Il lavoro per i detenuti? Non c’è. Un fatturato da 900 milioni se il 50% fosse attivo di Jacopo Storni Corriere della Sera, 7 febbraio 2022 Solo il 34 per cento dei 54mila reclusi nelle carceri italiane è impegnato in un lavoro. I legami tra mancanza di occupazione, alto tasso di recidiva, problemi di salute. Senza lavoro il reinserimento dei detenuti è più difficile e il rischio di recidiva è alto. Eppure soltanto il 34 per cento dei 54mila reclusi italiani è occupato in attività lavorative. Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria valuta: “È una percentuale maggiore dell’immaginabile, ma certamente più bassa del desiderabile: dobbiamo mirare all’en plein con tutti i reclusi impiegati in una professione”. Grazie all’impegno del Terzo settore, in questi anni in vari Istituti sono fioriti esempi virtuosi: in carcere si formano e operano pasticceri, tornitori, sarti, operatori di call center, impiegati, falegnami... Con un doppio vantaggio: il tasso di recidiva scende, la produttività sale. Fondazione Zancan, Acri e Fondazione Con il Sud, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, hanno cercato di misurare proprio l’impatto generato da queste pratiche: la ricerca “L’impatto sociale del lavoro in carcere” ha coinvolto 337 detenuti lavoratori negli istituti penitenziari di Padova, (162), Siracusa (63) e Torino (112): l’88 per cento è impiegato nell’amministrazione penitenziaria, la restante parte in cooperative esterne al mondo del carcere. Dallo studio emerge come il lavoro in carcere non rappresenti soltanto una missione sociale, ma abbia ricadute importanti anche sul piano economico: nel 2019 le cooperative coinvolte nei tre istituti hanno impiegato 210 detenuti, con un fatturato complessivo di circa 7,5 milioni di euro. Mantenendo queste proporzioni, se il 50 per cento dei detenuti in Italia fosse impiegato presso cooperative ciò garantirebbe: benefici diretti per 25mila detenuti in più occupati; opportunità occupazionali per ulteriori 13mila persone non detenute; un maggior fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. Ne sono prova gli istituti dove la produttività corre forte. Tra questi c’è il carcere di Padova, dove circa 150 reclusi sono impiegati tra pasticceria, attività di assemblaggio e call center sanitario; e poi Siracusa, dove una trentina di detenuti producono dolci; e ancora Torino, dove sono circa 100 i carcerati che producono caffè, lavorano in un panificio e in una serigrafia; e poi Milano Bollate, dove quasi 200 persone lavorano in un call center e in attività di manutenzione. Tra di loro c’è Marzio, 54 anni, responsabile del Contact center del carcere di Padova: “La prima notte in carcere mi sembrava di soffocare in un baratro di cemento, oggi grazie all’impiego ho stima di me stesso, ho riacquistato dignità, ho uno stipendio e contribuisco a mantenere la mia famiglia fuori dal carcere”. E poi Gianluca, 48 anni: “In carcere avevo perso quel poco di dignità che avevo, mi sentivo una nullità”. Poi la svolta con il lavoro con la cooperativa Extraliberi: “Sono diventato un serigrafo e ho imparato a stampare magliette, con quei soldi aiutavo i miei anziani genitori, è passato appena più di un anno da quando ho finito di scontare la pena e ho ancora un lavoro, lo stesso lavoro”. Dalla ricerca emerge con forza questo miglioramento nella qualità della vita che porta ad abbattere il tasso di recidiva. “Lavorare aiuta mentalmente e fisicamente, tiene la mente impegnata e previene la depressione”, confermano i ricercatori. Nello specifico: sono “depressi” e “scoraggiati” venti detenuti su cento tra coloro che lavorano per cooperative, 25 su cento tra chi lavora per l’amministrazione penitenziaria, mentre la percentuale sale al 55 per cento tra i detenuti senza impiego. Chi lavora, si evidenzia inoltre nel dossier, sperimenta maggiori consapevolezze sulle proprie capacità e fragilità rispetto a chi non lo fa, oltre a sviluppare un rapporto meno conflittuale con la detenzione. Chi non lavora chiede più rispetto (73 per cento) in confronto a chi è impiegato per l’amministrazione (64 per cento) o nelle cooperative (61). È complessivamente soddisfatto di se stesso il 75 per cento dei reclusi impiegati, ma con una forbice di undici punti percentuali tra i dipendenti dell’amministrazione (70 per cento) e quelli delle cooperative (81). Per l’84 per cento degli intervistati la professione tra le sbarre migliora la vita. Il messaggio alla politica è chiaro: “Serve una riflessione sulla carenza di lavoro in carcere - dice Tiziano Vecchiato, presidente di Fondazione Zancan - perché impedire a un detenuto di lavorare è contro la Costituzione. Rivolgo quindi un appello a tutto il mondo imprenditoriale, produttivo, politico e sociale italiano, dal Terzo settore alla Confindustria”. Misure richieste urgentemente tanto più che, come indicato nell’articolo 20 dell’ordinamento giudiziario, “nei penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro”. Secondo Francesco Profumo, presidente di Acri, l’Associazione che rappresenta le Fondazioni di origine bancaria, “lo scenario carcerario è molto lontano da quanto immaginato dai padri costituenti della Costituzione italiana”, mentre per Carlo Borgomeo, presidente Fondazione con il Sud, “siamo di fronte a una clamorosa prassi di diritti negati”. Carcere e detenzione, tra punizione e recupero di Domenico Alessandro De Rossi* nuovogiornalenazionale.com, 7 febbraio 2022 Specialmente dopo le affermazioni del Presidente Sergio Mattarella, nonostante le difficoltà che il Governo affronterà nel percorso sino alle prossime elezioni, siamo autorizzati a ben sperare per quanto riguarda il promesso “risanamento” della giustizia nel nostro Paese. L’annosa questione non è solo nelle mani di Marta Cartabia al ministero della Giustizia ma in generale in tutto il Parlamento. Non va comunque dimenticato che in più occasioni la Guardasigilli ha rivelato una spiccata sensibilità verso temi ancora poco popolari riguardanti i problemi non risolti dell’esecuzione penale, delle carceri, dei diritti umani e delle continue violenze e morti. Non per caso tra i primi atti anche simbolici compiuti dalla Ministra appena insediata, rimane significativo l’incontro con il Garante nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale, prof. Mauro Palma. Persona di cui si parla insistentemente in questi giorni che potrebbe prendere il posto di Bernardo Petralia attuale Capo del Dap che sarebbe in procinto di ritirarsi dall’incarico. Speriamo bene. Il Garante nazionale alla guida del Dipartimento lascerebbe ben sperare circa le riforme che da anni sono attese. Sarebbe perciò auspicabile che tra le varie riforme emergesse una riflessione su cosa significhi oggi (per il domani) la “funzione-della-detenzione” e delle sue finalità più estese. Un ragionamento connesso anche ai problemi dell’edilizia penitenziaria, non solo con la presenza di magistrati e giuristi presenti nel ministero, ma soprattutto avvalendosi dell’apporto di un più largo perimetro culturale e professionale che vive nel contatto quotidiano con la reclusione. Un confronto franco sganciato dalle rigide maglie correntizie presenti nella magistratura, per assimilare senza pregiudizi nuovi apporti culturali e multidisciplinari: dall’avvocatura alla sociologia, dalle neuroscienze all’architettura, dall’economia alla scuola, fino anche alla stessa imprenditoria che dovrebbe poter svolgere un ruolo importante ai fini della drastica riduzione della recidiva. Da tempo il Cesp, il Centro Europeo Studi Penitenziari, avvalendosi di un approccio metodologico sistemico affronta work in progress non solo con i suoi iscritti e associati una riflessione aperta verso un progetto dinamico europeo in costante evoluzione. Una concezione decisamente “in divenire” in cui molte delle problematiche plurifunzionali che convergono sulla questione dell’esecuzione penale richiedono soluzioni nuove intorno al concetto stesso della detenzione, della sua funzione e del suo significato validi per i prossimi decenni. L’errata concentrazione di obsoleti megacontenitori di gabbie per umani, quali sono le carceri italiane oggi, deve essere sostituita con graduali sostituzioni di centri di detenzione, di formazione e lavoro: sistemi opportunamente dimensionati e ripartiti mediante consapevoli scelte al servizio e integrazione delle realtà urbane e territoriali. Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve essere finalizzato in primo luogo alla drastica riduzione della recidiva, proponendo assetti organizzativi destinati a supportare le istituzioni, le organizzazioni pubbliche trasformandosi in più utili servizi per il complesso territoriale. Insomma quella che a me piace definire come il “sequestro” del tempo è una condanna da trasformare in piena opportunità nel rispetto del dettato Costituzionale, nella civile finalità di recupero del detenuto come una opportunità e occasione. Recuperando il concetto ormai diffuso di resilienza. Giova qui ricordare quanto il Capo del Dap, Bernardo Petralia una settimana fa, nell’intervenire a un convegno sulle carceri, nel parlare della sua esperienza si è detto “addolorato e intristito. Non posso dire - ha affermato - di essere soddisfatto di aver raggiunto degli obiettivi e nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visitato due istituti a settimana, l’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso, e delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero dei lussi”. Insomma il forzato esproprio del tempo che più non appartiene al detenuto, da condanna e surrettizia vendetta deve cambiare nella civile opportunità di recupero e reinserimento nel corpo sociale. Inutile parlare ora di “architettura” penitenziaria come in molti (accademicamente) si dilettano se prima la politica non ridefinisce, innanzi tutto a se stessa, la funzione della carcerazione e dell’uso più appropriato del tempo sequestrato al condannato. Gli architetti attendano decisioni che sono molto più in alto di loro. Per ora pensino, se possono, all’acqua calda, ai sanitari e a riparare i tetti. Parlare di nuove carceri e progettare marziani mega istituti (Nola) in assenza di un prioritario assetto organizzativo e culturale è inutile. In mancanza di indirizzi seri a monte, il parlare di architettura penitenziaria oggi sembra essere solo una surrettizia auto promozione per un ticket nel futuro grande “affaire” di costruzione di nuovi edifici. Ingannando se stesso, il dibattito attuale nei vari tavoli istituzionali si ostina a parlare dell’architettura penitenziaria, mantenendosi scrupolosamente fuori dalla più semplice discussione riguardante più modestamente l’edilizia che riguarda impianti mal funzionanti, tetti rotti, arredi in rovina, spazi inadeguati, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate, infermerie fatiscenti, assenza di spazi per la spiritualità e crescita interiore. Si torni ai diritti umani trasformando le attuali celle per animali in alloggi civili dove l’uomo che ha sbagliato elabori il suo errore ritrovando l’occasione civile per riscattarsi e per rientrare nella società. *Centro Europeo Studi Penitenziari Carceri, ecco l’identikit del possibile successore di Bernardo Petralia di Davide Varì Il Dubbio, 7 febbraio 2022 Potrebbe essere un dirigente della Polizia penitenziaria o un magistrato di sorveglianza il successore di Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria che si è dimesso dall’incarico chiedendo di andare in pensione, con un anno in anticipo, il primo marzo di quest’anno. Questa è l’unica indiscrezione che trapela dei vertici nazionali per la designazione del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che sarà nominato dalla ministra Marta Cartabia. Sulla questione è intervenuto anche Gennarino De Fazio, segretario generale Uil-pa Polizia penitenziaria, che ha sottolineato che il pensionamento di Petralia costituisce un ulteriore motivo di destabilizzazione per le carceri e per il sistema dell’esecuzione penale. Il segretario Uil-pa Polizia penitenziaria spera che il Governo individui subito una personalità qualificata e competente. “É essenziale che l’Esecutivo intervenga direttamente sul sistema d’esecuzione penale con le riforme e gli investimenti necessari, altrimenti nessuna individualità, per quanto autorevole e competente, sarebbe nelle condizioni d’invertire il circolo vizioso in cui sono state da anni cacciate le carceri. Un capo o una capa del Dap, chiunque esso o essa sia, non potrà certo supplire, per esempio, a 18 mila donne e uomini del Corpo di Polizia penitenziaria mancanti agli organici”, ha spiegato il segretario nazionale. Petralia, ex magistrato, meno di 2 anni fa, è stato nominato al vertice del Dap dall’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a seguito delle dimissioni di Francesco Basentini, dopo le rivolte nelle carceri di marzo 2020 e le polemiche legate alle scarcerazioni dei boss e detenuti ad alta sicurezza, durante la prima ondata del Covid 19. Nello stesso periodo si dimise anche il direttore generale dei detenuti, il magistrato Giulio Romano, appena dopo 3 mesi dal suo insediamento. “A Petralia va riconosciuto il merito di aver rappresentato un punto di riferimento in un momento drammatico per tutto il Paese e di aver contribuito, probabilmente in maniera decisiva, a fare in modo che l’apparato del Dap non naufragasse in maniera irreversibile - ha aggiunto De Fazio rimarcando che il sistema carcerario non reggerebbe fasi d’incertezza. Così come non è salutare per un’amministrazione complessa e di peculiare importanza quale quella penitenziaria l’avvicendamento al vertice, in media, ogni 2 anni - ha concluso De Fazio sul successore di Petralia - Ci auguriamo che il Governo sia in grado di incaricare una figura stabile, magari guardando alle potenzialità che il Dap già esprime, capace di poter mettere in campo una progettualità immediata, ma di ampio respiro e che vada anche oltre la durata della legislatura”. Mattarella e la nuova giustizia di cui l’Italia ha bisogno di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 7 febbraio 2022 Il presidente della Repubblica ha chiesto la tutela del principio di legalità, un elemento fondamentale dello Stato di diritto e che il Parlamento recuperi la piena autonomia della funzione legislativa. Non sarà facile, soprattutto la riforma del Consiglio superiore della magistratura. C’è un passaggio nel gran discorso di insediamento di Sergio Mattarella in cui evoca come bisogno collettivo la certezza del diritto: “I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. L’argomentazione è assai più complessa e raffinata di quanto la