“Contro il sovraffollamento più alternative al carcere coi lavori di pubblica utilità” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 febbraio 2022 Dino Petralia, il capo del Dap in uscita: seguire il richiamo di Mattarella. Se ne andrà tra un mese, con un anno di anticipo rispetto al limite dell’età pensionabile, per “restituire alla famiglia un po’ del sostegno che mi ha assicurato durante tutta la mia carriera”, spiega Dino Petralia, 69 anni da compiere e magistrato da 42, trascorsi quasi sempre “fuori sede”: da Trapani, dove lavorò al fianco di Giangiacomo Ciaccio Montalto assassinato dalla mafia nel 1983, ad altre sedi siciliane, il Csm a Roma e poi Palermo come procuratore aggiunto, procuratore generale di Reggio Calabria e infine - dal maggio 2020 - direttore delle carceri italiane, a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “A Natale ho trascorso la prima vacanza con una nipotina che oggi ha quattro mesi - racconta - e avendo una moglie giudice, un figlio assessore e un’altra all’estero ho pensato fosse giusto dedicarmi alle loro esigenze. La ministra Cartabia ha compreso le mie ragioni, e insieme abbiamo concordato i tempi della mia uscita”. Il presidente Mattarella ha ricordato che la dignità di un Paese si misura anche da “carceri non sovraffollate che assicurino il reinserimento sociale dei detenuti”. Qual è la situazione? “Il sovraffollamento negli ultimi due anni è calato, da 61.000 presenze a 53.000 circa, sempre troppe rispetto ai posti disponibili. La discesa è dovuta soprattutto al Covid e al conseguente lockdown, che ha provocato una forte riduzione degli arresti e l’aumento delle detenzioni domiciliari. Ora però, con la progressiva uscita dall’emergenza sanitaria gli ingressi stanno risalendo, e i contagi aggravano il problema”. Quanto pesa oggi il Covid nelle carceri? “Tra i detenuti ci sono circa 3.600 positivi, di cui solo 8 sintomatici e 27 ricoverati; tra il personale abbiamo circa 1.500 contagiati e quattro ricoverati. Le difficoltà derivano dalle esigenze di isolamento dei positivi, perché con gli spazi a disposizione dobbiamo spostare i reclusi non solo da un istituto all’altro, ma a volte anche da una regione all’altra, con gravi disagi per loro e le loro famiglie”. Come si può evitare una nuova emergenza carceraria? “Servono interventi legislativi per una maggiore attenzione a chi sconta in cella pene minime, anche residue, attraverso un potenziamento dell’esecuzione penale esterna. Su questo l’impegno della ministra è primario, e c’è da augurarsi che il Parlamento la segua. Un maggiore accesso a misure alternative, ad esempio con i lavori di pubblica utilità, significa maggiore potenzialità sociale della pena. Che poi è l’obiettivo indicato dal presidente Mattarella, quando ci ha ricordato che il reinserimento dei detenuti è la migliore garanzia di sicurezza per tutti”. Ma c’è abbastanza lavoro per i detenuti? “Purtroppo no, sebbene le opportunità siano in aumento. Le carceri sono lo specchio della realtà del Paese, e quindi c’è più lavoro per i detenuti al Nord, anche per via delle imprese che utilizzano la mano d’opera dei detenuti, che a volte offrono prodotti migliori di quelli lavorati all’esterno. Al Sud ci sono meno occasioni, e sarebbe fondamentale ridurre questa disomogeneità geografica. Il lavoro nobilita ovunque, ma in carcere ha una funzione di reinserimento e riscatto ancora più importante”. Anche su questo aspetto la pandemia ha avuto effetti negativi? “Certo, perché ha limitato i contatti con l’esterno, diminuendo sia le uscite dei detenuti che gli ingressi degli operatori, ma più in generale ha influito negativamente sul trattamento. In questo senso possiamo dire che il Covid è anticostituzionale, perché costringe alla chiusura del carcere, mentre la Costituzione ci chiede un carcere aperto all’esterno. Io ho provato a riaprirlo, anche grazie all’ottimo rapporto instaurato con il Garante nazionale di detenuti e con le associazioni che lavorano negli istituti, da Nessuno tocchi Caino alla Comunità di sant’Egidio, Antigone e altre ancora, e sono certo che chi resta e verrà dopo di me continuerà a farlo”. L’uso della tecnologia imposto dal Covid ha portato qualche novità positiva? “Sicuramente l’introduzione delle videochiamate, in sostituzione dei colloqui in presenza, che spero restino anche quando sarà finita l’emergenza. Per un detenuto poter vedere la propria casa, insieme ai familiari, ha un valore enorme, aiuta a stemperare le tensioni e a garantire diritti. Sono frammenti di libertà virtuale da incrementare magari attraverso schermi più grandi, così come bisognerebbe mantenere l’aumento delle telefonate consentite”. Lei è arrivato all’indomani delle rivolte in cui morirono 13 detenuti, con decine di feriti anche tra gli agenti, sulle quali ancora non c’è ancora la verità... “Siamo in attesa delle conclusioni della commissione ispettiva guidata da Sergio Lari, che è stato uno dei migliori magistrati inquirenti italiani, per verificare ipotetici ma finora non verificati collegamenti tra i diversi episodi, nonché eventuali anomalie da parte della polizia penitenziaria”. E i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere? “L’indagine della magistratura ha fatto venire alla luce comportamenti inqualificabili e devastanti per l’amministrazione. La visita della ministra Cartabia e del premier Draghi ha segnato una reazione importante, e sono state adottate numerose sospensioni. Ma in generale abbiamo dirigenti e un Corpo di polizia penitenziaria, per cui nutro stima e affetto, che pur vivendo situazioni di disagio si spendono per i detenuti, con punte di eccellenza come il Nucleo investigativo centrale e il Gruppo operativo mobile. Gli incontri e i colloqui con gli agenti intervenuti nelle situazioni di criticità sono stati tra i momenti più importanti di questa esperienza. Una volta in pensione, però, non mi caricherò di ricordi ma di racconti”. Intanto ci racconti un incontro che ricorda più di altri... “Quello con un agente che per due volte ha salvato la vita a un giovane detenuto che voleva suicidarsi, e le assicuro che capita spesso. Gli raccomandai di raccontarlo ai suoi figli, ma lui mi disse di sentirsi a sua volta figlio, e che l’avrebbe raccontato ai suoi genitori. Potevano esserne fieri”. E l’incontro con un detenuto che l’ha più segnato? “Resta quello con una persona molto istruita, un laureato, che mi chiese di poter avere l’acqua calda e lo scarico del water funzionante. Mi si rivolse come implorasse un privilegio, invece era un semplice diritto che il nostro Stato non può permettersi di non garantire”. Dopo l’allarme di Mattarella: aboliamo il carcere per i non condannati di Piero Sansonetti Il Riformista, 5 febbraio 2022 Mattarella, nel suo discorso di insediamento, oltre a picconare la magistratura, ha lanciato un allarme per la terribile condizione di affollamento delle carceri e per la situazione indignitosa nella quale vivono decine di migliaia di detenuti. Con saggezza ha evitato di dire che una delle cause - l’ultima - di questo orrore sta nella rinuncia alla riforma carceraria decisa quattro anni fa dal governo Gentiloni e poi dal feroce affossamento realizzato dal mitico ministro Bonafede. Mattarella è stato applaudito. Persino da Bonafede. Prendiamo per buoni questi applausi e immaginiamo che il Presidente con le sue parole abbia convinto e portato al ravvedimento i giustizialisti più estremi (tranne Travaglio, che è un po’ più sveglio dei suoi compagni, e infatti è furioso). A questo punto possiamo proporre un intervento urgente? Il elementare. Si tratta semplicemente di affermare uno dei principi essenziali del diritto, che esclude l’esecuzione della pena per chi non sia stato condannato. Tutto qui: si tratta di abolire il carcere preventivo (salvo per i casi estremi, di violenza, che sono poche centinaia all’anno). Oggi ci sono in cella più di 15 mila persone che non hanno ancora avuto nessun processo. Le statistiche, tra l’altro, ci dicono che la metà di loro sarà assolto in primo grado e un altro 20 o 30 per cento in appello o in Cassazione. Dunque per circa 10 mila persone, ogni anno, la carcerazione è totalmente ingiusta. A chi serve? Alle Procure, per disporre di un potere fisico incontrollato e assoluto sulle persone che decidono di mettere sotto torchio. Vogliamo tornare alla civiltà? Il fronte giustizialista, dopo la gaffe dell’altro ieri in Parlamento, è stato preso per le orecchie e richiamato all’ordine da Marco Travaglio. Il quale in questi giorni ha un bel da fare a tenere uniti i suoi che scappano da tutte le parti: cinquestellati indisciplinati, dimaisti diventati liberal, Conte che sbaglia le dichiarazioni, magistrati che ci capiscono poco e vanno appresso alla corrente esultando invece di fischiare. Un vero casino. Adesso, sembra, il fronte si è ricompattato (salvo i traditori” come Di Maio, che quello è più infido di Galeazzo Ciano…), ed è sceso in trincea contro il trio delle streghe: Mattarella-Draghi-Cartabia. Travaglio è stato molto rude sul suo giornale: si è disperato per l’insipienza di un bel drappello di 5 Stelle, anzi di tutti, che si son spellati le mani senza accorgersi che Mattarella stava attaccando i magistrati. Il povero direttore, che ormai ha assunto stabilmente la direzione di quel che resta del grillismo, li ha bastonati. Deve aver pensato che se gli tocca andare avanti con questi qua non va molto lontano. Nel suo richiamo all’ordine, anche per farsi capire dalle teste dure del suo seguito, ha menato fendenti contro Mattarella, accusandolo anche di avere tradito la Costituzione. Come? Non accettando la nomina di Paolo Savona a ministro dell’economia e poi accettando le dimissioni di Conte e conferendo l’incarico a Draghi. Travaglio ritiene che la Costituzione su questo punto sia moto chiara: il premier deve essere Conte. Comunque il grande equivoco dell’altro giorno è stato assai divertente. Vedere mezzo fronte giustizialista (molto più di mezzo) battere le mani a Mattarella che picconava la magistratura, è stato abbastanza spassoso. E certo non si può dare torto a Travaglio e alla sua furia. Pensate che persino Gratteri ha omaggiato Mattarella, e che oltretutto il suo omaggio è stato valorizzato proprio dal Fatto, probabilmente all’insaputa del direttore. Quindi oggi si festeggia? No, per una semplice ragione. Quel Parlamento che ha passato il pomeriggio ad applaudire Mattarella è lo stesso parlamento di conigli che negli anni scorsi si è sempre piegato ai diktat della magistratura. Voi conoscete molti parlamentari che si sono battuti contro lo strapotere dei Pm e per il ritorno allo stato di diritto (invocato da Mattarella)? Io al massimo una decina. Tutti gli altri sono sempre rimasti zitti, non hanno speso un centesimo del loro tempo per occuparsi dei problemi della giustizia. Molti hanno fatto silenzio persino difronte agli orrori di Bonafede, alle leggi borboniche, alle spazzacorrotti e spazza diritto, alla consacrazione dell’eternità dei processi con l’abolizione della prescrizione, all’affossamento della riforma carceraria, alla liberalizzazione dei trojan tedesco-orientali, alle autorizzazioni ai processi politici ai ministri; i più anziani di loro non si erano opposti all’arresto del senatore Caridi (dichiarato dopo alcuni di carcere del tutto innocente), né all’espulsione dal Senato di Augusto Minzolini (condannato da un giudice ex sottosegretario del partito avversario) né di Berlusconi, avevano votato la legge Severino, che è una mostruosità, e avevano in tutti i modi contribuito al disfacimento del nostro sistema giudiziario, trasformato in una casamatta del potere senza controllo di un gruppetto di magistrati. Perché allora applaudivano quando Mattarella denunciava questi misfatti? Certo, i misfatti più gravi sono da attribuire alla magistratura, ma i parlamentari erano stati complici convinti. Perchè erano stati complici? Solo per paura, per codardia? Può darsi. E può darsi che ascoltando il “capo” che dava via libera a una riforma moderna del catafalco giustizia, abbiano pensato: ma allora si può!. Sarà anche così, ma proprio per questo: c’è da fidarsi? Io non mi fido. Non c’è bisogno di un Parlamento che faccia piccole riforme. Occorrono colpi d’ascia con l’obiettivo di riportare sotto controllo un potere assoluto che ha maturato una degenerazione correntizia e soprattutto sovversiva. Servono molte leggi che spezzino questa capacità di sopraffazione che inquina la modernità e la civiltà e la libertà. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, fine del controllo del Csm da parte della corporazione e delle correnti, prescrizione, introduzione di elementi che stabiliscano la reale parità tra difesa e accusa, divieto di porte girevoli tra politica e magistratura, fine dell’ergastolo e dell’inumano 41 bis, e molto altro ancora. Ma soprattutto serve una riforma che tolga ai Pm e ai Gip (spessissimo loro sodali taciturni) il potere quasi fisico di esercitare una inaudita violenza sugli indiziati, sequestrandoli e sottopoenedoli a ricatto, paura, demolizione psicologica, talvolta vera e propria tortura. E privandoli di ogni diritto umano e civile. Oggi nelle nostre carceri ci sono più di 15 mila detenuti in attesa di giudizio. Cioè mai condannati. Cioè innocenti. Più della metà di loro sarà assolta in primo grado, dicono le statistiche, un altro 20 o 30 per cento in appello o in Cassazione; resta una piccola minoranza che in gran parte sarà condannata a piccole pene. Capite l’enormità di questa ingiustizia? E voi lo sapete perché sopravvive questa ingiustizia medievale? Perché senza questo potere i Pm e i Gip diventerebbero dei semplicissimi inquirenti, costretti a trovare gli indizi e le prove, i riscontri, a lavorare duro, a cercare i delitti e non a mettere nel mirino i sospetti (questa cosa la dice addirittura Antonio Di Pietro). Proibire la carcerazione preventiva se non nei casi estremi di violenza (poche centinaia all’anno) sarebbe davvero il primo passo. E sarebbe la prova che Mattarella parlava sul serio. Se non si fa neanche questo vuol dire che quel discorso era una messa in scena, erano una messa in scena gli applausi, ed è spiegabile la reazione cauta di molti magistrati: indispettiti, sì, ma sicuri che alla fine la spuntano loro, come sempre. Gli ha fatto un baffo il clamoroso scandalo Palamara, figuratevi un discorsetto del Presidente. Detenuti con disturbi mentali. Ferro: “Cortocircuito che non può rimanere irrisolto” Corriere della Calabria, 5 febbraio 2022 Interrogazione al ministro della Giustizia dopo la condanna della Cedu. “Il governo affronti il tema dalla presa in carico dei detenuti con disturbi mentali, anche per scongiurare il rischio di nuove condanne per l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo”. È quanto afferma il deputato di Fratelli d’Italia Wanda Ferro, che insieme al collega Emanuele Prisco ha rivolto una interrogazione al ministro della Giustizia Marta Cartabia, dopo che la Cedu ha condannato l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. “Nel gennaio 2019 - ricorda Wanda Ferro - il Gip di Roma aveva disposto per il detenuto, sofferente di disturbo della personalità e disturbo bipolare, accusato di molestie nei confronti della sua ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni, il suo “immediato collocamento” per un anno in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), le strutture che hanno sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari; non avendo trovato posto nelle Rems, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria lo aveva collocato in carcere, ma, come sottolineato dalla Corte di Strasburgo, “non ha beneficiato di alcuna strategia terapeutica globale per la gestione della sua patologia, e questo, in un contesto caratterizzato da cattive condizioni carcerarie”. In particolare, secondo l’organismo del Consiglio d’Europa era dovere del governo italiano trovare un posto nelle Rems o un’altra soluzione adeguata, come peraltro la Corte aveva espressamente indicato nel provvedimento provvisorio emesso da Strasburgo il 7 aprile 2020; l’allora Governo italiano (Conte II) rispose che non era in suo potere decidere alcuna altra collocazione per l’uomo, considerato socialmente pericoloso, se non le Rems, come disposto dal Gip, dove però “nonostante le ripetute richieste, nessun posto si è liberato”. La storia delle Rems, è iniziata con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari: sono 32 su tutto il territorio nazionale, attive dal 2015, e ospitano poco meno di 600 persone. In molti casi, come ha spiegato Miravalle dell’Associazione Antigone, “i reparti psichiatrici diventano sezioni dove ci si limita alla cura farmacologica, senza nessun tipo di riabilitazione. Non è sempre così, naturalmente. Ma quando si instaurano queste dinamiche, spesso dovute all’alto numero di detenuti in cura e alla carenza di personale, il rischio è che la salute del detenuto non abbia margini per migliorare. La pandemia ha complicato le cose, data la difficoltà nel far entrare gli educatori in carcere. Ma, Covid a parte, mancano i medici: in media, nelle carceri italiane lo psichiatra è presente 8.97 ore a settimana ogni 100 detenuti. Un tempo chiaramente insufficiente per andare oltre la semplice prescrizione di farmaci”. Nella sua interrogazione Wanda Ferro chiede anche al governo quali siano i dati aggiornati sul numero di soggetti con problemi psichiatrici detenuti negli istituti penitenziari italiani e, in particolare, di soggetti detenuti, in attesa di collocazione presso le Rems. “La sentenza della Cedu - conclude Wanda Ferro - dimostra un cortocircuito istituzionale che non può rimanere irrisolto e ci impone di immaginare nuovi modelli per la salute mentale, in modo da prendere in carico anche i detenuti con patologie psichiatriche gravi”. Ogni giorno tre innocenti finiscono in cella per errore di Giuseppe Scarpa Il Messaggero, 5 febbraio 2022 Oltre mille cittadini all’anno arrestati e poi risarciti. Dal 1992 spesi 795 milioni. Ogni giorno in Italia tre persone finiscono in carcere o ai domiciliari da innocenti. I motivi per cui si può essere arrestati, all’improvviso e senza motivo, sono i più disparati. Sono casi surreali, eppure veri e costano giorni, settimane, mesi e anche anni di privazione della libertà. I risarcimenti dallo Stato quando arrivano, arrivano tardi. E non sempre aiutano a ripartire dopo una vita che è stata devastata, il lavoro perso, la famiglia disintegrata e l’equilibrio psicologico compromesso. Spesso, poi, nonostante tutto rimane negli altri indelebile quel sospetto che impedisce di ripartire: “E se in realtà fosse davvero colpevole ed è riuscito a cavarsela?”, è uno di quelli più diffusi. Ma ecco alcuni esempi. C’è il caso di omonimia. Il nome e il cognome coincidono con quelli di un pericoloso narcos e all’improvviso ci si può ritrovare in carcere da innocente. Oppure c’è un pentito che accusa di essere il mandante di un omicidio senza alcuna prova. E allora le forze dell’ordine bussano al portone di casa, poi ti rinchiudono in cella e ci si deve difendere per anni in un processo, spendere una quantità infinita di sodi per un avvocato e perdere del prezioso tempo che nessuno potrà mai restituire, salvo poi essere assolti. E ancora, può succedere che qualcuno ti punti il dito, magari per discolparsi, e sostenga che sei uno spacciatore. Anche qui l’epilogo è lo stesso. Dentro un carcere senza capire cosa stia succedendo. È anche accaduto che i giudici spediscano dietro alle sbarre un uomo nonostante il reato sia stato depenalizzato. Sembrano storie impossibili, da film dell’orrore. Incubi che si realizzano. Ma non si tratta di sogni perché tutto questo si verifica molto più spesso di quanto si possa pensare. I numeri dicono che in Italia, in media, sono 1.015 le persone arrestate da innocenti. La malagiustizia costa parecchio alle tasche dei contribuenti. In 29 anni - tra il 1992 e il 2020 - sono state risarcite 29.452 persone per un totale che sfiora i 795 milioni di euro, una media di 27 milioni di euro all’anno. Ovviamente il calcolo del ristoro si basa su una tabella ben precisa che, secondo molti, andrebbe aggiornata. Ad ogni modo queste sono le cifre: 235 euro per un giorno in custodia cautelare in carcere da innocente. Per i domiciliari la metà. Inoltre c’è un limite, un tetto massimo, lo Stato non risarcisce oltre i 516mila euro, il vecchio miliardo in lire. Ma i soldi, in molti casi, rappresentano solo una parziale compensazione, perché irrisarcibile è il tempo trascorso dietro le sbarre. Le accuse che si rivelano infondate. L’esistenza che è stata compromessa dal punto di vista professionale e affettivo. Dopo