Lavora solo 1 detenuto su 3 (e grazie alle cooperative sociali) di Luca Cereda vita.it, 3 febbraio 2022 Uno studio condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia dimostra come le persone detenute che lavorano per cooperative sociali dentro agli istituti abbiano molte più opportunità reinserirsi nella società dopo la pena. Lo studio condotto da Fondazione Zancan, Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud e Fondazione Cariparo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia ha un titolo molto chiaro rispetto all’obiettivo della ricerca: “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere”. E mette al centro i benefici dell’attività lavorativa nel percorso di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. “Oltre ad azzerare o quasi la recidiva una volta scontata la pena, il lavoro tra le sbarre dona “una seconda vita” e maggiore dignità, previene la depressione e l’ansia tenendo la mente occupata e diminuendo l’uso di farmaci e aumenta l’autostima della persona”. Aumentare i detenuti-lavoratori vorrebbe dire anche maggior indotto per tutti, anche per lo Stato. Sono gli stessi report del Ministero della Giustizia ad evidenziare che in carcere lavora solo il 34% dei 56mila detenuti attuali, e che le persone che seguono percorsi trattamentali individualizzati e lavorano, non ritornano a delinquere (la recidiva si abbassa a meno del 2%). Mentre le persone detenute che non accedono a percorsi trattamentali, senza un lavoro, nel 70% dei casi tornano a delinquere: 7 su 10 ritornano a delinquere, vengono arrestati e ri-processati e scontano di nuovo una pena. Con grandi costi economici e sociali per lo Stato. Il lavoro in carcere: una seconda vita - “A 54 anni, sono entrato in carcere a Padova. Era il 2011 - racconta Marzio - già i primi giorni, soprattutto le prime notti, le ho passate senza lavorare e senza avere nulla nella testa. Il vuoto: mi pareva di non servire più a nessuno. In carcere ci finiscono persone, non bestie. A salvarmi è stato il supporto dei volontari, e il lavoro che la Cooperativa Giotto mi ha proposto all’interno del carcere, nel reparto dei “contact center”, che ora, cotanta la mia pena, dirigo. Il lavoro, quello vero, è stata la chiave per aprire questa nuova vita e che mi ha riportato ad essere utile”. Il lavoro, quello vero, non i “lavori domestici” alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ma che gli istituti di pena considerano “lavoro in carcere”: lo scopino, lo spesino, il portavitto. “Ho potuto e molti come me hanno potuto ritornare ad essere non più parassiti delle nostre derelitte famiglie, ma capaci di inviare gran parte del nostro stipendio ai nostri famigliari, permettendoci così piano piano di rialzare la testa e di riacquistare un minimo di dignità”, conclude Marzio, a cui lo studio di Fondazione Zancan, Acri e Fondazione con il Sud da ragione scientifico-statistica a quella che è la sua - e di molti, ma troppo pochi - detenuti ed ex detenuti. La differenza tra chi lavora e chi no, in numeri - Nello studio sono stati coinvolti oltre 300 detenuti in tre istituti penitenziari italiani (Torino, Siracusa e Padova), circa un terzo dei quali lavoratori alle dipendenze di cooperative, un terzo lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (Ap), un terzo non lavoranti. “L’età media di chi lavora alle dipendenze di cooperative o dell’Ap è di oltre 44 anni. I detenuti che non lavorano sono i più “giovani di detenzione” perché anche in carcere i più giovani sono svantaggiati nell’accesso al lavoro, per scarsità di offerta. Due terzi dei partecipanti allo studio sono nati in Italia”, dice il rapporto finale. “Lavorare fa bene al corpo e alla mente”, chiosa Marzio, e lo studio gli dà ragione: il peso medio dei detenuti incontrati oscilla intorno agli 80 chilogrammi. Per persone con obesità sono tra chi non lavora il 14,4%, tra chi lavora per l’Amministrazione il 15,5%, mentre tra chi lavora per le cooperative solo il 7,8%. Chi soffre di depressione in carcere ed è scoraggiato dal proprio futuro sono il 20% di chi lavora per cooperative, il 25% circa di chi lavora per l’Ap, e si cresce fino al 55% di chi non lavora. Lavorare dentro aiuta nel rapporto con il “fuori” - Per quasi tutti i detenuti - oltre il 90%, a prescindere dalla condizione lavorativa o meno - emerge l’importanza di “amare i propri cari” e dare valore alla famiglia che sta fuori. È il punto di riferimento che “dà speranza”. “Le persone intervistate descrivono l’aiuto che riescono a dare alla propria famiglia, in particolare ai figli per farli studiare grazie al lavoro. Per i detenuti lavoratori, la possibilità di aiutare significa dignità che nasce dal “non pesare” sui propri cari e di essere utile alla società”, continua il rapporto. “Il lavoro in carcere serve per portarti fuori dalle mura”, ammette Gianluca, 48 anni, entrato nel carcere Vallette di Torino nel 2012. “In carcere avevo perso anche quel poco di dignità che sentivo. Mi sentivo una completa nullità. Il carcere è un luogo molto ostile, mentre dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, dove ricevere un aiuto per non ricadere nelle stesse dinamiche di devianza. Ma purtroppo non è così. Mi ha aiutato il lavoro che la Cooperativa Extraliberi che mi ha proposto all’interno del carcere, così sono diventato un serigrafo e ho imparato a stampare magliette”. Gianluca aveva già lavorato fuori dal carcere, ma alle Vallette di Torino ha iniziato a ridare un senso alle sue giornate, a sentirsi responsabile di quello che faceva: “Con lo stipendio è arrivato un minimo di autonomia, per piccole spese quotidiane, per inviare un po’ di aiuto ai miei genitori”. Il lavoro in carcere rende: è una vittoria (nei numeri e) nel risultato per tutti - Considerando le cooperative che danno lavoro nei tre istituti penitenziari presi in esame dalla ricerca, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa. “Parte della ricchezza prodotta si traduce, al netto degli sgravi fiscali e contributivi - prosegue la ricerca - in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno per cooperativa in media). Le cooperative coinvolte impiegano mediamente un ex detenuto, ogni 2 detenuti. La produzione delle cooperative sociali conta su un “indotto” per altre aziende, clienti e fornitori, in media oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa”. “In carcere a Padova oltre a lavorare con la cooperativa Giotto, grazie all’accordo con l’Università di Padova ho intrapreso un percorso di studi per la laurea in giurisprudenza, che ha contribuito a migliorare le competenze lavorative, ad accrescere l’autostima e a dare un messaggio alle mie figlie che ogni tempo, anche quello peggiore, va speso bene”, spiega Marzio. Parlare di carcere e lavoro, di carcere e formazione al lavoro, non è parlare del futuro: significa analizzare il valore reale e l’impatto sociale che il lavoro ha all’interno degli istituti di pena. Perché i grandi cambiamenti anche in questo ambito così spesso immobile e chiuso per antonomasia, possono essere realizzati solo con il coinvolgimento e la partecipazione della società civile, detenuti e istituzioni carcerarie compresi. Così il lavoro dei detenuti può creare opportunità anche per i “liberi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 febbraio 2022 Studio patrocinato dal ministero della Giustizia: impiegato solo il 4%, con il 50% ci sarebbe un gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. Inoltre si risparmierebbero 700 milioni all’anno nella spesa per i penitenziari. Per i detenuti il lavoro fa la differenza, rende tutto più vitale, soprattutto se gestito da soggetti imprenditoriali capaci di proporre lavoro vero. Attualmente, però, è un’opportunità molto ridotta, raggiunge solo il 4% della popola zione carceraria, se non si conteggia il lavoro per periodi troppo brevi, con orari giornalieri troppo limitati e dedicati al funzionamento interno alla struttura. Lo studio ha approfondito il rapporto “carcere e lavoro” - È quello che emerge in uno studio multicentrico, realizzato con il patrocinio del ministero della Giustizia, e promosso dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con Il Sud, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Emanuela Zancan. Lo studio ha approfondito il rapporto “carcere e lavoro” con riferimento a quattro aree: organico-funzionale, cognitivo-comportamentale, socio ambientale e relazionale, valoriale e spirituale. La ricerca è stata realizzata in collaborazione con tre istituti penitenziari: l’istituto “Lorusso e Cutugno” di Torino, l’istituto di Padova e l’istituto di Siracusa. Poter lavorare, nelle parole dei detenuti intervistati, rappresenta un’occasione preziosa e necessaria per riscoprire la propria dignità e la possibilità di un riscatto “oggi e domani” cioè durante la detenzione e dopo, nel reinserimento nella società. A maggior ragione, emerge dallo studio, è quindi importante non solo la possibilità di impiego, ma tutto quello che può facilitarlo con adeguati percorsi di sostegno personale e professionale. Lavorare tiene la mente impegnata e previene la depressione, altro punto emerso. La “depressione” è una condizione frequente nella vita in carcere: i “depressi” e gli “scoraggiati”, secondo il campione di detenuti raccolto, sono il 20% dei lavoratori per cooperative, il 25% circa dei lavoranti per l’amministrazione penitenziaria, schizza al 55% tra chi non lavora. Il lavoro dei detenuti nelle cooperative esterne genera benefici diretti e indiretti - Altro dato è che chi non lavora, se sente escluso e chiede più rispetto. “A volte penso di essere un buono a nulla”: il 18,6% lo pensa, ma con significative differenze tra il 26,9% di chi non lavora, il 20,4% dei lavoranti per l’Amministrazione e il 9,5% dei lavoratori di cooperative. Il lavoro dei detenuti alle dipendenze di cooperative esterne è la forma di impiego che maggiormente si avvicina ad attività lavorative “normali”. La produzione di beni e servizi nell’ambito delle cooperative genera, oltre ai benefici diretti (economici e personali) per i detenuti, anche ricavi e conseguenti versamenti di imposte a vantaggio delle finanze pubbliche. Questo comporta possibilità di occupazione per altre persone nelle cooperative stesse che insieme beneficiano dell’attività svolta dai detenuti. Altro aspetto rilevante riguarda la possibilità di reinserimento sociale dei detenuti dopo il rilascio - Le attività svolte dai detenuti con le cooperative sono variegate: assemblaggio, legatoria, digitalizzazione, call center, pulizie e raccolta rifiuti, pasticceria, biscotteria, torrefazione, ristorazione (bar, pizzeria, mensa, …), sartoria, serigrafia, lavaggio, stireria. E infatti, come sottolinea lo studio, un altro aspetto rilevante riguarda la possibilità di reinserimento sociale dopo il rilascio, grazie alle competenze lavorative sviluppate/rafforzate durante la detenzione. Per quanto riguarda i risultati economici delle cooperative coinvolte nei tre istituti penitenziari, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa, con un costo del lavoro medio pari a quasi 300 mila euro annui. Parte della ricchezza prodotta si traduce (al netto degli sgravi fiscali e contributivi) in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche (compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno per cooperativa in media). Le attività produttive delle cooperative contano su un “indotto” ramificato di cooperative/aziende, clienti e fornitori (in media si possono stimare oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa). Complessivamente, le produzioni che impiegano detenuti generano quindi benefici netti a vantaggio dei detenuti stessi, delle organizzazioni coinvolte e della comunità. Ed ecco il punto. Bisogna incentivare il lavoro delle cooperative. Nel 2019 impiegati 210 detenuti dei tre istituti presi in esame dalla ricerca - La ricerca fa un esempio ipotetico. Considerando ad esempio i dati disponibili per l’anno 2019, le cooperative coinvolte nei tre istituti, impiegando 210 detenuti, hanno prodotto un fatturato complessivo di circa 7,5 milioni di euro e hanno impiegato 106 altre persone (non detenute); applicando ipoteticamente un’aliquota del 10% al valore del fatturato, ne deriverebbe un gettito Iva di 750 mila euro a beneficio delle finanze pubbliche. Mantenendo queste stesse proporzioni, se idealmente il 20% dei detenuti nelle carceri italiane fosse coinvolto in attività lavorative alle dipendenze di cooperative (quindi molto più dell’attuale 4% di detenuti coinvolti in tutte le tipologie di lavoro extra amministrazione penitenziaria, non solo in cooperative), ciò genererebbe oltre ai benefici diretti per gli oltre 12 mila detenuti impiegati (un quinto dei quasi 61 mila detenuti totali a fine 2019) e per le loro famiglie - un fatturato complessivo di 430 milioni di euro, con un corrispondente gettito Iva di 43 milioni di euro, e opportunità occupazionali dirette (nelle cooperative stesse) per altre 6 mila persone non detenute e indirette per ulteriori occupati in aziende collegate dell’indotto (punti vendita, clienti, fornitori) in tutta Italia. Mantenendo le medesime proporzioni, e ipotizzando invece che il 50% dei detenuti in Italia fossero impiegati presso cooperative (o altri soggetti esterni) in luogo del 4% attuale, cosa cambierebbe? Si determinerebbe un maggior fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. A regime, si potrebbe inoltre realizzare un risparmio di 700 milioni di euro all’anno nella spesa pubblica per il carcere, grazie alla riduzione attesa della recidiva. Il Capo del Dap Bernardo Petralia lascia l’incarico di Piero Cascio Giornale di Sicilia, 3 febbraio 2022 Il magistrato trapanese Bernardo Petralia lascia l’incarico di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia e chiede al Csm il pensionamento anticipato. “È arrivato il momento di dedicare priorità e tempo alle esigenze familiari”, ha scritto in una nota in cui annuncia la decisione ringraziando il ministro Cartabia e tutto il personale del dipartimento. “Sono nonno, quattro mesi fa mi è nata una nipotina, ho 69 anni, è il momento di rientrare in famiglia, sento che ha bisogno di me”, aveva spiegato all’Ansa dopo che la notizia, non inattesa, aveva cominciato a circolare sui comunicati di alcune organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Al magistrato, che sarebbe