L’inutile dibattito tra edilizia e architettura penitenziaria di Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 8 febbraio 2022 A seguito di quanto ha detto il Presidente Mattarella nella sua comunicazione al Parlamento, non è più rinviabile una riflessione riguardante cosa significhi per l’immediato futuro la questione giustizia e, segnatamente, quello della detenzione. Sempre più urgente è anche una ampia valutazione sull’esecuzione penitenziaria alla luce del dettato costituzionale. Il ragionamento è legato anche ai problemi dell’edilizia penitenziaria e della gestione immediata del patrimonio preesistente. È inutile affrettarsi oggi a definire modelli architettonici di carceri improbabili in assenza di un più chiaro ragionamento sulle finalità della carcerazione e dell’uso appropriato del tempo sequestrato al condannato. Recentemente Franco Corleone, che di carceri se ne intende, senza tanti giri di parole su il manifesto è stato chiaro su un punto: “Non sopporto più l’ipocrisia di chi lamenta il fenomeno senza indicare le cause”. In sostanza si dice stanco, anche lui, di questo strano rapporto tra fittizie aspirazioni di cambiamento e apparenti doglianze per i risultati mai raggiunti che non individuino le diverse responsabilità. Tra le iniziative assunte dal Dap è il caso dell’ennesima istituzione della “Commissione per l’Architettura penitenziaria”. Titolo altisonante quello del Tavolo, promosso in prima persona non si sa bene da chi e perché. La commissione, che richiama senza la necessaria prudenza l’Arte del costruire e necessariamente del suo significato, sembrerebbe essersi insediata più per assicurare a se stessa la presenza a futuribili decisioni che non quello di risolvere problemi più urgenti attualmente presenti nei diversi istituti. Le carceri sono costruzioni complesse e queste, per lo stato disastroso in cui versano, sarebbe più rispettoso annoverarle nel campo dell’edilizia penitenziaria, definizione quest’ultima più vera e ben lontana dalla nozione di Architettura. Ingannando se stesso, il dibattito attuale nei vari tavoli istituzionali si ostina a parlare dell’Arte del costruire mantenendosi scrupolosamente fuori dalla più semplice discussione sull’edilizia riguardante impianti mal funzionanti, tetti rotti, arredi in rovina, spazi inadeguati, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate, infermerie fatiscenti. Forte è il sospetto che al massimo le commissioni ricordino a se stesse, per dovere istituzionale, l’esistenza dell’ancora non abrogato art. 27 della Costituzione, tranquillamente accomodandosi nei più sicuri binari della stretta osservanza formale. Di fatto l’ultima commissione Dap, i cui risultati dei lavori svolti sono ancora poco noti, sembrerebbe essere niente di più che il solito auspicio di quanto sarebbe bello se si potesse avere un carcere a misura dei diritti umani, in regola col dettato costituzionale e costruito secondo canoni rispettosi della buona architettura. Desiderio ovvio, fin troppo, ma non ingenuo. Trapela infatti un imbarazzante commento di chi ha partecipato ai lavori definendoli come l’”ennesimo atto della rappresentazione della “stagione dei proclami architettonici” in tema di carcere”. Qui la domanda viene spontanea: chi sono coloro che dai tempi degli Stati generali da anni sentenziano proclami sull’architettura preferendo invece a non abbassarsi su verifiche più attuali che riguardino la realtà? La cosiddetta “stagione dei proclami architettonici” suona più come una tardiva auto giustificazione che una necessaria presa di distanza da inutili procedure colposamente dimenticando i diritti umani e le condanne della Cedu. L’affermazione rivela se non altro che i risultati dell’ennesima commissione non ci saranno e che dai tetti delle carceri continuerà a piovere mentre il retorico bla-bla sull’architettura continuerà con le stesse modalità e probabilmente con le stesse persone. È necessario che il ministero Cartabia muova verso nuovi modelli interpretativi in concorso con altre competenze sulla vera funzione dell’esecuzione penale. Magari non riproponendo imbarazzanti e incaute lamentele che sostengono che “il carcere oggi in Italia non fa più paura a nessuno”. Una settimana fa, nell’intervenire a un convegno sulle carceri, il Capo del Dap, Bernardo Petralia parlando della sua esperienza si è detto “addolorato e intristito. Non posso dire di essere soddisfatto di aver raggiunto degli obiettivi e nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visitato due istituti a settimana, l’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso, e delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve passare per la riduzione drastica della recidiva, proponendo nuovi modelli organizzativi destinati a supportare le istituzioni, magari trasformandosi in servizi per il territorio. Insomma il sequestro del tempo come condanna e surrettizia vendetta deve cambiare nella civile opportunità di recupero e reinserimento nel corpo sociale. Nell’interesse non solo del detenuto. Inutile per ora parlare di architettura se la politica non ridefinisce, prima tutto a se stessa, la funzione della carcerazione e l’uso che deve fare del tempo sequestrato al condannato. Gli architetti per ora, se possono, attendano decisioni che sono molto più in alto. Per ora si pensi all’acqua calda, ai sanitari e a riparare i tetti. *Vice Presidente Cesp “Così aiuti la mafia!” Il refrain che toglie la parola ai garantisti di Errico Novi Il Dubbio, 8 febbraio 2022 Cerchi di far notare timidamente che la riforma dell’ergastolo ostativo dovrebbe aderire alle indicazioni della Consulta, anziché cercare di ribaltarle? “Fai gli interessi della mafia!”. Promuovi una legge contro la sputtanopoli giudiziaria? “Fai gli interessi della mafia!”. E, ovviamente: provi a chiedere di riagganciare le misure di prevenzione antimafia allo Stato di diritto, in modo che, almeno, se si è riconosciuti innocenti nel processo penale non si debba per forza essere spogliati di tutti i beni, dalle aziende all’abitazione? “Fai gli interessi della mafia!”. Ormai è così: non se ne esce. E la polemica scatenata da Nicola Gratteri contro le recenti norme in materia di presunzione d’innocenza (“le mafie potrebbero approfittarne”, ha detto ieri in un’intervista al Fatto quotidiano) ne sono la conferma: è davvero difficile cogliere il nesso reale fra le tutele previste in quel provvedimento e i presunti favori alle cosche temuti dal procuratore di Catanzaro. Davvero non si capisce perché, in indagini nelle quali la virtù teologale sarebbe casomai il riserbo e non certo la ridondanza, vedersi limitati nel riferire ai giornalisti ogni dettaglio costituirebbe, per gli inquirenti, un danno. Non a caso Enrico Costa, tra i maggiori protagonisti dell’iniziativa che nell’autunno scorso ha consentito di recepire la direttiva “garantista” dell’Ue, ha risposto per le rime: “Ad essere scontenti saranno coloro che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, scientificamente studiato da certe Procure per far conoscere e apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte”. Gratteri ha trovato pane per i suoi denti. Resta però l’efficacia del refrain, la paralisi dialettica che è in grado di indurre: come si fa a venir fuori dall’angolo, se insinuano che propendi per una certa norma perché segretamente vuoi fare un assist ai criminali? Non ne esci. E se ben ci pensate, proprio con una tecnica del genere lo stesso Gratteri riuscì l’estate scorsa a far scivolare la riforma del processo penale verso il definitivo avvitamento sull’improcedibilità. Anche il quel caso disse che si sarebbero persi un sacco di processi alla malavita: ne è venuto il regime differenziato della “prescrizione processuale” che ora fa ammattire gli uffici giudiziari, tanto è piena di eccezioni la norma base. Ma certo, chiunque debba intestarsi quell’istituto preferirà farsi dare dell’incompetente, piuttosto che lasciarsi inchiodare dal inesorabile mood: “Fai gli interessi della mafia!”. Nasce l’associazione 358 contro gli errori giudiziari. D’Alfonso (Pd): “Troppe cicatrici” di Michela Allegri Il Messaggero, 8 febbraio 2022 Il progetto prende il nome dall’articolo del codice che impone al pm di cercare anche le prove a favore dell’indagato. Verrà avviato un monitoraggio sui casi di assoluzione e di annullamento di misure cautelari. Un’associazione per monitorare gli errori giudiziari, il ruolo del pubblico ministero e la fase delle indagini preliminari. L’obiettivo è uno: trasformare il settore Giustizia in uno strumento che ispiri fiducia, e non timore, nei cittadini. I dati dicono che ogni giorno in Italia tre persone vengono sottoposte a misura cautelare pur essendo innocenti e ogni anno sono tantissimi i processi che si concludono con assoluzioni: circa il 50 per cento di quelli che arrivano a dibattimento, secondo i numeri diffusi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nata su impulso del senatore Pd Luciano D’Alfonso, l’Associazione 358 richiama l’omonimo articolo del codice di procedura penale: quello che impone al pm di effettuare accertamenti per cercare prove anche a favore dell’indagato. “Esiste un articolo specifico, eppure - sostiene D’Alfonso - troppo spesso le cose vanno diversamente. Questa associazione è nata da una domanda. Ci sono un articolo del codice di procedura penale che dovrebbe essere il baluardo della difesa nella fase delle indagini, e un articolo della Costituzione, il 111, che espone le regole del giusto processo: perché entrambi sono ormai talmente impolverati da non entrare nel patrimonio collettivo di attesa e di pretesa?”. I processi che sfociano in assoluzioni “producono cicatrici profonde, che mettono a repentaglio la salute e la vita delle persone”, prosegue il senatore. Da qui, la decisione di fondare l’Associazione 358: per monitorare e prevenire errori giudiziari dovuti al mancato rispetto delle garanzie dell’indagato. All’appello del politico hanno già risposto in centinaia: avvocati, studenti, professori universitari, appassionati di diritto, semplici cittadini. Le proposte - Con gruppi di studio e segnalazioni, l’Associazione inizierà nei prossimi mesi un monitoraggio della situazione Giustizia a livello nazionale, realizzando dossier con votazioni da cui partire per chiedere sanzioni e azioni disciplinari. Verranno studiati in modo approfondito i casi di assoluzione, di indagati rimessi in libertà dal Riesame o dalla Cassazione per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza, o per inesistenza di esigenze cautelari. L’Associazione effettuerà una misurazione dell’errore, dando votazioni che vanno dallo zero alla lode. L’obiettivo è divulgare una cultura garantista che rimetta al centro di ogni procedimento la necessità di tutelare la dignità di tutti i cittadini. “Molte volte le vite di persone che sono state ingiustamente indagate e processate sono andate distrutte. Spesso gli errori derivano da una mancanza di cura nell’osservazione dell’articolo 358 del codice”, precisa D’Alfonso. Il disegno di legge - Le proposte riguardano diversi punti. “Il cittadino non deve avere paura della Giustizia - spiega ancora il senatore dem - spesso, invece, le persone sentite anche solo come testimoni ci hanno comunicato di essere rimaste traumatizzate dai metodi impiegati per condurre le audizioni, anche di semplici testimoni. Vorremmo che questi colloqui venissero videoregistrati, e la stessa cosa dovrebbe succedere per gli interrogatori”. Sul tema, D’Alfonso ha già presentato un disegno di legge. Il monitoraggio svolto si estenderà anche all’operato della polizia giudiziaria. Un’altra riforma che l’Associazione intende promuovere ha come scopo consentire agli avvocati della difesa di avere come interlocutore il gip, e non il pm, nel corso delle indagini preliminari, soprattutto in caso di indagini difensive, in modo da “non svelare le informazioni alla controparte”, spiega D’Alfonso. Un’altra proposta è la rotazione degli agenti di polizia giudiziaria a supporto dei pm. “Nel nostro Paese ci sono persone che si sono tolte la vita a causa di indagini fatte male, perché c’era la volontà di cercare a tutti i costi un colpevole - conclude il senatore - abbiamo deciso di inaugurare l’Associazione in questi giorni spinti dalle parole del presidente Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento ha riservato un ampio capitolo al settore della Giustizia. Vogliamo dare un contributo importante”. I dati - Secondo il report del portale Errorigiudiziari.com, quotidianamente aggiornato nei numeri e nelle storie raccontate, in media sono 1.015 le persone che ogni anno vengono arrestate da innocenti. Mentre - considerando anche prescrizione e altre cause di non punibilità - i dibattimenti che si chiudono con un nulla di fatto sono più della metà. Numeri che fanno riflettere. Draghi accelera sul Csm. Toghe in politica, stop porte girevoli di Liana Milella La Repubblica, 8 febbraio 2022 Cartabia tre ore a Palazzo Chigi per stringere sugli emendamenti alla futura legge sull’organo di autogoverno dei magistrati. È scontro sulle regole per eleggere i consiglieri. E resta il nodo sui giudici fuori ruolo impiegati nei ministeri. Potrebbe essere quello di giovedì il consiglio dei ministri “buono” per dare il via libera agli emendamenti per la futura legge sul Csm. Ma non è ancora detta l’ultima parola. La riforma, chiesta a gran voce alla Camera appena una settimana fa, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, potrebbe richiedere ancora tempo. Tutti applaudono il capo dello Stato, ma chiudere il cerchio sulle future regole per ostacolare il correntismo delle toghe assomiglia a un sudoku di difficile soluzione. Ancora ieri, a palazzo Chigi, e per oltre tre ore, ci hanno provato la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi. Nonché il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli che già era stato protagonista della difficile mediazione sulla riforma del processo penale e sulla questione dell’improcedibilità. Stavolta le tensioni riguardano la futura legge elettorale per selezionare i consiglieri togati del Csm, che passeranno da 16 a venti, nonché il destino dei magistrati che scendono in politica. Nelle ultime ore si è aggiunto il tema della sorte dei magistrati attualmente fuori ruolo. Su cui, alla Camera e nella legge sul Milleproroghe, sta per scatenare una tempesta il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa. Per un’intesa che si trova, quella sulle cosiddette “porte girevoli”, altre grane si aprono. Al momento non ci sono dubbi sul fatto che non ci saranno più deroghe per chi si candida sia nelle amministrazioni locali che in quelle nazionali. Lo slogan ribadito è “mai più casi Maresca”. La porta per rientrare in magistratura verrà chiusa definitivamente, proprio come prevedeva il disegno di legge presentato dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. E su questo è d’accordo anche Draghi, come ha detto ieri Giuseppe Conte (“Anche lui sul ritorno alla magistratura dalla politica ha forti dubbi”). In ballo c’è anche la legge elettorale per il Csm, su cui la Lega non fa sconti e chiede il sorteggio temperato, come vuole Forza Italia, mentre la ministra contrappone un maggioritario “binario”, soluzione che, secondo i fan del sorteggio, non blocca le scelte correntizie, anzi le favorisce. Ma è sulle toghe fuori ruolo - soprattutto quelle impiegate nei ministeri - che si è aperta l’ultima querelle. E che Costa porterà dopodomani in aula a Montecitorio, con un emendamento al Milleproroghe in cui, come prima mossa, chiede di bloccare del tutto “fino alla fine dell’anno” l’autorizzazione ad altri fuori ruolo per tutte le magistrature, non solo le toghe ordinarie, ma anche quelle amministrative, contabili, militari, nonché gli avvocati e procuratori dello Stato. Costa aveva già chiesto, con un ordine del giorno del 2020 che i fuori ruolo fossero drasticamente ridotti. Visto anche il loro costo, 5mila euro al mese oltre al loro stipendio. Adesso la questione riguarda chi è già fuori ruolo e