un anno di prigione, spesso, si esce senza più impiego se si è dipendenti, con l’azienda fallita se si è un imprenditore. Il caso di Enzo Tortora ne è l’emblema. In Italia ogni anno si contano 1.015 Enzo Tortora di cui, però, nessuno parla. Eccezione fatta per Errorigiudiziari.com che, con precisione, aggiorna quotidianamente i numeri e racconta le storie di chi finisce in cella senza alcuna colpa. Scorrendo il sito si possono leggere le storie drammatiche di 842 tra uomini e donne che, un bel giorno, si sono ritrovate all’interno di un carcere. Un lavoro scrupoloso portato avanti da due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Gli ultimi dati aggiornati dai due cronisti sono relativi al 2020, in questo anno si contano 750 casi di ingiusta detenzione che hanno comportato risarcimenti, da parte dello Stato, per 37 milioni di euro. Su Errorigiudiziari è presente anche una classifica. Una top ten delle città in cui si consumano più ingiustizie. In questa particolare graduatoria (relativa sempre al 2020) la prima casella è occupata da Napoli, poi vengono Reggio Calabria e Roma, rispettivamente con 101, 90 e 77 casi di detenzioni sbagliate. Scorrendo la “classifica” queste sono le altre città che compaiono: Bari (68), Catanzaro (66), Palermo (46), Lecce (39), Milano (39), Catania (37) e Venezia (23). Il tratto che accomuna queste vicende è sempre lo stesso. Indagini fatte con grande superficialità, nonostante al penale si giochi con la libertà delle persone. Finito il calvario, una volta usciti con un’archiviazione, un proscioglimento o un’assoluzione dal ginepraio della giustizia italiana occorre infilarsi nuovamente nel labirinto dei tribunali per ottenere giustizia. Anche qui l’esito non è scontato: “Entro due anni dall’assoluzione - spiega Maimone - è necessario presentare la domanda per istanza di riparazione per ingiusta detenzione ma quasi il 75 % delle richieste di risarcimento viene respinto, ne passano in media un 25%”. Papa Francesco ai detenuti e ai volontari: “Una speranza contro la cultura dello scarto” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 5 febbraio 2022 “Siete segni di speranza contro la cultura dello scarto, oggi purtroppo diffusa”. Lo ha detto Papa Francesco ai detenuti e ai volontari accompagnati a incontrarlo dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Arnoldo Mosca Mondadori, che gli hanno portato il Violino del Mare costruito con il legno di un barcone affondato nel Mediterraneo. “Le cose che fate sono segni di speranza che si oppongono alla cultura dello scarto, oggi purtroppo diffusa. Voi invece cercate di costruire proprio con le pietre scartate una casa in cui si respiri un clima di fraternità e giustizia sociale”. Così papa Francesco alle persone detenute, ai volontari, agli operatori della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti guidata da Arnoldo Mosca Mondadori - che con questo incontro ha celebrato i dieci anni di vita della sua creatura - e delle altre Associazioni incontrate ieri nella Sala Clementina del Vaticano. Tra le testimonianze offerte a Bergoglio durante l’incontro la musica scritta apposta da Nicola Piovani per il Violino del Mare, costruito con il legno di un barcone affondato nel Mediterraneo, le ostie prodotte nelle carceri di Opera e San Vittore, il vino prodotto in quello di Alba, l’esibizione della piccola Orchestra dei Popoli “Vittorio Baldoni” con una rappresentativa del Coro Amici della Nave di San Vittore. Arnoldo Mosca Mondadori nel presentare tutte le realtà partecipanti all’incontro ha ricordato come molte delle persone presenti vivano in situazioni di “grande disagio, carcere, guerra, emarginazione”, spendendosi in modo costruttivo per porvi rimedio: gente come padre Gabriele Romanelli nella Striscia di Gaza, o padre Giuseppe Bettoni a Milano con la sua casa di accoglienza per mamme in difficolta e per i loro figli, o Salvatore e Raffaella Buonocore con il loro impegno accanto a persone con disabilità, altri ancora provenienti dall’Argentina. Il presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha ricordato uno per uno i diciassette “laboratori eucaristici” in cui vengono realizzati il pane e il vino regalati in seguito a tanti sacerdoti per le loro messe, e figure come quella di Gregorio Gitti che per questo ha “aperto le sue vigne” al lavoro dei detenuti di Alba: la cui direttrice Giuseppina Piscionieri era a sua volta presente insieme con i direttori di Opera e San Vittore, Silvio Di Gregorio e Giacinto Siciliano. A suonare il Violino del Mare, realizzato dai detenuti della liuteria di Opera, Carlo Maria Parazzoli primo violino dell’orchestra di Santa Cecilia. Mondadori ha inoltre citato le altre realtà con cui la Fondazione collabora da tempo: l’associazione Realmonte presieduta da Cristina Castelli, con la sua sartoria che offre una opportunità a persone rifugiate; l’associazione Amici della Nave, con la presidente Eliana Onofrio e Graziella Bertelli, fondatrice del reparto La Nave di San Vittore cui l’associazione far riferimento; la cooperativa La Meridiana, con il suo presidente Roberto Mauri, impegnata accanto a persone malate di Sla e Alzheimer. L’incontro si è concluso come si diceva con l’esibizione della Piccola Orchestra dei Popoli Vittorio Baldoni (e un “pensiero grato e grande” è stato indirizzato dal papa stesso al ricordo della signora Marisa Baldoni) e da sei ragazzi del Coro degli Amici della Nave che insieme hanno eseguito un brano composto su testo di David Maria Toroldo - della cui scomparsa ricorre il trentennale proprio in questi giorni, il 6 febbraio - e un brano della tradizione mediterranea arricchito dalla danza derviscia della ballerina turca Nesli. “Sappiamo che costruire con le pietre scartate non è facile - ha concluso papa Francesco - e che ognuno di noi ha i suoi limiti e i suoi peccati. Tutti noi. Ma la misericordia di Dio è più grande e se ci guardiamo come fratelli e sorelle Lui ci perdona e ci aiuta nell’andare avanti. Anche io vi ringrazio ancora e vi incoraggio nel continuare il vostro cammino”. Effetto Mattarella: la riforma del Csm riappare subito a Montecitorio di Valentina Stella Il Dubbio, 5 febbraio 2022 Il sottosegretario Sisto conferma: “Si riparte” Partiti entusiasti, aperture da Anm e correnti. “Sulla giustizia ripartiamo dalle parole del presidente Mattarella e dall’urgenza di intervenire drasticamente per far sì che indipendenza e autonomia dei giudici trovino nella centralità e tutela dei cittadini la verifica della loro effettività”: non poteva sintetizzare meglio lo stato dell’arte il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Si riparte dunque dal messaggio del Capo dello Stato al Parlamento che, numeri alla mano, ha dedicato esattamente il 10% della sua relazione al tema della giustizia, sollecitando un’accelerata sulla riforma del Csm. Ha sbloccato così quegli ingranaggi che fino ad ora erano in stallo. Il primo: la ministra Marta Cartabia, poco prima del giuramento, avendo se non potuto conoscere in anteprima, almeno intuito il richiamo di Mattarella, aveva incontrato Draghi per riprendere il dossier sulla magistratura. Secondo: ieri Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera, ha annunciato che il 16 febbraio si ricomincerà ad esaminare i 400 emendamenti parlamentari alla riforma del Csm (presentati a giugno). Quali sono i possibili scenari? Che la ministra porti i propri emendamenti in Cdm per ottenere un vaglio politico; ipotesi, tuttavia, vista da qualche parlamentare come una contraddizione rispetto alla volontà di non blindare il testo dichiarata dalla guardasigilli. Anche perché questa, più di altre, è una riforma che necessita di ampia discussione. L’altro scenario è che, dopo un vaglio degli uffici di Draghi, il pacchetto emendativo vada direttamente in commissione. Lì, in ogni caso, il 16 febbraio il governo dovrà esprimere un parere su quelli già depositati dai partiti, e contemporaneamente inizierebbe, qualora ci fosse la proposta governativa, il lavoro subemendativo dei deputati. Insomma la partita resta complicata, ma almeno non è più rinviata a data da destinarsi. Di sicuro le parole di Mattarella hanno trovato apprezzamento ovunque. Per il deputato di Azione Enrico Costa “il Presidente è stato chiarissimo e sarebbe tradito se le forze politiche, che lo hanno platealmente applaudito, portassero avanti una riforma del Csm timida, tiepida e non efficace. Ipotesi non remota, alla quale ci opporremmo con forza”. A chiedere coerenza anche l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede: “Il presidente Mattarella ha sottolineato l’importanza della riforma del Csm e della lotta alle mafie. Abbiamo applaudito tutti con convinzione. Adesso è il momento di essere coerenti con quell’applauso”. Secondo il dem Walter Verini si tratta di “parole di straordinario valore: dobbiamo tenerne conto immediatamente per dare un segnale di cambiamento, aiutando la magistratura a procedere verso forme anche radicali di autorigenerazione” e “naturalmente, rispettando fino in fondo la Costituzione, lo Stato di diritto, l’esigenza di una giustizia giusta, le garanzie, ma anche i principi inviolabili di autonomia e indipendenza della magistratura”. FI, per voce del capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin, “plaude” al richiamo di Mattarella e chiede di dare “finalmente corso alla riforma, da troppo tempo annunciata”. Consensi alle parole del Capo della Stato sono arrivati anche da parte dell’avvocatura. Come riferito ieri, la presidente del Cnf Maria Masi ha osservato che “confortano le dichiarazioni del Presidente nel richiamare insieme avvocatura e magistratura a dare impulso al processo riformatore. L’avvocatura c’è”, ha aggiunto, “ma confidiamo anche nel riconoscimento a una pari dignità, condizione più volte evocata dal Presidente Mattarella”. Le ha fatto eco il presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza: “Per la prima volta ilpresidente della Repubblica ha nominato l’avvocatura, insieme con la magistratura, per realizzare il processo delle riforme”. Plaude anche la magistratura: “È importante, in questa fase - ci dice il segretario Anm Salvatore Casciaro - che siano portate a compimento le essenziali e urgenti riforme che servono al Paese, tra cui quelle della giustizia. Sono certo che, raccogliendo il qualificato monito del Capo dello Stato, saranno presentati al più presto dal governo anche gli emendamenti su sistema elettorale e ordinamento giudiziario, da lungo tempo attesi”. Per il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte, “non è la prima volta che il Capo dello Stato sottolinea la necessità di un recupero di credibilità della magistratura, e soprattutto dell’organo di governo autonomo, che passi attraverso un recupero etico e un passo indietro delle correnti dalle prassi deteriori. Si tratta di un auspicio che condivido come lo condivide anche gran parte della magistratura. Gli elementi di novità che io vedo in questo discorso sono due. Da una parte aver sottolineato che le riforme della giustizia non devono essere campo di contrapposizione tra le forze politiche. Dall’altra parte, aver richiamato magistratura ed avvocatura ad un maggior senso di responsabilità, a non contrapporsi stupidamente ed ottusamente, ma a contribuire alle riforme, anche venendo coinvolte nella discussione, negli spazi consentiti dal percorso parlamentare, da chi ha in mano il bandolo della matassa”. Mentre Md, oltre a guardare con “rispetto e attenzione” alle indicazioni del Colle, ritiene “fondamentale che tutta la magistratura ritrovi unità di intenti” e “entusiasmo, fuggendo la tentazione autoreferenziale e restando aperta al dialogo con gli altri attori, in primo luogo l’avvocatura, orientando la sua azione alla tutela effettiva dei diritti”. Mattarella, Cartabia e referendum. Formidabile congiunzione garantista di Francesco Damato Il Dubbio, 5 febbraio 2022 La forza con la quale il presidente ha posto il problema della riforma della giustizia ha sorpreso solo quanti non avevano voluto ascoltare i suoi richiami. È una congiunzione di tipo non astronomico ma tutto politico quella fortunatamente creatasi sulla traiettoria di una riforma garantista della giustizia fra i referendum promossi in materia dai radicali e dai leghisti, l’arrivo di Marta Cartabia alla guida del Ministero della Giustizia, i troppi veti incrociati in apertura della gara al Quirinale, la conseguente rielezione di Sergio Mattarella, l’allontanamento quanto meno dello spettro delle elezioni anticipate già nella prossima primavera, che avrebbero comportato il rinvio delle prove referendarie, e infine il forte discorso al Parlamento del presidente della Repubblica appena confermato. Il quale si è guadagnato i più intensi dei 55 applausi che ne hanno interrotto l’intervento di 38 minuti proprio nel passaggio dedicato alla necessaria riforma della giustizia per restituirle - ha detto - “credibilità”. Che si è progressivamente perduta negli ultimi trent’anni, cioè dallo straripamento giudiziario di “Mani pulite”, pur non menzionate esplicitamente dal capo dello Stato. Un testimone di questa realtà, a suo tempo vittima politica di quel fenomeno, è il presidente della Corte Costituzionale fresco di insediamento e più volte candidato mancato al Quirinale Giuliano Amato. Da presidente del Consiglio nella primavera del 1993 egli tentò con l’allora ministro della Giustizia, il compianto Giovani Conso, un’uscita cosiddetta politica dalle già ricordate “Mani pulite” originariamente condivisa dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, ma contestata pubblicamente dalla Procura di Milano e sconfessata nel giro di poche ore al Quirinale. Per cui la vicenda giudiziaria proseguì sui binari della distruzione dei partiti di governo e della relativa classe dirigente, liquidata come una specie di associazione a delinquere per il pur generalizzato finanziamento illegale della politica, anticamera presuntivamente obbligata di reati come corruzione e concussione: tutti contestati ad una infinità di persone a Milano - ricordiamolo - con indagini di sostituti procuratori che passavano per un unico giudice preliminare. Ciò è stato denunciato di recente sul Dubbio, nel silenzio più assordante della magistratura e nella incredibile distrazione dei giornaloni, da Guido Salvini. Che si vide spogliato brutalmente di un fascicolo arrivato per caso, diciamo così, nel suo ufficio e tentò inutilmente, con una protesta tutta interna al tribunale, di fermare quello scempio. Si dirà: acqua passata. Certo, passata. Ma che si è trascinata appresso la cosiddetta prima Repubblica, ha fatto nascere e crescere male la seconda e sta accompagnando la terza, se anche questa non è già morta essendo dedicata alla quarta almeno un programma televisivo di un certo ascolto. La forza con la quale Mattarella ha posto il problema della riforma della giustizia nel discorso di avvio del suo secondo mandato presidenziale ha sorpreso - scusate la franchezza - solo quanti non avevano voluto o saputo coglierne i chiarissimi segni di stanchezza e delusione, a dir poco, per le spalle e spallucce opposte durante il primo mandato ai suoi richiami, alle sue sollecitazioni, alle sue proteste, non tradottesi nello scioglimento anticipato del Consiglio Superiore della Magistratura, quando vi è scoppiato il bubbone delle carriere correntizzate, solo per il timore da lui avvertito - e che mi risulta quasi direttamente - di ripercorrere pratiche e formule mussoliniane. Ancora a Capodanno, quando già Mattarella aveva parlato più volte della necessità di una “rigenerazione” della magistratura per uscire dalle “logiche di appartenenza” correntizia e/ o politica, con tutte quelle porte girevoli fra tribunali e palazzi del potere nazionale e locale, un giornale come quello della famiglia Berlusconi e il contiguo Libero contestarono a Mattarella di avere ignorato i problemi della giustizia nel messaggio televisivo a reti unificate. Ma temo che l’obiettivo non fosse il presidente uscente della Repubblica, bensì l’allora avversato, temuto e chissà cos’altro presidente confermando. Era ancora in coltivazione politica e mediatica in quei giorni la candidatura di Berlusconi, che aveva bisogno di tempo per capire la impraticabilità politica di quell’ambizione, senza le consuete e triviali offese di Travaglio e simili alla persona. Ora, di fronte al discorso di avvio del secondo mandato di Mattarella, consapevole di avere più forza di un presidente in scadenza, e di interloquire con un Parlamento più disponibile, ma ancor più fiducioso del prossimo per i mutamenti in corso degli equilibri politici, il Giornale diretto dall’amico Augusto Minzolini ha aggiunto un “meglio tardi che mai” all’annuncio del Mattarella bis che “fa giustizia”. Più francamente il direttore di Libero Alessandro Sallusti si è pubblicamente scusato per avere dubitato di Mattarella sino al giorno prima, lasciandosi scappare qualche dubbio - spero infondato - solo sulla capacità di comprensione dei “Fantozzi” più o meno onorevoli che pure l’hanno così tanto applaudito: Fantozzi però che sono stati più lesti e saggi dei leader e leaderini dei loro partiti, partitini e correnti cominciando a votare Mattarella già nei primi scrutini, contro i giochi e giochetti che si svolgevano nelle segrete stanze dei gruppi e dintorni. Qualche dubbio sulla capacità di comprendonio o di volontà di questo e forse anche del prossimo Parlamento lo ha espresso sulla Stampa, lamentando il “ruggito del gatto, anche l’insospettabile Mattia Feltri, così diverso da papà Vittorio. Che nel 1992 - avendo poi il coraggio di ammetterlo inseguì come oro colato quello della Procura di Milano solo per aumentare le vendite in edicola del suo Indipendente, e salvarlo da una chiusura immediata. Persino il mio buon amico Piero Sansonetti ha ritenuto di mettere un cautelativo “forse”, in rosso, nel doveroso titolo del suo Riformista sul “risveglio” e sulle “picconate” di Mattarella alla magistratura. Le sagge parole sulla giustizia di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 5 febbraio 2022 Nel suo discorso di reinsediamento il Presidente Mattarella ha toccato i pilastri di una moderna democrazia, ribadendo la necessità di rispettare il disegno costituzionale, che affida al Parlamento un ruolo centrale e al Governo la necessaria attività propulsiva, particolarmente difficile in tempi assai complessi in cui si richiede un’azione rapida e tempestiva. À côté ha parlato della giustizia, ma più ancora della magistratura, dedicandole un’attenzione particolare e spingendosi a suggerire come necessaria una riforma dell’organo di autogoverno. La preoccupazione del Presidente corrisponde a un sentimento generale. C’è qualcosa che nel nostro sistema di giustizia non funziona. Il Presidente sembra ritenere che sia essenziale e necessaria una riforma del Csm. I politici, quasi tutti, esprimono consenso. Ho il timore che si individui la medicina senza conoscere la malattia. Il Csm, per Costituzione, si occupa della carriera dei magistrati e ne tutela l’indipendenza e l’autonomia. I suoi compiti si sono andati estendendo progressivamente così che esso è diventato organo di governo della giustizia in un sistema difficilmente governabile in quanto fondato sul principio per il quale, distinguendosi i magistrati fra loro soltanto per diversità di funzioni (art. 107, comma 3° Cost.), in sostanza un magistrato vale l’altro e non è possibile pensare a una qualsiasi forma burocratica di carriera. È un sistema che paga prezzi. Se, tuttavia, pensiamo a come si amministra giustizia in Paesi in cui la magistratura è braccio secolare del potere (e nel mondo di magistrature siffatte ce ne sono a iosa), è bene tenercelo caro e ringraziare i Costituenti per avercelo dato. Il problema non è quello di non pagare l’inevitabile dazio, ma quello di evitare che il prezzo sia troppo alto. A tal fine la soluzione non sta in “chi” deve andare a comporre il Csm, ma in “che cosa” deve fare quest’organo. E per stabilire che cosa deve fare il Csm (o un altro organo di autogoverno) occorre in primo luogo stabilire che cosa vogliamo dal sistema di giustizia. Partiamo dall’area più sensibile: quella penale. Chiediamo alla magistratura la repressione del crimine o la sicurezza sociale? Se affidiamo, come è nella sostanza avvenuto in questi anni, ai magistrati il compito di assicurare la sicurezza sociale (e lo facciamo “anche” con leggi che disegnano figure di reato che sanzionano la “posizione” o l’”appartenenza” o le “intenzioni” o che prediligono i poteri interdittivi basati sul sospetto), non possiamo lamentarci se i pubblici ministeri più che fare indagini su fatti