stampa e l’opinione politica abbiano saputo cogliere. Eppure in queste poche righe forse ancor più che in quelle dedicate alla riforma del Consiglio superiore della magistratura si annida l’essenza dell’idea della nuova giustizia di cui il paese ha bisogno e che il presidente immagina. Il “timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”, significa che la magistratura italiana ha smarrito in questi anni e già assai prima dello scandalo Palamara, la tutela di un diritto fondamentale: il principio di legalità. È uno dei paradigmi fondamentali della democrazia liberale: è il patto sociale per cui lo Stato indica al cittadino con precisione quali siano le conseguenze delle sue azioni. Cosa è lecito e cosa è permesso: soprattutto cosa è un reato e ciò che reato non è. In una società libera la tutela della libertà individuale passa dalla precisione con cui le leggi espongono le fattispecie di reato e ancora dal rispetto, accanto a quella sostanziale anche della legalità processuale, per cui è predeterminata la modalità di svolgimento del processo, le sue fasi, le condizioni di parità tra accusa e difesa, la ragionevole durata, l’onere gravante sulla prima di provare la colpevolezza dell’altra oltre “ogni ragionevole dubbio” (art.111 della Costituzione). Già: coi dubbi in un sistema civile ci si dovrebbe fare al massimo qualche articolo del Fatto e non costruire indagini fantasiose e sentenze romanzesche. Ogni riferimento al processo sulla trattativa Stato-Mafia non è puramente casuale e non soltanto perché Mattarella è siciliano ma perché quel processo arrivò a toccare la carne viva dell’istituzione presidenziale da lui oggi rappresentata, colpendo a morte un fedele servitore dello Stato, Loris D’Ambrosio magistrato consigliere giuridico del Quirinale e umiliando il suo predecessore Giorgio Napolitano chiamato a deporre davanti a una Corte di Assise avvolto dall’alone del dubbio di reticenza. Ebbene proprio in quel processo si materializzò come mai altre volte la lacerazione della certezza del diritto. Fu perseguita un’ipotesi di reato (l’attentato contro un organo costituzionale) del tutto inconferente col fatto ricostruito di una trattativa tra i carabinieri e la mafia che allora martellava l’Italia con una serie di attentati, un’attività invece coerente con le finalità d’indagine dell’Arma in quel delicatissimo frangente come sostenne (schernito da Marco Travaglio e dagli inquirenti palermitani) un finissimo giurista come Giovanni Fiandaca. Non ci può essere esempio più lampante delle critiche del Presidente di questo caso in cui si interpreta una norma forzandone il significato per farvi rientrare come reato ciò che non è illecito. Esattamente ciò che il principio di legalità non consente. E quando Mattarella invoca il diritto di ogni cittadino a non correre “il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili” qualcosa deve aver contato l’odissea del suo corregionale e collega di partito Calogero Mannino, processato per un ventennio, arrestato e reiteratamente prosciolto (con tanto di sentenza miliare delle Sezioni Unite della Cassazione)per lo stesso inesistente reato di trattativa mafiosa (sic) per la quale venivano condannati in primo grado alti ufficiali dei Carabinieri e il sempiterno Marcello Dell’Utri. Quale fiducia si può avere in una magistratura che consente ciò è neanche chiede scusa? Chissà se nell’invocare la riforma del sistema elettorale del CSM il suo pensiero sia corso al fatto che uno dei principali responsabili di quell’inchiesta sieda al CSM, parliamo di Nino Di Matteo, bersaglio anche delle critiche puntute di Ilda Boccassini per le disattenzioni (sue e dei colleghi) nelle inchieste sulla strage di Borsellino e della sua scorta che costarono venti anni di galera a degli innocenti* e ciò nonostante assurto incongruamente a esemplare modello d’inquirente. Piuttosto sia consentito nutrire qualche dubbio sul rimedio a tale ferita che Mattarella individua nel pieno recupero dell’autonomia della funzione legislativa da parte del Parlamento. Ce lo vorremmo augurare ma il degrado culturale che ormai dilaga nella classe politica, l’incapacità culturale di percepire i principi di diritto, rendono disperata l’impresa. Soprattutto a sinistra non si perde occasione di manifestare un’assoluta ignoranza e disprezzo del garantismo laddove esso viene sbandierato dalla destra a intermittenza quando quest’ultima sia bersaglio d’indagini giudiziarie. Proprio l’assoluta inadeguatezza della classe politica e dunque del legislatore ha consentito alla magistratura d’impadronirsi della giustizia sia invadendo le istituzioni dello Stato (i ministeri in mano a magistrati e consiglieri di Stato) sia soprattutto modificando la legislazione con le sentenze. Quella che viene definita l’interpretazione del diritto, demandata per legge alle corti di legittimità (Corte Costituzionale e Corte di Cassazione prima, corti europee di Giustizia e dei Diritti Umani poi) ha oggi un ruolo prevalente anche come produzione di leggi tramite diverse, spesso soggettive ed evolutive riconfigurazioni del contenuto delle norme. Si è giunti al paradosso che anche tramite duri conflitti istituzionali prima tra le corti italiane (la guerra delle due corti tra consulta e cassazione) e poi tra queste e le Corti di Strasburgo e Lussemburgo, i giudici si sono spartiti i reciproci settori d’influenza, come al tempo del Giappone degli Shogun o dell’Europa degli imperi centrali. Intendiamoci, uno sviluppo forse ineluttabile che ha fornito anche esiti positivi come, in Italia, le sentenze della Corte Costituzionale in tema di testamento biologico, diritti di genere e tutela dei diritti soggettivi ma che ha finito per essere una sorta di grande ombrello protettivo al riparo del quale la magistratura più spregiudicata ha potuto agire indisturbata per perseguire fini che con la giustizia non hanno nulla a che fare. Per tali motivi la giustizia andrà ricostruita dalla base insieme alla politica. Come avvocati, infine fa piacere che per la prima volta Mattarella chiami insieme alla migliore magistratura anche l’avvocatura a partecipare alla ricostruzione. Vedremo poi di esaminare i modi con cui tale collaborazione potrà svilupparsi. L’avvocatura (lo abbiamo scritto e lo ripetiamo) deve porsi come forza radicale e intellettuale a vocazione riformista individuando in se stessa le forze migliori, compiendo una necessaria opera di rigenerazione etica (prima che ce la impongano gli altri) e costituire nuove forme di associazione oltre quelle tradizionali e corporative, troppo ripiegate su se stesse e sui propri stanchi riti e slogan d’ordinanza, che sappiano dialogare in forme nuove con il mondo della giustizia e della politica. Vedremo se sarà possibile trovare in qualche piccolo giornale di opinione la spinta per iniziare. Giustizia, la mossa del Pd: “Avanti con l’Alta Corte per giudicare i magistrati” di Liana Milella La Repubblica, 7 febbraio 2022 I dem rilanciano la proposta di Violante sul nuovo organismo da affiancare al Csm. La senatrice Rossomando: “Le impugnazioni contro decisioni disciplinari o nomine contestate saranno trattate lì”. La riforma del Csm? “Il Pd è pronto, siamo in attesa che gli emendamenti del governo arrivino in Parlamento. I tempi sono maturi, non si può più aspettare”. Il sorteggio per i togati del futuro Consiglio? “Non solo questo sistema è fuori dalla Costituzione, ma è la riposta di chi non ha più speranze nelle istituzioni”. L’Alta corte per tutte le magistrature proposta da Luciano Violante su Repubblica? “Siamo talmente a favore, che abbiamo già presentato al Senato un disegno di legge a mia prima firma per istituirla”. Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, ha recentemente incontrato la ministra della Giustizia Marta Cartabia come gli altri esponenti della maggioranza. E con lei ha parlato della riforma, “una priorità improrogabile”. Ma non sono troppi 961 giorni, dallo scoppio del caso Palamara a oggi, per approvarla? Risponde Rossomando: “È dalla scorsa legislatura che insistiamo su questa riforma. Ma nel frattempo abbiamo approvato le leggi sul processo penale e civile, e ci apprestiamo, per rispettare i tempi della Consulta, a modificare l’ergastolo ostativo. Ma i tempi della riforma del Csm non sono oggetto di discussione”. Però la maggioranza è divisa...basti pensare al sorteggio come legge elettorale per il Csm, chiesto da Lega e Forza Italia. Il niet di Rossomando è deciso: “Non solo è fuori dalla Costituzione, ma è la riposta di chi non ha più speranze nelle istituzioni. E poi, parliamoci chiaro, la scelta della legge elettorale non è certo il cuore della nuova legge”. Eppure ci sono 1.787 toghe che lo chiedono... “Sì, certo, l’ho visto - replica lei - ma lo leggo come una richiesta di vero pluralismo e contendibilità per l’accesso al Csm. Ma il sorteggio invece è una soluzione punitiva, che peraltro non esclude a priori accordi di potere”. E qui Rossomando spiega qual è la richiesta dei Dem: “Rispetto all’ipotesi della ministra Cartabia di un sistema maggioritario temperato, la nostra esigenza è approvare una legge che garantisca il pluralismo, la parità di genere e grazie alla quale anche un outsider, possa candidarsi ed essere eletto”. Ma che succede se Lega e Forza Italia s’impuntano sul sorteggio? “Abbiamo visto altre volte che con le impuntature non si va lontano. Io confido sempre sul fatto che si possa arrivare a soluzioni ragionevoli se si parte da un obiettivo condiviso, che in questo caso è sconfiggere le degenerazioni del correntismo. Al centro della nostra attenzione devono esserci i diritti e le libertà del cittadino e non i posizionamenti politici”. L’Alta corte per giudicare tutti i magistrati. Il Pd è a favore? Rossomando non ha dubbi: “A tutte le forze politiche proponiamo di iniziare subito l’esame al Senato, parallelamente al lavoro della Camera sul Csm, in modo da poterle approvare in contemporanea. Sarebbe il segnale migliore per dimostrare che le parole di Mattarella non hanno sortito solo un applauso, ma un fatto concreto”. E spiega anche come funzionerà: “Nel Csm resterà una sezione disciplinare che giudica i magistrati, mentre l’Alta corte sarà un giudice di appello e ricorso per tutte le magistrature. Tutte le impugnazioni sia contro le decisioni disciplinari, che sulle nomine contestate saranno trattate lì”. Sarà composta come la Consulta, un terzo eletti dal capo dello Stato, un terzo dalle Camere e un terzo dalle magistrature. Potrà essere legge prima della fine della legislatura? “Sarebbe una bella dimostrazione di reale volontà riformatrice del Parlamento”. E il vice presidente del Csm scelto dal capo dello Stato? “Una proposta interessante su cui aprirei subito un confronto”. Giustizia, la Gip Maccora: “Siamo pochi per migliaia di processi. Così è impossibile” di Liana Milella La Repubblica, 7 febbraio 2022 Intervista alla vicepresidente dei Giudici per le indagini preliminari di Milano: “In tribunale lottiamo ogni giorno per avere più spazi e risorse. A causa del Covid ho rinviato un’udienza perché eravamo in 20 in una stanza piccola”. “Quant’è difficile la vita quotidiana di un magistrato? Gliela racconto con questo episodio. Qualche settimana fa ho dovuto rinviare un processo per violenza sessuale su più ragazzine perché la stanza in cui eravamo era troppo piccola rispetto alle norme Covid. Non potevo consentire che 20 persone stessero lì dentro per molto tempo. È mio dovere tutelarne la salute. A marzo 2020 sono stata colpita anche io dal Covid, e so bene cosa vuol dire”. Già, Ezia Maccora, la vicepresidente dei gip di Milano, sa fin troppo bene cos’è. Fa la magistrata dal 1991 e vuole raccontare come si svolge la vita di ogni giorno in un tribunale. A partire dalla madre di una delle vittime di violenza che non si capacita del rinvio. Che le ha fatto andando via? “Mi sono trovata stretta tra l’esigenza di garantire la sicurezza dei presenti, ben più numerosi di quelli previsti, e la comprensibile rabbia della madre di una delle vittime, emotivamente provata per il rinvio, e che mi riteneva responsabile di non aver celebrato l’udienza”. Col Covid venti persone in una stanza? “Nessuno conosce le condizioni in cui lavoriamo. Lottiamo da sempre per avere aule adeguate e il problema si è aggravato con la pandemia. Pensi che dopo il 2020 l’Ordine degli avvocati di Milano ci ha prestato una sala per trattare in sicurezza i processi con più parti. E per alcuni mesi abbiamo potuto contare su un locale della Fiera di Milano per udienze con oltre 50 parti”. Lei è una vice capo, fa i processi come i suoi colleghi, ma organizza pure il lavoro, come ce la fa? “Ogni giorno cerchiamo di affrontare le urgenze che si presentano, e con organici ridotti all’osso pure un’assenza diventa un’emergenza. La settimana scorsa, con il presidente, abbiamo sostituito i colleghi trasferiti o in malattia. Sappiamo bene che una decisione giunta in ritardo è di per sé un danno per i cittadini. Ma i processi non possono essere una catena di montaggio. Dietro ci sono persone, storie, vite, questione giuridiche complesse, interessi economici importanti che richiedono tempi congrui per decidere. Il lavoro pro capite che i magistrati del mio ufficio affrontano ogni giorno è andato ben oltre ogni ragionevole sostenibilità. La settimana scorsa tre colleghe si sono trasferite in Appello, e tra i motivi c’era pure la ricerca di carichi e tempi più “umani” per lavorare bene”. Ci dia dei numeri... “In un anno, giugno 2020 - 2021, nel mio ufficio sono arrivati 31.446 procedimenti a carico di noti e 36.316 a carico di ignoti. Quest’enorme mole di lavoro avrebbe dovuto essere affrontata da 39 magistrati. Ma ci sono solo 28 giudici che comunque in un anno hanno emesso 3.573 sentenze, 2.213 decreti penali, 18.908 archiviazioni per i noti e 33.023 per gli ignoti, 3.516 misure cautelari personali e 366 misure reali”. Troppi processi per pochi giudici? “Sono processi complessi, di criminalità economica ed organizzata, di violenza sessuale. Uno sforzo enorme, aggravato dal Covid. Una situazione al limite del collasso per un ufficio che dovrà, a breve, far fronte alla riforma penale che ha introdotto nuove e più complesse competenze. Ma ai magistrati che si fermano in ufficio fino a tardi e sono presenti per i turni anche la domenica e nelle feste, da dirigente, cosa posso chiedere di più? Non devo forse fare di tutto per metterli in condizione di lavorare con quello che c’è? E la situazione del mio ufficio non è un’eccezione”. Cartabia punta sull’ufficio del processo, gli assistenti che vi aiuteranno a scrivere le sentenze, ma pare che non abbiate posto dove