che potrebbe essere costretto a rientrare se il periodo fosse ridotto da 10 a 5 anni. Draghi ritocca la riforma Cartabia di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 8 febbraio 2022 Giustizia. La ministra tre ore a palazzo Chigi per rivedere gli emendamenti con i quali vuole riformare Csm e ordinamento giudiziario. Il presidente del Consiglio favorevole ad alzare un muro tra gli incarichi elettivi e politici e il ritorno delle toghe in magistratura. Tre ore a palazzo Chigi per mettere a punto la tanto attesa riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La ministra della giustizia è tornata a incontrare il presidente del Consiglio e il sottosegretario Garofoli. Segno che l’incontro di mercoledì scorso era stato solo simbolico, quasi a prevenire il discorso del giuramento del presidente Mattarella che ha di nuovo chiesto velocità nella riforma della giustizia. Le elezioni del Csm si avvicinano (luglio, ma si può slittare) e le vecchie regole vanno cambiate. Nessun commento alla fine, “stiamo lavorando” ha solo detto Cartabia ed è improbabile che i gli emendamenti siano pronti per il Consiglio dei ministri di questa settimana. Due i punti sui quali è stato necessario tornare. Il primo riguarda la vecchia questione del ritorno nelle funzioni dei magistrati che hanno svolto (o tentato) un mandato elettorale. Il vecchio testo Bonafede, che Cartabia al suo arrivo aveva deciso di tenere come base da modificare con emendamenti, prevedeva uno stop totale alle cosiddette “porte girevoli” tra magistratura e politica. La commissione incaricata dalla ministra di studiare le modifiche, presieduta dal costituzionalista Luciani, ha escluso in quanto incostituzionale questo divieto totale. Ai rappresentanti della maggioranza, la ministra aveva illustrato (oralmente) criteri in linea con questi suggerimenti: no allo sbarramento definitivo che penalizzerebbe i magistrati rispetto alle altre categorie, ma criteri assai rigidi per evitare casi imbarazzanti. Come quello del mancato sindaco di Napoli Maresca, che dopo aver perso la sfida con Manfredi è rimasto nel consiglio comunale a fare l’opposizione e contemporaneamente fa il giudice di appello a Campobasso. Incompatibilità, dunque, tra funzione giudiziaria e cariche elettive anche minori e stop lungo prima di tornare in magistratura da una carica politica. Sull’onda del discorso di Mattarella, Forza Italia e Lega spingono perché si alzi invece un muro invalicabile tra toghe e politica. Il Pd mantiene le sue riserve in linea con le conclusioni della commissione Luciani, i 5 Stelle naturalmente vedono di buon grado il ritorno all’origine del testo Bonafede. Ieri sera in televisione Giuseppe Conte ha rivelato che “sul ritorno in magistratura dalla politica anche Draghi ha dei forti dubbi, su questo ci ritroviamo”. L’altro punto dove Cartabia ha riaperto le conclusioni che aveva consegnato a palazzo Chigi prima di Natale è quello della legge elettorale per la componente togata del Csm. In questo caso la ministra aveva già scelto di non seguire i suggerimenti di Luciani, che propendeva per un sistema elettorale proporzionale con voto singolo trasferibile, optando per un lieve ritocco alla legge maggioritaria attuale. La spinta verso una qualche forma di sorteggio, magari preliminare per selezionare liste di pm e giudici sulle quelli votare, è sempre più forte e divide anche l’Associazione nazionale magistrati. Non basta infatti che un referendum consultivo tra le toghe abbia fatto prevalere il no al sorteggio - che l’attuale dirigenza considera incostituzionale -, la più piccola tra le correnti dell’Anm ha organizzato un sorteggio dimostrativo nella sede dell’associazione in Cassazione. Bongiorno: “Basta connivenze. Riforme serie o col referendum gli elettori faranno tabula rasa” di Liana Milella La Repubblica, 8 febbraio 2022 La responsabile giustizia della Lega: “Il ministro ha il nostro sostegno ma se un edificio è diroccato non serve puntellarlo”. L’Alta corte? “Per i magistrati non basta. E per l’elezione del nuovo Consiglio si punti sul sorteggio”. Il Csm? “Va demolito”. E i prossimi referendum: “Se un edificio è diroccato, non serve puntellarlo: bisogna ricostruirlo da zero”. La legge elettorale del Csm? “Il sorteggio”. L’Alta corte? “Non basta, con la separazione delle carriere ci vorranno due Csm”. Dice così a Repubblica la responsabile giustizia della Lega, la senatrice Giulia Bongiorno in linea con Matteo Salvini. Alla Camera il presidente Mattarella ha chiesto che si faccia subito la riforma del Csm. Ma sono passati 962 giorni dall’exploit del caso Palamara e la nuova legge è sempre al palo... “Prima della rielezione di Mattarella, avevo scritto una lettera destinata a chiunque fosse stato il futuro presidente in cui sottolineavo l’urgenza di una profonda riforma. Il Csm non è una casa da ristrutturare: bisogna demolire e ricostruire. È necessario affrontare il tema giustizia in senso radicale, senza più trattare la materia, come in passato, con timido attendismo per connivenze puramente ideologiche”. Anche lei ha applaudito il presidente? Mattarella stavolta è stato più critico del solito sulle toghe, ha messo in guardia da decisioni “arbitrarie o imprevedibili, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, e che incidono sulla vita delle persone”... “Direi che è stato critico verso una parte della magistratura. Anch’io sostengo che ci sono tantissimi magistrati che lavorano silenziosamente per compiere il loro dovere e magari non hanno mai avuto incarichi perché fuori dal sistema delle correnti: se quei magistrati cominciassero a pensare che vivere e lavorare onestamente è inutile, sarebbe la morte della giustizia. Sono proprio quei magistrati i primi a soffrire per l’offuscamento dell’immagine della magistratura”. Salvini dice che “se ci sarà l’ok della Consulta sui quesiti referendari sulla giustizia si andrà a votare, si parla di aprile, e lì sarà un banco di prova”. Voi puntate tutto su questo e meno sulla riforma del Csm di Cartabia? “Sono due binari che corrono in parallelo e non sono sovrapponibili. I referendum affrontano criticità fondamentali di cui la politica dibatte da anni senza trovare soluzioni. Il recupero di credibilità del sistema deve passare attraverso svolte coraggiose: responsabilità dei magistrati; abolizione dell’automatismo nell’avanzamento delle carriere; separazione tra giudici e pubblici ministeri; radicale riforma del Csm. Noi le soluzioni le abbiamo proposte più volte, invano, alle forze politiche; oggi le proponiamo ai cittadini, che sono stanchi di ritocchini e compromessi al ribasso”. Salvini sostiene che con il sì ai referendum si va verso “un atteggiamento liberale, moderno, conservatore europeista, atlantista”, mentre adesso c’è chi “gioca in rimessa e per la conservazione”. Quindi le riforme fatte oggi non valgono nulla? “La riforma Cartabia è un importante primo passo. Il ministro ha il nostro convinto sostegno. Ma se un edificio è diroccato, non serve puntellarlo: bisogna ricostruirlo da zero. Va affrontato subito anche il tema del distacco dei magistrati presso i ministeri”. Crede che, a un anno dalla scadenza di questo Parlamento, ci sia lo spazio per affrontare la separazione delle carriere? “La volontà popolare che si esprimerà sui quesiti referendari scuoterà il timido approccio del Parlamento su temi di grande interesse. Proprio in questo risiede l’importanza del referendum”. Lei è a favore dell’Alta corte proposta da Luciano Violante, per tutte le magistrature, con funzione di appello sulle decisioni disciplinari del Csm e per i ricorsi contro le nomine in luogo di Tar e Consiglio di Stato? “Non sono contraria, ma attenzione: l’Alta corte rischia di rivelarsi insufficiente se non sarà accompagnata da cambiamenti profondi del sistema. Con la separazione delle carriere si dovrà riflettere sull’introduzione di due Csm, uno inquirente e uno giudicante. Diversamente, l’istituzione di un nuovo organo, indipendentemente dal nome altisonante che gli si vuole assegnare, rimarrà una foglia di fico per un sistema arroccato nella sua autoreferenzialità”. Sul sorteggio per eleggere il Csm lei è a favore. Che succede se Cartabia non sceglie questa soluzione? “Spiegheremo che si tratta di sorteggiare i candidati tra tutti i magistrati che hanno determinati requisiti di anzianità e autorevolezza. Il sorteggio elimina il vincolo di gratitudine verso la corrente, che mina l’indipendenza dell’eletto”. Ma che succede se Cartabia dice no al sorteggio? Remate contro? “Ho fiducia nel fatto che saprà trovare una sintesi”. Fretta e furia, nomi raccapriccianti per l’operato della giustizia di Adriano Sofri Il Foglio, 8 febbraio 2022 Il Papa ha invocato il diritto di tutti al perdono. Qui si aspetta il giudizio del tribunale francese per l’estradizione di uno dei latitanti ex terroristi: una magistrata di Milano lo aveva dichiarato “delinquente abituale”, uno che non commette reati da 44 anni. Qualcuno l’ha anche lodata per la rapidità. Il Papa Francesco dice che ogni creatura umana ha il diritto di essere perdonata. Si può dubitarne, o robustamente obiettare, se si incorre nell’apparente corollario logico per cui ogni essere umano ha il dovere di perdonare. Al contrario, la prima cosa è vera, la seconda no. L’incomprensione di questa apparente contraddizione divide malamente il mondo. Il tema è solenne, ma vediamone una piccola applicazione. C’è uno dei riparati in Francia, la cui estradizione sta così a cuore alle autorità italiane. Non l’ho mai conosciuto, si chiama Luigi Bergamin, ha 73 anni, fu condannato a 23 anni per “concorso morale” (ne scontò 7) in due omicidi attribuiti a Cesare Battisti, con le attenuanti dovute al riconoscimento che aveva ripudiato la sua militanza armata. Aveva allora 29 anni, ne sono trascorsi 44 dai fatti, 32 dall’ultima sentenza. Per 44 anni, quasi i due terzi della sua vita, non ha commesso alcun reato. Per lui sarebbe intervenuta la prescrizione l’8 aprile scorso, nei giorni stessi in cui il gruppetto dei superstiti rifugiati, quelli che non erano ancora morti di malattia o di vecchiaia o di suicidio, venivano clamorosamente arrestati e subito rimandati a casa, in attesa delle pratiche ulteriori. Una magistrata di Milano, per sventare la prescrizione, lo dichiarò “delinquente abituale”. Ho letto la descrizione di questa fattispecie nelle pubblicazioni pertinenti, ma basta il senso comune per reagire all’idea che una persona che da 44 anni non commette un reato sia dichiarata dedita abitualmente al delitto. Infatti la Corte d’Assise milanese, chiamata a pronunciarsi, decretò, a maggio, la prescrizione. Allora la sostituta della procura milanese per l’esecuzione penale, Adriana Blasco, si è appellata alla Cassazione. La Cassazione le ha risposto che doveva rivolgersi alla Corte d’Assise. La Corte d’Assise, a luglio, le ha dato torto confermando l’avvenuta prescrizione. Allora ha ricorso in Cassazione. Qualche giorno fa la Cassazione le ha dato ragione, sentenziando senza rinvio che i reati di Bergamin non sono prescritti essendo lui un delinquente abituale. D’ora in poi, in Italia, delinquente abituale non sarà più chi è dedito abitualmente al delitto, ma chi, a parere di un magistrato o di un tribunale, è come se lo fosse. Anche dopo 44 anni illibati, anche 40 anni dopo aver avuto le attenuanti per l’abbandono delle pratiche illegali. Staremo a vedere che opinione se ne farà il giudice francese che in aprile prenderà in esame il caso di Bergamin. In Italia, di una simile inversione linguistica e logica, non si è quasi parlato, se non nelle rare sedi in cui ci si preoccupa delle garanzie giuridiche, o all’opposto in quelle in cui ci si rallegra della loro disfatta. Un giornale ha elogiato la magistrata per aver operato “in fretta e furia” così da sventare la prescrizione. Fretta e furia sono due nomi raccapriccianti per l’operato della giustizia. Della stessa magistrata ho letto, sul sito di Magistratura Indipendente, un saggio sull’ergastolo ostativo dopo le sentenze della Cedu e della Corte Costituzionale, per raccapezzarmi meglio sulla sua ispirazione. L’autrice, che svolge il suo tema in modo problematico, riassume così la posizione della Cedu contraria all’ergastolo ostativo: “A giudizio della Corte si finisce così, di fatto, per fondare un giudizio di perpetua pericolosità sul solo momento della commissione del fatto di reato e della successiva condanna - corsivo mio - dal momento che qualunque mutamento della personalità del detenuto risulta irrilevante in presenza del mancato rispetto della condizione della collaborazione, che impone al magistrato competente di dichiarare ex lege inammissibile la domanda, impedendogli di valutare nel merito i progressi compiuti nel percorso individuale del detenuto, in termini di reinserimento e di revisione critica, e la sua evoluzione verso la risocializzazione”. Mi chiedo che cosa potrà dire la Corte di una perpetua - “abituale” - pericolosità fondata su 44 anni ligi. Torniamo al Papa Francesco, il quale è contrario all’ergastolo e non si stanca di dirlo, né potrebbe essere diversamente per chi crede che ciascuna persona abbia “il diritto umano di essere perdonato” - benché, come penso, a nessuno possa essere imposto il dovere di perdonare. Giorni fa, in udienza generale, Francesco aveva ripetuto che “non può esserci condanna senza una finestra di speranza”, e richiamato, come da Fazio, la parabola del padre misericordioso, riferita “in modo particolare ai nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere. È giusto che chi ha sbagliato paghi per il proprio errore, ma è altrettanto e più giusto che chi ha sbagliato possa redimersi dal proprio errore... Il figlio si aspettava una punizione, ma si ritrova avvolto dall’abbraccio del padre. La tenerezza è qualcosa di più grande della logica del mondo, ma è un modo inaspettato di fare giustizia”. Si dirà, lo dico anch’io, che il Papa è il Papa, e che un giudice laico o una sostituta della procura non può operare secondo il paradosso della tenerezza: però neanche della fretta-e-furia. La giustizia è un servizio, non un costo di Erminia Mazzoni Corriere del Mezzogiorno, 8 febbraio 2022 L’attenzione alle parole del presidente Mattarella durante il discorso presentato alle Camere riunite per il giuramento solenne, a inizio del nuovo settennato, è un segnale di rispetto istituzionale e personale. Sono però tra quelli che ritengono corretto sottolineare, in un’epoca di facili smarrimenti della conoscenza, che il Presidente della Repubblica non scrive l’agenda politica del Governo. Le sue funzioni sono altre. Valgano dunque le tante questioni poste quali condivisibili auspici. Le forze politiche facciano la propria parte mettendo in chiaro cosa intendono fare nei prossimi dodici mesi. Soprattutto dicano i “diversi” che governano insieme il paese a quali dei bisogni più urgenti pensano di dare risposta prioritaria togliendoli dal tritacarne della campagna elettorale per metterli in sicurezza nel fondo comune del Governo delle larghe intese. Altra cosa è, invece, il passaggio sulla giustizia. Il Presidente della Repubblica è a capo del Csm. È dunque parte in causa. Sul tema Mattarella ha invocato “un profondo processo riformatore… Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della magistratura… l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità”. “È indispensabile che… il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono restare estranee all’Ordine giudiziario” e raccogliendo l’esigenza che “venga recuperato un profondo rigore”. “Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati… la magistratura e l’avvocatura sono chiamate ad assicurare che il processo riformatore si realizzi, facendo recuperare appieno prestigio e credibilità alla funzione giustizia, allineandola agli standard europei”. Queste le “sagge parole sulla giustizia” di Sergio Mattarella. In sintesi, l’azione di riforma della giustizia secondo il Presidente della Repubblica richiede, prima di ogni altra cosa, un intervento ordinamentale sugli statuti che