specifici spesso fanno inchieste su fenomeni. Se chiediamo ai giudici di realizzare la giustizia e non di applicare le leggi, non possiamo lamentarci se la Corte costituzionale in luogo di dichiarare “tout court” una legge incostituzionale, dia al Parlamento il tempo per farne una costituzionalmente legittima; o se il giudice amministrativo, in luogo di dichiarare invalidi provvedimenti (penso alle concessioni), ritenga di potere dare al Parlamento il tempo per correggere il sistema; o se il nostro giudice supremo ritenga di potere creare diritto quando l’applicazione della legge non è conforme al (suo) sentimento di giustizia. Sono queste distorsioni del sistema, verosimilmente non immaginate dai Costituenti, alle quali non può provvedere il Csm (o altro organo di autogoverno), a cui nulla possiamo chiedere, e che riguardano tutti noi. Possiamo, allo stato, pensare a correttivi migliorativi e non risolutivi. Sarebbe, ad esempio, necessario differenziare lo “status” del pubblico ministero. Non è un problema di separazione delle carriere. È che se il giudice deve essere indipendente e autonomo anche rispetto ai suoi colleghi, la stessa esigenza non vale per il pubblico ministero, che non giudica (attività doverosa e vincolata), ma indaga (attività ampiamente discrezionale). Per i pubblici ministeri è, infatti, inevitabile un minimo di organizzazione gerarchica. Inoltre, se la sostanziale irresponsabilità personale può essere difesa per chi giudica, essa deve essere adeguatamente regolata per chi esercita il potere di indagine e di azione nel processo penale in un sistema che di fatto gli assegna compiti di difesa sociale. Una seconda riforma possibile dovrebbe avere ad oggetto la possibilità di controllo dell’efficienza dei servizi, resa difficoltosa dal tributo che si paga alla trasparenza. Oggi i capi degli uffici giudiziari sono imbrigliati da un reticolo di norme che, escludendo qualsiasi loro discrezionalità, li rendono irresponsabili qualora i loro uffici abbiano “standard” di rendimento assai modesti (se si guarda la mappa delle efficienze degli uffici giudiziari della Penisola ci si avvede che esse sono distribuite a macchia di leopardo). Inoltre, se una magistratura senza carriera ci ha dato il beneficio di una giustizia sensibile e non appiattita sui “dicta” della Corte di cassazione, è innegabile che si paghi il prezzo di uno scadimento nel modo di essere del magistrato che, senza prospettive di carriera, tende inevitabilmente a configurare la sua attività non più come esercizio di una delicatissima funzione, ma come svolgimento di un’attività lavorativa non diversa dalle altre. Che fare? Se non si riescono a modellare forme di controllo adeguate (quelle attuali sono risibili), bisognerebbe immaginare qualche forma di incentivazione. Un terzo passo dovrebbe riguardare l’organizzazione della Corte di cassazione, che, ove abbia potestà creative, non può essere composta esclusivamente da magistrati di carriera. Taccio, poi, della necessità di adeguare gli uffici in relazione alle esigenze territoriali di oggi (e non del passato) e della possibilità di farlo tenendo conto delle opportunità che la tecnologia ci offre, in quanto ciò non è di competenza del Csm. I magistrati considerano i problemi della giustizia dal loro mondo, piccolo e chiuso. Hanno, però, il potere di farci credere (e perfino il Presidente Mattarella sembra crederlo) che quel mondo sia il nostro. Non è così. Di sicuro non è bello apprendere che i magistrati non sappiano fare nomine con correttezza, anche se chi è addetto ai lavori sa come sia difficile, in un sistema in cui per definizione un magistrato vale l’altro, stabilire quale sia la scelta corretta. La scelta di un capo di ufficio giudiziario o di un presidente di sezione o l’attribuzione di un posto al singolo magistrato non interessa il cittadino e non riguarda la “sua” giustizia. Altro è il discorso per le Procure. Ma questo, come ho detto, è un problema che non sarà risolto cambiando (per l’ennesima volta) la legge elettorale del Csm. Giustizia, la riforma del Csm: limiti alle porte girevoli tra magistrati e politica di Marco Conti Il Messaggero, 5 febbraio 2022 La posizione di Draghi: chi si candida dovrebbe poi ricoprire ruoli amministrativi. Il rischio di una proroga del Consiglio Superiore della Magistratura, di cui si vocifera da qualche tempo a Palazzo dei Marescialli, è un’eventualità che il governo vorrebbe scongiurare, soprattutto dopo le parole pronunciate da Sergio Mattarella nel giorno del suo secondo insediamento, ma non è facile. Il plenum dell’organo di autogoverno scade a luglio e il tempo stringe se si vuole evitare che si torni a votare con le attuali regole o che si giunga ad una proroga. Dopo settimane di surplace la ministra Marta Cartabia e il presidente del Consiglio hanno ripreso in mano il pacchetto di riforme che prevedono interventi nei meccanismi di elezione e un robusto freno alle “porte girevoli”, ovvero a quella libertà che attualmente hanno i magistrati di tornare ad esercitare il mestiere nel distretto di appartenenza dopo aver assunto cariche politiche. La maggioranza è però spaccata e, allo stato delle trattative, è complicato che il consiglio dei ministri possa “licenziare” all’unanimità un testo condiviso. Il confronto a Palazzo Chigi di Draghi con la Cartabia, avvenuto nel giorno del giuramento di Mattarella, ha posto le basi per un nuovo giro di orizzonte che la ministra avrà con le forze politiche la prossima settimana prima di presentare il testo in Consiglio dei ministri. Nel frattempo il timing è partito con la Commissione Giustizia della Camera che ha fissato per il 16 la ripresa dei lavori sul testo di riforma a suo tempo presentato dal ministro Bonafede, e i capigruppo di maggioranza che hanno calendarizzato per il 3 marzo l’approdo in aula del testo. In Commissione sono stati già presentati oltre 400 emendamenti. Il più attivo è stato l’ex ministro Enrico Costa, deputato di Azione, e bestia nera della ministra Cartabia. L’accordo tra le forze politiche è però ancora lontano e a pesare è anche il referendum fatto dall’Associazione Nazionale di magistrati. Il sindacato delle toghe ha bocciato sia il sistema elettorale maggioritario che quello che prevede una sorta di sorteggio, temperato da un successivo voto per evitare l’accusa di incostituzionalità. Su questa linea sono la Lega, che con la senatrice Giulia Bongiorno ha avuto già più di un confronto con la ministra, Forza Italia con Pierantonio Zanettin, e FdI. Piace invece al Pd un sistema elettivo maggioritario con dei correttivi, i migliori terzi, che permettano la rappresentanza anche delle componenti più piccole. Il M5S, a suo tempo favorevole al sorteggio, non rifiuta a priori il meccanismo maggioritario, ma pone più di un problema - insieme al Pd - sul divieto di indossare nuovamente la toga ai magistrati che si candidano in politica. L’intesa è ancora lontana anche se il dem Walter Verini si dice “ottimista” e Luciano Nobili (Iv) invita a “fare in fretta” visto che “l’Italia paga 30 milioni l’anno di risarcimenti per ingiusta detenzione”. L’argomento giustizia è stato affrontato ieri da Draghi con Giuseppe Conte. Con Draghi “abbiamo parlato anche di giustizia - racconta il presidente del M5S uscendo da Palazzo Chigi - C’è una riforma sul Csm, è importante per noi come M5S che ci sia una chiara differenziazione di ruoli tra politica e magistratura, non porte comunicanti, non ce le possiamo permettere”. Nelle bozze messe a punto dal ministero di via Arenula, dove operano come consiglieri numerosi magistrati, il meccanismo del divieto è però temperato tenendo in notevole considerazione i principi che impediscono di vietare l’elettorato passivo a qualunque cittadino e quello della conservazione del posto. Nell’ultima proposta elaborata dalla Cartabia si prevedeva di impedire al magistrato di candidarsi nel posto in cui ha lavorato negli ultimi tre anni e, in caso di elezione, l’obbligo dell’aspettativa non retribuita. Draghi è però fermo su una linea di maggior rigore rispetto a quanto partorito da via Arenula. Per il presidente del Consiglio un magistrato che si candida non può tornare ad indossare nuovamente la toga dopo aver assunto la veste di politico e per lui è possibile solo un ruolo amministrativo. Il Parlamento e le Regioni sono piene di magistrati eletti che poi tornano ad indossare la toga. Ultimo Catello Maresca, magistrato candidato a sindaco di Napoli e che è poi tornato ad esercitare nella corte d’Appello di Campobasso pur restando consigliere comunale. Anche se la magistratura, dopo gli scandali che l’hanno vista protagonista negli ultimi mesi è meno granitica, continua ad esercitare un peso non indifferente sul Parlamento e sui partiti rendendo complicato l’accordo. Csm, tutti chiedono la riforma: ma Cartabia nasconde gli emendamenti di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 5 febbraio 2022 Nel discorso di reinsediamento Sergio Mattarella è tornato a battere sull’urgenza delle nuove norme: ma il testo, atteso dalla scorsa estate, non l’ha ancora mai visto nessuno. Eppure un disegno di legge - completo e pronto all’uso - ci sarebbe già: quello dell’ex ministro Alfonso Bonafede, bloccato da fine 2020 in Commissione Giustizia alla Camera. Un testo base che interviene in modo deciso sui nodi più urgenti, ma che il governo non sembra voler valorizzare. “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento, affinché il Consiglio superiore della magistratura possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, superando logiche di appartenenza che devono rimanere estranee all’ordine giudiziario”. Nel discorso di reinsediamento Sergio Mattarella è tornato a battere su un tema che gli sta a cuore: la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Tutti la invocano da almeno tre anni, da quando il trojan nel cellulare di Luca Palamara ha svelato le mercanzie sulle nomine di vertice. Ma il testo della ministra Marta Cartabia, atteso dalla scorsa estate, non l’ha ancora mai visto nessuno: doveva essere presentato prima di Natale, poi è saltato tutto in vista dell’elezione del capo dello Stato. Che adesso esorta per l’ennesima volta il governo a fare in fretta, perché il rinnovo del Csm incombe (è in programma a luglio) e non si può rischiare di votare “con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”, cioè una legge elettorale che avvantaggia le correnti. Eppure un disegno di legge - completo e pronto all’uso - ci sarebbe già: quello dell’ex ministro Alfonso Bonafede, bloccato da fine 2020 in Commissione Giustizia alla Camera in attesa degli emendamenti dei Migliori. Un testo base che interviene in modo deciso sui nodi più urgenti (venendo incontro alle richieste degli addetti ai lavori) ma che il governo non sembra voler valorizzare. Sulla base di quanto diffuso finora, infatti, Cartabia ha intenzione di annacquare il ddl su almeno due aspetti fondamentali. Il primo è proprio il sistema elettorale dei membri togati. Al momento funziona così: tre collegi unici nazionali eleggono rispettivamente dieci giudici di merito (primo grado e appello), quattro pm e due giudici di legittimità (Cassazione). Il metodo è “chi vince regna”: passano i primi classificati a prescindere dalle liste, il che rende impossibile l’elezione di magistrati indipendenti. Per questo la Bonafede proponeva di aumentare il numero dei togati da 16 a 20 e farli eleggere da altrettanti piccoli collegi uninominali con la possibilità di esprimere tre preferenze e la previsione del ballottaggio se nessuno raggiunge il 65% dei voti. “Con questo sistema, anche se maggioritario - spiega al fatto.it Eugenio Saitta, capogruppo M5S in Commissione Giustizia e relatore del ddl - un magistrato conosciuto e apprezzato sul territorio avrebbe possibilità di farcela”. Gli emendamenti Cartabia, invece, prevederebbero collegi molto più grandi (quattro o cinque per il merito, due per i pm, uno per la Cassazione) in ognuno dei quali passano i primi due classificati. Un’ipotesi già criticatissima dagli addetti ai lavori: secondo i consiglieri Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo “sarebbe il trionfo del correntismo e del bipolarismo, che provocherà ulteriori spaccature e conflitti”. Al progetto di riforma è contraria anche la grande maggioranza delle toghe, che in un referendum interno convocato dall’Associazione nazionale magistrati ha espresso la preferenza per un sistema di tipo proporzionale (che ha ottenuto 3189 voti contro i 745 per il maggioritario). Ma non solo: a differenza dei gruppi che li rappresentano - quasi tutti contrari - giudici e pm non sembrano disdegnare nemmeno l’ipotesi di un sorteggio “temperato” per eleggere i colleghi al Csm. Nello stesso referendum, infatti, al quesito se vogliano che i candidati siano scelti “mediante sorteggio di un multiplo dei componenti da eleggere” hanno risposto sì in 1.787 su 4.275 (il 41,8%), anche se il no è risultato di poco prevalente. “Questo dimostra che i magistrati al lavoro nei tribunali la pensano in modo molto diverso dalle correnti”, dice Saitta, ricordando che il M5S - così come Forza Italia e Lega - “guarda con favore all’ipotesi del sorteggio temperato”. Che però non sembra essere sul tavolo, perché la ministra Cartabia - e il Partito democratico - lo considerano incostituzionale. “Il sorteggio significa che al Csm potrebbe finire chiunque, anche il magistrato più inadeguato”, dice al fatto.it l’altro relatore del ddl Bonafede, il dem Walter Verini. “Lasciati a se stessi quasi tutti i parlamentari lo vorrebbero domattina, ma il principio è gravemente sbagliato”. L’altro grande tema al centro della riforma è quello delle “porte girevoli”, cioè il rientro in servizio dei magistrati che si candidano in politica o vengono eletti. Il ddl Bonafede adottava una soluzione drastica: chi finisce un mandato elettorale non può più riprendere sì al rientro nelle aule di tribunale, ma con un “periodo di raffreddamento” di cinque anni da trascorrere in un diverso distretto e senza poter svolgere le funzioni più delicate (gip/gup o pubblico ministero) e occupare ruoli direttivi. “Non capiamo perché mettere in discussione il divieto di reindossare la toga, che è sacrosanto e riguarda solo quei pochi magistrati che scelgono di entrare in politica”, dice Saitta. Mentre per Verini il tema “pone dei problemi di costituzionalità: oltre all’indipendenza della magistratura bisogna tutelare anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che potrebbe non essere garantito dalla collocazione fuori ruolo. E al primo ricorso potrebbero esserci dei problemi”. Sabato il Comitato direttivo centrale dell’Anm si riunisce per concordare una posizione sull’ipotesi di riforma, anche sulla base del risultato dei referendum: ma anche a loro la ministra non ha mai sottoposto nemmeno una bozza di testo. Nuovo Csm, il sorteggio “anticipato” delle toghe anti-correnti di Liana Milella La Repubblica, 5 febbraio 2022 Laurino: “L’8 febbraio avremo i futuri candidati”. Sulla riforma dell’organo di autogoverno dei magistrati i partiti si dividono, l’Anm pure. Ma il gruppo “Altra proposta” passa dalle parole ai fatti e martedì, nella sede del sindacato dei giudici, affida alla sorte le elezioni del Csm. Il sorteggio per il Csm? “Non è contro la Costituzione”. Perché? “È semplice, chi viene sorteggiato poi viene votato”. E così dal principio teorico si passa ai fatti, ed è questa la novità: “Martedì 8 febbraio, nella sede dell’Anm in Cassazione, saranno sorteggiati i futuri candidati per il Csm”. Un’iniziativa così non s’era mai vista. È un unicum nella storia della magistratura. E mentre la politica parla, le toghe si scontrano, ma si muovono pure. Come nel caso di Andrea Laurino e del suo gruppo, “Altra proposta”, una non-corrente, che passa dalle parole ai fatti e sorteggia i futuri candidati per il Consiglio superiore. Proprio nella sede dell’Anm dove oggi, in un Comitato direttivo centrale che si annuncia infuocato, saranno analizzati i risultati del referendum sul sorteggio del 27 e 28 gennaio, dove questo metodo si è aggiudicato 1.787 voti. E dove anche le parole del presidente Sergio Mattarella sulla giustizia non potranno non avere una eco. Ecco come racconta la “prima volta del sorteggio” Laurino, toga di 56 anni. Dal 1995 ha sempre fatto il pubblico ministero, per 12 anni a Macerata, e poi ad Ancona, dove lavora anche adesso. Nel 2019, dopo il caso Palamara, si è candidato al Csm nelle elezioni suppletive per coprire i posti dei due pm che, per via della cena all’hotel Champagne, si erano dovuti dimettere. In un collegio unico nazionale ha corso come indipendente, raccogliendo le 25 firme necessarie. Ha preso 127 voti. E lei non era di una corrente? “Assolutamente no, e come me ce n’erano anche altri. Quello è stato un passaggio utile e significativo per capire che il sistema non può funzionare così, perché un indipendente prende pochi voti, a parte uno come Nino Di Matteo che è un fuoriclasse. I più votati invece sono quelli sponsorizzati dalle correnti. L’attuale sistema elettorale non porta consiglieri se non quelli appoggiati dalle correnti. E lei giura che proprio non era di una corrente? “No, io non mi sono candidato neppure con Articolo 101 per l’Anm. Loro sono degli amici, li conosco, le nostre idee sono simili. Ma tutto si ferma qui”. Allora “Altra proposta” che cos’è? “È un comitato, un gruppo di persone che si è coagulato su un obiettivo. Il nostro blog si chiama “Altra proposta” e spiega tutto. Siamo nati nel 2013. Lo scopo è selezionare i candidati al Csm con il sorteggio, un sistema alternativo di selezione. L’obiettivo era ed è quello di introdurre questo meccanismo per scegliere i togati del Csm”. “Altra proposta” com’è nata e quante toghe ne fanno parte? “I promotori sono 15, tra cui ci sono anche Andrea Reale di Articolo 101, una delle anime del sorteggio, ci sono colleghi iscritti all’Anm, ma anche no. E ancora Giuliano Castiglia, Ida Moretti, Felice Lima... Questi nomi mi dicono che il vostro è un gruppo anti-correnti... i nomi che lei cita sono tutti di Articolo 101, l’unica corrente all’opposizione nella giunta dell’Anm, e che si batte per il sorteggio... “Sì, direi di sì. Ma non mi piace parlare di anti-correnti, perché la corrente tradizionale non ha in sé niente di male. Tutti conosciamo la storia delle correnti, che hanno fatto anche cose positive. Ma negli ultimi lustri c’è stata una degenerazione, la corrente è diventata un gruppo che non si occupa solo di idee e di cultura, ma mira a reperire candidati, consiglieri, candidati all’Anm, seguendo il metodo dell’appartenenza stretta al gruppo. Un obiettivo che a me non piace. Se lo scopo della corrente è distorto, non è una fucina di idee, ma punta a raccogliere consensi per prendere voti, e poi puntare alla conquista dei posti direttivi, questo non mi piace”. E Articolo 101 allora? Non sono anche loro una corrente? “È un gruppo con idee precise, che ha deciso di fare politica associativa. Però i 101 non hanno una struttura organizzata, non c’è né un presidente, né un segretario”. L’idea di sorteggiare i candidati per il Csm in anticipo com’è nata? “Noi ci muoviamo all’interno della legge vigente, non siamo né contro la legge, né contro la Costituzione. E, a legge vigente, un collegio unico nazionale in cui si candida chi vuole e vince chi prende più voti, ci siamo chiesti come reperire le candidature per evitare che i gruppi decidano prima i posti. E così abbiamo pensato al sorteggio”. E che succede l’8 febbraio? “Nella sede dell’Anm in Cassazione - siamo grati all’Anm, sono stati carini ad ospitarci - ci sarà un notaio, e si farà un sorteggio per le tre categorie previste dalla Costituzione, Cassazione, giudici di merito e pm”. E chi sorteggiate? “Premesso che stanno arrivando disdette dai colleghi che non vogliono essere sorteggiati, saranno estratti a sorte potenziali candidati pari a un multiplo di quattro rispetto ai seggi disponibili al Csm, quindi 8 per la Cassazione, 40 per i giudici, 16 per i pm. Dopo il primo passaggio ce ne sarà un secondo, cioè le primarie telematiche, a cui partecipano tutti gli estratti, tranne quelli che si dichiarano indisponibili. All’esito delle primarie si candideranno i tre più votati per ogni categoria”. Questo sorteggio è solo una prova, oppure quelli che usciranno scenderanno in pista? “Certo, il nostro Comitato garantisce le 25 firme necessarie”. Quindi sono dei candidati veri che, qualunque sia la futura legge elettorale, comunque si candideranno per il Csm? “Dovrebbe essere così, ma la legge elettorale che faranno potrebbe anche a obbligarci a cambiare il nostro sistema”. Rispetto all’obiezione della incostituzionalità del sorteggio che è stata avanzata dalla stessa ministra della Giustizia Marta Cartabia voi come replicate? “Il nostro sistema rispetta la Costituzione, perché i nostri candidati affrontano comunque l’elezione, sulla base della legge elettorale che verrà scelta. Rispetto al problema della costituzionalità, c’è una prima obiezione, e cioè che i candidati comunque si candidano e saranno sottoposti al voto, e quindi la Costituzione è rispettata. Qui non stiamo parlando di un sorteggiato che va direttamente al Csm, ma di un candidato che viene sorteggiato e poi si sottopone al giudizio degli elettori”. E lei come risolve il problema di chi liberamente vorrebbe candidarsi e con questo meccanismo non può farlo? “Su questo ci sono varie posizioni. La nostra idea è che per il Csm non c’è un diritto di elettorato passivo come per la Camera e per il Senato, e quindi il sorteggio non viola nulla. E poi “Altra proposta” non è una corrente, quindi i sorteggiati che vincono le primarie sono espressione solo di se stessi, ed è proprio questa la cifra che noi vogliamo, i candidati che vincono sono di tutti e di nessuno, e non rispondono a nessuno, prima di scendere in lizza non firmano cambiali, quindi sono liberi”. Nei risultati del referendum dell’Anm colpiscono due dati, il primo è la scarsa partecipazione, in media 4 mila toghe su oltre 9 mila, il secondo sono i 1.787 voti per il sorteggio. Secondo lei sono molti o pochi? “Sono moltissimi, perché il nostro Comitato è nato con 15 persone nove anni fa...”