potuto rimanere in servizio ancora un anno, è subito arrivato un “affettuoso ringraziamento” dal ministro Marta Cartabia “per la collaborazione sempre assicurata in questi mesi. Comprendo bene - scrive il ministro in una nota - le esigenze personali e familiari, che lo hanno indotto ad assumere questa decisione”. Il ministro della Giustizia ricorda che con Petralia “insieme abbiamo lavorato per fronteggiare le emergenze, acuite dalla pandemia, e assicurare risposte agli sterminati bisogni del carcere”. Petralia era stato messo a capo del Dap nel 2020 dall’allora ministro Alfonso Bonafede dopo le dimissioni di Francesco Basentini, travolto dalle polemiche suscitate dalle scarcerazioni di boss di calibro della criminalità organizzata per gravi ragioni di salute connesse all’emergenza Covid e dalle rivolte nelle carceri. Marta Cartabia lo aveva confermato nell’incarico assieme al suo vice, Roberto Tartaglia, come Petralia ex della Procura di Palermo. Una settimana fa, intervenendo a un convegno sulle carceri organizzato dall’università Lumsa, Petralia aveva parlato della sua esperienza dicendosi “addolorato e intristito, non posso dire di essere soddisfatto, di aver raggiunto degli obiettivi e nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana, l’ho fatto anche nel periodo più funesto del Covid l’anno scorso, e delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Per la sua sostituzione, i sindacati della polizia penitenziaria sollecitano il governo a scegliere presto il nuovo responsabile del dipartimento, per dare certezze di fronte ai gravi problemi delle carceri. Il segretario della Uilpa, Gennarino De Fazio, chiede che il governo “individui con immediatezza una personalità qualificata e competente che possa farsi carico delle immani problematiche penitenziarie con l’autorevolezza di un mandato pieno e di obiettivi chiari”. Il segretario del Sappe, Donato Capece, chiede “gente concreta, che non solo conosce i problemi ma che li sa pure risolvere: penso a un magistrato impegnato in prima linea ma anche ad un prefetto”. Nella sua carriera di magistrato, Petralia è stato, fra l’altro, procuratore aggiunto a Palermo e procuratore generale a Reggio Calabria. Dal 2006 al 2010 ha fatto parte del Consiglio superiore della magistratura, l’organo che ora dovrà pronunciarsi sulla sua istanza di pensionamento anticipato. Il via libera è scontato e l’iter dovrebbe essere completato entro nell’arco di un mese o poco più. Sette anni per la giustizia di Maurizio Crippa Il Foglio, 3 febbraio 2022 La cultura politica di Mattarella e l’emergenza trascurata. Quando questo pomeriggio Sergio Mattarella giurerà davanti al Parlamento per il suo secondo mandato da presidente della Repubblica, una cosa “che non dovremmo aspettarci nel testo programmatico che sarà letto… è una forte pressione sulle riforme”. O almeno questo è il consiglio prudenziale offerto sul Corriere della Sera da Marzio Breda, quirinalista espertissimo e per così dire ufficioso. Le previsioni esistono per essere smentite, e il bello delle elezioni sortite più dalla necessità che dal caso è che a volte possono riservare sorprese; ma questo è più che altro un augurio che l’Italia bisognosa di riforme fa a sé stessa, in un giorno importante. Così, aspettando le parole del presidente della Repubblica e mentre i partiti già si attorcigliano nelle trappole della legge elettorale, ci si può augurare che il secondo mandato di Mattarella coincida con una nuova spinta sulla più annosa delle emergenze italiane, il disastro della giustizia: un buco nero che ci rende uno dei paesi meno civili d’Europa e che rischia persino - se non andranno a regime entro pochi mesi i decreti attuativi delle riforme chieste nell’ambito del Next Generation Eu - di metterci ai margini dell’Europa. E su questo tema specifico, accogliendo l’invito alle basse aspettative di Marzio Breda, bisogna con onestà dire che il primo mandato di Mattarella non è stato, per una serie di cause e concause, particolarmente performante. Eppure nei sette anni trascorsi, tra degenerazioni correntizie della magistratura, strascichi di interminabili inchieste-monstre, ripetute condanne europee per la vergogna delle nostre carceri le occasioni per tuonare, dal Colle, non sono mancate. ? Un garantista militante come Piero Sansonetti è giunto a dichiararsi, sul Riformista, deluso della rielezione “perché Mattarella in questi anni si è dimostrato subalterno alla magistratura e in particolare al partito dei pm”, non sufficientemente forte nel contrastare quello che a molti sembra ormai più che un potere costituzionale uno strapotere. Non è necessario essere così severi. Un politico di chiaro impegno garantista come Enrico Costa - tra i protagonisti della lotta per una delle riforme più civili avviate dal ministro Marta Cartabia, la legge sulla presunzione di innocenza - ritiene ad esempio, parlando col Foglio, che non ci sia nulla da rimproverare ai ripetuti appelli e alla moral suasion del presidente, “ha usato spesso parole molto molto forti”, dice: “Credo piuttosto che il vero scontro, ad esempio sulla riforma del Csm che è imminente, sia tra il Parlamento e il governo” in una fase in cui, pre Quirinale, la forza del governo era relativa. C’è un raffronto, quello indicato da Breda, che va considerato. Alla sua rielezione Giorgio Napolitano - diversa tradizione politica e temperamento - una “forte pressione sulle riforme” la esercitò, “investendo addirittura un comitato di saggi del compito di studiarle e prepararne un profilo di fattibilità”. Ma, tralasciando che neppure lo sforzo di Napolitano raggiunse l’esito sperato, quel disegno riguardava l’architettura politica. Qui si vuole restringere il campo all’emergenza della giustizia, di cui Mattarella è ovviamente consapevole. La prima scadenza è la riforma del Consiglio superiore della magistratura, su cui ancora lo scorso novembre Mattarella insisteva per una riforma “non più rinviabile”, e in grado di “sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della competizione elettorale, sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Da presidente del Csm, oltre due anni dopo la deflagrazione del caso Palamara (e del caso Milano, e dello scontro Greco-Davigo) secondo alcuni osservatori Mattarella avrebbe potuto imporre di più. Ma al di là dei ruoli costituzionali, basilari per il presidente costituzionalista, e del garbo istituzionale, va tenuta presente anche la storia politica e personale di Sergio Mattarella. Giurista e docente, l’inizio della sua lunga esperienza politica coincide con l’uccisione da parte della mafia del fratello Piersanti, e l’impegno nella sinistra democristiana fu fin da subito nel segno della “primavera” palermitana, di Leoluca Orlando e dei gesuiti dell’Arrupe, che della vicinanza all’antimafia dei magistrati hanno sempre fatto una bussola politica. La storia italiana ha sempre visto la sinistra dc, a fianco della sinistra, sostenere i magistrati, sorvolando nel caso sopra certe esondazioni. Per temperamento e per visione, uno scontro tra il presidente Mattarella e il roccioso potere dei magistrati - fosse pure il potere d’interdizione sulla riforma della giustizia - è da escludere. Eppure le critiche, e un leggero scetticismo sulla possibilità che il rieletto presidente del Csm, possa suggerire (sempre di suggerimento si parla) cambi di passo radicali non mancano. Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, dice al Foglio che il settennato appena concluso “non ha lasciato traccia nel campo della giustizia penale, né sui temi del processo, delle carceri, della riforma ordinamentale. Mattarella ha pronunciato alcuni appelli al riscatto morale, che ovviamente vanno benissimo, ma il problema è di intervenire sull’ordinamento, non sull’etica”. Dal presidente del Csm, lascia intendere, avrebbe dovuto, e dovrebbe, provenire un’azione più forte. Così, annota, l’attuale riforma del Csm “appare molto debole, e non affronta i nodi più importanti, che non sono certo il sistema elettorale”. Secondo Caiazza, invece, il vero problema del nostro sistema sta molto più nel cattivo controllo qualitativo e degli avanzamenti di carriera, che sono pressoché automatici. Così come, parlando di un altro grande tema, “quello che conta davvero non è la responsabilità civile dei giudici, bensì la loro responsabilità professionale. È questo che andrebbe meglio controllato, e su cui la riforma è debole”. Debole perché, secondo il presidente delle Camere penali, sulla riforma ordinamentale il governo ha accettato di svolgere un confronto per così dire limitato a un faccia a faccia con l’Ann. “Ma come può essere fatta una riforma in cui si va direttamente a trattare con il potere che deve essere riformato?”. Il secondo Mattarella, riflette invece Enrico Costa, “saprà aumentare il peso della moral suasion, anche perché oggi nel Parlamento ci sono forze politiche che sono disposte a sostenere la riforma”. Ma la giustizia è un’emergenza che dovrebbe essere sempre ricordata, ai massimi livelli dello stato. I referendum di cui a breve si conoscerà l’ammissibilità, sono una plateale dimostrazione di quanto i cittadini siano insoddisfatti di una giustizia di cui sono spesso soltanto vittime. Magistratura, riforma gattopardo: a scriverla sono... i magistrati di Errico Novi Il Dubbio, 3 febbraio 2022 Due elementi possono aiutare a capire perché la riforma del Csm sia ormai una sorta di moloch. Il primo è la presenza massiccia di magistrati nello snodo chiave dell’iter, il ministero della Giustizia. Il secondo è la complessità della materia, la sua tecnicità quasi esoterica. Ora, far funzionare le carriere della magistratura e l’intero ordine giudiziario è affare che difficilmente un estraneo al mondo delle toghe padroneggia con la stessa disinvoltura di un addetto ai lavori. Il che fa temere un esito paradossale: se mai ci sarà una riforma del Csm, verrà scritta dai suoi stessi destinatari, i magistrati appunto. Ma andiamo con ordine. Ieri il presidente della commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni, un 5 Stelle di ispirazione progressista e linguaggio moderato, ha provato a lanciare un segnale al governo: “Dalla prossima settimana dovranno tornare all’ordine del giorno due temi centrali: l’ergastolo ostativo e la riforma del Csm, anche questa con tempi stringenti”. Lo ha fatto in coincidenza con l’ennesimo Consiglio dei ministri, quello di ieri, in cui gli emendamenti Cartabia al ddl sui magistrati sono rimasti al palo. Non a caso, il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa aveva scritto a Perantoni, a inizio gennaio, una lettera in cui sollecitava la ripresa dell’esame in commissione anche in assenza delle proposte governative. Perantoni aveva risposto che se ne sarebbe riparlato subito dopo l’elezione del Capo dello Stato. Ci siamo: ma l’esecutivo ancora non batte ciglio. “Potremmo andare avanti da soli, anche perché”, dice Costa interpellato dal Dubbio, “non è detto che il governo debba presentare emendamenti chiusi: può anche esprimere pareri, con eventuali richieste di riformulazione, sulle proposte di noi deputati. Il risultato è lo stesso”. Giusto. Anche perché, fa notare un altro dei parlamentari in prima linea sul dossier Csm, il capogruppo di Forza Italia in commissione Pierantonio Zanettin, “non si può pensare di comprimere il nostro diritto a proporre modifiche solo perché incombe l’elezione del nuovo Consiglio superiore e serve con urgenza un nuovo sistema di voto. Se la riforma è rimasta ferma per tre anni non è colpa nostra”. Chiarissimo anche questo. Zanettin aggiunge: “Circola l’ipotesi di prorogare l’attuale Csm, in modo da fare in tempo a cambiare la legge elettorale. Una beffa. Non ci si doveva ridurre in queste condizioni”. Il quadro insomma è complicato. Anche perché la materia, come detto, è per iniziati. Le regole da introdurre dovranno innanzitutto assicurare un sistema più meritocratico sia nella scelta dei capi degli uffici giudiziari sia nel valutare la professionalità di tutti i magistrati. Si tratta di un universo parallelo, dal punto di vista tecnico-giuridico: chi non fa parte della magistratura difficilmente può averne contezza. Ed è il motivo principale che induce a temere una “regia di fatto” da parte dei magistrati insediati nei diversi snodi del processo legislativo, innanzitutto a via Arenula. Si può citare un esempio: la norma prevista nel testo base - incardinato quando guardasigilli era ancora Alfonso Bonafede - riguardo ai criteri per scegliere procuratori capo e presidenti di Tribunale. Così recita: si delega il governo a “individuare, ai fini della nomina alle funzioni direttive e semidirettive, puntuali parametri e indicatori delle attitudini, questi ultimi suddivisi in generali e specifici e distinti per tipologia di ufficio, da valutare sulla base di criteri ponderali (...)”