Bernardo Petralia è stato un capo del Dap di valore Chi andrà al suo posto? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 febbraio 2022 Il magistrato antimafia, così come Santi Consolo, ha favorito il dialogo con le associazioni. È giunto il momento di individuare una figura, al di fuori della magistratura, che conosca il sistema penitenziario in profondità. “È arrivato il momento di dedicare priorità e tempo alle esigenze familiari”, così, in una nota, il magistrato trapanese Bernardo Petralia ha annunciato di lasciare l’incarico di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, chiedendo, nel contempo, al Csm il pensionamento anticipato. Subentrato al posto di Francesco Basentini, dimessosi dopo le polemiche artefatte sulla cosiddetta “scarcerazione”, invece di dimettersi per i 13 detenuti morti durante e dopo le rivolte carcerarie (oppure per aver affermato che il sovraffollamento era “virtuale”), Bernardo Petralia ha fin da subito dimostrato di essere all’altezza del suo compito, soprattutto incentrando nel dialogo, compreso con l’associazione Antigone e, non per ultimo, con Nessuno Tocchi Caino. Dialogo che il capo del Dap precedente aveva, di fatto, reciso. Molto significativa l’ultima intervista rilasciata a Repubblica, dove Petralia ha sottolineato due aspetti degni nota. La prima è che, in maniera “sciasciana”, ha affermato di aver finalmente compreso le parole che gli disse suo suocero penalista, ovvero che per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere. La seconda, a differenza delle dietrologie utili a seppellire le criticità del sistema penitenziario, ha affermato che, come Dap, non hanno avuto nessun segnale di un coordinamento unico delle mafie in merito alle rivolte carcerarie del 2020. Bernardo Petralia, da non confondersi con il suo omonimo Carmelo Petralia, è stato un magistrato antimafia di lungo corso. A differenza di taluni togati che vengono continuamente celebrati sugli altari dei media e che hanno velatamente sollevato qualche disappunto sul suo insediamento, è stato tra i primi magistrati nel rendersi conto della possibile non veridicità delle dichiarazioni dell’ex pentito Vincenzo Calcara. Nei primi anni ottanta, da giovanissimo Sostituto, a Trapani, terra di mafia potente e radicata, ha lavorato a fianco di Ciaccio Montalto, poi ucciso dalla mafia, condividendo con lui le prime indagini contro Cosa nostra, allora coinvolta in una sanguinosa guerra intestina per la conquista, da parte dei corleonesi di Totò Riina, della leadership, e contribuendo alla scoperta, nella zona di Alcamo, della più grande ed efficiente raffineria di droga di cui le famiglie mafiose all’epoca disponevano. L’impegno nelle indagini antimafia è proseguito al Tribunale di Sciacca, trasferitosi nell’anno 1985 da giudice istruttore, dove ha condotto a termine, tra l’altro, il primo procedimento contro le cosche di Cosa nostra della parte occidentale della provincia agrigentina, fruendo anche delle prime, storiche collaborazioni con la giustizia di Contorno, Buscetta e Calderone.Trasferitosi al Tribunale di Marsala nel 1990, da giudice ha presieduto il collegio dei primi processi di mafia celebrati nel Paese con il nuovo rito, affrontando problematiche inedite, sostanziali e processuali, risolte con ordinanze pubblicate nelle più accreditate riviste giuridiche. Nel 1996, ad appena 43 anni, da più giovane dirigente d’Italia, è stato nominato a capo della Procura di Sciacca, dove è rimasto per un decennio fino alla sua elezione al Csm. Bernardo Petralia si è differenziato curando l’approfondimento scientifico, partecipando quale relatore a numerosi incontri di studio e seminari organizzati dal Csm e pubblicando pregevoli scritti in riviste giuridiche. Uno che il magistrato l’ha fatto, senza bisogno di rincorrere teoremi fantapolitici. Eclettica preparazione, elegante nei modi e dialogante. Il rischio che al posto di Basentini subentrasse un magistrato antimafia che pensava il carcere come strumento per indagini personali, era molto concreto. Il sistema penitenziario è complesso, non si riduce al 41 bis, e per dirigere l’amministrazione penitenziaria ci vuole competenza e soprattutto “metodo scientifico” nell’approccio. Bernardo Petralia, come l’allora capo del Dap Santi Cosolo, rappresenta l’eccezione. Forse, con l’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia è arrivato il momento giusto per cambiare la tradizione che vuole necessariamente un magistrato al vertice dell’amministrazione penitenziaria. E se davvero arrivasse Brubaker a capo del Dap, come a suo tempo si era augurato Patrizio Gonnella di Antigone? Ci vorrebbe un vero esperto, con esperienza e che conosca il sistema penitenziario in profondità. Nel 2018, perfino il Sappe era concorde nell’avere una persona illuminata. Nonostante le diverse vedute, era entrato in sintonia con Antigone, proponendo Mauro Palma, l’attuale garante nazionale delle persone private della libertà che ha anche dimostrato di farsi carico delle criticità che vivono gli agenti penitenziari. Questa sarebbe la vera svolta, un forte segnale di cambiamento che fino ad oggi ancora tarda ad arrivare. Piccola posta di Adriano Sofri Il Foglio, 4 febbraio 2022 Il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha annunciato ieri le sue dimissioni, con un anno di anticipo sulla data di scadenza del suo incarico, spiegando il suo desiderio di dedicarsi alla famiglia: “Ho 69 anni, mi è nata una nipotina, sono nonno”. Benissimo: un sigaro e un titolo di nonno non si nega a nessuno. Petralia, già membro del Csm, nominato meno di due anni fa in sostituzione di Francesco Basentini, aveva soprattutto un’esperienza di inquirente antimafia. Nell’incarico al Dap ha mostrato, come spesso succede, di vivere la dimestichezza col carcere e le visite frequenti come una dolorosa rivelazione: “Delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Intervenendo al congresso di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Opera si era detto triste per il bilancio della sua stagione ministeriale. La ministra Cartabia gli ha rivolto un affettuoso saluto. Anche Rita Bernardini è persuasa di essersi trovata di fronte a un uomo di buona volontà. Arrivare a dirigere il Dap è, con poche eccezioni (presto affossate, come nel caso esemplare di Sandro Margara), una specie di coronamento onorario della carriera, remunerato con lo stipendio le indennità e la pensione più alta dell’Amministrazione pubblica, e anche per questo di sbrigativo avvicendamento. Un po’ come diventare presidenti della Corte costituzionale alla vigilia del pensionamento. Dal 1991 i capi del Dap (che sono anche, in quanto capi della Polizia penitenziaria, equiparati ai comandanti generali degli altri tre corpi di polizia) sono stati 13 più tre reggenti. Prima dell’entrata in vigore del tetto di 320.000 euro annui per la Pubblica amministrazione - l’equivalente dello stipendio del Primo presidente di Cassazione - un direttore del Dap era arrivato a percepire più di 550 mila euro all’anno. Emolumenti, se non fraintendo, di portata vitalizia, dal momento che sono pensionabili, e che non sono condizionati alla durata dell’incarico. Non so quali siano le radici storiche di un così sontuoso trattamento: un tempo, quando si voleva garantirsi il contributo dei poveri di famiglia, si sarebbe pensato che incarichi così esposti andassero preservati dalle tentazioni. Sta di fatto che una condizione di forte privilegio è in proporzione con la forte inefficacia. Si va al Dap a chiudere una carriera, e al diavolo acqua calda e water dei detenuti. I capi del Dap provenienti con merito dalla magistratura di sorveglianza, dunque da una effettiva conoscenza di galere e carcerati e carcerieri, sono un paio in tutto. Del resto anche i magistrati e le magistrate di sorveglianza sono ancora in maggioranza di passaggio, e solo per una minoranza, ma preziosa, guidati da una vocazione: è un po’ quello che succede nelle scuole con le e gli insegnanti di sostegno. Mestieri vicinissimi, salvo il trattamento previdenziale. Consulta: la detenzione domiciliare speciale si può richiedere al magistrato di sorveglianza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 febbraio 2022 La Corte costituzionale ha stabilito che la richiesta si può fare a fronte al rischio di un rilevante danno per il figlio piccolo del detenuto. La detenzione domiciliare speciale può essere applicata in via provvisoria dal magistrato di sorveglianza a fronte al rischio di un rilevante danno per il figlio piccolo del detenuto che, per esempio, nelle more della decisione del tribunale potrebbe essere collocato in un istituto. La Consulta, con la sentenza numero 30 sottoscritta dal neo presidente Giuliano Amato e il redattore Stefano Pettiti, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies, commi 1, 3 e 7, nella parte in cui, di fatto, impedisce al magistrato di sorveglianza di valutare le particolarità del caso concreto. Il caso è stato sollevato quando, nel 2020, gli avvocati Marco Tringali, del Foro di Catania, e Michele Passione, del Foro di Firenze, difensori di fiducia di detenuto presso il carcere di San Gimignano, hanno fatto istanza di detenzione domiciliare speciale. Il detenuto è padre di due figlie minori che vivono con la madre. Quest’ultima, a causa della gravissima malattia dalla quale è affetta, si trova nella impossibilità ad occuparsi compiutamente delle minori. Per questo, nel caso di specie, gli avvocati chiedono che si possa applicare l’art. 47-quinquies o.p. trattandosi di detenuto padre di prole di età inferiore ad anni 10 che dispone di un idoneo domicilio ove potrebbe ristabilirsi la convivenza con i figli minori, la cui moglie è impossibilitata (a causa delle condizioni di salute documentate) ad occuparsi. Gli avvocati hanno contestualmente chiesto al magistrato di sorveglianza Siena, di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Hanno evidenziato, appunto, che l’articolo in questione (47-quinquies) - a differenza del 47-ter, comma 1 - non prevede che “nei casi in cui vi sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l’istanza di detenzione domiciliare speciale è rivolta al magistrato di sorveglianza che può disporre l’applicazione provvisoria della misura”. Detto, fatto. Il magistrato ha sollevato la questione e la Consulta l’ha accolta. La Corte Costituzionale, sottolinea che il magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria la detenzione domiciliare speciale “quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione” e “al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”, a ciò provvedendo con ordinanza tipicamente interinale, la quale “conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti, che decide entro sessanta giorni”. Detenzione domiciliare speciale: richiesta provvisoria al magistrato di sorveglianza di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2022 Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 30 depositata ieri, dichiarando parzialmente incostituzionale l’articolo 47-quinquies della legge sull’ordinamento penitenziario. La detenzione domiciliare speciale, come avviene già per quella ordinaria, può essere applicata in via provvisoria dal magistrato di sorveglianza a fronte al rischio di un rilevante danno per il figlio piccolo del detenuto che, per esempio, nelle more della decisione del tribunale potrebbe essere collocato in un istituto. La Corte costituzionale con la sentenza n. 30 depositata ieri ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 47-quinquies, commi 1, 3 e 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario), nella parte in cui non prevede che, ove appunto vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione domiciliare possa essere proposta direttamente al magistrato di sorveglianza, che a quel punto può disporre l’applicazione provvisoria della misura. Accolta dunque la questione posta dal Magistrato di sorveglianza di Siena che riferiva di dover provvedere sull’istanza di ammissione urgente alla detenzione domiciliare speciale avanzata da un condannato con pena residua superiore ai quattro anni di reclusione, padre di una figlia minore di anni dieci, all’accudimento della quale la madre sarebbe impossibilitata per ragioni di salute. La Consulta ricorda che la detenzione domiciliare speciale ha natura “sussidiaria” e “complementare” rispetto alla detenzione domiciliare ordinaria in quanto, “pur condividendo con tale misura la finalità di tutela del figlio in tenera età di persona condannata a pena detentiva, può trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la pena da scontare dal genitore superi il limite dei quattro anni di reclusione, viceversa ostativo alla concessione della misura ordinaria”. Infatti, argomenta la Corte, mentre l’articolo 47-ter, comma 1, O.P. consente che la madre di prole di età inferiore a dieci anni (lettera a), o in sua vece il padre (lettera b), acceda all’espiazione domiciliare della pena della reclusione non superiore a quattro anni (anche se parte residua di maggior pena), l’articolo 47-quinquies, comma 1, O.P. ammette la detenzione domiciliare speciale “quando non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 47-ter” - quindi anche per l’espiazione di una pena superiore ai quattro anni di reclusione -, purché non sussista “un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti” e vi sia “la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli”, ciò al dichiarato fine “di provvedere alla cura e alla assistenza dei figli”, e comunque “dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena ovvero dopo l’espiazione di almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo”. Nonostante la diversità delle fattispecie regolate, connessa alla differente entità della pena da espiare, la decisione spiega che le due misure perseguono la stessa finalità, “cioè quella di evitare, fin dove possibile, che l’interesse del bambino sia compromesso dalla perdita delle cure parentali, determinata dalla permanenza in carcere del genitore, danno riflesso noto come ‘carcerizzazione dell’infante’“. Mentre però il comma 1-quater dell’articolo 47-ter O.P. stabilisce che, “[n]ei casi in cui vi sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”, l’istanza di detenzione domiciliare - anziché al tribunale di sorveglianza - “è rivolta al magistrato di sorveglianza che può disporre l’applicazione provvisoria della misura”; questa disposizione non è ripetuta, né richiamata, dall’articolo 47-quinquies O.P. Sicché, ammessa per la detenzione domiciliare ordinaria (segnatamente per quella nell’interesse del minore ex art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), OP), l’applicazione provvisoria della misura alternativa non è consentita per la detenzione domiciliare speciale, che pure dell’altra condivide la ratio di tutela del fanciullo. Tuttavia, osserva la Corte, la “quota di espiazione preliminare”, che rappresenta l’essenziale aspetto distintivo della detenzione domiciliare speciale rispetto a quella ordinaria, ha proprio la funzione di bilanciare il superamento del “tetto” dei quattro anni di reclusione, poiché l’espiazione intramuraria di almeno un terzo della pena (o quindici anni nel caso di ergastolo) consegna comunque agli uffici di sorveglianza i risultati di una consistente esperienza trattamentale. Ne discende, conclude la Corte, che il magistrato di sorveglianza può applicare in via provvisoria la detenzione domiciliare speciale “quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione” e “al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione”, a ciò provvedendo con ordinanza tipicamente interinale, la quale “conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti, che decide entro sessanta giorni”. Giustizia, stallo sulla riforma: Mattarella sferza la politica di Francesco Grignetti La Stampa, 4 febbraio 2022 Il progetto di legge della ministra Cartabia è fermo da oltre un anno alla Camera. Il capo dello Stato: “La gente deve poter nutrire sentimenti di fiducia”. Quando arriva al capitolo giustizia, la sferza di Sergio Mattarella diventa feroce. Come c’è da attendersi da chi in questi anni al Consiglio superiore della magistratura, lui che ne è presidente di diritto, ha vissuto in prima persona gli sgambetti di capi e capetti delle correnti. E quindi, dice il Presidente, occorre una profonda riforma della giustizia. “Per troppo tempo - denuncia - è divenuta un terreno di scontro, che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività. Nella salvaguardia dei principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della