. Sta dicendo che 1.787 voti a favore del sorteggio rappresentano un quinto delle toghe italiane? “Proprio così, e sono tantissimi. Chi ha votato sì al sorteggio lo ha fatto per lanciare un segnale chiaro, un radicale cambiamento che porti davvero a candidature indipendenti”. David Ermini: “Cari magistrati, basta campagna elettorale” di Francesco Grignetti La Stampa, 5 febbraio 2022 L’ex deputato e oggi vicepresidente del Csm: “La politica faccia la sua parte basta scontri ed egoismi”. E allora, sì, tutti ad applaudire il discorso del capo dello Stato. David Ermini, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, ha già detto che anche lui aderisce “totalmente” al messaggio del capo dello Stato. Ma ha qualcosa da dire agli ex colleghi parlamentari. “Smettiamola davvero con le bandierine e con la campagna elettorale permanente giocata sul tema della giustizia. Rimbocchiamoci le maniche sul serio”. Perché la giustizia italiana va rifondata, questa è l’idea di Ermini. Il capo dello Stato ha richiamato tutti a una riforma incisiva e urgente della giustizia. Con gli occhi di chi è a palazzo dei Marescialli, che cosa significa tutta questa urgenza? “Il richiamo del Presidente coglie nel segno. C’è un problema della magistratura di rigenerazione e di uno scatto d’orgoglio rispetto a tutto quello che è accaduto. Giustamente il capo dello Stato denuncia distorsioni e degenerazioni che hanno incrinato il rapporto di fiducia con i cittadini, e la necessità di superare le logiche di appartenenza. Questo è un problema che in gran parte compete al potere legislativo e all’esecutivo risolvere, e poi c’è un problema culturale e di mentalità che la magistratura deve affrontare da sola. Del resto, il tema della giustizia deve coinvolgere l’intera comunità nazionale, non può essere considerata materia esclusiva da addetti ai lavori. Non solo perché la giustizia rientra negli impegni del Pnrr, ma perché tocca la civiltà di un popolo. E allora è giusto che ci sia collaborazione da parte di tutti, ma ora è indubbio che la palla ce l’abbia il Parlamento. Sono loro che devono darci la riforma. E del resto il Csm la richiede da diversi anni. Da subito, fin dai primi scandali nel 2019, abbiamo ritenuto che una riforma anche del Csm fosse indispensabile. Sarebbe stato impensabile allora, ma ancor di più oggi, tre anni dopo, far tornare i magistrati al voto con il vecchio sistema. Il Presidente l’ha già detto più volte”. La legge elettorale per i magistrati è il fulcro di tanti dibattiti. I togati hanno fatto tra loro un referendum per chiarirsi le idee e vedere quale sistema preferire, ma qualcuno li ha criticati anche per questo. Vogliono dare la linea al Parlamento? “Io penso che ognuno debba fare il proprio mestiere. L’Anm è una organizzazione di categoria. Al suo interno può fare tutti i sondaggi che ritiene. Ed è giusto che la ministra Cartabia ascolti tutti, anche i magistrati. Ci mancherebbe. Ma è ovvio che la potestà legislativa è del Parlamento. Nessuno può dargli la linea”. Ecco, il Parlamento. Sono fioccati ripetuti applausi quando Mattarella sferzava i giudici. Specie quando indicava che l’autonomia e l’indipendenza risiedono nella coscienza dei cittadini... “Quello è un passaggio fondamentale. Sta a dire: fermi tutti, l’autonomia e l’indipendenza non si toccano, perché sono cardini di una democrazia liberale. È ovvio, però, che autonomia e indipendenza devono trovare riscontro e riconoscimento nella collettività all’interno del sistema costituzionale. Non soltanto sotto il profilo del comportamento etico dei magistrati, ma anche nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Il Presidente è stato esplicito riferendosi alle decisioni giudiziarie in quanto il diritto dev’essere prevedibile. Tutto questo non è meno importante della legge elettorale. Anzi. A questo punto, ci aspettiamo che il Parlamento trasformi gli applausi in un provvedimento legislativo coerente ed efficace”. Il discorso sulle sentenze e sulla prevedibilità del diritto ci rinvia all’esercizio della giustizia, cioè ai processi. Qui c’è in arrivo una riforma clamorosa su cui il Csm si è espresso con un parere. Non troppo positivo, vero? “Sì, il Csm ha espresso un parere molto articolato sulla riforma del processo penale. Uno dei dubbi è se la struttura potrà reggere all’impatto della riforma Cartabia. La preoccupazione ruota attorno al meccanismo dell’improcedibilità. È vero che sono state inserite deroghe per i reati più gravi, ma si teme che l’improcedibilità faccia morire i processi. Come minimo, le corti d’appello vanno rafforzate. Ma il primo problema sono le risorse, sia pensando agli uffici che cadono a pezzi, sia al personale che manca. Andiamo al sodo: noi abbiamo in campo poco meno di novemila giudici, quando le piante organiche ne prevedono circa diecimilacinquecento. E queste piante organiche sono già di per sé insufficienti. Il problema vero è che la coperta è corta, se riempi lì un posto, ne lasci un altro scoperto. Si pensi che per terminare il penultimo concorso per magistrati ci sono voluti 4 anni e 3 mesi. Un ritmo che non è al passo con i risultati che si vorrebbero ottenere. Al nuovo concorso sono passati all’orale in percentuale bassissima. Qui c’è un discorso davvero più ampio da fare. Per questo dico che occorre coinvolgere l’intera comunità nazionale. Bisogna affrontare il problema anche con le università. E allora, sì, parliamo di legge elettorale, ma i problemi sono tanti. Va detto che la ministra ci sta lavorando seriamente; spero che arrivi in fondo”. Parlando di prevedibilità del diritto, non si può non pensare alla Cassazione, venuta meno al suo ruolo... “E certo! Dobbiamo decidere se la Cassazione è una corte suprema che fa nomofilachia (ovvero garanzia di una uniforme interpretazione della legge, ndr) oppure è un terzo grado di giudizio. Do atto che lavorano tantissimo e fanno uno sforzo gigantesco, ma se consideriamo le decine di migliaia di ricorsi e il numero dei magistrati impegnati in Cassazione, è ovvio che così com’è la Cassazione non può essere una corte suprema paragonabile a quella degli altri Stati”. Ermini, è un quadro devastante... “No, non devastante, ma bisogna far uscire la giustizia dalla campagna elettorale permanente. Il Presidente ce l’ha detto. Sarebbe ora che tutti gli operatori del diritto, gli esperti dei partiti e dei ministeri, i cattedratici, si mettano attorno a un tavolo e la smettano di agitare le bandierine. Finché andiamo avanti con le bandierine, non se ne esce”. Musolino: “Magistratura in crisi e l’Anm non riesce a rappresentarla” di Angela Stella Il Riformista, 5 febbraio 2022 Il leader di Magistratura democratica: “Con gli applausi a Mattarella il Parlamento ha esorcizzato il proprio fallimento. Cartabia? Tante promesse e troppi compromessi al ribasso”. Le parole in tema di giustizia del Presidente Sergio Mattarella nel discorso di giuramento al Parlamento hanno sicuramente dato uno scossone al dibattito. Ora Governo e Parlamento, con l’apporto di magistratura e avvocatura, devono accelerare sulla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Ieri il Presidente della Commissione Giustizia della Camera, il pentastellato Mario Perantoni, ha dichiarato che il 16 inizieranno ad esaminare i quattrocento emendamenti al testo della riforma del Csm. Si spera che intanto arrivino anche quelli della Ministra Cartabia, che però vorrebbe avere prima un placet dal Consiglio dei Ministri. E dovrebbe avvenire a breve, visto che due giorni fa ha incontrato il premier Mario Draghi. Di tutto questo ne parliamo con il dottor Stefano Musolino, Segretario di Magistratura Democratica. Come interpreta le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in tema di giustizia? Come un sollecito ai protagonisti del settore ed, in particolare, alla magistratura affinché il servizio giustizia riacquisti credibilità ed affidabilità; ma anche un sollecito all’avvocatura affinché vinca le tentazioni autoreferenziali. Insieme magistratura ed avvocatura, ritrovando entusiasmo ed un’unità di intenti, possono ridare smalto ad una istituzione di cui la Nazione ha bisogno. Ma il destinatario non è anche la politica che deve accelerare sulla riforma del Csm? Guardando il giuramento del Presidente al Parlamento, ho avuto l’impressione di assistere alla messa in scena della crisi della politica parlamentare. Deputati e senatori si sono sperticati in decine di applausi sui diversi richiami e sollecitazioni del Capo dello Stato, senza considerare che quelle questioni erano il riflesso della loro incapacità, sin qui, di dare risposte adeguate alla sfida dei tempi. Gli applausi erano un modo per esorcizzare quel fallimento. Compreso quello in materia di giustizia: dopo tante proposte, promesse e idee per immaginare una giustizia moderna il percorso si è rallentato. La riforma del processo penale è stata molto deludente, mentre l’organizzazione dell’Ufficio per il Processo pare animata da una deriva efficientista verticistica. Tutto questo lascia molto perplessi, soprattutto se l’obiettivo delle riforme era quello di una giustizia che non fosse solo efficiente in termini quantitativi, ma anche capace di dare risposte di qualità. Quindi sta dicendo che a causa dello stallo e dell’inettitudine politica solo magistratura e avvocatura possono essere il motore delle riforme? È quello che noi auspichiamo, considerata la crisi dei tempi. Draghi è in qualche modo l’espressione di questa incapacità del Parlamento di farsi carico di scelte, autenticamente, espressione di un confronto politico di alto livello. E la Ministra Cartabia? Ha dato sempre ampia dimostrazione di fare buonissime promesse e proposte; tuttavia, nel momento in cui bisognava concretizzarle, ci si è accontentati di compromessi al ribasso che hanno ridotto la qualità del prodotto legislativo finale. Secondo lei cosa intendeva il Presidente Mattarella quando ha sostenuto che i cittadini non devono avvertire il timore di “decisioni arbitrarie o imprevedibili”? È uno dei passaggi che più mi ha inquietato. Non vi è dubbio che l’incapacità della politica di regolamentare alcuni settori abbia determinato una impropria funzione di supplenza da parte della magistratura. Quindi, se l’appello è alla politica affinché si assuma la responsabilità di regolamentare alcuni settori, lo condivido. Se invece il tema è la prevedibilità non del diritto, ma delle singole decisioni giudiziarie, a me pare che questa sia una ambizione tecnocratica, ispirata da esigenze economiche di efficienza, ignara che il diritto è una realtà in costante evoluzione. Ed anzi, proprio la tutela dei diritti e delle dignità personali a cui Mattarella ha fatto riferimento in conclusione del suo discorso, presuppone una magistratura e una avvocatura capaci di produrre una giurisdizione che abbia la capacità di rinnovarsi continuamente, per restare al passo con società che cambia e con i nuovi modi di declinare ed interpretare i diritti. A quali settori di omesso intervento della politica fa riferimento? Penso, ad esempio, a tutta la questione sul fine-vita. Ci sono state varie decisioni da parte della magistratuche è dovuta intervenire per dare risposte alle istanze dei cittadini, perché da anni la politica non regolamenta la materia. Mattarella ha auspicato sempre nel suo discorso un Consiglio superiore della Magistratura che “possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la Magistratura può contare”. Sta dicendo no al sorteggio? Il sorteggio è difficilmente compatibile con la Costituzione. Riferendosi al Csm ed alla possibilità che ha la magistratura di scegliere al suo interno alte professionalità, credo che il Presidente Mattarella abbia escluso il sorteggio dal novero dei criteri di selezione. In questo il pensiero del Presidente è in perfetta sintonia con quello della maggioranza della magistratura associata che, nel recente referendum, si è espressa contro il sorteggio e per il sistema proporzionale; sebbene, in quel voto vi sono tracce di una diffusa sfiducia di cui siamo preoccupati. A proposito di questo l’8 febbraio, per iniziativa del Comitato Altra Proposta, composto tutto da “toghe”, alcune delle quali iscritte all’Anm ci sarà in Cassazione un sorteggio che dovrà essere seguito poi da “primarie telematiche”, per individuare alcuni candidati alle prossime elezioni del Csm... La magistratura è in crisi, l’Anm fa fatica ad interpretarla ed a diventare protagonista del dibattito. Alla fine, quando i malesseri sono reali e non trovano rappresentanza, le modalità attraverso le quali si esprimono possono essere imprevedibili. Anche un piccolo gruppo può tirare fuori un’idea un po’ eccentrica, pur di ricevere un fascio di luce ad illuminarlo per fare emergere il disagio che percorre la magistratura. Tra i primi a commentare il discorso di Mattarella c’è stato Luca Palamara che ha detto: “Le parole di Mattarella meritano deferente rispetto perché segnano un decisivo punto di svolta sul terreno delle riforme”. Che effetto fa? Luca Palamara, meglio di molti altri, sa esattamente a cosa fa riferimento il Capo dello Stato quando afferma che occorre superare logiche di appartenenza, estranee all’ordinamento giudiziario. Purtroppo, quelle logiche Palamara le ha coltivate nel corso del tempo. Ma non è stato l’unico protagonista di quella triste stagione, perché le ragioni che stavano a fondamento della sua capacità di accumulare, mantenere ed accrescere potere dentro e fuori dalla magistratura (nei rapporti insani con la politica) hanno attraversato l’intera magistratura. Il fondamento di questa crisi interna sta nella frustrazione dei magistrati per le condizioni di lavoro e l’inefficienza del sistema che, insieme ad una pessima riforma normativa, ha alimentato carriere ed ambizioni smodate. Vi è stata, quindi, una domanda di protezione e di fuga dalla giurisdizione di prima linea, verso incarichi direttivi e semi-direttivi. A questa domanda hanno dato risposta gruppi di potere capaci di aggregare il voto per il CSM che si erano impadroniti dei gruppi associati. Io credo che Mattarella, parlando di “logiche di appartenenza”, si stesse riferendo a questi potentati elettorali ed aggregatori di micro-interessi, che solo una riforma elettorale coraggiosa, insieme ad un recupero del ruolo e del senso dei gruppi associati possono inibire. L’Anm apre il processo per le chat di Palamara. Cosa si aspetta? A me piacerebbe di più se invece di fare i processi ed irrogare sanzioni, si facesse una sorta di Commissione Verità, per consentire anche agli incolpati di poter spiegare le ragioni che li hanno spinti a chiedere l’interlocuzione con i potenti di turno ed i consiglieri. Credo che così potremo comprendere veramente quali sono le cause che stanno a fondo di quella crisi, per trovare gli strumenti che impediscano il ripetersi nel futuro di quanto accaduto. L’illusione è che i processi e l’applicazione delle sanzioni risolvano il problema, senza che questo sia stato realmente affrontato e compreso. Ultima domanda: nel processo a Davigo per i verbali di Amara, l’ex pm aveva chiesto l’udienza a porte aperte ma la sua richiesta è stata respinta... Credo che il giudice abbia applicato la legge. Non si possono modificare le norme ad personam. Quel ragazzino in libertà può indignare, ma in realtà hanno vinto diritto e speranza di Maria Brucale* Il Dubbio, 5 febbraio 2022 Sono trascorsi quattro anni da quando Ahmed Fdil, una persona di 64 anni divenuta senza tetto per aver perso il lavoro, è stata uccisa dal fuoco in una vecchia auto che era diventata la sua casa. Ad accendere l’incendio erano stati due adolescenti annoiati, uno di 13 e uno di 17 anni, che avevano lanciato accanto all’auto due pezzi di carta presi da una pizzeria da asporto e dati alle fiamme, ‘per scherzo’, così avevano detto confessando il crimine, senza rendersi conto delle conseguenze atroci di quel terribile gesto. Il tredicenne non era allora imputabile. Per il diciassettenne non si sono aperte le porte del carcere perché il tribunale dei minori ha ritenuto, conformemente alla legge, che il profilo personale del reo e la sua giovanissima età consentissero ampie possibilità di reinserimento e di emenda e che il carcere non avrebbe giovato a quel giovane quanto un percorso serio e responsabile di riparazione condotto in una località protetta prestando assistenza ad anziani e disabili. Oggi il ragazzo ha concluso la prova decisa dai giudici e i servizi sociali danno conto di una concreta utilità del trattamento disposto che ha prodotto una piena maturazione e una fattiva presa di coscienza del crimine commesso. Ove il tribunale, a breve nuovamente interpellato, ravviserà, come appare prevedibile, il buon esito della c. d. ‘messa alla prova’, l’autore di quel gesto indicibile sarà completamente libero. Comprensibili tutti i sentimenti di disagio e di sdegno accesi da una condotta che in sé palesa un disadattamento intimo e profondo, indifferenza sprezzante verso la condizione di solitudine e di miseria dignitosa e composta di un clochard, disprezzo della vita. Comprensibili ed empaticamente del tutto condivisibili e, tuttavia, c’è una ragione superiore che deve governare l’agire dello Stato quale tutore della sicurezza sociale e garante di un concetto più alto, esule dalle spinte emozionali, di Giustizia: l’utilità sociale, il risanamento di uno strappo con una visione lungimirante di prospettiva. E allora lo Stato dovrà tenere conto delle necessarie diversificazioni richieste dalla particolare fragilità dei minori che commettono reati, e dalla opportunità di rispondere alle condotte criminose con strumenti che traducano la tensione punitiva in aspirazione educativa e di recupero. In tale ottica, del rispetto di una particolare condizione di vulnerabilità, della necessità di educare la persona che sia incorsa da minorenne nel crimine e di determinarne la adesione a modelli sociali alternativi e positivi, di sanzionare con intelligenza prospettica ed indulgenza il minore il cui ricorso al crimine può essere stato determinato da condizionamenti esterni sociali o familiari - cui non è stato in grado di contrapporre una resistenza matura e consapevole, il carcere deve essere considerato davvero come extrema ratio e rispondere a criteri di assoluta inevitabilità. Gli studi ed i progetti di legge elaborati negli ultimi anni, le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, troppo spesso costretta a vestire i panni di un indolente legislatore dalle direttive europee, dalle circolari ministeriali, tutti assecondano tale medesima intenzione: relegare la pena in carcere ad un ambito del tutto residuale e prediligere l’esecuzione penale ‘aperta’ o extramoenia tesa alla integrazione sociale ed alla responsabilizzazione di soggetti ancora da educare, non da rieducare. E, allora, la pena detentiva appare del tutto inutile quando non dannosa mentre risponde ad un’ottica concreta di tutela della collettività e tende a prevenire la commissione di ulteriori reati la scelta di favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minore, la preparazione alla vita libera, l’integrazione. La tutela della società impone, insomma, la