metterli... “Sarà una boccata di ossigeno. Al Tribunale di Milano ne arriveranno 294. Sono state individuate fuori dal palazzo di giustizia un’ottantina di postazioni. Poi cercheremo di recuperare spazi all’interno. Nella mia stanza, dove ci sono già due tirocinanti, ci sarà il posto per uno di loro, come in quelle dei colleghi. Una situazione certo non ottimale”. Come spenderebbe i futuri fondi del Pnrr per la giustizia? “Informatizzazione, edilizia giudiziaria, più uomini e mezzi, e più magistrati. Chi interviene sulla giustizia deve sapere bene cosa fa ogni giorno un magistrato”. Voi non avete colpe? “Certo che sì, non siamo infallibili. Gli ultimi eventi sono gravissimi e nessuna riforma, senza un nostro scatto etico, potrà essere risolutiva. Ma l’opinione pubblica dovrebbe essere certa che chi riforma la giustizia conosca la realtà degli uffici, la complessità del lavoro, e sappia che noi ci sforziamo tra mille difficoltà di rendere un servizio adeguato”. “La legge sulla presunzione d’innocenza colpisce chi ha campato di marketing giudiziario” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 febbraio 2022 Enrico Costa risponde a Nicola Gratteri che, in una intervista al Fatto Quotidiano, fa delle affermazioni pesantissime contro la nuova norma di derivazione europea. Scontro a distanza tra il Procuratore Nicola Gratteri e il deputato di Azione Enrico Costa. Pomo della discordia: la nuova legge sulla presunzione di innocenza. Dalle solite pagine del Fatto Quotidiano, che da mesi sta mandando avanti una campagna di delegittimazione della nuova norma, Gratteri, in una intervista, fa delle affermazioni pesantissime contro la nuova norma di derivazione europea: “Le mafie potrebbero approfittare della recente legge sulla presunzione di innocenza che limita la comunicazione istituzionale sulle indagini giudiziarie mettendo di fatto un bavaglio ai magistrati”. E poi, facendo emergere il solito - chiamiamolo così - malinteso per cui le indagini corrispondono a verità e sentenza definitiva, prosegue: “La rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà”. Tuttavia, la preoccupazione più grande del Procuratore di Catanzaro è un’altra e non ci si riesce a credere: “Il mio timore è anche un altro: sembra quasi che non parlandone, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra non esistano. Ma non è così, e io ho molta paura che di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio. Se la ‘ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato”. Vorrà accusare Enrico Costa di associazione mafiosa? Proprio il responsabile giustizia di Azione reagisce immediatamente e duramente con un lungo comunicato perché non ci sta a che il lavoro per cui si è tanto speso venga infangato così: “Legittima ogni valutazione tecnica; da brividi, invece, l’insinuazione - molto di moda di fronte alle norme non gradite - che la legge provochi un assist alla criminalità organizzata. Un sospetto che infanga il lavoro di chi ha lavorato ad un provvedimento che va esattamente nella direzione opposta: rendere credibile ed efficace l’azione dello Stato. E lo fa senza inventare nulla, ma recependo una direttiva europea”. Il parlamentare passa poi al contrattacco: “A essere scontenti, certo, saranno coloro che fino ad oggi hanno campato sul “marketing giudiziario” che è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario. Il “marketing giudiziario” è scientificamente studiato da certe Procure per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto - per quanto modificabile e smentibile - presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento dell’opinione pubblica - continua Costa - ma anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte”. E poi il dito puntato con la stampa colpevolista: “La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno. Perché le indagini sono presentate come un processo-inverso: si parte dalla sentenza-conferenza stampa, la si pubblica, la si scolpisce nell’opinione pubblica, poi forse - quando avrà letto gli atti - la difesa potrà controbattere. E potrà farlo in un processo a questo punto senza riflettori, senza titoli, senza interesse”. Costa: “Conosco i numeri delle ingiuste detenzioni soprattutto in determinate aree” Costa, in conclusione, è molto amareggiato e arrabbiato: “Ecco perché mi sento offeso da insinuazioni campate in aria. Perché conosco i numeri impietosi delle ingiuste detenzioni, soprattutto in determinate aree del territorio nazionale, e so anche che di fronte a questi numeri lo Stato paga ingenti risarcimenti, ma chi ha sbagliato continua serenamente la sua carriera. Se un cittadino avesse riservato a una sentenza le stesse critiche che il dottor Gratteri ha dedicato alla legge sulla presunzione d’innocenza, al Csm sarebbero fiorite le pratiche a tutela. Noi non andremo a piagnucolare al Csm, né ci rivolgeremo al Guardasigilli o al Pg di Cassazione. Sarebbe del tutto inutile. Nel nostro Paese il diritto di critica è a senso unico”. Con Costa si è schierato con un tweet il leader nazionale di Azione, Carlo Calenda: “Il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, battaglia vinta da Enrico Costa, viene giudicata come un aiuto ai clan da parte di Gratteri. La Magistratura deve essere onnipotente e insindacabile. Caro Gratteri, neanche in Urss”. Punire il magistrato che salta dall’Anm al Csm: il “vaccino” anti-correnti snobbato dalla politica di Rosario Russo Il Dubbio, 7 febbraio 2022 Dal 2019 l’Anm vieta ai propri capi di correre per il Consiglio Superiore della Magistratura. Ma la sanzione va prevista per legge. Abbiamo isolato il ‘virus’ che ha infettato la Magistratura, cioè il sistema correntizio e spartitorio all’interno dell’Anm e del Csm, ne conosciamo la ‘cura’ ed è stato apprestato persino il ‘vaccino’. Resta da stabilire solo se si voglia salvare la Magistratura. Ragioniamoci, a cominciare dalle chat. 1. “Luca solo tu puoi trovare la strada… e solo tu puoi aiutarmi, hai sempre raggiunto i risultati voluti… dammi questa possibilità, te lo chiedo per favore in nome dei 30 anni di X (corrente dell’Anm, nda) e della nostra amicizia”. Dopo decenni di asservimento elettorale al dottor Luca Palamara finalmente assurto a consigliere del Csm, un giudice pretende d’incassare da lui il proprio ‘investimento’ con gli interessi. Chat come questa sono molteplici, pubblicate sui giornali, raccolte in volumi e acquisite dalle competenti Procure. Esse compongono quello che è stato chiamato il “Sistema Palamara”, di cui fanno parte le registrazioni foniche della grande cospirazione per la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, consumata nella “notte della Magistratura” con la “partecipazione straordinaria” di due parlamentari (di cui l’uno magistrato fuori ruolo e l’altro imputato dalla stessa Procura). Difficile immaginare un degrado peggiore. 2. ‘Sistema’? Certamente sì. Non solo per la sua gravità, ma soprattutto per la mancata repressione dell’ordinamento, che lo ha sommessamente assorbito: “Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire”, avrebbe sussurrato Manzoni. Radiato dalla Magistratura Palamara e sanzionati soltanto disciplinarmente i notturni cospiratori del Csm, i numerosi giudici coinvolti nelle chat non sono stati neppure indagati in sede penale e disciplinare. Eppure quelle numerose ‘ raccomandazioni’ costituiscono - in uno agli ‘ accordi’ adottati nella “notte della Magistratura” dai cospiratori - fattispecie del reato (tentato o consumato) di abuso d’ufficio (artt. 110 e 323 c. p.). Eppure le ‘ raccomandazioni’ violano platealmente il dovere di correttezza cui è tenuto il magistrato (art. 2, 1° lett. d del Dpr n. 109 del 2006), che trova ineludibile specificazione nell’art. 10 del Codice di condotta dei Magistrati (approvato dall’Anm in ossequio al vigente articolo 54, comma 4 del D. lgs. 165/ 2001). 3. Dei reati di abuso d’ufficio si è disinteressata fin qui la competente Procura. Le due convergenti norme disciplinari sono state disapplicate - con singolare convergenza - da entrambi i titolari del potere di agire in sede disciplinare, e cioè il ministro della Giustizia e il Procuratore generale presso la Suprema corte. Quest’ultimo, con un proprio ‘ editto’ del 22 giugno 2020, ha addirittura ‘ giustificato’ tecnicamente le autopromozioni (da raccomandato a raccomandante), come quella sopra trascritta. Ma non si può sapere se egli abbia archiviato anche le eteropromozioni (raccomandato>raccomandante>raccomandatario), giacché ha proclamato subito il proprio potere di impedire la conoscenza delle archiviazioni al cittadino denunciante (ovvero al suo avvocato), al magistrato indagato e perfino al Csm! Un tardivo ritorno agli “arcana imperii” e all’ “omertà corporativa”? 4. In definitiva, chi volesse ‘fotografare’ l’attuale situazione del nostro ordinamento sarebbe costretto a registrare che tutti i pubblici ufficiali non possono barattare favori e privilegi in occasione di promozioni e nomine senza evitare la condanna penale ad opera dei giudici e (proprio per effetto del Codice di condotta vincolante per qualsiasi impiegato pubblico) quella disciplinare interna. Invece il sistema spartitorio all’interno dell’Anm e del Csm, sebbene ampiamente radiografato, è rimasto immune da qualunque sanzione penale e (fatta eccezione per i notturni magistrati cospiratori), disciplinare. Sicché niente esclude - e tutto anzi fa temere - che il ‘Sistema Palamara’ si perpetui. Molto si potrebbe osservare al riguardo. Ma forse basta rammentare che, assai amareggiato dallo scandalo, il presidente della Repubblica non sciolse il Csm proprio per consentire alla sua Sezione disciplinare l’immediata punizione dei magistrati colpevoli! 5. Rimasta inattuata la terapia sanzionatoria contro il ‘virus’ dell’ambizione sfrenata, nessuno sembra accorgersi che il ‘vaccino’ è stato da due anni scoperto. Non è vero infatti che è impossibile debellare strutturalmente il sistema spartitorio. Quando deflagrò il caso Palamara, avendo raschiato il fondo, la stessa Anm fu costretta a riconoscere che il ‘Sistema’ è alimentato dalla “cinghia di trasmissione” che unisce i vertici dell’Associazione ai membri togati del Csm. Perciò il 14 settembre 2019 l’Associazione introdusse: a) nel Codice di condotta, imperativo per tutti i magistrati, una regola (art. 7 bis), in forza della quale “i magistrato componente del Comitato Direttivo centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati, delle Giunte Esecutive Sezionali, delle presidenze e delle segreterie nazionali dei gruppi associativi (comunque denominate) non si candida al Consiglio Superiore della Magistratura prima della scadenza naturale dell’organo di appartenenza;…” ; b) e una coerente clausola nello statuto (art. 25 bis). La norma statutaria regola i rapporti interni all’associazione con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 9 stat., sono soggetti a sanzione disciplinare i soci trasgressori del citato art. 7 bis. Dunque tale disposizione non è una prescrizione morale e neppure una giaculatoria, giacché ha diretto rilievo disciplinare, ancorata essendo per altro alla strategia di prevenzione della corruzione nel settore pubblico, sotto la vigilanza dell’Anac. Difatti è stata emessa in forza di una legge (art. 54, comma 4 del D. lgs. 165/ 2001) che ha assegnato all’ Anm, unica associazione di categoria di cui fa parte il 90% dei magistrati ordinari, il compito istituzionale di enucleare le disposizioni disciplinari che essi stessi ritengono necessarie, previa ampia consultazione interna. E, per debellare il ‘ Sistema Palamara’, quale riforma più urgente e risolutiva potevano condividere i magistrati indipendenti, operosi e meritevoli (per fortuna ancora maggioritari) se non quella d’interrompere finalmente il perverso predominio delle correnti sul Csm? Sennonché la sanzione associativa non si applica ai magistrati non soci e neppure ai dimissionari; soprattutto prevede come pena massima soltanto l’espulsione dall’ Anm. Ben vero le più pertinenti e gravi sanzioni applicabili, su istanza del Pg o del ministro della Giustizia, ai magistrati ordinari in quanto tali (cioè associati o no) sono dettate dal Dpr n. 109 del 2006, che non contiene una previsione come quella dettata dall’art. 7 bis del Codice di condotta. Davvero sorprende che, in un momento in cui è tanto vivace la polemica sul modo con cui riformare il Csm per debellare il ‘ Sistema’, nessuno si è avveduto che, in uno alla riforma del sistema elettorale, la soluzione era - ed è - a portata di mano. Basta inserire, con legge ordinaria, tra le fattispecie disciplinarmente rilevanti (artt. 2- 4 del Dpr n. 109 del 2006) il disposto del citato art. 7 bis del Codice di condotta, determinandone l’appropriata sanzione. L’auspicata novella legislativa, per un verso, doverosamente rispecchierebbe l’irretrattabile volontà dei magistrati stessi (e dell’unica associazione che li rappresenta), tesa a salvaguardare l’indipendenza dei giudici tutti. Per altro verso, conferirebbe uniforme effettività e vigore al sistema cui sono informati i Codici di condotta, sorti proprio per efficacemente prevenire la corruzione e l’illegalità nel settore del pubblico impiego. Astuzia della ragione? È verosimile. Dopo avere colpevolmente tollerato come associazione privata il ‘Sistema Palamara’, proprio l’Anm, nel conformare lo statuto disciplinare dei magistrati, con efficace resipiscenza ha tranciato - ha dovuto tranciare - i ponti tra cariche correntizie, da una parte, e Csm, dall’altra. “Extremis malis, extrema remedia”. Checché se ne pensi, i giudici ordinari hanno deciso, con atto irretrattabile, di volersi emendare. E basta veramente poco per non ostacolare la loro benefica ‘ riconversione’ all’indipendenza. Ma il legislatore vorrà inoculare nel sistema giudiziario il disponibile ‘vaccino’ a difesa dell’Utente finale della Giustizia, cioè dell’ignaro cittadino sovrano? O è ‘no vax’? Questo è il problema! Che suscita la domanda cruciale: chi vuole veramente la rinascita di una Magistratura indipendente? Hic Rhodus, hic salta. *Già Sostituto Procuratore Generale presso la Suprema Corte Quei cento giudici che fanno casta: agli amministrativi è permesso tutto di Luca Fazzo Il Giornale, 7 febbraio 2022 Un potere dentro il potere, una casta con la toga impelagata in profondità col mondo della politica e degli affari in un viluppo di clamorosi conflitti di interesse: è il sistema della giustizia amministrativa, poche centinaia di magistrati che - dai Tar regionali fino al Consiglio di Stato - dettano legge fuori da ogni controllo. È questo il quadro desolante che ne traccia Sergio Rizzo in “Potere assoluto”, il saggio in uscita in