magistratura, uno dei cardini della nostra Costituzione, l’ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”. Più che alle pur necessarie riforme che toccano il processo civile e quello penale, ormai votate dal Parlamento e che devono solo andare a regime con le norme attuative e con gli investimenti promessi, il Capo dello Stato si riferisce dunque alla madre di tutte le riforme: quella dell’ordinamento giudiziario. Un testo è all’esame della Camera da più di un anno. Sul principio che bisogna impedire la porta girevole tra magistratura e politica, sono praticamente tutti d’accordo. Il dissidio è sul Csm che verrà, e cioé su quale legge elettorale bisogna cucire per i magistrati quando devono scegliere i loro rappresentanti nell’organo di autogoverno. La ministra Marta Cartabia ha predisposto un suo meccanismo, basato sul principio di collegi maggioritari, ma alle prime indiscrezioni è stato bombardato da molti, e così il testo finale è ancora top secret. Che la riforma sia urgente, lo dice anche Cartabia. Oltretutto questo Csm va rinnovato a luglio e i tempi per la riforma stringono. Epperò le proposte della ministra sono arrivate a palazzo Chigi a metà dicembre e non se ne è saputo più nulla. Ieri ne ha parlato di nuovo con il premier. Ma non è dato sapere quando saranno discusse dal consiglio dei ministri. Così Mattarella non ha risparmiato neanche il governo. “È indispensabile - ha tuonato - che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento”. Scottato dall’affaire Palamara, Mattarella chiede ai magistrati “profondo rigore”. E li ha ammoniti che “indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”. Severo, ma giusto. Così ne dice David Ermini, vicepresidente del Csm, sempre in sintonia con il Quirinale. “Ha giustamente denunciato le distorsioni e degenerazioni che hanno incrinato il rapporto di fiducia con i cittadini sottolineando la necessità di superare le logiche di appartenenza”. Presunzione d’innocenza, questa sconosciuta. La legge non basta di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2022 Sono passati due mesi dalla nuova norma ma gran parte dei giornali e delle procure continuano a sbattere “il mostro in prima pagina”. Ecco cosa è successo a Bari. In questi giorni siamo tornati a scrivere in merito alla nuova norma sulla presunzione di innocenza in vigore dal 14 dicembre. Ci siamo chiesti se realmente sia cambiato qualcosa nella comunicazione delle Procure e delle forze di polizia giudiziaria. Le risposte sono state molteplici: se per un verso ci sono stati dei mutamenti, dall’altro verso è difficile talvolta stabilire se si stia eludendo la norma. Ad esempio la norma prevede di non dare alle inchieste nomi lesivi della presunzione di innocenza. Ma se un nome viene dato, e però all’interno del comunicato non ci sono i riferimenti degli indagati, si è contra legem? Discutendo con magistrati, avvocati, giornalisti abbiamo anche capito che la nuova norma non è la panacea di tutti i mali, come vedremo appunto in questo pezzo, prendendo in esame un aspetto che è stato criticato da molti, persino dai magistrati. Dopo il monitoraggio di un copioso numero di comunicati della Guardia di Finanza, oggi vogliamo cimentarci, infatti, in un altro esercizio: prendere una notizia pubblicata sui maggiori siti di informazione e vedere se la presunzione di innocenza dell’indagato è rispettata. Badiamo bene: se è rispettata come principio culturale, perché purtroppo la nuova legge non interviene nel caso che stiamo per discutere. Lo spunto ce lo offre una nota agenzia della redazione di Bari: “Abusi in ambulanza su una studentessa, arrestato - Ai domiciliari un paramedico volontario”, questo il titolo. All’interno dell’articolo vengono pubblicati stralci dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip. Precisiamo che non c’è un comunicato ufficiale della Procura né della polizia giudiziaria. Ne deriva che l’ordinanza di custodia cautelare, atto pubblico, può essere finita nelle mani del giornalista o tramite l’avvocato difensore dell’indagato - ipotesi improbabile - o tramite cancellieri, agenti della Pg, magistrati della procura, avvocato di parte civile. Per l’avvocato Giuseppe Belcastro, co-responsabile, insieme a Luca Brezigar, dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione Camere Penali, “è sicuramente una criticità il fatto che la nuova norma non abbia anche previsto espressamente il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Se da un lato è giusto informare i cittadini quando qualcuno viene privato della libertà personale, tuttavia la pubblicazione degli stralci o dell’intera ordinanza del gip rappresenta una lesione del diritto alla riservatezza, all’onore e alla presunzione di innocenza dell’indagato”. Il motivo è cristallino, ma non per molti: “vengono resi pubblici dei dettagli lesivi della immagine dell’indagato che però potrebbero essere smentiti in fase processuale o anche già in fase di indagine. Andando oltre il dato dell’arresto e della motivazione si rischia sempre di creare il ‘mostro’ da prima pagina. E se poi viene assolto?”. Non sappiamo perché nei vari articoli usciti non sia stato interpellato l’avvocato difensore dell’uomo ai domiciliari. Questa omissione, secondo l’avvocato Belcastro, “rende quanto meno parziale la narrazione dei fatti, tenendo però a mente che il difensore deve comunque sempre attentamente valutare se e come intervenire sui media. Il dovere della stampa è fare una cronaca della vicenda, non fornire una visione parziale della stessa”. Ma addentriamoci nell’articolo. Il pezzo inizia e prosegue usando molte volte termini ipotetici: l’uomo “avrebbe abusato dentro un’ambulanza di una studentessa universitaria approfittando del fatto che la ragazza si era sentita male per aver bevuto troppo ad una festa. Un paramedico volontario, Gaetano Notaro di 36 anni, è agli arresti domiciliari per violenza sessuale aggravata”. E ancora: la “presunta violenza sarebbe avvenuta”, “la presunta vittima ha deciso di denunciare circa due settimane dopo il fatto, rivolgendosi ad un centro antiviolenza”. Secondo l’analisi dell’avvocato Belcastro “fino ad un certo punto l’articolo è stato continente, utilizzando verbi e aggettivi appropriati per un contesto probatorio che deve essere ancora definito. Tuttavia, proseguendo con il racconto e aggiungendo ulteriori dettagli estrapolati dall’ordinanza del gip (“La ragazza, scrive il giudice, “ha descritto i particolari dell’abuso subito, descrivendone lucidamente ogni dettaglio, anche i più umilianti” e non ci sono elementi per “ipotizzare che siano frutto di intenti calunniosi”, ndr) si è andati oltre. Non dobbiamo scordare che queste valutazioni del gip saranno verosimilmente oggetto di ricorso al Tribunale del Riesame e persino della Corte di Cassazione. Insomma, se un Gup non archivierà, si andrà a processo e solo lì emergerà la verità processuale. Il processo è un fatto complesso e delicato: occorre anche saper attendere”. Questo è solo un esempio di come la strada da fare sia ancora molta, perché “trovare in edicola le ordinanze di custodia cautelare non significa salvaguardare il giusto processo”, ha detto in un recente convegno sul tema Luca Brezigar. Se avete segnalazioni da farci sia su casi come questi o direttamente lesivi della nuova norma scriveteci pure. Toghe, migranti, diritti. Ognuno cerca il suo Sergio di Andrea Colombo Il Manifesto, 4 febbraio 2022 Quattro minuti di standing ovation, 52 applausi. Da Letta a Meloni, alla ricerca del passaggio preferito. Gelo sulle carceri. La sorte impedisce a Matteo Salvini di spellarsi le mani per il discorso inaugurale del presidente che non voleva rieleggere e che si è rassegnato a votare solo all’ultimo momento. A fermarlo sulla porta di Montecitorio è il Covid. Risulta positivo, come altri 25 grandi elettori. Si rifarà più tardi, telefonando al neo-rieletto, complimentandosi per “lo splendido e convincente intervento”. Va da sé che al leghista la parte che più è piaciuta è quella sulla giustizia, le bacchettate impietose dispensate al potere giudiziario: “Ho applaudito in generale e alcuni passaggi, come la necessità di una profonda riforma della giustizia, in particolare”. Non che Salvini si scosti dal comportamento generale. Tutti, generali e colonnelli, si sforzano di evidenziare il passaggio che più gli aggrada. Per Matteo Renzi, come per il leghista, è l’affondo sulle toghe: “Grande discorso, specie sulla giustizia”. Enrico Letta si scalda per i numerosi riferimenti all’ingiustizia sociale: “La frase più forte è: ‘Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono il freno alla crescita’”. Giuseppe Conte si entusiasma per le sciabolate contro la precarietà e a favore della tutela dell’ambiente. Persino Giorgia Meloni, pur ribadendo il giudizio negativo sulla rielezione di Mattarella ammette di aver “condiviso diversi passaggi”. E li elenca: dalla lotta alle diseguaglianze alle donne, ma con particolare enfasi sulla giustizia, sui “mancati diritti del parlamento e segnatamente delle opposizioni” e persino sull’immigrazione, perché parlare di lotta contro la tratta degli esseri umani implica, a suo parere, “una significativa discontinuità con il presidente precedente”. L’ironia è evidente ma va anche detto che sorella Giorgia non è isolata. I parlamentari hanno applaudito 52 volte, in un paio d’occasioni scattando in piedi. La standing ovation per l’avvio del secondo mandato è durata quattro minuti. Applausi a volte molto convinti, come quando Sergio Mattarella ha difeso il parlamento dall’invadenza dell’esecutivo. Altre volte battimani d’ordinanza, perché chi mai oserebbe non applaudire quando un capo dello Stato denuncia razzismo e antisemitismo? Ma sull’immigrazione l’applauso si segnala per fiacchezza e diventa incandescente solo quando il presidente cita il traffico di carne umana, argomento che si presta a essere piegato a piacimento, anche da chi in materia la pensa all’opposto di Mattarella. Solo in un’occasione i parlamentari tengono le mani a posto, tutti nessuno escluso: quando il presidente denuncia il sovraffollamento delle carceri qualche isolata mano plaude ma quando arriva addirittura a ricordare la necessità di risocializzare i detenuti l’aula bollente si raggela. Non applaude nessuno e il segnale non potrebbe essere più eloquente. Neppure più desolante. Il gioco consistente nell’esaltare questo o quel passaggio permette a tutti di chiudere gli occhi sul significato della seconda parte del discorso, nella quale Mattarella si è tenuto sulle generali non per retorica ma perché, attentissimo com’è a rispettare rigorosamente i limiti del mandato, non si sarebbe mai permesso di suggerire alla politica come legiferare in materia di precariato o di immigrazione. Ma non ha neppure sciorinato un elenco di buoni propositi: ha delineato un orizzonte complessivo e omogeneo, una visione che non si dovrebbe trattare come spezzatino nel quale pescare il boccone preferito scartando il resto. Nella soddisfazione generale, forse il meno contento del discorso è stato il presidente del consiglio Mario Draghi, che nel pomeriggio al Quirinale, come da prassi, ha consegnato le dimissioni del governo nelle mani del capo dello Stato, che le ha rifiutate. Pieno appoggio del presidente, nel suo discorso a Montecitorio, sulla politica economica. Ringraziamenti sinceri. Ma sullo stile di governo le bacchettate sono state sonore. Sulla riforma del Csm Mattarella inchioda tutti: “Va fatta, e subito” di Errico Novi Il Dubbio, 4 febbraio 2022 Vertice Draghi-Cartabia, poi il Capo dello Stato interviene ed evoca pure il ruolo degli avvocati. Masi (Cnf): “Ci conforta, ora pari dignità”. A volte basta la parola, anzi il pensiero. È stato sufficiente sapere che ieri pomeriggio Sergio Mattarella avrebbe giurato e pronunciato un messaggio alle Camere. Prima ancora di ascoltarne i richiami, ieri mattina Mario Draghi e Marta Cartabia si sono incontrati a Palazzo Chigi e si sono detti: “Ora la riforma del Csm non può più aspettare”. Sapevano che il presidente della Repubblica avrebbe messo, sul punto, anche loro con le spalle al muro. E si sono anticipati col lavoro, diciamo. Poche ore dopo, in Aula, Mattarella dirà, a proposito del ddl sui magistrati: “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento”. Il Capo dello Stato produce dunque un effetto quasi magico: scongela la legge sull’ordinamento giudiziario prima ancora di intervenire in Aula. Dove poi pronuncia parole così nette da chiudere ogni possibilità di fuga. Da inchiodare la politica refrattaria. La riforma del Csm, a questo punto, dovrà essere vagliata dal Consiglio dei ministri in tempi rapidissimi. Anche per lasciare al Parlamento l’agio di discuterla. Le Camere, ha pure rammentato Mattarella, vanno sempre “poste in condizione di esaminare e valutare con tempi adeguati” gli atti dell’esecutivo. Il presidente della Repubblica fa una premessa di metodo: “Non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire”. Certo. Poi però pronuncia un “ma” che suona come l’urlo di un allenatore nello spogliatoio di una squadra messa sotto scacco per tutto il primo tempo del match: “…ma dobbiamo sapere che dalle risposte che saranno date a questi temi dipenderà la qualità della nostra democrazia”. Ricorda che nella giustizia, prima delle zuffe, vengono “gli interessi della collettività”. E soprattutto dà, alla politica, un suggerimento: fate sparire le “logiche di appartenenza” dall’orizzonte del Csm. Pensate piuttosto alle aspettative di “efficienza e credibilità” coltivate dalle persone. L’ampio passaggio dedicato dal Presidente alla giustizia non lascia scampo, insomma: la riforma delle toghe va completata con urgenza in modo che il Csm “possa svolgere appieno la funzione che gli è propria”, valorizzare “le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare”. In altre parole, va premiato il merito anche nei tribunali. E non è trascurabile che nel chiedere di realizzare, in concreto, le riforme, il Capo dello Stato si rivolga non solo ai magistrati, ma anche alla “avvocatura”. Un importantissimo pro memoria sul coprotagonismo del Foro nella giurisdizione. In termini di responsabilità ma anche di peso istituzionale. Non a caso, la presidente del Cnf Maria Masi dichiara, in una nota diffusa poco dopo, che “confortano le dichiarazioni” di Mattarella, “nel richiamare insieme avvocatura e magistratura a dare impulso al processo riformatore per restituire alla giustizia la centralità e la credibilità che deve esigere”. Il vertice dell’istituzione forense aggiunge: “L’avvocatura c’è ed è naturalmente disponibile al richiamo, ma confidiamo anche nel riconoscimento a una pari dignità, condizione più volte evocata dal Presidente, nel ruolo e nelle funzioni, e di essere finalmente ascoltati e non semplicemente “sentiti”. È indiscutibile l’importanza della scelta compiuta dal Capo dello Stato: evocare l’avvocatura al pari dei magistrati. È un solenne riconoscimento che meriterebbe di riflettersi nella riforma sull’avvocato in Costituzione. Ma nelle parole di Mattarella c’è ovviamente anche un richiamo severo per la magistratura. Che attraverso il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia reagisce così: siamo pronti a dare “attuazione” ai richiami del Colle. Lo faremo, aggiunge Santalucia, nel segno della “Costituzione” che, puntualizza, deve essere il “faro anche per il legislatore nel dare corso alle riforme”. Anche i magistrati amministrativi, per voce dell’Anma, si dicono “pronti alla sfida”. Certo è che Mattarella, a proposito di toghe, Csm e principi della Carta, lascia soprattutto un promemoria: ad essere fuori dal “dettato costituzionale” sono appunto quelle “logiche di appartenenza” impadronitesi del Csm. Non spetta al presidente della Repubblica indicare o suggerire le riforme, per carità. Ma quel passaggio sembra almeno una buona ipotesi di lavoro. E Cartabia va da Draghi: accelerare sulla riforma di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 febbraio 2022 Giustizia. Maggioranza ancora divisa. Dalla ministra una reazione anticipata ai richiami del capo dello stato. “Ora riparta l’esame”. Mattarella parlava, Cartabia applaudiva. Se si cerca un commento della ministra della giustizia alla lunga parte del discorso del presidente che ha preso di petto la giustizia, non si ottiene molto. Se non che la reazione della guardasigilli è stata preventiva, nel senso che ieri mattina, prima del giuramento di Mattarella, è stata a palazzo Chigi e ha incontrato il presidente del Consiglio Draghi. Per fare il punto ancora una volta sulla riforma del Csm, “urgente” e “ineludibile” come ha più volte detto il capo dello Stato. Eppure è una riforma in ritardo, visto che dopo gli scandali che ne hanno messo a rischio la tenuta, il Consiglio superiore dovrà essere rinnovato a luglio. Non può finire, dicono tutti, che il nuovo Csm venga eletto con le vecchie regole. I tempi sono stretti. Anche se la parte che riguarda il Csm è fuori dalla delega al governo ed è dunque di diretta applicazione, servirà qualche settimana per i regolamenti. Tanto che già si sente parlare di slittamento a settembre della elezione. Cartabia ha dato più di un segnale di una certa irritazione quando, parlando in parlamento per l’apertura dell’anno giudiziario, ha scaricato su palazzo Chigi la responsabilità dell’attesa. Lei ha cominciato a lavorare alle modifiche del vecchio testo Bonafede addirittura a luglio scorso. Poi la corsia veloce l’hanno presa le riforme dei codici di procedura penale e civile. E a fine 2021, qualcosa ha consigliato a Draghi di rallentare. Che fosse stata l’intenzione di non scottarsi con la giustizia nel momento in cui pensava di traslocare al Quirinale, o fosse stata la volontà di proteggere la sua ministra dai malumori della maggioranza considerandola una buona candidata per palazzo Chigi al posto suo, la causa della prudenza del premier è la stessa. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario è ancora materia incandescente per la maggioranza. Non c’è intesa neanche sul punto di partenza, il criterio base della nuova legge elettorale per la componente togata del Consiglio. Forza Italia e Lega hanno raccattato dalla polvere la bandiera grillina del sorteggio, il Pd resta contrario. Molta confusione c’è anche nella magistratura, visto che un referendum-sondaggio promosso un po’ a malincuore tra i suoi iscritti dall’Associazione nazionale magistrati (e tenutosi all’ombra della rielezione di Mattarella) ha visto prevalere il no al sorteggio non in modo travolgente. Netta invece la preferenza per un sistema elettorale proporzionale, anche se va detto che l’affluenza è rimasta bassa: ha votato più o meno un magistrato su due. Ieri intanto, mentre Cartabia incontrava Draghi, la commissione giustizia della camera che ha in carico la riforma ha preparato il suo calendario dei lavori, rinviando all’altra settimana la questione (non che l’argomento che la precede sia meno impegnativo del Csm per la maggioranza, visto che anche sulle modifiche all’ergastolo ostativo imposte dalla Corte costituzionale circolano idee assai diverse). Nel suo discorso Mattarella ha parlato anche delle carceri: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti, questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Cartabia, raccontano, ha apprezzato assai questo passaggio, così come il rigoroso richiamo alle responsabilità della magistratura. “Il richiamo alla dignità dei detenuti è altrettanto importante di quello alla necessaria e urgente riforma del Csm - dice il capogruppo Pd in commissione giustizia, il deputato Alfredo Bazoli - mi auguro che le forze politiche raccolgono l’appello a non trasformare la giustizia in un terreno di scontro politico”. Ma già Salvini, costretto dal tampone a dover chiamare al telefono Mattarella per fargli le congratulazioni, fa sapere di avergli detto: “Grazie, ma se le istituzioni resteranno ferme saranno i cittadini italiani a tradurre in realtà concreta quel che Lei ha chiesto oggi, con i referendum”. Cartabia accelera sulla riforma del Csm. No al sorteggio, paletti ai pm in politica di Conchita Sannino La Repubblica, 4 febbraio 2022 Adesso sulla giustizia si fa sul serio. Arriva fermo e netto, ieri, dal suo discorso d’insediamento, il messaggio del Presidente Sergio Mattarella indirizzato sia al governo sia alla maggioranza. “Occorre che venga recuperato un profondo rigore. I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia”, scandisce il Capo dello Stato, chiedendo che le riforme “giungano con immediatezza a compimento”. Seguono non solo applausi di Draghi e dei ministri - la titolare della Giustizia Marta Cartabia, su tutti - ma anche la standing ovation dei Grandi elettori. Gli stessi che, proprio tra le forze di maggioranza, continuano tuttavia a dividersi sul sistema elettorale anti-correnti, per accedere a Palazzo dei Marescialli, e sul futuro della magistratura. Le parole di Mattarella trovano invece immediata e “profonda” condivisione da parte della Guardasigilli. La quale, proprio ieri in un un incontro col premier, avvenuto a ridosso del giuramento del presidente, aveva fatto sapere di essere pronta a dare il via al processo riformatore. Anzi - ecco l’elemento che trapela - già a dicembre la ministra aveva recapitato a Palazzo Chigi il suo schema di proposta. D’altro canto: i tempi sono strettissimi, a maggio prossimo bisognerà aver finito, se si vuole che l’elezione del nuovo Csm, prevista a luglio, avvenga con la nuova legge elettorale. Già Mattarella, lo scorso novembre, intervenendo alla Scuola superiore di Scandicci, aveva messo in guardia dal pericolo di fallire il traguardo, parlando del “rischio di dovere indire le elezioni “ del Csm, la prossima estate, “con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili “. Ma se l’iter non è andato avanti, è il ragionamento in via Arenula, lo si deve al cammino frenato dell’esecutivo degli ultimi due mesi: percorso impervio per le fibrillazioni legate alla partita del Quirinale. Ed è appunto un faccia a faccia operativo quello che, in mattinata non a caso, assorbe per un’oretta Draghi e Cartabia. Sul tavolo, c’è la road map con cui bisognerà incidere su un fronte considerato prioritario. Si riparte concretamente tra due settimane: ma solo dopo il confronto indispensabile da aprire, in Consiglio dei ministri, sulla “bozza” Cartabia, la Guardasigilli depositerà i suoi emendamenti in Commissione Giustizia alla Camera - dove intanto mercoledì prossimo si riprende il lavoro sull’ergastolo ostativo. Poi, si comincerà a discutere del “nuovo” del Csm. Che dovrebbe andare in aula a marzo. Una riforma che non solo dovrà ridisegnare il sistema elettorale per l’organo di autogoverno, ma anche sciogliere i troppi aspetti irrisolti su cui grava il corto circuito tra magistratura e politica: il tema delle cosiddette “porte girevoli”, i livelli di verifica per poter andare fuori ruolo, il tema dei consigli giudiziari. Sul voto per il parlamentino di Palazzo dei Marescialli si va verso un maggioritario “temperato”: escluso il sorteggio che avevano chiesto a gran voce Fi e Lega, perché considerato dalla ministra incostituzionale. D’altro canto, come più volte ha sottolineato Cartabia, a debellare storture e degrado delle dinamiche correntizie - che serpeggiavano da qualche lustro, poi esplose nella paradigmatica vicenda dell’ex leader Anm, Luca Palamara, il pm oggi radiato - non potrà mai servire solo un “nuovo sistema” di votazioni, quanto quella “rigenerazione” etica e culturale già invocata da Mattarella. Parole che solo due settimane fa, all’inaugurazione dell’Anno giudiziario, la ministra aveva rievocato con forza, esortando unità d’intenti sulla riforma del Csm ritenuta “ineludibile “, per avviare la “nuova stagione di fiducia”. E questo nonostante la consapevolezza che certi processi siano “scomodi e impopolari”, ma allo stesso tempo “urgenti e indifferibili” - precisava Cartabia - per promuovere il reale “rinnovamento”. Ventre a terra, insomma. La primavera dovrà segnare la svolta. Anche perché incombono - al netto del pronunciamento della Corte Costituzionale - i referendum sulla giustizia voluti dalla Lega. Che includono anche i quesiti sulla responsabilità diretta dei magistrati e sulla separazione delle carriere. Anm, Santalucia: “Siamo consapevoli degli errori commessi ma niente logiche punitive” di Liana Milella La Repubblica, 4 febbraio 2022 Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati: “Non leggo un rimprovero nelle parole del capo dello Stato, dopo Palamara molto è stato fatto”. “Non tiriamo per la giacca il presidente. Che pronuncia parole inequivoche sui valori irrinunciabili per una democrazia quali l’autonomia e l’indipendenza dei giudici. Premessa ineludibile di ogni discussione e riforma della giustizia”. Così il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia alle parole di Mattarella. Un duro richiamo all’ordine per la magistratura? “Io non leggo le parole del presidente come un rimprovero ai giudici. E lo dico perché tutti noi abbiamo già fatto tesoro e messo a frutto i suoi numerosi moniti precedenti. Oggi raccomanda, non solo a noi, ma anche al Parlamento, di tenere alta l’attenzione sulla centralità e delicatezza della funzione giudiziaria perché è il potere che tocca più da vicino i diritti delle persone”. Eh sì, però vi chiede di superare le logiche dominanti di appartenenza delle correnti... “E io sono d’accordo con lui. Ma dico subito che dopo il caso Palamara, cioè dal 2019, la magistratura ha preso coscienza del problema, ha avviato in più sedi - la procura di Perugia, il Csm, la stessa Anm - gli accertamenti sulle degenerazioni correntizie. E posso dire con serenità che c’è piena consapevolezza degli errori commessi che comunque hanno riguardato solo una parte della magistratura, mentre quella di gran lunga maggioritaria non solo era immune da quei vizi, ma ne è stata anche vittima”. Eppure Mattarella cita decisioni giudiziarie “arbitrarie e imprevedibili”. Qui siamo ben oltre le correnti.... “Non ci vedo un rimprovero, ma piuttosto la sottolineatura di un valore, la prevedibilità delle decisioni giudiziarie, soprattutto in tempi, e non solo in Italia, in cui la discrezionalità dei giudici è ampia e tende ad espandersi”. Fino all’arbitrio? “Certamente no, ci mancherebbe. I giudici sono attenti nel fare un buon esercizio dell’ampio potere di interpretazione delle leggi, in un sistema complesso dove il pericolo di apparire a volte arbitrari va scongiurato”. Mattarella intravvede diffidenza dei cittadini contro di voi. “I magistrati lavorano per garantire la fiducia verso la giustizia. Si tratta di un lavoro duro, svolto ogni giorno con puntualità e rigore, affrontando anche vicende oggetto di una esasperata attenzione mediatica che favorisce conclusioni sommarie e giudizi affrettati rispetto all’esame assai più approfondito e penetrante che si svolge nelle aule di giustizia”. E allora perché il presidente critica proprio le “decisioni arbitrarie o imprevedibili”? “Non allestirei un processo su parole in cui non leggo un’accusa su fatti specifici, bensì l’esortazione alle toghe, ma anche ai partiti, a non dimenticare che la fiducia nella giustizia è un bene supremo della democrazia”. Eppure il centrodestra vive la riforma del Csm come una rivalsa contro di voi. “È qui che le parole del presidente sono fondamentali, quando dice che la giustizia non dev’essere il luogo in cui ci si divide per fazioni, l’una che applaude e l’altra che mugugna, ma un settore da presidiare soprattutto con le buone riforme e le necessarie risorse”. Non vede che il centrodestra, ma anche la sinistra, vuole una riforma del Csm punitiva? “Il timore c’è, e se così dovesse essere, resterebbero del tutto inascoltate proprio le parole di Mattarella che al Parlamento dice di non usare la giustizia come terreno di scontro”. La risibile prosopopea delle toghe che sviolinano sul Titanic giustizia di Otello Lupacchini Il Riformista, 4 febbraio 2022 I più alti incarichi della magistratura sono stati bocciati dal Consiglio di Stato. Bocciata anche la nomina del procuratore di Roma. Eppure la magistratura ormai priva di credito si autocelebra. Il peccato di origine del corretto ragionatore è il gusto sia per il metodo sia per l’obiettività, sicché paga per questo con costanti frustrazioni e vivendo spesso la vita di un intellettuale proscritto. Ma non è questa una buona ragione per astenersi dal trattare temi scottanti, come le concioni tenute nel corso delle cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario in Cassazione e presso le Corti d’appello. Occorre, dunque, se si abbiano a cuore dignità e reputazione, disattendere il consiglio di Francesco Guicciardini (Ricordi, Garzanti, Milano 1999, 25 p. 38), di guardarsi “da fare quelli piaceri agli uomini che non si possono fare senza fare equale dispiacere a altri: perché chi è ingiuriato non dimentica, anzi reputa l’ingiuria maggiore; mentre chi è beneficiato non se ne ricorda o gli pare essere beneficiato manco che non è”. Al netto delle bétises di chi rivendica di aver “buttato il sangue” accompagnate da stucchevoli geremiadi per “la gente (cioè magistrati, ndr.) che se ne sta scappando perché non ce la fa più” o per “le sezioni di polizia giudiziaria ridotte allo stremo e nessuno lo dice con forza e quando qualcuno lo dice con forza è chiamato pazzo”, per quanto flebile, ancora non s’è spenta l’eco dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, là dove, per un verso, ci si è profusi in iperbolici ringraziamenti al presidente della Repubblica uscente, ma tosto rientrato, segnalatosi per un’intensa opera di moral suasion, sebbene, purtroppo, obiettivamente inefficace, ma anche per non aver mai preso attiva posizione, come gli avrebbero imposto le prerogative dell’alto ruolo di garante della Costituzione e di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di fronte ai gravi “scandali” che hanno investito l’organo di autogoverno e ai reiterati deragliamenti di taluni settori della magistratura, rispetto alla funzione istituzionale assegnatale, tali da aver minato irrimediabilmente sia la tenuta costituzionale dei rapporti fra i poteri dello Stato sia la credibilità del “terzo potere”; mentre, per l’altro, si è gareggiato, tra presidenti di corte e procuratori generali, ad autocelebrarsi, riconoscendosi reciprocamente, senza alcun imbarazzo, i meriti per i risultati asseritamente conseguiti. Di certuni fra costoro colpiscono la sordità alla logica e la mancanza di immaginazione, là dove, tuttavia, meticolosi e pazienti come formiche fabbricatrici, hanno un modo quasi ingegnoso di elaborare il vuoto intellettuale; una struttura mentale, insomma, che predispone all’intrigo poliziesco, tanto che c’è tra di essi chi ha fatto carriera come cacciatore d’opinioni sospette. Proprio in relazione alle cerimonie inaugurali, per vero ormai da tempo, si stigmatizza come nulla possa giustificare tanta pompa e magniloquenza e si ventila, comunque, che meglio sarebbe, se non sopprimerle, almeno sospenderle fintanto che le cose della giustizia, in questo Paese, non andranno un poco meglio. Scorrendo le orazioni che in questi ultimi anni persone importanti e competenti hanno pronunciato, verrebbe da pensare che le insufficienze degli apparati di giustizia siano determinate da impulsi provenienti da un altro pianeta: le disfunzioni evidenziate, seppure lo siano state, vengono attribuite un po’ al legislatore, un po’ alla burocrazia e, comunque, mai la magistratura censura sé stessa, tendendo piuttosto a tessere gli elogi dei suoi uomini. Se le cose non vanno bene, infatti, la colpa è di altro o di altri, come la scopertura di organico o addirittura il numero eccessivo degli avvocati. Nei discorsi d’occasione, finalmente, gli “alti magistrati” non mancano mai di sottolineare la necessità di custodire l’indipendenza dell’Ordine giudiziario e di rassicurare circa il massimo impegno di giudici e procuratori per fornire un servizio di qualità, celere, efficiente. Non v’è, tuttavia, chi non veda come, quest’anno, qualche più grave vicenda sarebbe stata degna, non dico di essere dibattuta, ma almeno di essere segnalata da persone di grande esperienza maturata sul campo all’attenzione di chi vorrebbe “sapere”, attraverso analisi sincere, responsabili, consapevoli, abbandonando almeno per una volta gli ameni pascoli dell’astrazione concettuale o categoriale o, anche, numerica e statistica. Il pensiero corre ad esempio all’annullamento, disposto da recenti sentenze del Consiglio di Stato, delle nomine, effettuate nel 2020 dal Consiglio superiore della magistratura, del primo presidente e del presidente aggiunto della Corte di cassazione, che ha aperto a varie questioni, facendo perdere di vista principi fondamentali che invece meritano di essere ribaditi. Non è questa la sede per contestare metodo e merito della reiterazione, da parte del Consiglio superiore, delle nomine annullate, la cui inusitata celerità appare, del resto, comprensibile, dato il momento: come avrebbe potuto aver luogo la cerimonia inaugurale, con