declinazione di un nuovo e più sensato e costruttivo concetto di sicurezza sociale. A fronte di una condotta orribile non è utile una pena orribile. La logica della protezione sociale pone a interrogarsi pragmaticamente su quale sia da parte dello Stato la condotta più feconda per sanare una ferita ormai inferta e a volte tragicamente irrimediabile. Non può non tornare in mente il motto fatto bandiera da Marco Pannella e divenuto icona della azione nonviolenta dell’associazione Nessuno Tocchi Caino: Spes contra Spem. Il posto di Caino è in società. Caino rappresenta l’umanità intera e la sua inclinazione all’errore e alla violenza ma la estrinsecazione della ferocia rappresentativa della stessa natura umana non deve essere repressa con pari ferocia. Caino deve avere un’altra opportunità. Abele è morto e su di lui si versano la pietà e il dolore di quanti lo hanno amato e di chiunque abbia subito la lacerazione di una morte cruenta, terribile, ingiustificabile. La punizione di Caino non la ripara, non sana le ferite, non recupera, non restituisce, non offre ristoro alla società se non quello del tutto umano del volere la sofferenza di chi ha determinato la nostra, del bisogno di vendetta, figlio anch’esso della stessa passione umana che conduce all’orrore della violenza. Un impulso intimamente del tutto condivisibile e, tuttavia, socialmente non utile, determinato dal bisogno di ferire non di sanare, costituzionalmente ammesso solo laddove serva a contenere, a tutelare la società dalla reiterazione del delitto. La punizione fine a sé stessa, quella che ognuno di noi vorrebbe feroce ed estrema a colpire chi ci ha ferito, chi ci ha privato di un affetto, chi ci ha procurato un dolore incancellabile non è ammessa se è socialmente inutile. Se quel giovane ha compreso, se ha tradotto quell’orrore in consapevolezza del valore della vita, se ha maturato empatia per chi soffre e rispetto dei suoi simili e di ogni condizione di vulnerabilità lo Stato di Diritto ha vinto senza procurare nuove ferite. *Avvocato, Direttivo di Nessuno Tocchi Caino La Nato e le stragi in Italia: non è un romanzo di Davide Conti Il Manifesto, 5 febbraio 2022 Leggere la storia. Da Piazza Fontana a Piazza della Loggia e alla stazione di Bologna: tanti gli elementi storici emersi di connessione tra gruppi neofascisti e ufficiali dell’Alleanza atlantica. L’ultima inchiesta sulla strage fascista di Brescia del 28 maggio 1974 ha condotto gli inquirenti sulla soglia d’ingresso di Palazzo Carli a Verona, sede del comando Nato. Li ha portati lì un testimone all’epoca interno agli ambienti di Ordine Nuovo (On), il gruppo fondato da Pino Rauti responsabile dell’eccidio di Piazza Fontana come di quello a Piazza della Loggia. Per raccontare la storia delle stragi in Italia si deve partire dal “principio di realtà”, crudo ma efficace, espresso dal generale Mario Arpino in commissione parlamentare stragi: “C’era una parte politica che per noi - i militari - era quasi rappresentante del nemico. Allora era così”. Quella era la cornice storico-politica: la Guerra Fredda tra blocchi militari contrapposti. In quel quadro in Italia emerse il fenomeno dello stragismo con una continuità e una violenza senza pari nell’Europa dell’epoca. Il Paese era zona di frontiera geopolitica, inserito nella Nato ma “abitato” dalla contraddizione irriducibile: la presenza del più grande partito comunista d’Occidente, fondatore della Repubblica. I caratteri anticomunisti dell’eversione 1969-1974 indicano quanto le stragi siano “figlie” della divisione bipolare del mondo e come sia ineludibile discutere il ruolo della Nato nel nostro Paese, ovvero un’alleanza militare strumento della Guerra Fredda in funzione anti-sovietica. Nei decenni che hanno visto il lento singhiozzare dei processi per le “stragi di Stato” sono emersi molti elementi di connessione tra gruppi neofascisti e ufficiali della Nato. L’inchiesta del giudice Guido Salvini su Piazza Fontana ha mostrato come i dirigenti di On, Carlo Digilio (che fabbricava le bombe), Sergio Minetto e Giovanni Bandoli fossero legati al capitano del comando Nato di Verona David Carret. I rapporti dei capi ordinovisti con i servizi segreti -agli atti della commissione parlamentare stragi- configurano On come gruppo inquadrato nei cosiddetti “Stati Maggiori Allargati” ovvero un ambito operativo anticomunista “misto” militari-civili delineato nel convegno dell’Istituto Pollio di Roma nel 1965 (finanziato dal ministero della Difesa) in cui venne teorizzata la strategia stragista. Vertici delle forze armate sono stati condannati per fatti relativi alle stragi (Gianadelio Maletti, capo del controspionaggio del Sid, per favoreggiamento di Marco Pozzan e Guido Giannettini per Piazza Fontana); riconosciuti referenti dei gruppi neofascisti (il generale Giuseppe Aloia commissionò a Rauti e Giannettini l’opuscolo provocatorio “Le mani rosse sulle forze armate”); individuati come responsabili di apprestamenti militari anticomunisti (il generale Giovanni De Lorenzo con il “Piano Solo” del 1964). La più importante figura dell’intelligence italiana Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, è indicato dalla nuova inchiesta sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 come uno dei mandanti del massacro. A lui è intitolata una sala della sede Nato di Bruxelles. Junio Valerio Borghese per il suo “governo” aveva redatto un programma -agli atti dell’inchiesta sul golpe dell’8 dicembre 1970- che prevedeva l’aumento dell’impegno finanziario e militare dell’Italia nella Nato e una politica filo-atlantica nel Mediterraneo con le dittature di Grecia, Spagna e Portogallo. La commissione Pike del Congresso Usa denunciò nel 1976 i finanziamenti illeciti della CIA alle attività anticomuniste in Italia. 800.000 dollari giunsero a Vito Miceli (capo del SID) e da lui ai gruppi dell’estrema destra e al Msi, come raccontò nel 1993 a “La Stampa” il missino Giulio Caradonna “I soldi del Dipartimento di Stato, che vennero attraverso il generale Miceli allora capo del Sid e quindi alta autorità della Nato, li portò Pierfrancesco Talenti direttamente ad Almirante”. Tale complessa dinamica fu sintetizzata dalla formula “strategia della tensione”, per rappresentare la combinazione di due fattori: la destabilizzazione della vita civile attraverso l’uso anonimo della violenza e la stabilizzazione politica in senso reazionario come risposta alla democrazia conflittuale disegnata dalla Costituzione. Si aggiornò il conflitto continuità/rottura che aveva già informato il carattere della transizione dell’Italia del dopoguerra. La “continuità - scrive Claudio Pavone - non è sinonimo di immobilismo”, essa tende ad esprimersi come un moto dinamico e forte di fronte alle spinte innovatrici di rottura (quelle presenti nell’Italia degli anni ‘43-45 e ‘60-’70) per garantire il perdurare degli equilibri storici e degli assetti sociali dati. La Costituzione antifascista e non anticomunista fu il principale obiettivo di questo moto. Nei “giorni del Quirinale” appena trascorsi è stata evocata con animosità (da stampa e politici) una guida istituzionale saldamente “atlantista”. Obliando il significato di quel termine in Italia negli anni della Guerra Fredda e dimenticando che presidenti della Repubblica e del Consiglio giurano fedeltà alla Carta del 1948 dove non si menzionano alleanze militari e invece si rifiuta la guerra. Varcando la soglia dei comandi Nato a Verona si troverà, forse, qualcuna delle prove che Pasolini non aveva quando spiegava “cos’è questo golpe”. Si potrebbe dare, così, soluzione anche all’altro cruccio del poeta: “Il problema è questo: i giornalisti e i politici pur avendo delle prove, e certamente degli indizi, non fanno i nomi”. Compagno violento, perde la potestà genitoriale la mamma che non lo lascia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 febbraio 2022 Lo ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza n. 3546 depositata oggi. Nel giudizio di adottabilità del minore, rientra anche la valutazione del comportamento della madre nei confronti del compagno violento. Un atteggiamento troppo remissivo o comunque l’incapacità di staccarsi definitivamente da un contesto inadatto al bambino può giocare un ruolo decisivo nella perdita della potestà genitoriale. La Corte di cassazione, sentenza n. 3546 depositata oggi, ha così definitivamente respinto il ricorso di una madre contro la decisione della Corte di appello di Roma che aveva valorizzato il comportamento “irrimediabilmente abbandonico” dei genitori. E il fatto che il piccolo avesse assistito “per anni a reiterati maltrattamenti fisici all’interno dell’abitazione familiare, agiti contro la madre dal padre, senza che quest’ultimo manifestasse alcuna concreta volontà di resipiscenza e di recupero, avendo continuato, anche dopo il collocamento del figlio in casa famiglia a fare uso di alcolici, a picchiare la compagna e a sottrarsi a qualsiasi percorso presso il Serd e i servizi sociali”. Con riferimento alla madre, invece, il giudice di secondo grado ha messo in evidenza, e la Cassazione lo ha confermato, che la madre aveva lasciato che il minore “vivesse a lungo in un clima violento, senza compiere alcuna seria iniziativa per offrirgli una vita accettabile”. “La stessa - prosegue la decisione - aveva chiesto l’intervento delle istituzioni solo quando si era trovata a non avere alternative e, puntualmente, ogni volta, era tornata dal compagno, portando con sé il bambino, che ha iniziato a vivere serenamente solo quando è stato inserito, da solo, in una casa famiglia, mentre la madre è tornata dal suo compagno violento, mettendo, nei fatti, la relazione di coppia al di sopra degli interessi del bambino”. In conclusione, con riferimento alla figura materna, per la Cassazione la decisione di secondo grado “risulta essere stata adottata in conformità alle norme che individuano i presupposti per la dichiarazione dello stato di adottabilità, con una motivazione esauriente circa la impossibilità di seguire una strada diversa dall’adozione piena nell’esclusivo interesse del minore”. “Macelleria sammaritana”, ammesse le parti civili. Ora serve la riforma di Damiano Aliprandi IL Dubbio, 5 febbraio 2022 Lo ha deciso il gup al processo per i pestaggi del 6 aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere, ammettendo il ministero della Giustizia, i garanti e le associazioni che si sono costituite. L’udienza di giovedì scorso, si è conclusa con il Gup, Pasquale D’Angelo, che ha ammesso la costituzione di parte civile del ministero della Giustizia, del Garante Nazionale e del Garante dei detenuti della Regione Campania Samuele Ciambriello, dalle cui denunce è partita l’inchiesta della procura sammaritana, e ha ammesso tutte le associazioni come Yairahia Onlus, Antigone, A.C.A.D. e il Carcere possibile onlus, compreso enti come l’Asl. Accertando le responsabilità individuali si farà luce anche sulle pratiche violente - Il gup ha quindi accolto le richieste avanzate dai legali che rappresentano persone fisiche, sodalizi o enti che hanno in qualche modo interesse a costituirsi in giudizio contro i 108 imputati, per la maggioranza agenti della polizia penitenziaria protagonisti di quella che venne definita “un’orribile mattanza” avvenuta il 6 aprile del 2020 al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ricordiamo che Antigone, ha lavorato nel corso di quest’anno, coordinandosi con l’Ambasciata d’Italia ad Algeri e con l’Ambasciata algerina in Italia, per consentire anche ai familiari di Lamine Hakimi, il ragazzo algerino deceduto il 4 maggio del 2020 nel carcere F. Uccella di Santa Maria Capua Vetere, di costituirsi parte civile. Secondo l’avvocata Simona Filippi e Luigi Romano, presidente di Antigone Campania (rispettivamente difensori della madre e del padre di Lamine Hakimi, il detenuto morto nel carcere pochi giorni dopo aver subito il pestaggio), sarà un processo molto impegnativo in cui si dovrà considerare ogni aspetto della vicenda anche precedente e successiva ai pestaggi, specie in virtù delle condotte che avrebbero posto in essere numerosi imputati al fine di ostacolare l’accertamento di quanto accaduto. I legali sono consapevoli che attraverso l’accertamento delle responsabilità individuali degli imputati si farà luce anche sulle pratiche violente che hanno attraversato il mondo penitenziario soprattutto nel corso del primo lockdown. Il garante campano Ciambriello: “Apprezzo la serenità e il senso di giustizia del magistrato” - Il garante regionale Samuele Ciambriello, alla notizia della sua ammissione come parte civile, ha così commentato: “Il Giudice ha ritenuto giusti e validi gli argomenti esposti dal mio difensore Francesco Giuseppe Piccirillo, nonostante le numerose opposizioni sollevate e argomentate dai difensori degli imputati. Mi sento di apprezzare la serenità e il senso di giustizia che ha dimostrato il magistrato Pasquale D’Angelo, nei cui confronti devo esprimere la mia ammirazione e gratitudine”. Ricordiamo che Ciambriello, appena ha ricevuto notizia dei pestaggi da parte dei familiari e testimonianze dirette, subito ha denunciato la notizia di reato in procura. Soddisfatta anche l’associazione Yairahia Onlus per l’ammissione come parte civile. “La nostra costituzione di parte civile ai sensi e per gli effetti degli artt. 74 e ss. c.p.p., nei confronti di tutti gli imputati, e per tutti i capi di imputazione contestati (tortura, perquisizione personale arbitraria, abuso di autorità contro detenuti, maltrattamenti, lesioni personali pluriaggravate, falsità in atti, calunnia, favoreggiamento, omessa denuncia, omicidio colposo ed altro, commessi dal 6 aprile 2020) - scrive in un comunicato l’associazione Yairahia-, è stata legittimamente riconosciuta per l’impegno profuso a difesa dei diritti dei detenuti, anche in rete con altre associazioni, attraverso azioni concrete, denunce pubbliche e formali ponendo all’attenzione delle autorità competenti e della società civile l’esistenza di abusi e situazioni di criticità segnalate direttamente dai detenuti o dai loro familiari, in quasi 20 anni di attività”. Il legale dell’associazione, l’avvocata Caterina Calia, nell’udienza odierna sostituita dall’avvocato Paolo Conte, ha rimarcato che la vicenda di Santa Maria Capua Vetere si caratterizza per la cruda ed inaudita violenza esercitata nei confronti dei detenuti, commessi da pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, in un momento di particolare fragilità stante la paura data dall’emergenza covid19. Ad avviso di Yairahia Onlus, questo rappresenta un maggiore disvalore sociale e penale, perché “il potere violento, e gratuito, è stato esercitato nei confronti di persone loro affidate e, di fatto, assolutamente inermi ed indifese in quanto soggette alla gerarchia degli agenti e dei funzionari che li hanno offesi, minacciati e colpiti, provocando lesioni fisiche anche gravi e, nel caso di Lamine Hakimi, persino la morte”. Ha anche ricordato il pesante interrogativo sugli altri 13 detenuti morti. Tredici persone la cui morte è stata prontamente imputata a overdose di metadone prima ancora che venisse effettuata una autopsia; 9 persone sono morte nel solo carcere di Modena e tranne che per la morte di Sasà Piscitelli per la morte di 8 di loro è stata disposta l’archiviazione. Presentate 32 proposte di patteggiamento per le posizioni “più marginali” - Nel frattempo, sempre nel corso dell’udienza preliminare di giovedì, trentadue proposte di patteggiamento per le posizioni “più marginali” sono state avanzate dal Procuratore Aggiunto di Santa Maria Capua Vetere. La scelta della Procura, ha spiegato Milita, ha lo scopo di snellire un procedimento già peraltro corposo, visto che con gli imputati, sono un centinaio le parti civili che, com’è detto, lo stesso gup, sciogliendo la riserva, ha autorizzato a partecipare al processo. Il gup D’Angelo deciderà invece nell’udienza calendarizzata per il 15 febbraio se autorizzare una ventina di parti civili che ne hanno fatto richiesta - tutti detenuti tranne un’associazione - a citare lo stesso ministero retto da Marta Cartabia come responsabile civile; il gup ha concesso tempo fino all’otto febbraio alle parti civili per depositare richiesta e farsi autorizzare a citare il ministero per le condotte degli agenti. Il sistema penitenziario attende la riforma. Senza dimenticare il sovraffollamento - Da un lato le violenze, dall’altro le criticità che possono riportare all’esasperazione. Mentre la giustizia fa il suo corso, rimane il problema del sistema penitenziario che ancora attende nell’essere riformato. Molte cose - per ora - si possono fare anche senza passare dalla via legislativa, ma - come elaborato da Antigone - attraverso una modifica del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Una strada che ha suggerito anche la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario guidata dal professor Marco Ruotolo. E poi c’è il sovraffollamento. Ci sono ancora migliaia di detenuti con pene al di sotto dei tre anni e che, perciò, potrebbero accedere alle misure alternative alla detenzione. Così come giace da tempo la proposta di legge a firma del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. Proposta ancora disattesa, per questo è in corso una staffetta del digiuno per tenere accesa la “fiammella della nonviolenza” portata avanti da Rita Bernardini del Partito Radicale. Da ricordare, che tutto è partito dall’input dato dalle detenute del carcere Le Vallette di Torino. Esempio di nonviolenza, che punta al dialogo con le istituzioni per rendere più umano e civile il sistema penitenziario. Solo così, si rende anche più civile il nostro Paese. Violenze nel carcere di Santa Maria C.V., imputato minaccia le vittime: sospeso dal servizio Corriere del Mezzogiorno, 5 febbraio 2022 Provvedimento chiesto dalla Procura e concesso dal gip nei confronti di un vice ispettore della polizia penitenziaria solo indagato: avrebbe chiesto ai detenuti di ritrattare le accuse in sede di processo. Il processo agli agenti di polizia penitenziaria e ai funzionari coinvolti nelle violenze perpretate ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile di due anni fa è alle prime battute. Di ieri la notizia che il giudice ha ammesso 100 parti civili (gli imputati complessivamente sono invece 108). Di oggi invece quella relativa alla sospensione dal servizio di uno degli indagati per presunte minacce nei confronti di detenuti per “costringerli” a ritrattare le accuse. Si tratta di un vice-ispettore della Polizia penitenziaria imputato nel processo per le violenze commesse il 6 aprile 2020 ai danni di detenuti, che avrebbe avvicinato e minacciato, ricorrendo anche alla violenza, alcuni reclusi vittime dei pestaggi per indurli a rendere dichiarazioni a suo favore. L’accusa è contestata dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che ha chiesto e ottenuto dal gip la sospensione del poliziotto per la durata di sei mesi per il reato di intralcio alla giustizia. L’agente non era stato raggiunto nel giugno scorso dalle 52 misure cautelari emesse nei confronti di poliziotti e funzionari del Dap, ed essendo solamente indagato aveva continuato a lavorare nel carcere dove l’anno prima aveva preso parte alle violenze, a stretto contatto con alcuni dei detenuti che avevano denunciato i pestaggi. Cassino (Fr). Si è concluso il progetto “storie di riscatto” nel penitenziario cittadino frosinonetoday.it, 5 febbraio 2022 Vincenzo Capaldi (Cds Cassino) e Walter Bianchi (presidente Dike): “Dietro le sbarre ci sono persone con diritti da tutelare e con storie da ascoltare. Attraverso il dialogo e la riflessione è possibile elaborare la responsabilità del reato e immaginare nuovi percorsi di vita”. Incontri laboratoriali tenuti nell’area dedicata alle attività trattamentali con un gruppo di detenuti a cura di una equipe multidisciplinare. Un percorso di dialogo e confronto attraverso il cinema e il linguaggio universale delle immagini. Una relazione fitta e costante con il personale del carcere cassinate culminata in una serie di interviste. Un diario di viaggio sotto forma di blog dove raccontare, passo dopo passo, l’evoluzione del progetto. È questa la fotografia capace di restituire il senso che ha attraversato “Storiediriscatto”, il progetto a cura del Centro dei Diritti e della Solidarietà - OdV e dell’Associazione Dike con il contributo della Regione Lazio svoltosi nella Casa circondariale di Cassino. “Con questo percorso abbiamo voluto e potuto conoscere i bisogni dei detenuti e le loro necessità personali”, racconta Vincenzo Capaldi, presidente del CDS di Cassino. “Attraverso le nostre attività laboratoriali, abbiamo