questi giorni per Solferino. E che dal marcio nella giustizia penale, dal degrado nelle correnti e nelle Procure raccontato dal caso Palamara, sposta l’attenzione verso un mondo di cui invece si è sempre parlato poco. “L’idea del libro - racconta Rizzo - nasce proprio dalla percezione che di questo mondo si sappia pochissimo. Eppure è un crocevia decisivo. Da una parte i giudici amministrativi si muovono al di fuori di ogni controllo, rendendo conto solo a se stessi; dall’altra sono però legati da un cordone ombelicale al mondo della politica”. A fare di questi magistrati poco noti dei personaggi decisivi c’è anche il fatto che sono spesso loro a costituire l’ossatura del potere esecutivo. “Forse non tutti lo sanno - dice ancora Rizzo - ma in buona parte dei posti chiave dei ministeri e del governo ci sono giudici amministrativi: persino l’attuale sottosegretario alla presidenza del Consiglio, una delle figure chiave dell’esecutivo, è un giudice del Consiglio di Stato. Sono dentro gli uffici legislativi dei ministeri, scrivono le norme che loro stessi poi sono chiamati ad applicare. Le loro carriere incrociano quelle della politica e ovviamente ne vengono condizionate. La cosa incredibile è che mentre lavorano nei ministeri continuano a maturare anzianità come magistrati e ad avere avanzamenti di carriera”. Tra i privilegi dei magistrati amministrativi c’è la possibilità di svolgere incarichi stragiudiziari: possono insegnare nelle scuole, possono fare arbitrati. Quasi grottesco è il quadro che in Potere assoluto viene tracciato del funzionamento della giustizia sportiva, anch’essa affidata in buona parte a giudici amministrativi. Sono incarichi quasi sempre non retribuiti, si dirà. Ma nei tribunali del Coni e delle federazioni i giudici siedono insieme agli avvocati, si crea una contiguità, una colleganza tra figure che il giorno dopo, in una udienza davanti al Tar o al Consiglio di Stato, dovrebbero essere ben distanti. “Si tenga presente - chiosa Rizzo - che il mondo della giustizia amministrativa è un microcosmo dove tutti conoscono tutti e tenere i ruoli separati sarebbe decisivo. Quanti sanno che il presidente del comitato di sorveglianza di Alitalia è anche segretario del Consiglio di Stato?”. Il libro punta il dito contro il funzionamento del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei giudici amministrativi, che sembra condividere - nella sostanza se non nella forma - le storture del Csm ordinario. E ad accomunare le due categorie di giudici è anche il sistema delle “porte girevoli”, con giudici che vanno in politica, poi rimettono la toga e danno torto alla parte avversa. Giustizia, i tribunali fallimentari alla ricerca del tempo perduto di Luigi dell’Olio La Repubblica, 7 febbraio 2022 Nel 2021 l’operatività è tornata all’80% di quella pre pandemia, ma sono state aperte 8.124 pratiche, l’8% in più del 2020, calano però del 6% i procedimenti pendenti e il tempo per smaltire l’arretrato è sceso a 4,5 anni di media. Maglie nere a Roma e alla Lombardia I ritardi che caratterizzano i tribunali fallimentari non sono stati superati, ma quanto meno l’operatività sta tornando ai livelli pre-pandemici. Una necessità per soddisfare sia le aspettative delle imprese coinvolte, sia per quelle dei creditori. Secondo l’analisi condotta da Cherry (società che fornisce servizi di intelligenza artificiale agli operatori del credito) sulle 140 strutture operanti nella Penisola, che Affari & Finanza pubblica in anteprima, lo scorso anno le pratiche aperte sono cresciute rispetto al 2020, mentre di pari passo è calato lo stock. “Le chiusure più limitate rispetto al primo anno della pandemia e i passi in avanti compiuti sul fronte tecnologico hanno consentito ai tribunali fallimentari di risalire all’80% dell’operatività registrata nel 2019”, racconta Giacomo Fava, lead artificial intelligence engineer di Cherry. Nel corso del 2021 sono state aperte 8.124 pratiche, vale a dire l’8% in più rispetto all’anno precedente, ma il 26% in meno nel confronto con il 2019, con Roma (+95%) e Bari (+58%) davanti a tutti. “Si sta tornando verso la normalità, anche se il ritardo italiano rispetto agli altri Paesi occidentali resta importante, con procedure che durano anche decenni e così imbrigliano una serie di risorse economiche, sia da parte della società fallita, sia da quella di tutte le aziende collegate (fornitori, banche, Stato, Inps), che rimangono immobilizzate. Ad esempio, a procedura in corso non può essere compensata l’Iva pagata del creditore”, spiega Enrica Ghia, partner studio legale Ghia e socio fondatore del network JurisNet. Che sottolinea come questa situazione contribuisca a scoraggiare gli investimenti da parte di fondi internazionali specializzati nelle procedure concorsuali, che altrove contribuiscono ad assicurare liquidità al sistema iniettando in corso di procedimento - anticipazioni sulle somme attese dai creditori. Tornando alla ricerca, lo scorso 31 dicembre i procedimenti pendenti risultavano in tutto 72.566, vale a dire il 6% in meno rispetto a dodici mesi prima. Nonostante l’elevato numero di nuove pratiche, il tribunale di Roma è l’unico ad aver fatto segnare lo scorso anno più aperture che chiusure di procedimenti (+3%), mentre da Bergamo a Napoli, da Padova a Venezia il rapporto è di meno di uno a due. Roma è prima anche nella graduatoria dello stock, con 5.096 pratiche pendenti. Al secondo posto c’è Milano (4.721) e a seguire Bari (2.023). Utilizzando come unità di misura il Disposition time, metrica adottata dalla Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia) che indica il tempo necessario per smaltire i procedimenti pendenti alla fine di un dato anno, attualmente occorrono in media quasi quattro anni e mezzo per smaltire l’arretrato cumulato nei principali venti tribunali italiani, un dato in miglioramento rispetto ai 5,4 di fine 2019 e ai 5,8 anni di fine 2020. Anche per questo parametro, comunque, si registrano diversi livelli di performance: a Roma si viaggia sui 7,3 anni, a Catania sui 6,3, mentre Bergamo evade le pratiche in 2,7 anni, Modena in 3,1 e Torino in 3,2. A livello regionale, il valore più alto di procedure pendenti si registra in Lombardia (12.185), che è anche la ragione a più alta concentrazione di imprese, seguita da Lazio (8.624) e Campania (6.821), mentre le più “scariche” sono Molise, Trentino - Alto Adige e Basilicata. “La difficoltà a smaltire gli stock dipende dal fatto che le sezioni fallimentari sono oberate di lavoro, con Roma che spicca per le dimensioni del suo bacino di riferimento, e non dispongono ancora di strumenti di intelligenza artificiale, che consentono di capire su quali procedure si può accelerare e quali invece richiedono un approccio di più lungo periodo”, commenta Ghia. L’auspicio è che l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa (era prevista nell’agosto scorso, ma è stata rinviata al prossimo 16 maggio data l’eccezionalità del momento), produca qualche miglioramento, “grazie a una serie di istituti che dovrebbero fare emergere le crisi prima che gli imprenditori portino i libri in tribunale”, conclude l’avvocato. A questo proposito va ricordato che il contrasto alla lentezza dei tribunali è tra le condizioni necessarie per accedere ai fondi europei del Pnrr. Il governo è al lavoro per rafforzare gli organici dei tribunali (anche quelli fallimentari) e rivedere la normativa, in modo da incentivare gli accordi extragiudiziali e potenziare i meccanismi di allerta quando i conti aziendali cominciano a peggiorar. Misure che dovranno essere approvate nei prossimi mesi. Marche. Detenuti da assegnare al lavoro esterno, avviato il monitoraggio dire.it, 7 febbraio 2022 Iniziativa del Garante Giancarlo Giulianelli, che si è confrontato anche con il Prap. Ad essere interessati i dimittendi, ma anche quelli che, seppur in regime carcerario, possono usufruire della misura. Avviato dal Garante regionale, Giancarlo Giulianelli, un monitoraggio sui detenuti dimittendi ed anche su quelli che, seppur in regime carcerario, possono essere assegnati al lavoro esterno, nel rispetto di quanto contemplato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Sull’argomento il Garante ha anche avuto modo di confrontarsi con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Gloria Manzelli, e con Marco Bonfiglioli e Maria Lucia Faggiano dell’area detenuti e trattamento del Prap, nell’ambito di un incontro da remoto, chiamato ad affrontare diverse problematiche attualmente sul tappeto per quanto riguarda gli istituti penitenziari marchigiani. L’obiettivo del monitoraggio è quello di verificare la situazione regionale nel suo complesso, anche in riferimento alle diverse fasce d’età, ai livelli di formazione ed ai possibili canali di reinserimento nella società. “Quello che intendiamo attivare - spiega Giulianelli - è un percorso chiaro, che attraverso la fotografia dell’esistente riesca a mettere in campo soluzioni possibili con la collaborazione di enti ed associazioni di categoria presenti sul territorio. Il problema è reale. Se il modello da adottare è quello di una funzione rieducativa della pena, allora occorrono interventi oculati proprio in questa direzione”. Giulianelli, facendo sempre riferimento a quanto previsto dall’ordinamento penitenziario, ricorda che l’articolo 15 parla espressamente di istruzione, formazione professionale, lavoro, progetti di pubblica attività, attività culturali, “senza dubbio propedeutici - evidenzia - ad un inserimento dignitoso nel mondo del lavoro ed in grado di evitare che il detenuto sia destinato al non far nulla per tutto il tempo della sua permanenza in carcere ed a rappresentare unicamente un costo per la società” In questa direzione il Garante è altrettanto convinto che, una volta superato il momento di difficoltà determinato dalla pandemia, vadano complessivamente ripensate le attività trattamentali, con un incremento di quelle formative e di quelle dirette all’istruzione. Per questi motivi, l’azione di monitoraggio sarà accompagnata da incontri con le associazioni di categoria per verificare le disponibilità presenti sul territorio, non escludendo anche l’ipotesi di un tavolo di lavoro per un confronto più efficace. Bologna. Dopo l’ultima morte in carcere l’allarme della Camera penale di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 7 febbraio 2022 Torna a lanciare l’allarme su “l’uso massiccio di psicofarmaci” l’Osservatorio dei diritti umani della Camera penale, dopo la morte di Adil Ammani, marocchino di 31 anni, in carcere alla Dozza. Dai primi accertamenti il decesso potrebbe (ma si attende l’autopsia) essere dovuto proprio all’abuso di farmaci e sostanze “una morte già vista nel nostro carcere non più tardi di quattro mesi fa quando un altro detenuto era morto in identiche circostanze”. La Camera penale ricorda che “da anni invochiamo il più ampio possibile ricorso alle misure alternative al carcere. E non per buonismo ma perché è statisticamente dimostrato che riducono drasticamente il rischio di recidiva”. A dicembre è stato attivato “un tavolo di confronto con tutte le istituzioni”. Le carenze di organico ci sono e sono gravi - è la conclusione - “ma non devono costituire un alibi”. Napoli. Misure cautelari, ogni anno un terzo bocciate o modificate dal Riesame di Viviana Lanza Il Riformista, 7 febbraio 2022 Il Riesame è il primo banco di prova di un’inchiesta in campo penale. Misure cautelari personali e reali, decise dai gip su richiesta dei pubblici ministeri, vengono poi valutate in sede di Riesame. Analizzando gli esiti delle decisioni di questo Tribunale, in composizione collegiale, con un presidente e due giudici a latere, si può fare una sorta di screening della tenuta delle indagini. Considerando che in ogni bilancio giudiziario, da alcuni anni a questa parte, si evidenzia la sproporzione tra numero di indagini che vengono avviate e numero di procedimenti che giungono a definizione, con un netto sbilanciamento a favore dei primi decisamente più numerosi, e considerato che da tempo è sotto i riflettori il tema dello bilanciamento del sistema giudiziario e mediatico tradizionalmente a favore dell’accusa, osservare il trend delle inchieste che arrivano al vaglio del Riesame o Tribunale delle Libertà come dir si voglia, analizzare gli esiti delle pronunce, può essere utile a inquadrare meglio lo stato generale di salute della nostra giudiziaria. Ebbene, nel 2021 sono state vagliate dal Tribunale del Riesame di Napoli 5.945 misure cautelari. Di queste 3.589 hanno avuto conferma, le altre hanno ottenuto sorti varie. Dal bilancio relativo all’ultimo anno di attività giudiziaria emerge infatti che 470 sono state completamente annullate, 615 sono state parzialmente riformate, 25 sono state dichiarate inefficaci, 1.007 sono state dichiarate inammissibili. Tra riunioni con altre misure e altre modalità si classificano le restanti decisioni adottate dal Riesame nell’ultimo anno. Sono state, inoltre, 2.397 le istanze di appello di parte su misure cautelari personali, nessuna da parte del pm. Catania. Covid, carceri in difficoltà di Antonio Giordano livesicilia.it, 7 febbraio 2022 Il virus non si ferma davanti a un muro né a delle sbarre, e una volta che è entrato in un luogo chiuso rischia di circolare con molta velocità. Per questo uno degli ambienti in cui la vigilanza sul Coronavirus è costante è quello carcerario: il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria raccoglie quotidianamente dati sul numero di detenuti e poliziotti positivi al Covid, e sulla base di questi è possibile farsi un’idea di quanto sta circolando il virus tra le mura delle case circondariali e di reclusione, e di quali problemi possa causare. Come l’aumento dei turni per il corpo di Polizia Penitenziaria, che attraverso i suoi sindacati denuncia una sofferenza nell’organizzazione della vigilanza. Il caso delle carceri nel catanese. I numeri - Nelle tre case circondariali della provincia di Catania, quella di Bicocca, quella di Piazza Lanza e quella di Caltagirone, sono chiusi al momento 888 detenuti, secondo i dati del Dap. Di questi, 131 risultavano positivi al Coronavirus venerdì scorso alle 13, ovvero il 14 per cento del totale dei detenuti nel catanese. Tutti positivi asintomatici, e gestiti all’interno delle strutture carcerarie. Numeri che riflettono quello che succede fuori dalle mura, dove il virus circola con un’incidenza simile, ma che vanno scorporati. A Catania Bicocca, dove a fronte di 136 posti regolamentari sono 208 le persone detenute, i positivi sono 18, ovvero l’otto per cento del totale. Numero simile a Piazza Lanza, sempre a Catania, dove su 279 posti