie. Referendum cannabis, il 15 la parola alla Consulta di Riccardo Magi Il Manifesto, 9 febbraio 2022 Il discorso al Parlamento del Presidente della Repubblica è stato analizzato a fondo, i commentatori l’hanno battezzato: “agenda Mattarella”. Tuttavia molti hanno ignorato il richiamo alla necessità di un “costante inveramento della democrazia” e all’importanza di una “nuova stagione di partecipazione dei cittadini”. Tra sei giorni la Corte Costituzionale si riunirà per giudicare dell’ammissibilità del Referendum Cannabis. Un seminario organizzato dal Comitato promotore, con la partecipazione di costituzionalisti ed esperti, ha evidenziato con completezza di argomenti la solidità giuridica del quesito sotto il profilo costituzionale, penalistico e del rispetto degli obblighi internazionali. La questione che intendiamo sottoporre al popolo sovrano è l’urgenza, non più rinviabile, di riformare la legge italiana sulle droghe. Con il referendum si modificano le norme vigenti attenuando l’intervento sanzionatorio: non sarà più punibile la coltivazione di cannabis per uso personale, sarà eliminata la pena detentiva per tutte le condotte relative alla cannabis e anche la principale sanzione amministrativa per la detenzione per uso personale. Un intervento referendario che investe disposizioni di legge tra loro logicamente e funzionalmente collegate (di qui l’omogeneità del quesito) e che spinge politicamente verso una nuova regolamentazione della cannabis. Se ne può parlare? Si può aprire un dibattito serio e informato che parta dalla valutazione degli effetti dell’attuale normativa e arrivi a una decisione meditata, equilibrata ma incisiva sulla realtà? La risposta è tutta nella possibilità di celebrare questo referendum. Si tratta di una enorme questione sociale che tocca la vita di milioni di consumatori (se ne stimano più di 6 in Italia); di una questione di legalità, perché il mercato illegale cresce senza essere scalfito da un’azione repressiva che costa miliardi; di una questione di tutela della salute dei cittadini e della loro libertà di fronte alla pretesa punitiva dello Stato per condotte non lesive nei confronti di alcuno; di una questione infine che potrebbe generare opportunità di lavoro con l’apertura di un mercato legale. Nonostante queste evidenze lampanti - che nel mondo stanno portando un numero crescente di Stati a superare le politiche proibizioniste - in più di trent’anni non c’è stato modo di riformare la legge italiana sugli stupefacenti e il suo impianto repressivo e criminogeno. Solo la Corte costituzionale è intervenuta a più riprese dichiarando l’incostituzionalità di alcune sue parti e l’intento referendario, come opportunamente rilevato dal professor Pugiotto, è del tutto assimilabile a quello della Corte. Anche la Conferenza nazionale sulle Droghe organizzata lo scorso novembre dal Governo a Genova ha indicato al legislatore, come misure da adottare, la depenalizzazione dei reati di lieve entità, la decriminalizzazione effettiva della detenzione per uso personale, la legalizzazione dell’autocoltivazione, ma ciò non ha avuto alcun effetto sull’agenda parlamentare che vede tuttora arenata in commissione Giustizia la proposta di legge che darebbe alcune risposte. Immobile è il Parlamento e immobile è la situazione delle carceri italiane, nelle quali si entra soprattutto per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 per detenzione o piccolo spaccio. Si può affermare con la forza dei numeri che una diversa legge sulle droghe eliminerebbe il sovraffollamento che viola la Costituzione. Fino al 15 febbraio, quando la Consulta si riunirà per decidere, chiamiamo tutti alla mobilitazione democratica e nonviolenta. Perché è anche consentendo lo svolgimento di questo referendum, sottoscritto da oltre 600mila cittadini in una sola settimana, che si potranno inverare la democrazia e quella nuova stagione di partecipazione popolare evocata dal Presidente Mattarella con il richiamo insistito alla dignità. Discorsi d’odio, Cartabia: flop delle sanzioni penali. Sì alla inclusione nei reati Ue di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2022 La ministra della Giustizia audita alla Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di razzismo. Tra il 2016 e il primo semestre 2021, i procedimenti