regolamentano le attività dei suoi operatori - avvocati, magistrati e personale - perché la giustizia sia veramente “uguale per tutti” e sia un servizio e non un costo. E credo, discostandomi con rispetto dal pensiero del professore Giovanni Verde, che Sergio Mattarella conosca bene “la malattia” del nostro sistema giustizia, e prescriva una “medicina” che saggiamente interviene sulla causa della patologia, il profilo di indipendenza, rigore e professionalità di chi amministra la giustizia perché propedeutico a come questa verrà erogata. Non è solo una modifica del sistema di elezione dei componenti del Csm, quella tratteggiata, ma è o almeno dovrebbe essere un cambiamento del modo di interpretare il principio di terzietà del giudice che si definisce a partire dall’organo di autogoverno. Purtroppo la conflittualità politica, la disarticolazione delle prerogative costituzionali dei poteri dello stato, in conseguenza dei rimaneggiamenti parziali della carta fondamentale, e il crescere di un diffuso comprensibile atteggiamento conservativo di difesa hanno trascinato negli anni stancamente e inutilmente l’azione del legislatore. Oggi siamo ancora dentro un impegnativo cantiere. Gli anni passati non hanno consegnato alcun rilevante stato di avanzamento lavori. Niente di organico si è fatto strada, anche per la divisione della categoria. Troppe voci, che non documentano pluralismo ma protagonismo. Sono fiduciosa che questa volta si raggiungeranno obiettivi più ambiziosi perché abbiamo da una parte il diffuso “imbarazzo” (sic) della magistratura tutta e dall’altra la pressione esercitata dal cronoprogramma del Pnrr. La riforma della giustizia è, infatti, la prima delle riforme orizzontali o di contesto che il Pnrr prevede e che è preordinata a raggiungere l’obiettivo della sostenibilità economica-sociale degli investimenti. Una giustizia che per la sua lentezza erode circa due punti di Pil, pari più o meno a 40 miliardi di euro, e che alimenta un comune sentimento di impunità, diventa per forza di cose elemento determinante anche nell’analisi delle misure di risanamento. Il piano fissa una serie di interventi legislativi ordinamentali, strutturali, funzionali e poi sul diritto sostanziale, soprattutto penale e tributario, e su quello processuale. Ed è in questa seconda fase, e solo dopo aver chiuso la prima, che le riflessioni di Giovanni Verde su status del Pm, standard di rendimento e progressione di carriera possono diventare una significativa e lungimirante traccia da seguire. Un’alta corte per giudicare le toghe, Pd e Forza Italia dicono sì di Angela Stella Il Riformista, 8 febbraio 2022 A rilanciare l’idea di Violante la dem Rossomando, firmataria di un ddl costituzionale, ma anche FI rivedica la paternità della proposta. Fungerebbe da giudice di appello su nomine e decisioni disciplinari. Mentre ieri la Ministra Cartabia incontrava per l’ennesima volta il premier Mario Draghi per fare il punto sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, nel dibattito rispuntava da più parti il tema, lanciato tempo fa da Luciano Violante, di un’Alta Corte, che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Consiglio Superiore della Magistratura. La questione è tornata alla ribalta soprattutto dopo l’ultima pesante frizione tra Csm e Consiglio di Stato che ha decapitato i vertici della Cassazione a pochi giorni dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. A rilanciare la proposta è stata ieri la responsabile giustizia del Partito democratico e vicepresidente del Senato, Anna Rossomando, dalle pagine di Repubblica: “Siamo talmente a favore, che abbiamo già presentato al Senato un disegno di legge a mia prima firma per istituirla. Nel Csm resterà una sezione disciplinare che giudica i magistrati - ha spiegato l’esponente dem - mentre l’Alta corte sarà un giudice di appello e ricorso per tutte le magistrature. Tutte le impugnazioni sia contro le decisioni disciplinari, che sulle nomine contestate saranno trattate lì”. La composizione ricalcherebbe quella della Corte Costituzionale: un terzo dei componenti eletti dal Capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Al Senato è incardinato appunto un ddl di natura costituzionale proprio a firma Rossomando: “Modifiche al Titolo IV della Parte II della Costituzione in materia di istituzione dell’Alta Corte”, annunciato nella seduta del 28 ottobre 2021, ma anticipato in un documento di maggio su tutte le riforme della giustizia da mettere in cantiere. E confermato da una recente dichiarazione sempre a questo giornale del dem Walter Verini. Sulla possibilità che possa essere approvata una legge, occorre un’ampia volontà politica: “Sarebbe una bella dimostrazione di reale volontà riformatrice del Parlamento” ha concluso la Rossomando. Nello specifico, secondo l’articolo 138 della Costituzione, “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. Quindi bisognerebbe davvero accelerare per raggiungere l’obiettivo in questa legislatura, non contando il possibile ostruzionismo della lobby della magistratura. Ma sulla primogenitura della proposta dell’Alta Corte, ieri è arrivata anche una nota della presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini: “Apprendo con soddisfazione che il Pd aderisce alla nostra proposta di un’Alta Corte esterna che funga da giudice di appello sulle decisioni disciplinari e amministrative del Csm. La commistione tra parte amministrativa e disciplinare è un elemento distorsivo che ha condizionato nel tempo nomine e carriere a piacimento della maggioranza, e dunque superare questo meccanismo va nella direzione da noi sempre indicata per arrivare a una reale riforma della giustizia. Vogliamo credere alle buone intenzioni e confidiamo sia la volta buona”. Ad accogliere positivamente l’iniziativa parlamentare sull’Alta Corte è stato il Presidente dell’Unione delle Camere Penali Gian Domenico Caiazza, parlando all’Adnkronos: “L’ho sempre considerata una proposta sensata e interessante sulla quale si può lavorare. Bisognerà vedere nel dettaglio, naturalmente, come verrebbe strutturata e da chi sarà composta, ma il fatto di creare un soggetto giudicante in qualche modo esterno al Csm mi sembra una buona idea. Dunque l’apertura del Pd va salutata positivamente”. Tra il dire e il fare la distanza è lunga e il leader dei penalisti ne è consapevole: “Mi auguro - conclude Caiazza - che non rimarrà tutto sulla carta, ma in ogni caso il varo dell’Alta Corte segnerebbe un passo ma ancora insufficiente. Bisogna comunque affrontare con coraggio i grandi temi della modifica dell’attuale automatismo dell’avanzamento delle carriere e il tema del distacco dei magistrati presso l’esecutivo. Sono due grandi temi che se non vengono affrontati non consentiranno una riforma autentica della crisi della magistratura italiana”. “Deciderà il Parlamento come riformare il Csm” di Carmelo Caruso Il Foglio, 8 febbraio 2022 Parla Sisto, sottosegretario alla Giustizia. Ecco perché si deve fare e farlo entro marzo: “Perché le parole di Sergio Mattarella sulla giustizia non sono un invito ma una diffida. Perché la riforma del Csm non è più solo urgente ma assolutamente necessaria. Perché questa volta non basta una mezza riforma. E perché il prossimo Csm deve essere eletto con nuovi criteri”. Tempi, metodi, indirizzo. In questa intervista il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, racconta la “prossima” giustizia. Fallirete pure questa volta o per la prima volta riuscirete a modificare il Csm? “Possiamo farcela e il grande protagonista sarà il Parlamento”. Il governo come si muoverà? “Come ha indicato la ministra Marta Cartabia. Nessun diktat, ma proposte risultato di studio e confronti”. Non è timidezza? “Al contrario. È la consapevolezza che stiamo parlando di temi fortemente sensibili. Le forze politiche devono pienamente esprimersi. L’aula può ragionevolmente valutare gli emendamenti del governo e decidere se e come farli propri”. Quindi non ci sarà nessuna imposizione dell’esecutivo? “Gli emendamenti coniati dal Ministero sono, da tempo, al vaglio di Palazzo Chigi. Ma la riforma, ribadisco, dovrà avere matrice parlamentare. Le proposte del Ministero nascono da un lavoro d’ascolto serrato. La finalità è fare recuperare smalto alla magistratura senza dimenticare un altro pericolosissimo guasto”. Quale altro? “Salvatore Satta scriveva che la vera sanzione, nel nostro Paese, non è la sentenza, ma è il processo; aggiungo che ancora più terribile è l’incedere del processo mediatico. C’è ancora molto da lavorare sulla presunzione d’innocenza”. E adesso il calendario. “Il 16 febbraio riprende il lavoro della commissione giustizia della Camera. Ed entro il mese di marzo il provvedimento deve approdare in aula, per essere votato, sempre alla Camera. È una scadenza indifferibile”. E se sarà ostruzionismo? “Rispondo: si può votare anche di notte. E non si può fare melina”. Se accade? “Sarebbe grave”. Dice Sisto che mai come questa volta deputati e senatori hanno l’occasione della legislatura. Possono decidere di eliminare le correnti? “No. Le correnti sono ineliminabili. Si deve garantire la libertà di aggregazione in nome di regole condivise, secondo princìpi costituzionali”. È vero che per riformare questo Csm pensate di ricorrere al sorteggio? Armando Spataro, e sul Foglio, l’ha definita “un’ipotesi immonda”. Sorteggio? “Nella proposta Cartabia non si parla di sorteggio”. Una parentesi. La proposta di sorteggiare è stata perfino votata dall’Anm. Hanno votato in pochi ed è stata respinta. Il sorteggio ha perso 60 a 40. Cosa significa? “Dimostra che, anche all’interno della Magistratura, c’è una sensibilità verso questa ipotesi”. Quali sono i motivi per cui si dovrebbero preferire i dadi, il caso, a un sistema di reclutamento modificato? “Il sorteggio, secondo alcuni, è un modo per sparigliare, una sorta di sfiducia senza se e senza ma per il momento di crisi che vive la magistratura. È una sorta di atipico “appello al cielo”, quello che Locke rapportava alla crisi dei meccanismi democratici”. Esaminiamo le proposte Cartabia. Si parla di sistema maggioritario per scegliere i componenti del Csm. Cosa ancora? “Un sistema binominale, con il pieno rispetto delle quote di genere. Il sistema elettorale perfetto, parliamoci chiaro, non esiste, ma questa soluzione può certamente migliorare lo stato attuale delle cose”. Si ripete: mai più magistrati “fuori ruolo” e basta con “le porte girevoli”. Come si interverrà? “È giusto che i magistrati fuori ruolo siano caratterizzati da forte e comprovata specializzazione, che tornino a essere una scelta limitata e necessaria.”. Tra le altre frasi fritte: “Mai più casi Maresca”. È un caso che riguarda il centrodestra. Lei è un uomo di Forza Italia, di centrodestra. Non le provoca difficoltà? “Non ho difficoltà a dire che casi come quello di Maresca sono la prova che bisogna mettere ordine, e subito. Ma aggiungo pure che, obiettivamente, il fenomeno delle porte girevoli riguarda pochi magistrati”. Gli scandali, le parole severe di Mattarella e ora questa riforma per fare in modo che il prossimo Csm venga eletto con il nuovo sistema. Senza contare che pende il referendum sulla giustizia. Di nuovo. Sul serio sarete capaci? “Posso dire che si farà il possibile e l’impossibile. Ma non basta. Se riforma, deve essere, bisogna che sia compresa, “sentita” come effettiva dai cittadini. Il cambio di passo deve essere evidente. Peggio di una giustizia che non cambia, c’è solo una giustizia che finge di cambiare”. Archiviazioni e assoluzioni, troppi processi penali a vuoto di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 8 febbraio 2022 La macchina della giustizia penale gira, spesso, a vuoto. Quasi il 64% dei procedimenti che escono dalle Procure dopo la fine delle indagini preliminari non va a giudizio ma viene archiviato. Si tratta di quasi 430mila fascicoli, secondo i dati forniti dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, durante l’inaugurazione del nuovo anno giudiziario. Una spia di malessere, soprattutto se letta insieme alla percentuale di assoluzioni in primo grado, pari a quella delle condanne (46%), o superiore per i reati considerati “minori” (come furti, spaccio, risse, truffe), ma molto diffusi e di forte impatto sulla vita delle persone e sulla loro percezione dell’efficienza del sistema giudiziario. È questa la situazione su cui interverrà la riforma del processo penale, contenuta nella legge delega 134/2021 (si veda l’articolo a fianco), alla cui attuazione stanno lavorando i gruppi di esperti nominati dalla ministra della giustizia, Marta Cartabia. L’importanza di portare a termine il cammino di riforma è stata ribadito anche dal Presidente della Repubblica Sergio Matterella nel discorso rivolto al Parlamento, dopo il giuramento per il suo secondo incarico: “I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”. I numeri - Superano il milione l’anno i procedimenti iscritti nelle Procure e altrettanti sono avviati in Tribunale, ma la grande maggioranza rischia di “inutilmente” impegnare gli uffici e gravare su chi è sottoposto a processo. Intanto, per una porzione consistente delle notizie di reato, il pubblico ministero chiede l’archiviazione. E la richiesta viene in genere accolta: nell’ultimo anno giudiziario (2020-2021) sono stati quasi 430mila i decreti di archiviazione emessi dal’ufficio Gip/Gup (giudice per le indagini preliminari e giudice per l’udienza preliminare), a fronte di 81mila rinvii al giudice del dibattimento. Guardando, poi, ai procedimenti che vanno a dibattimento, è alta la percentuale di assoluzioni, soprattutto, come ha sottolineato Curzio, per “i reati più diffusi e che di regola toccano più da vicino il cittadino”. Questi vengono in gran parte definiti con la citazione diretta a giudizio, che interessa i reati “minori”, puniti con la reclusione fino a quattro anni, e viene disposta dal Pm, senza passare dal vaglio del giudice (la riforma Cartabia punta a cambiare la situazione, ampliando l’applicazione e inserendo un’udienza predibattimentale). Nell’ultimo anno giudiziario, il 54,8% dei processi definiti nel giudizio ordinario (nella stragrande maggioranza dei casi introdotti con citazione diretta) si è concluso con un’assoluzione. Ancor più elevata la quota di assoluzioni - il 68,7% - che riguarda i giudizi di opposizione a decreto penale di condanna (utilizzabile se la pena è solo pecuniaria). Dati che, scrive Curzio, “dovrebbero indurre una più ampia riflessione sull’efficienza del sistema di definizione delle cause “minori” che attualmente fa leva sulla citazione diretta a giudizio e sul decreto penale di condanna”. L’allarme arriva anche dalle sedi distrettuali. Il presidente della Corte d’appello di Milano, Giuseppe Ondei ha definito “assai preoccupante” il numero di assoluzioni nell’ambito del giudizio monocratico e che arriva al 35/40% a Milano e Monza, al 50% a Como e al 72% a Varese. Tutto sommato contenuto, in rapporto ai numeri totali, l’impatto della prescrizione: nel 2020 sono stati 31.616 i decreti di archiviazione per prescrizione del Gip (8,1% dei definiti) e 30.538 le sentenze di prescrizione del Tribunale (6,9% dei definiti). Le cause - Le ragioni dell’alto numero di archiviazioni sono molteplici. In primo luogo il gran numero di notizie di reato “le denunce infondate sono moltissime, ma il Pm deve sempre aprire un procedimento perché l’azione penale è obbligatoria”, dice il presidente della Corte d’appello di Napoli, Giuseppe De Carolis di Prossedi. Più preoccupante, secondo di Prossedi, è il dato sulle assoluzioni che “se arriva al 40-50% vuol dire che il Pm ha esercitato l’azione penale senza elementi certi di colpevolezza. Ma è anche un effetto del sistema accusatorio in cui la prova si forma in dibattimento, nel contraddittorio fra le parti”. Sulla stessa linea l’analisi di Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia: “L’alto numero di archiviazioni è fisiologico. Il penale risente inoltre delle difficoltà del civile. Visti i tempi e i costi, per le small claims non