Va a processo la tortura, ora si adegui il Dap di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 6 febbraio 2022 A breve sarà nominato un nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sarebbe importante che fosse una personalità (non necessariamente un magistrato e non necessariamente uomo) che intervenga a gamba tesa rispetto alle responsabilità di sistema e alle corporazioni che hanno consentito quanto accaduto a Torino o a Santa Maria Capua Vetere. Antigone è stata ammessa parte civile nei procedimenti penali per i fatti di tortura avvenuti nelle carceri di Torino e Santa Maria Capua Vetere. Saranno parte del processo anche il garante nazionale e quelli territoriali. Il Ministero della Giustizia è chiamato a risponderne civilmente. Dal 2017, anno di approvazione della legge, possiamo citare la parola tortura, oltre che nei convegni, anche nei tribunali. E la stanno usando anche pubblici ministeri e giudici. Noi non ci rallegriamo per la decisione di essere parte in procedimenti penali per tortura. Ben preferiremmo osservare un sistema penitenziario che non avesse involuzioni criminali. È però nostro dovere morale e giuridico lottare per la giustizia, laddove ci giungano segnalazioni di violenze brutali, tortura e maltrattamenti. La lotta contro la tortura è anche lotta per la legalità costituzionale e internazionale. Di questo devono essere consapevoli tutti gli attori del sistema: poliziotti, sindacati, direttori, dirigenti a qualunque livello, ma anche politici di ogni schieramento. Non diteci che la tortura è questione di mele marce. Estrapolo un paio delle tantissime accuse presenti negli atti processuali che riguardano ben oltre un centinaio di agenti di Polizia penitenziaria. Carcere di Torino, 2017: “Lo portavano in una stanza, lo costringevano a spogliarsi integralmente e, quindi, indossando i guanti, lo colpivano con violenti schiaffi e pugni al capo, all’addome e al volto”. Carcere di Santa Maria Capua Vetere, 2020: “Lo aggredivano con schiaffi al volto, pugni e calci, gli sputavano addosso e lo insultavano, con espressioni del tipo sei un napoletano di merda”. Un carcere del nord, uno del sud, dinamiche interne differenti, in un caso sotto-cultura penitenziaria in un altro vendetta machista, assenza di voci contrarie e di mele sane, fatti avvenuti prima e durante la pandemia. Con ciò nessuno vuole dire che questa è la prassi penitenziaria. Non lo è. Affermarlo significherebbe non tenere conto della complessità e della qualità di tantissimi operatori penitenziari che si affannano a garantire una pena legale e dignitosa. Ma è indubbio che la violenza, anche nelle sue forme più gravi, non è qualcosa di cui sorprendersi. Chi si sorprende fa il gioco dell’impunità. Mentre partono due processi per tortura ricordiamo che il Presidente Mattarella ha ricordato il dramma delle carceri nel suo discorso di inizio mandato, che la ministra Cartabia insieme al premier Draghi sono andati a Santa Maria Capua Vetere per affermare il loro “nunca mas” alla tortura, che sono a disposizione della Ministra le significative proposte di innovazione del regolamento penitenziario della Commissione Ruotolo. A breve sarà nominato un nuovo capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Sarebbe importante che fosse una personalità (non necessariamente un magistrato e non necessariamente uomo) che intervenga a gamba tesa rispetto alle responsabilità di sistema e alle corporazioni che hanno consentito quanto accaduto a Torino o a Santa Maria Capua Vetere. Ci vuole chi lavori a costruire una comune visione costituzionale della pena dove non ci sia più spazio per chi pratica la tortura, per chi la legittima e per chi la copre. *Presidente di Antigone Mille innocenti in carcere ogni anno, ma i giudici non pagano mai di Paolo Ferrari Libero, 6 febbraio 2022 “Ci aspettiamo che all’interno della riforma del Consiglio superiore della magistratura (la discussione alla Camera inizierà la prossima settimana, ndr) sia finalmente introdotta la responsabilità dei magistrati. Oggi oltre il 99% delle toghe ha una valutazione positiva, un dato che stride con le migliaia di persone che ogni anno, da innocenti, finiscono in carcere”. A dirlo sono i giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di “Errorigiudiziari.com”, l’associazione che da circa dieci anni cerca di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’ingiusta detenzione. “L’intervento del capo dello Stato”, proseguono, “sul punto ci trova assolutamente d’accordo ma ora la palla passa al legislatore: si può applaudire Mattarella cento volte ma se poi non lavori come devi tutto è destinato a rimare solo sulla carta”. Lattanzi e Maimone sul loro sito pubblicano una statistica degli errori giudiziari e delle somme erogate dal ministero dell’Economia a titolo di risarcimento. Dagli ultimi dati disponibili contenuti nella relazione 2017-2019 della Corte dei Conti emerge un progressivo aumento della spesa pubblica per i casi di errori giudiziari per ingiusta detenzione, passata da 38 a 48 milioni di euro. “Ufficialmente” sono mille l’anno i casi di persone arrestate ingiustamente, ma il vero numero è dieci volte di più. A spiegarlo è l’ex vice ministro della Giustizia Enrico Costa (Azione). “Il 90% delle ingiuste detenzioni”, ricorda Costa, non viene risarcito dallo Stato sulla base del presupposto che l’arrestato ha “contribuito” colposamente all’errore del giudice, avvalendosi, ad esempio, della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio. Una facoltà prevista del codice”. Per poter fare domanda di risarcimento, poi, serve una sentenza definitiva di assoluzione. Se il reato si è prescritto prima, come capita spessissimo, il periodo trascorso in custodia cautelare è destinato a finire a tarallucci e vino. La normativa, con questi paletti stringenti, è fatta apposta per scoraggiare la richiesta dei risarcimenti ed evitare spese aggiuntive per lo Stato. Ogni giorno dietro le sbarre viene risarcito con 250 euro. Per fare un esempio, Raffaele Sollecito, assolto dall’accusa di omicidio di Meredith, non ha mai preso un euro per i 4 anni trascorsi agli arresti. Fino al 2017, inoltre, non esisteva una norma che obbligasse l’esecutivo a indicare il numero di persone sottoposte al carcere preventivo, quindi senza alcuna sentenza di condanna. Il legislatore, solo con la riforma delle misure cautelari del 2017, ha previsto che nella relazione che il governo deve presentare annualmente al Parlamento sull’applicazione delle misure cautelari personali, debba dare conto dei dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione pronunciate nell’anno precedente, “con specificazione delle ragioni di accoglimento delle domande e dell’entità delle riparazioni, nonché i dati relativi al numero di procedimenti disciplinari iniziati nei riguardi dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, con indicazione dell’esito, ove conclusi”. I dati, comunque, ad oggi “sono incompleti”, prosegue ancora Costa. E quanti sono, infine, i magistrati chiamati a risarcire i propri errori? Dal 2010 al 2021 ci sono state solo otto condanne, con un solo magistrato chiamato a mettere mano al portafoglio. Cifra? 10mila euro. Il capogruppo 5S in Commissione Giustizia: “Sull’ergastolo ostativo non si può più aspettare” di Carmine Gazzanni La Notizia, 6 febbraio 2022 Lotta alla mafia e riforma del Csm. Sulla giustizia il M5S avvisa Draghi. Il tema della giustizia torna prepotentemente al centro dell’agenda politica, specie dopo il discorso di insediamento per il nuovo mandato di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica: “Nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia. Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura, l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini. È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della Magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria”, ha detto il presidente dinanzi ai parlamentari. “Ha indicato la riforma del Consiglio superiore della magistratura - spiega a La Notizia Eugenio Saitta, capogruppo del Movimento cinque stelle in Commissione Giustizia alla Camera - ma anche fatto un passaggio molto significativo sulla necessità che il nostro Paese sia libero dalle mafie e si sottragga al ricatto della criminalità”. A riguardo quale dev’essere la priorità dell’azione legislativa? Su questo secondo punto il Parlamento deve assolutamente approvare entro i prossimi mesi la nuova disciplina dell’ergastolo ostativo. La Corte Costituzionale ha dato tempo fino a maggio. Dobbiamo intervenire subito se vogliamo evitare che pericolosi boss tornino in libertà. E la nostra proposta di legge, poi confluita in un testo più ampio, affronta bene le problematiche sollevate dalla Consulta. In merito al Consiglio Superiore della Magistratura, c’è una riforma approvata da più di un anno dal Consiglio dei ministri. Perché secondo lei si è tutto fermato? L’attività dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è sempre stata molto intensa proprio per arrivare a elaborare una riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che fosse in grado di coniugare tutte le esigenze. Il Movimento cosa propone? Noi poniamo in cima la necessità di porre fine una volta per tutte alle cosiddette ‘porte girevoli’ fra politica e magistratura e alle derive del correntismo. Solo in questo modo sarà possibile realizzare una reale trasparenza negli incarichi. A che punto siamo a riguardo? Finora in commissione di Montecitorio abbiamo lavorato svolgendo tutte le audizioni previste, presentando gli emendamenti e rapportandoci con il Ministero della Giustizia. Ora attendiamo che la ministra ci presenti i suoi emendamenti. Nel mese di agosto del 2020 la riforma presentata dall’ex Guardasigilli Bonafede era per noi una soluzione equilibrata che teneva conto di diversi pareri autorevoli. Poi c’è stata la caduta del Governo Conte II e l’Esecutivo attuale vive di equilibri diversi. Crede che lo stop alle cosiddette “porte girevoli” tra politica e magistratura, punto fondamentale per il Movimento, possa aver infastidito qualcuno? Non lo sappiamo e non ci interessa. Indipendenza e autonomia della magistratura sono principi sacrosanti. Sulle ‘porte girevoli’ non indietreggiamo di un solo centimetro. Uno dei temi divisivi all’interno della maggioranza resta anche la riforma del processo penale e lo stop alla prescrizione. Cosa accadrà quest’anno? Mi permetta di chiarire un punto. Prego... Come Movimento 5 Stelle siamo intervenuti per modificare gli effetti della cosiddetta riforma Cartabia sottraendo dalla tagliola dell’improcedibilità i processi che hanno ad oggetto reati mafiosi e aggravati da metodo mafioso. C’è da vigilare affinché anche processi che hanno ad oggetto altri gravi reati, come quelli ambientali, non si chiudano con una dichiarazione di improcedibilità. Va poi assolutamente sottolineata l’importanza che gli stanziamenti e le assunzioni previste dai piani dell’ex ministro Bonafede vadano in porto. Solo così il sistema-giustizia potrà uscirne rafforzato. Finora è soddisfatto dell’operato della ministra Cartabia? Come accennavo prima, all’interno della maggioranza sui temi della giustizia ci sono sensibilità lontane, a volte opposte. La ministra ne è consapevole e sta cercando di muoversi con equilibrio. La giustizia è imputata. Chi la salva davvero? di David Allegranti La Nazione, 6 febbraio 2022 Si sono spellati le mani, i parlamentari, al giuramento di Sergio Mattarella. Mancava solo qualche coro. E dire che il presidente della Repubblica, appena rieletto, è stato duro quanto se non più di Giorgio Napolitano nel 2013. Non nei toni, ma nella sostanza. Soprattutto su un tema macroscopico come quello della giustizia: “Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività”, ha detto Mattarella. “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all’ordine giudiziario”. Insomma, ha aggiunto Mattarella, “occorre per questo che venga recuperato un profondo rigore. In sede di Consiglio superiore ho sottolineato, a suo tempo, che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la doverosa certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone”. Parole più limpide e più applaudite non avrebbero potuto essere pronunciate (al contrario di quelle sul sovraffollamento carcerario e il reinserimento sociale dei detenuti, altrettanto nette ma accolte freddamente dal pubblico parlamentare). C’è però un problema non secondario: chi deve farle, le riforme? Il Parlamento o Topo Gigio? Ha dunque ragione il deputato di Azione Enrico Costa, che ricorda poche ma amare verità: “In questa legislatura sono state depositate a Camera e Senato 1110 proposte o disegni di legge in materia di giustizia. Una gigantesca finzione, perché poi ci si concentra quasi esclusivamente sulle iniziative del Governo. Le proposte parlamentari restano nel cassetto”. Mattarella ha dunque sollecitato nuovamente la riforma del Csm, “ma in Commissione Giustizia, nonostante le mie proteste, se ne riparlerà solo il 16 febbraio. La priorità, infatti, è stata data alla legge sui reati contro il patrimonio culturale e all’ergastolo ostativo”. C’è dunque da aspettarsi che dopo gli applausi al massimo si arrivi a una riforma del Csm timida e non efficace. Il rischio è concreto, così come è concreto che niente venga fatto sul fronte delle ingiuste detenzioni in Italia: “Trentamila innocenti in carcere dal ‘92 ad oggi. Quasi 900 milioni per indennizzi, che al 77 per cento di innocenti sono negati con pretesti incredibili”, ricorda Costa. E chi sbaglia non paga, anzi continua a fare carriera. La giustizia del cambiamento: risorse e infrastrutture per abbattere i tempi dei processi di Giuliano Foschini La Repubblica, 6 febbraio 2022 “Sono sicura che morirò prima di vedere la fine di questo processo senza poter sapere come e da chi è stato ucciso mio figlio. E invece vorrei poter andare sulla tomba di Roberto per dirgli che la giustizia terrena ha fatto il suo corso”. Il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, è voluta partire da qui - da una lettera ricevuta da una mamma che aveva perso il figlio in un incidente sul lavoro - nella sua relazione al Parlamento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il 19 gennaio scorso. E non si può partire da qui - dai Roberto e da quelle decine di migliaia di cittadini senza giustizia, perché i tempi della verità sono troppo