una Corte di cassazione acefala? Certo, non si può pretendere che a porre la questione fosse uno dei destinatari degli effetti dell’annullamento, prima, e della reiterazione della nomina annullata, poi, ma, a fronte delle plurime decisioni del Consiglio di Stato nel senso di annullare le nomine a incarichi giudiziari direttivi disposte dal Consiglio superiore, fra cui la clamorosa bocciatura della nomina del procuratore della Repubblica di Roma, qualcuno si sarebbe dovuto interrogare magari sull’idoneità delle regole di funzionamento dell’organo di autogoverno, nonché delle norme che presiedono alle valutazioni che esso deve compiere, per garantire in modo soddisfacente la realizzazione dell’interesse pubblico che deve perseguire. Né il Parlamento, che di tale normativa è l’autore e che delle necessità di modifiche e aggiornamenti deve farsi carico, né il governo, al cui interno siede il ministro della Giustizia, e prima ancora il capo dello Stato, che del Consiglio superiore è presidente, si son posti il relativo problema. La questione, peraltro, è stata posta, sebbene in termini tutt’altro che esatti, da Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 18 gennaio 2022), secondo il quale, “i rapporti e le competenze di organi di vertice nella architettura dello Stato” meriterebbero maggiore “prudenza”, intesa come “ritegno da parte di tutti (che) conta più dell’esito di astratte considerazioni giuridiche, la cui naturale e opportuna elasticità lascia appunto spazio alla prudenza”. Prospettazione brutale per un duplice ordine di motivi: innanzitutto, perché l’applicazione della legge non deve arretrare di fronte agli “organi di vertice”, quando sia previsto il controllo giurisdizionale sugli atti di questi organi; in secondo luogo, perché l’evidente richiamo a limiti non scritti della giurisdizione proviene da un sostenitore della prevalenza, nello Stato di diritto costituzionale, della giurisdizione stessa. E questo, con buona pace della “legalità”, intesa come la massima garanzia di libertà, essendo imposto a tutti il pieno rispetto della legge, che è il vero “strumento del popolo”, la cui fonte può stabilire o modificare, direttamente od indirettamente, i diritti fondamentali dei cittadini e le regole di convivenza e di comportamento, ma il cui significato è coniugato secondo il wishful thinking dei suoi aedi. Esemplare, in questo senso, per restare sui discorsi d’occasione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario, il ragionamento del massimo vertice della magistratura inquirente, allorché, “con sguardo severo e grave tuono”, ribadito, secondo una ritualità ormai stantia, che “la magistratura non può inseguire il consenso e occorre che la sua azione sia ispirata all’alto insegnamento del presidente della Repubblica: le sue decisioni non devono rispondere né alle correnti di opinione, ma soltanto alla legge”, tradendo platealmente, però, subito dopo questo monito del capo dello Stato, allineandosi alla corrente di pensiero più retriva, forcaiola e antilegalista, ha finalmente dichiarato che ergastolo ostativo e regime di cui all’art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario “non sono carcere duro, ma strumenti per impedire che i mafiosi continuino a comandare dal carcere, come avveniva prima del 1992”. Non sono più i tempi in cui era, purtroppo, dato assistere a dialoghi del tipo: “Da dove venite, Mademoiselles?”, “Mamma, veniamo dall’aver visto ghigliottinare. Oh! Mio Dio, quanta fatica quel povero boia”. Tuttavia, mutatis mutandis, il monito conclusivo del procuratore generale della Cassazione, “Chi dimentica la propria storia è destinato a riviverla”, soprattutto per il cipiglio con cui queste parole sono state pronunciate, riporta alla memoria una triste vicenda che G. Lenotre, Le Tribunal révolutionnaire, Perrin, Paris, 1908, offre, per dirla con Salvatore Satta (Il mistero del processo, 1949), come un “mistero doloroso” alla contemplazione del giurista: 2 settembre 1792, mentre il tribunale rivoluzionario, costituito da pochi giorni e con al suo attivo soltanto tre teste, giudicava il maggiore Bachmann, della guardia svizzera del re, un’orda di sanculotti eccitati da qualche mestatore, forzava i cancelli, e armata di scuri, di pugnali, di picche, trascinava i prigionieri trovati in mezzo al cortile davanti a un improvvisato tribunale del popolo, facendone orribile scempio. Con urla disumane, essendo corsa la voce tra la folla inferocita che gli svizzeri del re erano nella sala delle udienze, un’orda di scalmanati, i cenci e le armi grondanti di sangue, era balzata su per le scale e aveva attraversato i vestiboli per comparire sulla soglia dell’aula, determinata a farsi giustizia da sé. Era stato allora che il presidente Lavau, con poche, ma energiche parole, aveva intimato all’orda di massacratori “di rispettare la legge e l’accusato che (era) sotto la sua spada”, intendendo dire: “Lasciatelo stare, ci pensiamo noi ad ammazzarlo”. Corte Costituzionale, il ricambio (infinito) dei presidenti in serie di Corrado Giustiniani Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2022 L’immagine parrà irriverente, perché riferita alla quinta carica dello Stato. Ma è un fatto che i presidenti della Corte costituzionale si susseguono a una velocità da cinema muto. Dall’inizio del 2000 fino ad oggi ne sono entrati e usciti dalla porta di Palazzo della Consulta in 24, compresi due facenti funzione. E ben 15 di loro sono rimasti in carica per meno di un anno. Fra questi l’attuale ministro della Giustizia Marta Cartabia, che durò nove mesi, e Giuliano Amato, nominato il 29 gennaio scorso, che saluterà tutti il prossimo 18 settembre: otto mesi scarsi, 232 giorni compresi i week-end. Statisticamente, il più veloce di tutti sembra essere stato Mario Rosario Roselli, il terz’ultimo presidente, che si fermò alla Consulta a quattro giorni dai tre mesi di mandato, seguito a ruota da Giovanni Maria Flick, con tre mesi e quattro giorni, e da Giuseppe Tesauro, tre mesi e nove giorni. Non era questo l’auspicio dei padri costituenti, che all’articolo 135 della Carta hanno scritto: “La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Ma come si è ottenuta questa vorticosa rotazione, autogestita dai quindici giudici della Corte: inducendo un presidente a dimettersi, per poi eleggerne un altro? Niente affatto. Viene più semplicemente scelto al vertice un giudice che di lì a poco concluderà i nove anni del suo mandato. Essere vicini alla scadenza è una buona ragione, oltre al tuo valore e al tuo prestigio, per essere papabile. Dell’articolo 135 della Costituzione, si valorizza dunque soltanto quel “fermi in ogni caso i termini di scadenza dell’ufficio di giudice”. Un unico presidente, in questo scorcio di secolo, aveva la prospettiva di concludere un mandato pieno: Alessandro Criscuolo, eletto il 12 novembre 2014, per poi dimettersi però dopo quindici mesi e restare fra i giudici della Corte fino alla scadenza dell’11 novembre 2017. Ma quali sono le ragioni di una simile volatilità della carica? Certamente il prestigio di guidare l’organismo che fa da guardiano alla nostra Costituzione, di essere accanto al presidente della Repubblica in tutte le circostanze più importanti, di decidere i giudici relatori di ciascuna causa, di fissare il calendario dei lavori, di far valere il proprio voto come doppio, nel caso in cui in un giudizio via sia parità di voti. E magari di guadagnarsi un futuro ancora più glorioso. Anche se la nostra “Corte dai presidenti corti” è tuttora dominata dalle chiome bianche, e quasi tutte di sesso maschile. Va poi detto che non sempre vi sono giuristi che si staccano nettamente sugli altri, tanto è vero che i presidenti vengono scelti in diversi casi con un piccolo scarto di voti (non Giuliano Amato, eletto all’unanimità). Ma vi è pure un’altra ragione, di carattere economico, che incentiva la corsa alla presidenza. Il tetto Renzi di 240 mila euro l’anno, peraltro appena ritoccato dal governo Draghi, venne applicato alla Corte con un margine di vantaggio: 362 mila euro per i giudici, da aggiungere alla pensione di cui eventualmente già godono, e 432 mila per il presidente, che ha una sua indennità di rappresentanza. Queste somme, fra le più alte al mondo (siamo al doppio di quanto percepiscano i giudici americani e al 50 per cento in più di quelli britannici), si trasformano al termine dei nove anni in liquidazione e pensione. Ma perché anche l’indennità di rappresentanza incida sull’assegno di quiescenza, è necessario, spiegò in passato l’ufficio stampa della Corte costituzionale, che il presidente sia stato in carica per un anno o più. E questo almeno limita i danni di un costume che è assolutamente necessario correggere. Così un giudice ha salvato un ragazzino dal baratro di Annalisa Costanzo Il Dubbio, 4 febbraio 2022 La nuova vita del 17enne che diede fuoco all’auto di un clochard, che rimase ucciso. Ha pianto e si è anche disperato in questi anni, al ricordo di quella vita spezzata. Uno stupido e dannato scherzo iniziato “per noia”, insieme all’amico13enne, costato però la vita ad Ahmed Fdil, clochard marocchino di 64 anni. Non la dimenticherà mai quella fredda e cupa serata del 13 dicembre del 2017, quando le fiamme si levarono alte nel piccolo centro di Santa Maria di Zevio, nel veronese, e che per colpa sua uccisero “il baffo”. Dopo l’omicidio, il processo è stato sospeso ed è stata disposta la messa in prova. L’allora 17enne, unico imputato per l’omicidio Ahmed, si è rimboccato le maniche ed ha lavorato sodo, su se stesso soprattutto, per non sprecare quell’unica possibilità di redenzione che il giudice gli ha concesso. Un giudice che ha deciso di interpretare alla lettera l’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua espulsione dalla società. Proprio come la stessa procura aveva richiesto. In questi ultimi quattro anni di “messa alla prova”, ha lavorato al servizio della comunità, si è occupato anche dei disabili, li ha fatti sorridere qualche volta, si è affezionato a loro. Ha proseguito gli studi. Si è diplomato e adesso vorrebbe diventare uno chef. Ha poi seguito il percorso di psicoterapia così come disposto dal giudice, ha portato avanti la massa in prova e le relazioni dei servizi sociali su di lui sono state un fiume d’inchiostro positivo. I sensi di colpa lo accompagneranno per il resto della sua vita, ma adesso è un uomo libero. Oggi ha 21 anni, ma in quella comunità protetta che lo ha visto diventare uomo ci è entrato quando aveva appena 17 anni, pochi giorni dopo che per noia, con un fazzoletto “rubato” da una pizzeria, insieme ad un amico 13enne, diede fuoco alla vecchia Fiat Bravo dove Ahmed stava riposando. Ahmed - come dirà in processo uno dei periti - è stato arso vivo, morendo inghiottito dalle fiamme. Anche se, ancora, non è chiaro come un fazzoletto incendiato abbia potuto scatenare quel fuoco mortale. Quando nel 2017 per noia bullizzava il 64enne, l’allora 17enne non era di certo un ragazzo facile da gestire. Proveniente da uno stato dell’Europa orientale, non era riuscito ad integrarsi nella comunità veronese. Aveva stretto amicizia con un altro straniero, quel 13enne proveniente dal nord Africa con cui passava molte ore della giornata, compresa quella del 13 dicembre 2017. Un omicidio, due colpevoli e “nessun giorno di carcere per quei ragazzi”, dice il nipote della vittima. Il 13enne, infatti, era troppo piccolo per essere imputabile. L’unico ad essere processato fu dunque il 17enne. Maria Teresa Rossi, giudice di quel difficile processo, tenendo conto della giovane età dell’imputato, ha deciso però di escludere la misura detentiva in carcere ed ha scelto di applicare la legge dell’ordinamento italiano che prevede l’affidamento in prova ai servizi sociali. Il tribunale di Verona ha dunque puntato sul recupero del reo e, viste le positive relazioni dei servizi sociali, non ha fallito. “Chapeau a chi ha capito che poteva tentarci ed a chi dopo, assistenti sociali e comunità, ha lavorato con e sul ragazzo”, dichiara al Dubbio il suo avvocato, Giovanni Bondardo, raccontando la storia di un processo minorile in cui “la messa alla prova ha funzionato”. Grazie alla parte pubblica, “che ha lavorato - dice - bene e salvato un ragazzo. Gli assistenti sociali hanno fatto un buon lavoro. La struttura che lo ha avuto in affidamento ha lavorato molto bene. Il ragazzo si è impegnato e adesso è cambiato completamente - conclude l’avvocato Bondardo. È un’altra persona”. Non è stato facile per il ragazzo. Gli incontri con la madre venivano monitorati dagli assistenti sociali. Ogni respiro veniva rivelato, ogni passo valutato. Due volte alla settimana faceva volontariato in una struttura che si occupa di pet therapy. Niente cellulari, niente vita sociale fuori dalla comunità. E, dopo gli anni trascorsi dentro quella zona protetta, il ventunenne, mesi fa, ha potuto riabbracciare la madre, con la quale adesso vive, sempre nel veronese. Da uomo libero ha ripreso a sognare. Vuole una vita normale. Non dimentica e non dimenticherà mai quel che ha fatto. Nessun abitante di quel piccolo centro dell’hinterland veronese, d’altronde, ha mai dimenticato l’orribile morte toccata a Ahmed Fdil. Si era ben ambientato nella comunità veronese il 64enne marocchino, capelli brizzolati e quei baffoni neri per i quali si era aggiudicato il dolce soprannome de “il baffo”. Una vita dignitosa la sua, fino alla perdita del lavoro che l’ha costretto a vivere in macchina. Era così diventato un senzatetto e aveva scelto la sua Fiat Bravo come nuova abitazione, non immaginando però che per la noia di due ragazzini quell’auto sarebbe divenuta la sua tomba. Per giorni, dopo quel 13 dicembre, procura e investigatori sono stati convinti che si trattasse di un incidente. Nell’immediatezza l’omicidio non era stato preso in considerazione. Santa Maria di Zevio, però, è un piccolo centro e, come in tutte le piccole comunità, la verità ha preso velocemente a passare di bocca in bocca, spingendo i carabinieri ad indagare. E a capire che Ahmed era benvoluto da tutti, tranne che da un gruppo di ragazzetti che in lui vedevano la valvola di sfogo della loro noia. La verità poi scoperta dai militari dell’Arma fu agghiacciante. “Abbiamo preso le salviette, poi siamo andati nel parcheggio dove c’era il baffo”, raccontarono i due ragazzini ormai smascherati, per poi iniziare a rimpallare le accuse su chi avesse acceso e lanciato dentro la macchina quel fazzoletto infuocato. “L’ha lanciato lui”, “no, lui”. Fino ad ammettere: “Siamo andati lì perché non avevamo niente da fare”, con l’intenzione, dissero, di fare uno scherzo a baffo. Uno scherzo che ha ucciso un uomo e cambiato per sempre le loro vite. Prescrizione negata all’ex terrorista Bergamin: sconterà 16 anni dopo il rientro dalla Francia di Luca De Vito La Repubblica, 4 febbraio 2022 La Cassazione accoglie il ricorso del pm contro la corte d’Appello di Milano: il complice di Battisti dovrà andare in carcere. Fu condannato per concorso morale nel delitto del maresciallo Santoro. Il 20 aprile ci sarà l’udienza per l’estradizione. La pena inflitta a Luigi Bergamin non è prescritta. A deciderlo è stata la Corte di Cassazione che ha così tenuto il punto in quella che sembrava ormai una partita chiusa per la giustizia italiana, dopo che la Corte d’Assise d’Appello di Milano aveva dichiarato la pena estinta per avvenuta prescrizione: se quindi l’ideologo dei Pac (Proletari armati per il comunismo), condannato a 16 anni e 11 mesi per concorso morale nel delitto del maresciallo Antonio Santoro nel 1978, tornerà in Italia, dovrà scontarla. Attualmente Bergamin, 73 anni, si trova in Francia dove lo scorso 21 aprile si era consegnato alle autorità con altri nove ex terroristi rossi per i quali Macron aveva avviato la procedura di estradizione. Bergamin era stato condannato in via definitiva nel 1991 oltre che per il delitto Santoro anche per quello dell’agente della Digos Andrea Campagna assassinato nel 1979, ma in questo secondo caso la pena si era già prescritta nel 2008. Adesso si attende l’udienza per l’estradizione, prevista il 20 aprile. Il punto giuridico su cui si era annodata la questione, riguarda un’istanza presentata dalla pm Adriana Blasco al tribunale di sorveglianza lo scorso febbraio in cui si chiedeva la dichiarazione di “delinquente abituale” per Bergamin. Un escamotage per interrompere la prescrizione che sarebbe arrivata l’8 aprile. Accolta dal tribunale, la dichiarazione era arrivata il 30 marzo, troppo tardi secondo la corte d’Appello mancando i 15 giorni per l’impugnazione