conviene fare causa e allora si prova con la denuncia”. “Sono le assoluzioni nei giudizi a citazione diretta il vero problema. Ma se al dibattimento si va dopo 3-4 anni dalle indagini tutte le prove dichiarative vanno perse”. E l’udienza filtro prevista dalla legge delega rischia di non essere sufficiente. “Con la situazione attuale - ragiona Castelli - o la si tiene dopo tre anni, o la si fa subito ma a giudizio si va sempre dopo tre anni. E i tempi lunghi disincentivano anche i riti alternativi”. La strada da percorrere, secondo Castelli, sarebbe quella di “un largo ricorso alle pene pecuniarie (o ai lavori di pubblica utilità) e a sistemi di deflazione di carattere riparativo sotto il controllo giudiziario come succede per le contravvenzioni sulla sicurezza del lavoro”. Il punto, secondo il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, è che “si aprono troppi fascicoli e il sistema non è in grado di smaltirli. Si dovrebbe superare l’obbligatorietà dell’azione penale, che oggi impedisce di selezionare le notizie di reato, e introdurre la discrezionalità del suo esercizio”. Sulla relazione della ministra Cartabia di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 8 febbraio 2022 Mi consideravo un sostenitore della ministra della Giustizia Marta Cartabia ma, dopo la sua relazione al Parlamento, ho cambiato idea. Un profluvio di affermazioni solenni, ma dietro di esse il vuoto di una giustizia piegata e di un carcere che continuerà ad essere votato alla sofferenza, facendo strame della dignità umana, detenuta e detenente. Ho percepito il prevalere di una visione dell’organizzazione burocratica, probabilmente suggerita dall’inamovibile think tank di cui è circondata, a favore del gigantismo degli uffici centrali, mentre inascoltata rimane la domanda di soccorso della periferia giudiziaria e, per quel che so, di quella penitenziaria. Soltanto qualche anno fa, ed i nomi dei ministri sono in calce ad ogni provvedimento, si intervenne con feroci tagli di personale, accorpando, con piglio colonialista, intere regioni, e rinunciando, così, ad assicurare un maggior monitoraggio degli istituti penitenziari, al fine di armonizzare verso livelli alti di qualità le condizioni carcerarie; le cronache degli ultimi anni ne sono la dimostrazione patente. Direttori prossimi alla pensione sono, ancora oggi, responsabili di due, tre, quattro e forse più carceri; non poche volte in sedi fuori regione rispetto a quella ordinaria. Pure ove si muovessero con la telecinesi, non potranno mai intervenire tempestivamente e contemporaneamente su più fronti, in caso di emergenze e di situazione di criticità. Come ormai sta divenendo prassi, gli istituti saranno governati, con una sorta di delega in bianco tollerata “in alto”, dalla sola componente penitenziaria di polizia, con tutto ciò che questo può evocare come legalità e rispetto dei diritti umani. Ovviamente in contrasto con le regole penitenziarie europee. Su tale esiziale problematica, nulla di concreto è emerso dalla relazione di maniera, mentre invece occorrerebbero soluzioni “urgentissime” e davvero straordinarie (al netto di eventuali provvedimenti clemenziali “salva faccia” dello Stato di diritto), sia per rimpinguare, a vista, il ruolo dei direttori penitenziari, sconosciuto nella sua relazione, nonché quello degli specialisti dell’osservazione e del trattamento: tutti operatori indispensabili per la profilazione dei soggetti detenuti, al fine di ridurre il numero di possibili errori di valutazione nell’esame scientifico della personalità del ristretto. “Dimmi quali ingredienti metti nell’impasto e ti dirò se è un dolce o un rustico salato: dimmi quali componenti professionali risultino assolutamente prevalenti in un carcere e ti dirò se quello è un luogo di soccorso e di recupero delle persone detenute, oppure è una forma più evoluta dei campi profughi libici, che pure finanziamo, o un ricalco di Guantánamo”. A dimostrazione il recente Pcd (Provvedimento del capo del dipartimento) 30.12.2021, ove si dispone la costituzione di un gruppo di lavoro per la bozza di regolamento di riorganizzazione del Dap, prevedendo la Direzione generale per le specialità del Corpo della polizia penitenziaria e la Direzione generale dei servizi tecnici e logistici. Chi abbia un minimo di conoscenza dell’amministrazione, tradurrebbe questo come una ulteriore idrovora che sottrarrà dalle carceri altro personale del Corpo, di ogni ruolo, ivi compreso quello dei dirigenti della polizia penitenziaria che sta crescendo a dismisura, a causa degli automatismi di carriera, rispetto a quello, ormai De cuius, dei direttori penitenziari. La Ministra prevede, perfino, la costituzione di un ulteriore dipartimento, “per la transizione digitale e la statistica”. Sarebbe da chiedersi come finora abbiano fatto e se non si sarebbe potuto provvedere, in un’ottica di reale risparmio, visto che i fondi europei non sono eterni, reingegnerizzando le attuali direzioni generali del Ministero, senza però aumentarne il numero. E poi, sul numero strabiliante di appellati “giuristi” che stanno per giungere, ben 8.171, spacciando l’idea di un personale già pratico di cose di giustizia, che affiancheranno i magistrati, cosa accadrà quando, semmai, si scoprirà che agli stessi non si sia stati in grado neanche di fornire uno spazio dignitoso dove operare, forse neanche una seggiola a norma, ai sensi del Decreto legislativo n. 81/2008, nonché gli strumenti di lavoro, come i pc, se non sottraendoli, per poco tempo o per sempre, al personale già in forza che operava con il cosiddetto “lavoro agile”? Afferma inoltre, come se fossero davvero assiepati fuori alla porta, l’arrivo di cospicuo contingente di tecnici (ben 5.410), che dovrà supportare l’Ufficio per il processo nei suoi compiti di data entry, di rilevazione statistica e di analisi organizzativa, e altri compiti di supporto dell’azione gestionale dei vertici giudiziari e amministrativi degli uffici: per favore, prendetene nota! Sembra, dalle sue parole, quasi non conoscersi la complessità di una macchina amministrativa ministeriale, affetta da bulimia di provvedimenti “in house”, spesso disorganici, che sembrano voler perseguire una sorta di colpa d’autore, da intestare d’ufficio alla generalità dei pubblici dipendenti, non poche volte descritti, dai Soloni del nulla, come “scalda-sedie” e “fannulloni”, risultando ormai definitivamente rovinata un’architettura organizzativa che era, paradossalmente, più efficiente e solida con il vecchio Dpr 10 gennaio 1957 n. 3., il cosiddetto “Statuto sul pubblico impiego”. E né convince, per il contrasto alle patologie più gravi e finanche penalmente rilevanti, la previsione dello strumento del Whistleblowing, al posto della doverosa denuncia del leale servitore dello Stato: è spaventoso che si prediliga la pratica del sussurro, del mormorio, della delazione. Tacito affermava: “Corruptissima re publica plurimae leges”: temo davvero che quei tempi siano ritornati. Dopo quanto accaduto presso il Carcere di Santa Maria Capua Vetere, ed a mente di tanti diversi fatti di cronaca, riferiti ad altre realtà detentive, mi sarei aspettato ben altro, semmai l’annuncio di procedure straordinarie, anche rivoluzionarie, di assunzione, finanche cooptando, col consenso degli interessati, le professionalità più utili dagli albi professionali degli avvocati e procuratori, oppure attingendo dal personale dirigente di altri ministeri ed uffici, se non dagli ordini degli psicologi, dagli albi dei criminologi, dal mondo dei dirigenti di comunità, insomma da quei contenitori che giornalmente incrociano le carceri per ragioni del loro ufficio. Personale che non poteva essere di polizia, perché altrimenti ciò contrasterebbe con le regole penitenziarie europee, lì dove si legge che “gli istituti devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati, sottolineo separati, dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. Insomma, concrete soluzioni, anche per consentire e agevolare l’ingresso nelle nostre carceri del mondo del volontariato, delle cooperative e delle imprese produttive, di quello della scuola e dell’università, nonché della formazione professionale: oggi, per una cooperativa o un’impresa accedere in una prigione, per portare lavoro a favore di persone detenute, corrisponde all’esercizio di un percorso di guerra, quasi come se fossero sospettate di intelligenza con il nemico. Attendevo almeno la proposta di provvedimenti urgenti che modificassero l’Ordinamento penitenziario, ad esempio, in tema di telefonate con i familiari e con altre persone autorizzate, affinché non vi fosse alcun limite, fatto salvo l’onere economico in capo al detenuto, considerando la necessità dell’installazione di telefoni in ogni cella (uso questo termine genuino rispetto a quello falso ed edulcorato di “stanza di pernottamento” che l’establishment preferirebbe, dimenticando le condizioni orribili del reparto sestante del carcere delle Vallette e di tante altre realtà). Avrei voluto sentirla dire che ad ogni detenuto aveva diritto ad un posto letto in una cella singola, ad una doccia, un lavabo ed un cesso, affinché la di lui riservatezza, il di lui non essere costretto ad una condivisione con altri detenuti, che può perfino spingere al suicidio o a subire vessazioni e violenze, sarebbe stata finalmente assicurata, pure a mente del rischio Covid-19 e di tutte le possibili sue nuove varianti; invece ho sentito una relazione d’ufficio, di maniera, che disegna futuri radiosi e progressivi, senza però disporre di alcuna tavolozza di colori, né, tantomeno, cercarla con creatività. In ultimo, risibile sentire i numeri “aggregati” dei casi seguiti, riferiti al Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, inducendo a ritenere che rappresentassero davvero una soluzione alternativa rispetto alla pena della detenzione, senza precisare che, ragionando al contrario, il nostro ordinamento conoscerebbe la sola, dispendiosa ed inefficace, risposta carceraria per la risoluzione di ogni problematica sociale e di disagio, trasformando per davvero il Bel Paese in un hub carcerario: davvero una tristezza. *Presidente onorario del Cesp - Centro europeo di studi penitenziari Quella strana pretesa avvocatesca di costruire la giustizia di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 8 febbraio 2022 Il suo compito è solo la difesa del cliente, fatta proprio perché esiste un soggetto (lo Stato) che si impanca a giudicarlo. L’idea di collaborare è aliena alla sua missione e porta a derive pericolose. C’è in alcuni giuristi la pretesa, e in alcuni magistrati la concessione, che gli avvocati in qualche modo “partecipino” alla giustizia da rendere in aula. Pretesa e concessione riposanti sull’idea, cioè, che l’avvocato contribuisca, e debba contribuire, a scrivere la giustizia di cui è destinatario il proprio assistito. È un’idea profondamente sbagliata e dannosissima. L’avvocato deve difendere il proprio assistito perché questi è accusato, non perché è accusato malamente o infondatamente: e, in quella difesa, l’avvocato non deve in nessun modo lavorare con, ma in ogni modo contro, chi eleva l’accusa. Il magistrato, per il sol fatto di essere impancato ad accusare e giudicare, è, o almeno dovrebbe essere considerato, un avversario dell’avvocato: necessario, da rispettare, ma avversario. E che non dismette questa sua caratteristica nemmeno, e anzi tanto meno, quando dice una giustizia confacente agli interessi di chi è processato. L’avvocato stimolato a essere “coautore” di giustizia, e a compiacersene, come purtroppo spesso accade, per quanto magari in buona fede rinnega in realtà la propria funzione, che è tutt’altra: rappresentare e difendere la controparte individuale - non il discepolo timorato, non il resipiscente incurvo, non il consegnato in postura penitenziale, insomma non la vittima in attesa di giudizio - del potere pubblico. La sentenza “giusta” che ostentasse in calce la finzione della firma del difensore sarebbe la sentenza più detestabile, la meno affidabile, e la più contraria all’idea stessa di una decisione resa secondo diritto. Chi poi sapesse e volesse indagare tra le motivazioni profonde di quella pretesa avvocatesca, e cioè di non esser solo voce del proprio cliente, ma della stessa giustizia di cui questi è destinatario, ne scoprirebbe il subdolo profilo sopraffattorio: quello che in realtà si carica di potere in quel ruolo incongruo e usurpato, rivolgendosi a “fare stato” sul proprio assistito. Una specie di agente di giustizia. Giustizia tributaria, la scorciatoia europea di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 8 febbraio 2022 Mentre la Commissione interministeriale studia la riforma, si fa largo la direttiva Ue per velocizzare le liti sulla fiscalità internazionale. La riforma della giustizia tributaria è da tempo al centro del dibattito giuridico come dimostrato dalle numerose proposte di legge presentate in Parlamento dal 2013 ad oggi. Nello stesso Pnrr il contenzioso tributario viene definito come un “settore cruciale per l’impatto che può avere sulla fiducia degli operatori economici, anche nella prospettiva degli investimenti esteri”. La Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria ha individuato due possibili soluzione: una prima opzione prevede l’istituzione di una vera e propria quinta magistratura composta da giudici professionali a tempo pieno selezionati tramite concorso pubblico. La seconda prevede il mantenimento in ambito tributario di una magistratura “onoraria” (non professionale, quale quella attuale) ma con l’introduzione di requisiti di accesso (limiti di età, laurea in giurisprudenza o economia, iscrizione albo avvocato o commercialisti). Invece per le controversie del secondo grado di giudizio, si prevede l’istituzione di una apposita sezione per le liti di valore superiore a 25.000 euro formata da magistrati togati, professionisti o professori che svolgano le funzioni di giudice tributario. “Senza esprimere un giudizio sul merito delle due soluzioni proposte - afferma Marco Cerrato, partner di Maisto e Associati - ritengo che entrambe presentino importanti profili di novità e che certamente avranno un impatto positivo sul sistema della giustizia tributaria, evitando o quanto meno limitando la proliferazione di ricorsi in Cassazione. L’auspicio è che una delle due soluzioni venga adottata al più presto in modo che gli investitori possano riporre affidamento, in caso di eventuali controversie con l’amministrazione finanziaria, su una giustizia tributaria di qualità e più rapida”. La terza via - Eppure esiste un’alternativa forse ancora poco nota, una recente novità che porterà i suoi frutti, nei rapporti tra investitori (soprattutto esteri) e fisco italiano, presumibilmente già dal 2023. Si tratta di un’ipotesi vagliata da molte aziende straniere con attività in Italia e italiane con attività all’estero: tutto parte dalla Direttiva (UE) 2017/1852 del Consiglio, del 10 ottobre 2017, in ambito di meccanismi di risoluzione delle controversie in materia fiscale nell’unione europea, direttiva recepita in Italia con il decreto legislativo 19 giugno 2020, n. 49. “La direttiva e il decreto italiano di recepimento - spiega Cerrato - offrono un valido ed efficace strumento di risoluzione delle controversie in materia fiscale all’interno dell’unione europea che può essere attivato anche a prescindere dall’instaurazione del contenzioso nazionale. In tal modo, per i contribuenti italiani ed esteri sottoposti a contestazioni in materia di fiscalità internazionale sarà possibile sottrarsi alla giustizia tributaria rimettendo la soluzione della potenziale controversia con il fisco a una procedura che dovrà essere instaurata tra l’agenzia delle Entrate italiana e l’amministrazione finanziaria estera corrispondente e che dovrà necessariamente portare ad una soluzione tra le amministrazioni, per il tramite (in caso di mancato accordo tra le due organizzazioni), di un meccanismo arbitrale vincolante per le amministrazioni stesse”. Il raggio d’azione? “Si tratta in sostanza di tutte le possibili controversie derivanti dall’interpretazione e dall’applicazione dei trattati bilaterali per evitare le doppie imposizioni sul reddito e sul patrimonio conclusi tra Italia e altri Stati comunitari e che potrebbero portare a doppia imposizione internazionale”. Pittelli in sciopero della fame, si mobilita il Garante dei detenuti di Valentina Stella Il Dubbio, 8 febbraio 2022 Mauro Palma si recherà nel carcere di Melfi per incontrare l’ex deputato di Forza Italia dopo quasi un mese di digiuno. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, incontrerà nei prossimi giorni Giancarlo Pittelli e gli chiederà di sospendere lo sciopero della fame. Lo si apprende da una nota inviata ieri alla stampa: il Garante “venuto a conoscenza del peggioramento delle condizioni di salute” dell’uomo, “detenuto presso il carcere di Melfi, e in sciopero della fame ormai da quasi un mese, ha contattato l’Amministrazione penitenziaria e ha deciso di recarsi a Melfi per avere un’interlocuzione con Pittelli e con le autorità sia sanitarie che penitenziarie locali. La sua situazione è presa in carico e monitorata dal Garante e la visita avverrà entro questa settimana”. Mauro Palma dichiara “il proprio impegno per trovare in tempi rapidi, insieme alle autorità competenti, soluzioni in grado di garantire l’assoluta tutela della salute nel pieno rispetto delle esigenze di giustizia e auspica che Giancarlo Pittelli sospenda il suo sciopero della fame, in attesa dell’imminente incontro”. Su quali possano essere le soluzioni, non è possibile dire nulla al momento. Pittelli, rispedito dai domiciliari in carcere dopo la lettera-appello alla Ministra Mara Carfagna, aveva iniziato dal 13 gennaio uno sciopero della fame molto pericoloso per lui, in quanto condotto in stato di detenzione e in una condizione fisica e psicologica di profonda prostrazione, causata da due anni di carcerazione preventiva. È accusato di vari reati collegati alla ‘ndrangheta ed è imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott, in corso a Lamezia Terme, e nato da una inchiesta di Nicola Gratteri. A fine gennaio, per sostenere Pittelli, è partito un appello contro la sua carcerazione preventiva, lanciato dalle pagine del Riformista e di Spraynews. Nell’appello, sottoscritto ad oggi da circa 1500 persone, non si esprime un parere sull’inchiesta in cui è rimasto coinvolto Pittelli ma si osserva che “una così lunga carcerazione preventiva, cioè senza che l’imputato sia sottoposto a un regolare processo, ai nostri occhi come a quelli di una sempre più larga fetta di opinione pubblica, appare ingiustificabile e soprattutto non coerente con alcuni dei principi cardine dello Stato di diritto e della Costituzione”. Nell’appello, sottoscritto da avvocati, politici, giornalisti, semplici cittadini si legge ancora: “assistiamo, impotenti allo sconvolgente scadimento dello stato psicofisico di Giancarlo Pittelli a causa della lunga carcerazione preventiva, condizione questa che gli impedisce di poter concentrare tutte le energie nella propria difesa. Non vogliamo che a questo si aggiunga una lesione della sua immagine e un impoverimento delle relazioni costruite in una vita: ciò non ha nulla a che vedere con il rigore nella lotta alla criminalità ma rappresenta solo un regresso civile e sociale che nessuna persona libera può accettare. Per questo motivo manifestiamo pubblicamente e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza ad ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali e affettive”. Alcuni tra i promotori hanno anche iniziato uno sciopero della fame a staffetta “che cesserà solo quando Giancarlo Pittelli sospenderà la sua protesta estrema”. Ma il primo febbraio lo stesso Pittelli, tramite sua moglie, dopo un colloquio telefonico, aveva chiesto agli amici di sospendere il digiuno: “Vi abbraccio e vi chiedo di smettere lo sciopero della fame che state facendo per me”, ribadendo tuttavia che “il suo proposito di continuare la protesta ‘fino alla finè rimane fermo”. Il nostro Stato di Diritto vuole davvero correre il rischio di far morire di fame un presunto innocente in carcerazione preventiva? Ricordiamo che al 31 gennaio 2022 i reclusi in attesa di primo giudizio sono 8700, a cui si aggiungono 7600 condannati non definitivi: il 30 per cento di tutta la popolazione carceraria. Il comitato promotore, tramite Umberto Baccolo, ha risposto all’iniziativa di Palma: “Bene la decisione del Garante dei diritti dei detenuti di visitare Giancarlo Pittelli a Melfi. L’interruzione dello sciopero della fame è il primo passo. Ma noi continueremo la nostra campagna fino a che Giancarlo Pittelli non tornerà, da uomo libero, a difendersi dalle accuse che gli vengono mosse”. Tra i firmatari dell’appello, oltre a diversi esponenti del Partito Radicale e di Nessuno Tocchi Caino, anche 26 parlamentari di tutti gli schieramenti, tranne che del Movimento Cinque Stelle: Vittorio Sgarbi, Riccardo Magi, Roberto Giachetti, Maurizio Lupi, Enza Bruno Bossio, Guido Pettarin, Renzo Tondo, Salvatore Margiotta, Manfredi Potenti, Paola Binetti, Fausto Raciti, Valeria Fedeli, Luca Squeri, Renata Polverini, Pietro Pittalis, Ylenia Lucaselli, Federico Mollicone, Catello Vitiello, Marco Perosino, Chiara Gribaudo, Franco Dal Mas, Fiammetta Modena, Enrico Aimi, Manuela Gagliardi, Mirella Cristina, Claudia Porchietto. L’ex deputata Tiziana Maiolo ha anche rivolto un appello alla ministra Marta Cartabia: “Le sto lanciando un grido d’allarme su un detenuto in attesa di giudizio. Cerchiamo di salvarlo”. Lazio. Affettività e carcere: dal Consiglio regionale una proposta di legge per il Parlamento garantedetenutilazio.it, 8 febbraio 2022 Giovedì 10 febbraio, l’Aula discuterà una mozione d’iniziativa del presidente Vincenzi e dei vicepresidenti, Porrello e Cangemi, per proporre una nuova normativa nazionale a favore delle relazioni affettive delle persone ristrette. È all’ordine del giorno della seduta del Consiglio regionale del Lazio di giovedì 10 febbraio la mozione 552 del 17 dicembre 2021, avente ad oggetto la presentazione al parlamento di una proposta di legge, avente ad oggetto la “Tutela delle relazioni affettive e della genitorialità delle persone ristrette”. A presentare la mozione sono il presidente del Consiglio regionale, Marco Vincenzi, e i vicepresidenti Devid Porrello e Giuseppe Emanuele Cangemi. La proposta di legge, allegata alla mozione, prende le mosse dalla ricerca dell’Università di Cassino e del Lazio meridionale, realizzata con la condivisione e il supporto del Garante dei detenuti e della Presidenza del Consiglio regionale, “Affettività e carcere. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte”, presentata in sala Mechelli alla Pisana lo scorso 30 novembre. “Partiamo dal presupposto che la detenzione è prima di tutto un percorso riabilitativo, così come sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione nel quale è espressamente scritto che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’”. Così il vicepresidente del Consiglio regionale Devid Porrello. “La reintegrazione nella società - prosegue Porrello - non è solo un fatto individuale a vantaggio di chi ha scontato la propria pena, ma il segno di un Paese civile che riesce a creare un sistema funzionale che porta dei benefici sociali. Per questo è importante che i detenuti mantengano i legami con il mondo esterno in cui dovranno reinserirsi ed è importante che non spezzino il filo delle relazioni umane con le persone a loro più care. Perché se questi legami si allentano diventa molto più difficile e faticoso ritrovare una propria collocazione nella collettività. Da una ricerca dell’Università di Cassino, presentata lo scorso novembre nel Consiglio regionale del Lazio, è emerso fortemente il disagio socio-affettivo e relazionale della popolazione detenuta del Lazio: il sovraffollamento, la mancanza di locali adeguati per i colloqui con i propri familiari, l’insufficienza di spazi verdi dotati di attrezzature per i bambini, l’inesistenza di spazi per l’intimità con il partner rappresentano un limite al riconoscimento del diritto all’affettività e alla sessualità di chi si sta scontando la propria pena”. “Con la mozione che abbiamo presentato - conclude Porrello - vogliamo introdurre elementi di novità su questo tema, attraverso una proposta di legge da presentare al parlamento per garantire le relazioni affettive e la genitorialità dei detenuti, in un’ottica che non è di privilegio, ma di necessità. Perché se è vero che lo Stato ha il dovere di assicurare i colpevoli alla giustizia, ha anche il dovere di restituire chi ha scontato la propria pena, alla società”. Sicilia. Yairaiha onlus apre 3 sportelli per detenuti e famiglie di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 febbraio 2022 A pochi giorni dall’ammissione delle parti civili nel processo per gli abusi e i pestaggi dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenute nel 2020, rese pubbliche grazie alle riprese delle telecamere interne, l’associazione Yairaiha onlus, attiva nella difesa dei detenuti dal 2006, annuncia che ha inaugurato tre sportelli in Sicilia. L’associazione è recentemente è ritornata sulle cronache proprio per aver pubblicato la denuncia di abusi di un detenuto nel carcere di San Gimignano, da cui è scaturito un processo ancora in corso. Attiva con interventi su tutta Italia, quelli nell’isola saranno i primi esperimenti di sportelli territoriali. La Sicilia è infatti al secondo posto per numero di detenuti nelle carceri con oltre settemila anime dietro le sbarre, ma è anche la regione più povera d’Europa; un filo diretto, quello tra difficoltà economica e detenzione, che è impossibile non notare. Saranno ubicati a Palermo, in via Scipione di Castro n. 36 presso il Comitato Territoriale Cipressi, a Catania e a Lentini, rispettivamente in via Villa Glori n. 50 e via Dei Vespri n. 13 presso la sede del Comitato territoriale Antudo, i tre sportelli e costituiranno un punto d’ascolto e supporto per le famiglie dei detenuti e per i detenuti stessi. Nelle tre sedi sarà attivo un servizio di corrispondenza per le istanze provenienti da dentro le carceri per segnalazioni di abusi e violenze, ma anche informazioni e sostegno legale per le famiglie che ne sentiranno il bisogno, con la possibilità ad accedere ad aiuti alimentari ed economici. Se la pandemia sta gravando sulla vita di tutti a partire dalle restrizioni di libertà di movimento e di relazione, ciò vale ancor di più per i reclusi nelle carceri dove sono stati sospesi e mai riavviati tutti gli istituti per il cosiddetto “reinserimento” sociale, rendendo la detenzione uno strumento sempre più punitivo e non rieducativo come su carta dovrebbe essere. Per questo, sottolinea l’associazione Yairaiha onlus, “si rende sempre più necessaria e indispensabile l’attivazione di organi democratici di vigilanza e garanzia. Oggi più che mai responsabilità di una comunità vera è prendersi cura di tutti, proprio di tutti i suoi componenti”. L’associazione promette che si sta muovendo in questa direzione. Emilia Romagna. Intervista a Roberto Cavalieri, nuovo Garante regionale dei detenuti di Michele Ceparano Gazzetta di Parma, 8 febbraio 2022 Importante nomina per il parmigiano Roberto Cavalieri che diventa garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale. Cavalieri, dal 2014 garante comunale per i diritti dei detenuti a Parma, realtà in cui è presente il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, ha ottenuto 43 voti su 50 dall’assemblea legislativa regionale e resterà in carica cinque anni. Ora toccherà al consiglio comunale di Parma eleggere il suo successore. Quali saranno le sue competenze? Il garante vigila sulle condizioni di vita delle persone detenute o comunque trattenute nei luoghi di detenzione dell’Emilia-Romagna con il fine di garantire il rispetto della dignità e dei loro diritti. Concorre così alla rimozione della possibile presenza di trattamenti inumani e degradanti e alla verifica delle condizioni igienico-sanitarie dei luoghi di privazione della libertà personale e sull’adempimento del dettato costituzionale relativo alla finalità rieducativa della pena. Come si differenzia questo ruolo da quello di garante comunale? Il garante regionale può visitare gli istituti penitenziari nel territorio regionale (senza limitazioni nei colloqui anche con i detenuti sottoposti al 41 bis), le strutture psichiatriche e l’istituto penale per i minori. Le competenze sono estese anche ad altri luoghi di privazione della libertà personale quali le camere di sicurezza delle questure, le caserme dei carabinieri, della finanza e della polizia locale, i reparti ospedalieri dove si attuano i trattamenti sanitari obbligatori, i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e le comunità terapeutiche. Di quante persone si dovrà occupare? Solo nel contesto penitenziario parliamo di 6-7 mila persone che passano almeno un giorno in carcere all’anno nella nostra regione, la metà sono quelli presenti in media ogni giorno in carcere. A Parma sono mille le persone presenti almeno un giorno all’anno e circa 700 i presenti in modo permanente. Aggiungendo le altre tipologie di persone sottoposte a misure limitative della libertà personale il dato complessivo cresce notevolmente. Come ha appreso della sua elezione? Il cellulare ha iniziato, senza interruzione, ad inviarmi notifiche di messaggi e a squillare. Mi ha colpito la varietà delle persone che mi hanno contattato: colleghi garanti, amministratori, personale dell’Amministrazione penitenziaria, agenti e ispettori della polizia penitenziaria, ex detenuti e famigliari di persone che si trovano in carcere. Ho ricevuto molti attestati di stima e congratulazioni. Chi ha sentito tra le prime persone? Il professor Mauro Palma che è garante nazionale e che sarà la prima persona che andrò a trovare e ci siamo promessi di collaborare in modo molto stretto. Poi Marcello Marighelli, il garante regionale uscente, e Antonio Ianniello, garante di Bologna, ai quali ho subito proposto di incontrarci e trovare forme di collaborazione. Poi mi ha contattato Federico Amico, presidente della Commissione per le parità e i diritti delle persone della Regione, per fissare un incontro, un gesto molto importante. Inoltre, Elly Schlein, vicepresidente della Regione, che incontrerò a marzo. Quali obiettivi si prefigge? Oltre a compiere i doveri del ruolo vorrei fissare alcune priorità. Vigilare sulle azioni che vengono condotte in carcere per la prevenzione anti-suicidaria, sui tempi di risposta alle istanze dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza, la prevenzione della violenza nei luoghi di reclusione, l’azzeramento dei bambini presenti negli istituti dove ci sono madri recluse, la tutela delle persone con malattie gravi e dei detenuti anziani. Quali ricordi porterà con sé dall’esperienza parmigiana? Dopo oltre 7 anni di carica i ricordi sono tanti. L’impegno dei volontari, il lavoro che gli operatori penitenziari conducono sempre in condizioni disagiate, la colossale pazienza dei detenuti, il lento spegnersi sino alla morte dei detenuti ergastolani e dei 41 bis, l’accompagnamento ad un permesso di un detenuto che aveva passato trent’anni di carcere, le ore passate in cella con Patrick Mallardo e con altri detenuti diventati tragicamente noti. I decreti dei magistrati che hanno accolto e sostenuto i miei interventi a tutela dei detenuti, la collaborazione con il procuratore capo di Parma, Alfonso D’Avino. Il periodo del lockdown e il lavoro fatto con la direzione del carcere, la polizia penitenziaria, i dirigenti sanitari per rimanere vicino ai detenuti e scongiurare la possibilità di una rivolta. Bologna. Morto in carcere, gli avvocati: “Potenziare misure alternative” bolognatoday.it, 8 febbraio 2022 Secondo l’osservatorio diritti umani delle camere penali solo il ricorso alle misure alternative e a investimenti in risorse umane possono evitare altre morti tra i detenuti. Anche il garante di detenuti interviene. L’ultimo