attivato emozioni nel personale detenuto. L’obiettivo era favorire un cammino di riflessione e analisi rispetto la responsabilità del reato, dei suoi effetti sulla vittima e sulla società per immaginare, allo stesso tempo, nuovi percorsi di vita”. Il medium cinema è stato lo strumento con cui il gruppo di lavoro fatto di assistenti sociali, psicologi, educatori e comunicatori ha scelto di stabilire un canale di relazione con il personale detenuto. “Scegliere un film per una visione collettiva all’interno di un luogo di detenzione è un atto che richiede particolare sensibilità perché necessario a gettare un ponte fra le attrici e gli attori in gioco”, racconta Walter Bianchi, presidente dell’associazione Dike. “Dietro le sbarre ci sono persone con diritti da tutelare e con storie da ascoltare. E da ascoltare c’è anche la voce di chi all’interno di un carcere svolge la propria attività professionale. Per questo abbiamo dedicato parte della nostra attività di comunicazione a delle interviste al personale del penitenziario cassinate che ci ha permesso di svolgere il nostro lavoro”. Parma. Didattica e laboratori nel carcere, grazie all’ateneo tante iniziative per i detenuti La Repubblica, 5 febbraio 2022 Calendario di attività culturali congiunte tra Ateneo e Istituti Penitenziari di Parma: didattica ma non solo, in un orizzonte ampio. Presentate le nuove linee guida per la collaborazione tra Università e Carceri italiane. È ricco il programma delle attività dei prossimi mesi del Polo Universitario Penitenziario (PUP) di Parma, frutto dell’intensa collaborazione tra Università e Istituti Penitenziari di Parma. Un programma naturalmente incentrato sulla didattica, cioè sulle attività didattiche in carcere a favore delle persone detenute, ma non solo, in un orizzonte più ampio che è anche quello che guida l’intesa tra Ateneo e Carcere. Le attività del primo semestre dell’anno sono state presentate questa mattina nella sede dell’Università, in una conferenza stampa in cui sono intervenuti il Rettore Paolo Andrei, il Direttore degli Istituti penitenziari Valerio Pappalardo, la docente Vincenza Pellegrino, Delegata del Rettore ai Rapporti tra Università e Carcere, Maria Clotilde Faro, responsabile dell’Area Giuridico Pedagogica degli Istituti penitenziari, Annunziata Lupo, funzionaria giuridico pedagogica, ed Enrica Pizzarotti, Presidente della Fondazione Pizzarotti, che finanzia alcune delle attività. Nel corso dell’appuntamento sono intervenuti anche Valentina Civale, studentessa tutor, e Annalisa Margarita, studentessa del gruppo del laboratorio di sociologia culturale teatrale in carcere. La conferenza stampa è stata anche l’occasione per presentare le nuove linee guida sul diritto allo studio in carcere elaborate dalla Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - Cnupp con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria. Il calendario è ricco e articolato, e va nella direzione del rafforzamento del PUP come polo culturale tout court, incentrato naturalmente sulle attività didattiche ma non limitato ad esse. Laboratori teatrali di sociologia culturale: i venerdì degli studenti in carcere - Due laboratori con studenti detenuti e con studenti e studentesse esterni/e, condotti dalla docente Unipr Vincenza Pellegrino, sociologa culturale e delegata del Rettore ai Rapporti tra Università e Carcere, e da Vincenzo Picone, drammaturgo e regista teatrale, e realizzati in collaborazione con la Fondazione Pizzarotti. Il tema dell’anno 2022 sono Le polarità. Il concetto di polarità è ampiamente trattato dalle scienze sociali, dalla filosofia, dalla psicologia, dalla pedagogia e dalla sociologia. Cosa sono i processi culturali di “polarizzazione”? In che modo generare polarità aiuta la concettualizzazione e in che modo reitera conflitti sociali e identitari? Il lavoro di analisi sarà a partire da alcune polarità scelte dagli stessi partecipanti, tra cui Dentro\Fuori, Ombra\Materia, Vivi\Morti, Io\Noi-Voi. A giugno è prevista una serie di mise en espace dei materiali emersi dai laboratori, incontri aperti alle famiglie dei detenuti e ad altri pubblici, grazie al progetto in essere con il finanziamento di Fondazione Pizzarotti. Seminari di approfondimento: i lunedì degli studenti in carcere - Grazie alla costituzione del Tavolo di Lavoro di Ateneo PUP Unipr, diversi docenti sono stati coinvolti nella didattica in carcere insieme ad alcuni dei loro studenti\esse. I seminari sono rivolti a studenti detenuti ma aperti anche a persone detenute interessate a pensare e discutere insieme, secondo l’ottica della sensibilizzazione al senso della formazione, della cultura, dello studio. Il titolo degli appuntamenti di questa primavera è Cibo, letteratura, società. A tutto ciò si aggiunge il consueto Open Day in carcere, incontro di orientamento con introduzione ai corsi Unipr per detenuti diplomati. Il Pup di Parma fa parte della rete dei Poli esistenti in alcuni Atenei italiani, i quali, seguendo l’esempio dell’Università di Torino, negli anni hanno avviato progetti analoghi per garantire il diritto allo studio universitario a studenti detenuti e oggi sono riuniti in una Conferenza nazionale (la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari - Cnupp) istituita presso la CRUI. La specificità del Polo Universitario di Parma è quella di accogliere studenti detenuti in regime di alta sicurezza, presentandosi quindi come una sfida particolare nel panorama nazionale. Oltre agli esami, alle sedute di laurea e agli incontri con i docenti, all’interno dell’Istituto Penitenziario si tengono incontri di orientamento e brevi cicli di lezioni in presenza di studenti detenuti e non, sempre nel pieno rispetto delle condizioni che permettano la sorveglianza. Per accompagnare gli studenti-detenuti nel percorso di studio e assisterli nell’espletamento di tutte le attività connesse alla carriera universitaria, è prevista la presenza di tutor, studenti iscritti all’Università alle lauree magistrali o a Corsi di Dottorato. Per l’Università di Parma la referente docente del Polo universitario è Vincenza Pellegrino, e referente amministrativa è Annalisa Andreetti. Ancona. Antigone e Ariaferma di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 5 febbraio 2022 Al Cinema Azzurro di Ancona, uso ad accompagnare film di tematica sociale con introduzioni ad hoc, o discussioni post proiezione, il 2 febbraio Marcello Pesarini ha parlato di Antigone e delle carceri prima del bellissimo film Ariaferma. L’intento era quello di inquadrare l’azione dell’associazione, nata nel 1992 da una costola de Il Manifesto, nelle battaglie per i diritti civili post anni 70 (divorzio, aborto, legge Basaglia) e nella proiezione che ha avuto facendosi parte civile contro la tortura, il sovraffollamento, e nell’introduzione degli sportelli e dei rapporti annuali. Dopo un breve inquadramento storico, si è proseguiti sul peso della qualificazione dei volontari e del rapporto con le istituzioni. Interessante è stato raffrontare le iniziative dell’associazione Osservatorio Permanente sulle Carceri, che già si relazionava con Antigone nazionale per poi costituirsi in Antigone Marche attorno al 2010, in particolare con il progetto Punto d’Incontro dei detenuti, con il cammino della Commissione Ruotolo, istituita dalla Ministra Marta Cartabia. I risultati del progetto Punto d’Incontro erano molto significativi, sia sulle richieste in campo sanitario, sia sui rapporti con la direzione, ed è interessante notare che alcuni ricavati nel 2003 vengono ora riproposti nelle modifiche del regolamento penitenziario della Commissione Ruotolo. Le risultanze del progetto, incluse in un libro bianco che non ha visto la luce per un incontro non doverosamente approfondito fra i politici della Regione Marche, pur partner dell’iniziativa, e gli operatori nella traduzione del lavoro in ambito istituzionale, si ritrovano oggi fra le proposte per dare dignità e consapevolezza sia ai detenuti che agli agenti di Polizia Penitenziaria. L’intervento si è concluso con un invito a rapportarsi con Antigone Marche e nell’augurio che il diverso approccio legislativo del Governo, il crescente impiego di interventi a livello nazionale di Giustizia Riparativa e di attività d’apertura al mondo esterno e viceversa, coincidano con maggiore attenzione all’importanza della Giustizia del Paese, anche attraverso investimenti mirati ad una maggiore agibilità sia del personale giudiziario pedagogico che quello addetto alla sicurezza. Il pubblico ha potuto poi riscontrare nella pellicola numerose assonanze con le dinamiche prima esposte. “Nella mia ora di libertà” di Antonio Lamorte Il Riformista, 5 febbraio 2022 L’inutilità del carcere nella cover di Fabrizio De André di Giovanni Truppi e Vinicio Capossela a Sanremo. “Per quanti voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti” sono tra i versi più spesso citati della storia della musica italiana. Presi a sorta di massima, è aforisma compendio di Storia di un impiegato: un circolo che si chiude sul finire del quarto concept album di Fabrizio De André. Giovanni Truppi, in gara al 72esimo Festival di Sanremo, ha scelto il brano Nella mia ora di libertà per la serata delle cover, la quarta di venerdì 4 febbraio. E ha scelto di cantarla con Vinicio Capossela, per la prima volta sul palco dell’Ariston. Il più istrionico, enciclopedico, eclettico cantautore della sua generazione. E anche quello più prossimo a De André, il mostro sacro, considerato inavvicinabile. Di origini campane, Calitri in Alta Irpinia dove ha creato lo SponzFest, come Giovanni Truppi, che è nato a Napoli ed è in gara con la sua Tuo padre, mia madre, Lucia. “Ho scelto questa canzone - ha spiegato a Repubblica quest’ultimo - perché credo nelle sue parole e me ne sento rappresentato. Credo fortemente, come dice De André, che siamo tutti coinvolti, anche perché siamo collegati tra noi più di quanto riusciamo a realizzare: ce lo dicono la biologia e la fisica, ce lo ha detto Jung e ce lo dicono la storia e l’economia. Quando penso a questo mi sembra evidente che se una persona ha fame è perché il suo pezzo di pane l’ha preso (metaforicamente) qualcun altro e il fatto che cerchi di sopravvivere, anche rubando, mi sembra la cosa più normale del mondo”. Nella mia ora di libertà chiude dunque il disco più politico di De André. Pieni anni di piombo, la contestazione, il sogno di un mondo nuovo, gli ideali che distorcono e sfociano nella violenza. Le ossessioni, le convulsioni, la ribellione di una generazione nell’uomo in rivolta, un giovane impiegato, ispirato da un canto del Maggio Francese alla rivoluzione. Il travet che non rinuncia al suo individualismo e che tramite incontri in piazza e viaggi onirici - sogna di far saltare con l’esplosivo i simboli del potere e della borghesia - attraversa la contestazione per approdare al terrorismo. Il trentenne diventato bombarolo piazza il suo tritolo. Sbaglia e fa saltare in aria un chiosco di giornali e non il Parlamento. Ferito nell’orgoglio e umiliato, dal carcere vede la sua donna intervistata. Verranno a chiederti del nostro amore è il capolavoro del disco, unico brano portato in tour anche nei decenni successivi. L’uomo ormai è solo in carcere e riflettendo intorno alla sua ora d’aria cui decide di rinunciare evolve la sua protesta individuale in una lotta collettiva. Chiedendosi “qual è il crimine giusto per non passare da criminali”, i detenuti decidono di sequestrare i secondini proprio durante l’ora di libertà. La canzone è una miniera di versi, spesso presi alla maniera di aforismi, citati di continuo. “Di respirare la stessa aria d’un secondino non mi va” nell’incipit, “se fossi stato al vostro posto ma al vostro posto non ci so stare”, “Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”, “Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”. La critica fu ingenerosa con il disco scritto con Giuseppe Bentivoglio. Giorgio Gaber parlò di “un linguaggio da liceale che si è fermato a Dante, che fa dei bei temini, ma non si riesce a capire se sia liberale o extraparlamentare”. A proposito del suo fervore anarchico il cantautore genovese disse: “Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo … In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità”. Il valore del disco è stato pienamente riconosciuto solo a partire dagli anni ‘90. Capossela ha paragonato De André alla Bibbia, che si può leggere in chiesa come in carcere e, al Corriere del Mezzogiorno, ha aggiunto, senza dimenticare le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Una canzone di grande radicalità che sottolinea come non ci sia possibilità di conciliazione tra detenuto e detentore. La nostra società ha sempre più bisogno di punizione. Calano i reati ma crescono esponenzialmente le detenzioni, in condizioni di precarietà e sovraffollamento, che riguardano soprattutto gli strati più deboli. La società punisce soprattutto quelli che la disparità sociale sulla quale si regge ha condannato a stare in basso. Non dimentichiamo cosa il Covid abbia poi significato per la popolazione carceraria, in termini di perdita di diritti, a partire da quello più importante che a prescindere dal covid in carcere è già profondamente sacrificato: il diritto all’affettività”. Più uguali, più liberi di Linda Laura Sabbadini* La Repubblica, 5 febbraio 2022 L’aggravarsi delle diseguaglianze minaccia la coesione sociale del Paese, porta più criminalità e diminuzione della sicurezza, con conseguente aumento dei costi. La garanzia di un alto livello di coesione sociale crea maggiore fiducia dei cittadini nella democrazia e nelle sue istituzioni. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo bellissimo discorso al Parlamento ha lanciato un grande monito. “Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno per ogni prospettiva reale di crescita”. È proprio così. È ora che la politica lo assuma come un suo centro di gravità permanente. Tanto più che le diseguaglianze minacciano oltre che la crescita anche la nostra democrazia. Siamo la settima economia mondiale ma combattiamo con le mani legate dietro alla schiena. Cosa sarebbe l’Italia se il Nord, una delle aree più ricche d’Europa, fosse affiancato da un Meridione in grande sviluppo? Cosa sarebbero le risorse umane italiane se liberassimo la forza, l’innovazione, la creatività delle donne che oggi sono tagliate fuori, dal mercato del lavoro specie al Sud, ma non solo? Quale sarebbe la crescita se riuscissimo a dare condizioni salariali adeguate e lavoro di qualità ai giovani? Avremmo più famiglie con più redditi, più consumi e la domanda interna sarebbe più forte. Al contrario, l’aggravarsi delle diseguaglianze minaccia la coesione sociale del Paese, porta più criminalità e diminuzione della sicurezza, con conseguente aumento dei costi. La garanzia di un alto livello di coesione sociale crea maggiore fiducia dei cittadini nella democrazia e nelle sue istituzioni. La situazione dal punto di vista delle diseguaglianze è critica e non lo è da oggi. La povertà assoluta è balzata nel 2012, raddoppiando, in seguito al crollo dell’occupazione avvenuto nel 2009. Da allora non è mai stata recuperata ed è peggiorata nel 2020. È più alta al Sud, tra i minori e i giovani, tra gli immigrati. Più permarremo in questo stato, più diventerà povertà strutturale. Più sarà difficile sradicarla. Il tasso di occupazione femminile è al 50,5% nel mese di dicembre 2021. Dagli ultimi dati disponibili a livello europeo risultiamo penultimi in Europa, ultimi per le donne di 25-34 anni. I salari femminili sono più bassi e il lavoro precario e il part time involontario più alto. E ciò denuncia un sottoutilizzo e svalorizzazione del capitale umano femminile, specie in presenza di figli. Il Fondo Monetario internazionale ha già evidenziato che questo aspetto incide sulla produttività, perché fa sì che la selezione dei talenti avvenga escludendo la metà del mondo, quella femminile. La Banca d’Italia aveva stimato una crescita del Pil di 7 punti se il tasso di occupazione femminile fosse arrivato al 60%. I giovani di 25-34 anni devono ancora recuperare quasi 7 punti di tasso di occupazione rispetto a dicembre 2007 e molti di più per arrivare allo stesso numero di occupati di allora. Troppo tempo ci mettiamo per recuperare i baratri delle diseguaglianze. Sono passati 14 anni. Sono i giovani i più coinvolti in lavori precari e a ricevere più bassi salari. Il loro peso tra gli occupati diminuisce e così il loro potere contrattuale. Sono meno di un quarto del totale e ciò va a detrimento dell’innovazione, della flessibilità, degli skill necessari alle nuove sfide per la crescita. La popolazione straniera si trova in una situazione particolarmente critica. Il calo dell’occupazione l’ha particolarmente colpita e nel 2020 la povertà assoluta ha raggiunto circa un terzo delle famiglie con stranieri. Vogliamo trovarci anche da noi delle banlieue come quelle francesi? Le diseguaglianze territoriali continuano ad essere elevate. Il Mezzogiorno è lontano dal Nord su tutti i fronti. Economico, del lavoro, della formazione, dell’uso di internet, della situazione di donne, giovani, bambini, anziani, disabili, della disponibilità di infrastrutture economiche e non parliamo di quelle sociali. Abbiamo l’opportunità del Pnrr e non solo di questo. Sfruttiamola veramente per ridurre le diseguaglianze, investiamo di più su questo. Non si tratta di carità ma di azioni necessarie anche per la crescita economica che ci collocheranno fra le democrazie evolute, capaci di garantire ai loro cittadini condizioni di vita degne. Abbiamo bisogno che per qualsiasi intervento e azione si tenga conto della sua potenza redistributiva. Con meno diseguaglianze la nostra crescita avanzerà e la nostra democrazia si rafforzerà. *Direttora centrale Istat I giovani al centro di tutto di Luigi Manconi La Repubblica, 5 febbraio 2022 C’è una lezione da imparare, ancora senza retorica, se possibile: i ragazzi vanno presi molto sul serio. Mai come ora, il richiamo a loro è presente nei programmi politici e di governo, nel discorso pubblico, nelle strategie di sviluppo, fino al Next Generation Eu. Il termine sacrosanto affonda le sue radici nel terreno più prezioso: quello delle “cose inviolabili” e dei beni non deperibili, tutelati dalla comune credenza nella loro intangibilità quale fondamento stesso della dignità della persona. E, allora, cosa c’è di più sacrosanto della mobilitazione collettiva degli studenti italiani nel corso di questi giorni? A motivarla, infatti, è stata la morte di Lorenzo Parelli ucciso da una trave di acciaio all’interno dello stabilimento della Burimec, in provincia di Udine. In altre parole, cosa c’è di più giusto di un’azione sociale che esige protezione per l’incolumità di giovani vite? Quello di Lorenzo Parelli è uno dei quasi 1.500 “omicidi sul lavoro” registrati dal primo gennaio del 2021 fino a oggi, ma alcuni tratti biografici lo rendono particolarmente straziante: Lorenzo, diciott’anni appena compiuti, è morto nell’ultimo giorno di uno di quei corsi di formazione lavorativa previsti dai curriculum scolastici degli istituti tecnici e professionali. La sua fine, di conseguenza, richiama brutalmente la questione del lavoro che, per tanti giovani e giovanissimi, può presentarsi come nuda violenza: estrema precarietà, sfruttamento intensivo, paghe da fame, nocività e, non di rado, letalità. Perché questo va ricordato: una parte degli studenti che scendono in piazza sono studenti-lavoratori e lavoratori-studenti, occupati in una ampia gamma di “lavoretti”: attività occasionali, poco stressanti e poco faticose, come sempre accaduto, ma anche mansioni irregolari, notturne, rischiose, nella logistica e nei servizi così come in settori dell’agricoltura e dell’industria. Questo ha fatto sì che Lorenzo sia diventato l’icona e il catalizzatore, il simbolo civile e, se posso dire, l’immagine sacra, perché segnata dal lutto, di un disagio sociale e di un percorso di conoscenza. Che può essere assai faticoso: anche le rivendicazioni, francamente non condivisibili, come il rifiuto della prova scritta per l’esame di maturità, nascono da una condizione di smarrimento di questa “generazione Covid”. Sia chiaro, nessuna retorica, tanto più stucchevole se manovrata da un anziano: qui si parla, piuttosto, di processi materiali e di esperienze concrete che modificano - certo, non sappiamo per quanti e per quanto - gli orientamenti di una parte delle giovani generazioni. Si tratta di minoranze, come è sempre stato (anche nei movimenti studenteschi della fine degli anni ‘60), ma capaci di incidere sul complesso della società. Molto difficile, che questo accada