da parte della difesa di Bergamin. La corte d’Assise d’Appello milanese, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, nel maggio del 2021 aveva quindi stabilito che erano “trascorsi non solo più di quarant’anni dai gravissimi fatti di reato per cui Bergamin è stato ritenuto responsabile, ma soprattutto più di trenta anni dall’irrevocabilità della pronuncia di condanna” ed era quindi “ormai decorso il termine massimo”. Proprio su questo punto la pm Blasco aveva fatto ricorso in Cassazione, che ieri ha dato ragione alla procura e annullato la prescrizione. “Loro hanno sempre detto di essere in guerra e i crimini di guerra, come sono gli omicidi dei terroristi, non si prescrivono - ha detto Maurizio Campagna, fratello di Andrea - Dunque ben venga questa decisione e ora che venga estradato e che sconti la pena”. I legali di Bergamin invece annunciano nuovi ricorsi alla corte Europea dei diritti dell’uomo.Per l’avvocato Giovanni Ceola si tratta di una decisione “politica che muta l’indirizzo giurisprudenziale, richiamato dalla Corte d’Assise di Milano, di un provvedimento a Sezioni Unite del 1989”. Irene Terrel, avvocata francese di Bergamin ha aggiunto: “Sono totalmente stupefatta. Non si può parlare di delinquenza abituale per dei fatti successi oltre 40 anni fa e non si può tornare su una prescrizione che era già acquisita. Non esiste la retroattività. Trovo questa decisione scandalosa. Ha prevalso la ragione di Stato che ha superato il principio di giustizia. È inaccettabile”. Santa Maria Capua Vetere. Violenze nel carcere, la Procura propone 32 patteggiamenti Il Mattino, 4 febbraio 2022 Trentadue proposte di patteggiamento per le posizioni “più marginali” sono state avanzate dal Procuratore Aggiunto di Santa Maria Capua Vetere Alessandro Milita nel corso dell’udienza preliminare sui pestaggi ai danni dei detenuti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020; 108 gli imputati tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria). Milita ha proposto pene da un anno e otto mesi a due anni con la condizionale per quegli agenti “responsabili di condotte di lieve gravità”, che ora dovranno decidere se accettare la proposta, poi sarà il giudice per l’udienza preliminare Pasquale D’Angelo ad avere l’ultima parola. Restano fuori gli imputati di peso come gli ufficiali della Polizia Penitenziaria Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Anna Maria Costanzo, o l’ex provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone La scelta della Procura, ha spiegato Milita, ha lo scopo di snellire un procedimento già peraltro corposo, visto che con gli imputati, sono un centinaio le parti civili che questa mattina lo stesso gup, sciogliendo la riserva, ha autorizzato a partecipare al processo: accanto agli 89 detenuti vittime dei pestaggi (gli ultimi tre si sono costituiti stamani), il magistrato ha ammesso anche il garante nazionale e quello regionale dei detenuti, le quattro associazioni che avevano fatto richiesta di costituirsi (Antigone, Carcere possibile, Agad onlus, Abusi in divisa), ed enti come l’Asl e il Ministero di Grazia e Giustizia; D’Angelo deciderà invece nell’udienza calendarizzata per il 15 febbraio se autorizzare una ventina di parti civili che ne hanno fatto richiesta - tutti detenuti tranne un’associazione - a citare lo stesso Ministero retto da Marta Cartabia come responsabile civile; il gup ha concesso tempo fino all’otto febbraio alle parti civili per depositare richiesta e farsi autorizzare a citare il Ministero per le condotte degli agenti. Santa Maria Capua Vetere. Antigone sarà parte civile nel processo per le violenze sui detenuti di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 4 febbraio 2022 Antigone è stata ammessa come parte civile nel procedimento penale per le torture avvenute il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si va finalmente a processo. Il 16 aprile di quell’anno, in pieno lockdown, Antigone aveva denunciato al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria quanto aveva appreso da parenti di persone detenute in una serie di racconti perfettamente coerenti e combacianti, depositando quattro giorni dopo un esposto in Procura contro la polizia penitenziaria per tortura e percosse e contro i medici per omissione di referto, falso e favoreggiamento. Nulla si mosse fino al settembre successivo, quando si diffuse la notizia dell’esistenza di un video - reso pubblico nei mesi seguenti - che documentava le brutali violenze. Immagini salvate di nascosto da un magistrato di sorveglianza senza che i protagonisti - che tenteranno di falsificare quella che credevano essere la sola copia esistente - ne fossero a conoscenza. Lo scorso settembre la procura di Santa Maria Capua Vetere ha depositato l’atto di chiusura delle indagini. Vi si racconta di un carcere trasformato in teatro di guerra, una guerra punitiva dichiarata unilateralmente da chi dovrebbe rappresentare le istituzioni. Le vittime sono 177, gli indagati 120, i capi di imputazione 85. Una persona è morta. Altro che mele marce. C’è un prima e c’è un dopo, rispetto alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Il prima è l’indifferenza, la retorica insopportabile delle poche mele marce di una nazione che fino al 2017 non poteva incriminare per tortura i propri funzionari in assenza di una legge che la punisse in modo espresso, il senso di impunità e strafottenza verso la legalità ostentato dai poliziotti nelle conversazioni intercettate, il silenzio assordante dei tanti che quel giorno erano in istituto pur senza aver partecipato al pestaggio. Di tutti loro, come ovvia prassi omertosa di sistema, altro che mele marce, dimostrando con ciò stesso che l’uso della violenza in carcere non è un’eccezione. Il dopo è la reazione pubblica indignata, l’inchiesta, la presa di posizione del governo, la visita della ministra della Giustizia Marta Cartabia e del premier Mario Draghi a Santa Maria Capua Vetere, le loro parole inequivocabili, l’istituzione di una commissione ministeriale per l’innovazione penitenziaria la cui presidenza è stata affidata al prof. Marco Ruotolo, la consapevolezza che nelle carceri è necessaria una rivoluzione antropologica e normativa, una formazione condivisa del personale su una pena costituzionalmente orientata. Il processo per tortura farà il proprio corso. Un vero e proprio maxi-processo, con centinaia di parti coinvolte. E ci saranno anche gli avvocati di Antigone. Nel frattempo l’attuale capo dell’Amministrazione Penitenziaria ha preannunciato le dimissioni, alla luce della pensione oramai vicina. Chi prederà il suo posto (perché non un direttore di carcere? Perché non un professore universitario? Non è mai accaduto prima. Perché dare per scontato che debba essere sempre e solo un magistrato?) dovrebbe ripartire da quel video. Senza farsi condizionare dalle corporazioni, dovrebbe prendere con nettezza tutte le misure volte a bandire ogni forma di violenza dai luoghi di detenzione: videocamere che riprendano anche i luoghi più oscuri (le scale, le sezioni di isolamento), registri che certifichino tutte le operazioni di perquisizione, procedimenti disciplinari effettivi verso chi è coinvolto in attività illegali e violente. Tutto questo non è contro le forze dell’ordine. Tutto questo è a tutela dei poliziotti onesti. Ogni contrarietà dei sindacati di polizia penitenziaria sarebbe inammissibile e li porrebbe ai limiti della legalità interna e internazionale. *Coordinatrice associazione Antigone Napoli. Tribunale di Sorveglianza, troppe istanze arretrate e diritti negati ai detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 4 febbraio 2022 È un grido di dolore che si ripete ogni anno, una via di mezzo tra la disperazione e la rassegnazione: la disperazione di chi è in carcere e subisce tutte le conseguenze negative, i diritti negati, le attese in tempi non sempre ragionevoli che il sistema provoca, la rassegnazione di chi ogni anno elenca dati e statistiche, cause ed effetti, ben sapendo che poco o nulla cambierà. Parliamo del settore dell’esecuzione della pena, il tribunale di Sorveglianza. A Napoli è davvero uno dei luoghi dove la giustizia affanna di più, dove le carenze e le disfunzioni del sistema giudiziario si incrociano con le criticità del sistema penitenziario. Risultato? Attese interminabili e diritti negati. Ovviamente per chi è in carcere, per chi sconta una condanna che dovrebbe avere un fine riabilitativo e non solo privativo, per chi è in quella sorta di discarica sociale che chiamiamo istituti di pena. “Va ancora una volta rilevato come in molti istituti il numero dei ristretti è superiore alla capienza regolamentare fissata dalla direzione generale - si legge nell’ultima relazione sullo stato dei fatti presso il Tribunale di Sorveglianza di Napoli per cui a breve bisognerà eleggere un nuovo presidente - Sovraffollamento che comporta gravi problemi di gestione del quotidiano, carenze nel trattamento rieducativo dei ristretti e nell’assistenza sanitaria degli stessi, nonché notevoli difficoltà di convivenza tra i detenuti, acuitesi in questo anno a causa della naturale tensione dovuta al timore di contagio Covid e delle ben note vicende che si sono susseguite negli istituti penitenziari” ha evidenziato il presidente facente funzioni Angelica Di Giovanni consegnando nell’annuale relazione di bilancio di fine anno. “Resta inoltre elevata la presenza negli istituti di soggetti con problematiche di tipo psichiatrico non adeguatamente assistiti per la loro specifica patologia e in più casi trattenuti in istituto carcerario nonostante la prevista destinazione in Rems o assegnati ad una casa di lavoro pur essendo stati in origine prosciolti per infermità di mente, e ciò a causa della carenza di ricettività delle Rems e/o dell’inadeguatezza dei servizi di salute mentale territoriali”. Lo denunciano da tempo immemorabile i garanti e i penalisti più impegnati sul fronte della condizione penitenziaria e dei diritti dei detenuti. I diritti in carcere sono negati. Importa a qualcun altro? Non si riesce a garantire nemmeno il più elementare dei diritti, quello alla salute. “Si evidenzia la particolare situazione vissuta dal settore assistenza sanitaria penitenziaria del distretto che specificamente e insieme a tutti gli altri circuiti penitenziari paga lo scotto di una inequivoca confusione logistica e istituzionale per una carenza di univocità e uniformità di informazione prima e di formazione dopo”. Una “confusione” che dura da tanto, troppo tempo. Possibile che in tanti anni non si sia riusciti a risolvere il problema? Possibile che si lascino migliaia di persone in una condizione che è al di sotto di ogni limite di vivibilità? In Campania, infatti, si fa riferimento a una popolazione di 6.065 detenuti, 3.800 dei quali rientrano nella sfera di competenza del Tribunale di Sorveglianza di Napoli. Una popolazione vastissima, divisa soprattutto tra la casa circondariale di Poggioreale (2.219 detenuti su una capienza regolamentare disponibile di 1.517) e il centro penitenziario di Secondigliano (1.183 su una capienza di 1.071). Ancora critico anche il tema della tutela della salute mentale: risultano attive quattro Rems (tre nel Casertano e una nell’Avellinese) e persistono difficoltà di raccordo con i dipartimenti di salute mentale delle Asl e i servizi sociali del territorio, “spesso non adeguatamente attrezzati per la predisposizione di piani terapeutici individuali idonei a consentire la dimissione e il reinserimento in società degli internati in tempi rapidi”. Napoli. “Non funziona nulla e i detenuti escono peggiori di prima, questo è un problema di tutti” di Rossella Grasso Il Riformista, 4 febbraio 2022 Lo sfogo del garante Pietro Ioia: “Abbiamo detenuti come bestie, adesso che c’è il Covid è ancora peggio, stanno ancora più chiusi nelle celle. Non ci sono posti per isolare i positivi al Covid, non c’è spazio. E se in un carcere non c’è spazio non può funzionare. Se un carcere non ha spazio i detenuti escono peggio di prima perché accumulano solo rabbia, rabbia verso le istituzioni. Ed è a loro che rivolgo il mio appello, alle istituzioni: aiutateci perché i detenuti sono esseri umani e hanno bisogno di vivere nelle carceri, di cambiare vita, di potersi sentire uomini e non bestie e non criminali”. Quello di Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli è un appello accorato e arrabbiato, che viene fuori come un fiume in piena, uno sfogo alla frustrazione di vedere che le cose non cambiano mai, nonostante il suo perenne impegno. Da due anni Ioia è il garante dei detenuti di Napoli. Entra ed esce dalle carceri del territorio cittadino, parla con i detenuti, i loro familiari, si interfaccia con gli altri garanti come Emanuela Belcuore, della provincia di Caserta e Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania. Tiene il pugno della situazione e non nega un orecchio e una spalla a nessuno. Costante è la sua attività per cercare di risolvere i problemi in carcere ma lui dice “è solo una goccia in un oceano”. Per Ioia ci vorrebbe una rivoluzione, una riforma come quella di cui si parla tanto e che poi non arriva mai. “Noi garanti dobbiamo garantire che un detenuto deve stare bene in carcere ma il detenuto non sta bene - continua il suo sfogo - Io raccolgo tutte le lamentele dei detenuti e i temi sono sempre gli stessi. Non mi è mai capitato che un detenuto mi dicesse ‘si sta bene qua’ oppure ‘questa cosa è migliorata’. Non sta migliorando nulla nelle carceri. Andiamo sempre a peggiorare. Per il Governo, per le Istituzioni, sembra che il carcere sia l’ultima ruota. Non se ne fregano proprio. Noi garanti ma cosa garantiamo? Cosa possiamo garantire?”. “Faccio appello al Garante Nazionale (Mauro Palma, ndr) a Rita Bernardini (Presidente di Nessuno Tocchi Caino, ndr), al Presidente della Repubblica affinché ci ricevesse e ci desse una direzione su come dobbiamo fare con le carceri - continua Ioia - C’è gente che soffre, gente malata, persone di 88 anni ancora recluse. In questi due anni ho parlato con i direttori delle carceri, con i comandanti degli agenti penitenziari, ma non è migliorato nulla. Non si può migliorare un carcere super affollato, non c’è niente di migliore”. “A volte mi sembra che nemmeno le Istituzioni siano interessate ad aggiustare le carceri - continua ancora il garante napoletano - e non hanno capito che il carcerato riguarda tutti, non solo lui e la sua famiglia, ma tutta la società perché dal carcere si esce più incattiviti. Un carcere che stai dentro e se malato e non ti possono curare, non ci sono spazi rieducativi, non ci sono attività sportive, sono carceri che non servono, si possono anche chiudere. Così esci dal carcere peggio di prima, più arrabbiato, più criminale e dopo vai a commettere altri reati. Non serve un carcere che non ha tutte le cose previste dall’articolo 27 della Costituzione. Se non viene rispettata la Costituzione di cosa parliamo? Le carceri sono abbandonati a loro stessi e il problema è del Governo, è centrale, e se la politica non fa qualcosa noi avremo sempre i criminali per strada, dei ladri dei stupratori, degli assassini. La società non ha bisogno di questa gente, ha bisogno di persone che escono dal carcere cambiate, altrimenti non è servito a niente”. “Quando vedi che pure i direttori delle carceri non riescono a fare nulla - conclude Pietro Ioia - capisci che il problema è centrale. Una riforma della Giustizia che non si fa da anni, si parla solo ma poi non la attuano. Oggi la giustizia è vendetta, non è giustizia e noi vogliamo una vera giustizia, una vera riforma. Una vera giustizia per l’essere umano, per chi esce dal carcere, per chi subisce e commette il reato. Vedo celle affollate e poliziotti in sottorganico che osservano anche 400 detenuti in contemporanea da soli. È uno stress enorme anche per loro. Non ci sono abbastanza educatori e nemmeno psichiatri. Ci sono detenuti malati mentali e i poliziotti penitenziari si sostituiscono agli psichiatri, ma sono solo esseri umani e aiutano per umanità. Vedo nelle carceri distruzione, povertà e malattia, vedo anche rabbia contro la penitenziaria che non ha colpe… ci vuole con urgenza una riforma della Giustizia”. Torino. Schiaffi a un detenuto, inchiesta sui poliziotti: “Indagini depistate” di Giuseppe Legato La Stampa, 4 febbraio 2022 Il “fattaccio” capitò l’8 febbraio scorso in una delle camere di sicurezza che in tribunale sono riservate ai detenuti in attesa di partecipare all’udienza. C’è uno di loro che si accende una sigaretta (vietato) e comincia a