caso di cronaca è di sabato scorso: un detenuto 31enne, cittadino marocchino, trovato morto nelle celle della Dozza e - secondo alcune testimonianze - deceduto in seguito a una overdose provocata dall’abuso di farmaci. È questo il centro dell’intervento delle Camere penali bolognesi, che con i responsabili dell’osservatorio su diritti umani e carcere Stefania Pettinacci ed Ettore Grenci, lancia in un comunicato l’appello a rinforzare il personale sanitario dentro le strutture detentive, oltre a un maggiore ricorso alle misure alternative. “Davvero appare incredibile che oggi vi possa essere una tale facilità di reperire psicofarmaci e altre sostanze psicotrope all’interno di un carcere” informa il team di legali che si occupa di diritti dei detenuti “tanto più che quello di Bologna ha vissuto direttamente l’ondata di rivolte del 2020”. Il primo mese non è andato meglio dell’anno scorso, con già 17 morti su tutto il territorio nazionale. Come la pandemia ha avuto modo di evidenziare -ricorda l’Osservatorio- la crisi del Covid si è manifestata “anche attraverso un ulteriore svuotamento di risorse umane, soprattutto di personale sanitario, ‘dirottato’ ad altri servizi esterni ritenuti evidentemente ‘più importanti’ del carcere”. A questa situazione si è aggiunto “un uso massiccio di psicofarmaci”, però sempre meno dispendiosi di “un programma di assunzioni di medici e psicologi da preparare e destinare alle carceri”. Per l’Osservatorio ciò che serve per evitare i numeri delle morti tra le sbarre “è molto semplice: svuotare le carceri di tutte le persone che per il loro stato di salute e per la possibilità di alternative esterne devono poter uscire da una inutile segregazione. Ciò appare ancor più urgente per i detenuti che hanno pene contenute, perché essi rappresentano la maggioranza” e perché “è statisticamente dimostrato che tali misure riducono drasticamente il rischio di recidiva”. Interviene anche il Garante dei detenuti - Anche il Garante dei detenuti Antonio Iannello è intervenuto nel merito. Con una nota, Iannello non cita esplicitamente i farmaci come causa del decesso -causa che ancora deve essere appurata attraverso una autopsia - ma suona l’allarme circa la riproposizione di analoghi casi anche nel 2021. “Anche nei casi di questi decessi - ricorda Iannello- si è trattato di persone relativamente giovani e senza particolari problemi di salute o significative patologie pregresse ragione per la quale pare configurarsi un tasso di incidenza che non lascia esenti da preoccupazione e necessita di specifici e adeguati approfondimenti nonché interventi conseguenti”. Bologna. Fragilità e detenzione, il sistema non va di Nicola D’Amore* Il Resto del Carlino, 8 febbraio 2022 Di carcere si continua a morire, nel silenzio delle istituzioni. Adil Ammani aveva 31 anni e avrebbe finito di scontare la sua pena nel 2026. Un periodo detentivo lungo, a fronte di una fragilità, che è comune a una larga fetta di detenuti della Dozza, che non va d’accordo con un regime detentivo di tipo carcerario. La Rocco D’Amato è piena di situazioni simili e uguali a quella di Adil: detenuti con dipendenze importanti, la maggior parte stranieri dentro per reati di piccolo cabotaggio, lasciati soli, nell’assenza quasi completa di strumenti rieducativi o sanitari adeguati. Persone che trascorrono la vita in spazi ristretti, dove il sovraffollamento è la regola, con l’unica possibilità di solitudine, per avere un’intimità con se stessi, rappresentata dalla cella (camera di pernottamento, nell’ipocrisia istituzionale). Una possibilità, anche questa, negata però dall’elevato numero di presenze tra le mura della Dozza. E l’unica soluzione, a questo malessere, allora, diventano le sostanze inebrianti: il distillato alcolico che si produce in cella, i farmaci contrabbandati tra detenuti, la droga che circola, come sappiamo, dietro i cancelli della casa circondariale. C’è una sofferenza, che niente ha a che fare con la giusta pena, che non può essere ignorata da chi amministra. E che andrebbe affrontata, invece, in strutture adeguate, con regimi detentivi alternativi. Qui non stiamo parlando di detenuti dell’alta sicurezza, legati alla criminalità organizzata: ma di persone che scontano, per cumuli di pena, gli stessi anni di condanna di un omicida. E allora va ripensato il sistema, se non vogliamo svegliarci, ogni giorno, con un nuovo caso come quello di Adil. *Segretario Sinappe Catanzaro. Rivolta nel carcere, agenti e detenuti feriti giornaledicalabria.it, 8 febbraio 2022 Sono stati circa 50 i detenuti coinvolti ieri pomeriggio in una rivolta verificatasi all’interno dell’istituto penitenziario di Catanzaro, il più importante della Calabria, che ospita 640 persone, alcune delle quali rinchiuse nel reparto di alta sicurezza per reati di mafia e terrorismo. Il carcere è ubicato nel quartiere Siano del capoluogo, alla periferia est della città. I disordini sono partiti dal reparto del carcere in cui sono rinchiusi i detenuti con problemi psichiatrici. Ne è nata una situazione di grave rischio - dato anche il tentativo dei rivoltosi di impossessarsi delle chiavi delle cancellate - superata solo grazie ai rinforzi giunti dall’esterno della struttura inviati dall’amministrazione penitenziaria e all’arrivo di unità della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di finanza, come previsto dai protocolli. Sono quattro gli agenti che hanno dovuto fare ricorso alle cure dei medici in ospedale per le contusioni riportate negli scontri, ma non si tratta di ferite gravi. I detenuti feriti sono stati medicati nella struttura. “A Catanzaro e nelle carceri italiane - spiega il segretario del Sappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, Giovanni Battista Durante - la gestione dei detenuti con problemi psichiatrici è una vera e propria emergenza. A causa del Covid il loro trasferimento è stato rallentato e con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari molto spesso questi soggetti con problematiche particolari sono associati agli altri detenuti. Abbiamo chiesto più volte l’istituzione di sezioni dedicate. L’Europa - aggiunge - di recente ha condannato l’Italia per il caso di un detenuto che avrebbe dovuto essere trasferito ed è rimasto invece in carcere”. Secondo il Sappe esiste poi una grave carenza negli organici della Polizia penitenziaria. Nel solo istituto di Catanzaro mancano 100 agenti. “Il governo Renzi - dice Durante - ha apportato un taglio di 3.000 unità. Siamo passati da 44.000 a 41.000 agenti in tutta Italia. In Calabria, a fronte di un fabbisogno di 1.900 agenti, ce ne sono 1.600. Nella regione ci sono anche casi di strutture importanti, come quella di Rossano, dove si trovano detenuti condannati per reati gravi come il terrorismo, prive di direzione. Nel caso di Rossano - dice Durante - è il direttore del carcere di Cosenza a spostarsi per alcuni giorni a settimana nella struttura. Una situazione grave”. “È da tempo - si legge in un documento del sindacato - che il Sappe denuncia la grave situazione del carcere catanzarese, dove ci sono più di ottanta detenuti con problemi psichiatrici, un centro clinico, con detenuti portatori di diverse patologie e, per converso, un organico che necessiterebbe di altri cento agenti, rispetto a quelli attualmente in servizio. Non possiamo non evidenziare, ancora una volta, che nelle carceri italiane non c’è più sicurezza, da quando è stata introdotta la vigilanza dinamica, con le stanze aperte tutto il giorno ed i detenuti liberi di girare all’interno delle sezioni detentive, dove commettono reati come il passaggio di sostanze stupefacenti, l’uso di telefoni cellulari ed altri fatti anche più gravi. Abbiamo più volte chiesto anche all’attuale ministra - scrive ancora il sindacato - di rivedere l’organizzazione delle carceri, ripristinando le regole e la sicurezza, ma, a tutt’oggi, nulla è stato fatto, se non l’istituzione di una commissione di studio, la cui relazione finale ha avanzato proposte che, se messe in atto, aggraverebbero ancora di più la situazione delle carceri, poiché si vorrebbero limitare i poteri della polizia penitenziaria, proprio in relazione alla gestione della sicurezza”. Brescia. 50 milioni per il nuovo carcere. Bazoli (Pd): dove sono? di Pietro Gorlani Corriere della Sera, 8 febbraio 2022 La cifra citata nel documento di economia e finanza del governo è destinata alla struttura Brescia-Verziano. Il parlamentare dem: “Le amministrazioni penitenziarie non sanno nulla”. E interroga due ministri per avere riscontri. In tema di infrastrutture ci sono importanti novità anche per il nuovo carcere, atteso da oltre vent’anni. Nell’allegato al documento di economia e finanzia (Def) del 2021, intitolato “Dieci anni per trasformare l’Italia”, che illustra la politica del Governo Draghi in materia di infrastrutture e investimenti, “a pagina 201, in riferimento all’edilizia penitenziaria, si legge che sono state ulteriormente messe a disposizione per il completamento del piano di interventi in essere” ben “50 milioni di ulteriori finanziamenti per il carcere Verziano-Brescia”. La conferma arriva dall’onorevole del Pd Alfredo Bazoli (membro della commissione Giustizia) ed i virgolettati fanno parte di una sua interrogazione a risposta scritta che ha recentemente presentato ai ministri dell’Economia e delle Infrastrutture per avere “conferme” su quanto scritto nel Def. Già, perché la promessa del Governo al momento non trova riscontro “né dall’amministrazione penitenziaria interessata, né dal Provveditorato regionale per le opere pubbliche, interpellati per le vie brevi”. Il deputato dem chiede quindi se “sia stata messa a disposizione la somma di 50 milioni per il completamento del nuovo padiglione del penitenziario di Brescia Verziano” e quando questa cifra entrerà nella disponibilità del provveditorato regionale ma anche se tali somme “siano da considerarsi aggiuntive rispetto a quelle già assegnate per 15,2 milioni”. Già, perché nel 2018 è stata messa a gara la progettazione per realizzare nell’attuale sedime di Verziano nuove moderne celle per 400 posti letto (a fronte degli attuali 72 ufficiali) lasciando però aperto il problema dell’estensione della struttura nei campi adiacenti (che andrebbero acquistati o espropriati, visto che la Loggia non è entrata in loro possesso con la permuta di palazzo Bonoris), dove si dovrebbero realizzare laboratori per fare lavorare i detenuti e casermette per gli agenti. Ebbene, nell’interrogazione già presentata da Bazoli, il 22 settembre scorso il Governo ha risposto che i fondi già assegnati a Verziano erano di 15,2 milioni, a fronte di un fabbisogno complessivo di 54 milioni; la carenza di risorse è di 38,8 milioni. Nella stessa risposta si precisava che era intenzione del dipartimento per l’amministrazione penitenziaria proporre l’ulteriore necessario finanziamento al Comitato paritetico per l’edilizia penitenziaria. Se questi fondi saranno confermati la svolta sarebbe epocale. Si dovrà però correre: a fronte di un sovraffollamento preoccupante, il primo lotto non sarà ultimato prima del 2025. Firenze. Così i giovani detenuti diventato attori. E escono in permesso di Sara Piccolo Corriere della Sera, 8 febbraio 2022 “One man jail: le prigioni della mente” è un progetto che usa lo streaming per portare nelle sale lo spettacolo dei giovani in prigione. Non è solo arte ma un percorso formativo. Si chiama “One Man Jail: le prigioni della mente”: è il primo e per ora unico spettacolo in Italia che utilizza le nuove risorse digitali per un progetto di teatro in carcere. È andato in scena martedì 25 e mercoledì 26 gennaio 2022 a Firenze (Teatro Cantiere Florida). Lo spettacolo, è prodotto dalla Compagnia “Interazioni Elementari”, grazie alla diretta streaming ha materializzato sul palco in tempo reale i giovani attori detenuti dell’Istituto Penale per i Minorenni “G. Meucci” di Firenze, per raccontare una storia di ossessioni e libertà, mentre il pubblico si è trasformato per due ore in un gruppo di prigionieri in un caleidoscopio di ribaltamenti e cortocircuiti tra dentro e fuori. Come si fa? La produzione si inserisce nel progetto “Streaming theater: un ponte tra carcere e città”, percorso di formazione nei mestieri dello spettacolo che punta alla cittadinanza attiva e all’inclusione sociale attraverso il teatro e la performance. Il regista Claudio Suzzi è un fiume di parole, racconta quest’esperienza formativa per i giovanissimi detenuti, che tocca profondamente la sua vita, un vero e proprio percorso pedagogico e formativo che riguarda i ragazzi che conoscono il carcere a giovane età (14-25 anni). Il percorso formativo inizia con un colloquio personale con i singoli partecipanti, il primo passaggio è creare un patto di fiducia, che i ragazzi devono accordare. Il teatro come arte espressiva implica l’uso primario del corpo e della voce attraverso alcuni esercizi di performance particolari, che mettono in gioco i partecipanti in maniera diversa da come sono abituati. La scena è vissuta come un campo da gioco dove chi partecipa si deve allenare sfidando i propri limiti. Il successo del processo educativo passa necessariamente dalla riconquista della fiducia in se stessi, questo punto per i ragazzi del carcere è amplificato all’ennesima potenza, in quanto a causa dei modelli di riferimento che hanno interiorizzato e che sono in prevalenza diseducativi (storie di violenza, delinquenza, spaccio, abbandono), si comportano in maniera disfunzionale. Il modello di vita - A differenza dei coetanei che crescono in situazioni di normalità ricche di modelli alternativi, famiglia, scuola insegnanti, amici, il background dei giovani detenuti è unidirezionale, non hanno mai avuto un’alternativa migliore, adeguarsi al loro ambiente e alla delinquenza è spesso una necessità di sopravvivenza. Nessuno gli ha mai dato fiducia, sono molto schivi e attenti a non lasciarsi andare. Quindi alla base di tutto ritorna sempre il patto di fiducia che deve essere reciproco: affinché loro si fidino del regista, lui si deve fidare di loro. L’arte teatrale è intrinsecamente formativa e pedagogica, perché mette in luce le possibilità soggettive, con l’obiettivo di fare sentire i partecipanti protagonisti di se stessi, il teatro è da sempre la metafora della vita. Prima dell’arrivo in carcere questi giovani non hanno imparato a costruire qualcosa nelle loro vite, l’atteggiamento comune è di volere tutto subito, che ogni sforzo è inutile, invece quando partecipano a una produzione teatrale conoscono il lavoro di squadra, imparano ad allenarsi per raggiungere un obiettivo e a dare il massimo delle proprie possibilità. Incontrare sé stessi - Il primo approccio è di tipo propedeutico indirizzato verso la scoperta: conoscono la poesia, i racconti e i personaggi (non solo fatti di eccessi). Per interpretare i ruoli vengono guidati in un percorso di scrittura creativa, che gli dà la possibilità di creare i mondi che interpreteranno. Al momento in cui si presenta la storia, su cui è costruito lo spettacolo, capiscono che lì dentro possono vivere le loro alterità attingendo nel loro vissuto interiore, è il modo in cui possono mettere in scena loro stessi e incontrare altri personaggi immaginari che gli permettono di scrivere e dirigere la propria storia di vita. Per entrare in scena scoprono il rigore di costruire uno spettacolo, lo stesso rigore necessario per realizzare ogni obiettivo nella vita, una capacità umana che conoscono per la prima volta e che inizia a scardinare Il nichilismo che li permea: la convinzione costante è che la loro condizione di detenuti e la società non gli danno possibilità di una vita diversa. Esportare l’esperienza - L’acquisizione di competenze trasversali è uno dei punti di forza: miglioramento nell’utilizzo della lingua italiana, nella percezione di se stessi e nell’autostima, stimolo alla creatività attraverso l’apprendimento di tecniche narrative, uso del protagonismo basato su modelli sani. Inoltre lo spettacolo li porta nelle comunità cittadine in una chiave positiva, ricordandogli