iscritti non superano le 300 unità. “Contro i discorsi d’odio non si può puntare solo sulla repressione, ma bisogna anche educare, prevenire e riparare”. A sottolinearlo è la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in audizione davanti alla Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, ricordando che “l’applicazione delle norme penali non ha svolto una grande funzione di deterrenza fino a oggi”. La Guardasigilli ha fornito i numeri relativi alla repressione negli ultimi 5 anni: “tra il 2016 e il primo semestre 2021, i procedimenti iscritti non superano le 300 unità tanto nella forma di propaganda e istigazione, quanto in quella dell’aggravante. Le iscrizioni sono concentrate in pochi distretti, soprattutto del nord Italia. E le percentuali maggiori si registrano nelle grandi di città di Roma e Milano”. Ancora “guardando ai flussi dei definiti dalle sezioni gip/gup e dibattimentali si può osservare che: nell’80% dei casi l’iscrizione è definita per archiviazione; nei pochi casi di rinvio a giudizio prevale la condanna (circa il 40%). La maggior parte dei procedimenti per altri reati aggravati da finalità di odio razziale si risolve con l’inizio dell’azione penale, ma appena la metà di questi si conclude con una condanna aggravata”. Si tratta di “numeri davvero esigui”, ha evidenziato la ministra, dai quali emerge “che il livello di denunce è davvero molto basso: a fronte dei fatti che leggiamo i numeri che arrivano davanti alle corti sono davvero irrisori” e “anche quando si arriva davanti ai giudici c’è la difficoltà a stabilire se un determinato discorso si configuri come propaganda o istigazione all’odio e a ravvisare un nesso di causalità tra la parola e la commissione del reato di odio. Il numero delle condanne - ha concluso Cartabia - non dà prova di uno strumento che porta a un impatto significativo della sanzione penale”. Cartabia ha poi ricordato che la Commissione europea ha presentato un’iniziativa finalizzata ad estendere l’elenco dei reati dell’UE (articolo 83, paragrafo 1, del TFUE) per includervi i reati di incitamento all’odio ed ai crimini ispirati dall’odio, a causa della razza, della religione, del genere o dell’orientamento sessuale. “Si tratta di un segnale davvero forte, perché l’UE ha una competenza limitata in materia penale”. L’ordinamento europeo è già intervenuto su tema con la decisione quadro del 2008 (2008/913/GAI), che stabilisce che le gravi manifestazioni di razzismo e xenofobia devono essere puniti con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive in tutta l’UE, tuttavia - ha aggiunto Cartabia - “non esiste armonizzazione delle normative nazionali: piuttosto i singoli stati membri offrono differenti risposte”. Ed ha fornito una fotografia della situazione: 20 stati membri hanno norme penali per l’incitamento all’odio per orientamento sessuale, 17 per motivi di genere, 14 per motivi di disabilità, 6 per motivi di età. 8 Stati membri hanno definito il reato l’incitamento all’odio senza specificarne i motivi, in modo da proteggere qualunque gruppo minoritario. “Se la proposta venisse approvata - ha proseguito - i reati d’odio sarebbero equiparati ad altri gravissimi reati”. Tuttavia siamo ancora nella prima fase quella in cui il Consiglio è chiamato ad approvare la proposta all’unanimità. Superato questo scoglio, la Commissione potrà presentare una proposta di direttiva da approvare, in co-legislazione, dal Consiglio e Parlamento con una maggioranza qualificata. Ma è in corso anche un altro “fondamentale” negoziato europeo, quello contro il fenomeno dell’odio on line. Il Digital Services Act si fonda su un principio fondamentale: “ciò che è illecito offline deve essere illecito anche online”. In questa direzione va anche il Codice di condotta volontario approvato nel 2016 dai giganti del web: Facebook, YouTube, Tik Tok e altri. “Ma - ha aggiunto il Ministro -, come ha detto il commissario Reynders, ‘ora dobbiamo accelerare’. E in questa partita, il coinvolgimento delle piattaforme è decisivo”. Nel 2021 infatti i service provider, che hanno scelto di aderire al Codice, hanno controllato l’81% dei contenuti segnalati come illegali nell’arco di 24 ore, procedendo al blocco degli account nel 62,5% dei casi. Cartabia: “L’antisemitismo aumenta in Italia e