fumare in un luogo non consentito. L’assistente capo della polizia penitenziaria se ne accorge. Chiede insistentemente all’ospite di consegnargli l’accendino, lui si rifiuta. Parte un ceffone. Forte, molto forte. Perché il detenuto finisce con il viso contro il muro della stanza. Riporterà un trauma facciale (tre giorni di prognosi) e denuncerà tutto. Il poliziotto risponde di lesioni aggravate dall’abuso di potere. Ma il pm Giovanni Caspani, titolare dell’inchiesta, ha chiuso le indagini sollevando accuse anche ad altri colleghi del presunto poliziotto “violento”. Già, perché - secondo l’ipotesi formulata dal pm - dopo quanto avvenuto si sarebbe cercato di “coprire” i fatti, stravolgendoli ai fini di assicurare l’impunità all’indagato principale di questa storia difeso dal legale Gianluca Orlando. I protagonisti? Suoi colleghi. Sono stati dunque indagati - e figurano nell’avviso di conclusione indagine notificato ieri dalla procura ai diretti interessati - l’assistente capo, difeso dall’avvocato Attilio Molinengo e il sostituto commissario e coordinatore del nucleo operativo della polizia penitenziaria, che risponde anche di frode in processo penale e depistaggio. Dalle risultanze delle indagini condotte dalla procura l’assistente capo, poco dopo i fatti, avrebbe intimato al detenuto di non denunciare alcunché: “Formulava delle minacce alla parte offesa - si legge agli atti - dicendogli che non gli sarebbe convenuto parlare perché diversamente avrebbe avuto problemi in carcere durante la sua detenzione”. Infine: “Lo avrebbe fatto trasferire dal padiglione in cui era detenuto ad altro settore”. Il collega avrebbe, dopo i fatti, stilato un resoconto falso di quanto avvenuto. Nell’informativa diretta al comandante del reparto scriveva “che aveva parlato con il detenuto e che gli era sembrato tranquillo, che avrebbe negato la consegna dell’accendino cercando di nasconderlo sotto la mascherina che in seguita gli sarebbe stata tolta”. Riferisce ancora Picerno che “il detenuto avrebbe negato di aver sbattuto la testa contro il muro”. Altre bugie avrebbe raccontato sostenendo che “nel tentativo di afferrare la mascherina del detenuto il collega gli avrebbe toccato il viso con la mano causandone la caduta per terra degli occhiali da vista”. Troppo, secondo il magistrato. Presunti tentativi di depistaggio di cui dovranno rispondere davanti a un giudice. Trieste. Il nuovo direttore del Coroneo: creare opportunità per i detenuti di Eva Ciuk rainews.it, 4 febbraio 2022 Graziano Pujia, da poco alla guida della casa circondariale di Trieste, illustra gli obiettivi per il suo triennio. Ripensare gli spazi, riallacciare i rapporti con il volontariato e i partner istituzionali, creare opportunità di lavoro e formazione con il nuovo forno e con la cucina nella sezione femminile. Sono questi alcuni degli obiettivi del nuovo direttore che guiderà la casa circondariale di Trieste per almeno 3 anni: Graziano Pujia, 57 anni, ha alle spalle esperienze strutture con caratteristiche diverse, dal Regina Coeli a Roma al carcere di massima sicurezza di Sassari che ospita anche terroristi islamici. Positivo il giudizio del nuovo direttore sulla tutela sanitaria in carcere ad eccezione dell’emergenza pandemica. Al momento nessun detenuto è positivo. Oristano. “Difficile ascoltare personale e detenuti con questi carichi di lavoro” linkoristano.it, 4 febbraio 2022 L’amarezza del direttore Pierluigi Farci, che lascia l’incarico, in una dichiarazione raccolta dall’associazione Socialismo Diritti Riforme. “Il mio rammarico è non aver potuto dedicarmi in modo esclusivo a un solo istituto penitenziario. Troppi impegni da gestire per riuscire ad ascoltare costantemente e con l’attenzione dovuta il personale e i detenuti”. C’è una vena di amarezza nel commiato di Pierluigi Farci, il direttore storico del carcere di Oristano, prima nell’edificio di piazza Manno e ultimamente a Massama. Dopo 38 anni di servizio, compiuti i 67 anni, il dirigente è andato in pensione martedì 1° febbraio. “Il mio orgoglio è quello di essere riuscito a contribuire con sei campagne di scavi archeologici e il lavoro di una quarantina di detenuti alla valorizzazione di Monti Prama e dell’anfiteatro romano di Fordongianus”, ha detto ancora Farci, in una dichiarazione raccolta da Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che più di una volta negli ultimi 15 anni ha posto l’accento sui problemi legati alla gestione dell’istituto oristanese. Dal 2014 Pierluigi Farci ricopriva anche l’incarico di direttore dell’Ufficio personale del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria e il ruolo di vicario. Originario di Quartu Sant’Elena, laureato in Giurisprudenza, Farci ha gestito diversi istituti penitenziari dal 1984 a oggi. Dopo una iniziale breve parentesi a Bergamo, era stato assegnato a Oristano, ed ha assunto l’incarico di direttore dopo l’evasione di Nicolò Floris e Salvatore Fais (Speedy Gonzales), negli anni “caldi” dei sequestri di persona a scopo di estorsione. Successivamente è stato per 6 anni a Isili ma poi ha sempre avuto incarichi a scavalco con Is Arenas, Nuoro, Sassari, Macomer, dove ha inaugurato l’allora istituto di “Sa Stoia”. Una vita professionale a stretto contatto con personaggi di spicco della criminalità italiana, come Vallanzasca, ricordando una lunga polemica con Sgarbi quando il “bel René” era detenuto a Nuoro. Ultimamente il lavoro lo ha portato a stretto contatto con Battisti, Carminati e Mancuso. Come ricorda ancora l’associazione Socialismo Diritti Riforme, Pierluigi Farci - che per 4 anni è stato segretario nazionale del Sidipe, il sindacato dei direttori penitenziari) - ha conosciuto una lunga serie di ministri che si sono avvicendati al Ministero della Giustizia, da Amato a Castelli, da Flick a Severino e Orlando. Sassari. Gianfranco Favini è il nuovo Garante dei detenuti per il carcere di Bancali L’Unione Sarda, 4 febbraio 2022 È stato eletto alla terza votazione. Classe 1947, il presidente dell’associazione Alzheimer di Sassari è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Gianfranco Favini è stato eletto questo pomeriggio dal Consiglio Comunale alla terza votazione assoluta, la seconda della seduta, con 20 preferenze, che valgono il superamento del quorum richiesto della maggioranza assoluta, fissato a 18. Nelle precedenti due votazioni era invece necessaria la maggioranza dei due terzi, vale a dire 25 voti. Il Consiglio comunale ha poi votato favorevolmente all’esecuzione immediata dell’incarico, quindi da questo momento Gianfranco Favini è anche operativamente il nuovo garante dei detenuti per il carcere di Bancali. Sostituisce Antonello Unida, revocato il 16 dicembre del 2021 in seguito alle sue posizioni di carattere no-vax che hanno trovato vasta eco a livello nazionale. Volterra (Pi). Un teatro stabile nel carcere, online il bando di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 4 febbraio 2022 Una struttura teatrale stabile in carcere. La prima al mondo di questo tipo. Dal “sacco” del 1472 alla battaglia del 1944, Volterra è stata protagonista di eventi di cruciale importanza per i destini dell’Italia. Fra le vestige del passato c’è la Fortezza, edificio di matrice medicea, da secoli adibita a casa di reclusione. Al suo interno i detenuti vengono coinvolti in progetti che ne favoriscano la crescita personale. Fra le varie iniziative, oggi se ne è realizzata una delle più ambiziose: un teatro all’interno della struttura carceraria. Armando Punzo, direttore della Compagnia della Fortezza, è soddisfatto del risultato raggiunto: “Sin dall’inizio della mia esperienza all’interno del carcere, ho ritenuto di trovarmi in un luogo straordinario. Già dai primi spettacoli abbiamo ottenuto riconoscimenti importanti. Col trascorrere degli anni e col progredire del lavoro si è fatta sempre più impellente l’esigenza di avere all’interno della Fortezza una struttura teatrale stabile. I detenuti, alcuni dei quali con enormi capacità, hanno bisogno di professionalizzarsi, formarsi ai diversi mestieri del teatro. In questi anni, abbiamo comunque creato dei percorsi, fra cui vere e proprie tournée, partecipazioni a kermesse, organizzando nella Fortezza il festival Volterra Teatro. Alcuni dei miei attori hanno avuto l’opportunità di continuare questo cammino anche fuori dalle mura del carcere, dimostrando che è possibile trovare una realizzazione lavorativa partendo dal suo interno”. “Sono certo che il bando attiri professionisti che possano realizzare il progetto - prosegue il regista-, tenendo conto delle peculiarità storiche dell’edificio e delle esigenze del teatro. Una volta completata l’opera, potremo permetterci di lavorare sulle attività anche nei mesi invernali e rivolgerci a quelle realtà, penso agli studenti, ad esempio, che raggiungiamo attualmente con minore frequenza. L’idea sarebbe quella di creare una autentica stagione teatrale, agevolati anche dal posizionamento stesso della struttura, che sarà infatti immediatamente raggiungibile senza necessità di percorrere i cortili interni”. Il bando per la progettazione che sarà presentato nei prossimi giorni in una conferenza stampa dedicata, è consultabile sul sito del Ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità Sostenibili. Le domande possono essere presentate entro le ore 10 del prossimo 28 febbraio. Vicenza. Al carcere arte e sport si incontrano di Luca Cereda vita.it, 4 febbraio 2022 “Nordic walking”, “taijiquan”, il tennis tavolo, gli scacchi, pallavolo e ovviamente calcio. Questi sono alcuni degli sport che il Csi porta nel carcere di Vicenza attraverso il progetto “Csi, Carcere Sport Insieme”. Enrico Mastella: “Dentro il carcere abbiamo portato anche l’arte”. “Il rapporto tra il dentro e il fuori, tra il Csi e il carcere San Pio X di Vicenza è iniziato nel ‘96. Abbiamo iniziato con lo sport: dal tennis tavolo e allo yoga, ma anche i corsi di formazione sportiva, dalla dieta alla traumatologia. E poi abbiamo portato le scuole all’interno e il carcere all’esterno organizzando attività nelle suole o nelle parrocchie: dopo l’attività sportiva, in un clima informale, si parla di carcere e si entra in contatto con esso”, spiega Enrico Mastella, già presidente Csi Vicenza e responsabile del progetto CSI Carcere / Sport / Insieme. Oltre allo sport, ripartito l’estate scorsa, continuando i progetti di Csi in carcere, i volontari dell’associazione arancioblu hanno constatato che erano molto “fredde” le sale colloqui della Casa Circondariale di Vicenza: “È nata così l’idea di coinvolgere un’esperta di arte terapia che già stava lavorando in alcune carceri lombarde per abbellire i locali. Un’iniziativa realizzata negli ultimi mesi del 2021 grazie al progetto finanziato dalla Regione del Veneto che ha coinvolto le persone detenute”, spiega Mastella. Tra le attività sociali che i volontari di Csi - tutti formati appositamente per entrare in carcere - propongono nella casa circondariale vicentina, ci sono quelle sportive, ma esiste anche un servizio di accoglienza per le famiglie delle persone detenute finalizzato all’animazione soprattutto dei bambini in visita ai padri con la famiglia. Essendo il carcere veneto solo maschile. “Ecco perché conosciamo bene l’area adibita ai colloqui. Ed ecco perché ci siamo accorti, anche su sollecitazione dell’Amministrazione Penitenziaria - continua Mastella - che le sale erano imbiancate e pulite, ma molto asettiche. Da qui l’idea di coinvolgere l’artista Valeria Pozzi che già stava lavorando su progetti simili e con l’arteterapia in carcere e lavora in particolare con le persone detenute a Piacenza, Cremona, Mantova e Lodi e ora anche a Vicenza”. Pozzi non ha solo dipinto le pareti della sala colloqui del carcere, ha proposto ai detenuti corsi di arte terapia e in questo caso applica le teorie della cromoterapia agli ambienti. Insomma un progetto che ha una doppia valenza: coinvolgere le persone detenute e rendere belli gli ambienti della Casa circondariale. Nelle sale colloqui sono stati utilizzati colori come il verde salvia e il giallo ocra per rendere armonioso l’ambiente e smussare le tensioni, offrendo serenità. Soprattutto per i bambini a cui non è sempre facile spiegare quella situazione. E poi con l’aiuto di un gruppo di 8 persone detenute Valeria Pozzi ha realizzato dei “trompe l’oeil” che con i loro paesaggi “aprono delle finestre sul mondo”. “L’attività del Csi di Vicenza non si ferma a migliorare le situazioni delle sale colloqui. In primavera riprenderanno i corsi sportivi interrotti a fine anno per la pandemia e i volontari sono già al lavoro per programmare gli incontri delle persone detenute in visita nelle scuole superiori della provincia”, chiosa Enrico Mastella. E fuori dal carcere - dal 2003 con il progetto carcere e scuola “Carcere lungo” - il Csi vicentino continua a lavorare, creando legami sportivi tra chi sta dentro e fuori: “Non solo. Portiamo dentro, in accordo con la direzione, gli studenti dell’ultimo anno delle superiori di Vicenza, e abbiamo un percorso di incontro con i detenuti, con i responsabili dell’area trattamentale e con l’amministrazione. Negli anni abbiamo coinvolto più di 40 scuole del territorio per un totale di 13mila studenti entrati in carcere più gli altrettanti studenti”, spiega il responsabile del progetto CSI Carcere / Sport / Insieme. “Ne abbiamo fatta di strada - afferma ancora Enrico Mastella - da quando entrammo per la prima partita di calcio con gli ex giocatori del Vicenza di Gibì Fabbri: tra questi l’amico compianto Paolo Rossi che ha sempre condiviso a pieno lo spirito del Csi non facendo mai mancare la sua presenza anche nelle partite in carcere con le persone detenute. Dando loro una speranza per ricostruirsi una vita una volta pagato il debito con la giustizia. Con gli ex calciatori del Vicenza giocammo anche noi dirigenti Csi. L’altra compagine era composta da persone detenute: a molti non pareva vero di giocare con un campione del Mondo come Pablito”. “I magistrati sono la vera casta”. Parola di Sergio Rizzo di Valentina Stella Il Dubbio, 4 febbraio 2022 L’autore che con la “Casta” contribuì a cambiare le sorti del paese, ora in un altro libro ammette: “L’autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi”. “Potere assoluto - I cento magistrati che comandano in Italia”, è il titolo del nuovo saggio del giornalista Sergio Rizzo (Solferino Editore, pagine 256, euro 17), in cui svela storie, protagonisti, conflitti d’interesse e retroscena inediti della casta più nascosta e potente del Paese:” i consiglieri di Stato. Ovvero, il nocciolo duro del potere in Italia”. Il libro, di cui discuteremo con l’autore venerdì 4 febbraio alle 19 sulla pagina Facebook del Dubbio, cade a fagiolo, considerato che solo poche settimane fa il Consiglio di Stato è stato al centro della cronaca giudiziaria per aver decapitato i vertici della Cassazione. Quest’ultimo aspetto è ritenuto talmente problematico che si torna a parlare seriamente di un’Alta Corte: Rizzo riprende l’idea di Luciano Violante preoccupato del “rischio che “la magistratura amministrativa diventi il soggetto che, al di là della Costituzione, decide delle promozioni e delle sanzioni dei magistrati”. Al di là della Costituzione. Vero. Ma questo può accadere - prosegue Rizzo - perché, “al di là della Costituzione”, l’autonomia della magistratura così com’era stata concepita ha mostrato tutti i suoi limiti, fino ad assumere pian piano connotati diversi”. Fra tutti i 10 mila e passa magistrati italiani i Consiglieri di Stato sono quelli più vicini alla politica. “Al punto da indirizzarne talvolta le scelte importanti. Gli spetta per legge - scrive Rizzo - il compito di esprimere pareri e suggerimenti sulle iniziative del governo. Pareri e suggerimenti, si badi bene, talvolta vincolanti”. Ma il vero asso nella manica di questi magistrati è la possibilità di assumere incarichi diversi da quelli strettamente giudiziari, andando “fuori ruolo”. Hanno in mano i ministeri, come capi di gabinetto, e “perfino il processo legislativo della nostra democrazia, visto che, come esperti giuridici dei ministri, scrivono le leggi e ne gestiscono il funzionamento attraverso decreti attuativi predisposti da loro stessi”, trasformandosi così negli uomini più potenti del Paese. “Nel governo di Mario Draghi ce ne sono undici: il 10 per cento dell’intero Consiglio di Stato”. Rizzo fa i nomi, individua i strani giri che fanno non uscendo mai da quelli che contano, e anche le preziose parentele: chi sono, lo scoprirete leggendo il libro. Il testo è ricco di storie realmente accadute, come si suole dire: a cominciare dalla partita non giocata tra Juventus e Napoli durante la pandemia e che divise l’Italia a metà. Il giudice sportivo e “consigliere di Stato Gerardo Mastrandrea infligge alla squadra di De Laurentiis non soltanto la sconfitta a tavolino per 3-0, ma la condisce per sovrapprezzo con la penalizzazione di un punto in classifica. […] Si può sempre fare ricorso alla Corte federale d’appello. E chi è lì il presidente? Manco a dirlo, un altro consigliere di Stato. Resta tuttavia ancora una chance estrema. Il Collegio di garanzia dello sport del Coni”. E chi è il presidente? “Un terzo consigliere di Stato che spunta in questa assurda vicenda: Franco Frattini”, ora divenuto Presidente del CdS. Ma nel saggio si fanno anche i conti in tasca alla magistratura amministrativa, con esiti sconcertanti: le spese per l’informatica sono passate dagli 8,3 milioni del 2013 per schizzare a 23 milioni nel 2020, per poi leggere, nel bilancio di previsione, che la spesa sarebbe salita in soli tre anni a 52 milioni e mezzo. “La botta è così pesante che uno dei quattro membri laici, Salvatore Sica, chiede lumi. Fa mettere a verbale che vuole vederci chiaro lamentando “l’assenza di un’adeguata e dettagliata indicazione dei costi e della ratio sottesa alla spesa”. Ma poi la sua uscita non sortisce effetti. Gli spiegano che a fare le gare è la Consip e che l’aumento deriva anche da questo (!)”