che non si devono sentire dimenticati, sono stati e saranno cittadini attivi, quest’aspetto permette di abbassare i comportamenti recidivi. “Ma noi lavoriamo anche perché i ragazzi vengano scritturati come attori - spiega il regista - remunerati come lavoratori dello spettacolo. Per questo sarà fondamentale distribuire lo spettacolo “One Man Jail: le prigioni della mente” in modo da farlo conoscere il più possibile nei teatri della Regione Toscana e del circuito nazionale, obiettivo ora possibile grazie alla nuova modalità di collegamento in diretta live sulla quale si basa la produzione”. La tecnologia permette di ampliare le possibilità di replica dello spettacolo e questo moltiplica il valore del laboratorio come avvio al lavoro di attori e non solo, in quanto alcuni dei partecipanti decidono di applicarsi nei mestieri dello spettacolo (tecnico audio, delle luci, per le scenografie...). Il teatro in carcere - È importante ricordare che il carcere minorile è una dimensione particolare, tutte le attività rieducative sono in sinergia con la direzione penitenziaria, e in particolare con l’area educativa. All’interno del carcere ci sono la scuola ed altri laboratori educativi detti “attività trattamentali”. Il regista Claudio Suzzi si è specializzato sul teatro legato alle marginalità, dopo il Phd in Storia dello spettacolo ha avuto esperienze internazionali, ed ha iniziato a lavorare nel Carcere minorile di Firenze nel 2002, successivamente l’esperienza si è spostata sul carcere per adulti di Trani. Nel 2017 ha ripreso la collaborazione con il Minorile di Firenze, attraverso laboratori propedeutici. Dal 2018 ha ideato un piccolo festival “Spiragli - Teatri dietro le quinte” con un programma che si svolge dentro e fuori il carcere, con aperture verso la comunità locale, workshop di esperti per i detenuti e una festa conclusiva per presentare le realtà formative che esistono dentro l’ambiente penitenziario. L’obiettivo di Suzzi è quello di creare una Scuola stabile di teatro sociale e di comunità che permetta alle categorie più fragili di sperimentare la potenzialità delle nuove tecnologie: “In noi esiste una verità primitiva di esseri animali che il carcere non nasconde. In carcere si mette alla prova sia l’uomo sia il teatro”. Il progetto è finanziato dal bando della Regione Toscana “Giovani al centro” e rientra nell’ambito di Giovanisì, dal Ministero della giustizia - Dipartimento della giustizia minorile e di comunità - e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Un ringraziamento particolare va alla dirigente del Centro di giustizia minorile di Toscana e Umbria Maria Gemma Bella e ad Antonella Bianco, direttrice dell’Istituto penale per i minorenni “G. Meucci”. Infine, c’è una buona notizia, tre ragazzi detenuti usciranno in permesso premio per prendere parte fisicamente allo spettacolo. Reggio Calabria. “Barre aperte”, Kento porta il rap nelle carceri minorili strill.it, 8 febbraio 2022 Dare voce a chi non viene ascoltato. Mai frase è più calzante per raccontare “Barre Aperte”, un progetto nato da un’idea di CCO - Crisi Come Opportunità e Associazione Puntozero, grazie al supporto di Fondazione Alta Mane Italia e che vede protagonista il rapper e scrittore reggino Francesco “Kento” Carlo. Un emozionante viaggio dall’Istituto Penale per Minorenni Beccaria di Milano a quello di Airola, in provincia di Benevento, per raccontare la vita, i sogni e le storie dei ragazzi sottoposti a provvedimenti penali. Scritta da Kento, con le riprese ed il montaggio di Hélio Gomes, la serie è visibile in esclusiva su Repubblica TV a partire da lunedì 7 febbraio. Perché fare musica e teatro in un IPM con professionisti di altissimo livello? La webserie “Barre Aperte” è una finestra aperta su una realtà troppe volte dimenticata, quella della detenzione minorile, che si fa racconto nelle parole di Kento, riuscendo a distogliere l’attenzione dal set in cui si svolge, e conducendo lo spettatore tra le attività artistiche che le due associazioni portano avanti da anni e tra le vite di questi giovani che desiderano una seconda possibilità. “Non è un mistero che alcuni dei giovani artisti più popolari siano passati dal carcere minorile -racconta Kento-. A volte, però, le storie più forti non sono quelle del successo commerciale, ma quelle in cui poggiare la penna sul foglio rappresenta una scelta di liberazione mentale e di affermazione espressiva”. Barre, rime e flow si intrecciano a racconti drammatici e sorprendenti nel corso delle otto puntate che costituiscono la serie, con un finale aperto che lascia immaginare un prosieguo futuro in altre realtà italiane. Ma, nel frattempo, c’è un lungo viaggio da percorrere insieme alla compagnia teatrale Puntozero del carcere Beccaria di Milano, al rapper napoletano Lucariello che tiene i suoi laboratori di scrittura ad Airola e, soprattutto, ai loro giovani allievi che sognano un futuro di libertà oltre le sbarre che li tengono rinchiusi. “Niente come il rap racconta i nostri anni - conclude Kento - e niente come il rap può aiutarci a capire e plasmare il futuro che ci attende”. “Barre Aperte” segna il ritorno in video del rapper reggino dopo l’esperienza di “Entra nel Cerchio”, la serie per ragazzi andata in onda su Rai Gulp nel 2020, e sempre dello stesso autore il libro “Barre - Rap, Sogni e Segreti in un Carcere Minorile”, edito nel 2021 da minimum fax. La crudeltà delle “Isole Carcere” nel saggio di Valerio Calzolaio di Rock Reynolds globalist.it, 8 febbraio 2022 Le basi di partenza di questo libro, che si compone di tre parti distinte, sono scientifiche: biologiche e antropologiche. Troppo spesso mi capita di imbattermi in chiacchiere di imbarazzante superficialità sulla scarsa durezza delle pene e sulla loro inadeguatezza ai crimini per i quali vengono comminate. In questo periodo difficile in cui non mancano le voci di chi accusa di illiberalità il sistema per via di Green Pass eccetera, non altrettanta enfasi viene posta sull’annoso problema del sovraffollamento degli istituti di pena italiani e delle ripetute violazioni dei diritti dei detenuti. Ci si scorda dello scopo della detenzione, sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È una questione a lungo dibattuta e mai del tutto affrontata. Oggi più che mai si avverte la necessità di farlo. Eppure, il concetto stesso di prigione è da sempre materia intrigante per la scrittura, a testimonianza dell’enormità della privazione della libertà, seppur nei confini normativi di uno stato democratico. Ne ha scritto il fior fiore di romanzieri e poeti, ambientando in più di un’occasione le proprie storie e liriche in carceri o colonie penali ubicate su un’isola, metafora somma dell’isolamento dell’individuo o, addirittura, del suo confinamento in un luogo in cui gli risulti praticamente impossibile lordare il biancore di una società che cerca di nascondere il marcio che è in lei sotto lo zerbino del perbenismo. Mi vengono subito in mente romanzi disparati come Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas e Papillon di Henri Charrière. Ben venga, dunque, un interessantissimo saggio come Isole Carcere (Edizioni Gruppo Abele, pagg 240, euro 23) di Valerio Calzolaio, un raro studio analitico del concetto stesso di “isola-carcere”, partendo dalla definizione non così scontata di isola e dalla descrizione di come nel corso della storia i sapiens abbiano deciso di limitare la libertà di altri sapiens, talvolta sottoponendoli a trattamenti degradanti e altre volte semplicemente togliendoseli di torno in quanto soggetti socialmente pericolosi oppure politicamente nocivi. Le basi di partenza di questo libro, che si compone di tre parti distinte, sono scientifiche: biologiche e antropologiche. La prima, appunto, è un’analisi biostorica del concetto di “isola-carcere”, la seconda descrive invece le principali isole che nel corso della storia più o meno recente hanno ospitato istituti di pena e la terza sciorina dati molto interessanti con rigore matematico. Ora che l’isola di Procida (con il suo carcere) è stata nominata “capitale italiana della cultura per il 2022”, è ancor più interessante riappropriarci della storia delle isole-carcere, per non scordarci di chi tuttora vi è ingiustamente confinato - chi si ricorda più del leader curdo Apo Öchalan, condannato con un processo-farsa a un’ingiusta e ancor più inumana detenzione sull’isola di Imrali, nel Mar di Marmara? - e dell’origine di certe espressioni, come quella di “mandare qualcuno ‘alla Cayenna’”, un modo per “indicare l’esilio in luoghi lontani di disperata detenzione, di isole carcere, appunto” o, ancora, della “logica… ancora attuale… di Guantánamo (detenzione amministrativa senza capo d’imputazione), enclave isolata interna a un’isola distante”. A Valerio Calzolaio, che non a caso in passato ha ricoperto anche il ruolo di sottosegretario all’Ambiente, il tema dei diritti del carcerato stanno particolarmente a cuore e ce lo ha ribadito in questa intervista. Perché un libro come questo? C’è una ragione individuale, oltre che politica e istituzionale nel mio interesse per i diritti dei detenuti. Non a caso, ho fatto da osservatore internazionale nel corso della transizione democratica del Sudafrica e, andando varie volte in quel paese, ho avuto occasione di visitare il carcere di Robben Island in cui era stato detenuto Nelson Mandela. E da sottosegretario, ho contribuito a far chiudere il carcere dell’Asinara e a trasformarlo in parco naturale. Ma ancor più determinante è stato il suggerimento del mio amico fraterno Pietro Greco, di Ischia, che nel frattempo è venuto a mancare e a cui è dedicato questo libro. Dal dicembre del 2020 al novembre del 2021 ho svolto un lungo e meticoloso lavoro di ricerca per dare sistematicità a una materia che non ne aveva. Di fatto, di libri come il mio non se ne trovano in circolazione, perché non ci sono studi organici di come certi esseri umani hanno deputato le isole a luoghi in cui confinare altri esseri umani. I testi esistenti riguardano periodi storici delimitati, per esempio sulla confinatio o relegatio ad insulam dei romani. Nessuno ha analizzato il fatto che quelle isole abbiano continuato a funzionare come carceri anche dopo i romani. La prima parte del suo libro ha un piglio quasi accademico. Si ha la sensazione che lei voglia dare scientificità al concetto stesso di isolamento carcerario… Più che accademico, il tono è adeguato alle scienze necessarie per capire cosa sono le isole, ecosistemi non esclusivamente umani ma in cui gli esseri umani hanno capito di poter mandare e confinare dei loro simili per punizione. In fondo, nonostante io abbia studiato scienze politiche, ho sempre avuto grande passione per la scienza, soprattutto per la biologia. È stata mia premura, dunque, dare un fondamento scientifico a ciò che era mia intenzione scrivere ancor prima di parlare nello specifico del concetto di detenzione. Non a caso, due dei miei eroi sono da sempre Antonio Gramsci e Charles Darwin. La collocazione di un carcere su un’isola può rendere più gradevole il soggiorno forzato invece che acuire il senso di isolamento? In fondo, il carcere di Opera, per quanto a due passi da Milano, non pare più ridente di quello dell’Asinara… È un cruccio cruciale! L’isola può essere un carcere persino senza esservi detenuti. Talvolta, anche le persone che vivono sulle isole si considerano detenuti pure non essendoli, perché si sa che vivere su un’isola comporta privazioni pesanti. Il senso di isolamento, marginalità, distanza può risultare simile - si badi bene, simile, perché il carcere è un’altra cosa - a quello che si prova quando si è privati della libertà. D’altro canto, il carcere è una privazione della libertà che può determinare dinamiche sociali e fisiche simili, che si trovi su un’isola o meno. Essere incarcerati su un’isola può determinare un doppio isolamento. Ma è pure vero che un carcere sulla terraferma può essere altrettanto terribile. Le carceri aperte in certi casi possono essere più rispettose dell’articolo 27 della Costituzione, ma un carcere resta pur sempre un carcere e persino un carcere come quello sull’isola della Gorgona resta tale. È vero, però, che in determinate fasi della storia l’invio di un detenuto a un istituto penale su un’isola era considerato una promozione e solitamente si trattava di detenuti che avevano mostrato buona condotta. E rientra pure nel nostro ordinamento perché su un’isola solitamente non sussiste il rischio di una fuga e la presenza di detenuti più “ravveduti” rende migliori le condizioni di vita. Ma è tutto relativo e il mio libro lo sottolinea, sollecitando riflessioni profonde: la deportatio e la relegatio dei romani talvolta avveniva anche in luoghi non circoscritti, come per esempio la Corsica. Anche Manhattan è un’isola, ma contiene tanti carceri. Insomma, cerco di fare un po’ di ordine. Per esempio, da noi in pochi sanno che Nocra è un carcere italiano terribile nel Mar Rosso meridionale, costruito in pieno colonialismo. Tendiamo ad avere una memoria un po’ selettiva. Esistono o sono esistiti esempi virtuosi di carceri su isole in grado di restituire e non togliere dignità al detenuto? Esistono. Per esempio, Gorgona e Suomenlinna (al largo di Helsinki) li sono. È ovvio che, a mio modo di vedere, anche il concetto stesso di carcere va ripensato, ma servono tempi più lunghi. Però, quei due esempi virtuosi aiutano a restituire dignità ai detenuti. In passato, succedeva meno. In epoca romana, gli imperatori confinavano le mogli sulle isole per togliersele di torno. Era un esempio di maschilismo e società patriarcale. Cosa rende l’idea della detenzione su un’isola così affascinante sul piano letterario-cinematografico? Bè, credo che il contesto sia perfetto. Basti pensare all’isola di Hashima, in Giappone, un posto terribile utilizzato per il suo aspetto inquietante nel film Skyfall, della saga di 007. Il carcere era ancora in uso durante la Seconda Guerra, quando ospitò prigionieri politici e di guerra privati di ogni diritto e costretti a lavorare come schiavi nella miniera di carbone al posto dei minatori giapponesi, di per sé schiavizzati, nel frattempo chiamati alle armi. Quante delle isole che prende in considerazione nella seconda parte del libro ha avuto modo di visitare? A Hashima non sono stato. Alcatraz l’ho vista dall’esterno e non so nemmeno se, al tempo, fosse visitabile. Alcune di queste isole le ho viste, altre no. Ma l’obbiettivo non era certo quello di creare una guida turistica, anche se alcuni di questi posti sono meravigliosi sul piano naturalistico (come Gorgona) oppure dal punto di vista storico e umano. Sono stato tante volte all’Asinara. Ma, se dovessi consigliare un’isola in particolare, suggerirei di visitare Procida, magari proprio nel 2022. La scelta di farne la capitale italiana della cultura la trovo straordinaria. Il carcere da sempre è la linfa principale dell’economia isolana e l’isola è meravigliosa anche per le sue valenze narrative, non necessariamente legate al carcere. Mi riferisco a Massimo Troisi o a Elsa Morante. La scelta di rinchiudere una persona non solo tra due mura ma pure tra due mura costruite su un’isola ha più a che fare con una ragione pratica o filosofica? Entrambe le cose: per fare male. Per questo dico che è una crudeltà. Crudeltà significa far male sapendo di far male. Perché la dinamica pratica della distanza fa sì che sia quasi intollerabile umanamente accettarlo. Naturalmente, anche la crudeltà si declina su più livelli. I romani, per esempio, non inviavano i carcerati su isole senz’acqua. Ma nella storia di casi di persone condannate a restare su isole senz’acqua e, dunque, a morte certa se ne sono registrati. Come si sposa l’idea di inviare un detenuto su un’isola con quella prevista dalla nostra Costituzione di rieducare la persona che ha infranto la legge? In teoria, oggi non si dovrebbe sposare più. Anche se qualche distinguo va fatto. Nisida, per esempio, è uno dei pochi carceri minorili e le attività che vi si svolgono sono encomiabili. Nisida è un ottimo