lunghi, spesso irraggiungibili - per comprendere il senso parole del presidente Sergio Mattarella e le richieste che la Ue ci ha posto in sede di Pnrr. La temperatura della nostra democrazia è data dallo stato di salute della giustizia. E lo stato di salute della giustizia è, inevitabilmente, dato dalla sua credibilità. E dalla sua efficienza. Qualche dato: secondo una recente indagine dell’Unione europea l’Italia era ultima nell’Unione per ottenere il terzo grado di giudizio in un processo civile (1302 giorni, 791 per il secondo e 531 per il primo). In questo momento, dice l’ultima ricognizione del ministero della Giustizia, ci sono un milione e 588mila procedimenti penali pendenti, con situazioni disastrose in alcune Corti di Appello con tempi ancora più lunghi del civile: quasi mille e seicento giorni dalle indagini preliminari alla sentenza di Cassazione. Davanti a questi dati l’Unione europea ha posto paletti: ridurre del 40 per cento il tempo medio di durata dei procedimenti del civile; e del 25 per il penale entro un arco temporale di cinque anni. Una tempistica che il Governo è convinto si possa rispettare ma sulla quale in più occasioni l’Anm ha mostrato perplessità. Le risorse non mancano. Sono stati messi sul tavolo da Bruxelles 2,827 miliardi che verranno destinati per tre linee di intervento: l’ufficio per il processo, la digitalizzazione e l’edilizia giudiziaria. Non è burocrazia. Ma, sulla carta, si tratta di interventi cruciali e potenzialmente decisivi: nel giro di un mese verranno assunti 8.171 donne e uomini che andranno a lavorare nell’”ufficio del processo”, con l’obiettivo di velocizzare i tempi.E ancora cancellieri (2.700) e magistrati. Il punto è che non bastano. Perché buchi di personale sono troppi ampi e lo diventeranno ancora di più nei prossimi anni (il Covid ha rallentato i concorsi dei magistrati e la riforma sui pensionamento Renzi e la quota 100 hanno velocizzato le uscite). E perché la situazione di partenza è disastrosa: sull’informatizzazione si è poco più che all’anno zero e in tema di edilizia ci sono foto che raccontano tutto quello che c’è da dire. Ricorderete, per esempio, le aule di giustizia nelle tende della Protezione civile a Bari perché il palazzo stava crollando. Che fare allora? Per prima cosa, non pensare al doping come ricetta. Scorciatoie come quella sull’improcedibilità passati due o tre anni dal primo grado scelta per il processo penale, come hanno spiegato bene molti procuratori generali nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario, non possono essere la soluzione. Ma al massimo un’altra patologia: togliere giustizia comunque non dà giustizia. Non può essere nemmeno una risposta aumentare numero o carico di giudici di pace. Servono invece, come il ministro Cartabia ha promesso, investimenti sulle risorse umane. Sulla modernizzazione. E sulle infrastrutture. Serve organizzazione e controllo. Formazione e risorse. Senza però mai dimenticare che stiamo parlando di giustizia: un magistrato non è un burocrate. Un fascicolo non è una pratica. Ma un insieme complesso e delicato di diritti da tutelare. Governo e Camere fermi sulla giustizia: verso il referendum di Massimo Malpica Il Giornale, 6 febbraio 2022 Mancano solo nove giorni alla decisione della Consulta sui quesiti proposti da Carroccio e Radicali. E non ci sono più i tempi per iniziative legislative tese a smontarli. La riforma più urgente è quella sulle regole di voto per il Csm. Si scrive “riforme”, si legge “referendum”. È stato buon profeta, a marzo scorso, Giuseppe Rossodivita, responsabile della commissione Giustizia del Partito radicale, spiegando su questo quotidiano che “la giustizia in Italia si può riformare solo a colpi di referendum”. E in effetti, 11 mesi dopo, i sei quesiti referendari promossi da Radicali e Lega sono sbarcati - insieme a quelli su eutanasia e cannabis - alla Consulta, e aspettano che tra nove giorni la Corte si pronunci sulla loro ammissibilità: se arriverà un sì, si potrebbe andare al voto già in primavera. Nello stesso periodo, invece, la politica ha nicchiato e giocato di rimandi. Così le ottimistiche previsioni espresse - tra gli altri - dalla responsabile giustizia del Pd Anna Rossomando (“I tempi del referendum sono lunghi, le riforme arriveranno prima”, aveva pronosticato a fine maggio) sono andate in fumo. E l’ipotesi che la volontà delle Camere anticipi e “disarmi” la democrazia diretta dei sei quesiti appare, a questo punto, remota. Anche perché, ricorda al Giornale una fonte del governo, “la riforma ha una sola norma precettiva, quella sui criteri di elezione dei componenti del Csm, le altre sono tutte leggi deleghe che poi devono essere esercitate con i decreti, e sembra difficile che possano smontare i quesiti referendari”. La strada, per Palazzo Chigi, è dunque quella che la Guardasigilli Marta Cartabia aveva già indicato nel messaggio inviato a ottobre scorso a un incontro dell’Anm. Ossia che “i due percorsi” - quello parlamentare e quello referendario - “procedono paralleli ciascuno lungo binari destinati a non incrociarsi”, e che i quesiti referendari riguardano aspetti certo “non secondari” ma comunque “specifici”, non sovrapponendosi ai “più sistematici progetti di riforma su cui anche il governo si accinge a intervenire”. L’urgenza è tutta per la riforma elettorale del Csm, da approvare entro la primavera per scongiurare che il Csm vada al voto con le vecchie regole, nonostante gli scandali e le storture e le promesse di intervento della politica. E se tra Palazzo Chigi e Parlamento i tempi sono quelli che sono, stante anche la delicatezza e la sensibilità di un argomento che divide le diverse anime della maggioranza, la partita adesso si gioca tutta alla Corte costituzionale. Lì punta anche il leader leghista Matteo Salvini, che dopo le difficoltà incontrare come kingmaker per l’elezione del capo dello Stato cerca puntelli per la sua leadership con il referendum per cui lui e la Lega per primi si sono schierati a fianco dei Radicali. E infatti ieri, in collegamento col convegno “Il futuro della destra in Europa”, il leader del Carroccio ha definito i sei quesiti “un banco di prova per il cosiddetto centrodestra”. “Cosiddetto”, ha rivendicato Salvini, “perché alla prova dei fatti sono stato uno dei pochi a credere all’unità della coalizione, che si è sciolta come neve al sole”. E banco di prova, ha proseguito, “perché una riforma della giustizia che ci porta sul modello occidentale con la responsabilità civile diretta dei magistrati, con la separazione delle carriere, la riforma del Csm” metterà in chiaro, all’interno della coalizione uscita spaccata dal voto per il Colle, “chi avrà un atteggiamento liberale, moderno, conservatore europeista, atlantista e chi invece giocherà per la conservazione, giocherà di rimessa”. Sulla carta, nel centrodestra sono tutti d’accordo sui referendum, con qualche perplessità di Fdi su due quesiti (abolizione della legge Severino e limiti agli abusi della custodia cautelare), ma Salvini rivendica il suo ruolo di “motore”: “Sui referendum - ha concluso - io ci lavoro, e spero che nel centrodestra non ci sia qualcuno che si smarchi, perché le firme qualcuno le ha raccolte e qualcun altro no: se non si recupera uno spirito di squadra e ognuno pensa al suo orticello, non si vince”. I magistrati: non è colpa nostra se la riforma del Csm ritarda di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 febbraio 2022 Giustizia. Il presidente Anm Santalucia dopo l’affondo di Mattarella: il prossimo Consiglio rischia di essere eletto di nuovo con le vecchie regole. Polemica interna alle toghe sul sorteggio come metodo di selezione. Bocciato da un referendum che però non tutte le componenti rispetteranno. “L’atteggiamento della magistratura verso le riforme è tutt’altro che di chiusura e intralcio. Sono i magistrati a chiedere che il sistema venga efficacemente riformato e sostenuto da risorse umane e materiali”. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia saluta e ringrazia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “guida sicura e lungimirante” che giovedì ha dedicato la parte più lunga del suo discorso ai disastri della giustizia. Ma aprendo un difficile comitato direttivo centrale, il parlamentino delle toghe, ci tiene a smentire una lettura del discorso del capo dello Stato come semplice strigliata ai magistrati. “Nessuno dentro l’Anm ha brigato e briga per il mantenimento dello status quo”, dice Santalucia, e sposta la responsabilità dello stallo sulla riforma più attesa, quella del Csm, sulla maggioranza e sul governo. “Cosa possiamo fare più che chiedere, sollecitare, insistere?”. Al punto in cui siamo, azzarda il presidente dell’Anm, potremmo già essere “fuori tempo massimo” ed “è forte e fondata la preoccupazione che la riforma non potrà essere varata in tempo utile a consentire che la prossima composizione dell’organo di autogoverno sia formata da un meccanismo elettorale diverso dall’attuale”. Per smentirlo, il parlamento dovrebbe approvare in soli due mesi, camera e senato, la legge delega sull’ordinamento giudiziario (che contiene norme di immediata applicazione sul Csm), il che vuol dire senza poterla discutere e a colpi di fiducia. Oppure si dovrebbero far slittare le elezioni per il prossimo Consiglio (previste a luglio, ma il nuovo quadriennio parte a settembre). Intanto però all’allarme di Santalucia, rispondono le certezze del presidente della commissione giustizia della camera, quella dove la riforma è impantanata. “I tempi ci sono”, assicura Perantoni (M5S), “per quanto ci riguarda inizieremo a votare gli emendamenti il 16 febbraio”. Sempre che, si intende, nei prossimi dieci giorni il governo avrà finalmente dato il via libera agli emendamenti che costituiscono l’essenza della riforma, quelli che la ministra della giustizia ha portato a palazzo Chigi da settimane. Anche in quel caso, però, non è detto che il provvedimento abbia la strada spianata, visto che le differenze nella maggioranza sono tante. L’annunciato stop alle cosiddette “porte girevoli” - e cioè alla possibilità che i magistrati tornino nei ruoli al termine di un mandato politico - incontrerebbe se fosse totale e definitivo la contrarietà di un pezzo importante della maggioranza, a cominciare dal Pd. Altro esempio, la capogruppo di Forza Italia al senato Anna Maria Bernini ieri nello spingere sull’urgenza della riforma ha rilanciato “il sorteggio temperato, la soluzione migliore contro la degenerazione correntizia”. Anche questo è un tema rovente. Non solo nella maggioranza, ma anche tra le toghe che la settimana scorsa hanno tenuto un referendum consultivo voluto dalle due componenti minoritarie: i “davighiani” di Autonomia e indipendenza e la “corrente non corrente” di Articolo 101. Hanno prevalso i no al sorteggio e alla legge elettorale maggioritaria, ma soprattutto ha trionfato il disinteresse. Ha votato appena il 46% degli iscritti all’Anm (di questi il 58% ha detto no a sorteggio) ma il paradosso è che proprio i promotori del referendum che avrebbe dovuto segnare la rivoluzione adesso scaricano sul vertice dell’Anm, che lo ha subito, il fallimento. Il referendum sarebbe la prova della disaffezione verso l’Associazione e (visto che i sì non sono stati pochissimi) dimostrerebbe che il sorteggio è ritenuto un’opzione legittima. Tanto che per forzare la mano l’associazione Altra proposta (alla quale partecipano i magistrati di Articolo 101) ha organizzato per martedì prossimo nella sede dell’Anm in Cassazione un sorteggio preliminare, con il quale selezionare i candidati da presentare alle primarie per il Csm. Con la conseguente diffida da parte delle toghe contrarie al sorteggio che non vogliono essere incluse negli elenchi. Giustizia, le toghe fanno quadrato: “Non siamo noi a frenare le riforme” di Giovanni Rossi quotidiano.net, 6 febbraio 2022 L’Associazione nazionale magistrati si difende dopo le parole di Mattarella: la colpa è della politica. Nel mirino soprattutto la svolta sul Csm. Presto l’esame dei 400 emendamenti alla legge di Bonafede. Poi non date la colpa a noi - non è scritto così, ma questo è il senso - dove noi sta per l’Associazione nazionale magistrati. L’Anm è preoccupata che i ritardi nella riforma del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno della magistratura, comportino il mantenimento dell’attuale situazione a parole sgradita a tutti: categoria, politica, opinione pubblica. A luglio scade il Consiglio in carica, dunque c’è pochissimo tempo per evitare che si vada al rinnovo con le vecchie regole. Quelle stesse regole che esaltano e premiano i giochi correntizi: una dinamica che - sempre a parole - tutti fremono dalla voglia di modificare per restituire al Csm indipendenza e qualità d’azione dopo anni tormentati. “L’allarme” del segretario dell’Anm Giuseppe Santalucia suona forte e chiaro. Perché c’è la “forte e fondata” preoccupazione che la riforma non sia varata in tempo utile. E il momento della svolta coincide con quello della responsabilità. “A dispetto di qualche malevola voce, nessuno dentro l’Anm ha brigato e briga per il mantenimento dello status quo”, puntualizza Santalucia. Anzi, evidenzia, “tutti abbiamo coscienza che il quadro normativo debba mutare” per non affidare la nuova composizione del Csm “ai medesimi meccanismi elettorali che hanno segnato periodi non felici”. Ma è “la politica” che deve agire. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario è infatti il terzo punto del pacchetto di riforme, dopo quelle del processo penale e civile, propedeutiche al Pnrr. Per processo penale e civile la cornice è stata approvata, “le commissioni sono al lavoro” e “di questo passo, i lavori termineranno con largo anticipo rispetto alla scadenza di fine anno”, assicura il sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Il nodo Csm, alla luce della cogente tempistica di rinnovo dell’organismo, alimenta maggiori dubbi. Sono due gli interventi di riforma più attesi, quello sulle cosiddette porte-girevoli tra politica e magistratura e il nuovo sistema di voto per l’elezione dei 16 componenti togati che limiti il peso delle correnti nell’organo che amministra le carriere dei giudici. Nella situazione creatasi, con innegabili attese di trasparenza, “è indubbio che la palla ce l’abbia il Parlamento”, rincara la dose David Ermini, vicepresidente del Csm. Giovedì scorso, prima della nuova sollecitazione del Capo dello Stato durante il discorso di insediamento davanti alle Camere, il premier Mario Draghi e la Guardasigilli Marta Cartabia hanno riaperto il dossier. Ora è probabile che dopo gli incontri già svolti con partiti, Anm e avvocati ci siano colloqui con i partiti anche a Palazzo Chigi. Mario Perantoni (M5S) nella vita avvocato e alla Camera presidente della Commissione Giustizia, cancella ogni suggestione dilatoria e chiarisce che il 16 febbraio la Commissione avvierà l’esame dei 400 emendamenti al testo dell’ex ministro Alfonso Bonafede: “La riforma dovrà essere conclusa per tempo affinché il prossimo rinnovo si svolga secondo nuove regole”, è la dichiarazione impegnativa. Perché sul meccanismo elettivo dei togati del Csm le opinioni in campo sono e restano molto distanti. Il sistema maggioritario sostenuto dalla Guardasigilli non piace ad alcuni partiti e alla maggioranza dei magistrati. In una consultazione interna dell’Anm, per la verità non troppo partecipata, l’ipotesi Cartabia è stata platealmente bocciata con 3.189 no contro 745 sì. La categoria preferisce il proporzionale. Rispetto al maggioritario della Guardasigilli, ha infatti ottenuto un risultato migliore persino la tanto dibattuta elezione per sorteggio: 1.787 i voti a favore a fronte di 2.470 contrari. Un numero di consensi superiore a ogni attesa. Non solo. Secondo la lettura del segretario dell’Anm Salvatore Casciaro, “il dato dà corpo alla delusione e al disincanto di larga parte dei colleghi”, stanchi di un Csm troppo ‘orientato’ politicamente, con vistoso pregiudizio per l’immagine della categoria. Giustizia, la riforma del Csm: “Mai più casi Maresca”. Ma prima bisogna superare le correnti di Liana Milella La Repubblica, 6 febbraio 2022 Abbiamo chiesto ai nostri giornalisti e ai nostri commentatori di approfondire i temi sollevati. Ventinove maggio 2019, scoppia il caso Palamara. 21 giugno 2019, Mattarella esprime “grave sconcerto per l’accaduto”. Parla di “degenerazione correntizia” e di “inammissibile commistione fra politici e magistrati”. Considera “urgente la riforma”. Da quel giorno ne sono passati altri 960. Mattarella ha insistito. Non è accaduto nulla. O meglio, qualcosa è accaduto. Lo scontro tra destra e sinistra ha bloccato la riforma “urgente”. Sono cambiati tre governi, ma la legge è rimasta in attesa nella commissione Giustizia della Camera. L’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede ha presentato il suo testo, ma non s’è fatto un passo avanti. È arrivata Marta Cartabia, ha preparato gli emendamenti, che a dicembre hanno scontato ancora le divisioni sulla giustizia. Ora Mattarella ha ripetuto le parole di 960 giorni fa e l’intero emiciclo gli ha riservato un’ovazione. Carica anche della volontà di fare i conti con la magistratura. Di punirla per il correntismo. A partire dalla futura legge elettorale, semmai si farà in tempo ad approvarla prima della scadenza di questo Csm, luglio 2022. Il centrodestra e le correnti anti-correnti chiedono il sorteggio, la ministra lo considera fuori dalla Carta. Bonafede lo propose, ma i costituzionalisti gli suggerirono di toglierlo, pena una bocciatura. Maggioritario o proporzionale? Gli esperti se la ridono perché se a votare sono solo 9.500 toghe gli accordi si potranno sempre fare. Riuscirà Cartabia a mettere insieme anime contrapposte sulla giustizia? La Lega, che punta tutto sui referendum e attende la Consulta al varco se dovesse bloccarli? Forza Italia, che non demorde sul sorteggio? Conte e Bonafede, pronti a lottare contro le “porte girevoli”? Il Pd, che rispetta i giudici, ma chiede mano dura contro le correnti e l’inaccettabile discrezionalità sulle nomine? Costa di Azione che, emendamenti del governo o meno, da settimane chiede di procedere subito e andare in aula? Sarà una partita difficilissima. In cui Cartabia si riserva un forte ruolo di mediazione. All’insegna di un magistrato ideale che per lei deve somigliare a Rosario Livatino. Solo così la riforma potrà superare le forche caudine dell’eterna battaglia tra garantisti e giustizialisti. Ma in gioco c’è un potere dello Stato che nel frattempo ha cercato di fare la sua parte. I processi disciplinari al Csm. E pure le incompatibilità ambientali. Nomine senza “pacchetti” e all’insegna di criteri rigidi, come la scadenza temporale. Giudici che nella nuova legge vorrebbero trovare una legittimazione, e non la punizione chiesta dalla destra. È possibile superare la logica delle bandierine? A questo ha lavorato Cartabia, studiando di persona gli emendamenti. I punti fermi sono noti, e in settimana diverranno pubblici. Dalle nuove regole per formare le commissioni del Csm (Bonafede ipotizzò il sorteggio), ai criteri invalicabili per le nomine, al ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari, all’autonomia della sezione disciplinare formata forse da consiglieri che non siedono nelle altre commissioni. Nessuno sconto alle toghe in politica, le “porte girevoli” bloccate per sempre. Cartabia, da ex presidente della Consulta, annusa fumus di incostituzionalità, ma politicamente sarebbe arduo affrontare di nuovo una querelle con M5S come quella sull’improcedibilità. Lo slogan è “mai più casi Maresca”. Uno stop pure per chi è fuori ruolo a fianco dei ministri? E pure per consiglieri di Stato e della Corte dei conti? Corre voce che proprio questo avrebbe rallentato il cammino degli emendamenti da palazzo Chigi a Montecitorio. Mentre la ministra era pronta a ripartire con il Csm già più di un mese fa. I ritocchi non bastano. Serve un’Alta Corte che giudichi i magistrati di Luciano Violante La Repubblica, 6 febbraio 2022 La magistratura, totalmente libera da gerarchie, occupa il centro del sistema politico. Ma la politica da circa trent’anni non esercita più la sua sovranità sul terreno della giustizia e il potere giudiziario è dilagato. Il sistema di governo della magistratura risale alla prima metà del secolo scorso. A quell’epoca la società era agricola, lenta, disinformata, obbediente a gerarchie sociali, politiche e religiose che la verticalizzavano; la magistratura, con una struttura piramidale, era parcheggiata alla periferia nel sistema. Oggi la società è industriale, veloce, orizzontale, iperconnessa, conflittuale, perennemente informata; la magistratura, totalmente libera da gerarchie, occupa il centro del sistema politico. Ieri presso i tribunali furono create le sezioni agrarie; oggi operano i tribunali delle imprese. Occorre adeguare il sistema di governo della magistratura al nuovo ruolo nella nuova società. La politica da circa trent’anni non esercita più la sua sovranità sul terreno della giustizia e il potere giudiziario è dilagato, un po’ perché doveva comunque funzionare e un po’ per tendenza ad espandersi che è propria di ogni potere. La magistratura è così diventata un corpo separato e autoreferenziale. Non è più tempo di ritocchi. Il Presidente della Repubblica nel discorso di insediamento ha sottolineato molto opportunamente cinque indirizzi: difesa dell’autonomia e della indipendenza, superamento delle appartenenze, essere più servizio che potere, garantire la certezza del diritto evitando decisioni arbitrarie o imprevedibili, riguadagnare la fiducia dei cittadini. Il Parlamento e il Governo hanno applaudito con entusiasmo. Ora devono agire. Nell’ottobre 2021, la ministra Cartabia ha informato la Camera che nell’ultimo quinquennio le valutazioni positive sulla professionalità dei magistrati sono state del 99.2%. Neanche in un convento di Orsoline si può trovare una percentuale così alta di giudizi positivi. Valutare l’attività giurisdizionale è certamente difficile; tuttavia l’attuale procedura meriterebbe per lo meno una forma di integrazione. Si potrebbe prevedere, dopo quattro anni dall’ingresso in magistratura, un secondo esame condotto da una commissione costituita come per l’esame di ammissione per valutare la preparazione professionale nel settore nel quale si sono svolte le funzioni, il rapporto con l’avvocatura, i colleghi e i mezzi di comunicazione. Il giudizio e il voto di questa Commissione dovrebbero acquisire un peso determinante per il giudizio di idoneità ad assumere incarichi direttivi e semidirettivi. La ministra della giustizia ha messo sul tappeto proposte ampiamente condivisibili, che non prevedono interventi costituzionali. Stante la specificità di questo governo e la natura dei problemi dovrebbero provvedere i gruppi parlamentari. È comune l’esigenza di limitare il peso anomalo delle correnti. Le anomalie si manifestano particolarmente al momento della elezione del vicepresidente del CSM, quando i candidati devono segretamente contrattare il consenso dei magistrati che li voteranno. Queste segrete trattative sarebbero superate se il vicepresidente fosse nominato direttamente dal Presidente della Repubblica, Presidente del Csm, fuori della rosa degli eletti dal Parlamento. La sentenza con la quale il Consiglio di Stato, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha azzerato i vertici della Cassazione, costituisce il capitolo più grave di una competizione per il primato tra le diverse magistrature. La decisione del Csm di riconfermare immediatamente quei vertici, alla presenza del Capo dello Stato, ha risolto una pericolosa impasse, ma non ha curato la malattia. Sarebbe opportuna un’Alta Corte delle Magistrature costituita con criteri analoghi alla Corte costituzionale. Ferme le attuali competenze del Csm, l’Alta Corte sarebbe giudice di appello e di ricorso nei confronti delle sentenze disciplinari e delle decisioni amministrative degli organi di governo interno di tutte le magistrature. Assumersi rapidamente la responsabilità di decidere è l’unico modo che hanno Parlamento e Governo per modernizzare il sistema e dare un seguito responsabile alla standing ovation che ha accompagnato le parole del Presidente.l sistema di governo della magistratura risale alla prima metà del secolo scorso. A quell’epoca la società era agricola, lenta, disinformata, obbediente a gerarchie sociali, politiche e religiose che la verticalizzavano; la magistratura, con una struttura piramidale, era parcheggiata alla periferia nel sistema. Oggi la società è industriale, veloce, orizzontale, iperconnessa, conflittuale, perennemente informata; la magistratura, totalmente libera da gerarchie, occupa il centro del sistema politico. Ieri presso i tribunali furono create le sezioni agrarie; oggi operano i tribunali delle imprese. Occorre adeguare il sistema di governo della magistratura al nuovo ruolo nella nuova società. La politica da circa trent’anni non esercita più la sua sovranità sul terreno della giustizia e il potere giudiziario è dilagato, un po’ perché doveva comunque funzionare e un po’ per tendenza ad espandersi che è propria di ogni potere. La magistratura è così diventata un corpo separato e autoreferenziale. Non è più tempo di ritocchi. Il Presidente della Repubblica nel discorso di insediamento ha sottolineato molto opportunamente cinque indirizzi: difesa dell’autonomia e della indipendenza, superamento delle appartenenze, essere più servizio che potere, garantire la certezza del diritto evitando decisioni arbitrarie o imprevedibili, riguadagnare la fiducia dei cittadini. Il Parlamento e il Governo hanno applaudito con entusiasmo. Ora devono agire. Nell’ottobre 2021, la ministra Cartabia ha informato la Camera che nell’ultimo quinquennio le valutazioni positive sulla professionalità dei magistrati sono state del 99.2%. Neanche in un convento di Orsoline si può trovare una percentuale così alta di giudizi positivi. Valutare l’attività giurisdizionale è certamente difficile; tuttavia l’attuale procedura meriterebbe per lo meno una forma di integrazione. Si potrebbe prevedere, dopo quattro anni dall’ingresso in magistratura, un secondo esame condotto da una commissione costituita come per l’esame di ammissione per valutare la preparazione professionale nel settore nel quale si sono svolte le funzioni, il rapporto con l’avvocatura, i colleghi e i mezzi di comunicazione. Il giudizio e il voto di questa Commissione dovrebbero acquisire un peso determinante per il giudizio di idoneità ad assumere incarichi direttivi e semidirettivi. La ministra della giustizia ha messo sul tappeto proposte ampiamente condivisibili, che non prevedono interventi costituzionali. Stante la specificità di questo governo e la natura dei problemi dovrebbero provvedere i gruppi parlamentari. È comune l’esigenza di limitare il peso anomalo delle correnti. Le anomalie si manifestano particolarmente al momento della elezione del vicepresidente del CSM, quando i candidati devono segretamente contrattare il consenso dei magistrati che li voteranno. Queste segrete trattative sarebbero superate se il vicepresidente fosse nominato direttamente dal Presidente della Repubblica, Presidente del Csm, fuori della rosa degli eletti dal Parlamento. La sentenza con la quale il Consiglio di Stato, alla vigilia dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha azzerato i vertici della Cassazione, costituisce il capitolo più grave di una competizione per il primato tra le diverse magistrature. La decisione del Csm di riconfermare immediatamente quei vertici, alla presenza del Capo dello Stato, ha risolto una pericolosa impasse, ma non ha curato la malattia. Sarebbe opportuna un’Alta Corte delle Magistrature costituita con criteri analoghi alla Corte costituzionale. Ferme le attuali competenze del Csm, l’Alta Corte sarebbe giudice di appello e di ricorso nei confronti delle sentenze disciplinari e delle decisioni amministrative degli organi di governo interno di tutte le magistrature. Assumersi rapidamente la responsabilità di decidere è l’unico modo che hanno Parlamento e Governo per modernizzare il sistema e dare un seguito responsabile alla standing ovation che ha accompagnato le parole del Presidente. Presunzione d’innocenza. “I clan approfitteranno di questo bavaglio imposto ai magistrati” di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 6 febbraio 2022 Intervista a Nicola Gratteri. “Le mafie potrebbero approfittare della recente legge sulla presunzione di innocenza che limita la comunicazione istituzionale sulle indagini giudiziarie mettendo di fatto un bavaglio ai magistrati”. Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, non ha alcun dubbio sugli effetti della legge sulla presunzione di innocenza, tanto voluta da Enrico Costa (Azione), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali. Procuratore Gratteri, conseguenza del decreto legislativo di Costa è la nota del 19 gennaio del Procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, il quale ha invitato le forze dell’ordine a ridurre le richieste di autorizzazione alla diffusione di comunicati stampa. La nuova legge sacrifica il diritto di cronaca e quello dei cittadini a essere informati? Bisogna intanto ricordare che l’articolo 27 della Costituzione prevede già la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, come valore primario da preservare. La direttiva europea, recepita dal legislatore italiano con il d.lgs. 188/2021, era rivolta principalmente agli Stati di più recente ingresso nell’Unione europea, nei quali non erano presenti adeguati strumenti di tutela dell’imputato. Il risultato finale conseguito dal legislatore italiano non aggiunge nulla di più, in termini effettivi, al rispetto della presunzione di innocenza, anzi limita solo fortemente la comunicazione istituzionale, che viene sostanzialmente vulnerata, a scapito del diritto di informazione dei cittadini e, se possibile, addirittura degli stessi imputati. È un bavaglio vero e proprio? Non vi è alcuna disciplina della comunicazione delle parti private, che restano libere di esprimere qualsiasi contenuto, anche non rappresentativo della realtà. Non vi è alcun controllo delle forme di comunicazione diffuse sui social o in tv, con la conseguenza che tutti gli strumenti di comunicazione diversi da quella istituzionale (di rilevanza sociale) trovano uno spazio più ampio e incontrollato, a scapito della verità e dell’informazione. E ciò cosa comporta? In assenza di una fonte istituzionale, la conseguenza sarà una circolazione di notizie incontrollate e incontrollabili, con danni collaterali inimmaginabili. La legge riguarda tutte le indagini, anche quelle per mafia. Anche di queste si potrà parlare solo in termini generali e omettendo i nomi degli arrestati e i dettagli delle vostre indagini. Non si rischia di incidere in negativo sulla percezione che i cittadini hanno delle mafie e di altri reati? La rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ma il mio timore è anche un altro: sembra quasi che non parlandone, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra non esistano. Ma non è così, e io ho molta paura che di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio. Se la ‘ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste. È giusto che i cittadini non sappiano praticamente nulla fino a sentenza definitiva? Proprio in relazione a queste tipologie di reati (da parte di amministratori, politici, imprenditori), la censura della comunicazione istituzionale finisce per diventare un vero e proprio vulnus al meccanismo virtuoso che si innesca a fronte di attività giudiziarie che, opportunamente comunicate, fanno sì che altri trovino il coraggio di denunciare. Ci si dimentica troppo spesso delle vittime e del principio di offensività del reato che a sua volta ha rilevanza costituzionale. Le regole, nella comunicazione, sono sacrosante, ma nel rispetto dei principi costituzionali. La legge è stata approvata. Ora cosa si può fare? Non saprei. Posso solo dire che bisognerebbe ricordare cosa è successo trenta anni fa. Riesce a immaginare una comunicazione istituzionale dell’arresto degli esecutori delle stragi, omissandone le generalità? Pochi giorni fa è stata celebrata la Giornata della Memoria. Faccio mia, indegnamente, una frase di Primo Levi: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Il presidente Mattarella ha incentrato parte del suo discorso di insediamento sulla giustizia e sulla riforma del Csm bloccata da mesi. Anche lei più volte ne ha sottolineato l’urgenza... Ho apprezzato il discorso di Mattarella. Più volte ho detto che sono a favore di un sorteggio temperato dei membri togati del Csm. Del resto così si sono espressi anche molti colleghi votando un referendum indetto dall’Anm. Marche. Lavoro esterno detenuti, il Garante avverte: “Occorre incrementare attività formative” anconatoday.it, 6 febbraio 2022 Il Garante dei detenuti Giancarlo Giulianelli ha parlato di avviato monitoraggio e di funzione rieducativa della pena. È stato avviato dal Garante regionale per i diritti dei denuti, Giancarlo Giulianelli, un monitoraggio sui detenuti “dimittendi” ed anche su quelli che, seppur in regime carcerario, possono essere assegnati al lavoro esterno, nel rispetto di quanto contemplato dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Sull’argomento il Garante ha anche avuto modo di confrontarsi con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Emilia Romagna e Marche, Gloria Manzelli, e con Marco Bonfiglioli e Maria Lucia Faggiano dell’area detenuti e trattamento del Prap, nell’ambito di un incontro da remoto, chiamato ad affrontare diverse problematiche attualmente sul tappeto per quanto riguarda gli istituti penitenziari marchigiani. L’obiettivo del monitoraggio è quello di verificare la situazione regionale nel suo complesso, anche in riferimento alle diverse fasce d’età, ai livelli di formazione ed ai possibili canali di reinserimento nella società. “Quello che intendiamo attivare - spiega Giulianelli - è un percorso chiaro, che attraverso la fotografia dell’esistente riesca a mettere in campo soluzioni possibili con la collaborazione di enti ed associazioni di categoria presenti sul territorio. Il problema è reale. Se il modello da adottare è quello di una funzione rieducativa della pena, allora occorrono interventi oculati proprio in questa direzione. Dobbiamo parlare espressamente di istruzione, formazione professionale, lavoro, progetti di pubblica attività, attività culturali, “senza dubbio propedeutici - evidenzia - ad un inserimento dignitoso nel mondo del lavoro ed in grado di evitare che il detenuto sia destinato al non far nulla per tutto il tempo della sua permanenza in carcere ed a rappresentare unicamente un costo per la società”. Marche. Antigone, nasce il terzo Sportello sui diritti al carcere di Montacuto anconatoday.it, 6 febbraio 2022 Inaugurato a Montacuto il terzo sportello. Il carcere dorico è il terzo istituto regionale coperto da quest’attività a carico di Antigone, dopo quelli di Pesaro e Fermo. L’associazione: “Sostegno e ascolto per un sistema più umano”. Antigone Marche è orgogliosa di comunicare che è stato attivato oggi, 5 febbraio 2022, il servizio di Sportello di tutela diritti nella Casa Circondariale di Montacuto, Ancona. Si tratta del terzo istituto marchigiano raggiunto da questa importante attività dopo gli sportelli fatti partire da oltre sette anni a Pesaro e, lo scorso autunno, a Fermo. “Abbiamo scelto di affrontare i due anni di pandemia investendo su noi stessi e sulla formazione di nuovi volontari, anziché restare chiusi in attesa che passasse la nottata” - dice Giulia Torbidoni, presidente di Antigone Marche - “Abbiamo coinvolto e formato nuovi volontari, e lavorato per presentare nuovi progetti di supporto alla popolazione carceraria marchigiana. Siamo la regione che ha il più alto numero di volontari dell’Associazione in rapporto alla popolazione. Una bella soddisfazione, che si traduce in attenzione alle esigenze delle persone detenute. Lo Sportello a Montacuto va ad aggiungersi a quelli di Pesaro e Fermo e alla nostra attività principale, che è quella dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione con il quale entriamo in tutti e sei gli istituti regionali per visite complete di monitoraggio” - continua Torbidoni. “Per l’istituto anconetano avremo cinque volontari che si alterneranno per turni al fine di incontrare ogni due settimane chi presenterà richiesta. Lo scopo è quello di offrire sostegno e ascolto per dare risposta alle problematiche e alle necessità delle persone detenute relativamente ai loro diritti nell’esecuzione della pena: dalle questioni legate ai documenti alle pratiche burocratiche, dalle informazioni su pene alternative e sull’esecuzione della pena, fino a fungere da collegamento con le strutture del territorio, sia sociali che di volontariato, per la creazione di opportunità di assistenza, sia nel momento della detenzione che del dopo carcere”. Il progetto è totalmente a carico di Antigone Marche e dei suoi volontari, viene portato avanti attraverso un continuo scambio con l’area educativa/trattamentale dell’Istituto e non è in alcun modo sostitutivo di quella che è la funzione degli Avvocati delle persone detenute stesse. Tutti potranno farne richiesta. “Alla Direzione del carcere e all’area educativa/trattamentale va il nostro ringraziamento per l’accoglienza positiva alla nostra proposta. Ci auguriamo di poter contribuire nel nostro piccolo” - conclude la presidente di Antigone Marche - “a compiere un passettino verso un sistema carcerario sempre più rieducativo, in rispetto al dettato costituzionale”. Bologna. Detenuto trovato senza vita nella sua cella di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 6 febbraio 2022 Adil Ammani, marocchino di 31 anni, era nel suo letto. Disposta l’autopsia per chiarire le cause del decesso. Un altro detenuto è stato trovato morto, venerdì mattina, nel suo letto alla Dozza. A scoprire il corpo di Adil Ammani, 31 anni, marocchino, è stato il suo compagno di cella, che ha dato subito l’allarme al personale della penitenziaria. Per il ragazzo, detenuto al padiglione penale per scontare un cumulo di pene legate a reati di spaccio, con fine pena nel 2026, che dopo aver lavorato per un po’ nelle cucine della Dozza aveva iniziato un corso da metalmeccanico, non c’era però più niente da fare. Del decesso è stato subito informato il magistrato di turno e verrà effettuata l’autopsia, per stabilire le cause della morte del trentunenne. L’ipotesi è un malore: c’è da chiarire se dovuto a cause naturali o indotto dall’assunzione di sostanze o farmaci, di cui tra le mura della Dozza, come più volte ribadito, c’è un mercato illegale fiorente. E lo stesso Ammani, che era arrivato da poco dal carcere di Parma, lo scorso 31 dicembre era finito in ospedale, a seguito di un’overdose, assieme a un altro detenuto. Appena una manciata di mesi fa, a novembre, era stato trovato morto, inoltre, in analoghe circostanze, Fateh Daas, algerino di 42 anni. Fateh era detenuto al secondo piano giudiziario da appena un mese, quando, una mattina, non si era più svegliato. Dall’autopsia è emerso che, prima di addormentarsi per l’ultima volta, Fateh aveva assunto un mix di farmaci. “Alla Dozza c’è un mercato illegale ricchissimo di farmaci, distillati alcolici autoprodotti e droghe - denuncia il sindacato Sinappe. Crediamo di sbagliare poco dicendo che anche la morte di Ammani è legata a questo contesto, dove si fa un uso ‘ludico’ dei farmaci. Il ragazzo era stato salvato un mese fa, portato d’urgenza in ospedale per un’overdose. Adesso, purtroppo, non siamo arrivati in tempo. La situazione in carcere è drammatica. Due morti in quattro mesi devono essere un segnale, per capire che è il momento di ripensare la gestione di soggetti fragili, con dipendenze importanti, che non possono essere affidati soltanto alla buona volontà degli agenti della penitenziaria, in una struttura dove la carenza di personale, in particolare di educatori, è endemica. Lo stesso presidente Mattarella ha ricordato che ‘Dignità è un paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti’. Qui non c’è dignità”. “Questo ennesimo episodio dimostra come sia urgente e necessaria una riforma strutturale del sistema penitenziario - ha aggiunto il segretario del Sappe Giovanni Battista Durante -: bisogna tornare alla sanità penitenziaria per avere un maggior controllo dello stato di salute dei detenuti. Bisogna assumere più personale di polizia penitenziaria, per garantire maggiore sicurezza. E bisogna riportare il disagio psichiatrico nelle strutture adeguate dove poterlo trattare”. Torino. Maltrattamenti nel carcere delle Vallette, Lo Russo: “Salvaguardare la dignità umana” torinoggi.it, 6 febbraio 2022 Nella mattinata di ieri si è tenuta l’udienza. Il Garante comunale dei detenuti entra come parte civile. La Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino Monica Gallo entra come parte civile nel processo in corso a Torino nei confronti di ventuno agenti penitenziari accusati, a vario titolo, di maltrattamenti ai danni delle persone detenute nell’Istituto penitenziario torinese. “La Giunta comunale - dichiara il sindaco Stefano Lo Russo - a fronte della documentazione della Garante ha approvato con delibera la costituzione in giudizio come parte civile”. “La Città - sottolinea - è da sempre impegnata a salvaguardare la dignità umana anche nell’ambiente carcerario”. All’udienza di questa mattina il Gup di Torino ha riconosciuto la legittimazione dell’ufficio del Garante dei detenuti del Comune di Torino, difeso dall’avvocato Francesca Fornelli, a costituirsi parte civile. “La nostra partecipazione - continua Gallo - vuole essere un segnale forte di attenzione rispetto alla tutela dei diritti delle persone ristrette negli istituti penitenziari della città. L’obiettivo è quello di contribuire in maniera concreta alla ricostruzione dei fatti per cui si procede e all’accertamento delle responsabilità dei soggetti coinvolti”. Lecce. Detenuto da estradare in Albania, ma in Italia è in cura per l’Aids di Francesco Oliva La Repubblica, 6 febbraio 2022 Si apre un caso diplomatico. Il 37enne dovrebbe rientrare per scontare la pena in carcere, ma il timore del legale e dell’associazione Era è che una volta agli arresti non verrebbero più somministrate le terapie che hanno dato ottimi risultati. Udienza l’11 febbraio. L’estradizione di un uomo con Aids diventa un caso diplomatico e giudiziario tra Italia e Albania. Sarà infatti la Corte d’Appello di Lecce a stabilire dove e come un 37enne, originario del Paese delle Aquile, potrà curarsi dopo un ricorso contro la sua estradizione per falsificazione di alcuni documenti. In ballo - se dovesse far rientro in Albania e finire in carcere - anche il rischio di non poter più usufruire delle cure necessarie a tenere a bada la malattia. In questi anni trascorsi in Italia, infatti, l’uomo ha potuto beneficiare di tutte le cure tanto che oggi non risulta più positivo al virus Hiv. Chiaramente, per tenere sotto controllo la malattia, deve costantemente essere seguito da un centro specializzato