Europa” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 febbraio 2022 La ministra alla commissione Segre: contro i crimini d’odio i reati previsti non bastano. “Il vento dell’antisemitismo è tornato a soffiare e non solo in Italia, ma in tutta Europa”, denuncia la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Un vento velenoso e sempre più forte come si capisce dall’ultimo rapporto dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali (Fra) che per il solo 2020 ha registrato 3.520 casi di antisemitismo. “Mille di più di quelli stimati, e di questi 101 sono avvenuti in Italia”, spiega la ministra. Nel mirino di chi insulta, quasi sempre nascosto dietro un computer, ci sono però anche Rom, musulmani e migranti. “Con gli ebrei sono le minoranze più spesso bersaglio dei discorsi d’odio”, avverte Cartabia. La ministra della Giustizia parla di fronte alla commissione straordinaria per il contrasto a razzismo e antisemitismo presieduta dalla senatrice Liliana Segre e dalle sue parole si capisce come il nostro ordinamento sia quanto meno insufficiente per contrastare i reati di odio, come la propaganda e l’incitamento alla discriminazione razziale, religiosa e di genere. Del resto i numeri parlano chiaro: in cinque anni, dal 2016 al primo semestre del 2021, i procedimenti contro questi reati “sono stati non più di 300 - spiega - concentrati nei distretti giudiziari del Nord e delle città di Roma (16,2%) e Milano (4,85%). Nell’80% dei casi si concludono con l’archiviazione e nei pochi casi di rinvio a giudizio prevale la condanna (40%). Il resto si conclude con assoluzioni o non doversi procedere”. Numeri che Cartabia non esista a definire “davvero esigui”. Per contrastare la “piramide d’odio” che parte dalle offese verbali ma può degenerare in “aggressioni fisiche, molestia sessuale, violenza” e perfino morte, in Europa ci si sta muovendo. Il 4 febbraio scorso i ministri della Giustizia dell’Ue riuniti a Lille hanno valutato la possibilità di modificare l’ex articolo 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione per inserire anche l’incitamento all’odio tra i reati di rilevanza europea, al pari di terrorismo, tratta degli esseri umani e corruzione. La strada è però in salita, e per più di un motivo. Tanto per cominciare, anche se dal 2008 l’ordinamento europeo stabilisce che le manifestazioni di razzismo e xenofobia devono essere punite con sanzioni penali efficaci, gli Stati membri hanno adeguato le normative nazionali senza alcun coordinamento. “Ad esempio - spiega infatti Cartabia - 20 Stati membri hanno norme penali per l’incitamento all’odio per orientamento sessuale, 17 per motivi di genere, 14 per motivi di disabilità, 6 per motivi di età. 8 Stati membri hanno definito il reato di incitamento all’odio senza specificare i motivi, in modo da proteggere qualunque gruppo minoritario”. A complicare le cose ci sono poi i passaggi necessari per arrivare alla modifica dell’ex articolo 83, una procedura che, oltre alla Commissione europea, prevede un passaggio al parlamento europeo ma soprattutto il voto unanime da parte del Consiglio Ue. “Cosa niente affatto scontata”, sottolinea la ministra. Una volta superato questi scogli, la Commissione potrà presentare una proposta di direttiva che parlamento e Consiglio Ue potranno approvare a maggioranza qualificata. “Riparleremo di questa proposta nel prossimo vertice Gai previsto per i primi di marzo dove speriamo di poter fare dei passi avanti”, prosegue Cartabia. Per quanto riguarda l’odio online, il principio alla base della normativa europea sui servizi digitali (Digital Service Act) è chiaro: ciò che è illecito offline deve essere illecito anche online, Vi è, ha proseguito Cartabia, “la necessità di collaborare con le piattaforme perché online il tema dei discorsi d’odio tende ad esasperarsi”. Al vertice di Lille si è “interloquito con i rappresentanti delle principali piattaforme, Google, Meta, mentre Twitter non si è presentata, per sviluppare azioni integrate”, per contrastare gli hate speech. “Coinvolgere le piattaforme è decisivo non per delegare tutto ma per agire in maniera tempestiva”. Per la titolare della Giustizia, comunque, reprimere non è sufficiente: “Il diritto penale serve - è la conclusione - perché stigmatizza determinati comportamenti, ma