regolamentari sono presenti 312 detenuti effettivi, dei quali 30 sono positivi al Coronavirus, il nove per cento. A Caltagirone, infine, su 542 sono 368 i detenuti, e di questi 83 sono positivi al Covid, il ventidue per cento del totale. Questo per quanto riguarda i detenuti. Sugli agenti di Polizia Penitenziaria all’interno delle carceri non ci sono, al momento, dati su base regionale reperibili sul sito del Dap, dove invece viene indicato il dato nazionale: 1581 positivi su 36939 agenti, circa il quattro per cento del totale. Le difficoltà - Una situazione che di per sé non è causa di allarme. Dice Domenico Nicotra, presidente del Consipe, Confederazione Sindacati Penitenziari: “In rapporto a quello che accade fuori dalle carceri la percentuale di circolazione del virus è ridotta. Certo è inevitabile che il virus in qualche modo sia presente, tra visite dei familiari e tutto il personale che, per motivi diversi, entra nelle case circondariali”. I problemi riguardano più l’amministrazione della giustizia, sia dentro che fuori le carceri. Ad esempio, con un rallentamento generale dei processi: “Può succedere, ed è successo - dice Nicotra - che delle udienze non si tengano perché i detenuti si ammalano di Covid”. Ma il problema è anche nella circolazione del virus tra gli uomini e le donne della Polizia Penitenziaria: “La Sicilia purtroppo è molto sottoquotata a livello di personale - dice Nicotra - alla luce del Covid, dei positivi e delle quarantene necessarie, ci sono agenti che coprono diversi turni e fanno dieci ore fisse di straordinario. Questo in un mese in cui, tra l’altro, per questioni di conguaglio fiscale, in molti si sono visti ridurre lo stipendio, a volte ricevendo buste paga da un euro”. Il personale - Su un numero di poliziotti effettivi previsti di 749, nelle tre carceri del catanese ci sono 631 effettivi: 216 a Catania Bicocca, dove il personale previsto è di 201 persone; 238 a Piazza Lanza, dove il personale previsto è di 347; 177 a Caltagirone, dove ne sono previsti 201. “In queste condizioni è difficile gestire la situazione - dice Nicotra - e in più ci sono carceri in cui si deve tener conto delle separazioni per tipo di reati, per cosche, e ora anche per Covid”. Di problemi con i numeri del personale parla anche Armando Algozzino, Segretario generale Uil Pubblica Amministrazione Catania: “Quando vengono contagiati dei poliziotti i servizi diventano difficili per la carenza d’organico: tra chi ha il Covid e chi deve fare la quarantena i numeri calano, si devono fare tantissimi straordinari e accedere a congedi. Questo succede anche ai nuclei operativi, quelli di piantonamento o di scorta”. Algozzino chiede maggiori assunzioni: “Nel 2022 assisteremo a una ulteriore riduzione di personale per pensionamenti, e devono esserci assunzioni in massa, assegnare gli idonei a un luogo di lavoro”. Torino. “Reclusi torturati alle Vallette”, la garante del Comune sarà parte civile al processo di Sarah Martinenghi La Repubblica, 7 febbraio 2022 Il sindaco: “La dignità umana va salvaguardata anche nelle carceri”. Tra gli imputati l’ex direttore e l’ex capo delle guardie penitenziarie. La battaglia legale accende di sabato mattina, in un palazzo di giustizia deserto, la maxi aula due del tribunale dove si svolge l’udienza preliminare di un’inchiesta delicata e particolarmente amara. È quella che si gioca sulle spalle dei più deboli: i detenuti del carcere di Torino, vittime, secondo l’accusa, di botte e maltrattamenti, tanto da configurare il reato di “tortura”. Una “prassi” andata avanti dal 2017 al 2019, soprattutto nei confronti di chi era ristretto tra i “ sex offender”. Violenze taciute e coperte dall’alto, sulle quali aleggia ancora oggi un’ombra di paura: solo sei detenuti (difesi dagli avvocati Wilmer e Manuel Perga, Fabrizio Bernardi, Ilenia Siccardi e Domenico Peila) su undici di quelli considerati parte offesa, hanno trovato il coraggio di costituirsi parte civile. Tra gli imputati ci sono gli agenti (molti dei quali ancora in servizio) imputati di tortura, abuso di autorità e violenza privata, ma anche l’ex direttore e l’ex comandante della polizia penitenziaria che devono rispondere dell’accusa del pm Francesco Pelosi di omessa denuncia e favoreggiamento. La giudice Maria Francesca Abenavoli chiude però il primo round con un segnale forte per tutti: nonostante la dura contrapposizione degli avvocati dei 21 imputati, sono state tutte ammesse le richieste di chi ha sostenuto di aver avuto un danno per i reati commessi all’interno del penitenziario di Torino. Non solo il Garante nazionale dei diritti per i detenuti (tutelato dall’avvocato Davide Mosso), ma anche quello regionale, e (per la prima volta) anche quello cittadino che aveva proprio dato il via all’inchiesta. “La giunta comunale - ha dichiarato il sindaco Stefano Lo Russo - a fronte della documentazione della garante ha approvato con delibera la costituzione in giudizio come parte civile. La Città - sottolinea - è da sempre impegnata a salvaguardare la dignità umana anche nell’ambiente carcerario “. La giudice ha dunque riconosciuto la legittimazione della garante dei detenuti del comune di Torino, difeso dall’avvocata Francesca Fornelli, (giovane legale che dopo la laurea aveva svolto proprio uno stage in quell’ufficio), a diventare parte attiva al processo. “La nostra partecipazione - commenta la garante Monica Gallo - vuole essere un segnale forte di attenzione rispetto alla tutela dei diritti delle persone ristrette negli istituti penitenziari della città. L’obiettivo è contribuire in maniera concreta alla ricostruzione dei fatti per cui si procede e all’accertamento delle responsabilità dei soggetti coinvolti”. Ammessa come parte civile anche l’associazione Antigone, che ha come obiettivo la tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale e penitenziario. Ed è stata anche accolta la richiesta di citare il ministero della giustizia come responsabile civile, riconoscendo così il dovere da parte dell’amministrazione pubblica statale di risarcire i danni. Milano. Saltano i posti di lavoro in carcere, la cooperativa sociale Bee.4 lancia un appello di Roberta Rampini Il Giorno, 7 febbraio 2022 Dopo l’abbandono da parte della compagnia telefonica saranno trenta i detenuti che resteranno senza un’occupazione. “Il nostro punto di forza è la voglia di lavorare dei nostri operatori”. Un appello alle istituzioni e uno alle “aziende sensibili e vogliose di spendersi in una collaborazione capace di determinare un forte valore aggiunto”. La Cooperativa sociale Bee.4 Altre menti da anni impegnata in progetti di reinserimento lavorativo dei detenuti del carcere di Bollate non si arrende. Questo l’antefatto: 30 detenuti impiegati nel call center che offre servizi telefonici per conto di H3G prima e WindTre oggi, resteranno senza lavoro a partire dal 31 marzo perché scade il contratto. Trenta posti a rischio e un modello virtuoso di lavoro dietro le sbarre che traballa. “Abbiamo provato a costruire un interlocuzione con Windtre Italia per ragionare sulle conseguenze legate alla conclusione del progetto che da oltre 15 anni stavano realizzando a Bollate, purtroppo a oggi nonostante numerosi tentativi di contatto non abbiano ricevuto risposte alle nostre richieste di confronto se non richiami alle difficoltà che l’azienda stava incontrando a causa del suo non positivo andamento commerciale - spiega Marco Girardello direttore risorse umane della cooperativa Bee.4 altre menti. Ora non ci resta altro che dichiarare lo stato di crisi aziendale, atto dovuto per poter formulare la richiesta di cassintegrazione straordinaria al fine di tutelare le persone che ora sono prive di lavoro. Restiamo fiduciosi e convinti di poter superare questa brutta situazione individuando nuove collaborazioni con aziende sensibili e vogliose di spendersi in una collaborazione capace di determinare un forte valore aggiunto. Il nostro punto di forza è rappresentato dalle competenze e dalla voglia di lavorare e di impegnarsi dei nostri operatori, questi fattori rappresentano delle solide fondamenta per ricominciare”. Nel carcere modello dove sono reclusi 1.120 detenuti, il lavoro è sempre stato un elemento fondamentale per il loro reinserimento sociale. Gli effetti di questo modello si vedono: qui il tasso di recidiva è del 30%, contro il 70% di media nazionale. La cooperativa sociale è stata una delle prime a promuove il lavoro come “strumento per valorizzare il tempo della pena” impiegando, negli anni, circa 90 detenuti. Ma in carcere sono arrivate anche altre imprese e cooperative: dalla cooperativa Abc La Sapienza in Tavola, che fornisce servizi di catering e gestisce il ristorante InGalera, al centro di riparazione delle macchine al laboratorio di riparazione di apparecchi elettronici di telefonia, da Cascina Bollate con la serra al progetto Officine del caffè dove si rigenerano le macchine del caffè. Ora chi ha creduto in questo progetto attende risposte dal Provveditorato Regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia e dal Comune di Milano che avevano manifestato interesse per la vicenda. Padova. Detenuti futuri chef, arriva nel carcere il corso di enogastronomia di Laura Berlinghieri Il Mattino di Padova, 7 febbraio 2022 Verrà attivato un indirizzo scolastico dedicato alla ristorazione. I professori saranno quelli dell’istituto Pietro d’Abano. Dal settembre prossimo, nel carcere Due palazzi di Padova sarà attivo un indirizzo scolastico professionale dedicato ai servizi per l’enogastronomia e l’ospitalità alberghiera. Gli studenti saranno gli stessi detenuti, senza limiti di età e con il solo requisito dell’avere conseguito la licenza media. I professori, invece, arriveranno dal Cpia di Padova e dall’istituto Pietro D’Abano di Abano, tra i promotori del progetto. Un’iniziativa che si inserisce nel solco già tracciato da Giotto, la cooperativa sociale che da ormai 32 anni ha trovato casa al Due Palazzi, aiutando i detenuti nel loro percorso di costruzione della loro vita all’esterno. Sarà così anche con il nuovo indirizzo di studi. Un indirizzo pensato per consentire ai detenuti di fissare già i primi mattoncini che comporranno il loro futuro, una volta scontata la pena. “Impareranno un mestiere” spiega Carlo Marzolo, dirigente dell’istituto Pietro D’Abano, emozionato nel vedere nero su bianco la data di avvio di un percorso vagheggiato per anni. “La dinamica della didattica e delle sue attività collaterali, tipiche di un alberghiero, sono un plusvalore rispetto ad altre esperienze di scuola in carcere. Scontata la pena, quando torneranno nel mondo “fuori”, i detenuti si troveranno di fronte a un mercato del lavoro molto promettente per chi possiede un diploma alberghiero. Noi stessi, nella nostra scuola, riceviamo decine di richieste che non riusciamo a soddisfare”. Il percorso, attivo dal prossimo anno scolastico, nasce su impulso di Claudio Mazzeo, direttore del Due Palazzi, forte proprio della riuscita dell’esperienza nel suo precedente incarico, nel carcere di Cuneo. Il preside di Abano aveva provato a muoversi anni fa, trovandosi di fronte a un intrigo di complicazioni procedurali che lo aveva costretto a mollare la presa. Tornato alla carica, individuati gli spazi e acquistate le attrezzature, ora è arrivato anche il via libera della Regione. “Per il momento immaginiamo una classe composta da una ventina di studenti, ma crediamo che le domande saranno molte di più” prosegue il dirigente. Gli alunni faranno lezione in carcere, utilizzando forni, padelle e tutte le attrezzature acquistate proprio per lo svolgimento del corso. “Formeremo dei professionisti a 360 gradi. Terminato il percorso di studi, avranno un diploma pari a quello dei loro compagni, usciti dalle scuole “normali”. Per noi sarà come un corso serale. Stiamo ragionando sulla durata: ci piacerebbe che fosse di cinque anni, ma potremmo scendere a tre” spiega ancora il preside. E proprio tra l’istituto di Abano e la “scuola” al Due Palazzi potrebbe crearsi un ulteriore legame. Si tratterebbe soltanto di rafforzare un percorso, in realtà già iniziato diversi anni fa da Elisabetta Benvenuti - storica insegnante di religione al Pietro D’Abano, rimasta uccisa in un incidente stradale nell’estate 2020 - che più volte aveva portato gli studenti in visita al Due Palazzi. Potrebbe accadere ancora. Alla fine, si tratterebbe semplicemente di andare a conoscere dei compagni di studio. Milano. Sempre più giovani in cura per droga di Filippo Colombo dire.it, 7 febbraio 2022 Aumentano le persone che si rivolgono ai servizi per le dipendenze. Sono 4.400 le persone che si sono rivolte ai Servizi dipendenze dell’area di Milano delle Asst Nord Milano, Santi Paolo e Carlo, Fatebenefratelli Sacco e Gom Niguarda, di cui 4 mila solo a Milano città. Più di 3.215 in relazione all’uso di sostanze illecite, tra cui 1608 per l’uso di cocaina, 1166 per l’uso di eroina, 596 per problemi legati all’utilizzo di alcol, più di 182 per il gioco d’azzardo. Solo nel mese di gennaio, come ha spiegato Riccardo Gatti, coordinatore del dipartimento interaziendale dipendenze dell’asst Santi Paolo e Carlo, Fatebenefratelli e Sacco, Niguarda, Nord Milano - Cinisello e Sesto San Giovanni, in commissione a Palazzo Marino, sono arrivati 98 nuovi pazienti. “Se guardiamo i nuovi arrivi di gennaio per fasce di età quella 18-24 anni è la più alta di tutte - ha spiegato - incidono quindi sui nuovi arrivi le fasce di popolazione giovane. Arrivano più persone giovani perché ci sono più persone di quell’età che hanno problemi, hanno problemi di salute e legali e quindi arrivano ai nostro servizi. Così come arriva anche un gruppo piccolo di minori, insieme a persone di tutte le età”. Il 72% delle persone in cura per problemi di dipendenza arrivano dal territorio, il 28% vengono assistiti nelle carceri di San Vittore, Bollate, Opera e nel carcere minorile Beccaria. Genova. Laurearsi in carcere, adesioni in crescita e il progetto si allarga di Alessandra Rossi Il Secolo XIX, 7 febbraio 2022 Laurearsi in carcere non è una favola a lieto fine: è un diritto. E in Liguria è anche un progetto giovane rispetto a realtà come Firenze o Torino. Ma cresce di anno in anno, nonostante il Covid e nonostante l’assenza di un garante per i diritti dei detenuti. La prima convenzione tra Università di Genova e Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) risale al 2016, quando nasce il Pup, Polo universitario penitenziario: gli iscritti si contavano sulle dita di una mano. Nel settembre scorso la convenzione col Prap di Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta è stata rinnovata, inserendo nuove carceri: La Spezia e Sanremo. Oggi, al secondo anno di pandemia, con le difficoltà per il mondo dello studio che questa situazione ha comportato, gli iscritti in Liguria sono aumentati: ben 35. La maggior parte riguarda detenuti di Marassi (22), a seguire Pontedecimo (7 nella sezione maschile e 3 nella femminile) e infine a Sanremo (3). “La convenzione garantisce al detenuto, indipendentemente dalla posizione giuridica o dalla sezione detentiva, un diritto fondamentale: la risocializzazione - spiega il professor Renzo Repetti, delegato del Rettore per il Pup - Quel che facciamo, come docenti, è seguirli in carcere con lezioni, colloqui, materiale didattico ed esami. Ora è ovviamente tutto on line”. E le difficoltà non mancano, se aggiunte all’assenza di un garante dei diritti dei detenuti che potrebbe individuarle con più facilità e aiutare a risolverle. La sensazione è che, allo stato attuale, i docenti diventino per i detenuti uno dei pochi, forse gli unici, raccordi con il mondo esterno: “Credo che la Liguria sia un po’ indietro: è forse l’unica regione in Italia rimasta senza garante. E anche se i rapporti con le direzioni delle carceri sono ottimi - osserva Repetti - risentiamo di quest’assenza, perché manca una figura terza con cui relazionarsi”. Un problema che evidenzia anche Antigone: “Il garante è fondamentale per tutti: detenuti, associazioni, amministrazione penitenziaria - dice Alberto Rizzerio, referente ligure dell’associazione - Se un detenuto vuole fare una segnalazione, non sa a chi rivolgersi”. Per Rizzerio, si tratta di una figura importante “anche in termini di prevenzione”. L’occhio attento di Antigone ha passato al setaccio anche il capitolo “studio” negli istituti penitenziari liguri che, dice Rizzerio, “risulta abbastanza garantito a tutti. Dal 2016 abbiamo assistito alla crescita di iscritti, poi stabilizzata a causa della pandemia. Il Covid, con le sue misure restrittive, ha messo in difficoltà tutte le attività per i detenuti”. Eppure il Pup resiste e si sviluppa sugli stessi tracciati dell’Università “fuori”: “Il lavoro è tale e quale a quello svolto in ateneo, senza favoritismi. Solo l’aspetto della tassazione è differente. Certo - ammette Repetti - forse si è meno formali, ma gli esami si svolgono davanti a commissioni ufficiali e i voti sono meritati”. Una delle differenze però balzate all’occhio di Repetti, è proprio il momento della valutazione: “Farò circa 180 esami l’anno e quando gli studenti in ateneo prendono 30, è come se si aspettassero quel voto. Dai detenuti invece ho visto sempre reazioni cariche d’entusiasmo, anche davanti a un 24: una felicità che raramente ho incontrato fuori dal carcere”. L’altro aspetto che il docente ha colto è “la forte solidarietà: tra iscritti si aiutano, magari prestandosi appunti o dispense”. Chi studia in carcere ha generalmente tra i 25 e i 30 anni, ma non è raro trovare 50-60enni. Degli attuali 35 iscritti, gli stranieri sono il 31%: arrivano dall’Europa dell’est, dal Sudamerica e qualcuno dall’Africa. Prediligono scienze politiche o della formazione, storia o filosofia. Difficilmente si opta per discipline tecniche, per via della frequenza. C’è anche chi si dedica alla Conservazione dei beni culturali o a Scienze del Turismo. Il rapporto con gli studenti detenuti è molto buono: “Ci si affeziona - spiega Repetti - anche perché, preparando esami o tesi, molti parlano anche dei loro problemi”. Per non disperdere il lavoro di questi 6 anni, l’Università rilancia e nei prossimi mesi coinvolgerà il mondo del volontariato: con la cooperativa La Comunità permetterà a giovani - iscritti e non - di fare da tutor ai detenuti. Reggio Emilia. “Liberi Art”: una mostra curata dai detenuti per ricordare Saman di Nicole Nasi reggionline.com, 7 febbraio 2022 L’esposizione è stata realizzata nell’ambito dell’omonimo progetto rieducativo rivolto alle persone in carcere che ha come tema centrale la violenza contro le donne. Visitabile sino al 14 febbraio alla biblioteca in via Rivoluzione d’Ottobre. “Liberi Art” è il titolo della mostra allestita presso la biblioteca Marco Gerra in via Rivoluzione d’Ottobre e che sarà visibile fino al 14 febbraio. Una rassegna di 28 opere realizzate da 13 detenuti, nell’ambito di un progetto rieducativo e dell’artista Anna Protopapa, dell’associazione Gens Nova Emilia Romagna, volontaria degli Istituti Penitenziari. Attraverso l’arte e i diversi linguaggi espressivi, i 13 detenuti che vi hanno preso parte, sono riusciti ad esprimere il proprio potenziale creativo realizzando opere che affrontano temi come il contrasto alla mafia, l’inclusione, la religione, la guerra, la giustizia e la libertà. “Ha dato loro la possibilità di dare voce alla cittadinanza riguardo un fenomeno che è dilagante ed è la violenza sulle donne - spiega Protopapa - per i detenuti è molto importante, in quanto comunque, questo ha permesso loro di scoprire anche questo linguaggio non verbale”. Tanti i quadri che colpiscono sia per la tecnica usata sia per il forte messaggio. “La prima opera che vediamo anche qui alle spalle è stata ispirata all’Enciclica di Papa Francesco ‘Fratelli tutti’. Ovviamente è un’opera che ho voluto portare ai detenuti del carcere di Reggio Emilia per far accogliere quello che è il messaggio universale della fratellanza e dell’amicizia”. “Anche questo è molto significativo in quanto purtroppo la violenza sulle donne non guarda il colore, la nazionalità, ma colpisce tutte le donne del mondo” aggiunge la curatrice. I detenuti hanno realizzato un quadro ispirato alla storia di Saman Abbas, la ragazza di Novellara scomparsa dalla primavera scorsa. Saman aveva denunciato i genitori per sottrarsi a un matrimonio forzato. “Quando purtroppo abbiamo appreso la scomparsa, la notizia, di Saman ha molto colpito tutti i detenuti e quindi abbiamo pensato di realizzare e dedicare questa semplice opera a Saman Abbas”. È possibile visitare la mostra fino al prossimo 14 febbraio prenotandosi all’indirizzo ufficio.pariopportunita@comune.re.it oppure telefonando allo 0522.45697. Obbligatori green pass e mascherina ffp2. La società dell’indignazione (e dell’irresponsabilità) di Massimiano Bucchi Corriere della Sera, 7 febbraio 2022 Ormai davanti ai più diversi fatti di cronaca si accantona l’idea che esistano già leggi e strumenti per sanzionare e soprattutto per ridurre la frequenza di certi comportamenti, tutelando le potenziali vittime. Ormai il cortocircuito tra cronaca, opinione pubblica e politica è più prevedibile di una macchinetta stimolo-risposta. Un incidente stradale mortale causato da guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti; un’aggressione a ragazze o ragazzi di origine ebraica, una vittima di violenza domestica; la reazione è sempre la stessa: la rabbia, l’indignazione, l’individuazione di tendenze generali da contrastare con nuove leggi e iniziative educative. Dopo qualche giorno il caso specifico, le responsabilità individuali non interessano più a nessuno. Si è individuato e nominato un nuovo problema sociale, la coscienza civile e sociale si ritiene assolta. Si accantona così l’idea che esistano già leggi e strumenti per sanzionare e soprattutto per ridurre la frequenza di certi comportamenti, tutelando le potenziali vittime. Che cosa resterà nella coscienza delle giovani che hanno aggredito la coetanea ebrea? E dei loro genitori? Qualcuno proverà a spiegare loro direttamente la gravità di ciò che hanno commesso? La scuola le obbligherà a leggere qualche libro che le aiuti a capirlo? Nulla di tutto questo: si diranno (e i loro genitori diranno) che hanno fatto solo una stupidaggine, hanno aderito inconsapevolmente a una tendenza del loro tempo. Tendenza contro la quale si faranno fiaccolate e lunghe discussioni e poi, forse, tra qualche anno, un’iniziativa a scuola di fronte alla quale sbadiglieranno. A quasi nessuno viene il dubbio che le leggi ci sono: i comportamenti in questione sono già individuati chiaramente come criminali. Ma una giustizia che permette di guidare liberamente a chi è già stato condannato per guida in stato di ebbrezza o che lascia un soggetto già responsabile di episodi di violenza nella stessa abitazione della convivente è una giustizia che ha smarrito il proprio senso, e quindi l’espressione di una società che ha smarrito il proprio senso. Lo si vede dolorosamente dalle parole che escono immancabilmente dai parenti delle vittime. Tutti chiedono “giustizia”: una parola che la società e il sistema giudiziario dovrebbero essere in grado di tradurre non come “vendetta” ma come capacità di tutelare e proteggere altre potenziali vittime da quegli stessi pericoli. Ma questo comporterebbe l’assunzione di responsabilità individuali specifiche (da parte dei genitori, degli educatori, degli operatori giudiziari). Molto più comodo, purtroppo, sbandierare parole d’ordine e buone intenzioni generiche per assolvere sé stessi e la propria coscienza. Come cantava tristemente De Andrè, “Prima pagina, venti notizie/Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa/Si costerna, s’indigna, s’impegna/Poi getta la spugna con gran dignità”. Cosa significa ascoltare di Michela Marzano La Repubblica, 7 febbraio 2022 Le manifestazioni degli studenti e la lettera del ministro dell’Istruzione. Dopo due anni di pandemia e lockdown e Dad e mascherine, non è possibile non riconoscere le difficoltà dei ragazzi e non prenderli sul serio. Oggi, ancora più del passato, i giovani necessitano riconoscimento. Il ministro Bianchi ha ragione: i nostri studenti e le nostre studentesse hanno bisogno di essere ascoltati. E quando dico che ne hanno bisogno, intendo dire proprio questo; non ho sbagliato termine quando ho scritto “hanno bisogno”, invece di “meritano”. Certo, tutte e tutti meritiamo ascolto. Anche semplicemente perché l’ascolto è una manifestazione di rispetto e ogni persona, in quanto tale, merita di essere rispettata. Le ragazze e i ragazzi, però, oltre a meritarlo, ne hanno proprio bisogno. Lo necessitano perché, oggi ancora più del passato, necessitano riconoscimento. E dopo due anni di pandemia e lockdown e Dad e mascherine, non è possibile non riconoscere le loro difficoltà e non prenderli sul serio. E quindi? Quindi il ministro Bianchi ha torto quando, invece di ascoltare le studentesse e gli studenti che sono scesi in piazza venerdì scorso, come dice di voler fare, si limita a garantire ascolto ai temi che hanno posto. Ascoltare i più giovani, d’altronde, significa evitare di propinare loro una serie di buoni propositi o di inutili luoghi comuni. Ascoltarli vuol dire fare spazio all’interno di sé stessi alla loro alterità, anche se l’alterità, per definizione, disturba e scombussola. Ma l’ascolto è proprio questo. Altrimenti si tratta di altro, magari di un’interessante riflessione ad alta voce oppure di considerazioni generiche sull’alternanza scuola-lavoro e sugli esami di maturità: frasi fatte che ripetono cose note, già dette, già scritte, già contestate, già riscritte. Peccato, ad esempio, che il ministro non abbia speso nemmeno una parola su tutte quelle esperienze di alternanza scuola-lavoro che si traducono con un nulla di fatto in termini educativi. Peccato che non abbia sentito l’esigenza, per non dire il dovere, di nominare Lorenzo Parelli. Peccato, infine, che entrambe queste mancanze denotino proprio un’assenza di ascolto. Gentile ministro, posso permettermi di dirle chissenefrega che “il governo si è sempre impegnato in modo caparbio per riportare la scuola in presenza”? Posso aggiungere che le ragazze e i ragazzi che sono scesi in piazza venerdì del suo “riteniamo giusto accompagnare tutti ad una nuova fase senza paura” non sanno che farsene? Sa di che cosa hanno davvero paura le nostre ragazze e i nostri ragazzi? Sa che, quando dice che la prova scritta di italiano serve “a esprimere sé stessi”, sembra che li stia prendendo in giro? Si sono espressi venerdì, signor ministro. E lei non li ha ascoltati. Forse perché troppo impegnato a immaginare l’ennesima (utile? necessaria?) riforma della scuola. Forse perché, quando ci si focalizza sui temi, le persone vengono cancellate. Oppure è stata la bella immagine della “scuola al centro della nostra democrazia”, “al passo con i tempi” e “senza diseguaglianze” che l’ha distratta e le ha impedito, ancora una volta, di vedere e riconoscere e capire le studentesse e gli studenti? Loro hanno paura, sì. Ma ancora più che delle prove scritte dopo due anni di pandemia, lockdown, Dad e mascherine, loro hanno paura di essere trasparenti. E hanno ragione. Nella sua lettera, signor ministro, le nostre ragazze e i nostri ragazzi sono trasparenti. Pazienti nelle psichiatrie? Troppi quelli che sono legati. “Diritti violati una volta su 5” di Paolo Riva Corriere della Sera, 7 febbraio 2022 Il fenomeno della contenzione meccanica è ancora troppo diffuso nei reparti. La campagna nazionale contro i lacci per i malati e la bozza del governo per superare la pratica. Elena Casetto, Giuseppe Casu, Franco Mastrogiovanni, e, ultimo in ordine di tempo, Wissem Ben Abdellatif. Sono tutte persone la cui morte è collegata alla pratica della contenzione meccanica. Casetto è deceduta a causa di un incendio divampato nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Bergamo, dove era ricoverata, legata. Casu, all’ospedale di Cagliari, è mancato dopo essere stato bloccato per sette giorni. All’ospedale di Vallo della Lucania, Mastrogiovanni è morto nel letto al quale era stato legato per 87 ore. Infine, lo scorso novembre, il cittadino tunisino da poco arrivato in Italia Ben Abdellatif è morto dopo essere stato contenuto per molte ore, sia all’ospedale di Ostia sia al San Camillo di Roma. Questi casi sono i più gravi, ma la pratica è molto diffusa in Italia. E, proprio per i suoi effetti negativi, in molti chiedono che venga superata. In concreto, la contenzione meccanica utilizza dei messi fisici, come lacci e cinture, per limitare i movimenti di una persona. Viene utilizzata per prevenire danni fisici al paziente stesso o ad altre persone, e il personale sanitario che sceglie di servirsene dovrebbe usarla solo in situazioni di emergenza, come ultima risorsa. Eppure, stimava nel 2013 un articolo scientifico dello psichiatra Vittorio Ferioli, “nei reparti psichiatrici per acuti, in Italia, avvengono in media 20 contenzioni ogni 100 ricoveri”. Se consideriamo che, secondo gli ultimi dati disponibili relativi al 2019, i ricoveri in psichiatria sono stati 96.510 in un anno, non si tratta di pochi casi. Secondo il Comitato nazionale di bioetica, però, “la contenzione rappresenta in sé una violazione dei diritti fondamentali della persona” e, per questo, deve