e non deve interrompere la terapia. Ma se dovesse fare rientro in Albania il rischio è che tutti gli sforzi di questi anni si possano rivelare inutili. Sulla vicenda è necessario fare un passo indietro. Il 12 novembre 2021 è stata discussa la richiesta di estradizione avanzata dal governo albanese. Nel corso dell’udienza camerale l’avvocato Cosimo Rampino, legale dell’uomo, ha illustrato lo stato di salute del 37enne e i rischi a cui il paziente andrebbe incontro, una volta estradato, laddove il sistema penitenziario non dovesse essere in grado di assicurargli le cure e la terapia di cui necessita. L’uomo, infatti, deve essere seguito con costanza e deve assumere quotidianamente i farmaci che rappresentano un vero e proprio salvavita. E lo Stato albanese è in grado di assicurare all’interno del circuito penitenziario le cure, i controlli e la somministrazione quotidiana gratuita dei farmaci. Questo il nocciolo del ricorso della difesa. Ma non è tutto. Perché proprio per le condizioni di salute, il 37enne rischia anche di essere discriminato se dovesse finire agli arresti. In un rapporto del 2020 a firma dell’Era - organizzazione da sempre in prima linea nella lotta contro le ingiustizie sociali - si segnala infatti come in Albania non vengano acquistati né importati tempestivamente i farmaci antiretrovirali che devono essere continui e ininterrotti. Per questo, i pazienti affetti da Hiv sono costretti, dopo l’esaurimento delle scorte, a modificare frequentemente i propri schemi di trattamento con possibili conseguenze per la salute. Nello stesso rapporto si riporta come siano le stesse organizzazioni locali a denunciare una totale mancanza di attività di sensibilizzazione da parte del ministero della Salute e della protezione sociale. E i pregiudizi e lo stigma nei confronti dell’Hiv, in Albania, rimangono molto alti tanto che molte persone non si sottopongono al test o rifiutano le cure, con gravi complicazioni. Chiamata a occuparsi del caso, la Corte di Appello di Lecce (presidente Vincenzo Scardia, consiglieri Giuseppe Biondi e Luca Colitta) ha richiesto, per il tramite del governo italiano, informazioni e garanzie al governo albanese sul trattamento che l’uomo riceverà se dovesse essere estradato. E se il 37enne potrà rimanere in Italia o dovrà rientrare nel suo Paese sarà discusso nell’udienza del prossimo 11 febbraio. Cagliari. Il Covid isola sempre di più i carcerati: “C’è solitudine e preoccupazione” di Jacopo Norfo castedduonline.it, 6 febbraio 2022 “La sospensione delle attività trattamentali, le limitazioni imposte ai colloqui con i familiari e la riduzione degli operatori, dovute alla variante Omicron del Covid sta mettendo a dura prova le condizioni fisiche e psicologiche delle persone private della libertà della Casa Circondariale di Cagliari-Uta. Uomini e donne vivono in una condizione di solitudine e preoccupazione che si ripercuote sui familiari in ansia per i propri parenti”. Lo sostiene in una dichiarazione Maria Grazia Caligaris dell’associazione di volontariato “Socialismo Diritti Riforme” le cui attività sono state congelate da oltre due settimane. “Secondo i familiari che si sono rivolti all’associazione - rivela Caligaris - le condizioni dentro l’Istituto son ormai invivibili anche per l’alto livello di aggressività tra i detenuti. La paura di contrarre il virus infatti genera insofferenza e sembra favorire rapporti di tensione con incomprensioni e sospetti. La situazione appare delicata anche nella sezione femminile dove, nonostante i numeri contenuti, poco più di una decina di persone, sono ristrette alcune donne con problematiche legate a disturbi di carattere psichico o in doppia diagnosi per tossicodipendenze che mal sopportano l’isolamento e reagiscono negativamente a qualunque osservazione. Lo scarso numero di Agenti e di Funzionari giuridico-pedagogici (Educatrici) limita anche l’accesso alle misure alternative”. “La preoccupazione dei familiari - osserva ancora Caligaris - si estende alle misure più adeguate al distanziamento e all’igiene dell’ambiente e della persona. Lamentano l’uso insufficiente di disinfettanti nelle poche aree comuni destinate ai detenuti che non hanno contratto il virus. Insomma sembra che si sia creato un clima di ansia generalizzata che non favorisce rapporti sereni tra i guariti e i non contagiati. I virus riguarda ancora un’ottantina di detenuti anche se l’incidenza senza stabile e/o il lieve flessione”. “La pandemia e le restrizioni che sono derivate - ha detto Marco Porcu, Direttore della Casa Circondariale - hanno creato eventi devastanti nella vita delle persone, in carcere ciò è ovviamente tutto amplificato. La curva dei contagi ha iniziato a scendere e ieri c’erano 7 positivi in meno. In questi giorni mi aspetto un’ulteriore discesa e comunque confido di poter ripristinare al più presto tutte le attività”. “L’auspicio - conclude Caligaris - è un intervento del Ministero per favorire un maggior ricorso alle pene alternative ampliando i termini della liberazione anticipata o una norma del Parlamento per un provvedimento emergenziale di amnistia. Troppi problemi nel carcere ingigantiti dal Covid richiedono un’iniziativa straordinaria. È inutile far finta di non vedere”. Carinola (Ce). Oltre 120 positivi in carcere: “Vaccini ai detenuti in ritardo” casertanews.it, 6 febbraio 2022 La denuncia del sindacato della penitenziaria dopo il focolaio di Carinola. Su 346 detenuti presenti nel carcere casertano di Carinola, ben 122 sono stati contagiati dal Covid: fortunatamente tutti quasi asintomatici e ci viene riferito che il piano vaccinale della Asl di Caserta per i detenuti sia stato eseguito con ritardo”. Lo denunciano, in una nota, Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, rispettivamente presidente nazionale e segretario regionale per la Campania dell’Unione dei Sindacati di Polizia Penitenziaria. “Secondo i dati dell’ultimo report in nostro possesso, in Campania risultano contagiati 165 persone tra agenti e personale dell’amministrazione penitenziaria e 353 detenuti. Abbiamo chiesto più volte, - ricordano i due sindacalisti - di rendere obbligatorio il vaccino anche per i detenuti, dal momento che il carcere è una comunità; così pure abbiamo in più occasioni ribadito l’opportunità di somministrare i tamponi rapidi giornalieri alla polizia penitenziaria e agli altri operatori penitenziari e la necessità di una fornitura giornaliera di mascherine FFp2. L’attuale emergenza sanitaria si aggiunge alle croniche criticità dell’Istituto: a Carinola mancano 70 agenti di polizia penitenziaria, rispetto alla pianta organica. La direzione ha addirittura comunicato alle organizzazioni sindacali che non può approntare un’organizzazione del lavoro per migliorare le condizioni di lavoro del personale di polizia penitenziaria visto l’esiguo numero di poliziotti in servizio”. Pertanto, dicono ancora Moretti e Auricchio, “anche per il carcere di Carinola, come per gli altri istituti, chiediamo una maggiore attenzione ed un concreto supporto: il momento è particolarmente critico per la Polizia Penitenziaria e per le carceri, dove è sempre più difficile far fronte alle emergenze sanitarie, alle deficienze strutturali e portare avanti nel contempo il mandato istituzionale, assicurando la sicurezza e le finalità di rieducazione e risocializzazione della pena. Tanto richiediamo in un momento davvero difficile, anche a ridosso delle dimissioni del Capo Dap”, concludono il presidente e il segretario regionale dell’Uspp. Vercelli. Il Tavolo Carcere cerca nuovi volontari di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 6 febbraio 2022 Il Tavolo Carcere di Vercelli promuove un corso per aspiranti volontari per portare avanti progetti e attività solidali. Per aderire non servono competenze pregresse ma buone capacità di ascolto e disponibilità verso il prossimo. Le attività potranno esser effettuate sia all’interno del carcere, per supportare detenuti e operatori, anche organizzando momenti di confronto e corsi pratici, sia all’esterno, per realizzare e promuovere attività ed eventi sul territorio. L’obiettivo delle attività del tavolo carcere, infatti, è anche quello di sensibilizzare l’opinione pubblica contro pregiudizi e discriminazioni e di supportare l’”ecosistema carcere” nel suo complesso, per il benessere di operatori e detenuti e per un futuro reinserimento attivo nella collettività. Il corso prevede 12 incontri formativi che si terranno il mercoledì, dalle 17,30 alle 19, a partire da marzo. Per partecipare è necessario avere il Green pass. Il percorso prevede una valutazione finale dei partecipanti allo scopo di rilevarne le attitudini e orientare al meglio il loro inserimento nelle varie attività di volontariato. Per informazioni: tavolocarcerevercelli@gmail.com. Lo Stato, l’incuria e l’italiano oscuro delle leggi di Sabino Cassese Corriere della Sera, 6 febbraio 2022 Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di “antilingua”, che arriva persino a produrre “mostri linguistici”. La Gazzetta ufficiale di venerdì 4 febbraio ha pubblicato il decreto legge sulle certificazioni verdi Covid-19. Questo regola tre materie: la durata della validità dei certificati per chi risiede in Italia e per chi viene dall’estero e la loro efficacia nella zona rossa; gli spostamenti da e per le isole e il trasporto scolastico; la gestione dei casi di positività nelle scuole. Si tratta di materie che non presentano un grado di difficoltà simile a quello affrontato dal Georg Wilhelm Friedrich Hegel nella “Fenomenologia dello spirito”. Tuttavia, i redattori del decreto sono riusciti nell’ardua impresa di rendere la lettura del decreto altrettanto difficile a quella dello studio dell’opera del grande filosofo tedesco. Per farlo, hanno dovuto condensare nei soli sette articoli del decreto ben dieci rinvii ad altri articoli di ben sette altri decreti o leggi e scrivere frasi ricche di parole, che in qualche caso, sfiorano il centinaio. Questo richiede al lettore di procurarsi altri sette atti con forza di legge per comprendere questo decreto, nonché uno sforzo particolare per giungere al termine delle centinaia di parole costrette in una frase (il noto linguista Tullio De Mauro aveva scritto che per esser leggibili le frasi non dovrebbero superare le 25 parole). È importante sapere che il decreto, datato 4 febbraio, è entrato in vigore il giorno successivo alla pubblicazione, quindi ieri 5 febbraio, e che fa “obbligo a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare”. Quindi, ha richiesto a una cinquantina di milioni di residenti nel territorio della Repubblica italiana di dotarsi in ore notturne di una piccola biblioteca giuridica e di molta pazienza per completare il “puzzle” degli incastri di norme che rinviano l’una all’altra. Per frapporre maggiori difficoltà all’accesso alle norme, poi, il sito ufficiale del governo, alle ore 17 di ieri 5 febbraio, nella sezione intitolata “Covid-19 le misure adottate dal governo” non conteneva alcun riferimento al decreto legge del 4 febbraio. Fior di linguisti, da anni, lamentano che la lingua dello Stato è distante da quella dei cittadini, che l’italiano burocratico è un esempio di “antilingua”, che arriva persino a produrre “mostri linguistici” (queste sono espressioni che possono trovarsi nel libro di Michele Cortellazzo, Il linguaggio amministrativo. Principi e pratiche di modernizzazione, Roma, Carocci, 2021; lo stesso autore aveva pubblicato, con Federica Pellegrino, una Guida alla scrittura istituzionale, Roma - Bari, Laterza, 2003). Altri linguisti si sono anche affacciati fuori d’Italia e hanno studiato l’italiano giuridico dell’Unione europea e della Svizzera (così Sergio Lubello, L’italiano del diritto, Roma, Carocci, 2021). Infine, lo Stato italiano, nel 1994, aveva pubblicato un Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposte e materiali di studio, edito dal Poligrafico dello Stato ed ora facilmente rintracciabile “on line”, nel quale era spiegato come scrivere le leggi e i regolamenti. Questo ulteriore esempio di incuria dello Stato suscita alcune domande. La prima è: se lo Stato comunica in questo modo con i cittadini, che può aspettarsi dai cittadini? La seconda è: se questo non è un argomento che divide i cittadini (penso che non vi sia forza politica che ritenga che la legge debba essere oscura) come è possibile che si continui con questo pessimo andazzo? Poiché il lupo perde il pelo ma non il vizio, termino con tre proposte. Primo: distribuire questo o un altro similare decreto nelle scuole e invitare gli insegnanti di italiano a chiedere alle scolaresche di riscrivere in italiano comprensibile queste norme. Secondo: acquistare, a spese del Tesoro, duecento copie di una decina di libri di linguisti sul linguaggio legislativo e burocratico, regalarli agli autori di questi scempi, invitarli a leggerli e interrogarli dopo un mese, per accertarsi che abbiano appreso. Terza sommessa e trepida proposta: uomini politici e alte autorità dello Stato, prima di firmare questi decreti legge, oltre a interrogarvi sulla loro opportunità e legittimità, perché non vi chiedete come potrebbero essere resi comprensibili? Dalla Maturità all’alternanza, ora sulla scuola voglio ascoltare i ragazzi di Patrizio Bianchi La Repubblica, 6 febbraio 2022 La lettera del titolare dell’Istruzione dopo la protesta di venerdì in piazza degli studenti. Caro direttore, ho seguito con attenzione la mobilitazione di venerdì delle studentesse e degli studenti, così come quelle che si sono succedute nei giorni precedenti. Ai temi che pongono tutti noi dobbiamo garantire ascolto, soprattutto dopo questa lunga pandemia, che ha segnato la nostra vita e che i ragazzi hanno sofferto in modo particolare. I temi al centro della loro manifestazioni sono stati due: l’alternanza scuola-lavoro e l’esame di Stato. Questioni esacerbate dal Covid, ma che hanno radici ben più lontane. Gli stage in azienda - L’alternanza scuola-lavoro è stata definita, come noto, nel 2015, codificando una varietà di esperienze di tirocinio e percorsi già presenti in molti contesti locali. Nel 2018 è stata riformulata con il nome di Pcto (Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento): è stato messo in evidenza come queste esperienze debbano essere considerate parte integrante del processo educativo e non possano mai configurarsi come avviamento al lavoro o addirittura come