. Sembra davvero una lingua arcaica. Ma con un po’ di pazienza, si coglie il passaggio chiave: l’espressione “criteri ponderali”. Vuol dire che l’intreccio di parametri valutativi, capace di rendere del tutto arbitraria qualsiasi nomina, va dipanato in base al peso specifico da attribuire, per legge, a ciascuno dei criteri. Un tentativo di rendere meno fluida e opinabile la griglia delle scelte. Ora sarà un caso, ma la commissione tecnica guidata da Massimo Luciani, individuata a marzo 2021 dalla ministra Marta Cartabia per elaborare un restyling del testo Bonafede, ha avuto l’abilità di elidere chirurgicamente proprio il decisivo riferimento ai “criteri ponderali”. A essere maliziosi, verrebbe da sospettare che l’abbiano suggerito i diversi magistrati coinvolti nei lavori della commissione Luciani, consapevoli che attribuire un peso specifico preordinato ai criteri avrebbe reso più rigido il percorso decisionale del Csm. A voler essere non solo maliziosi ma anche polemici, si potrebbe aggiungere che minore rigidità significhi anche maggiore libertà, per le correnti, di far valere l’aspetto politico nelle nomine. “Ma il punto non è mettere in discussione l’onestà intellettuale di un magistrato che lavora per u ufficio legislativo”, osserva ancora Costa, “casomai si discute della visione culturale, delle libere convinzioni tecnico- giuridiche che, in un magistrato, saranno probabilmente diverse rispetto ad altri scienziati del diritto. E per questo che, come Azione, intendiamo proporre una modifica dei ruoli all’interno dei ministeri, in modo che la carriera di addetto all’Ufficio legislativo diventi autonoma da quella in magistratura. Intanto, per consentire che vi accedano più facilmente anche avvocati e accademici. E poi perché un magistrato di carriera è pur sempre sottoposto alle valutazioni disciplinari e professionali del Csm, ma se invece sceglie in via definitiva di optare per un concorso ministeriale e si sottrae così all’organo di autogoverno delle toghe, sarà anche più libero nelle proprie valutazioni”. In definitiva Costa non ha esitazioni nel riconoscere “il rischio che la magistratura, attraverso i presìdi di cui dispone nei passaggi chiave della macchina legislativa, governi questa riforma del Csm. D’altra parte, anche quando un sottosegretario incaricato di seguire i lavori in commissione deve valutare degli emendamenti parlamentari a una riforma in materia di giustizia, sono sempre i magistrati del legislativo che gli preparano le schede per esprimere il parere sulla proposta. E basta un’obiezione tecnica difficilmente controdeducibile da un deputato che non sia super esperto della materia, per orientare in una certa direzione la scelta del governo”. Zanettin condivide con una riserva: “Io ad esempio sono stato consigliere laico del Csm, e conosco la materia, certamente complessa ma, appunto anche alla portata di alcuni fra noi parlamentari: non è detto che la politica sia destinata a non toccare palla”. E comunque, a proposito di passaggi come quello sui criteri ponderali, espunto dai tecnici della commissione Luciani, Zanettin pure offre una lettura diversa: “Non sono sicuro che sia opportuno ridurre a mera robotica, a semplice somma algebrica, l’incrocio fra i diversi requisiti per attribuire un incarico direttivo a un magistrato. È pur sempre giusto, nel caso di un organo di alta amministrazione qual è il Csm, concedere quella che viene definita discrezionalità tecnica, altrimenti tutto è consegnato al giudizio del Consiglio di Stato, come è avvenuto con il recente conflitto sui vertici della Cassazione”. Da ultimo, non si può dimenticare che la riforma del Csm è una legge delega, e che andrà dunque completata con i decreti attuativi, in cui la specializzazione che possono vantare, sulla materia, solo i magistrati e pochi altri, sarà ancor più determinante. Il rischio insomma è che la riforma del Csm sia di fatto scritta dai suoi stessi destinatari resta alto. A maggior ragione se, come teme Zanettin, i tempi dell’esame alla Camera si faranno così stretti da non lasciare neppure, ai deputati, il tempo di capire meglio cosa saranno chiamati a votare. Caiazza: “Che assurdità i giudici arruolati per fare leggi da cui dipende la loro carriera” di Simona Musco Il Dubbio, 3 febbraio 2022 Altro che svolta: la nuova riforma del Csm “sarà scritta dai magistrati, con un metodo parasindacale”. A dirlo è Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, secondo cui per affrontare la crisi della magistratura sarebbe stato necessario affrontare il problema delle valutazioni di professionalità - positive quasi nel 100% dei casi - e dei fuori ruolo. Temi sui quali è proprio l’Ucpi a lavorare per una riforma di iniziativa popolare. “In questo progetto di riforma - spiega Caiazza al Dubbio - si parla solo di sistema elettorale. E francamente non è questa la soluzione alla crisi”. La nuova riforma del Csm è attesa come una svolta. Ma a conti fatti saranno gli stessi magistrati a decidere quale sarà il loro futuro, col rischio che tutto cambi affinché nulla cambi... Questa riforma, diversamente da quella sul processo penale, che ha coinvolto molti più soggetti, tra cui noi, è in corso di definizione tra il governo e l’Associazione nazionale magistrati, secondo una logica parasindacale. Ma una riforma che deve intervenire sulla più grave crisi della magistratura nella storia repubblicana non può essere scritta a quattro mani con l’Anm. Mentre noi penalisti siamo stati, credo proficuamente, coinvolti nella riforma del processo penale, qui siamo stati tenuti fuori, come chiunque altro. Ed è significativo. Questa è la prima osservazione di metodo. Il dibattito si sta concentrando essenzialmente sul sistema elettorale, come se fosse l’antidoto ultimo alla crisi. Basta? No. È un aspetto che consideriamo marginale rispetto alle ragioni della crisi della magistratura. Immaginare che si possa riformare l’ordinamento giudiziario modificando il sistema elettorale del Csm è una sorprendente illusione, che ha colpito anche la politica, negli anni. Non crediamo che ci saranno grandi differenze, qualunque modifica si riuscirà a fare. Sorteggio compreso? Il sorteggio avrebbe certamente un impatto molto forte. Anche se comprendiamo che si arrivi a questa idea per disperazione, da parte di chi vuole riformare, a noi penalisti l’idea del sorteggio non piace. È e rimane una sgrammaticatura democratica, una soluzione disperante e disperata. Se siamo a un livello di crisi così ingovernabile da avere il bisogno sorteggiare i componenti di un organismo costituzionale di quell’importanza siamo veramente alla frutta. Se poi dobbiamo prendere atto che siamo alla frutta va bene. Quali sono i problemi da affrontare con priorità? In primo luogo il problema della progressione delle carriere. Il motivo per il quale il sistema delle nomine non funziona, con le sue derive correntizie, è che le carriere procedono automaticamente, come è noto, con valutazioni positive oltre il 99%. Così, quando si deve scegliere un procuratore capo o il presidente di una Corte d’Appello, si troveranno sempre cinque o sei magistrati che avranno lo stesso curriculum e saranno considerati equivalenti. È naturale, con questo appiattimento. La grande riforma della magistratura passa dunque, prima di tutto, dalla riforma dei meccanismi di progressione di carriera e quindi della valutazione di professionalità, che avrebbe anche il pregio di responsabilizzare il magistrato per ciò che fa. Se il magistrato non risponderà mai a nessuno della qualità del proprio lavoro, come succede adesso, sarà totalmente deresponsabilizzato, perché tanto andrà avanti ugualmente. Di tutto questo, nel progetto di riforma, non c’è nulla, se non l’introduzione di un ulteriore livello di giudizio. Ma è una cosa assurda. La vicenda dei vertici della Cassazione ne è un esempio? I ricorsi al Tar riguardano un’enorme quantità di nomine di magistrati, in tutta Italia. Dovrebbe essere la magistratura a capire, per amor proprio, che deve recuperare dei meccanismi di merito nell’avanzamento delle carriere, in modo da non dover vedere sindacare ogni cinque minuti le proprie scelte e le proprie stesse regole. Sa, le circolari sulle valutazioni quadriennali sono severissime e presuppongono un’analisi veramente approfondita per far andare avanti chi merita e lasciare indietro chi non merita. Ma è carta straccia. Questa valutazione è stata annientata, in nome di principi di autonomia e indipendenza, con la conseguenza che non si sa più chi sia capace e chi no. E lo decide il Consiglio di Stato, il che crea un problema di tensione istituzionale molto forte tra magistratura ordinaria e amministrativa. Quest’ultima vicenda è clamorosa perché colpisce i vertici della magistratura, e grave perché queste decisioni non possono intervenire dopo due anni che si esercitano le funzioni. Ma non è una cosa nuova: è la conseguenza di quella gravissima disfunzione. È proprio per questo che noi stiamo lavorando a due grandi leggi di iniziativa popolare su distacchi dei magistrati e valutazioni professionali. Lavorandoci posso dire che non è facile costruire un’alternativa. Quindi non banalizzo, ma bisogna farlo. L’altro tema è, appunto, quello dei fuori ruolo, sul quale più volte l’Unione delle Camere penali ha posto l’accento... Abbiamo appreso con soddisfazione dell’inserimento di una delega che prevede, molto genericamente, una riduzione del numero dei magistrati fuori ruolo presso l’esecutivo. È un piccolo segnale di attenzione nei riguardi di una tematica cruciale, perché questa è una cosa unica al mondo. Ma dovrebbe essere una riduzione prossima all’azzeramento: non si capisce per quale ragione un magistrato che vince un concorso dovrebbe andare a fare una cosa diversa dal concorso che ha vinto, laddove poi c’è una carenza di giudici e di magistrati. E non è solo un problema di percentuale, ma anche di ruoli apicali, cioè politici, che dovrebbero essere preclusi al magistrato, per evitare la commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo. Ci vadano i funzionari di carriera, i professori universitari: perché ci deve andare un magistrato? Noi pensiamo che le leggi le facciano il Parlamento e il governo e che la magistratura le applichi. Questa cosa che la magistratura debba scrivere le leggi e soprattutto su se stessa e sulla riforma di se stessa a noi pare un’assurdità. Altro punto è la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari... E si torna al grande tema della valutazione professionale. Nel momento in cui diciamo che bisogna far saltare in aria questo sistema ipocrita delle valutazioni quadriennali, un ruolo importantissimo sarebbe proprio quello degli avvocati. La loro è la voce del foro. Guardi, capisco la delicatezza, perché il diritto di voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari diventa un’assunzione di responsabilità enorme ed esige una indipendenza di giudizio veramente straordinaria, perché l’avvocato dovrà esprimere un giudizio sui magistrati con i quali deve lavorare tutti i giorni. Siamo consapevoli che si tratti di qualcosa che richiede un impegno formidabile, anche eticamente. Ma come si può immaginare che la voce dell’avvocatura non debba avere peso nel giudizio dell’operato di un magistrato? Il concorso per magistrati? Un disastro: a rischio la copertura dei posti di Valentina Stella Il Dubbio, 3 febbraio 2022 L’esame per aspiranti togati è una carneficina: secondo i dati di Via Arenula, i candidati promossi sono solo 127, il 5,9 di quelli esaminati. I dati sul concorso per l’accesso in magistratura stanno restituendo un quadro allarmante della preparazione degli aspiranti togati: come riportato dal sito del Ministero della Giustizia, è bassissima la percentuale degli idonei al concorso per 310 posti, bandito nel 2019 ma le cui prove scritte, a causa della pandemia, si sono tenute solo lo scorso luglio. Su 2.152 compiti corretti, solo 127 sono stati promossi, ossia il 5,9% di quelli esaminati. Sinora la Commissione esaminatrice ha corretto più della metà degli scritti, in base ai dati aggiornati al 31 gennaio. La scorsa estate si erano presentati per sostenere le prove 5.827 candidati ma consegnarono in 3.797. Il tema estratto per il diritto civile riguardava il “danno biologico, danno morale e personalizzazione del danno”, quello per diritto penale la “natura della responsabilità dell’ente per reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio”. Se il trend così alto di bocciature dovesse proseguire, il rischio concreto è di non riuscire a coprire i posti banditi. A mettere in evidenza le dimensioni del problema è anche il raffronto con l’esito di un altro concorso molto selettivo: quello per 400 posti da notaio, bandito nel 2019. La correzione delle prove scritte, consegnate da 1577 candidati, è cominciata il 18 gennaio di quest’anno, riferisce l’Ansa. E alla data del 31 gennaio scorso su 41 elaborati esaminati gli idonei sono risultati 6, cioè il 17%. Una percentuale più che doppia rispetto a quella dei promossi tra gli aspiranti magistrati. Un problema non nuovo e che “deve essere affrontato”, ha sottolineato in più occasioni la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Preoccupazione sulla formazione degli aspiranti magistrati è stata espressa anche dal primo Presidente di Cassazione Curzio che, all’ultima inaugurazione dell’Anno giudiziario, ha sottolineato: “Le ultime esperienze concorsuali (per l’accesso alla magistratura, ndr) mostrano una costante difficoltà nel coprire tutti i posti banditi, facendo sorgere il ragionevole dubbio che molti corsi universitari non riescano a fornire le basi per il superamento del concorso”. D’altra parte nelle scorse settimane, Il Dubbio aveva affrontato la questione con la Consigliera del Cnf Francesca Sorbi e con il professor Giovanni Pascuzzi. Era emerso che la riflessione va ricondotta in quella più ampia sulla preparazione del laureato in giurisprudenza ad affrontare i concorsi pubblici e che bisogna porsi una domanda fondamentale: i corsi di laurea in Giurisprudenza non sono più quelli di una volta oppure non sono ancora ciò che dovrebbero essere? Proprio a tal proposito il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli studi di Milano, consigliere della ministra della Giustizia e componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura, parlando al Dubbio aveva auspicato una riforma del corso di laurea in legge “prevedendo esercitazioni e prove scritte obbligatorie nelle varie materie, a partire da quelle oggetto delle prove scritte nel concorso per magistratura e nell’esame di avvocato. La didattica per le professioni legali e per i concorsi o esami di abilitazione non può essere estranea all’università, a quella pubblica in specie, ed essere rimessa a corsi privati, come oggi per lo più avviene”. La necessità di un cambiamento è condivisa anche dall’Unione Praticanti Avvocati che, con la Presidente Claudia Majolo, fa sapere che nei mesi scorsi si sono svolti incontri istituzionali presso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca duranti i quali è stata condivisa la proposta di riforma. Secondo l’Upa, in affiancamento alla didattica tradizionale, occorre introdurre dei veri e propri laboratori di scrittura. “In tali laboratori - scrive Majolo in una nota - lo studente sarà chiamato a redigere in prima persona pareri e atti giudiziari, così da apprendere le migliori tecniche di scrittura. Inoltre, si è proposto di creare delle “cliniche legali”, permettendo agli studenti di confrontarsi e affrontare - sotto la guida e la responsabilità del docente - dei casi concreti”. Con riguardo alla specializzazione, invece, la proposta di Upa “prevede la rimodulazione del corso di laurea in due momenti: un percorso triennale comune e un biennio di specializzazione, strutturato a seconda del percorso che lo studente decide di intraprendere”. Ora un Coordinamento “Sì ai