posto per i minori provenienti da ambienti particolarmente difficili, come quelli dell’area napoletana. Inoltre, Nisida non è quasi più un’isola, essendo collegata alla terraferma da un istmo. Tecnicamente, però, un’isola resta. Un po’ come l’Île de la Cité a Parigi, un’isola fluviale. Guerra, migranti, ambiente. J’accuse di Bergoglio su Rai3 di Luca Kocci Il Manifesto, 8 febbraio 2022 L’intervista. Da Fabio Fazio il pontefice evita di toccare i temi più spinosi scegliendo argomenti più “scontati” come guerra e migranti. Picco di ascolti per l’intervento su Rai3. Ma non mancano le critiche. Le guerre sono un “controsenso della creazione” e vengono alimentate dalle armi, che sottraggono risorse all’istruzione. Il Mediterraneo è diventato un “grande cimitero dei migranti”, in fuga dai “lager della Libia”. Il sistema economico “sta uccidendo Madre Terra”. La Chiesa cattolica è malata di “clericalismo”. Non sono nuovi i temi affrontati da papa Francesco nell’intervista rilasciata a Fabio Fazio e trasmessa domenica sera a Che tempo che fa. Inedito è stato però il contesto: un programma di intrattenimento andato in onda sulla televisione di Stato, non sulla rete “ammiraglia” Rai1 ma su Rai3 che, anche se non è più “TeleKabul”, mantiene fama di canale progressista. I precedenti furono diversi: papa Wojtyla telefonò a Bruno Vespa durante Porta a porta, papa Ratzinger rispose alle domande di A sua immagine, trasmissione religiosa di Rai2. Quella di Bergoglio è stata un’intervista protetta, registrata nel pomeriggio, opportunamente montata - come dimostrato dalle inquadrature dell’orologio al polso del papa che segnava le 17 e, pochi minuti dopo, le 17.30 - e mandata poi in onda alle 20.40. In un contenitore predisposto da Fazio che sicuramente non brillava per senso di laicità: dall’introduzione in cui alcuni giornalisti esprimevano la propria opinione su Francesco (fra gli altri Massimo Giannini, direttore de La Stampa: “Un santo degli uomini tra i lupi”; e Carlo Verdelli, direttore di Oggi: “Un grande uomo solo”); al continuo intercalare di Fazio “santo padre” (che non è uno degli appellativi canonici del pontefice); fino alle domande, depurate di quelle sui temi più scottanti ma di grande attualità, e quindi giornalisticamente rilevanti, dalla questione pedofilia al tema dell’omosessualità e dell’eutanasia. Certo è che in prima serata (8 milioni di telespettatori, picco di share al 25%), Francesco ha fatto affermazioni piuttosto nette su importanti argomenti sociali, politici e anche ecclesiali. “Quello che si fa con i migranti è criminale”, ha detto il Papa, che poi ha di fatto liquidato il memorandum Italia-Libia: in Libia ci sono dei “lager, uso questa parola sul serio, lager, lager dei trafficanti. Cosa soffrono nelle mani dei trafficanti coloro che vogliono fuggire!”. Se riescono a evadere, “rischiano per attraversare il Mediterraneo. E poi - a proposito delle politiche dei respingimenti -, alcune volte, sono respinti, per qualcuno che ha la responsabilità locale e dice: “No, qui non vengono”. Ci sono queste navi (delle Ong, ndr) che girano cercando un porto: “No, che tornino e che muoiano sul mare”. Questo succede oggi”. È una questione politica, ribadisce Bergoglio: “Ogni Paese deve dire quanti migranti può accogliere. Questo è un problema di politica interna che deve essere pensato bene e dire: “Io posso fino a questo numero”. E gli altri? Ma c’è l’Unione europea, mettersi d’accordo: “Io posso tanti, tanti, tanti”, così si fa l’equilibrio, ma in comunione”, senza lasciare la responsabilità solo a “Spagna e Italia, i due Paesi più vicini”. Per il pontefice, più che buonismo è “realismo”, visto il “calo demografico” che investe molti Paesi: “Un migrante integrato aiuta quel Paese. Dobbiamo pensare intelligentemente alla politica migratoria, una politica continentale. È una responsabilità nostra. Il fatto che il Mediterraneo sia oggi il cimitero più grande d’Europa ci deve far pensare”. Poi la guerra, “meccanismo di distruzione” e strumento di “potere”, messa al “primo posto” rispetto alle persone. La “vendita delle armi: pensa che con un anno senza fare armi, si potrebbe dare da mangiare ed educazione a tutto il mondo, in modo gratuito”. E la sottomissione dell’ambiente alle esigenze del mercato, come dimostra la “deforestazione”, che “significa meno ossigeno, cambiamento climatico, morte della biodiversità, significa uccidere la Madre Terra e non avere quel rapporto che hanno i popoli aborigeni, i popoli originari con la Terra, che loro chiamano “il buon vivere”, cioè il vivere in armonia con la Terra”. Sulla chiesa cattolica, Francesco ribadisce la propria idea: il “male più grande è la mondanità spirituale”, una “Chiesa mondana” in cui “cresce il clericalismo”, “una perversione” che “porta a posizioni ideologicamente rigide” che “prendono il posto del Vangelo”. Le reazioni nella Chiesa? Pieno consenso, ovviamente, da parte di molti, soprattutto i settori progressisti e più impegnati nel sociale. Forte dissenso dall’ala conservatrice, per la quale il pontefice che va da Fazio desacralizza il papato. Ma anche rilievi più equilibrati, come quello di Luis Badilla, direttore del Sismografo (sito di informazione indipendente, ben accreditato in Vaticano) che sente “odore di papolatria”. I dannati della Libia nei Centri di detenzione, gestiti dalle milizie con i soldi dell’Europa di Francesca Mannocchi La Stampa, 8 febbraio 2022 Nel 2021 intercettati e riportati indietro 32 mila migranti, un numero tre volte quello dell’anno prima. “Tra il 23 e il 29 gennaio 872 migranti sono stati intercettati in mare e riportati in Libia”. “Tra il 16 e il 22 gennaio 604 migranti sono stati intercettati in mare e riportati in Libia”. Sono solo due dei recenti bollettini della sede libica di Oim, l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni. Il report precedente chiudeva l’anno 2021 con questi numeri: 650 morti in mare, 600 dispersi, 32 mila “intercettati e riportati indietro” in un anno. Trentaduemila significa tre volte i migranti riportati indietro l’anno prima, nel 2020. Riportati indietro significa riportati nei centri di detenzione, quelli gestiti dalle autorità, una decina, e quelli gestiti dalle milizie, centinaia. A questi numeri in mare, a quei numeri a terra faceva riferimento Papa Francesco parlando di lager, due sere fa, durante la sua intervista tv a Fabio Fazio. “Persone che soffrono per rischiare di attraversare il Mediterraneo e soffrono ancora quando vengono respinte”, ha detto il Pontefice chiedendo una gestione più dignitosa del fenomeno migratorio. Caso ha voluto che le parole del Papa arrivassero pochi giorni dopo il 5° anniversario della firma del Memorandum d’Intesa siglato nel febbraio 2017 dall’allora governo Gentiloni, l’accordo sponsorizzato dall’Unione europea che sanciva l’aiuto alla guardia costiera libica, fornendo risorse tecniche e finanziamenti. Tanti. Solo l’Italia dal 2017 ha destinato 33 milioni di euro a supporto della Guardia Costiera libica. Dal Fondo fiduciario Ue destinato all’Africa, in sette anni, ne sono arrivati 455, una parte cospicua finita a finanziare la gestione militare delle frontiere. Soldi stanziati per finanziare l’esternalizzazione dei confini, transitati in Libia e finiti nelle tasche di chi quel fenomeno migratorio lo gestiva prima e continua a gestirlo ora. Non è la prima volta che Papa Francesco spende parole severe sulla condizione dei centri di detenzione libici, a novembre disse: “Non dimentico gli uomini, le donne e i bambini sottoposti a violenze insensate e disumane in Libia, sento le vostre grida”. Sento le vostre grida, parole anche più significative perché da quando il fenomeno migratorio non è più oggetto di contese politiche e terreno di opposte tifoserie, il destino delle persone detenute in Libia è scomparso dal radar del dibattito pubblico. Gli accordi si rinnovano nel silenzio (assenso) delle istituzioni che del resto non hanno mai discusso il Memorandum in parlamento, e a fare resistenza, ricordare gli abusi, ascoltare le grida che arrivano dalle gabbie, restano le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite. Anche nel loro caso le parole sono severe, ma inascoltate, da anni. Nell’estate del 2020, dopo l’ennesimo recupero finito in tragedia (la guardia costiera sparò, uccidendolo, a un giovane recuperato in mare che cercava di fuggire) Federico Soda, capo missione dell’Oim in Libia scrisse: “L’utilizzo di una violenza eccessiva ha causato ancora una volta morti senza senso, in un contesto non in grado di assicurare alcun tipo di protezione”. Intollerabile. Violenza eccessiva. Morti senza senso. Parole senza appello, senza ambiguità. Un mese prima l’Asgi, l’associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, aveva pubblicato un rapporto sull’uso dei sei milioni di euro destinati dall’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo (Aics) a migliorare i centri di detenzione. Dice l’Asgi, con una chiarezza disarmante, che “la detenzione (a tempo indeterminato) dei cittadini stranieri nei centri non è soggetta al vaglio di autorità giurisdizionali”. Come dire che i fondi che l’Europa continua a erogare, i soldi dei contribuenti, non sono vincolati a nessun impegno da parte del governo libico, nessuna garanzia del miglioramento delle strutture, nessuna sanzione se questo non avviene. Tant’è che i soldi, negli anni, continuino ad aumentare. Le Nazioni Unite, dal canto loro, continuano a definire la Libia un porto non sicuro. È così nei rapporti, numerosi, pubblicati in questi anni: “Lungo la rotta del Mediterraneo Centrale le persone cadono vittime di episodi di inenarrabili brutalità per mano di trafficanti, miliziani e, in alcuni casi perfino di funzionari pubblici”, (Unhcr, 2020), è così nelle dichiarazioni ripetute dei vertici Onu, “sono preoccupato per l’impunità con cui il traffico di migranti e la tratta continuino attraverso e al largo della Libia”, (Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres, aprile 2021). E ancora, sempre Guterres, il 17 gennaio, meno di un mese fa, invitava gli Stati membri a “riesaminare le politiche a sostegno del rimpatrio dei rifugiati in Libia”. Parole rimaste, come sempre, lettera morta. Negli ultimi anni sono state presentate tre richieste alla Corte Penale Internazionale per chiedere che i funzionari libici, i trafficanti, i miliziani siano indagati per crimini contro l’umanità, ma non c’è nessuno, in Libia, a sanzionare gli abusi. Perché in Libia la legge la fanno le connivenze e le armi. E tutti possono essere contemporaneamente trafficanti e guardia coste. L’ultimo caso, eclatante, è la nomina da parte del governo libico di unità nazionale (sì, quello acclamato dalla comunità internazionale come il primo governo unitario dopo Gheddafi) di Mohamed al-Khoja a capo del Dipartimento del ministero dell’Interno libico responsabile dei centri di detenzione. Al-Khoja è il leader di una milizia implicata in casi di torture a danni di migranti nei centri di detenzione illegali ed è stato capo del centro di detenzione di Tariq al Sikka, sede di documentati abusi. Sono le nebbie libiche, tutto triangola, tutto si tiene, tutti guadagnano sulla pelle di chi fugge. Poche settimane fa AP (Associated Press) ha consultato un rapporto militare confidenziale dell’Ue sull’addestramento della guardia costiera libica, compilato dal contrammiraglio della marina italiana Stefano Turchetto, capo missione di Irini. Il rapporto parla di “uso eccessivo della forza” da parte dei libici. Come dire: l’Europa ha speso 450 milioni per insegnare alla guardia costiera libica gli “standard comportamentali e i diritti umani”, ma per loro i migranti restano quello che erano: bancomat. Nonostante la preoccupazione, tuttavia, l’Europa non fa un passo indietro, continuando a destinare fondi alla Guardia Costiera, e alle strutture detentive. E, dunque, di fatto alle milizie che raddoppiano, triplicano, i guadagni. Perché continuano a speculare su chi paga per partire, le persone migranti, e su chi paga, profumatamente, affinché non partano, gli Stati europei. Da quando sono stati firmati gli accordi con la Libia, cinque anni fa, sono state riportate indietro, in un porto non sicuro, da mezzi finanziati dai contribuenti europei, 82 mila persone. Sento il vostro grido, aveva detto Papa Francesco. Loro però sanno che l’attenzione sta sbiadendo. Che sono rimasti in pochi a battersi per loro. Che è sempre più difficile accedere nei centri, ascoltare le loro testimonianze, in una parola: vederli. E che finiremo, non vedendoli, per diffidare persino che esistano. Tunisia. Saied scioglie il Consiglio superiore della Magistratura di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 febbraio 2022 Il presidente tunisino accusa l’organo giudiziario di corruzione e parzialità. La manifestazione per commemorare Belaid. Continua a raffiche di decreti eccezionali l’anomalo colpo di Stato del presidente tunisino Kais Saied. L’ultimo in ordine di tempo è giunto la scorsa notte con il suo annuncio di dissolvere il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). “Il Csm appartiene ormai al passato”, ha dichiarato Saied in un video in cui accusa tra l’altro i responsabili del più alto organo giudiziario dello Stato di essere corrotti, parziali e soprattutto di non avere saputo risolvere i casi degli assassini di alcuni esponenti della sinistra e del mondo sindacale dopo la rivoluzione del 2011, tra cui quello nel febbraio 2013 dell’avvocato Choukri Belaid. La mossa spiazza la protesta montante. Oggi avrebbe dovuto tenersi una manifestazione delle opposizioni che chiedevano appunto si faccia luce sulla morte di Belaid e soprattutto il presidente prenda la strada delle riforme democratiche promessa più volte dopo la sua scelta il 25 luglio dell’anno scorso di sciogliere il governo e congelare il parlamento. Una mossa che allora fu ricevuta favorevolmente da larga parte della popolazione, stanca della corruzione tra le forze di governo, della burocrazia statale inefficiente e specialmente critica del partito islamico Ennahda. Kais però aveva promesso riforme veloci e di impegnarsi per la ripresa dell’economia. E tutto ciò tarda ad arrivare, mentre il presidente ha fatto chiudere alcuni media considerati troppo critici del suo operato, ricorrendo al pretesto delle licenze scadute. Intanto, anche il governo da lui eletto resta dormiente. Prossimo appuntamento rilevante dovrebbe essere il 25 luglio per il referendum sulla nuova carta costituzionale in vista delle elezioni parlamentari, la cui data però non è ancora fissata. Il Paese considerato patria dell’unica “primavera araba” di successo, tra quelle che scossero il Medio Oriente 11 anni fa, continua così a vivere in una situazione di stallo. Tuttavia, Saied pare godere tutt’ora di ampi consensi. Secondo gli ultimi sondaggi, il 76 per cento dei tunisini oggi lo rieleggerebbe presidente, sebbene cresca il malcontento per la crisi economica e la povertà diffusa. Iran, è l’anno del boia: almeno 46 esecuzioni solo a gennaio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 8 febbraio 2022 Sei esecuzioni rese note dalle autorità e almeno altre 40 verificate indipendentemente dall’ong Iran Human Rights. A gennaio il boia ha lavorato come poche altre volte e, soprattutto, pare si sia invertita una tendenza: nello stesso periodo c’erano state 27 esecuzioni nel 2021, 33 nel 2020 e 36 nel 2019. Si conferma l’accanimento giudiziario, iniziato nel 2021, nei confronti della minoranza dei baluci, cui appartenevano 15 dei 46 prigionieri messi a morte. Diciassette delle 46 esecuzioni hanno riguardato reati di droga, le altre quello di omicidio. Una delle esecuzioni si è basata su una testimonianza “gassameh”: un giuramento di 50 persone in caso di omicidio premeditato e di 25 in caso di omicidio preterintenzionale, cui si ricorre quando il giudice ritiene non vi siano sufficienti prove di colpevolezza ma che comunque l’imputato sia probabilmente colpevole. Le persone chiamate a giurare solitamente non avevano assistito al fatto.