lavoro vero e proprio. Diversa è la situazione della formazione professionale, di competenza regionale, come nel caso tragico di Udine, che per definizione è orientata al lavoro. In tutti questi casi, comunque, voglio ribadirlo con forza, la presenza di uno studente in un ambiente lavorativo richiede non solo le stesse misure di garanzia e sicurezza che si applicano ai lavoratori, ma un sovrappiù di responsabilità da parte sia della scuola di appartenenza che di chi accoglie i nostri ragazzi. Eventuali situazioni di rischio o, peggio, di sfruttamento, vanno immediatamente denunciate. Insieme al ministro del Lavoro Andrea Orlando, abbiamo deciso di costituire un gruppo che approfondirà questi temi e verificherà tutte le circostanze e le condizioni in cui i nostri ragazzi hanno esperienze formative in luoghi di lavoro. Gli esami di Stato - Veniamo agli esami di Stato. L’ordinanza appena predisposta prevede una prova di italiano nazionale che consentirà a ciascuno studente di scegliere fra un’ampia rosa di tracce, sette in tutto, e sviluppare il proprio pensiero. Ci sarà poi una seconda prova di indirizzo, formulata dalla commissione locale, composta da sei commissari interni e un presidente esterno, che, proprio perché preparata dai docenti di classe, potrà sicuramente tenere conto dei livelli educativi effettivamente raggiunti. Alle prove scritte seguirà un colloquio orale. Non vengono richiesti come requisito di accesso né i Pcto né la prova Invalsi. Abbiamo riflettuto a lungo sulle modalità dell’esame, valutando naturalmente anche la situazione sanitaria. Il governo si è sempre impegnato in modo caparbio per riportare tutti in presenza la scorsa primavera, poi a settembre e ancora oggi a gennaio, limitando al massimo la didattica a distanza, senza tuttavia demonizzare questo strumento che comunque ha mantenuto connessi i ragazzi, anche nei momenti di chiusura totale delle aule. Le due prove - Ora riteniamo giusto accompagnare tutti ad una nuova fase senza paura. Una prova di italiano per poter esprimere se stessi, una prova di indirizzo che tiene conto delle effettive situazioni che si sono realizzate localmente, una prova orale personalizzata sono il modo per accompagnare ognuno, responsabilmente e in autonomia, in un percorso di uscita da questa fase troppo lunga. Di questo avrò modo di discutere martedì insieme alle studentesse e agli studenti delle Consulte, ma con loro vorrei parlare anche di molto altro. L’esame di Stato è la conclusione di un percorso e ora che possiamo, grazie ai vaccini, guardare con più serenità al futuro è il momento di mettere insieme le nostre energie. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ci permette di dare corpo a sei riforme strutturali del nostro sistema educativo - Its, istruzione tecnica e professionale, orientamento, reclutamento e formazione iniziale dei docenti, numerosità e dimensionamento delle istituzioni scolastiche, scuola di alta formazione del personale scolastico - che, insieme agli investimenti in infrastrutture e competenze, disegnano una nuova scuola, cui tutti noi siamo chiamati a contribuire. Questo cammino riguarda tutti, soprattutto i nostri studenti. Ed è con loro, con le famiglie, con i docenti, con il personale della scuola che vogliamo costruirlo, giorno dopo giorno, nei prossimi mesi. La scuola è il centro della nostra democrazia. Tutti insieme dobbiamo metterci in cammino per costruirne una nuova al passo con i tempi, senza diseguaglianze, capace di prendere per mano i nostri ragazzi e condurli verso il loro futuro. Gioventù bruciante: la voglia di manifestare nelle piazze mostra un disagio pronto a esplodere di Maurizio Maggiani La Stampa, 6 febbraio 2022 Una generazione di ragazzi che ha avuto tutto il superfluo e adesso si riscopre alla ricerca di un avvenire. Il mio primo sciopero di studente è stato per il riscaldamento, al tempo si facevano i doppi turni e il pomeriggio non si accendevano i termosifoni. I termosifoni rimasero spenti, ma ci ricavai tre giorni di sospensione e una frustrazione e una rabbia che mi porteranno da lì a un mese a organizzare uno sciopero generale degli studenti e da lì a un paio di settimane all’occupazione di tutte le scuole superiori della città; e questa volta non si trattava più di riscaldamento, ma di rivolta contro la scuola classista e repressiva, “la scuola dei padroni”, in sostegno alle lotte dei lavoratori in sciopero per il loro contratto e contro la guerra in Vietnam e l’imperialismo yankee in generale. A quel punto le sospensioni erano acqua passata e davanti alla scuola non trovammo il preside in ieratica posa punitiva, ma i carabinieri del battaglione celere Padova, già circonfusi dall’aura di leggendari manganellatori. Presi la mia parte di manganellate e mi fecero male, eccome che mi fecero male, ma mi fecero anche bene; non c’è come l’esperienza del martirio che consolidi la fede nelle proprie ragioni, e scomodare il battaglione Padova per contrastarle che altro poteva significare se non che fossero esse stesse contundenti? E fu “il sessantotto” e tutto quello che ne venne. Quando feci il mio primo e infruttuoso sciopero, avevo una qualche coscienza di quello che sarebbe successo e di quello che io sarei diventato di lì a un attimo? Nessuna; il primo giorno di scuola discutevo con i miei compagni della nuova moto Guzzi e il primo giorno di occupazione, con la stessa spigliata veemenza, di rivoluzione, e lì mi ci aveva portato l’ineluttabilità delle cose. Era la mia una gioventù baciata dalla fortuna, figlia di una giovane Repubblica eretta nello spirito di liberazione e ricostruzione, figlia dei suoi fondatori che le avevano dato in dote il loro sogno, ciò che fino ad allora era stato negato alle generazioni che l’hanno preceduta, risparmiata dalla guerra, risparmiata dalla fame e dalla malattia, risparmiata dall’ignoranza; una generazione la mia con una inaudita carica di energia disponibile per pensare di poter ribaltare il mondo intero, intanto che tutto era predisposto perché potessimo pretenderlo. Ora che questa nuova gioventù si sta prendendo del tutto inaspettatamente la sua parte di manganellate, mi chiedo se stia per caso accadendo qualcosa di altrettanto inaspettato. Forse niente, ma vedremo. Questa generazione nata in una Repubblica affetta da artrosi senile, cresciuta nello sperpero e nella perversione dei suoi principi fondanti, questa generazione a cui ci si diceva nulla essere negato, se per il tutto si intende la montagna di futili suppellettili sotto cui seppellire la ragione del vivere; questa generazione che con tutto quello che gli si è comprato non gli è concesso non il futuro, che quello sguardo oltre l’orizzonte non si può sottrarre nemmeno a un ergastolano, ma l’avvenire, ovvero ciò che è a venire perché si ha la potestà di farlo accadere. Questa generazione a cui invece non è stata risparmiata la fame, perché non c’è solo fame di pane ma anche l’eterna fame “di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già dentro le notti che dal vino son bagnate, dentro alle stanze da pastiglie trasformate…” e ha appena scoperto che non è stata risparmiata dalla malattia e dall’ignoranza, nelle belle piazze d’Italia viene presa a randellate perché sta protestando per qualcosa che il nostro buon governo deve ritenere spregevole. Non vogliono tanto per dire la seconda prova scritta all’esame di maturità i lavativi, mentre quella prova è indispensabile alla loro valutazione. Già, se solo il ritorno alla normalità nella scuola nel cui nome si impone la prova non fosse una lugubre pagliacciata. Come se quei ragazzi non affrontassero l’esame dopo due anni dove non hanno avuto nessuna reale possibilità di essere addestrati decentemente alla prova, come se si potesse ancora definire Esame di Stato una prova gestita da commissari interni, ovvero dai loro stessi professori, e chi ne avrà uno di buon cuore potrà fare in un modo e chi ne avrà uno di quelli più che severi in un altro, così che ogni istituto sarà uno Stato a sé; per non parlare dei tecnici che affronteranno una seconda prova che sarà essenzialmente pratica senza aver potuto per due anni mettere piede nei laboratori alla pratica adibiti per il tempo dovuto. Mi chiedo se hanno coscienza quei ragazzi che il loro diploma di maturità che porterà la data degli ultimi due anni sarà un marchio indelebile agli occhi di chi leggerà il loro curriculum in previsione di un impiego; chi tra i possibili datori di lavoro si fiderà di quel pezzo di carta ottenuto nelle contingenze pandemiche? Mi chiedo se sanno di essere stati buttati nel cesso, che comunque non si poteva fare diversamente. E mi chiedo cosa e se faranno tra un attimo, tra un mese, tra un anno in nome del loro avvenire in condizioni così diverse e avverse dalle mie alla loro età. Non lo so; ma so di quel poco di fisica che ho svogliatamente appreso, che un gas si può comprimere, certi anche milioni di volte, ma tutti fino a un certo punto, poi cambiano di stato, e nel farlo tendono a esplodere. Migranti. San Ferdinando, la baraccopoli dove si vive senza acqua e luce (da 12 anni) Corriere della Sera, 6 febbraio 2022 Degrado e sovraffollamento per gli oltre 300 abitanti della tendopoli di San Ferdinando, “prossima allo smantellamento” come dicono le autorità locali. Una baracca è diventata la moschea, un’altra la ciclofficina per riparare le biciclette con cui andare a lavoro nelle campagne circostanti. Nella tendopoli di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, la vita di oltre trecento migranti si adatta alle condizioni più precarie, da dodici anni. Centinaia di baracche azzurre circondate da cumuli di rifiuti. Senza luce, acqua o servizi sanitari. “La tendopoli ad oggi versa in uno stato di degrado assoluto, mancano i servizi necessari. Manca tutto il necessario”, racconta Rocco Borgese, segretario Flai-Cgil di Gioia Tauro. La struttura ha una capienza massima di 300 posti, ma secondo le stime del Viminale sono circa 350 i migranti che ci vivono. Per sopportare il freddo, gli abitanti della baraccopoli si affidano a stufe artigianali che spesso generano cortocircuiti e causano roghi pericolosi. L’ultimo, l’ennesimo, risale al 31 dicembre 2021. “Non c’è stata nessuna vittima - spiega Borgese - anche grazie all’intervento dei Vigili del Fuoco che hanno un presidio permanente”. Oggi, dopo 12 anni, sembra che la baraccopoli di San Ferdinando sia arrivata al capolinea. La prefettura di Reggio Calabria insieme alle realtà locali che si occupano di accoglienza ai migranti hanno disposto lo smantellamento dell’intera tendopoli. Al suo posto verrà creato un insediamento abitativo su un territorio confiscato alla mafia a circa due chilometri dall’attuale struttura. Ma come fa notare anche Borgese, “potrebbe essere un’ulteriore soluzione provvisoria”. Liberato un prigioniero da Guantánamo: è impazzito per le torture di Vittorio Sabadin La Stampa, 6 febbraio 2022 Catturato in Afghanistan, Mohammed al-Qahtani era stato uno dei primi prigionieri inviati nella prigione all’inizio del 2002 e vi è rimasto per due decenni. Il Pentagono ha deciso di rilasciare dalla prigione di Guantánamo un detenuto diventato pazzo per le torture e il trattamento subito durante la detenzione e di rimpatriarlo in Arabia Saudita, dove sarà curato. Secondo le autorità americane, l’uomo “non costituisce più un pericolo per la sicurezza nazionale”, e può dunque essere liberato. La vicenda di Mohammed al-Qahtani aggiunge un altro tassello agli orrori del centro di detenzione nell’isola di Cuba, istituito dopo gli attacchi dell’11 settembre a New York e a Washington per custodire i terroristi catturati in Afghanistan e in Iraq. Al-Qahtani era sospettato di essere il ventesimo dirottatore designato da al-Qaeda: era volato a Orlando, in Florida, il 4 agosto del 2001, ma gli era stato negato l’ingresso negli Stati Uniti ed era stato rimandato a Dubai. Catturato poi in Afghanistan, era stato uno dei primi prigionieri inviati a Guantanamo all’inizio del 2002, e vi è rimasto per due decenni. Nei primi anni di detenzione è stato ripetutamente torturato e sottoposto a isolamento prolungato, umiliazioni di carattere sessuale, privazione del sono e altri abusi. Il trattamento che ha subito è stato ampiamente documentato grazie alle richieste di gruppi internazionali che si battono per la difesa dei diritti umani e chiedono da tempo la chiusura di Guantanamo, promessa dal presidente Obama e mai realizzata. Susan Crawford, alta funzionaria dell’amministrazione Bush, ha ammesso nel 2009 al “Washington Post” le torture di cui Al-Qahtani è stato vittima. Già nel 2008, a causa del peggioramento delle sue condizioni mentali e degli abusi subiti in prigione, l’amministrazione americana aveva deciso di archiviare i procedimenti contro di lui, ma sono dovuti passare altri 14 anni prima della liberazione. Il 4 febbraio, il comitato che sta riesaminando una per una le posizioni della trentina di detenuti rimasti a Guantanamo ha affermato che al-Qahtani era “idoneo al trasferimento” e ha consigliato che l’uomo fosse rimpatriato in Arabia Saudita dove riceverà un’assistenza sanitaria adeguata e sarà comunque iscritto in un centro di riabilitazione per estremisti. In gennaio gli Stati Uniti avevano liberato altri cinque detenuti. Molti di quelli rimasti a Guantanamo attendono ancora il processo, continuamente rinviato a causa di inghippi legati alla sicurezza e alle difficoltà degli avvocati di avere un costante e proficuo contatto con i loro assistiti, rinchiusi in una prigione di un altro paese. Molti dei detenuti rilasciati che hanno subito maltrattamenti e torture nelle prigioni segrete della Cia sparse nel mondo hanno fatto causa e hanno ottenuto risarcimenti considerevoli: il governo lituano ha ad esempio pagato 100 mila euro ad Abu Zubaydah, rimasto a Guantanamo per quasi venti anni e torturato in un centro nei pressi di Vilnius. Il governo britannico, già nel 2017, ha pagato 20 milioni di sterline a 17 ex detenuti di Guantanamo, sequestrati e torturati illegalmente prima di essere liberati. Solo due prigionieri sono detenuti perché condannati da un tribunale, ma tutti gli appelli delle associazioni umanitarie affinché le democrazie si difendano dal terrorismo mantenendo una supremazia morale, e senza adottarne i metodi, sono caduti finora nel vuoto. Americhe, oltre 20 difensori dei diritti umani assassinati a gennaio