referendum” di Riccardo Magi* Il Riformista, 3 febbraio 2022 Di fronte alla crisi dei partiti, la partecipazione referendaria è linfa vitale per la democrazia rappresentativa. Per salvarsi non basta una legge elettorale. La dinamica dell’elezione presidenziale dimostra ben di più dell’inadeguatezza delle leadership. È la manifestazione deflagrante di una crisi costituzionale. Abbiamo assistito allo spettacolo di un sistema che ha perso credibilità e legittimazione e al quale non è più riconosciuta rappresentanza. Ha perso cioè l’essenza di una democrazia rappresentativa. Di fronte a ciò, vecchi leoni della partitocrazia e giovani professionisti dell’antipolitica gridano in coro che il ritorno del proporzionale ci salverà, perché darà modo ai partiti di ricostruirsi e, quindi, al sistema di acquistare stabilità e credibilità. In quest’analisi c’è un punto condivisibile, che segna un indubbio passo avanti, e un altro che alimenta il sospetto di disonestà intellettuale. È corretto individuare nella fragilità dei partiti un vulnus strutturale dell’intero sistema politico e istituzionale. Sono inconsistenti perché non riescono a produrre analisi dei problemi della società, proposte di governo e tantomeno classe dirigente; perché sono ostaggio di leadership padronali e volatili affette da bulimia comunicativa. Ma c’è un dato che li accomuna più di tutti e che non bisogna nascondersi perché riguarda direttamente la crisi sotto gli occhi di tutti: i partiti non fanno congressi e non vivono democraticamente. Non sono cioè strumenti attraverso i quali i cittadini partecipano alla determinazione della politica nazionale. Sono piuttosto strumenti perfettamente funzionali all’allontanamento dei cittadini dalla vita politica. E hanno centrato l’obiettivo assicurando un’astensione ormai pressoché maggioritaria. Per questo un ritorno al sistema proporzionale non può determinare una riforma della politica. Lo si può chiedere, legittimamente, per perseguire un progetto politico, ma promettendo di voltare pagina. Serve invece conquistare una stagione di riforme che non si limiti alla legge elettorale ma investa l’assetto istituzionale, il funzionamento del Parlamento, le regole sulla vita interna dei partiti, il rafforzamento delle forme di partecipazione dei cittadini. L’obiettivo deve essere rivitalizzare il sistema politico istituzionale valorizzando l’esercizio della sovranità popolare attraverso il voto referendario non meno che attraverso quello per le elezioni politiche. Troppo ambizioso? Allora si cominci subito da un impegno comune tra chi crede che serva una risposta concreta. Diamo vita a un Coordinamento “Sì ai Referendum” che impegni in modo trasversale forze politiche, associazioni e singole personalità per chiedere ora e con forza che la prossima primavera sia garantito ai cittadini italiani di esprimersi democraticamente sui referendum su Cannabis, Eutanasia e Giustizia e che sia garantita loro una informazione adeguata e corretta sui temi oggetto dei quesiti. Non si tratta di esercitare una pressione inopportuna sulla Consulta che giudicherà l’ammissibilità dei quesiti, ma di valorizzare e sostenere l’importanza, vitale per la nostra democrazia in questo particolare momento, di quell’appuntamento referendario. Chi ha a cuore la sorte della nostra democrazia rappresentativa sa quanta linfa essa può ricevere dal dibattito pubblico e dalla partecipazione referendaria. Chi ne ha paura e spera di evitarli non si salverà né con il proporzionale né con altre leggi elettorali e contribuirà all’aggravarsi della delegittimazione dell’intero sistema. *Deputato e Presidente di Più Europa “Il Nord? È terra di mafia”. Le cosche aspettano i fondi Ue di Antonio Maria Mira Avvenire, 3 febbraio 2022 L’allarme del procuratore generale di Bologna Lucia Musti in vista dell’arrivo dei fondi da Bruxelles. “È storia: ogni volta che c’è un evento straordinario, dal terremoto al Pnrr, i clan intervengono sempre”. “È storia: ogni volta che c’è un evento straordinario, dal terremoto al Pnrr, le mafie intervengono, sono sempre intervenute, perché si tratta di eventi appetibili, occasioni di guadagno”. È il preciso allarme del procuratore generale di Bologna, Lucia Musti, magistrato che da più di trenta anni combatte gli affari delle mafie in Emilia Romagna, prima il clan camorrista dei “casalesi”, poi quelli della ‘ndrangheta. Con alcune convinzioni, frutto proprio di tante inchieste. “La storia dell’Emilia Romagna induce a ritenere che le risorse culturali per contrastare le mafie ci siano. Fermo restando quanto accertato dalle sentenze, soprattutto il processo “Aemilia”, giunto in appello il 17 dicembre 2020. Effettivamente come ho detto nell’intervento di apertura dell’anno giudiziario “dobbiamo evidenziare che all’iniziale infiltrazione delle mafie nella nostra regione è succeduto l’insediamento fino all’attuale radicamento”. Un’analisi che ad alcuni non è piaciuta, ritenendola esagerata. “I critici - risponde il procuratore - portano indietro la storia dell’antimafia almeno di 20 anni. Quando ti dicono una cosa che non è gradita tu cerchi sempre, come prima reazione, di negarla. È un comportamento umano, normale. Poi in certi casi si aggiungono anche alcuni interessi. Ma non si può dire che faccio male all’economia emiliano-romagnola, perché anzi voglio preservare l’economia sana emiliano-romagnola”. Ma i fatti giudiziari sono molto chiari. Sempre nella sua relazione il procuratore aveva detto che “è il caso di evidenziare che il Distretto dell’Emilia Romagna è - a buon titolo - un Distretto di mafia, in quanto la Direzione distrettuale antimafia istruisce “maxi indagini” e si celebrano maxi processi”. E aveva elencato ben otto sentenze passate in giudicato per 416bis, associazione mafiosa, con decine di pesanti condanne. “Penso che dia fastidio alle terre del Nord, che hanno effettivamente una storia diversa da quelle del Sud, che adesso loro sono terre di mafia. Terre di mafia di importazione, prede ambite, ma ormai siamo alla terza generazione di ndranghetisti. Ad esempio nel processo “Grimilde” che sto iniziando, c’è il nipote del boss Nicolino Grande Aracri”. Sempre nella relazione aveva spiegato che “si tratta di una complessissima indagine, ulteriore espressione di Aemilia, con protagonista sempre la famiglia Grande Aracri, ancora una volta espressione dell’elevato grado di imprenditorialità che connota la ‘ndrangheta emiliana, con il coinvolgimento indispensabile dei colletti bianchi e la piena condivisione da parte di personaggi nativi dell’Emilia Romagna nella piena consapevolezza della proficua collaborazione con la criminalità organizzata per la riuscita dei loro affari”. Non solo ‘ndrangheta. La dottoressa Musti ricorda che quando era pm antimafia alla Dda di Bologna indagò su Castelfranco Emilia dove i casalesi erano fortissimi. “In un convegno dissi che se si attraversava il corso principale, su un marciapiede si parlava casalese, sull’altro modenese”. Ai casalesi ha reso la vita impossibile. Volevano ammazzarla. Evidentemente l’azione di contrasto aveva funzionato. Ma a preoccuparla è soprattutto l’atteggiamento di alcuni cittadini emiliano-romagnoli. “Se c’è collusione lo potranno accertare solo le indagini”, precisa, ma nella relazione aveva sottolineato come “dalla corretta lettura delle indagini e dei processi contro la ‘ndrangheta che si sono svolti in Emilia Romagna, è evidente che non è più una questione di presenza di mafiosi, di diffusione della mentalità, ma piuttosto di condivisione del metodo mafioso anche da parte di taluni cittadini emiliano-romagnoli, imprenditori e cosiddetti colletti bianchi, ovverosia professionisti, i quali hanno deciso che “fare affari” con la ‘ndrangheta è utile e comodo”. Così, “alla condivisione è seguita la nascita di un metodo nuovo mafioso autoctono dell’Emilia Romagna, che risente fortemente del territorio altamente produttivo che annovera numerose eccellenze, anche mondiali, che hanno fatto dell’Emilia Romagna una “preda ambita”. Combattere le mafie va oltre la lotta ai clan. “Ci impegneremo - aveva detto il procuratore - per una giustizia che avvicini tutti, anche e soprattutto gli ultimi, i sofferenti, i soli, al servizio che noi forniamo, perché trovino in queste aule risposte certe, rapide, soluzioni che contribuiscano a realizzare, in concreto, il principio di eguaglianza”. Un impegno che ci tiene a ribadire in questo colloquio: “La giustizia è giusta se veramente riesce ad essere vicina ai deboli, quelli che hanno più bisogno. Chi ha disponibilità di denaro si paga gli avvocati bravi, i consulenti bravi, chi non ha gli strumenti adatti rischia di essere bistrattato. E questo è un ragionamento lontanissimo dalla cultura mafiosa, che è la cultura della prevaricazione, del più forte”. Giancarlo Pittelli e la natura delatoria di una giustizia da rifare di Iuri Maria Prado linkiesta.it, 3 febbraio 2022 A prescindere dall’esito del processo dell’interessato (che non c’entra), la ministra Carfagna che consegna alla polizia la lettera-sfogo del collega e le teorie cospirazioniste di chi guida l’indagine sollevano interrogativi e dubbi. Che Giancarlo Pittelli, prima del processo che deve accertarne la responsabilità, sia stato messo e rimanga in galera per effetto di una specie di delazione di una ministra che gira agli sbirri l’implorazione con cui il detenuto la pregava di interessarsi al suo caso, e in forza di cure giudiziarie assicurate da una procura della Repubblica al cui vertice siede un magistrato che scrive prefazioni a libri di autori responsabili della divulgazione di teorie neonaziste, rappresenta una cornice non tecnica, ma per il resto oscenamente significativa, della giustizia che comanda quella detenzione. La società che affida a un parlamentare, per giunta ministro, di rappresentare la nazione, e ai magistrati il potere di accusare e giudicare i cittadini, ha il diritto di sorvegliare il profilo e i comportamenti di questi funzionari pubblici, e di denunciarne l’inadeguatezza a prescindere dal fatto che essi si siano tenuti nel perimetro della legge. La notizia, non smentita dall’interessata, secondo cui l’onorevole Mara Carfagna avrebbe consegnato alla forza pubblica la lettera che le aveva spedito Pittelli, e che ha determinato l’ulteriore imprigionamento dell’indagato, non descrive un abuso perseguibile di quella passacarte, ma un suo gesto a dir poco irrispettabile senz’altro sì. E così il fatto che sia la procura calabrese a perseguitare quel detenuto, di per sé, non destituisce l’indagine di legittimità formale, ma i cittadini che assistono all’esercizio di questo tipo di giustizia hanno il diritto, e forse il dovere, di ricordare che a capitanarla è chi considera “fisiologica” una certa aliquota di innocenti carcere, e che l’indagine in cui è coinvolto Pittelli costituisce il compimento della “rivoluzione” annunciata da quel procuratore a margine del rastrellamento di trecentocinquanta persone, molte delle quali poi liberate per la semplice e tremenda ragione che non esistevano motivi che ne giustificassero l’arresto: una “rivoluzione” - ricordiamolo - che nell’intendimento di quel magistrato avrebbe dovuto smontare e rimontare un pezzo di Paese come un giocattolo. Che, poi, un magistrato di elevatissimo rango, oltretutto abituato a interferire pesantemente nel dibattito pubblico, faccia comunella editoriale con gente responsabile non solo di un neo-scientismo trash rivolto a inquinare lo stato delle conoscenze sulle cause dell’epidemia (i vaccini “acqua di fogna”), ma responsabile inoltre di pubblici comportamenti che recuperano e ripropongono la più volgare e pericolosa narrativa antisemita (gli ebrei che hanno in mano “tutte le lobby economiche e le lobby farmaceutiche e la grande finanza”), non dice nulla, appunto sul fronte tecnico, a proposito della condizione di chi sia vittima, come Pittelli, di quell’operazione giudiziaria: ma dice tutto sulla temperie civile e sull’assetto di potere che rende possibile una simile enormità, vale a dire che l’amministrazione della giustizia resti affidata a chi dia tal prova di sé, oltretutto in un tripudio di celebrazioni. Lo ripetiamo a costo di apparire noiosi: qui non si discute delle responsabilità di Pittelli, di cui nulla sappiamo, né, per sé considerati, dei provvedimenti restrittivi che lo riguardano, per quanto essi sentano, e molto, di ingiustificata gravità e durata. Si discute piuttosto del milieu delatorio da cui gemma questa presunta giustizia, e del volto civilmente discutibile che essa assume quando è impersonata da certuni. Molise. Carceri sovraffollate, i 5S hanno la soluzione: “mandiamo più agenti” di Errico Novi Il Dubbio, 3 febbraio 2022 Una nota dei consiglieri pentastellati prima denuncia il sovrannumero di reclusi negli istituti della regione, poi anziché invocare misure deflattive per sottrarre i detenuti alle condizioni inumane, chiede rinforzi per la polizia penitenziaria, in modo da reagire meglio a “episodi di violenza e tentativi di evasione”. Leggi e inizialmente sei persino piacevolmente sorpreso. Perché stavolta a denunciare il sovraffollamento delle carceri sono i 5 Stelle, più precisamente i consiglieri regionali del Movimento in Molise: una loro nota, diffusa ieri, spiega che nella piccola realtà molisana c’è un “pesante sovraffollamento delle case circondariali e di reclusione” e “ad attestarlo è l’ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione presentato dall’associazione Antigone: a fronte di una capienza di 271 posti, le nostre carceri ospitano attualmente 344 detenuti. Abbiamo dunque il 126% di sovraffollamento”. Allora, ci sarebbero almeno due buone notizie: i pentastellati si preoccupano delle celle pollaio, delle condizioni inumane in cui sono costretti a vivere i detenuti; per giunta citano un’associazione come Antigone che certo non condivide la tradizionale ottica “retributiva” (cioè punitiva) del Movimento in materia di esecuzione penale. Sarà pure il piccolo Molise, ti dici ancora, ma magari è il primo segno di una svolta. Solo che poi scorri il comunicato dei consiglieri 5S e dalla piacevole sorpresa scivoli nella più assoluta delusione: quella dei reclusi molisani pigiati in carceri così sovraffollate “è una condizione già grave di per sé, ma ulteriormente peggiorata dalla carenza di personale, divenuta insostenibile proprio negli ultimi anni”. E che c’entra la carenza di personale? C’entra, per il Movimento, perché gli attuali vuoti nell’organico degli agenti provocherebbero “sempre più spesso episodi di violenza, aggressioni e tentativi di evasione, costantemente denunciati dai sindacati di categoria”. Fateci capire: quindi voi il problema del sovraffollamento non ve lo ponete dal punto di vista dei detenuti trattati in modo disumano, ma perché ne deriva una tale insofferenza, un tale malessere, che non di rado si creano situazioni di tensione con la polizia e si assiste anche a qualche atto di violenza. Quindi chiedete che il tutto si risolva non attraverso misure deflattive, un maggiore ricorso all’esecuzione penale esterna, no: i detenuti volete lasciarli lì pigiati nelle celle, basta che ci siano più agenti cosi in caso di rivolte siamo sicuri che abbiano la meglio. Ecco, la “piacevole sorpresa” iniziale era solo il frutto di un malinteso. Alla delusione si aggiunge un altro motivo di sconcerto: nella loro nota i consiglieri regionali pentastellati si compiacciono di essere riusciti a far approvare all’unanimità, nel parlamentino di Campobasso, una mozione che sollecita “l’impegno del governatore Toma presso il ministero della Giustizia per ripristinate le piante organiche previste dal 2017”. Cioè, nessuno che in Consiglio regionale si sia alzato e abbia detto: signori d’accordo, gli agenti sono in difficoltà, ma è mai possibile che per voi va tutto bene se lasciamo i detenuti ammassati in modo vergognoso?”