. Ma non finiscono qui le bizzarrie per Rizzo. Nel mirino del suo racconto entra pure Frattini e la sua nomina nell’aprile 2021 a Presidente aggiunto del CdS, contro la quale fa ricorso il consigliere di Stato Giuseppe Severini: “ dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato alla nomina come numero due di Palazzo Spada, Frattini ne ha passati decisamente più della metà a fare politica, in aspettativa. Esattamente, precisa il ricorso di Severini, diciotto anni e mezzo”. Ma non c’è nulla da fare, tutto regolare perché con una motivazione che “assomiglia a un triplo salto mortale con doppio carpiato del maestro di sci Frattini” si dice che “l’aspettativa presa per ragioni “extra istituzionali”, come quelle politiche, si può equiparare al cosiddetto “fuori ruolo”. Che cosa significa? In sostanza, un consigliere di Stato che va in aspettativa perché viene eletto alla Camera con un partito, e perciò non prende lo stipendio, è come se andasse a fare il capo di gabinetto di un ministero conservando la busta paga”. La vicenda di cui parliamo per Rizzo “sta a dimostrare quanto sia robusto il cordone ombelicale di certa magistratura con la politica. E quanto l’indipendenza del potere giudiziario possa rivelarsi in determinate circostanze un concetto abbastanza vacuo”. Gli studenti tornano in piazza dopo le cariche e i pestaggi di Davide Maria De Luca Il Domani, 4 febbraio 2022 Oggi sono previste manifestazioni in tutta Italia, comprese Milano e Torino, dove una settimana fa la polizia ha reagito con violenza ai cortei di protesta. Gli studenti manifestano contro la decisione di reintrodurre due prove scrive alla maturità, ma anche contro tirocini e alternanza scuola lavoro. La speranza è di evitare i peggiori incidenti di una settimana fa, quando decine di studenti sono stati feriti negli scontri, alcuni anche in modo grave. Dopo le cariche della polizia e i pestaggi subito nel corso delle manifestazioni di una settimana fa, gli studenti medi tornano oggi in piazza in alcune delle principali città italiane. Una mobilitazione che arriva il giorno dopo il riconoscimento delle loro domande da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento ha parlato della necessità di ascoltare “la voce degli studenti”. A indire la manifestazione sono sigle come Rete degli studenti medi, Osa nazionale e numerosi altri gruppi e collettivi, come il movimento romano La Lupa. Gli studenti protestano contro la decisione del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi di ripristinare due prove scritte all’esame di maturità. “Non ci soddisfa perché è una presa in giro, un modo di Bianchi per raccontarci e raccontarsi che va tutto bene e che il peggio è passato”, ha detto al portale scolastico Orizzonte scuola Tommaso Biancuzzi, membro della Rete studenti medi. La decisione, prosegue Biancuzzi, non considera invece che “i maturandi di quest’anno hanno vissuto tre anni infernali, prima con la chiusura generalizzata, poi con quelle a singhiozzo e infine con la confusione di questi ultimi giorni. Non tenere conto di questa condizione significa prendersi in giro e cedere alla retorica a discapito dei fatti”. Gli studenti chiedono una tesina scritta sotto la supervisione dei loro insegnanti al posto delle prove scritte. Contro l’alternanza - Almeno per una parte dei manifestanti, però, rimarrà centrale anche nelle manifestazioni di oggi la protesta contro l’alternanza scuola/lavoro, l’utilizzo di tirocini scolastici e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Gli studenti, accusano queste formule di alternanza di ridurre il monte ore a disposizione per la didattica e di complicare il lavoro dei dirigenti scolastici, costretti a cercare aziende con cui stabilire partnership. Attaccano anche la filosofia alla base dell’alternanza che, accusano, considera la scuola come un luogo che deve esclusivamente formare al lavoro, gli stessi temi sollevati alle manifestazioni convocate la scorsa settimana dopo la morte di Lorenzo Parelli, uno studente diciottenne di un istituto professionale, morto l’ultimo giorno di tirocinio in un incidente sul lavoro. “A Roma abbiamo deciso in assemblea di scendere in piazza anche questo venerdì - dice Pietro Zanchini, studente romano del movimento la Lupa - Protestiamo contro l’Alternanza scuola-lavoro, contro la repressione che ci ha colpiti non solo nelle strade, ma anche nelle scuole con denunce e sospensioni dovute alle sessanta occupazioni di quest’autunno e anche contro la nuova-vecchia maturità, solo l’ultima delle infelici decisioni del governo che non tengono minimamente in considerazione le nostre esigenze”. A Torino, una delle città dove una settimana fa gli scontri sono stati più intensi, il Kollettivo degli studenti autorganizzati ha deciso una mobilitazione dal titolo “Lorenzo vive nella lotta”. Ma anche a Milano, Napoli, Genova e altre città gruppi di studenti hanno annunciato manifestazioni contro l’alternanza e i tirocini. I pestaggi - La speranza di molti è che le manifestazioni di oggi possano procedere in modo più ordinato rispetto a quelle di una settimana fa, che hanno visto scontri anche intensi e decine di feriti. Secondo le ricostruzioni delle forze dell’ordine, venerdì scorso numerosi studenti erano scesi in piazza con l’intenzione di cercare lo scontro con la polizia. Nella sua prima, e fino ad oggi unica, dichiarazione sulle manifestazioni, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha incolpato “gruppi di infiltrati” tra gli studenti che puntavano a provocare la polizia. Secondo numerosi filmati e testimonianze degli studenti che hanno manifestato venerdì scorso, le cose si sarebbero svolte in maniera molto diversa. Le forze dell’ordine avrebbero lanciato numerose cariche senza provocazione e adottato un atteggiamento particolarmente repressivo, nonostante i manifestanti fossero in buona parte minorenni e disarmati. Gli scontri peggiori si sono verificati a Milano e Torino, dove i filmati mostrano gli agenti accanirsi contro ragazzi disarmati e lanciare cariche apparentemente non provocate. Soltanto a Torino, i feriti tra gli studenti sono stati venti, alcuni hanno riportato fratture, altri hanno ricevuto punti alla testa. Anche domenica 23, durante le prime manifestazioni studentesche che si sono tenute a Roma, gli studenti sostengono la reazione delle forze dell’ordine sia stata particolarmente dura. “I fatti di domenica scorsa a Roma sono stati il primo atto della tragedia di gestione dell’ordine pubblico durante le manifestazioni studentesche di venerdì in tutto il paese”, dice Zanchini. “Non appena il corteo ha mosso i primi passi è stato bloccato dai cordoni di polizia che, pochi secondi dopo, ai primi accenni di pressione sugli scudi, senza alcuna provocazione, senza alcun lancio di oggetti, hanno cominciato a manganellare gli studenti e le studentesse nelle prime linee - dice Zanchini - Gli scontri sono durati qualche minuto e hanno provocato 4 feriti tra di noi, tra cui una ragazza di 14 anni che è stata soccorsa da un medico passante e che è stata medicata in ospedale con 6 punti in testa”. “Invece di applaudire, o picchiare, ascoltateci e cambiate” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 4 febbraio 2022 La protesta. Oggi gli studenti tornano in piazza per la terza volta contro la “l’alternanza scuola-lavoro” e le nuove regole sulla “maturità”. Le critiche del movimento studentesco al Palazzo che ha applaudito Mattarella sulla necessità di ascoltare gli studenti. Scontro, anche nella maggioranza, sulle regole delle quarantene in classe. Per la terza volta nell’ultimo mese oggi gli studenti delle scuole superiori scendono in piazza contro l’alternanza scuola-lavoro e per un esame di stato diverso. Dopo due anni di Covid dicono sì alla tesina e no alla seconda imposta dal ministro dell’istruzione Bianchi. Il corteo nazionale sarà a Roma alle 9.30 da Piramide al ministero in Viale Trastevere. Previsti cortei e presidi a Milano (piazza Fontana), Palermo, Genova, Bari, Firenze, Perugia, Verona, Padova, Varese, Lodi, Agrigento, Taranto, Venezia, Latina, Pisa, Modena e nel resto del Paese. Domani e domenica i canali social del movimento “La Lupa” hanno annunciato l’assemblea “É tempo di riscatto” al centro sociale Acrobax in via della Vasca Navale 6 a Roma. La novità di ieri è stato il discorso del presidente della Repubblica Mattarella davanti alle camere riunite in occasione della sua reinvestitura. Rispetto al silenzio del governo, e agli imbarazzi della sua maxi-maggioranza sui pestaggi degli studenti a Roma (23 gennaio) e a Torino, Milano e Napoli (il 28) il cambiamento di tono è sembrato netto. Mattarella ha esortato il parlamento e il governo e non sono sfuggite le parole nette, e in senso contrario, “ascoltare gli studenti. Le disuguaglianze sono il freno a ogni prospettiva reale di crescita. Dignità è azzerare i morti sul lavoro. Mai più tragedie come quella del giovane Lorenzo Parelli, entrato in fabbrica per un progetto scuola-lavoro. Quasi ogni giorno veniamo richiamati drammaticamente a questo primario dovere della nostra società”. “Nel nostro Paese vi è un tema spinoso legato alla democrazia e alla repressione del dissenso - ha detto Luca Redolfi (Unione Degli Studenti) - La direttiva ministeriale di novembre della ministra Lamorgese ha limitato la possibilità di manifestare, a dicembre decine di studenti sono stati sospesi per aver partecipato alle occupazioni della propria scuola e la scorsa settimana decine di studenti sono rimasti feriti dalla violenza della polizia”. L’invito di Mattarella a ascoltare, e non picchiare, gli studenti contrasta con la politica di chiusura praticata dal ministero dell’Istruzione. “Da mesi - ha detto Bianca Chiesa (UdS) - chiediamo un dialogo con il Ministro Bianchi che però sceglie di non incontrare le rappresentanze studentesche da ottobre. In quell’incontro ci vennero fatte promesse non rispettate, come il confronto sull’Esame di Stato, mai avvenuto”. “E’ impensabile tornare a questo tipo di esame dopo mesi di pandemia” dichiarano i ragazzi della Rete degli Studenti Medi -”e anche adesso, seppure la scuola sia in presenza dall’inizio dell’anno, sappiamo che la situazione non è davvero così: ci sono moltissime classi in quarantena o che sono state più volte in quarantena e quindi in dad durante tutto l’anno. Queste direttive, arrivate solo ora dopo mesi di incertezza, sono l’ennesima dimostrazione di un Ministero che non ascolta gli studenti e che non prende in considerazione la grave situazione psicologica che stanno vivendo, ma pensa invece solamente a valutarli. Persino il Presidente della Repubblica oggi, nel suo discorso di insediamento, ha sottolineato l’importanza dell’ascolto di noi studenti. Vogliamo risposte dal Ministro”. Il tentativo del Palazzo e dei media è deviare, e strumentalizzare, le critiche degli studenti all’alternanza scuola-lavoro. Si attribuisce loro, anche tramite articoli di stampa, la confusione tra due sistemi diversi: l’alternanza scuola lavoro e il percorso di istruzione e formazione professionale (Iefp) frequentato da Lorenzo Parelli, morto all’ultimo giorno di stage. La richiesta è l’abolizione e il ripensamento globale di un sistema di addestramento alla precarietà, e non i tirocini di cui si ipotizza lì dove previsti un contratto di lavoro (apprendistato) con il salario e soprattutto le tutele. Queste ultime mancano per gli adulti, ma è inaccettabile che si espongano gli adolescenti a rischi mortali. Gli applausi del Palazzo alle parole di Mattarella sono stati criticate dagli studenti. “Se la Politica tutta ha il coraggio di alzarsi per applaudirlo - ha aggiuto Redolfi (Uds) - deve avere anche il coraggio di abolire i PCTO (nuova sigla per l’alternanza) a favore della proposta di istruzione integrata”. Il ministro dell’Istruzione Bianchi e quello del lavoro Orlando, entrambi del Pd, sembrano comunque molto lontani oggi dall’accettare un discorso simile. Da quello che si è capito in questi giorni l’annuncio dell’ennesimo tavolo fatto l’altro ieri potrebbe portare a una riforma dei tirocini extracurricolari per ridurre gli abusi Il che sarebbe già qualcosa dal momento che questi tirocini sono preferiti all’apprendistato professionalizzante per risparmiare sulla retribuzione e le tutele. In Veneto, sostiene il Pd regionale, parliamo di 350-450 euro lordi al mese. Sulle nuove regole decise dal governo a proposito delle quarantene a scuola ieri sono continuate le polemiche. “Le misure annunciate puntano a una normalizzazione fittizia - sostiene Grazia Maria Pistorino, segretaria nazionale della Flc Cgil - È evidente che, così come è avvenuto a gennaio, l’insieme delle misure che si stanno varando sono finalizzate a dichiarare una normalità non adeguata ai dati di contagio che vive ogni scuola, ogni mattina. Siamo preoccupati: un caso in una classe coinvolge 25 alunni e 50 genitori. Queste misure di semplificazione rappresentano per il governo un tentativo di normalizzare forzatamente le condizioni di vita nella scuola e, soprattutto, nella società, garantendo la didattica in presenza a qualunque costo, anche a rischio e pericolo degli alunni più piccoli che stanno in classe senza mascherine. Per noi semplificare non vuol dire diminuire le tutele, ma rendere omogenee le regole per tutti gli studenti della classe, indicando misure chiare per tutti, non farraginosi conteggi”. “La soluzione sarebbe avere classi molto meno numerose (quindi più insegnanti); spazi più ampi (quindi recupero di beni pubblici, a fini scolastici); aeratori nelle aule; e aumento consistente del trasporto pubblico. E invece fanno finta di non capire che la pandemia non è finita e che - continuando a non garantire i vaccini a tre quarti dell’umanità e a non cambiare i modelli di produzione e consumo - possono arrivare nuove varianti o nuove pandemie, ricominciando tutto da capo. Continuano a parlare di “ritorno alla normalità”, mentre quella normalità è il problema. Fanno propaganda”. Anche su questo fronte la maggioranza e il governo sono divisi. Ieri il sottosegretario leghista all’istruzione Rossano Sasso ha contestato la decisione del proprio governo di differenziare il diritto alla didattica in presenza sulla base dello stato vaccinale. “La campagna vaccinale è partita da troppo poco tempo - prosegue - infatti nella fascia 5-11 anni solo un terzo degli alunni ha avuto la possibilità di immunizzarsi. Inoltre è una decisione che spetta alle famiglie, non al singolo studente, che però paga in prima persona con un’ingiusta esclusione”. “Vogliamo l’abolizione dell’alternanza e non ci fermeremo adesso” di Sara Munari Il Domani, 4 febbraio 2022 È da anni che studenti e studentesse si mobilitano contro l’alternanza perché fin da subito ci è stato chiaro il modello sfruttatore che rappresenta. Ma ci voleva la morte di uno di noi per rimettere al centro il tema per le Istituzioni, vere responsabili di questa vicenda e che ora piangono lacrime da coccodrillo mentre noi abbiamo scelto invece di lottare con il doppio della determinazione. Abbiamo immediatamente indetto una manifestazione, a caldo e con la volontà di mostrarci insieme contro una