di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 febbraio 2022 Tredici in Colombia, tre in Brasile e in Honduras, uno in Messico oltre a quattro giornalisti, sempre in Messico. Questo è lo sconcertante totale dei difensori e delle difensore dei diritti umani assassinati nel mese di gennaio nelle Americhe, che si confermano ulteriormente come il continente più pericoloso per chi svolge attività sociali, indaga sulle malefatte delle istituzioni o si prende cura dei gruppi più vulnerabili. Diciotto delle persone assassinate si occupavano di protezione del territorio e dell’ambiente. Come Pablo Isabel Hernandez, leader nativo dell’Honduras ucciso il 9 gennaio, che dalla sua emittente radiofonica denunciava i rischi per l’ambiente nel dipartimento di Lempura. O come Melvin Geovany Mejia, fatto fuori il 22 gennaio a causa del suo impegno nella difesa dei diritti dei nativi Tolupa, sempre in Honduras. La situazione della Colombia rimane sempre la più grave. Il 17 gennaio, a Puerto Gaitan, è stato ritrovato il corpo di Luz Marina Arteaga, difensora dei diritti dei contadini nel dipartimento di Meta. Una settimana dopo è stato ucciso Albeiro Camayo Guetio, ex coordinatore regionale della Guardia nativa della riserva Las Delicias, nel dipartimento di Cauca. In Brasile, tre persone di una stessa famiglia sono state uccise il 9 gennaio nello stato di Para. Erano conosciute per il loro impegno nella protezione delle tartarughe e nella difesa dell’ambiente. Il 27 gennaio la difensora messicana dei diritti umani Ana Luisa Garduno è stata uccisa nello stato di Morelos. Cercava giustizia per il femminicidio di sua figlia e ignoti le hanno riservato la stessa sorte. Sempre in Messico, sono stati assassinati quattro giornalisti: José Luis Gamboa Arenas, Lourdes Maldonado, Alfonso Margarito Martínez Esquivel e Roberto Toledo. Libia. Così i gruppi armati controllano il territorio e la tratta dei migranti di Sara Creta Il Domani, 6 febbraio 2022 L’organizzazione Libyan Crimes Watch ha confermato che lo scorso 14 gennaio, 3 marocchini sono stati torturati e uccisi nel centro di detenzione ad Al Mayah, nella parte occidentale di Tripoli. Un rapporto militare confidenziale distribuito ai funzionari dell’Ue lo scorso gennaio e ottenuto da Domani, conferma la visione dell’Unione europea nel continuare supportare la guardia costiera e la marina libica nonostante il trattamento riservato ai migranti Il rapporto compilato dal contrammiraglio della Marina italiana Stefano Turchetto, comandante dell’operazione militare dell’Unione europea nel Mediterraneo (Eunavfor, Med Irini), riconosce inoltre “l’uso eccessivo della forza” da parte delle autorità libiche, aggiungendo che la formazione dell’Ue “non è più completamente seguita”. I gruppi armati libici cercano di legittimarsi e di ottenere impieghi di Stato nel settore della sicurezza dal governo di Tripoli in cambio del controllo dei porti e delle aree di sbarco dove vengono portati i migranti intercettati in mare e le strutture di detenzione. Al centro della campagna di legittimazione ci sono i gruppi armati alleati al ministero dell’Interno del Governo di accordo nazionale (GNU) e raggruppati nella Forza d’appoggio alla direzione per la sicurezza nota come “Stability Support Apparatus”; una formazione composta da diversi gruppi armati di Tripoli e di Zawya: ci sono gli uomini di Abdulghani al-Kikli (noto come Ghneiwa), Ayoub Aburas, comandante del Battaglione Rivoluzionari di Tripoli (TRB), Hassan Buzriba, una delle principali figure armate zawiane, comandante del battaglione Abu Surra, e fratello di Ali Buzriba (parlamentare dalle elezioni legislative del 2014). A Zawiyah, le forze d’appoggio alla direzione per la sicurezza sono rappresentate essenzialmente dalla Brigata al-Nasr, un folto gruppo armato guidato da Hassan - che, dal gennaio 2021 è il vice di Ghneiwa all’interno dell’Apparato di supporto alla stabilizzazione -, Ali ed Esam Buzeriba del clan Awlad Buhmira; la più grande tribù di Zawia che controlla, tra le altre risorse strategiche, la raffineria di petrolio di Zawia, a nord di Zawia, così come Abu Surra nel periferia sud-est di Zawia. A partire dal 2016, la Brigata al-Nasr ha utilizzato la sua forza militare per acquisire influenza sia sui centri di detenzione per migranti della zona - Il famoso centro di Al-Nasr e quello di Abu Issa - che sulla Guardia Costiera. Tra le figure più famose della Brigata Nasr ci sono Mohammed Koshlaf, suo cugino Waleed e il guardacoste Abd al-Rahmane Milad, conosciuto anche come al-Bija. Nella famiglia anche Osama Al Kuni noto per essere il direttore de-facto del centro di detenzione al-Nasr a Zawia. Al Kuni inoltre - già condannato dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ed accusato di torture, omicidi, sparizioni, e lavori forzati - continua a fare affare con gli uomini che controllano il centro di Al Mayah e trattenere migranti nel famoso centro di al-Nasr, ufficialmente chiuso ma in realtà ancora operativo, come verificato da video ricevuti da Il Domani. I gruppi armati controllano il centro di detenzione di Al Mayah, situato in una fabbrica farmaceutica abbandonata, ma anche la costa e il porto di Al Mayah, una trentina di chilometri ad ovest di Tripoli. Proprio in questa zona, da un paio di settimane, sono sempre più frequenti le operazioni di cattura di migranti. Dopo lo sbarco i migranti sono portati nel centro di detenzione di Al Mayah, controllato da Amer Mazyoud e dagli uomini dell’apparato di sicurezza, sotto il controllo di Muammer al Dhawi, comandante della brigata 55 di Warshefana; fedele alle forze d’appoggio alla direzione per la sicurezza di Ghneiwa e Buzeriba. Un altro uomo conosciuto nei circoli miliziani di Zawya è Mohammed Bahrun (aka “al-Far”) - ricercato dal Procuratore Generale dal 2017 per i suoi collegamenti con l’Isis - e affiliato al dipartimento di sicurezza di Zawia come responsabile del dipartimento d’investigazione criminale. Lo stesso Bahrun è spesso impegnato in campagne di arresti di migranti nella zona di Ajilat nella Libia occidentale, e nel centro di Al Mayah; dove qualche giorno fa ha ricevuto la visita di Sherif al-Wafi, candidato alle elezioni presidenziali. L’accesso invece continua a essere negato alle organizzazioni umanitarie e alle delegazioni delle Nazioni Unite. Secondo una ricostruzione fornita da un migrante trattenuto nel centro di Al Mayah, ci sarebbero circa 20 migranti impegnati nella ricostruzione di una nuova ala del centro che sarà aperta nelle prossime settimane per accogliere le visite delle delegazioni. L’organizzazione Libyan Crimes Watch ha confermato che lo scorso 14 gennaio, 3 marocchini Hamza Ghdada (21), Abdelaziz El Harchi (30) e Mohamed Atta (32) sono stati torturati e uccisi nel centro di detenzione ad Al Mayah, nella parte occidentale di Tripoli. Sebbene la data della morte di Hamza Ghdada sia sconosciuta, l’organizzazione ha affermato che Abdelaziz El Harchi è morto sotto tortura a inizio gennaio e che Mohamed Atta è morto il 3 dicembre 2021 dopo che gli sono state negate le cure mediche quando le sue condizioni di salute erano peggiorate. I corpi sono stati trasferiti all’obitorio dell’ospedale generale di Al-Zahraa e la famiglia di una delle vittime ha confermato di aver ottenuto le foto della vittima mentre si trovava nell’obitorio con segni di tortura, ha riferito l’Ong. Stupri, violenze e razzismo nell’inferno nascosto della Tunisia di Silvia Di Meo e Matteo Garavoglia L’Espresso, 6 febbraio 2022 “Qui ti uccidono e nessuno se ne accorge”. Nel 2021 sono arrivate oltre 20mila persone di origine subsahariana. E il deserto al confine con la Libia è l’area in cui accadono le violazioni più gravi. Che le agenzie internazionali non riescono in alcun modo a contrastare. Un inferno nascosto”. Bastano tre parole per descrivere la Tunisia oggi, almeno la regione compresa tra Zarzis, Médenine e Ben Gardane, città del sud del Paese tra le più interessate dal fenomeno migratorio al di là del Mediterraneo. A parlare è Afoua, viene dalla Costa d’Avorio e da mesi vive con altre compagne e i rispettivi figli all’interno del centro dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a Médenine, capoluogo dell’omonimo governatorato. Dista poco più di cento chilometri dal confine con la Libia, “l’inferno visibile”. I nomi di Afoua e delle altre ragazze sono di fantasia per proteggere le loro identità, bloccate in un limbo giuridico e sociale che sembra non finire mai, le loro storie invece sono tutte reali. “In Tunisia ti uccidono senza che si sappia. Finisci con delle persone che ti fanno lavorare ma non ti pagano. Non c’è legge qui, se ti ammali l’ospedale non ti cura, lo stesso succede con i nostri figli. Qua ti vedono solo come un corpo da abusare. Almeno i libici lo dicono che ti odiano, i tunisini invece accolgono e poi ti uccidono piano piano”. La testimonianza di Afoua si intreccia con le vite di Naminata, Konke e Rosaline. Sono trascorsi simili e particolari allo stesso tempo e sono scappate dalla Costa d’Avorio, il Camerun e la Guinea per ragioni ben precise. Hanno subìto violenze, prigionie e stupri in Libia e sono arrivate in Tunisia dopo vari tentativi di raggiungere l’Europa via mare, finiti con l’intercettazione della guardia costiera tunisina o libica e l’arrivo nel centro dell’Oim di Médenine. Da anni ormai la Tunisia è interessata dal fenomeno migratorio, sia di arrivo dalla Libia che di partenze verso l’Italia. Nel solo 2021 più di 20mila persone di origine subsahariana sono arrivate nel Paese. Oggi, però, le priorità sono altre. Dal 25 luglio scorso Tunisi sta vivendo un profondo cambiamento istituzionale, quando il presidente della Repubblica Kais Saied ha deciso di congelare il parlamento e sciogliere il governo sulla scia di un’intensa crisi politica, economica e sociale. Una decisione che ha portato Saied a governare con pieni poteri. Il colpo di forza è stato sciolto a fine 2021 con la proclamazione di un referendum costituzionale fissato per il 25 luglio di quest’anno ed elezioni anticipate a dicembre. Tuttavia Saied e il governo guidato dalla premier Najla Bouden Romdhane oggi devono provare ad affrontare un deterioramento delle condizioni di vita interne che rischia di culminare in nuove rivendicazioni popolari. Come per esempio a Médenine che offre pochissime opportunità per i suoi abitanti. Se le condizioni per i tunisini sono pessime, per Afoua e le sue compagne sono ancora peggio. “Al centro dell’Oim non funziona niente ma almeno ho scoperto di soffrire di diabete. Devo comprare i medicinali ma non lavoro e non ho accesso a nulla”, racconta Naminata, scappata dalla Guinea dopo che la famiglia voleva imporle l’infibulazione. L’inferno nascosto non è solo nella quotidianità in cui è costretta a vivere Afoua, fatta di abusi ed episodi costanti di razzismo: “Recentemente ho iniziato a lavorare come lavapiatti”, racconta con la voce rotta: “Una volta ho dovuto chiamare il taxi per tornare perché il proprietario non poteva accompagnarmi. Ci hanno fermato a un posto di blocco sulla via di Ben Gardane. Uno dei poliziotti mi ha costretto a scendere pretendendo un rapporto sessuale. Ho rifiutato più volte e lì ha cominciato a picchiarmi. Alla fine mi hanno lasciato andare ma sono rimasti i segni blu sul corpo”. In Tunisia le procedure di assistenza e protezione sono affidate agli organismi internazionali della Croce Rossa, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). In particolare l’Oim e l’Unhcr individuano i beneficiari di protezione, chi può godere di un’assistenza temporanea e chi, invece, non è autorizzato a rimanere sul suolo tunisino. “Ho fatto domanda di asilo per me e per il mio bambino e quello che ho ottenuto è stata una tessera dell’Unhcr. Tuttavia non ho diritto a cure e non posso permettermi neanche una stanza. L’unica alternativa credibile è la strada. Pensavo che la Tunisia fosse diversa dalla Libia, non è così”, è la testimonianza di Konke, scappata dal Camerun a causa di violenze di genere, dalla Libia dopo diversi stupri e affetta da gravi deficit motori che le impediscono di camminare. L’approccio tunisino alla questione migratoria resta quindi emergenziale. L’articolo 26 della Costituzione sancisce il diritto all’asilo secondo le leggi in vigore. Le quali tuttavia non esistono. “Qui non ci sono quadri giuridici e logistici per garantire condizioni di vita degne. I migranti sono lasciati a loro stessi, questo ha provocato molti problemi a Sfax, la principale città da dove si parte, e Médenine. Nell’ultimo anno abbiamo registrato diversi casi di razzismo da parte della popolazione locale”, dichiara a L’Espresso Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes). Un sistema che di fatto è stato appaltato alle agenzie internazionali e alimenta il pragmatico concetto di Fortezza Europa e il progressivo processo di esternalizzazione delle frontiere. Dal 2011 l’Unione europea, in un quadro che comprende diversi campi d’azione, ha finanziato la Tunisia per un totale di 2,5 miliardi di euro. “Dall’anno scorso la situazione è veramente inquietante: ci sono pressioni europee per fare giocare alla Tunisia un grande ruolo nelle intercettazioni, oggi avvengono anche in acque internazionali. I mezzi messi in campo dalle agenzie dell’Onu non sono adeguati alla situazione che stiamo vivendo”, conclude Ben Amor. L’approccio attuale al fenomeno migratorio ha portato a un aumento del 90 per cento dei respingimenti in mare rispetto al 2020. Da più parti è stato paragonato al modello libico: “Il viaggio è pericoloso, ti bloccano in mare e tanti subsahariani sono naufragati. Ma qui i tunisini non ci vogliono e negano i nostri diritti. Che dobbiamo fare?”, prosegue Afoua. Il dato più inquietante lo fornisce l’Oim stessa: dal 2014 sono più di 23mila le persone scomparse nella rotta del Mediterraneo centrale. Le capacità inadeguate sollevate da Ben Amor si rivelano in tutta la loro drammaticità a livello quotidiano. Il 26 novembre 2021 circa 500 migranti partiti dalla Libia sono stati salvati al largo della Tunisia e portati al porto di Ben Gardane. Stando alle testimonianze raccolte da L’Espresso, l’Oim ha consigliato il ritorno volontario al proprio paese di origine alle persone che nel frattempo erano state inserite nei centri di Médenine, Zarsis e Tataouine, negando in sostanza la possibilità di accedere alle tutele legali della protezione internazionale. L’arrivo di 500 persone ha