. No, non l’ha detto nessuno, o almeno nessuno ha preteso che la mozione cambiasse verso. A cominciare dalle piccole realtà come il Molise, il rinsavimento della politica sul carcere è ancora di là da venire. Venezia. Covid, maxi-focolaio in carcere: 71 contagiati. “Non isolati” Corriere del Veneto, 3 febbraio 2022 I primi casi emersi una decina di giorni hanno fatto scoppiare un maxi-focolaio: sono 71 i detenuti positivi del carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia. E a questi vanno aggiunti anche 7 lavoratori, a loro volta contagiati. All’inizio erano risultati positivi 11 detenuti, che avevano portato all’isolamento di altri 61. Quest’ultimi erano tutti asintomatici e, come si legge nel report diffuso allora dal Ministero della Giustizia, nessuno di loro era stato isolato in camera singola. Nella documentazione si specifica infatti che i 61 carcerati erano stati sottoposti a regime di “isolamento con altri detenuti”. A distanza di una sola settimana il cluster all’interno di Santa Maria Maggiore, che ospita poco più di 200 carcerati, si è allargato in maniera esponenziale. “I numeri parlano da sé: all’interno della struttura un detenuto su tre è contagiato - sottolinea Gianpietro Pegoraro, Cgil - mi sembra evidente che qualcosa nei protocolli sanitari previsti non funzioni. È necessario intervenire velocemente prevedendo una campagna di screening periodico a cadenza stretta come avviene negli ospedali. Una campagna di test a tappeto, con tamponi sia sui detenuti che sui lavoratori in modo da riuscire a garantire la sicurezza e la salute di entrambi”. Non è la prima volta che nel carcere veneziano scoppia un focolaio. L’ultimo, di vaste dimensioni, era divampato a metà dicembre quando erano risultati positivi 21 detenuti e cinque lavoratori. Ma un cluster, in questo caso contenuto nei numeri, ha interessato anche il carcere femminile alla Giudecca dove sono risultate positive una detenuta e quattro lavoratrici. Vicenza. Covid, in carcere 42 contagiati. “E non può che peggiorare” Corriere del Veneto, 3 febbraio 2022 “Nella casa circondariale di Vicenza il numero dei positivi e in aumento: nell’ultimo report ufficiale risultano positivi 31 detenuti e 11 dipendenti, ma la situazione è in continua evoluzione e ad oggi potrebbe essere ancora più grave”. Lo denuncia la Cgil Funzione Pubblica che si dice preoccupata per la situazione “che incide negativamente sul poco personale che lavora al suo interno”. Perdipiù “l’aumento dei casi positivi indica anche che i protocolli non hanno funzionato, o che hanno funzionato solo in parte”. Per questo il coordinatore regionale Veneto Fp Cgil penitenziari Gianpietro Pegoraro assieme al segretario provinciale di Vicenza Andrea Mantiero sollecita una “revisione dei protocolli, anche perché - spiega - la tutela di chi lavora va posta in primo luogo, data anche la particolarità del lavoro”. E ancora: “Come Fp Cgil riteniamo non derogabile assicurare a questi particolari lavoratori, con cadenza regolare, di essere sottoposti a tampone - continuano i sindacalisti - Come anche di assicurare al personale che vive in caserma una struttura idonea in grado di ospitarlo, poiché le condizioni dell’attuale caserma sono precarie per contenere il personale di polizia penitenziaria sottoposto a isolamento sanitario per essere positivo al Covid”. Il riferimento è alle stanze della caserma che non dispongono di docce in camera: “Docce poste nei lati del corridoio - sbottano - e ne funzionano solo tre su nove”. Altro aspetto che riguarda la carenza di organico (90 unità secondo i più recenti dati) è relativo ai trasferimenti dei detenuti al palazzo di giustizia “viene impiegato un numero di unità superiori a quello previsto, poiché gli automezzi della polizia penitenziaria vengono fatti sostare al di fuori del tribunale”. Di qui la necessità, per la Cgil, di “avvalersi del poco personale presente in modo più efficiente, consentendo agli automezzi coi detenuti di accedere alle aree di sosta interna del tribunale”. Interventi considerati “facilmente realizzabili” e che “rappresenterebbero un segnale di attenzione al personale, sottoposto a condizioni di lavoro davvero complicate”. Napoli. Portare l’università nelle carceri, l’impegno di Marella Santangelo di Emanuele La Veglia vanityfair.it, 3 febbraio 2022 Con delega al Polo Universitario Penitenziario (PUP) all’Università Federico II di Napoli, Marella Santangelo si impegna perché i detenuti possano seguire dei corsi di laurea. Potrebbe essere l’occasione: per le persone in detenzione quel tempo in prigione potrebbe essere usato (anche) per recuperare lo studio non fatto e magari portarsi a casa un titolo universitario. Certo, le difficoltà non sono poche, ma c’è chi si batte perché questo possa essere possibile, proponendo “esperienze didattiche straordinarie”, magari azzerando pure le tasse. Marella Santangelo, nata a Napoli nel 1964, a 23 anni si è laureata in Architettura all’Università Federico II, ateneo all’interno del quale ha la Delega al Polo Universitario Penitenziario (PUP), uno dei quarantuno esistenti in Italia (il primo nacque a Torino, con l’obiettivo di dare una possibilità ai detenuti politici per continuare il proprio percorso). Dove si tengono le lezioni? “Il Polo è ubicato nel Carcere di Secondigliano, per gli uomini, e a Pozzuoli per le donne e offre otto corsi di laurea a quasi cento tra studenti e studentesse, con una sezione di alta e una di media sicurezza. Il progetto coinvolge più di ottanta docenti, venti tutor, il corpo di polizia penitenziaria e gli operatori dell’Istituto, che si distinguono per grande entusiasmo e professionalità. Quest’anno, nel Polo, avremo i primi laureati triennali!” Come si è avvicinata a questo mondo? “Nel 2005 fui invitata dalla Triennale di Milano a partecipare al Comitato Scientifico costituito in occasione della Mostra evento La rappresentazione della pena. Il carcere invisibile e i corpi segregati, un insieme di dibattiti e seminari tenutosi in un periodo nel quale non si parlava praticamente mai dell’argomento. Da allora mi sono dedicata allo spazio della detenzione come principale linea di ricerca, costruendo una solida rete di relazioni tra la mia Università e gli uffici del Ministero della Giustizia e arrivando a stipulare il primo Accordo di collaborazione tra un Dipartimento di Architettura e un Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. Quando, nel 2014, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo, per “trattamento inumano e degradante” dei detenuti, ha dovuto mettere in atto, nell’immediato, una serie di provvedimenti. Ed io sono stata chiamata come esperta a uno dei diciotto tavoli di lavoro”. La sua è una scelta molto forte, cosa comporta? “Significa entrare in contatto, nel quotidiano, con un’umanità dolente, dove l’individuo, già privato della libertà in seguito alla condanna, vive il carcere come un inasprimento della pena stessa. Dignità e diritti sono calpestati, di frequente, in modi gravissimo e i luoghi, che dovrebbero avere un ruolo centrale, finiscono per diventare qualcosa di negativo. Eppure è qui che bisogna ragionare per ottenere benessere e assicurare una maggiore qualità dei servizi. Serve la certezza che il tempo tra le mura non passi invano ma che sia un periodo di attività, finalizzato a ricostruirsi”. Una risposta che può arrivare dall’architettura, suo àmbito di competenza… “Come ho detto in occasione di un incontro a Firenze, il nostro è un “mestiere meraviglioso” che può migliorare le cose e in particolare, da donna, mi sento di poter essere artefice del cambiamento. L’altissimo livello delle architetture ideate e realizzate da donne ci dice che stiamo, comunque, procedendo bene”. Iniziative che partono da donne, ma anche rivolte alle donne. “Sì, ad esempio nel caso dell’Istituto a custodia attenuata per madri con bambini, a Lauro, in provincia di Avellino. Un’esperienza bella ma straziante: non è concepibile un terreno di vita per bambini che sia al contempo di detenzione. Le donne in carcere, rispetto agli uomini, sono poche e la loro condizione specifica è assolutamente ignorata, il carcere è maschile. Una bella notizia è che stiamo fondando, a Benevento, il primo Polo Universitario Penitenziario femminile italiano”. Quali difficoltà comporta la strada da lei intrapresa? “Si tratta di un ambito complesso, poco attrattivo e sicuramente non di moda e l’idea è di restituire alla mia disciplina il ruolo civile e politico nel quale credo profondamente. Ultimamente, nel nostro Paese, l’architettura si è rivelata, in parte, autoreferenziale. Un fenomeno che appare evidente dalla perdita del valore simbolico degli edifici istituzionali e più rappresentativi della società: dalle scuole agli ospedali, passando appunto per il carcere o per il teatro. Bisogna evidenziare la forza che può avere un progetto sull’esistenza stessa delle persone, soprattutto di quelle più fragili e sfortunate, diventando, quindi, veicolo di inclusione”. Venezia. Evento online: “L’arte come strumento per rieducare in carcere” di Matteo Frigerio agenziastampa.net, 3 febbraio 2022 Si terrà il prossimo 25 febbraio - dalle 15.00 alle 18.30 - “Arte in Carcere”, un evento online per informare sull’importanza di usare l’arte come strumento che possa favorire la funzione rieducativa del carcere, la formazione della personalità e il recupero dei detenuti. Il webinar, promosso dall’Associazione Nazionale Forense di Venezia, è il primo dedicato a questo argomento tanto attuale in un momento in cui si parla molto di resilienza, anche se il carcere continua a essere un luogo negletto. L’evento, che si rivolge agli avvocati penalisti ma è utile e fruibile da chiunque si occupi di rieducazione in qualsiasi contesto, vedrà tra i relatori personaggi di notevole peso nell’ambiente penitenziario italiano: il professor Mauro Palma (Garante nazionale dei diritti delle persone detenute), l’architetto Cesare Burdese (membro della Commissione ministeriale per l’architettura carceraria) e la dottoressa Sibyl von der Schulenburg (presidente dell’associazione Artisti Dentro Onlus). La creatività come strumento per ritrovare i propri spazi mentali, anche in carcere. “L’articolo 27 della Costituzione - precisa Sibyl von der Schulenburg - riconosce ai detenuti il diritto alla rieducazione, anche se in Italia questo diritto non è sempre tutelato tanto che il tasso di recidiva si aggira intorno al 70-75% (quello norvegese è del 20%). Fanno eccezione le poche carceri modello come quello di Bollate, una struttura modello che vanta un tasso di recidiva attorno al 17%. Un detenuto mentalmente più sano sarà anche più facilmente recuperabile, con un vantaggio per lui e soprattutto per l’intera collettività. Con le attività della nostra associazione proviamo a dar voce ai detenuti e diamo loro la possibilità di interagire con quello che c’è fuori affinché possano, attraverso i nostri progetti, partecipare alla vita del mondo libero con un duplice scambio: loro si aprono al mondo e il mondo li accoglie”. Per maggiori informazioni e per iscriversi consultare il sito: www.ffbve.it. L ‘evento è gratuito ed aperto a tutti. Quei cento giudici e le porte girevoli con il mondo politico di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 3 febbraio 2022 Il nuovo saggio di Sergio Rizzo “Potere Assoluto”. Il fantasma di Affilio Brunialti non ha mai smesso, in fondo, di turbare i sonni dei suoi successori. Con la sua aura di astuzia e competenza, certo, qualità principali anche delle generazioni di consiglieri dopo di lui: le stesse doti che lo portarono a dirimere magistralmente, nel lontano 1907 (ancora in tempi di Non expedit e mangiapreti), una questione esplosiva sui crocefissi, da rimuovere o meno nelle scuole, grazie a un memorabile “escamotage evasivo” (il crocefisso, come la lavagna, “è suppellettile essenziale” in aula); ma anche col suo fardello di spregiudicatezza, che lo trascinò nel 1913 sotto accusa davanti ai suoi colleghi, per arbitrati opachi. La medesima spregiudicatezza che, nella sua ultima fatica saggistica, Sergio Rizzo pare attribuire a una parte non proprio minore di chi riempie oggi (e ha riempito in tempi recenti) le stanze ovattate di Palazzo Spada, nella Roma antica del rione Regola. Un edificio cinquecentesco ignoto a tanti, eppure sede di un vero gnommero di poteri e sottopoteri incrociati in modo quasi mai illegale ma spesso e volentieri incestuoso, tra coincidenze di controllori e controllati, generose prebende e dorate remunerazioni: il Consiglio di Stato, organo decisivo nella risoluzione dei rapporti, talora assai conflittuali, tra Stato, amministrazioni pubbliche e privati. “Potere Assoluto”, in uscita per Solferino in questi giorni, mette così a fuoco (e sul fuoco, nel senso di... graticola) “i cento magistrati che comandano in Italia”: e, comandando davvero, lontano dai riflettori della pubblica