scuola che non è più accettabile. Ci siamo riuniti in piazza Arbarello, a Torino, con la chiara idea di fare un corteo per riappropriarci dello spazio e prendere voce in un momento di invisibilità totale per noi giovani. Invece ci è stato impedito con una violenza inaccettabile e arbitraria da parte della polizia che ha selvaggiamente caricato la manifestazione per impedirne la partenza in corteo; le cariche sono state molteplici, ma nessuno studente o studentessa ha indietreggiato di fronte a questa prova di forza. Questo ha fatto sì che la polizia continuasse a imporsi con violenza per ore. Ci siamo immediatamente riuniti per confrontarci, tutti e tutte con l’intenzione di andare avanti con un percorso che in quel venerdì ha visto solo il suo inizio. Così, abbiamo rilanciato sulla data del 4 febbraio dichiarando da subito l’obiettivo di fare un corteo. Da una settimana, in diverse località italiane sono in corso agitazioni crescenti, in ogni scuola ci si sta organizzando per essere tanti e determinati domani e questo dimostra che il comportamento intimidatorio tenuto dalla Questura non ha centrato l’obiettivo, tra noi studenti e giovani non si parla di paura, le nostre ragioni e la nostra unione sono la forza che ci serve e che ci spinge ad andare avanti, convinti perché certi di essere dalla parte giusta. La protesta non è stata zittita, anzi è in crescita e questo ne dimostra la determinazione. Domani saremo in tanti e faremo il corteo. Di fronte a questo chiaro scenario, che è perfettamente documentabile da chiunque abbia il dono della ragione e la volontà di capire, leggiamo le imbarazzanti dichiarazioni della Ministra Lamorgese che ci viene a raccontare di “infiltrazioni che cercavano incidenti in piazza” come se i video non mostrassero con dovizia di particolari la situazione. Non esistono infiltrazioni di alcunché nelle nostre piazze, il neo-nato movimento studentesco è compatto e rifiuta in toto una simile narrazione da parte di una ministra che non sa assumersi le proprie responsabilità in merito a centinaia di giovani e studenti feriti dagli uomini delle cosiddette forze dell’ordine. La forza delle nostre ragioni è il motore per proseguire, ci vedremo domani mattina alle ore 10 in piazza XVIII Dicembre a Torino e saremo tanti e tante ma non sarà un punto di caduta, sarà la molla di slancio per crescere e avanzare. Vogliamo l’abolizione dell’alternanza una volta per tutte e non ci fermeremo adesso. Norvegia. Oslo dice no all’ergastolo anche per Anders Breivik di Matteo Angioli Il Riformista, 4 febbraio 2022 Respinta la richiesta di libertà vigilata per l’autore del sanguinoso attentato del 2011. Confermati 21 anni di reclusione: pena massima in Norvegia. Ci si è chiesti se introdurre il fine pena mai. La risposta? No. Non meritano indifferenza due recenti decisioni in tema di giustizia penale. In base alla legge britannica sul terrorismo, ad agosto, un 22enne inglese, Ben John, era stato condannato a due anni di carcere per aver scaricato migliaia di testi antisemiti e di suprematismo bianco. Il giudice aveva però sospeso la pena puntando a un percorso davvero alternativo, “condannando” il giovane alla lettura di classici come Shakespeare, Austen e Dickens, e verificandone periodicamente l’auspicata graduale rieducazione. “Sei una persona solitaria con pochi o nessun vero amico”, aveva detto all’imputato, descritto come “facilmente influenzabile”. Per il giudice era un incidente isolato che non aveva recato nessun danno. Il 4 gennaio, nella prima udienza di verifica, lo stesso giudice si era detto incoraggiato dai progressi iniziali compiuti da John. Di diverso parere l’Avvocato Generale del Regno Unito e deputato conservatore, Alex Chalk, autore di un ricorso contro la sentenza ritenuta eccessivamente indulgente. Il ricorso, sollecitato dall’associazione Hope Not Hate (Speranza Non Odio) che aveva inviato una lettera aperta a Chalk, è stato accolto dalla Corte d’Appello il 19 gennaio, mettendo fine alla libertà condizionale del giovane imputato per il quale si sono aperte le porte del carcere. Chalk ha dichiarato che il governo “è impegnato a interrompere le attività degli estremisti più pericolosi e a sostenere chi contrasta la retorica dell’odio e a proteggere le persone vulnerabili che vengono trascinate nel terrorismo.” È lecito chiedersi allora se la forma di protezione migliore per una persona “facilmente influenzabile”, altrettanto vulnerabile, come Ben John, sia il carcere e se non sia sufficiente la libertà condizionale. Secondo il suo avvocato, John è “un bambino” con una “biblioteca elettronica” che include anche testi marxisti, e la sentenza di custodia cautelare era “del tutto sensata, costruita con cura e appropriata” proprio perché abbinata a un programma di riabilitazione “serio” che aveva già prodotto effetti tangibili. Hope Not Hate esulta per l’annullamento della “sentenza allarmante” perché non è possibile evitare il carcere per reati che comportano una pena detentiva massima di quindici anni. Ma, se la speranza di superare l’odio passa per il carcere, non c’è speranza. Negli stessi giorni è stato un “vero” terrorista a far parlare di sé. Il 18 gennaio è scoccato il decimo anno di detenzione di Anders Breivik, l’uomo che nel 2011 compì un doppio attentato in Norvegia uccidendo 77 persone. Breivik si è avvalso del diritto, maturato dopo dieci anni di detenzione, di chiedere la libertà vigilata. In tribunale ha affermato di aver rinunciato alla violenza ma non alle idee di ostentata ispirazione nazista. Non avendo mostrato dunque nessun rimorso, il primo febbraio, il giudice ha negato la libertà condizionale e confermato la sentenza di reclusione di 21 anni, pena massima in Norvegia, dove non esiste l’ergastolo. Esiste però una disposizione che consente di prolungare la detenzione, finché il detenuto non sia più giudicato un pericolo. Breivik si è presentato facendo il saluto nazista e mostrando un cartello con un messaggio inneggiante alla supremazia bianca. Aveva già utilizzato precedenti udienze come piattaforma per denunciare un genocidio dei bianchi in Occidente. Aveva perfino tentato di fondare, dal carcere, un partito fascista contattando per posta i vari Ben John, ma quelle lettere sono state sequestrate dagli agenti penitenziari e aggiunte alle prove del suo mancato ravvedimento. Giusto, dunque, riflettere sul rischio che tali apparizioni ispirino individui “facilmente influenzabili”. Tuttavia, molti norvegesi sono convinti che il modo migliore per sconfiggere la sua visione del mondo non sia tappargli la bocca, ma dimostrare che il sistema da cui Breivik sostiene di essere oppresso, in realtà, gli sta dando tutte le possibilità di esprimersi, attraverso canali legali attentamente governati. Lo credo anch’io. In Norvegia perfino un criminale come Breivik ha gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino detenuto, inclusi quelli di pensiero e parola. Di fronte all’efferatezza del crimine commesso e orgogliosamente rivendicato, la società norvegese - tutt’altro che ingenua - si è chiesta, non senza dolore e aspri confronti, se riformare il codice penale introducendo l’istituto dell’ergastolo. Risposta? No, non permetteremo a Breivik di vincere manomettendo i principi e le leggi alla base della nostra democrazia. Dall’Uganda al Burkina Faso: porte aperte ai profughi. E l’impegno di Lambda, 85 anni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 4 febbraio 2022 È l’Africa il continente che accoglie il maggior numero di profughi in fuga da guerre e persecuzioni. La storia di un burkinabé, funzionario in pensione che ha accolto 100 connazionali. Forse non tutti sanno che è l’Africa, e non l’Europa, il continente che accoglie il maggior numero di profughi. Soltanto l’Africa subsahariana ospita più del 26% della popolazione mondiale di rifugiati. Sono oltre 18 milioni le persone di questa regione che hanno cercato rifugio all’estero o in altre zone del proprio Paese per fuggire a guerre, violenze, intimidazioni, persecuzioni politiche o religiose. Il loro numero è aumentato vertiginosamente negli ultimi anni, in parte a causa delle crisi in Repubblica Centrafricana, Nigeria, Sud Sudan, ma anche per le tensioni nella regione dei Grandi Laghi e in Yemen. L’Uganda, per esempio, accoglie da solo oltre un milione di profughi, la maggior parte dei quali provenienti dal Sud Sudan, ed è il terzo Paese con più migranti al mondo dopo Turchia e Pakistan. In Uganda i rifugiati possono lavorare la terra, hanno accesso gratuito a scuola e sanità. L’approccio del governo è mirato all’inclusione nelle comunità. E allora, partendo da questi dati, forse non stupisce neppure più di tanto la storia di Lambda, 85 anni, abitante del Burkina Faso, che in una struttura della sua casa, nella città di Tougouri, ha accolto circa cento rifugiati del Burkina Faso, Paese che ormai da anni accoglie molti sfollati e dove il 23 gennaio è iniziato un colpo di stato coi golpisti che hanno annunciato la sospensione della costituzione, lo scioglimento del parlamento e del governo, la chiusura delle frontiere e il coprifuoco. Lambda, come raccontato dall’Unhcr, è un funzionario civile in pensione, vedovo e padre di sette figli. Lambda ha accolto nel suo compound più di 100 dei suoi connazionali fuggiti dalle loro case, offrendo loro riparo, cibo e persino denaro per comprare provviste. Tra le persone accolte anche tante famiglie con bambini piccoli. “Il suo gesto - è stato spiegato da Unhcr - riflette la straordinaria solidarietà che le comunità ospitanti del Burkina Faso hanno mostrato verso gli sfollati durante un decennio di disordini nella regione del Sahel, dove i gruppi armati hanno attaccato villaggi, distrutto le case e costretto le persone a fuggire”. Alla fine del 2021 c’erano oltre 1,5 milioni di sfollati interni in Burkina Faso, con le regioni del Centro-Nord e del Sahel più colpite. Nel complesso, le migrazioni forzate nella regione del Sahel centrale - che comprende anche il Mali e il Niger - è decuplicato nell’ultimo decennio, passando da 217.000 a oltre 2,5 milioni, compresi circa 410.000 rifugiati - soprattutto dal Mali - oltre a 2,1 milioni di sfollati interni. “Sono esseri umani proprio come me, e quello che stanno passando può succedere anche a me - ha detto Lambda - Non potevo sopportare di vederli dormire fuori in balia del freddo e della polvere”. Tra gli ospiti di Lambda c’è anche Raogo e la sua famiglia composta da 18 persone, fuggiti dalla loro casa dopo che gruppi armati hanno attaccato il loro villaggio a Pensa. “Apprezzo molto la sua umiltà e gentilezza, perché è difficile trovare persone così benevole al giorno d’oggi - ha detto Raogo -. Ci considera suoi fratelli e condivide le poche cose che ha con noi”. “La generosità di Lambda è esemplare. Dobbiamo sostenere lui e altri membri della comunità ospitante che hanno dimostrato una straordinaria solidarietà”, dice Abdouraouf Gnon-Konde, Rappresentante dell’Unhcr in Burkina Faso, che poi ha aggiunto: “L’Unhcr, insieme ad altre agenzie, sta sostenendo le autorità per proteggere e assistere le famiglie sfollate, anche attraverso il rafforzamento delle infrastrutture e dei servizi nelle aree dove le persone fuggono”. Siria. Il “califfo” eliminato quando il gruppo aveva ripreso forza di Francesco Marone Il Domani, 4 febbraio 2022 La leadership di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi è stata breve e per molti versi enigmatica. La sua nomina venne ufficialmente annunciata il 31 ottobre 2019, pochi giorni dopo la morte di al Baghdadi. Dopo la laurea a Mosul e il servizio militare, il futuro “califfo” si unì alla causa jihadista e divenne un membro del gruppo armato che nel 2014 sarebbe diventato lo Stato islamico. Al momento lo Stato islamico non ha ancora riconosciuto ufficialmente la morte del suo leader né ha prospettato il percorso per la sua successione. Il presidente americano Joe Biden ha annunciato ieri la morte del leader dello Stato islamico, Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi. Secondo le informazioni disponibili, la rischiosa operazione delle forze speciali americane assomiglia a quella che pose fine alla vita del precedente “califfo”, Abu Bakr al Baghdadi, nell’ottobre del 2019. Tra l’altro, in modo piuttosto sorprendente, l’area interessata è la medesima: il governatorato di Idlib, nel nordovest della Siria, ovvero un’area vicina al confine turco e controllata da una coalizione di gruppi ribelli dominata dagli jihadisti di Hayat Tahrir al Sham (Hts), già affiliati ad al Qaida e rivali dello stesso Stato islamico. La leadership di Abu Ibrahim al Hashimi al Qurayshi è stata breve e per molti versi enigmatica. La sua nomina venne ufficialmente annunciata il 31 ottobre 2019, pochi giorni dopo la morte di al Baghdadi. Del nuovo leader venne presentato soltanto un nome di battaglia: un riferimento alla sua presunta appartenenza al lignaggio hascemita della storica tribù araba dei Quraish, cui apparteneva il profeta Maometto; secondo una tradizione diffusa nell’islam i califfi (ovvero i successori del profeta) dovrebbero appartenere a tale tribù. Lo Stato islamico non ha mai fornito altri dettagli sull’identità del suo massimo rappresentante. Curiosamente un’organizzazione che ha fatto notoriamente della comunicazione e della propaganda un proprio tratto distintivo, tanto più nei suoi anni d’oro (2014-2019), è stata quindi guidata da un leader rimasto completamente nell’oscurità, presumibilmente per ragioni di sicurezza, fino alla sua morte. Le autorità antiterrorismo sono comunque giunte presto alla conclusione che dietro a quel nome di battaglia si celasse l’iracheno Amir Muhammad Sa’id Abdal Rahman al Mawla. Tra l’altro, menzionando esplicitamente questo nominativo, nel giugno del 2020 gli Stati Uniti hanno offerto una ricompensa di dieci milioni di dollari a chiunque fornisse informazioni utili per rintracciarlo. Secondo le informazioni disponibili, al Mawla nacque nel 1976 in una cittadina a maggioranza turkmena del nord dell’Iraq. Dopo la laurea a Mosul e il servizio militare, il futuro “califfo” si unì alla causa jihadista e divenne un membro del gruppo armato che nel 2014 sarebbe diventato lo Stato islamico; lasciato alle spalle un periodo in carcere, salì rapidamente la gerarchia del gruppo (peraltro decimata da morti in combattimento e uccisioni mirate), dimostrando spiccate doti organizzative. Nelle dinamiche ideologiche interne allo Stato islamico al Mawla si attestò spesso su posizioni estreme; in particolare, è noto che sostenne la prospettiva della riduzione in schiavitù delle donne yazide, alla fine approvata e tragicamente attuata dall’organizzazione jihadista. In questi mesi non sono trapelate informazioni sulle decisioni effettivamente assunte dal “califfo” al Qurayshi. Ci sono tuttavia indicazioni secondo cui l’organizzazione sotto la sua guida abbia assunto una struttura più decentralizzata. Il gruppo armato si è anche impegnato in numerosi attacchi clandestini in Siria e Iraq, talora con iniziative clamorose. Proprio pochi giorni fa lo Stato islamico ha lanciato la sua offensiva, la più importante da quando ha perso il territorio in Siria e Iraq nel 2019: il 20 gennaio, infatti, miliziani dell’organizzazione hanno assaltato una prigione della città di al Hasaka, nel nord della Siria, riuscendo a liberare centinaia di militanti jihadisti che vi erano detenuti. Soltanto dopo giorni di scontri intensi, le milizie a maggioranza curda, che controllano di fatto quell’area della Siria, sono riuscite a riprendere il controllo del carcere, con l’aiuto delle forze della Coalizione guidate dagli Stati Uniti. L’assalto alla prigione peraltro ha riportato l’attenzione sulla sorte di migliaia di presunti jihadisti stranieri e loro familiari detenuti in carceri improvvisate e in campi sovraffollati nel nord della Siria. Al momento lo Stato islamico non ha ancora riconosciuto ufficialmente la morte del suo leader né ha prospettato il percorso per la sua successione. In questa fase di transizione, anche i simpatizzanti sul web mantengono una posizione di attesa, se non di negazione dei fatti. Nel complesso, la morte del “califfo” costituisce un altro colpo inferto allo Stato islamico, sia sul piano organizzativo sia sul piano simbolico. Non sorprendentemente Biden, reduce dal fallimento della guerra in Afghanistan, ha prontamente sottolineato questo aspetto. D’altra parte, purtroppo, è facile prevedere che lo Stato islamico, ancora una volta, sarà in grado di riorganizzarsi e di proseguire la sua missione fanatica di distruzione.