oggi, eppure questa insorgenza giovanile è destinata comunque a lasciare tracce. Non solo: tutte le generazioni (o meglio: le parti più attive di esse) hanno conosciuto eventi che hanno decretato, per loro, “la perdita dell’innocenza”. Ovvero, la coscienza del senso tragico dell’esistenza, attraverso il manifestarsi dell’irreparabilità del Male. Per i giovani nati tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50, quell’evento fu la Violenza Assoluta della strage del 12 dicembre del 1969, a Milano, con i suoi morti e i suoi feriti e uno strascico ininterrotto di sofferenza e lacerazione, di menzogna e impunità. In qualche modo e in misura provvidenzialmente più ridotta, “la perdita dell’innocenza” per gli studenti che scendono in piazza in queste ore è rappresentata da quel giovanissimo uomo di 18 anni, morto come morivano i vecchi operai della metalmeccanica e della siderurgia e come continuano a morire quelli che li hanno parzialmente sostituiti: i lavoratori stranieri. E c’è stato, poi, lo scoprire che lo Stato può essere “nemico”: che i suoi uomini possono fare male, avere comportamenti illegali e violenti, colpire senza ragione (è ovvio, non sempre, ma in questo caso la documentazione è inequivocabile). C’è una lezione da imparare, ancora senza retorica, se possibile: questi ragazzi vanno presi molto sul serio. Mai come ora, il richiamo ai giovani è presente - tanto ossessivamente quanto spesso vacuamente - nei programmi politici e di governo, nel discorso pubblico, nelle strategie di sviluppo, fino a quel Next Generation Eu che costituisce, col suo riferimento alle fasce d’età giovanili, il più grande investimento economico ed ecologico dell’intera Europa. Se tutto questo è vero e se vale - se non altro come impegno, come prospettiva e come finalità - si deve non solo tollerare, ma accogliere e incoraggiare, il protagonismo sociale e politico dei giovani e dei giovanissimi. La loro centralità in tutti i progetti di crescita deve prevedere la loro mobilitazione come soggetto autonomo capace di iniziativa propria e indipendente, suscettibile di commettere errori e di imparare da essi. Certo, si è parlato di “infiltrati” all’interno di queste manifestazioni, ma mi sento di dire che, a memoria d’uomo, non si è dato un movimento sociale che non avesse dentro o ai suoi margini, elementi interessati a far precipitare la situazione. Ci saranno anche nelle attuali manifestazioni, ma non sono “i provocatori” a tracciarne la fisionomia e determinarne l’esito. Questa è, piuttosto, un’occasione importante anche per le forze di polizia. È possibile che gli apparati statuali, in 75 anni di repubblica, non abbiano imparato a considerare un corteo - senza armi - come una manifestazione di vitalità democratica e non come una minaccia da schiacciare? E non abbiano appreso come “governare pacificamente” la protesta, canalizzarla senza reprimerla, accompagnare le mosse senza imprigionare le mani, calmare i furori senza spaccare le teste? L’ordine pubblico, in un regime democratico, è un esercizio di saggezza non una prova di forza. Gli studenti non si dichiarino già sconfitti di Chiara Saraceno La Stampa, 5 febbraio 2022 Le motivazioni delle migliaia di studenti che ieri sono scesi in piazza a protestare in diverse città d’Italia sono diverse e non tutte necessariamente condivise dai manifestanti. Quella che ha fatto da detonatore alla protesta iniziata già nei giorni scorsi è stata la morte di Lorenzo Parelli, il 18enne “schiacciato” da una putrella in una fabbrica di Udine nel suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro: un evento drammatico che non solo, ancora una volta, ha mostrato quanto sia carente la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro e l’osservanza delle norme di sicurezza, ma ha anche evidenziato la faciloneria con cui una attività che dovrebbe essere formativa, di apprendimento e organizzata come tale, viene invece lasciata alle decisioni organizzative dell’azienda, nei contenuti e nei modi, al di là dell’impegno che mettono molti docenti nel cercare occasioni interessanti per i loro studenti e di singoli lavoratori che nelle aziende si assumono seriamente la responsabilità di fare da tutor agli studenti. Solo dopo questa disgrazia ministro dell’Istruzione e quello del Lavoro hanno preso l’iniziativa di sedersi insieme attorno a un tavolo per mettere a punto un protocollo che definisca sia il carattere squisitamente formativo dell’esperienza (che quindi è improprio chiamare alternanza scuola-lavoro, come se si trattasse di due cose, attività, separate), sia le condizioni in cui può e deve essere svolta. Dietro alla protesta per la morte di Lorenzo, quindi, c’è anche quella per uno strumento introdotto senza cura per le modalità di attuazione. Questa richiesta di rispetto e di ascolto delle loro buone ragioni rende tanto più incomprensibile e inaccettabile che gli studenti scesi in piazza subito dopo la morte di Lorenzo siano stati presi a manganellate: un’azione non giustificabile con la scusa degli “infiltrati”, avanzata dalla ministra dell’Interno, cui ha fatto seguito un altrettanto incomprensibile silenzio del ministro dell’Istruzione. Come se la protesta degli studenti per un fatto grave che riguarda la scuola e la loro esperienza come studenti non avesse la stessa dignità e legittimità della protesta, per motivi analoghi, dei lavoratori dopo un incidente sul lavoro. Anzi viene criminalizzata a priori. Questa insensibilità alle buone ragioni degli studenti, al loro disagio in una scuola non sempre in grado di coinvolgerli e di innestare gli apprendimenti necessari nell’esperienza viva, disagio che si è amplificato in questi lunghi anni della pandemia, non può che aumentare il senso di estraneità rispetto a una scuola di cui si perde il senso. Un rischio tanto più grande quanto più gli studenti non trovano in loro stessi, in famiglia, nell’ambiente che li circonda, in singoli insegnanti, un di più di senso e di motivazione. A mio parere è proprio da questa estraneazione, perdita di senso di ciò cui dovrebbe servire la scuola - l’apprendimento come processo di acquisizione e arricchimento di competenze e capacità, di desiderio di imparare, di curiosità per ciò che non si sa - che nasce una delle motivazioni forti, ma anche problematiche, della protesta di ieri: il rifiuto dei due scritti per l’esame di maturità, in nome di un apprendimento che non ci sarebbe stato a causa di Dad e quarantene varie. Senza negare le difficoltà affrontate dagli studenti in questi due anni, per altro in modo fortemente diseguale a seconda delle risorse di cui disponevano in famiglia oltre che della capacità dei loro insegnanti di innovare le loro modalità didattiche, mi sembra una dichiarazione di sconfitta e di incapacità che dovrebbero invece rifiutare. Dovrebbero chiedere di essere valutati per la loro capacità di costruire argomentazioni e sviluppare riflessioni (tema di italiano), per quanto hanno appreso della materia principale in base al programma effettivamente svolto (il secondo scritto sarà tagliato su misura di ogni classe). Non di essere trattati da poveretti che hanno perso tempo senza apprendere nulla. È già stato sbagliato farlo lo scorso anno. Proseguire con la stessa modalità è un’ (auto) dichiarazione di sconfitta che gli studenti non dovrebbero fare né accettare. Chiedano, se necessario, più tempo, più sostegno all’apprendimento per chi è maggiormente in difficoltà, esami orali non nozionistici ma che consentano di esprimere gli apprendimenti sostanziali. Ma, per favore, non si dichiarino in partenza sconfitti. “Non siamo numeri, nessuno va sfruttato” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 5 febbraio 2022 Studenti in rivolta. In centomila hanno manifestato in 15 città contro l’alternanza tra la scuola e il lavoro e le nuove regole dell’esame di stato. “Apprendiamo con sconforto e rabbia che il ministero dell’istruzione non ci ascolta”. Da Napoli: “‘interesse delle istituzioni è quello di trattarci come numeri, futuri lavoratori da sfruttare e classificare in base alle nostre prestazioni”. Da Milano: “ogliamo formazione e non competere a chi ha il voto più alto o essere sfruttati lavorando gratis per aumentare il profitto di aziende private”. Centomila studenti in quindici città hanno manifestato ieri contro l’alternanza scuola lavoro e le nuove regole della maturità volute dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi che ieri si è sottratto al confronto. Il tragico evento che ha fatto tracimare questo movimento oltre i limiti stabiliti dalla democrazia immunizzata in cui viviamo è stata la morte all’ultimo giorno di stage di Lorenzo Parelli travolto da una putrella di 150 chili in una fabbrica metalmeccanica in provincia di Udine. Poi sono venute le bastonate della polizia contro chi è stato profondamente colpito da questo evento luttuoso e ha chiesto a Roma, Torino, Milano e Napoli l’abolizione dell’obbligo dell’alternanza scuola lavoro e il ripensamento della scuola del capitale disumano perfezionata dall’ultima riforma dell’istruzione targata Pd. Era il partito modello Renzi, nell’ormai lontano 2015, e nemmeno questo è stato ridiscusso dal nuovo corso di Letta insieme allo sciagurato Jobs Act. La pentola a pressione di una generazione di studenti già tartassati da un malinteso è paradossale “distanziamento sociale” (semmai fisico), provatissimi dal caos della gestione quotidiana della didattica a singhiozzo, metà in presenza metà da remoto, è esplosa quando il ministro dell’istruzione Bianchi ha ritenuto di tornare alla maturità pre-pandemica ignorando la condizione reale, didattica psicologica ed emotiva, degli studenti dell’ultimo anno. Una decisione messa in dubbio, tra gli altri, anche dall’associazione nazionale dei presidi. Dalle testimonianze raccolte ieri nelle numerose manifestazioni che hanno invaso il deserto psicosociale creato dalla letargia pandemica gli studenti hanno denunciato il muro di indifferenza eretto dal ministero, e dal governo tutto, rispetto ai loro bisogni. L’enorme striscione di apertura del corteo romano di ieri è tutto un programma: “Gli immaturi siete voi”. Il rovesciamento logico non ha bisogno di commenti. nella vampata di combattiva lucidità si coglie una domanda ben più ampia della sola questione legata alla maturità. È una domanda che interpella la sicurezza fisica degli studenti (“sotto quella trave che ha ucciso Lorenzo poteva trovarsi uno di noi”, è stato detto), la tutela del benessere mentale e del desiderio che vacillano dopo 23 mesi di chiusure e attacchi paternalistici contro gli adolescenti, l’esigenza di un’istruzione critica, pubblica e di qualità e dunque una scuola completamente diversa da quella usata a fini politici dagli ultimi governi che non hanno nemmeno impostato un processo di transizione verso un’istituzione più giusta, a cominciare da chi ci lavora, i docenti e il personale amministrativo. Con il ministero i rapporti sono tesi. Il 10 dicembre c’è stato uno sciopero generale. E, da poco, c’è stata un’altra rottura sul contratto della mobilità. L’aria del tempo è stata colta dagli studenti napoletani. “L’esame di Stato e la morte di Lorenzo - hanno detto ieri dopo avere manifestato in città e incontrato i disoccupati del movimento 7 novembre, in presidio permanente all’esterno di palazzo San Giacomo - sono gli ennesimi esempi di come l’unico interesse delle istituzioni, che da sempre rifiutano categoricamente qualsiasi tipo di confronto con noi giovani, sia quello di trattarci come dei semplici numeri, dei futuri lavoratori e future lavoratrici da sfruttare e da classificare in base alle nostre prestazioni scolastiche”. Come e più di altri questi studenti hanno evidenziato una consapevolezza che tuttavia stenta a essere elaborata altrove: “Il governo ci illude di star tornando alla normalità, quando questa normalità è solo apparente. Si limita a prendere decisioni dall’alto”. Questioni esistenziali, politiche e solidali che hanno portato all’esplosione dei cortei a Roma, Torino e Milano, bari e Napoli, Palermo e Agrigento, Padova e Verona e molti altri che sono riusciti a esprimere il diritto costituzionale a manifestare, e criticare il governo Draghi, senza essere manganellati. Lo scandalo prodotto dalle violenze della polizia il 23 e il 28 gennaio, e le parole del presidente della repubblica Sergio Mattarella davanti alle camere riunite, hanno fatto cambiare atteggiamento in una gestione delle piazze tra le più approssimative, come dimostrato dal gravissimo episodio dell’assalto neofascista alla sede nazionale della Cgil a Roma. Il muro del governo è rimasto. Ieri al ministero in viale Trastevere a Roma dove sono accorsi almeno 5 mila studenti si è cercato un incontro che ha creato una polemica tra le componenti del movimento: “È stato insoddisfacente, nessuna apertura. Apprendiamo con sconforto e rabbia che il ministero non è disponibile ad ascoltarci - sostiene la Rete degli studenti Medi - Vogliamo incontro con Bianchi”. “Se fosse confermata questa proposta - sostiene l’Uds - farebbe capire che il ministro Bianchi non ha idea di ciò che è accaduto nelle scuole durante la pandemia. Il nostro percorso non può essere oggi valutato con questa modalità di esame. Noi sosteniamo un approccio che favorisce la crescita di un approccio critico e valorizza la multidisciplinarietà”. Gli studenti contestano l’eliminazione della tesina interdisciplinare dalla prova finale. Un sondaggio del sito Skuola.net ieri ha confermato ciò che il governo, e il Pd che guida sia il ministero del lavoro che quello della istruzione non intendono ascoltare: l’alternanza scuola lavoro incontra molti dubbi e anche opposizione tra gli studenti. Su 2500 interpellati il 66% si dice d’accordo con le proteste studentesche contro il Pcto (così si chiama ora l’alternanza scuola-lavoro). Negli anni della pandemia il 63% ha svolto comunque gli stage. Di loro, il 49% li ha fatti in presenza, il 29% ha alternato presenza e distanza, il 22% online. Solo per il 44% si e’ trattato di attività che hanno coinvolto realtà lavorative Appena 1 su 10 ha trovato l’esperienza di Pcto “molto utile” dal punto di vista formativo, il 27% l’ha ritenuta “abbastanza utile”, il 42% la giudica “poco utile”; più di 1 su 5 la boccia. il 22% non ha ricevuto un’adeguata formazione sulla sicurezza prima di iniziare attività in luoghi di lavoro. Tra coloro che hanno svolto un percorso in presenza con attività manuali, ben 1 su 5 racconta di essersi sentito in pericolo almeno qualche volta (15%), se non spesso (5%). “Se non si lavora sulla qualità delle attività, queste ore di formazione rischiano di trasformarsi in una perdita di tempo, quando va bene, o in una tragedia, quando va male”. Molto di rado gli studenti mantengono un contatto con l’azienda. Questa idea è più che altro una suggestione di chi ha imposto l’alternanza a 1,5 milioni di ragazzi del triennio. In fondo l’alternanza scuola-lavoro non serve a preparare al “mondo del lavoro”, ma ad addestrare gli studenti al lavoro di chi cerca un lavoro precario (un habitus, lo definirebbe Pierre Bourdieu). Questa idea di scuola è solo un anello di un progetto antropologico, e non solo economico, più ampio. Gli studenti milanesi, per esempio, ieri hanno contestato prima l’agenzia Afol Metropolitana e poi occupato il provveditorato per qualche minuto: “Vogliamo formazione - dicono - non competere a chi ha il voto più alto o essere sfruttati lavorando gratis per aumentare il profitto di aziende private”. L’8 febbraio è previsto un primo incontro tra Bianchi e le rinnovate consulte studentesche. Venerdì 11 le manifestazioni sono state riconvocate. Per il ministro del lavoro Andrea Orlando (Pd) “La vicenda dello studente morto in azienda aveva delle peculiarità che non consentono di trarre un giudizio generale sul tema dell’alternanza scuola-lavoro. Noi dobbiamo assicurare sicurezza in generale e in particolare nei luoghi in cui si realizza la formazione dei giovani”. Con queste parole Orlando, ieri da Palermo, si è riferito alla tragica morte di Lorenzo Parelli e ha risposto ai cortei studenteschi che non hanno “generalizzato”, bensì criticato un modello di scuola basata sulla formazione al lavoro di chi cerca un lavoro precario. Un “sistema di sfruttamento che toglie ore alla formazione” sostengono gli studenti. Nei casi in cui il tirocinio e l’apprendistato è necessario, questa è l’altra critica sollevata dagli studenti, non assicura né le tutele, né il reddito dignitoso a chi si forma in una professione. Stati Uniti. Passa 20 anni in cella ma il colpevole era suo fratello gemello di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 5 febbraio 2022 L’odissea giudiziaria di Kevin Dugar. Ha trascorso quasi vent’anni in una prigione dell’Illinois per un clamoroso errore giudiziario: il colpevole era infatti suo fratello gemello. Si chiama Kevin Dugar e da giovane era membro della gang Vice Lords nations attiva nei sobborghi di Chicago. Nel 2003 è stato condannato a oltre mezzo secolo di carcere da un tribunale federale dopo che la giuria l’aveva riconosciuto colpevole dell’omicidio di Antwan Taylor, un ragazzo appartenente a una gang rivale, Secondo le ricostruzioni della polizia il 22 marzo di quell’anno Dugar, dopo essere uscito da una festa di compleanno in stato di ebbrezza, decide di andare con un amico in un parco non distante per acquistare della marijuana e terminare così la serata. La sfortuna vuole che in quel momento passassero alcuni membri della gang nemica; in pochi istanti la situazione degenera, insulti, minacce e poi una sparatoria in cui Taylor perde la vita. L’inchiesta che segue è frettolosa e approssimativa: la polizia individua un testimone oculare che afferma di aver visto Dugar sul luogo del delitto vestito di nero e come spesso accade oltreoceano le testimonianze oculari sono innalzate a “prova suprema” e rarissimamente vengono contraddette dalle sentenze. La gran parte degli errori giudiziari commessi da una giuria americana si fonda infatti su testimonianze oculari, quasi tutti a danno di cittadini afroamericani. A nulla sono serviti i tentativi di Dugar di discolparsi, il suo alibi fu giudicato debole e poco credibile mentre il testimone confermò la sua versione. Ma Dugar non si dà per vinto, continua a dirsi innocente e rifiuta il patteggiamento che gli aveva suggerito il suo avvocato: avrebbe dovuto dichiararsi colpevole di omicidio involontario al processo di appello in modo da scontare “solamente” undici anni e magari ottenere qualche permesso per buona condotta. “Non ho mai preso in considerazione questa ipotesi, non ho mai avuto l’intenzione di confessare un reato che non ho commesso”, ha poi raccontato al quotidiano britannico The Guardian. Infatti l’autore dell’omicidio, era un’altra persona, ovvero il fratello gemello Karl, che oggi porta il cognome della madre, ossia Smith. Che inizialmente non prova alcun rimorso, anzi: ha paura di essere denunciato da Gabriel Gabriel Curiel, l’amico che era con lui quella sera. Così qualche tempo dopo si presenta a casa di Curiel con una pistola, lo minaccia e scoppia una lite: Curiel rimane ferito alla spalla da un colpo d’arma da fuoco, un’altra pallottola colpisce la tempia del figlio di appena sei anni che miracolosamente riesce a sopravvivere alla ferita. Smith viene arrestato e riconosciuto colpevole anche per altri capi d’accusa, tra cui diverse rapine a mano armata. La condanna è pesantissima: 99 anni di prigione, praticamente l’ergastolo. A quel punto, senza speranze e prospettive affiora il rimorso nei confronti del fratello, ma ci vorranno altri dieci anni perché si metta in gioco. La svolta arriva nel 2018 quando gli avvocati di Dugar impugnano una lettera scritta dal fratello in cui chiede di essere perdonato: “Caro Kevin fatto una cosa orribile che ho tenuta segreta per troppi anni, ti ho tenuto lontano da tua figlia e sono responsabile di tanto dolore, ho un peso tremendo sullo stomaco che mi uccide, ti prego, perdonami se puoi”. Il giudice incaricato però non crede alla confessione di Smith che ritiene “assolutamente non attendibile” in quanto l’uomo non avrebbe più nulla da perdere. Gli avvocati di Dugar però non demordono, sanno che la confessione di Smith è veritiera, e nel marzo dello scorso anno riescono a ottenere udienza presso la corte di appello dell’Illinois che un mese più tardi decide di annullare la sentenza e di rifare il processo. Nel frattempo Dugar è uscito dal carcere sotto cauzione e gode della libertà condizionata. Ha rilasciato qualche intervista ai media locali e internazionali raccontando la sua odissea ma spiegando di non essere in collera con il fratello a cui continua