non basta. Per contenere questo tipo di fenomeni, oltre al diritto penale serve educare, prevenire, riparare”. Carceri moderne e controllo delle nascite: l’operazione immagine dell’Egitto del caso Regeni di Francesca Caferri La Repubblica, 9 febbraio 2022 Il canto partigiano risuona al cospetto del presidente egiziano Abedl Fatah Al Sisi. Il regime vuole far dimenticare i suoi 60 mila prigionieri politici in cella e proclama il 2022 anno dei diritti umani. Ai giornalisti vengono mostrate le nuove strutture carcerarie per sostituire gli edifici sovraffollati. Ma è silenzio su chi le riempia. L’undici gennaio, durante la cerimonia di apertura del World Youth Forum organizzato a Sharm el Sheik, in platea hanno risuonato note familiari a milioni di persone. “Una mattina mi son svegliato, o Bella ciao Bella ciao Bella ciao ciao ciao…”, ha cantato un gruppo proveniente dall’Africa. In prima fila, nel mezzo di una platea visibilmente soddisfatta dell’esibizione, il presidente egiziano Abdel Fatah Al Sisi. L’omaggio alla canzone partigiana resa famosa in tutto il mondo dalla serie Casa di Carta di Netflix è solo l’ultimo, ma non certo il più paradossale, tentativo del regime egiziano di presentare al mondo un’immagine diversa da quella che le organizzazioni non governative di tutto il mondo denunciano da anni: a undici anni dalla rivolta di piazza Tahrir, più di 60mila persone secondo le stime delle ong, sono rinchiuse nelle prigioni egiziane per le loro posizioni politiche. Attivisti, giornalisti, politici, intellettuali, comici e leader religiosi, ma anche loro familiari non coinvolti in alcuna attività e rinchiusi solo a fini intimidatori. Che la canzone scelta per raccontare al mondo questa favola venga dal Paese che da sei anni chiede con forza verità e giustizia per Giulio Regeni, torturato e ucciso dai servizi di sicurezza egiziani secondo quanto ricostruito dalla Procura di Roma, è l’assurdità massima di un processo di pulizia di immagine che va avanti da tempo e che nei prossimi mesi vivrà il suo apice. Quello di Giulio Regeni al Cairo è un nome che non si può pronunciare in pubblico: “l’altra storia”, “quella vicenda che sai” è ciò che dicono quelli che hanno il coraggio di parlarne. Perché il rapimento e la morte del ricercatore italiano sono il simbolo massimo della repressione che avvolge l’Egitto di Al Sisi. E che oggi il presidente vuole a tutti i costi far dimenticare. Il processo di cancellazione ha un obiettivo chiaro: in autunno in Egitto si svolgerà la Cop27, conferenza Onu per il clima. Per allora il regime vuole avere una faccia presentabile e per questo ha dato il via a una serie di iniziative ben chiare. La prima è stata dichiarare il 2022 l’anno della società civile e dei diritti umani: intesi però non in termini di libertà di espressione e di pensiero, secondo quanto accade in Occidente. Ma in maniera ben più ampia, come i rappresentanti del governo egiziano non si stancano di sottolineare: per esempio, come diritto di aver accesso a strumenti di controllo delle nascite (l’Egitto ha da poco sfondato la soglia dei 100 milioni di abitanti e ha un grave problema di scarsità di risorse). La seconda, un ripensamento del sistema carcerario: prigioni nuove e moderne al posto di quelle sporche e sovraffollate di oggi. Nei giorni scorsi gli ufficiali egiziani hanno guidato un tour stampa in una delle nuove strutture per mostrare ai giornalisti i miglioramenti messi in atto: nessuna parola però sui detenuti politici che le affollano. E infine il rilascio dei prigionieri più noti all’estero, quelli che creano più problemi dal punto di vista dell’immagine internazionale: vedi i casi di Ramy Shaat e Patrick Zaki. Basterà? Non è detto. Una settimana fa un gruppo di 175 parlamentari di 14 diversi Parlamenti Ue ha inviato una lettera congiunta ai ministri degli Esteri e agli ambasciatori presso il Consiglio dei diritti umani dell’Onu per chiedere l’istituzione di un meccanismo di monitoraggio dei diritti umani in Egitto. Nella lettera si citano le “eclatanti e sistematiche violazioni dei diritti umani, le detenzioni arbitrarie di dissidenti e attivisti, le sparizioni forzate, l’uso indiscriminato della carcerazione preventiva e l’uso della tortura”. Fatti che non basta l’uso di una canzone partigiana a far dimenticare.