causato diversi problemi di sovraffollamento. Soprattutto a Médenine con la sospensione dei ticket settimanali: “L’Oim è venuto con la Garde nationale, proprio quella che cattura in mare i migranti che vogliono arrivare in Europa. Dicono che se non ce ne andiamo a breve ci prenderanno e ci butteranno nel deserto”, è la denuncia di Afoua, preoccupata anche per il futuro dei suoi figli. Il deserto al confine tra la Tunisia e la Libia è anche quell’area di mondo dove avvengono le principali violazioni dei diritti umani. Un lembo di terra inaccessibile dove da anni arrivano testimonianze di violenze arbitrarie: “Ora alla frontiera si spara, poche settimane fa un giovane è arrivato qui e gli hanno trovato un proiettile nella testa”, racconta Abdallah Seif, presidente della coalizione delle associazioni umanitarie di Médenine. Una luce è stata accesa il 27 settembre dell’anno scorso quando alcuni migranti sono riusciti a riprendere il respingimento collettivo di circa 80 persone intercettate in acque tunisine e lasciate in pieno deserto. Una di loro era Rosaline, originaria della Costa d’Avorio, incinta di cinque mesi e oggi ospite dell’Oim a Médenine. Aveva già attraversato il deserto una prima volta a inizio 2021 quando era riuscita a scappare da una prigione a Zuara, in Libia. Il suo racconto avviene con un filo di voce: “Ogni giorno venivano a picchiarci, stuprarci e minacciarci. Una volta che pioveva abbiamo visto che c’era la chiave nella porta della prigione, abbiamo capito che potevamo scappare. Quando ci siamo trovate nel deserto eravamo 40 e in molte sono morte, compresa mia cugina. Mia figlia era molto malata e non avevo acqua da darle. Mi diceva ti amo, parole che non sono di una bambina di quell’età. ll suo corpo è diventato freddo ma io ero convinta che fosse viva, non potevo credere alla morte di mia figlia”. Le testimonianze di Afoua, Naminata, Konke e Rosaline aprono uno squarcio sulle violenze e i soprusi che subiscono le migranti al di là del mare, in un contesto dove la presenza delle organizzazioni internazionali viene considerata precaria e la rete delle associazioni della società civile quasi del tutto assente. Se per l’Europa la Tunisia rimane un partner solido per il controllo della mobilità nel Mediterraneo, per le migranti e i migranti si tratta dell’ennesimo inferno, ormai neanche più nascosto. Afghanistan, la battaglia del burqa di Francesca Mannocchi La Stampa, 6 febbraio 2022 Con il ritorno dei taleban le ragazze vivono rinchiuse in casa e non possono più studiare, ma anche l’ingerenza occidentale è un problema: per molte il velo è segno di rispettabilità. Nel 2013 Sameera Noori era al Cairo per partecipare a una conferenza con giovani di tutto il mondo. Rappresentava il suo Paese, l’Afghanistan. Un giorno, fuori dalla finestra del suo hotel sfilò un corteo di giovani e lavoratori e la protesta venne repressa violentemente dalle forze di sicurezza. Sameera stava chiudendo le bozze del discorso che avrebbe tenuto in compagnia di un gruppo di giovani egiziani, istintivamente disse loro: “Non fate come l’Afghanistan, state attenti ai pericoli quando li vedete arrivare da lontano”. Quelle parole arrivavano da lontano, gliele diceva sua madre ricordando gli anni della guerra civile che avevano creato le condizioni per l’ascesa dei taleban nella metà degli Anni 90. I signori della guerra che portavano gli uomini in battaglia, le donne rimaste sole, custodite dai famigliari più anziani e tradizionalisti o impoverite al punto da essere costrette all’accattonaggio, il Paese travolto dalle lotte tra chi, unito fino a pochi anni prima per combattere il nemico sovietico, si era trovato in breve tempo dai lati opposti delle barricate. Anni di guerra che avevano reso il Paese il terreno più fertile per gli estremismi. Fu in quel clima che i taleban espansero il loro consenso per la prima volta, proponendosi come i soli capaci di combattere la corruzione e ripristinare la stabilità. Presero il potere, le donne furono condannate alla vita vista dalle grate del burqa, chi riuscì a scappare, come la madre di Sameera, affrontò la vita da esule. “Non fate come l’Afghanistan - diceva Sameera, ricordando le parole della madre, ai suoi amici egiziani - riconoscete la minaccia prima che si trasformi in oppressione”. Nel 2013 Sameera aveva 21 anni, i suoi colleghi le dissero “parli come un’anziana”. Quando lo racconta sorride. Dell’anzianità, allora, aveva la saggezza delle origini, quando le origini sono un Paese in guerra da decenni. Oggi che di anni ne ha 30 scosta un pezzo del velo che le copre il volto, mostra i capelli ingrigiti e dice “sono invecchiata negli ultimi sei mesi”. Sameera Noori è la vicedirettrice e capo del dipartimento educativo di Coar (Citizens Organization for Advocacy and Resilience) un’organizzazione afghana che promuove progetti scolastici nelle aree rurali e progetti lavorativi femminili in villaggi e città dal 1989. Ha cominciato a lavorare per l’organizzazione nel 2012, di ritorno dal Pakistan, dove si era rifugiata la sua famiglia. Della sua infanzia non ha ricordi gioiosi. Porta nella memoria i campi profughi, una lingua distante, e la gente ostile. Per evitare lo stesso destino ad altri, una volta tornata in Afghanistan, Sameera ha cominciato a lavorare per le ong, a scrivere progetti per bambini che non avevano accesso al circuito scolastico, e offrire programmi di apprendimento accelerato a bambine e giovani donne. Era lei a rappresentare Coar nei consessi internazionali, sempre lei a gestire milioni di dollari, parte dei fondi destinati ai progetti educativi. Oggi il suo ufficio è vuoto, i progetti bloccati. Delle 25 persone che lavoravano con lei 10 sono riuscite a lasciare il Paese e le altre si nascondono. L’ultima volta che è stata in ufficio ha portato via gli hard disk e le liste dei beneficiari per paura che subissero ritorsioni. Oggi non è più una rifugiata della diaspora, come durante l’infanzia, ma una fuggiasca in casa sua. Il luogo dove chiede di essere incontrata è freddo, scarno e senza elettricità. Sameera ha il capo velato, gli occhi truccati, il sorriso sbilenco che racconta una speranza vacillante. La città fuori dai vetri è silenziosa e si è ingrigita come i suoi capelli. Lei preferisce raccontare la vita attiva che aveva prima, non raccontare quella sospesa che ha ora. Per spiegare gli errori dell’Occidente nell’osservare il suo Paese parte da lontano. Anni fa, Coar ottenne fondi cospicui dalla Banca Mondiale per sviluppare progetti per aiutare le donne nelle aree rurali ad avviare attività. Bisognava far conoscere il progetto alle comunità, selezionare le donne, finanziarle in contanti e avviare i negozi, le scuole, i laboratori. Questo avrebbe garantito loro un’istruzione e rafforzato le finanze delle famiglie. Sameera consultò la timeline del progetto: secondo i parametri internazionali in due anni le donne avrebbero dovuto maturare una forma minima di istruzione, e essere pronte a prendersi sulle spalle attività in autonomia dal nucleo familiare. D’altronde, le dissero i suoi interlocutori in Europa e negli Usa, aveva già funzionato in India e in Bangladesh, perché non avrebbe potuto funzionare in Afghanistan? “Perché non conoscevano il Paese”, dice laconica. Una volta ricevuti i fondi dalla Banca Mondiale, Sameera trascorse un anno a negoziare con le comunità: solo se gli anziani avessero acconsentito, le donne avrebbero potuto partecipare alla formazione scolastica e professionale. Poi bisognava trovare le insegnanti, e in tantissime aree del Paese ben prima di mancare le alunne, mancavano le maestre perché per le famiglie, lì, avere una donna che lavora è una vergogna. E anche quando si trattava con gli anziani e si trovavano le insegnanti, soprattutto nelle zone già controllate dai taleban, bisognava assumere le donne e anche un familiare maschio che la accompagnasse, per controllarla. “Oggi è tutto fermo, ma prima per noi era così. Non ci sono passi facili in questo Paese. Portare una scuola per 13 bambine in una zona remota, per noi poteva significare anche trattare un anno, un anno e mezzo con gli anziani della comunità”. Una manciata di colleghi (maschi) di Sameera prova ancora a lavorare, ogni giorno bussano ai ministeri per avere accesso ai fondi, continuare a finanziare centri di insegnamento. Lo fanno, spiega la ragazza, perché anche nei taleban ci sono gruppi con anime e regole diverse. Una cosa, però, li accomuna: “I taleban sostengono che permettere alle donne di studiare, specializzarsi, ottenere dei master o lavorare sia una richiesta della comunità internazionale, cioè di chi, secondo loro, ha invaso il Paese per vent’anni corrompendone usi e costumi. Usano i progressi delle donne come arma, fanno leva sulla parte più tradizionalista della società e così raccolgono consenso”. Combattere il nemico assecondando tradizioni conservatrici, usare le donne come strumento retorico per raccogliere consenso. Non una storia nuova. Non solo per i taleban. Nella primavera del 2009 l’allora presidente afghano, Hamid Karzai, sostenne e firmò una legge che rendeva illegale per le donne della minoranza sciita rifiutare le richieste sessuali dei mariti, norma che presupponeva anche (sulla base di una versione dello Shia Personal Status Law) ottenere dai mariti il permesso di uscire di casa. Trecento donne scesero in piazza chiedendo di abrogare la legge che di fatto consentiva uno stupro e furono prese di mira da un gruppo di uomini che, etichettandole come “prostitute e schiave dell’Occidente” le molestarono pubblicamente. La guerra era in atto da sette anni e Hamid Karzai era il primo presidente eletto in Afghanistan dopo la caduta dei taleban, sostenuto dall’amministrazione Bush era il volto presentabile della nuova amministrazione, quella che avrebbe dovuto garantire diritti ed equità per tutti. Le donne in parlamento protestarono, così come le organizzazioni internazionali. Eppure, nonostante gli appelli degli attivisti in difesa dei diritti delle donne, Karzai firmò, nel tentativo, evidentemente, di ottenere sostegno politico dalle frange più tradizionaliste del Paese. Il direttore di Human Rights Watch, Brad Adams, disse, interpretando il processo in atto, “qualsiasi accordo con i taleban e altri gruppi fondamentalisti non dovrebbe essere fatto a scapito delle donne, i piccoli traguardi ottenuti in questi anni non devono essere oggetto di negoziazione”. Sono passati 13 anni da allora, i taleban sono tornati al potere e ancora una volta la condizione femminile è il barometro per misurare la società afghana e il terreno per il braccio di ferro diplomatico tra l’Occidente e i taleban. Per vent’anni i diritti delle donne sono stati uno dei baluardi per giustificare la presenza delle truppe in Afghanistan. “Prima, al tempo dei governi di Kharzai e Ghani, vivevamo di illusioni, sia noi sia i governi occidentali - dice Sameera - le donne erano relegate a ruoli minori e quelle che avevano responsabilità non avevano il rispetto di larga parte della società. Voi combattevate per una libertà che qui non funziona, ma non avete mai voluto accettarlo. Perché la libertà non ha lo stesso significato ovunque. La mia non è la vostra”. Oggi a difendere le libertà urbane, l’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro, sono rimaste poche coraggiose donne, sempre più esposte a ritorsioni e minacce. Lo scorso 19 gennaio Tamara Paryani e Parwana Ibrahimkhel - attive nelle proteste di questi mesi - sono scomparse, portate via di notte dalla loro abitazione da un gruppo di uomini. I leader taleban hanno dapprima negato di averle arrestate, poi, proprio durante i recenti colloqui di Oslo tra le autorità talebane e i governi occidentali, il portavoce del gruppo Zabihullah Mujahid ha ribadito che i taleban “hanno il diritto di arrestare e detenere i dissidenti”, gettando una luce cupa sul destino delle giovani. Anche per manifestare contro le detenzioni arbitrarie di questi mesi, così come nel 2009 manifestarono contro la legge che ammetteva gli stupri domestici, le donne sono di nuovo scese in piazza, additate, oggi come allora, come “prostitute e spie degli invasori occidentali”. Il dibattito sui diritti delle donne è stato, e rimane, influenzato dalle percezioni polarizzate sulle donne, da quelle talebane, naturalmente, ma anche da quelle di un occidente che non ha saputo in vent’anni leggere le sfumature delle molte anime afghane, e che non ha saputo collocare il tema dell’emancipazione femminile in un contesto storico animato da tensioni complesse, irrisolte, irriducibili. Per gli occidentali, le norme imposte dai taleban e i costumi delle aree più tradizionaliste dell’Afghanistan rappresentano un mondo arretrato, medievale. Specularmente, per molti afghani, nulla rappresenta i pericoli dell’occidentalizzazione più del movimento per i diritti delle donne. Sameera lo sa, perché quegli afghani li conosce e non li teme. Per anni ha dialogato con loro cercando di convincerli che permettere alle ragazze di studiare non fosse sinonimo di vergogna, e non fosse indecoroso. A volte è riuscita, a volte no. Ma ha sempre portato rispetto per un mondo così distante da lei e che però rappresenta un pezzo, vasto, del Paese che ama. Per questo oggi, che le è negato di lavorare, che ha il terrore di uscire di casa, che non chiede un visto per paura di essere arrestata, quando osserva le immagini delle manifestazioni in cui le attiviste bruciano i burqa in strada, Sameera scuote la testa e dice: “Questa, per esempio, non è libertà. Voglio, come loro, che i miei diritti non siano violati. Voglio che le ragazze studino e le donne tornino alla vita pubblica. Ma so che esiste un Paese remoto in cui nel burqa risiede un’idea di rispettabilità. Questa cultura è distante, ma respingo l’idea che bruciare i burqa in piazza sia un modo di combattere”. Da quando i taleban sono tornati al potere Sameera fa fatica a parlare, dice di aver cominciato a perdere le parole. Vede sempre meno persone, anche tra i suoi familiari. Quasi nessuno, tra i suoi conoscenti, sa che è ancora nel Paese. “C’è un punto - dice - in cui cominci a dubitare di tutto”. La cosa che la rattrista di più è la lista delle persone che vanno via, che ogni giorno si allunga. I centomila di agosto e quelli che, pagando, oggi riescono a ottenere un visto e se ne vanno. Rifugiati com’era lei da bambina, da qualche parte, in attesa un giorno di tornare.