avvenire solo “in situazioni di reale necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto a ricorrervi”. Il Comitato si è espresso sulla questione nel 2015, ma lo scorso dicembre è intervenuta sul tema anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Grazie al ricorso di un quattordicenne che venne legato al letto per sette giorni, il tribunale ha messo per la prima volta sotto sorveglianza l’Italia su questa pratica, imponendo al governo di rispondere a dei quesiti sul fenomeno e sull’esistenza o meno di protocolli. Una sentenza della Corte potrebbe portare a quel che, da tempo, chiede “…e tu Slegalo subito”, la campagna nazionale per l’abolizione della contenzione meccanica in psichiatria promossa dal Forum Salute Mentale e sostenuta da numerose realtà della società civile. “L’uso delle fasce, dei letti di contenzione, sopravvissuto alla chiusura dei manicomi, è la prova più chiara e scandalosa di quanto sia ancora viva l’immagine del matto pericoloso. In molti dei luoghi della cura si lega ma si fa di tutto per non parlarne. Salvo quando capita l’incidente”. Come quelli drammatici di Casetto, Casu, Mastrogiovanni e Ben Abdellatif. Eppure, esistono realtà che riescono a curare i pazienti senza bisogno di legarli. Dal 2006, in Italia, opera il Club Spdc- No Restraint che riunisce i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc, appunto) che non usano la contenzione e tengono aperte le porte dei loro reparti. Le adesioni sono ventuno e vanno da Trento a Grosseto, da Terni a Matera, da Caltanisetta a Ravenna, Parma, Modena e Mantova. Senza contare Trieste, la città in cui operò Franco Basaglia. Proprio in Friuli-Venezia Giulia, lo scorso novembre si è tenuto un convegno degli Spdc- No Restraint. L’iniziativa, intitolata “Verso servizi liberi da contenzione” è stata organizzata tra Trieste e Gorizia, una scelta simbolica, dal momento che fu proprio a Gorizia, nel 1961, che Basaglia pose il problema delle persone legate in manicomio. Il rivoluzionario psichiatra si rifiutò di avvallare con la propria firma di medico questa pratica. “E mi no firmo”, disse, dando idealmente il via al percorso che portò nel 1978 alla legge 180, cui si deve la chiusura dei manicomi. Oltre quarant’anni dopo, la contenzione è considerata da più parti come “un residuo” di quella “cultura manicomiale” che la 180 voleva superare. A farlo definitivamente, potrebbe contribuire una bozza di accordo stilata dal Ministero della Salute, per il “definitivo superamento della contenzione meccanica in tutti luoghi della salute mentale in un triennio”. Il documento contiene sette raccomandazioni: è stato redatto a giugno e ora si attendono i pareri di Comuni e Regioni. Migranti: “Salvare chi annega è la legge morale del mare. E Salvini farebbe come me” di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 7 febbraio 2022 In un film la storia del fondatore della ong Open Arms che soccorre i migranti. “Perché Italia, Spagna e Malta sanno come portare fuori dalla Libia il petrolio e non chi fugge?”. “Un giorno, nel 1988, andai a trovare la mia fidanzata. Il portinaio era al suolo, stava soffrendo un infarto, e non sapevo cosa fare. Suonai tutti i citofoni per cercare un medico, ai tempi non esistevano i cellulari, nessuno rispondeva. Lo caricai sull’auto e lo portai all’ospedale. Arrivò morto. Mi dissero che se gli avessi fatto le manovre di rianimazione forse si sarebbe potuto salvare. Fu così che mi iscrissi al corso di primo soccorso, perché non mi succedesse mai più di lasciare morire una persona senza provare a salvarla”. Oscar Camps aveva 23 anni e quel giorno cominciò la sua avventura di “socorrista”. Prima per la Croce Rossa, poi imprenditore di una società di bagnini nella sua Badalona, in Catalogna, e infine fondatore di Open Arms, la Ong che negli ultimi sei anni ha salvato più di 62.000 vite nel Mediterraneo. Vite di migranti. Oggi la sua storia è diventata un film, Open Arms - La legge del mare (tra le comparse, circa un migliaio di rifugiati siriani, iracheni e afghani). Comincia quando Camps, nel 2015, vede la foto di Aylan Kurdu, il bimbo di tre anni morto su una spiaggia di Lesbo. Tutti videro quella foto, si commossero, e poi dimenticarono. Tu invece sei partito. Cosa è scattato? “Pensai a quanti Aylan dovevano essere morti in quel mare senza essere fotografati. A quanto lavoro dovevano avere i soccorritori in Grecia e in Turchia. Invece scoprii che nessuno stava aiutando quelle persone. C’erano dei volontari senza alcuna conoscenza delle tecniche di salvataggio, medici senza alcuna organizzazione alle spalle. Decisi di mettere a disposizione la mia esperienza, dovetti legalizzare amministrativamente l’aiuto che stavo portando per non essere espulso. Così è nata Open Arms, da due volontari siamo diventati cinque, poi otto”. Continui a pensare, come denuncia il film, che i guardiacoste non fanno bene il proprio lavoro? “Lo farebbero se non ci fossero i politici. Il loro lavoro è proteggere la vita in mare, attenendosi alle convenzioni e al diritto internazionali, e in certi periodi lo hanno fatto. Perlomeno in Italia, fino a marzo 2018, la Guardia costiera coordinava tutte le operazioni di salvataggio, anche di imbarcazioni civili e di organizzazioni umanitarie. Dopo le elezioni, però, ci sono state decisioni politiche che hanno bloccato qualsiasi intervento in acque internazionali e a noi è venuto a mancare il coordinamento della guardia costiera”. A Lesbo morivano a dieci metri dalla costa. Avete iniziato a salvarli dalla riva, poi però vi siete spinti al largo, fin nelle acque internazionali fra Libia e Italia. Vi hanno accusato di essere i “taxi” della migrazione illegale verso l’Europa, dicono che senza la vostra presenza non tenterebbero la traversata... “Credi che un medico in un carcere italiano non curi un serial killer? Ne ha diritto anche lui. Così come queste persone hanno diritto di essere salvate in mare. E’ un obbligo internazionale. Dovremmo lasciarle morire solo perché forse la loro posizione amministrativa in Europa sarebbe irregolare? E poi in acque internazionali non ha senso parlare di “migranti”, sono persone in pericolo e devono essere salvate. Questo è il mio lavoro, quando ho deciso di essere un bagnino ho scelto di proteggere la vita in mare, in mia presenza non posso permettere che qualcuno muoia”. Un “lavoro”? “E’ il mio lavoro, il mio obbligo e la mia vocazione. Ho scelto questo lavoro come un chirurgo ha scelto di operare, e opererà qualsiasi persona che ha bisogno di assistenza medica perché ha aderito a un codice professionale”. Perché operate in Italia e non nella “vostra” Spagna? “La Spagna ha un servizio civile di salvataggio in mare, non militare come la Guardia costiera italiana, e funziona molto bene. Non risponde alla politica. Per questo non portiamo le barche nel sud della Spagna perché già c’è una loro flotta là, che salva la gente e la porta in Spagna, dov’è il porto sicuro più vicino, non in Marocco. Nel tratto di Mediterraneo, fra Libia e Italia, Lampedusa è il porto sicuro più vicino. La Spagna è a quattro giorni di navigazione”. Nel 2015 hai detto “l’Unione europea non esiste”. Lo pensi ancora? “E’ un Mercato comune, non una Unione. Sono solo interessi economici, importano solo le grandi lobby che controllano l’energia, il petrolio, i laboratori… E’ aberrante. Ci indigniamo quando negli Stati Uniti la polizia uccide un uomo in strada e poi in Europa finanziamo i gruppi armati libici perché facciano quello stesso lavoro sporco fuori dalle nostre frontiere. Abbiamo politici senza principi morali e di etica”. Non salvi nessuno dei grandi leader? “Non è il mio lavoro giudicare i politici, ma mancano statisti coraggiosi. Abbiamo politici mediocri e codardi, e molto opportunisti. Intanto l’Europa invecchia, in Spagna tra un decennio mancheranno 5-6 milioni di lavoratori”. La cancelliera tedesca Merkel all’inizio accolse gli immigrati… “Nel 2014, la Germania era il Paese più vecchio del mondo, dopo il Giappone. I politici tedeschi dissero che servivano un milione di giovani. E guarda caso l’anno dopo circa 900.000 migranti da Lesbo andarono in Germania. Invece di prendere un ferry che costava 10 euro, dovettero però affidarsi alla mafia e pagare più di 1.000 euro il passaggio, e ne morirono tanti annegati. Tutta l’Unione Europea guardò dall’altra parte per alcuni mesi, fino al marzo 2016, quando firmò l’accordo con la Turchia. Non so se lo decise Merkel, la Grecia o Bruxelles ma quell’accordo con Erdogan ci costa 6 miliardi di euro e pagare queste false democrazie significa sottomettersi all’estorsione. Il re del Marocco Mohammed VI sta facendo lo stesso con la Spagna, e accade anche con Libia”. Non parliamo del processo in corso in Italia, però una volta hai detto che se Salvini fosse con te in mare anche lui salverebbe le vite dei migranti. Lo pensi davvero? “Si, senza dubbio. Salvini ha deciso di guadagnarsi da vivere diventando un personaggio, lo fanno molti politici oggi per catturare voti. Ma dietro il personaggio c’è una persona. Se salisse su una delle nostre barche e vedesse una donna con suo figlio che sta affogando allungherebbe il braccio per salvarle la vita…. È un comportamento umano, non una decisione politica. Quando tiri fuori un politico dalla sua bolla, dal suo ufficio con aria condizionata e segretario, e lo metti in prima linea, smette di essere politico e torna ad essere una persona”. Sei rimasto in contatto con qualcuno dei migranti che hai salvato? “Pochi, forse due o tre che mi seguono sui social. Non consiglio al mio staff e ai volontari di simpatizzare…” Perché? “Tutti loro hanno alle spalle una tragedia, se ascolti il racconto della loro vita ti spaventi, vuoi aiutarli. Ma ci sono altre organizzazioni sul territorio pronte a farlo. Il nostro sforzo deve concentrarsi sul salvare le vite in mare”. La legge del mare per te è superiore a qualsiasi altra legge? “Certamente. È una legge morale ed è una delle più antiche nella storia dell’uomo. Ha funzionato per secoli, perché non dovremmo più seguirla?”. Non sei mai stanco? “La scorsa settimana ho avuto un incidente in moto e mi sono procurato un paio di fratture al piede. Ho comprato una stampella speciale per poter continuare a camminare e a lavorare perché dobbiamo preparare la barca per uscire. Stanco non è la parola giusta. Ho 58 anni e finché avrò la forza continuerò a fare quello che mi dice la coscienza. Potrei fare come alcuni amici imprenditori che per due mesi all’anno navigano nei Caraibi. Io invece ne passo tre o quattro navigando nel Mediterraneo a dare una mano a chi è in pericolo”. Tua figlia Esther, come racconta il film ti ha seguito in questa avventura. Non hai mai pensato di evitarle esperienze così dure? “Abbiamo avuto un’adolescenza difficile ma mai ho influenzato le sue scelte. Le ho finanziato gli studi universitari che non ha voluto proseguire, ha scelto Open Arms e presto diventerà capitano di una nostra barca. Non sono mai intervenuto. É stata lei, con la sua testardaggine, a volerlo”. Ne sei contento? “Prima di Open Arms c’era un’enorme distanza fra noi due che ora non c’è più”. Come si può fermare questa gente che preferisce morire nel Mediterraneo piuttosto che rimanere nei propri paesi di origine? “Non so, io non sono uno statista. Sono solo un “socorrista”. I governi di Italia, Spagna e Malta sanno come portar fuori il petrolio dalla Libia, però non sanno come portar fuori in sicurezza queste persone che fuggono? Finché saremo solo un Mercato comune che antepone il business ai diritti umani, continueremo così”. India. Nella vicenda dei Marò una grande incognita: chi ha provocato quelle morti? di Luigi Manconi La Repubblica, 7 febbraio 2022 Una storia che ripropone ancora una volta l’idea di garantismo all’italiana. Lo scorso 31 gennaio, il giudice per le indagini preliminari Alfonso Sabella ha disposto l’archiviazione del procedimento per omicidio volontario a carico dei cosiddetti “due marò” (in realtà, fucilieri della Marina militare italiana), accusati di aver ucciso due pescatori indiani il 15 febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala, nell’India meridionale. Il Gip ha accolto la richiesta della Procura che ha ritenuto non sufficienti le prove raccolte. Resta un grande problema: chi ha provocato quelle morti? È certo che una pista alternativa era emersa, ma non le si è dato seguito. Infatti, in quello stesso tratto di mare in cui navigava l’Enrica Lexie, con a bordo Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, si trovava un’altra imbarcazione, battente bandiera greca. Quest’ultima, secondo l’ufficio marittimo della Camera di Commercio Internazionale, avrebbe subito un tentativo di abbordaggio a due miglia e mezzo dalla costa indiana, lo stesso giorno dell’incidente che ha coinvolto l’Enrica Lexie. Questa e la nave greca presentavano sagoma e colore simili, differenziandosi solo per la forma del fumaiolo. L’abbordaggio venne smentito dalle autorità greche e nessuna seria indagine è stata mai condotta (dopotutto, si trattava di due lavoratori del mare di un Paese dove - notoriamente - i poveracci muoiono come mosche). Ma la vicenda dei due militari è significativa anche perché ci parla delle bislacche peripezie del garantismo italiano. Per l’archiviazione del procedimento contro Latorre e Girone, Giorgia Meloni ha gioito: questo ha alimentato la falsa rappresentazione di una vicenda giudiziaria che sarebbe stata appannaggio di una destra contrapposta a una sinistra compattamente indifferente. In effetti è vero che, poco dopo quel fatto tragico, Fratelli d’Italia offrì una candidatura a Massimiliano Latorre, ma, svanita questa ipotesi, il sostegno si limitò a qualche dichiarazione tonitruante di retorica patriottica. Ancor peggio a sinistra, dove - avendo introiettato lo stereotipo di Latorre e Girone come simboli della destra - il silenzio è stato pressoché totale. Tuttavia, poco meno di un anno fa, fu proprio Repubblica, con un titolo di prima pagina, a sollevare l’interrogativo: e se fossero innocenti? E fu proprio l’avvocato Fabio Anselmo, noto per aver sostenuto le cause di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, conclusesi con le condanne dei responsabili di quei delitti, a dare slancio all’iter giudiziario. (A proposito, su quelle due morti “di sinistra”, la destra, da Matteo Salvini a Carlo Giovanardi, ha saputo solo esibirsi in oltraggi e bassezze). Questo dovrebbe bastare a liberare la discussione sull’amministrazione della giustizia e sulle garanzie per gli imputati dalla contrapposizione destra/sinistra. E non perché queste ultime siano, come usa futilmente dire “categorie obsolete”: bensì perché è vero, proprio vero, che il garantismo non abita stabilmente né a destra né a sinistra. Anche perché il garantismo ha il suo essenziale statuto fondativo nel principio della separazione dei poteri, dei ruoli e delle competenze. Di conseguenza, come è potuto accadere che, per la Presidenza della Repubblica, venisse indicato il nome di Elisabetta Belloni, direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza? Preciso che, di Belloni, sono amico, oltre che estimatore, ma il solo fatto di formulare quella proposta - troppo blandamente contestata anche a sinistra - rappresenta una sgrammaticatura istituzionale e una espressione di analfabetismo democratico. Non troppo dissimile, per altro, da ciò che portò l’allora incaricato Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, a proporre un pubblico ministero (Nicola Gratteri) per il dicastero della Giustizia. Per capirci: non sarebbe forse singolare indicare come Presidente del Consiglio il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, fosse anche il più onest’uomo della terra? Tutto ciò la dice lunga sulla confusione che domina il discorso pubblico in materia di garantismo. Basti pensare che ancora Fratelli d’Italia, nell’ultimo scrutinio per il Quirinale, ha indirizzato i propri voti sull’ex magistrato Carlo Nordio che rappresenta, come ha scritto Alessandro Barbano sull’Huffington Post, “l’opposto della logica securitaria e marcatamente giustizialista” del partito di Meloni. La quale, nelle scorse settimane, è arrivata a sollecitare la modifica dell’art. 27 della Costituzione, dove si afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, sulla base del seguente sofisticato ragionamento: “A me che tu hai avuto una buona condotta in carcere o che hai partecipato a programmi di rieducazione non frega niente”. D’altra parte Salvini, in una delle sue mirabolanti trasfigurazioni, ha dichiarato di voler “federare liberali, garantisti e cattolici”. Avete letto bene: i garantisti vengono evocati dal segretario di un partito che meno garantista di così non si può. Quello, per andare alle origini, del cappio mostrato in aula, nel marzo del ‘93, dal deputato Luca Leoni Orsenigo e quello del “chiudere la cella e buttare via la chiave” (del Salvini di ieri, oggi e presumibilmente domani). In ogni caso, lo sappiamo, acquisire una cultura garantista è un’impresa ardua, a destra, a sinistra e al centro. E la vicenda dei due fucilieri italiani costituisce un test particolarmente eloquente in proposito. Succederà mai che, per dirne una, a “portare le arance” all’ex sindaco detenuto, siano i consiglieri dell’opposizione? Messico. Il cimitero dei giornalisti dove non c’è mai un colpevole di Attilio Bolzoni Il Domani, 7 febbraio 2022 Negli ultimi trenta giorni uccisi altri 4 cronisti. Sono 147 quelli assassinati negli ultimi vent’anni. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam (66), durante tutta la Seconda guerra mondiale (68) o in Iraq (71). Stragi di mafia e stragi di stato che si confondono. Le inchieste sulle uccisioni di giornalisti in Messico si aprono e si chiudono velocemente, non ci sono mai testimoni, c’è un’inerzia degli apparati investigativi che sembra favorita dall’alto. Dopo ogni delitto c’è sempre qualcuno che tende a banalizzare, a sporcare la vittima, a depistare. L’ha fatto recentemente anche il portavoce del presidente Jesus Ramirez, prima il solenne proclama “che gli assassini verranno assicurati alla giustizia” e poi un velenoso tweet. Il direttore del giornale online Monitor Armando Linares, dopo l’omicidio dell’editorialista Roberto Toledo, ha commentato: “Sappiamo da dove viene tutto questo”. Non c’è mai un colpevole per un giornalista che muore ammazzato in Messico. Mai. Sicari e mandanti restano sempre impuniti, ignoti. Li sequestrano di giorno per strada, di sera quando escono dalle redazioni, li abbattono con la pistola, li bruciano. O li fanno a pezzi a colpi d’ascia, con una sega elettrica, poi li avvolgono in teli di plastica e li sotterrano in fosse comuni. Cadaveri che non si trovano più. Negli ultimi vent’anni ne hanno uccisi 147. Più di quanti ne siano caduti in Vietnam (66), durante tutta la Seconda guerra mondiale (68) o in Iraq (71). Il Messico è il cimitero dei giornalisti. Terra di mattanza per chi scrive o chi denuncia, stragi di mafia e stragi di stato che si confondono, narcotrafficanti e governatori corrotti, la vita dei reporteros vale meno di niente. In questo 2022 sono già quattro i colleghi uccisi. Nella prima settimana di gennaio il direttore del sito Inforegio José Luis Gamboa Arenas, accoltellato al porto di Veracruz. Nella seconda settimana di gennaio Lourdes Maldonado Lopez di Televisa, a Tijuana. Nella terza settimana di gennaio Margarito Martinez, fotografo, anche lui a Tijuana. L’ultimo è stato l’editorialista del giornale online Monitor Roberto Toledo, a Zitacuaro nel Michoacan. Nel 2021 se ne sono andati per mano violenta altri nove cronisti, nel 2020 otto. Tutte esecuzioni annunciate. Pedinati, minacciati, alcuni di loro avevano chiesto protezione direttamente al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador. Mai ricevuta una risposta. Sono soli i giornalisti messicani, carne da macello. Inchieste chiuse velocemente - Le inchieste sulle loro uccisioni si aprono e si chiudono velocemente, non ci sono mai testimoni, c’è un’inerzia degli apparati investigativi che sembra favorita dall’alto. Come se fosse una disposizione, una direttiva da eseguire. Dopo ogni delitto c’è sempre qualcuno che tende a banalizzare, a sporcare la vittima, a depistare. L’ha fatto anche il portavoce del presidente, Jesus Ramirez. Prima il solenne proclama “che gli assassini verranno assicurati alla giustizia” e poi un suo tweet per precisare velenosamente che Roberto Toledo “non era neanche un giornalista”. Da ventidue anni commentava sul portale Monitor le ruberie e le scorrerie degli amministratori di Morelia, la capitale del Michoacan. Il suo direttore Armando Linares si è limitato a commentare: “Sappiamo da dove viene tutto questo”. Tutti sanno tutto di tutti ma i giornalisti messicani continuano a morire. Otto anni fa, nel 2014, con il regista Massimo Cappello abbiamo girato il Messico per ricostruire la cronaca di un massacro, un reportage su carta e un documentario. Al tempo i colleghi morti erano poco più di ottanta, nella conta delle vittime non abbiamo inserito gli editori e gli stampatori di giornali, anche loro nel mirino dei killer. Silencio, il titolo del documentario. Silencio perché nessuno deve parlare, nessuno deve ascoltare dalla Baja California sino al Belize. Anche una piccola verità è una condanna in quello sterminato paese che sopravvive nel terrore. Le piste “passionali” - Le loro storie sono tutte uguali, cambia solo il luogo, la data. Armando Rodríguez Carreón, cronista di nera per El Diario de Juárez, aveva pubblicato un articolo su un nipote del procuratore locale che aveva frequentazioni con uno dei capi di un cartello della droga. Prima qualche avvertimento, poi un sicario è entrato una sera dentro il garage di casa sua e gli ha sparato in mezzo agli occhi davanti alla figlia di otto anni. L’inchiesta sul suo omicidio era seguita da un agente federale che appena si è avvicinato ai mandanti è stato ucciso. Lo ha sostituito un altro agente federale e, dopo un mese, è stato assassinato anche lui. Mandanti sconosciuti, altri tre omicidi finiti in archivio. Siamo andati a raccontare la vita e la morte di Regina Martinez, corrispondente del settimanale Proceso da Xalapa, la capitale dello stato di Veracruz. La notte del 28 aprile del 2012 l’hanno trovata morta nella sua casa, torturata e strangolata. Regina, negli ultimi suoi articoli, aveva citato nove poliziotti coinvolti nel commercio di stupefacenti. Le indagini hanno preso la consueta piega messicana - ben conosciuta anche da noi in Sicilia o in Calabria - della pista privata. Prima hanno detto che Regina era stata uccisa casualmente durante una rapina, poi “per motivi passionali”. Sesso e corna. Il Proceso ha mandato a Veracruz uno dei suoi inviati migliori, Jorge Carrasco, ma dopo qualche settimana l’ha richiamato in redazione. Gli hanno fatto sapere che avrebbero ucciso le sue due figlie se avesse continuato a fare domande su Regina. Mandante il capo della polizia - A Città del Messico abbiamo incontrato una delle giornaliste più famose, Anabel Hernandez, autrice del best seller La terra dei Narcos, inchiesta sui signori della droga, in Italia è stato pubblicato nel 2014 da Mondadori. Per sfuggire alle ritorsioni Anabel ha vissuto negli Stati Uniti per lungo tempo, adesso è in Europa. Un paio di mesi dopo l’uscita del suo libro è diventata ufficiale la notizia che Genaro Garcia Luna, il capo della polizia messicana, aveva ingaggiato alcuni agenti per assassinarla. Il suo racconto sulla mattanza dei giornalisti: “Il sessanta per cento delle aggressioni in Messico avvengono per volere delle autorità. Non provengono dai cartelli della droga, non provengono dai trafficanti di persone, non provengono dai piccoli spacciatori. Provengono dalle autorità federali, da poliziotti o da militari, o dai governatori, dalle polizie statali e perfino dai sindaci”. E aggiungeva: “Proprio perché sono una giornalista, io ho più paura delle autorità, degli assassini di giornalisti con l’uniforme della polizia che dei sicari che sono per la strada”. Dall’inferno di Città del Messico siamo scesi fino alle spiagge bianche della Riviera Maya, dove tutto deve sembrare quieto, tranquillo, divertente. E dove i cartelli della droga hanno come soci camorristi napoletani e mafiosi calabresi che riciclano i proventi della cocaina nel lusso di Cancun o a Playa del Carmen, una sorta di Little Italy dove i nostri connazionali sono proprietari di residence, hotel, terreni. Nessuno indaga. Ma lì al sud, per quanto può valere nello scenario messicano, i giornalisti stanno più al riparo. Più affari e meno sangue. Con Cappello non avevamo ancora finito di montare il documentario e nello stato di Sinaloa hanno ucciso José Antonio Gamboa Uria, il direttore della Nueva Prensa. Non sapevamo ancora quando il film sarebbe stato visto in Italia e a Città del Messico hanno ammazzato il fotoreporter Ruben Espinosa e a Veracruz il cronista di Televisa Juan Heriberto Santos Cabrera. È un elenco che bisogna sempre aggiornare, non si chiude mai. I giornalisti messicani sono cadaveres andantes, cadaveri che camminano. Nell’inferno del Tamualipas - Il viaggio in Messico è cominciato ed è finito sopra Monterrey, sulle strade deserte del Tamaulipas dove ci ha accompagnato Diego Enrique Osorno, un giovane talento del nuevo periodismo latino-americano. Ha scritto dalla “frontera chica”, un territorio che comprende cinque municipalità confinanti a sud con il Nuovo Leon e a nord con il Texas. Per i giornalisti messicani è la zona più infame di tutte. Ci sono interi paesi che si sono svuotati, abbandonati dalla popolazione intimorita, Matamoros, Nueva Laredo, San Fernando. C’è Ciudad Mier che nel 1990 faceva seimila abitanti e oggi ne ha poco più di novecento. Ogni attività e ogni spazio è in mano ai poliziotti e ai militari complici dei trafficanti. È qui che lavora Diego Osorno. La sua casa, un pian terreno nel quartiere antico di Monterrey, ha sette vie di fuga. Intorno fanno buona guardia lo zio Gerónimo Gonzáles Garza e una mezza dozzina di suoi amici, tutti sordomuti. Una volta erano anche loro mojados, cioè “bagnati”, clandestini che entravano negli Stati Uniti attraversando a nuoto quel fiume che dalla parte americana si chiama Rio Grande e da quella messicana Rio Bravo. Lo proteggono loro Diego, i compagni dello zio. L’amico Osorno un giorno ci ha portato a vedere le ville sfarzose dei sindaci messicani, quelle costruite con i soldi rubati. Di mattina quei sindaci sono in Messico a fare i sindaci, al tramonto ritornano nelle loro residenze negli Stati Uniti. Sono a pochi chilometri, al di là del fiume, nella contea di Starr. In una piccola città hanno investito il frutto di anni e anni di corruzione. Una piccola città del Texas che si chiama Roma. Sudan. I generali contro Amira, “la donna con i pantaloni” di Michele Farina Corriere della Sera, 7 febbraio 2022 La femminista rapita dalla polizia segreta e riapparsa in carcere dopo dieci giorni. Nessuna accusa. Amira Osman conosce i suoi aguzzini: venti anni fa l’avevano arrestata perché indossava i pantaloni, dieci anni fa l’hanno processata perché girava senza velo, dieci notti fa sono andati a prenderla con i kalashnikov spianati nella casa della sorella Amani: una trentina di uomini del famigerato Gis, la polizia segreta sudanese, hanno portato via una donna sulla sedia a rotelle senza permetterle di portare con sé le medicine (è affetta da una semiparalisi in seguito a un incidente). Come ai tempi del dittatore Al Bashir, quando centinaia di oppositori erano tenuti prigionieri e torturati nelle “prigioni fantasma”. Finalmente ieri si sono avute sue notizie, dopo le pressioni della famiglia e una protesta davanti alla sede dell’Onu a Khartoum. Amira è nel carcere di Omdurman. Sollievo (perché è in vita) e indignazione per il suo rapimento: sono almeno una settantina le persone come lei, prelevate dagli sgherri mascherati della giunta militare che il 25 ottobre si è ripresa per intero il potere in Sudan, ponendo fine al percorso di governo congiunto con la società civile che sarebbe dovuto sfociare l’anno prossimo in elezioni democratiche. Osman, ingegnere civile, è figura storica della resistenza sudanese e fondatrice dell’associazione “No all’oppressione delle donne”, a lungo perseguitata per le sfide femministe e i suoi “abiti indecenti” sotto il vecchio regime. Ora gli stessi generali che sostenevano Al Bashir (prima di farlo arrestare nel 2019 sull’onda delle proteste popolari) hanno ripreso i vecchi metodi. Arresti senza mandato, desaparecidos. E le donne, ancora in prima fila nelle proteste contro il golpe, pagano un prezzo altissimo al loro coraggio. Così l’attivista Eman Mirghani nelle scorse settimane è scomparsa dal ministero della Salute dove lavorava, alla luce del giorno, attirata all’esterno dalla telefonata di una finta collega bisognosa di aiuto. La scrittrice Zeinab Mohammed Salih sulla Bbc condanna i misfatti della polizia segreta di cui Osman è l’ultima vittima. Sollievo e indignazione: Amira è “riaffiorata” ieri nel carcere di Omdurman, e solo dopo la denuncia dei familiari. Nessuna accusa, ma la motivazione è chiara. Osman ha tuonato contro le sistematiche violenze delle forze di sicurezza contro le donne durante le manifestazioni: botte, offese e stupri.