a voler bene: “L’unico responsabile di quel che mi è accaduto è il sistema giudiziario americano”. Egitto. Gli scrittori raccontano la rivoluzione del 2011. Prima Parte Il Manifesto, 5 febbraio 2022 Il giornalista e critico egiziano Muhammad Omar Janadi si interroga sull’influenza che il fenomeno ha avuto sulla letteratura egiziana contemporanea. Oggi vi proponiamo la riflessione di due scrittori, Shady Lewis Botros e Ahmed Awny. In Egitto si parla ancora di rivoluzione. Per l’anniversario della rivolta che il 25 gennaio 2011 ha rovesciato il regime di Mubarak, il giornalista e critico egiziano Muhammad Omar Janadi si interroga sull’influenza che il fenomeno ha avuto sulla letteratura egiziana contemporanea. Attraverso la piattaforma online indipendente Mada Masr, ha invitato alla riflessione una serie di scrittori, chiedendo loro di raccontare, dal proprio punto di vista, quello che ha significato per l’ambiente culturale egiziano una delle rivolte più importanti della cosiddetta “primavera araba”. Forse quello che ci manca di più della rivoluzione, ora che lo slancio iniziale è svanito, non sono tanto le marce, i sit-in e l’occupazione delle piazze, ma piuttosto il dialogo che aveva creato tra le persone. Tutti coloro che erano presenti in piazza Tahrir o nelle altre piazze egiziane dal 25 gennaio fino alla fine del 2011, hanno trascorso la maggior parte del tempo discutendo (talvolta anche in modo acceso) con chi avevano attorno. Il dialogo continuo è stato il percorso della rivoluzione per “scoprire se stessa” e gli ostacoli che l’aspettavano. Attraverso le testimonianze raccolte, lo scrittore tenta di tornare sull’evento della rivolta e di interrogarsi su come ha influenzato il movimento letterario contemporaneo egiziano. Pone quindi ad alcuni scrittori una serie di domande, a partire da una fondamentale: “Cosa ha fatto la rivoluzione alla scrittura?” Affidandosi all’esperienza di alcuni degli scrittori interpellati, che hanno già affrontato l’argomento nelle loro opere, Janadi chiede loro cosa cambierebbe se volessero sviluppare ora, nuovamente, la questione della rivoluzione. Quali nuovi spazi vorrebbero esplorare e quali idee o argomenti vorrebbero discutere? Come guardano alla situazione attuale della società egiziana? Quali estetiche o generi/tipi letterari ha contribuito a creare la rivoluzione? Come si articola il rapporto tra il “centro” e la “periferia” nella vita culturale egiziana? Oppure: la rivoluzione ha minato l’autorità del “centro” e con essa quella dello standard letterario? O si tratta di una caratteristica della cultura globale contemporanea in generale? Le risposte sono state diverse. Shady Lewis: di grande rivoluzione e piccole rivoluzioni - Shady Lewis Botros è uno scrittore egiziano di religione copta, autore di tre romanzi. Ha lasciato l’Egitto quando le condizioni di vita sotto il regime di Mubarak si stavano facendo difficili, e attualmente vive a Londra. Ha seguito la caduta del regime da lontano. Comincia la sua riflessione citando un discorso proprio sulla letteratura e la rivoluzione, tenuto nel 1927 da Lu Xun, padre della letteratura cinese moderna, davanti agli studenti della Whampoa Academy. Lu Xun affermò che quando avviene una rivoluzione, non c’è letteratura: la marea rivoluzionaria inghiotte tutti, ed è un evento che sconvolge temporaneamente anche il mondo della cultura. Ma solo una vera rivoluzione è in grado di cambiare la letteratura. Esistono anche delle piccole rivoluzioni che non modificano nulla delle strutture profonde della società, e quindi non possono operare un cambiamento a questi livelli. Lewis sostiene: quel che è certo è che la rivoluzione egiziana non è riuscita a cambiare né radicalmente né tantomeno superficialmente le strutture della società. Al contrario, nella maggior parte dei casi ha adottato un approccio reazionario a tutti gli effetti. La caduta del regime non ha avuto un impatto tale da portare un cambiamento così forte a livello sociale e culturale, e di conseguenza nei temi e nei contenuti della letteratura. Qualsiasi cosa possa essere cambiata in questo ambito negli ultimi dieci anni, nella visione di Lewis non sembra essere direttamente correlata al rovesciamento di Mubarak, ma ad altri fattori. Per descrivere quello che secondo lui ha rappresentato la rivolta del 2011, Lewis si rifà di nuovo a Lu Xiun, per il quale la rivoluzione non dev’essere per forza un cambiamento eclatante. Lo scrittore cinese sostiene che ogni popolo è seriamente coinvolto in una rivoluzione ogni giorno, che può portare a cambiamenti graduali, ma a lungo termine. “Questo è ciò che - afferma Lewis - penso sia accaduto e stia accadendo in Egitto in campo letterario, a prescindere dall’evento politico”. Aggiunge lo scrittore che le idee di Lu Xun hanno avuto una grande influenza su Mao e sono state successivamente impiegate nella Rivoluzione Culturale cinese. E questo in seguito ha dimostrato, secondo Lewis, che anche una rivoluzione vittoriosa, che porta un cambiamento radicale della società, non conduce necessariamente a un cambiamento nella letteratura, ma la assoggetta al nuovo potere, che la relega al ruolo di propaganda. “Ecco perché - sostiene - penso che qualsiasi cambiamento avvenuto nella letteratura abbia avuto inizio prima della rivoluzione. Il mutamento delle modalità di produzione e circolazione dei testi grazie alla diffusione capillare di Internet nell’ultimo decennio dell’era Mubarak, unito alla relativa tolleranza e al nuovo assetto giuridico, hanno consentito l’esistenza di giornali e canali indipendenti e privati, che hanno prodotto nuovi scrittori, o hanno offerto nuove opportunità a quelli già affermati. La situazione economica inoltre avvantaggiava alcuni segmenti sociali, la classe media infatti era all’epoca molto più coinvolta nella produzione e nel consumo di prodotti culturali”. Queste condizioni, in un modo o nell’altro, contribuirono allo scoppio della rivoluzione e al cambiamento, nella letteratura e in altri aspetti della cultura. Le stesse condizioni sono state quindi origine sia della rivoluzione che del cambiamento letterario, in modo parallelo. Non è stato l’uno la conseguenza dell’altro, ma due fenomeni concomitanti. Tant’è vero che lo scrittore sostiene di non vedere “un cambiamento radicale o molto evidente nella forma della produzione letteraria dopo la rivoluzione, né nel suo rapporto con il margine e il centro”. La verità è che il campo della letteratura è del tutto marginale, tutto quello che è successo dopo il 2011 è che questo campo si è un po’ ampliato, ha ottenuto più visibilità, ma può retrocedere di nuovo. Alla fine, se osserviamo i nomi principali sulla scena letteraria odierna, scopriremo che provengono dalla generazione che pubblicava già negli anni Novanta, o dalla stampa letteraria, come Akhbar al-Adab - settimanale letterario egiziano - e altri. Fanno eccezione coloro che provengono dall’esterno del circolo letterario, ma “questo è un elemento che ha poco a che fare con la rivoluzione: nella storia della letteratura ci sono sempre stati”. E continua: “L’autorità del centro, credo, è gradualmente crollata lungo gli ultimi dieci anni del governo di Mubarak, quando il ruolo dello Stato, piano piano, si indebolì. Prima di questo periodo, il Ministero della Cultura era il vero centro. Al giorno d’oggi invece ci sono molti centri sparsi: i numerosi premi letterari nel Golfo, il sostegno culturale delle istituzioni occidentali, le attività di traduzione, il recupero di case editrici private e la nascita di nuove, nonché l’emergere di laboratori di scrittura e l’ampia diffusione di siti web e forum”. Secondo Lewis, il cambiamento nella produzione letteraria egiziana, quindi, c’è stato. Ma si è trattato di un fenomeno svincolato dalla rivolta, avvenuto in maniera graduale prima che questa scoppiasse. La rivoluzione può avere per un certo periodo stimolato questo fenomeno, ma da un punto di vista più ampio, ha finito in realtà per mettervi un freno. “Ora, l’impatto maggiore della rivoluzione, in termini di contenuti, sembra essere dato dal suo fallimento e dalle conseguenze che si porta dietro. Sono apparse opere di letteratura carceraria, letteratura d’esilio, distopie e molti altri argomenti, ma tutto sembra essere dominato da questo sentimento di sconfitta”. Ahmed Awny: autorità e fluidità - Ahmed Awny è nato al Cairo nel 1988, e anche lui ora vive all’estero, in Germania. Secondo lo scrittore ci sono opere che non sarebbero esistite senza la Rivoluzione di gennaio, come viene chiamata in Egitto. Non tanto perché la raccontino, quanto perché ne conservano lo spirito, portano in sé la traccia del “momento della liberazione”. Nella letteratura più recente, Awny trova qualcosa di nuovo. Non si può ancora parlare di nuovi “modelli”, ma alcuni riferimenti sembra stiano cominciando a cambiare: nella produzione letteraria egiziana non viene più rappresentata la figura della madre, per esempio, come immagine simbolica della patria. Ci sono visioni e rappresentazioni diverse del concetto di stato-nazione, ma anche di quello di “comunità”. Diversi scrittori hanno rappresentato per molto tempo la società come un’unica massa oppressa, mentre ora, dice, la società è diventata attiva, ha iniziato a conoscersi e anche gli scrittori hanno iniziato a comprendere l’idea che l’autorità ha un sostegno sociale che viene dall’interno. Awny sottolinea la necessità di essere consapevoli che l’autorità tende ad attribuire mancanze e colpe alla società, mentre ignora di essere lei stessa a modellarne i punti di vista. E non parla di autorità solo in senso politico, si riferisce più che altro a quella culturale: intellettuali, critici, scrittori, rappresentano in questo caso il “centro”. Ma per Awny, l’idea che quello che definisce come dominio tecnocratico debba essere applicato alla sfera culturale è fuori discussione. Secondo lo scrittore, i giudizi dell’esperto, dell’intellettuale o del critico, possono trasformarsi in schemi repressivi. E questo è in completo contrasto con la ricchezza della letteratura e della cultura: “La ricchezza, nella sua accezione più ampia, non si raggiunge attraverso la produzione di poche opere di qualità, ma deriva dalla disponibilità, dal dialogo e dalla circolazione più democratica di opinioni e idee. Questa è la cosa più importante, e l’essenza della vera ricchezza è per lo scrittore proprio questo stato di liquidità”, nel senso baumaniano del termine. E la rivoluzione ha sì contribuito alla liquidità, ma “questa era una condizione inevitabile, a causa del progresso tecnologico e mediatico. Paesi che non hanno avuto rivoluzioni hanno una situazione simile alla nostra”. Awny si interroga sul significato della ricchezza della vita culturale e su come venga misurata: la produzione di opere letterarie di qualità può essere la misura della ricchezza culturale di un paese? Dice: “Se la nazionale di calcio, ad esempio, ha vinto la Coppa del Mondo, un tale risultato significa che il popolo egiziano è diventato un popolo atletico?” D’altra parte, sostiene, la diversità può essere un grande vantaggio per la letteratura nell’industria editoriale, se non altro per mantenere attivo l’interesse verso il settore. Sottolinea però che questa liquidità va oltre i libri. Fa l’esempio dell’attuale movimento femminista in Egitto: non può essere separato dalla rivoluzione, dice, perché ne è un prodotto e un’estensione. Così come anche il desiderio di molti gruppi sociali di esprimersi più liberamente è un lascito culturale della rivoluzione, e si trova oggi ad affrontare la crescente repressione da parte dello Stato e della stessa società. Alla domanda di Janadi sui suoi progetti futuri, risponde così: “Il mio prossimo lavoro riguarda il concetto di ‘mascolinità’. Pensavo che non avesse nulla a che fare con la rivoluzione, ma mi sono reso conto di essere partito proprio da un avvenimento ad essa correlato, e dall’energia liberatoria che ne è scaturita” si riferisce alla situazione politica del 2013, anno del colpo di stato contro Morsi, e a quella che definisce mascolinità politica. “Anche questa analisi - conclude - non sarebbe stata possibile senza la rivoluzione”. Libano. Tripoli, il serbatoio dell’Isis di Michele Giorgio Il Manifesto, 5 febbraio 2022 Non è mai cessato in questi anni il flusso di giovani della città portuale, una roccoforte del salafismo, verso Siria e Iraq dove si uniscono ai ranghi dello Stato islamico. “L’Isis è più di tutto un’idea per chi vi aderisce, è l’idea di uno Stato che ha per capo Dio. Lo Stato islamico esiste non perché ha un territorio definito, piuttosto dipende dalle persone, dai suoi membri, che devono conformarsi a certi riti e a determinate regole di comportamento. Per questo attecchisce in tanti paesi”. Davide Grasso conosce bene Daesh, l’Isis, l’ha visto in faccia nel nord della Siria. Oggi è un ricercatore e uno scrittore ma fino a qualche anno fa faceva parte delle unità combattenti curde impegnate contro l’Isis. “Lo Stato islamico - aggiunge Grasso - è tornato ad essere presente in particolare in Iraq, con azioni militari e imponendo regole di vita e forme di tassazione coatta a famiglie ed individui”. E se l’Isis è soprattutto un’idea, allora la morte del suo capo Abu Ibrahim al Hashimi Al Qurayshi nel raid dei commando Usa due giorni fa ad Atmeh (Siria), non impatterà più di tanto sugli aderenti vecchi e nuovi. L’assalto dello scorso 20 gennaio alla prigione di Hasakah nel nord della Siria - decine i morti - è stato ben pianificato a dimostrazione che lo Stato islamico ha ricostruito la sua direzione operativa. E migliaia di uomini di vari paesi infoltiscono di nuovo i ranghi delle sue forze combattenti. Molti di questi sono giovani e arrivano dal Libano. Ha fatto sensazione nel paese dei cedri la notizia che sei giovani di Tripoli erano tra i nove miliziani dell’Isis uccisi dai bombardamenti dell’aviazione irachena del 30 gennaio in risposta agli attacchi jihadisti (11 soldati morti) alle caserme dell’esercito nel distretto montuoso di al-Azim. Da Tripoli hanno diffuso le immagini del lutto delle famiglie dei giovani morti. Ed è così tornata alla ribalta la partenza di tanti ragazzi della città, storica roccaforte del salafismo, che, come foreign fighters, sono andati, dopo il 2011, a combattere in Siria prima con Al Nusra (al Qaeda) e poi con l’Isis. Tripoli sulla costa mediterranea è la seconda città più grande del Libano ma è anche una delle più povere. Per questo è terreno fertile per il reclutamento nelle organizzazioni salafite. Notizie giunte negli ultimi mesi e settimane dalla città portuale ammoniscono che l’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita in Libano, in piena crisi economica e politica, hanno contribuito a riaprire la via jihadista che da Tripoli passa per la regione di Akkar, attraversa il confine e arriva fino in Siria ed Iraq. Un mix di fanatismo politico e religioso e la possibilità di ricevere un salario da combattente, spingono tanti giovani nelle braccia dei comandanti della milizia dell’Isis. Dopo i sanguinosi attentati degli anni passati a sud di Beirut, le forze di sicurezza libanesi, con l’aiuto non ufficiale del movimento sciita Hezbollah, sono riuscite a bloccare in gran parte il flusso di miliziani da e verso la Siria e l’Iraq tramite operazioni alle frontiere, negli aeroporti e nei porti. Sono stati cacciati indietro verso Idlib - la regione siriana protetta dalla Turchia controllata da migliaia di jihadisti di varie organizzazioni - circa 5mila combattenti stranieri affiliati ad al-Qaida e oltre 600 all’Isis. Eppure, le sparizioni improvvise di giovani di Tripoli riapparsi poi in Siria e Iraq con le armi in pugno non sono mai cessate. Povertà, crisi economica, disoccupazione e la sua storia di baluardo salafita e wahhabita fanno di Tripoli uno dei serbatoi naturali dell’Isis. A segnare il destino della città è stata in particolare la predicazione dell’importante sheikh Salim al Shahhal, morto nel 2008, che aveva abbracciato il wahhabismo saudita a Medina alla fine della Seconda guerra mondiale. Dopo essere tornato nella sua città d’origine, fondò il gruppo Shabab Muhammad, la prima fazione salafita in Libano, e farà proseliti nei circa trecento villaggi del distretto di Akkar oltre che nelle strade di Tripoli. Nei decenni successivi prima il declino del nazionalismo arabo successivo alla disfatta della Guerra dei sei giorni e più di recente l’uso strumentale - anche da parte della famiglia Hariri - dell’estremismo sunnita contro gli alawiti di Jabal Mohsen e l’Hezbollah sciita, hanno spinto migliaia di giovani tra le braccia di fanatici senza scrupoli a Tripoli e dei vertici dell’Isis in Siria e Iraq. In Burkina Faso l’insicurezza costringe alla fuga migliaia di persone di Giacomo Galeazzi La Stampa, 5 febbraio 2022 La paura cresce nella regione del Sahel, già afflitta da instabilità politica, violenza generalizzata. La regione del Sahel, già afflitta da instabilità politica, violenza generalizzata, scarsità di cibo e colpita in modo sproporzionato dalla crisi climatica, sta ora affrontando un aumento di rifugiati dal Burkina Faso, in fuga dai feroci attacchi dei gruppi armati, in particolare nella regione al confine con la Costa d’Avorio. Circa 7.000 burkinabé sono arrivati nel nord-ovest della Costa d’Avorio dal maggio dello scorso anno. L’afflusso ha visto un’accelerazione nelle ultime sei settimane - anche se non viene collegata al recente colpo di stato militare in Burkina Faso - con una media di 100 persone che recentemente hanno attraversato il confine ogni giorno, secondo quanto riportato dalle autorità locali. L’Unhcr ha registrato e fornito assistenza oltre 4.000 di loro. In Burkina Faso assistiamo anche ad una crisi di sfollati interni. L’anno scorso il loro numero è cresciuto del 50%, superando 1,5 milioni di persone, ed oggi il Burkina Faso è uno dei paesi africani con la più alta percentuale di sfollati. La crisi in questa regione non accenna a risolversi e la già limitata attenzione internazionale si sposta altrove. Ampie parti della regione rimangono o sono diventate inaccessibili alle agenzie umanitarie che cercano di sostenere i 2,5 milioni di persone costrette a fuggire dalle loro case in Burkina Faso, Mali e Niger. Di conseguenza, molti saheliani si stanno spostando verso sud, verso i paesi costieri o verso il Nord Africa, dove molti finiscono in un limbo pericoloso. Il Sahel sta affrontando anche un esodo rurale senza precedenti, con un numero crescente di sfollati che si spostano verso le aree urbane a causa della riduzione delle zone sotto il controllo del governo, dell’accesso ridotto alla terra e alla produzione agricola, e delle molteplici sfide ambientali. Nei centri urbani, le popolazioni sfollate sono esposte a nuovi rischi di protezione. Le minacce per le donne e i giovani sono particolarmente gravi, compreso lo sfruttamento sessuale e lavorativo, la violenza di genere, il reclutamento forzato e la tratta. Gli interventi a sostegno di donne e giovani sono vitali per alleviare la sofferenza e prevenire gli abusi, insieme agli investimenti in un futuro più positivo per le comunità saheliane. Il Sahel è anche in prima linea nella crisi climatica, con un aumento delle temperature pari a 1,5 volte la media globale. Questo sta esacerbando le vulnerabilità di fondo degli stati nel gestire popolazioni in rapida crescita, la devastazione ambientale, i disastri naturali, un’inversione dei progressi di sviluppo e l’interferenza da parte di attori non governativi. L’emergenza climatica sta anche aggravando i conflitti per le scarse risorse. Nel 2021, circa 19.200 burkinabé sono fuggiti nei vicini Costa d’Avorio, Mali, Niger e Benin - un aumento del 50% rispetto all’anno precedente. Più di 34.000 burkinabé sono ora in esilio nella regione. La situazione dei rifugiati burkinabé sta diventando sempre più precaria, dato che sempre più persone arrivano in Costa d’Avorio senza effetti personali o cibo. Hanno detto allo staff dell’Unhcr che i civili sono stati uccisi e le loro case bruciate dagli estremisti. Sono ospitati dagli abitanti dei villaggi ivoriani in condizioni di affollamento. Lo staff dell’Unhcr ha segnalato che molte famiglie ivoriane stanno ospitando fino a 30 rifugiati burkinabé in piccole case. Il sovraffollamento sta avendo un impatto negativo sulle condizioni sanitarie, e ci sono numerosi casi di malaria, infezioni respiratorie e malnutrizione, aumentando la pressione sulle strutture sanitarie locali. L’Unihcr lancerà presto un appello per la regione del Sahel. Con un budget totale di 307 milioni di dollari, le operazioni dell’Unhcr nel Sahel centrale sono finanziate solo per il 7%.