vanità, sono dunque spesso sconosciuti, tranne che agli addetti ai lavori. Rizzo ce li svela nella loro umanissima natura. A quindici anni da “La Casta” che, scritto con Gian Antonio Stella, gli valse la notorietà (denunciando come certa politica caricaturale fosse diventata oligarchia insaziabile) e, forse non casualmente, nel trentennale di Mani pulite, ci racconta come chi decide sul serio nel Belpaese non siano né i politici né i pubblici ministeri, tanto spesso in conflitto tra loro, ma quei dotti mandarini che alla politica sono assai prossimi e rappresentano “la scheggia più autoreferenziale della magistratura”. Quelli che scrivono leggi e decretano come applicarle. Hanno “in mano i ministeri”, “che i ministri gli danno volentieri in gestione chiamandoli a fare i capi di gabinetto” grazie agli “incarichi fuori ruolo”. Quelli che possono cambiare con una sentenza il destino di interi settori dell’economia nazionale, far decadere un presidente di Regione, annullare la nomina di un procuratore. Che arbitrano lucrosi arbitrati. E governano persino l’insopprimibile passione italica del calcio, tramite incarichi nelle corti federali. “Il Consiglio di Stato”, sostiene Rizzo, “è il nocciolo duro del potere”. Intendiamoci: in sé non c’è nulla di esecrabile nell’essere un fuoriclasse della dottrina e nello scalare, perciò, più in fretta i gradini che conducono a uno status di grand commis e perfino di riserva della Repubblica. E sarebbe puerile descrivere un ganglio essenziale dello Stato come una compatta consorteria di colendissimi furbacchioni. Dunque, si tratta di capire e distinguere. Più ancora che in altri saggi di denuncia, Rizzo pare affrontare qui la questione soprattutto in termini di inopportunità e cortocircuito del potere: “La giustizia italiana ha un problema grande come una casa e fa finta di non vederlo. L’autoreferenzialità, è questo il problema, ha infettato in profondità tutte le magistrature mortificando l’efficienza e il merito. Con il paradosso che è la degenerazione di un principio sano, quello della separazione dei poteri e dell’autonomia dei magistrati”. E i più autoreferenziali di tutti (anche grazie al loro “Csm” ad hoc, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ci appaiono qui gli illustri inquilini di Palazzo Spada. Nel sostenerlo, Rizzo concede come di consueto pochissimo alla seduzione narrativa e offre invece al lettore tanta sostanza di cifre, sentenze e circostanze che, se pazientemente seguite, disegnano un ordito di grande efficacia. Senza rinunciare a qualche target maggiore, s’intende. Come nel caso di Franco Frattini, già enfant prodige di lunghissimo corso della politica nazionale, fresco presidente del Consiglio di Stato e soprattutto fresco “quirinabile” caduto nella settimana rovente della rielezione di Mattarella soprattutto a causa di qualche vecchia dichiarazione russofila (piuttosto improvvida se riletta in costanza di crisi dell’Ucraina). Rizzo ne viviseziona carriera, promozioni e arbitrati, ponendo in questione il criterio stesso di anzianità alla base della progressione di ruolo: “Dei trentatré anni e mezzo trascorsi dal giuramento come consigliere di Stato (...) ne ha passati decisamente più della metà in aspettativa, a fare politica”. E che politica: già celebrato ispiratore di quella “pistola caricata a salve” che fu la legge sul conflitto d’interessi così sensibile per Berlusconi, il nostro ottiene “la promozione in magistratura” (nel 2009, a presidente di sezione del Consiglio di Stato), mentre ne è fuori, essendo deputato del Popolo della Libertà e ministro degli Esteri nell’ultimo governo del Cavaliere. Con buona pace “per la separazione dei poteri”. Non si pensi tuttavia che tanta attenzione sul dottor Sottile del berlusconismo sia dettata da malanimo. Sara opportuno rammentare che Frattini sconta a Palazzo Spada il successo (che, come sempre predica Berlusconi, attira “invidia sociale”, spesso tra colleghi e ricorrenti) e la notorietà, in una confraternita di potenti quasi sempre senza volto. Ma Rizzo è bipartisan, ne ha per tutti e per tante tristi vicende della nostra Italia. Dallo scandalo della P2, coi suoi diciotto magistrati irretiti da Gelli (di cui uno del Consiglio di Stato), alle più recenti imprese dell’avvocato Amara (pietra dello scandalo di innumerevoli fascicoli giudiziari); dalle cene di qualche giureconsulto rampante con l’immancabile Luca Palamara e col lobbista Fabrizio Centofanti, alle relazioni pericolose tra il penale e l’inopportuno che s’infilano nella carne viva di Palazzo Spada, fino (poteva mancare?) alla gara Consip che è una specie di sacro Graal dei trafficanti d’influenze italici. Poiché non tutto può essere indignazione, non manca un sorriso triste, infine, di fronte all’impresa da maratoneta di quel consigliere che corre la Roma-Ostia in un’ora e quaranta poco dopo aver proposto causa di servizio per un’ernia del disco provocata, a suo dire, “dall’aver sollevato pesanti fascicoli processuali”. Fra tanti scranni occupati da terga autorevoli, uno strapuntino per Totò non poteva mancare. Altro che voto dal basso. La Carta si è ripresa la scena di Andrea Pugiotto Il Riformista, 3 febbraio 2022 Il bis di Mattarella è diverso da quello di Napolitano. In quest’ultima elezione il Parlamento ha dettato la soluzione al rebus invece di subirla: un ottimo segnale. Ma il divieto di rieleggibilità va inserito e non c’è momento migliore. 1. Scatola, scatoletta e apriscatole, scatoloni. Si può ricorrere a questa prosaica “escatologia” per valutare - in chiave di politica del diritto - le dinamiche di un’elezione che ha portato al Quirinale un nuovo Presidente, ma non un Presidente nuovo: “la scelta migliore e la peggiore che potesse essere fatta”, come ha scritto un costituzionalista di vaglia (Antonio Ruggeri), eccedendo nel paradosso. Vediamo perché. 2. Scatola. Le istituzioni repubblicane sono il contenitore della dialettica politica. Le regole costituzionali servono a questo: organizzare la democrazia affinché la lotta politica non risponda esclusivamente a rapporti di forza e alla logica annientatrice dell’amico/ nemico. Il rispetto delle forme che scandiscono le procedure e le decisioni istituzionali è il sismografo del corretto rapporto tra poteri dello Stato. Ecco perché è sempre un ottimo segnale quello di un Parlamento in seduta comune che detta la soluzione a un rebus apparentemente insolubile, invece di subirla. Perché questo è accaduto: quelle preferenze in progressione numerica per Sergio Mattarella, espresse dalla terza votazione in poi (125, 166, 366, 387 fino ai 759 voti finali), hanno rivelato una razionalità politica nei grandi elettori smarrita tra i leaders di partito. Tramite loro, è la Costituzione dei poteri che si è ripresa la scena: spetta infatti a deputati, senatori e delegati regionali la scelta istituzionale del Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.); non ai partiti, chiamati “a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.) che è tutt’altra cosa. Titolari del potere formale, hanno saputo esercitarlo per davvero, restituendo centralità al Parlamento. Ancora, è la Costituzione a esigere una figura presidenziale non divisiva. I grandi elettori - diversamente dai dilettanti allo sbaraglio inventatisi king-makers - hanno saputo trovarla, obbedendo a un’istanza realistica condivisa dalla maggioranza che la Costituzione predilige: “i due terzi dell’assemblea” (art. 83, comma 3). Ci sono riusciti costruendo consenso sul nome di Mattarella attraverso il dialogo e la parola che sono gli strumenti del parlamentare, mentre fuori dall’aula si assisteva al gran varietà della boutade, del tweet, del talk, della chiacchiera. Un risultato, peraltro, raggiunto in tempi costituzionalmente congrui: prima della scadenza del Capo dello Stato in carica (art. 85, comma 2), dopo sei giorni e sette votazioni complessive, in linea con le passate presidenziali che - con le sole eccezioni delle elezioni di Cossiga e Ciampi - si sono sempre concluse non prima del quarto scrutinio. L’invito sdegnato e perentorio a “fare presto”, oltre che fuori luogo, rivela nel mondo dell’informazione una dannosa omologazione alla logica social, mimata da certe adrenaliniche maratone televisive. La buona politica costituzionale, invece, ha un suo ritmo ragionevole che va preservato, non aggredito a furor di popolo. Si è detto: è stata una “elezione dal basso”. È un giudizio sbagliato perché capovolge la giusta prospettiva costituzionale, testimoniando così la disabitudine alla distinzione tra istituzioni e forze politiche che, sola, impedisce la degenerazione partitocratica. E proprio perché - costituzionalmente parlando - la forma è sostanza, il Capo dello Stato uscente ha inteso incontrare i rappresentanti del collegio elettorale andati a informarlo del voto che avrebbero espresso. Ed è “al rispetto delle decisioni del Parlamento” che il Presidente rieletto ha reso omaggio, accettando l’incarico. Quanto a investitura, dunque, il bis di Mattarella non è la replica del bis di Napolitano, che fu invece implorato dai vertici di partiti e Regioni che, poi, telecomandarono un collegio elettorale avvitato su sé stesso, fino a quel momento capace solo di giocare a birilli con i candidati di turno. Ecco allora la prima buona notizia: sottoposta a una così difficile prova di resistenza, la scatola istituzionale ha mostrato una rassicurante tenuta. 3. Scatoletta e apriscatole. Eppure, non più tardi di quattro anni fa, era stata ridimensionata a scatoletta (di tonno) destinata all’apriscatole populista e sovranista. Ci hanno riprovato perché, come lo scorpione della favola di Esopo, certi partiti rispondono alla propria originaria natura. Fallendo, e questa è la seconda buona notizia. Centrodestra e centrosinistra sono “campi larghi” inesistenti, se non in chiave tattica ed elettoralistica. La loro fasulla contrapposizione cela lo scontro autentico tra rinnovato europeismo e sovranismo populista. Tra chi mira a un’Unione europea più integrata e chi alla rinascita di una piccola Heimat alla presidenza della quale porre “un patriota”. Tra chi vuole uno spazio europeo tracciato dalle regole dello Stato di diritto e chi, invece, guarda con invidia alle “democrature” europee condannate dalla Corte di giustizia e dalla Corte dei diritti umani. La posta in palio è la stessa democrazia liberale, che può uscirne rigenerata o affondata. Attraverso l’elezione al Quirinale, si è tentato di ricomporre il quadro politico d’inizio legislatura. Se possibile, in peggio: perché è autoevidente che, in una democrazia liberale, il vertice dell’intelligence non può essere eletto al Quirinale, fosse pure la prima Presidente donna (per quanto “in gamba”, come si è maschilisticamente precisato). La saldatura tra Lega, Fratelli d’Italia e M5S non è riuscita. Delle conseI guenti fratture all’interno dei partiti e delle loro artificiali coalizioni c’è solo da rallegrarsi: porteranno a più credibili ricomposizioni. Nel frattempo, l’affidabilità europea del Paese ritrova al Quirinale ed a Palazzo Chigi i suoi presìdi, cui si affiancano - in una fortunata congiunzione astrale - il nuovo Presidente della Corte costituzionale e la Guardasigilli in carica: sarebbero stati entrambi un’ottima alternativa per la Presidenza della Repubblica; saranno entrambi una sicura barriera al giustizialismo penale che del populismo è un’inevitabile appendice. 4. Scatoloni (presidenziali). La rielezione di un Presidente uscente resta, tuttavia, una sgrammaticatura costituzionale: quegli scatoloni già confezionati per il trasloco, che escono e rientrano attraverso le sliding doors del Quirinale, ne sono il segno. Lo si è già scritto su queste pagine (Il Riformista, 15 gennaio): per quanto da evitare, formalmente la Costituzione non la vieta, precludendo semmai una rielezione condizionata a una scadenza anticipata del mandato presidenziale. Eppure il problema esiste, aggravato dal fatto di riproporsi per la seconda volta consecutiva: l’eccezione che si avvia a diventare consuetudine è un’alterazione dell’equilibro tra i poteri. leoni da tastiera sbraitano in rete la doppia verità di Sergio Mattarella. Né mancano editoriali sulla Pravda italiana che denunciano l’astuta strategia avviata con la nomina di Mario Draghi a Palazzo Chigi, riletta come scacco matto al suo più accreditato concorrente nella corsa al Quirinale. Il moralismo non si smentisce mai: trasforma sempre un problema di regole in stigma a condotte personali. La verità è un’altra. Sono stati i grandi elettori a decidere. Il Presidente rieletto ha accettato, con spirito autenticamente repubblicano, la scelta parlamentare. Conoscendolo, le insinuazioni sul suo conto sono irricevibili. Ma proprio perché lui stesso ha posto un problema già sollevato da altri Presidenti egualmente contrari alla rielezione (Segni, Leone, Ciampi, Napolitano), quel problema va affrontato e risolto. Lo strumento è la revisione dell’art. 85 Cost. La soluzione non è il divieto di rielezione immediata (poco giustificato dal già lungo intervallo di sette anni tra il primo e l’altro eventuale mandato) né l’introduzione del limite di due mandati (che incapsula la possibilità di un’immediata rielezione), bensì un divieto tout court: chi è stato eletto al Quirinale “non è rieleggibile”. È quanto prevede il ddl costituzionale n. 2468, a firma dei senatori Parrini, Zanda, Bressa, inclusivo anche della conseguente abrogazione del c.d. semestre bianco. Presentato intempestivamente il 2 dicembre scorso, e per questo fatto oggetto di malevoli interpretazioni, oggi si rivela per ciò che è: una riforma necessaria. Approvandola ora, non sarà a sanzione di nessuno. E se nell’ultima corsa al Quirinale la rielezione ha rappresentato una preziosa exit strategy, in quelle future verrà meno tale riserva mentale, costringendo tutti a una soluzione non emergenziale. 5. Scatoloni (referendari). Resta da dire degli scatoloni di cui nessuno parla: quelli contenenti le firme per i referendum su giustizia, eutanasia legale, cannabis depenalizzata. È l’ultima buona notizia che ci regala l’esito ordinato di queste elezioni presidenziali. Evitato lo scioglimento anticipato delle Camere trascinato da un’irrisolvibile crisi del governo Draghi, il voto abrogativo popolare non slitterà al 2023: saremo regolarmente chiamati alle urne in primavera sui quesiti che la Consulta giudicherà ammissibili il 15 febbraio. Ne riparleremo. Non ci sarà il pubblico ministero Fabio De Pasquale sullo scranno dell’accusa al processo d’appello che si terrà nel prossimo autunno nei confronti dei dirigenti Eni, assolti in primo grado il 17 marzo 2021. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha deciso diversamente, affidando il ruolo dell’accusa a Celestina Gravina, magistrato di esperienza non seconda a quella di De Pasquale e che, almeno quanto lui, conosce la materia. Un doppio schiaffo morale per il pm che vanta nel suo curriculum la soddisfazione di esser stato l’unico ad aver portato alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi fino alla sua espulsione dal Senato. Il primo schiaffo deriva dal fatto che De Pasquale nel processo Eni-Nigeria aveva messo l’anima, la sua parte più pura e anche quella più discutibile, che lo vede oggi indagato a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, e anche oggetto di attenzione da parte della prima commissione del Csm che lo ha ascoltato a lungo nella giornata di lunedi, prima di decidere una sua eventuale incompatibilità con la sua permanenza in procura. Situazione non facile, per un pm che a Milano ha costruito tutta la sua carriera e la sua reputazione di uomo di sinistra inflessibile e senza paura di nessuno. Neanche del “dominus” Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite, tanto da mettersi con lui in competizione per la gestione di un certo indagato e non aver timore di prenderlo a urlate nel corridoio. Ma la ferita che oggi brucia di più è dovuta al fatto che De Pasquale teneva così tanto a questo processo da non aver avuto la forza di mettersi da parte dopo la sconfitta processuale subita nel primo grado. Tanto da non limitarsi a fare il ricorso in appello, cosa che in un paese da Stato di diritto non dovrebbe neanche essere consentita al pubblico ministero, se gli imputati sono stati assolti. Se il “ragionevole dubbio” avesse un senso. Ma il pm De Pasquale ha voluto strafare, chiedendo alla procura generale di essere proprio lui, personalmente, a rappresentare di nuovo l’accusa, anche nel secondo grado. La legge non lo vieta, purtroppo, e la contraddizione con il principio del “ragionevole dubbio”, che sta alla base della decisione del giudice, è palese. Come evitare, soprattutto nei processi di grande impatto mediatico, che l’opinione pubblica non veda da parte degli uffici dell’accusa una sorta di accanimento, se lo stesso pm, cioè la stessa persona in carne e ossa che è uscita sconfitta dal processo di primo grado, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nel secondo? Una vittima di questo meccanismo è stato per esempio il povero Angelo Burzi, l’ex consigliere e assessore di Forza Italia in Regione Piemonte, morto suicida nello scorso dicembre, il cui testamento politico aveva rappresentato un atto d’accusa sull’amministrazione della giustizia. Burzi era finito, insieme a tanti, nella tenaglia dei processi chiamati “Rimborsopoli”. Era stato assolto in primo grado da un tribunale la cui presidente Silvia Begano Bersey, in seguito deceduta, era stata da lui apprezzata nelle sue lettere d’addio come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Era poi accaduto l’imprevisto, l’imprevedibile. Il procuratore Giancarlo Avenati Bassi, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo, aveva chiesto e ottenuto di sedere sullo stesso scranno una seconda volta, fino a che aveva potuto portare a casa la soddisfazione del vedere condannati gli imputati. E i dubbi ragionevoli? Pareva non averne avuti neppure il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, il quale, piccato per la grande evidenza data dai giornali sul suicidio di Burzi e dalla diffusione delle sue lettere, aveva inondato le redazioni con un comunicato di due pagine che parevano una requisitoria. In cui aveva ignorato persino il fatto che una sua ex prestigiosa collega, stimata da tutti e compianta da numerosi messaggi su la Stampa quando era deceduta, aveva scritto parole molto precise e inoppugnabili sulla non colpevolezza degli ex assessori e consiglieri regionali piemontesi. Possiamo dire, in senso lato, che Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati dell’Eni che, se pur assolti “oltre ogni ragionevole dubbio” il 17 marzo 2021, torneranno di nuovo alla sbarra il prossimo autunno, sono stati più “fortunati” di Angelo Burzi. Perché la procuratrice generale di Milano Francesca Manni ha spezzato il meccanismo della coazione a ripetere che avrebbe potuto portare di nuovo Fabio De Pasquale sulla poltrona dell’accusatore nell’appello Eni-Nigeria. Lui aveva motivato la richiesta con l’esperienza e la conoscenza delle carte. Forse sottovalutando tutto quel che quel processo, con accuse e contro-accuse tra toghe, ha pesato per Milano e la sua procura. Tanto da aver comportato l’apertura di inchieste giudiziarie da parte della procura della repubblica di Brescia, competente nelle cause che riguardano i magistrati milanesi. De Pasquale dovrà, insieme all’ex collega Fabio Storaro, dare tante le spiegazioni. Si dovrà accertare se i due pm d’aula del processo Eni hanno tenuto nascoste prove importanti a discarico degli imputati, e se hanno “protetto” le testimonianze di due personaggi discutibili come Pietro Amara e Vincenzo Armanna anche quando erano palesi le loro intenzioni calunniatorie. Che continuano a emergere, anche in questi giorni. Certo non migliorerà il suo umore sapere che quel ruolo di pg nel processo d’appello Eni sarà assunto dalla collega Celestina Gravina. Proprio lei che, nell’aprile dell’anno scorso, a ridosso della sentenza che aveva assolto Scaroni e De Scalzi, aveva svolto il ruolo dell’accusa nell’appello di un filone dello stesso processo, quello nei confronti di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, considerati intermediari della tangente Eni, che erano stati giudicati a parte perché avevano scelto il rito abbreviato. Il primo grado erano stati condannati. Ma nel secondo grado la procuratrice Gravina aveva completamente rovesciato l’ipotesi dell’accusa. Intanto partendo all’attacco della Procura della repubblica per “l’enorme dispiego e spreco di risorse” che l’ufficio allora retto da Francesco Greco aveva dedicato alla vicenda Eni. E poi per la testimonianza di Vincenzo Armanna, quello che per i pm De Pasquale e Storari era un collaboratore preziosissimo. E che la pg invece considerava “un avvelenatore di pozzi bugiardo”, uno “che mescola verità e bugie”, “totalmente inaffidabile”. Poi, dopo aver spiegato a pm a giudici gli errori commessi anche nella qualificazione dei reati, la stoccata finale. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”. Era stata inseguita “un’impostazione ideologica”, era stata la conclusione. Una bella lezione. L’assoluzione dei due imputati era stata richiesta e ottenuta. Queste sono le premesse di quel che sarà il processo d’autunno. Che forse si sarebbe potuto evitare, evitando anche l’ulteriore dispendio di denaro. Comunque andrà quel dibattimento, aver spezzato quella tentazione da parte del pm che perde il processo ad andare a rifarsi in appello, è stato un bel gesto da parte della procuratrice generale di Milano. Grazie, dottoressa Francesca Nanni. Chissà che non abbia aperto una strada che eviti, un domani, altre tragedie come quella di Angelo Burzi. Per la ministra Lamorgese le botte agli studenti sono colpa degli “infiltrati” di Davide Maria De Luca Il Domani, 3 febbraio 2022 Nella sua prima comunicazione ufficiale sui pestaggi durante le manifestazioni contro l’alternanza scuola/lavoro, la ministra dell’Interno non ha ammesso alcuna responsabilità o errore degli agenti e ha incolpato non meglio specificati “infiltrati” nelle manifestazioni. Secondo la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, le cariche e i pestaggi compiuti dalle forze dell’ordine nei confronti degli studenti che due settimane fa manifestavano contro l’alternanza scuola/lavoro sono state causate da gruppi di infiltrati che avrebbero provocato la polizia. La ministra ha dato la sua versione dei fatti oggi per la prima volta, dopo una settimana di intense polemiche per l’operato delle forze dell’ordine. Le manifestazioni si sono svolte due settimane fa a Milano, Napoli e Torino. Nei numerosi filmati pubblicati in questi giorni si vedono cariche della polizia lanciate senza apparente provocazione, ragazzi colpiti alla testa e spintonati. Soltanto a Torino i feriti sono stati venti, alcuni con fratture o punti alla testa. Altri sono ancora ricoverati. Nelle interviste, numerosi studenti hanno confutato le ricostruzioni delle forze dell’ordine, in cui si parlava di un clima estremamente violento in piazza. In un caso, fonti della polizia hanno parlato di un furgone utilizzato per rompere un cordone di agenti, un fatto che non si sarebbe mai verificato, secondo diversi studenti. Lamorgese ha risposto alle accuse con un breve comunicato pubblicato poco dopo pranzo. “Purtroppo alcune manifestazioni sono state infiltrate da gruppi che hanno cercato gli incidenti - scrive Lamorgese - Dobbiamo quindi operare per evitare nuovi disordini, scongiurando che le legittime proteste nelle nostre piazze possano essere strumentalizzate da chi intende alimentare violenze e attacchi contro le forze di polizia”. Lamorgese non fa alcun cenno a possibili esagerazioni da parte delle forze di polizia e non commenta gli episodi più controversi mostrati nei filmati o raccontati dagli studenti, ma precisa: “Ho sensibilizzato i prefetti sulla linea da seguire, che non può che essere quella del confronto e dell’ascolto”. Sulla violenza contro gli studenti il governo ha scelto la strada del silenzio di Pierfrancesco Majorino Il Domani, 3 febbraio 2022 Le immagini di questi giorni, provenienti da più città, riguardanti le reazioni della polizia nei confronti delle studentesse e degli studenti sono davvero raccapriccianti. È inutile girarci attorno: si è di fronte a reazioni assolutamente spropositate nei confronti di giovanissimi che manifestavano in maniera pacifica. Dovendo fare i conti con questi episodi il governo ha scelto innanzitutto la strada del silenzio. Chi si augurava di leggere parole forti da parte di una persona stimata, come la ministra Luciana Lamorgese, o da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi, è rimasto deluso. Al tacere delle prime giornate si sono aggiunte alcune frasi allucinanti pronunciate dal viceministro Molteni (colui a cui si deve la scrittura degli orrendi decreti Salvini) e, infine, l’allusione della stessa Lamorgese alla presenza, tra gli stessi manifestanti, di “infiltrati”. Sinceramente mi aspetto un atteggiamento ben diverso da parte dell’esecutivo ed è il motivo per cui ho firmato un’interrogazione, scritta dalla Vicepresidente del parlamento Ue Pina Picierno, rivolta alla Commissione Europea, attraverso la quale si intendono interessare le istituzioni continentali affinché, come si scrive, “si faccia chiarezza”. Credo infatti che questi episodi e la reazione impacciata che è seguita non debbano passare sotto silenzio. E ciò è vero in particolare in un tempo come quello che stiamo attraversando. Veniamo infatti da mesi complicatissimi, certamente pure sul piano della gestione dell’ordine pubblico, ed è allora ancora più importante assistere a condotte esemplari da parte di chi è chiamato a fare i conti con manifestazioni e mobilitazioni, ed è essenziale fare vincere la logica del dialogo (giustamente questa chiamata in causa proprio dal ministro) con giovanissimi che decidono di prendere la parola sul proprio presente e sul proprio futuro. Il dialogo, indispensabile, ritengo passi attraverso la piena assunzione delle proprie responsabilità. La sgradevolissima impressione di queste ore è invece quella che dalle parti del Viminale si preferisca buttare la croce sui ragazzi non guardando a cosa non abbia funzionato sul piano delle scelte compiute nella gestione stessa del rapporto con i manifestanti. Aspetti fondamentali guardando anche alle prossime giornate, durante le quali è logico attendersi una crescita delle stesse mobilitazioni delle studentesse e degli studenti. Scrivo tutto ciò a prescindere dalle motivazioni che hanno portato alle proteste dei giorni scorsi e dal contesto drammatico, la morte del povero Lorenzo, che aveva in qualche modo visto crescere le prime manifestazioni. Aggiungo che sono tra coloro che ritengono che lo strumento dell’alternanza scuola-lavoro vada profondamente migliorato e ripensato ma questo, sinceramente, oggi non è il punto. Il punto è quello di come ci si vuole rapportare di fronte a piazze di giovanissimi che la loro la dicono e la han detta sin qui in modo assolutamente pacifico. Domani studenti in piazza: dopo averli picchiati, Lamorgese ora li vuole tutelare di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 3 febbraio 2022 La ministra dell’Interno, contestata dalla sua stessa maggioranza dopo la mattanza contro chi protestava contro l’addestramento alla precarietà, chiede ai prefetti e questori di tutelare “il diritto a manifestare” e giustifica la repressione parlando di “Infiltrati”. Versione contestata dagli studenti: “Sono state cariche a freddo”. Ieri i funerali di Lorenzo Perelli, 18 anni, morto nell’ultimo giorno di stage. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese si è accorta ieri che la sua polizia ha picchiato gli studenti domenica 23 gennaio al Pantheon di Roma e a Torino, Milano e Napoli il 28 gennaio. A poche ore dalla morte di Lorenzo Parelli, 18 anni schiacciato da una putrella nell’ultimo giorno di stage in una fabbrica di xxx a Udine (ieri si sono tenuti i funerali) i ragazzi in tutta Italia protestavano contro l’obbligo di alternanza scuola lavoro a 1,5 milioni di coetanei che non trasforma solo l’istruzione in una formazione all’impresa ma espone a ogni tipo di rischio, anche mortale, gli adolescenti a contatto con la violenza del mercato del lavoro. Per di più in un paese dove è in corso una strage quotidiana di lavoratori nell’impotenza del governo che continua a non intervenire con veri strumenti che mettano finalmente un argine a questo massacro. Insomma la scuola maestra della vita capitalista, e dei manganelli per chi la critica e, in questi giorni, ha detto: “Sotto quella putrella di 150 chili poteva trovarsi ciascuno di noi”. L’inquilina del Viminale ha diramato una “nota” a poche ore dalle manifestazioni di domani contro l’alternanza scuola-lavoro imposta dal Pd di Matteo Renzi (quello di Letta continua la strategia della tanatosi: fare finta di nulla), e le regole della maturità 2022 imposte dal ministro dell’Istruzione Bianchi, sempre in quota Pd. Come copione, Lamorgese ha attribuito a terzi, gli “infiltrati”, la causa di interventi di ordine pubblico che hanno spaccato le teste a studenti di sedici anni o poco più. Ricostruzioni respinte dagli studenti feriti che denunciano cariche a freddo indiscriminate che, tra l’altro, hanno oscurato le critiche all’alternanza scuola lavoro come educazione allo sfruttamento. Dopo avere vietato le manifestazioni nei centri storici usando norme da stato di emergenza, una strumentalizzazione dell’emergenza pandemica che ha privato gli studenti del loro diritto di manifestare, in particolare a Torino, il ministero dell’Interno ieri ha dato un’altra linea “del confronto e dell’ascolto”, ha evocato un “patto destinato alle nuove generazioni” che “sappia coinvolgere tutte le istituzioni e l’intera società civile”. Al di là delle chiacchiere, Lamorgese sostiene di avere “sensibilizzato” i prefetti e questori. Tradotto: mettete giù i manganelli contro chi protesta contro una politica del lavoro e della scuola. In una riunione del Comitato provinciale per l’ordine pubblico tenuto ieri a Torino il sindaco Lo Russo ha invitato a “aprire un dialogo” con gli studenti: “Siamo ottimisti, l’istanza è stata accolta” ha detto. A Castions di Strada (Udine) ieri come dicevamo si sono tenuti i funerali di Lorenzo Parelli. Il corteo funebre è stato accolto e “scortato” dagli amici della vittima, in sella alle loro motociclette e scooter, che erano anche la grande passione di Lorenzo. Centinaia di persone si sono date appuntamento fuori dalla chiesa del paese. Il parroco ha accolto il feretro per impartire la benedizione prima di entrare in chiesa. Al termine della funzione sono stati gli amici di Lorenzo ad aprire la strada del carro funebre, in moto, fino al cimitero. Le moto erano una delle sue passioni. “La sicurezza e la salute, la scuola e il lavoro richiedono adeguati strumenti di accompagnamento e protezione, strumenti che forse, nella triste perdita di Lorenzo, sono mancati - hanno scritto in una lettera i genitori e la sorella - Questa vicenda ci sembra infatti richiedere, innanzitutto, un periodo di silenzio, di riflessione. Questo volontario isolamento non implica mancanza di considerazione per la funzione assai importante che il mondo dell’informazione può e deve svolgere sul tema della sicurezza e della salute, nella scuola e nel lavoro. Due momenti cruciali nella vita di un giovane”. Il ministro del lavoro Andrea Orlando, nel frattempo, ha annunciato di volere aprire un altro tavolo insieme a quello dell’Istruzione Bianchi “per rivedere complessivamente tutte le fasi in cui i ragazzi vanno sui luoghi di lavoro. Si tratta di fare in modo che non si vada semplicemente in luoghi di lavoro ma in luoghi che abbiano una sorta di certificazione ulteriore, una specie di bollino blu”. Il “bollino blu”. Libia. Il giallo della nave “italiana” che ha respinto migranti agli ordini di Bija di Lorenzo Bagnoli e Nello Scavo Avvenire, 3 febbraio 2022 A cinque anni dall’accordo Italia-Libia emergono nuovi misteri nell’intesa. Dopo l’arrivo in gran segreto di una delegazione libica in Italia cominciano respingimenti mai dichiarati. È uno dei segreti meglio custoditi della storia recente. Gli accordi Italia-Libia, sigillati dal Memorandum triennale d’intesa del 2 febbraio 2017 e rinnovato nel 2020, contengono dettagli operativi che nessuno ancora conosce. Dal 4 ottobre 2019, quando Avvenire rivelò la presenza in Italia di una delegazione libica che vedeva tra gli altri il super-trafficante guardacoste Abdurahman al-Milad detto Bija, i governi che si sono succeduti non hanno mai voluto rispondere alle nostre domande. E anche una decina di interrogazioni parlamentari sono rimaste inevase. Era l’inizio di maggio 2017 quando il gruppo di libici partecipò a una serie di incontri riservati in Sicilia e a Roma. Ad oggi non conosciamo, tra l’altro, l’esatto programma di quella visita. Nel frattempo sono emerse foto di Bija al pianoforte di un circolo dell’Esercito italiano a Roma, nel Comando centrale della Guardia costiera, in gita nel porto di Catania e in un albergo dove mostra gli acquisti appena compiuti in un giro di shopping.? Al rientro in Libia della delegazione, le partenze dei migranti dal Paese precipitarono da circa 25mila al mese a poco più di 3mila. E oggi abbiamo un riscontro in più: al rientro dai colloqui in Italia, per i respingimenti dichiarati illegali dalle Nazioni Unite, Bija ha impiegato anche navi di proprietà italiana. Episodi rimasti - almeno in parte - nascosti alle cronache. A rivelarlo è lo stesso Bija, forse tradito da uno dei suoi impeti di vanità. In una sezione non particolarmente pubblicizzata della sua pagina facebook, il comandante Abdurahman al-Milad, ancora destinatario di sanzioni Onu e di alert dell’Interpol insieme ad altri protagonisti del “Libyagate” investigato da IrpiMedia e Avvenire, nell’autunno del 2020 aveva archiviato una serie di filmati autocelebrativi. In uno dei video si mostra a bordo della motovedetta Talil, per l’occasione equipaggiata con mitragliatori e cannoncini, mentre raggiunge un gommone di migranti terrorizzati dal rischio di naufragio e dalla certezza di un ritorno alle torture. Ma in un cambio di inquadratura sempre Bija riappare a bordo di una seconda nave. Sembra un rimorchiatore, su cui vengono trasbordati i migranti poi condotti in Libia. Chi ha effettuato il montaggio, non sappiamo se consapevolmente o meno, ha lasciato che per una frazione di secondo apparisse il nome del rimorchiatore. Il fermo immagine non lascia dubbi: si chiama “Saiph” ed è registrata al porto de La Valetta. E qui comincia un altro giallo tra Italia, Libia e Malta. Perché ricercando il nome del vascello e la sua storia armatoriale, si scopre che è sempre stato di proprietà italiana, stabilmente adoperato come nave di servizio delle piattaforme petrolifere. Fino al dicembre 2019 era stata iscritta nel naviglio con bandiera maltese, poi in Italia. La società armatrice dalla Saiph fino al 2014 apparteneva alla Cafima Spa, ossia il gruppo a cui fa capo tutt’oggi Augusta Offshore Spa, l’armatrice della Asso Ventotto che il 13 ottobre 2021 ha visto il suo comandante condannato dal Tribunale di Napoli per aver affidato 101 migranti alla Guardia costiera libica. Asgi (l’associazione dei giuristi esperti in diritto delle migrazioni) e Amnesty International, lo scorso febbraio hanno avviato un’azione civile anche contro un altro rimorchiatore del gruppo, Asso Ventinove, protagonista del respingimento di cinque eritrei nel luglio 2018. Il rimorchiatore Asso Ventinove, va specificato, in altre numerose occasioni ha fatto sbarcare i migranti in Italia, così come ordinato da chi coordinava le operazioni di soccorso. La presenza della Saiph accanto alla motovedetta libica, a quanto è stato possibile ricostruire, risalirebbe alla fine di maggio 2017, pochi giorni dopo il viaggio segreto di Bija in Italia. Nel video si vede al-Milad a bordo della nave e dietro di lui il profilo dei migranti accovacciati sul ponte esterno. “Venerdì 25 maggio 2017 - si legge in un cartello all’interno del video - sono stati soccorsi 506 immigrati clandestini. 276 immigrati sono stati trasferiti al porto di Zawijah e 230 sono stati trasferiti al terminal petrolifero di Mellitah. Nelle prime ore del sabato sono stati soccorsi 478 immigrati clandestini a nord di Sabratha, a 16 miglia nautiche di distanza e sono stati trasferiti al porto di Zawijah”. Contattata per un commento, la Augusta Maritime Services, armatrice della Saiph, pur senza smentire che quella del filmato sia la sua nave, ha spiegato di non essere in possesso di “documenti comprovanti” l’incidente. La società ha aggiunto di aver lavorato sempre e solo con Mellitah Oil & Gas, la joint venture tra Eni e la libica Noc, fino al giugno 2021, e che “non c’è mai stata alcuna collaborazione” tra gli armatori e la Guardia costiera libica. Le cronache di fine maggio 2017 parlano di partenze molto frequenti da quel tratto di cosa: il 24 maggio, riportano le notizie dell’epoca, di fronte a Zuwara, 20 km a est di Mellitah, c’è stato un naufragio costato la vita almeno a 31 persone. Mentre in mare si consumavano stragi e respingimenti sconosciuti, Libia e Italia programmavano i primi addestramenti dei guardacoste previsti dalla firma dell’accordo del febbraio 2017. Eppure già prima del suo arrivo in Sicilia e a Roma, Abdurhaman al-Milad era stato indicato dal Centro Alti studi del ministero della Difesa italiano (Casd), che dipende dallo Stato Maggiore della Difesa, come uno dei rais del traffico di migranti e idrocarburi. Nonostante questo ottenne un visto ufficiale per negoziare con Roma la riduzione delle partenze e la promessa di cospicui finanziamenti ai clan, attraverso donazioni del governo italiano alle municipalità libiche. Dettagli mai resi pubblici dal nostro governo ma emersi anni dopo grazie alle inchieste giornalistiche. Eppure, proprio mentre la delegazione libica quell’anno frequentava i Palazzi della Penisola, un gruppo di cronisti italiani impegnati proprio in quelle inchieste veniva intercettato nelle comunicazioni e negli spostamenti. Il testo del Memorandum riconfermato il 2 febbraio 2020 - 5 pagine e 8 articoli - ricalcava quello del 2017. L’accordo impegnava l’Italia a sostenere, a proprie spese, corsi di formazione e la fornitura di equipaggiamento per la “guardia costiera del Ministero della Difesa”, definizione che sembrava escludere le altre “polizie marittime”, seppure includendo il supporto ad altri “organi e dipartimenti competenti del Ministero dell’Interno”, che a sua volta guida una propria milizia navale chiama Gacs. “La Parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della prevenzione e del contrasto all’immigrazione irregolare e delle attività di ricerca e soccorso in mare e nel deserto”, si leggeva. Infine un veloce passaggio sui diritti umani: “le Parti si impegnano a sostenere le misure adottate dall’Unhcr-Acnur e dall’Oim (le agenzie umanitarie dell’Onu sul campo, ndr) nel quadro del piano d’azione per l’assistenza ai migranti in Libia e la Parte libica assumerà ogni utile iniziativa per facilitarne l’attuazione”. Tre anni dopo gli operatori Onu confermano di non avere mai avuto alcun libero accesso ai centri di detenzione, resta quasi impossibile per il personale internazionale ricevere il visto e i permessi di ingresso nei campi di prigionia ufficiali vengono rilasciati con il contagocce. Secondo Oxfam, dalla firma dell’accordo l’Italia ha speso 962 milioni euro per bloccare i flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee. Circa 270 milioni di euro sono stati spesi in missioni nel paese. I risultati non solo quelli assicurati al momento della firma. Solo nel 2021 su 32 mila migranti intercettati dai guardacoste libici, si ha notizia di 12 mila persone che si trovano in 27 centri di detenzione ufficiali. Di altre 20mila persone si è persa ogni traccia. Il memorandum italiano, in questi cinque anni, ha fatto scuola. Un accordo d’intesa è stato siglato anche dal governo di Malta con la Libia. Neville Gafà, ex membro del gabinetto delle primo ministro maltese, ha tessuto i legami tra il governo dell’isola e quello di Tripoli. Ha anche fatto da garante in modo che i pescherecci privati di cui abbiamo parlato nelle puntate precedenti potessero intervenire in operazioni di salvataggio e respingimento in Libia. Perché oggi è chiaro che a riportare i migranti in Libia non sono state solo le motovedette dei guardacoste nordafricani. Anche ad altre imbarcazioni private è stato ordinato di considerare la Libia come un porto sicuro. Algeria. Detenuti per reati d’opinione in sciopero della fame almanews24.it, 3 febbraio 2022 In un post sulla sua pagina Facebook, l’avvocato Abdelghani Badi ha precisato che questi detenuti “ingiustamente imprigionati per le loro opinioni” stanno facendo uno sciopero della fame illimitato nella prigione di El-Harrach ad Algeri. Secondo l’Avvocato, ripreso da Le Matin d’Algerie, i detenuti hanno iniziato lo sciopero per protestare contro “i procedimenti e le false accuse di cui sono vittime” mentre altri, tra i detenuti, insorgono, attraverso lo sciopero, contro il prolungamento “abusivo” della loro detenzione provvisoria. Badi ha fatto sapere, tra l’altro, che numerosi detenuti tra gli scioperanti hanno intrapreso questa azione in coincidenza con il 64° anniversario dello sciopero degli Otto Giorni, del 1957, per protestare contro l’articolo 87 bis sulla base del quale sono accusati di “terrorismo”. “Essi respingono i capi d’accusa rivolti contro di loro sulla base di questo articolo del codice penale che li accusano di terrorismo”, ha affermato ancora l’avvocato. In questo articolo, viene perseguito, tra l’altro, per atto terroristico “chiunque operi o inciti attraverso qualunque mezzo, ad accedere al potere o a cambiare il sistema di governo con mezzi non costituzionali”. I detenuti, secondo l’avvocato, “respingono formalmente e fondamentalmente i titoli contenuti nell’articolo di cui sono vittime (…) rifiutano la qualifica e non si considerano terroristi, ma semplici cittadini che hanno espresso pubblicamente la loro opinione”. Nel giugno 2021, l’introduzione, nell’articolo 87 bis, del paragrafo incriminato ha suscitato preoccupazione. Molti, tra gli avvocati in particolare e i difensori dei diritti umani, hanno rilevato il carattere “ambiguo” di questo testo, considerando che ha come effetto quello di aggravare il carattere impreciso della definizione dell’atto terroristico così come definito all’articolo 87 bis del Codice penale. In tal senso, degli esperti e dei Relatori Speciali dell’ONU hanno accusato il regime algerino di “strumentalizzare politicamente il terrorismo” per reprimere le libertà pubbliche. In una comunicazione indirizzata all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ai Diritti Umani (Ohchr), gli esperi e rappresentanti dell’ONU hanno reiterato la loro preoccupazione riguardo alla definizione di atti terroristici adottati da questo articolo che, includendo nella categoria di atto terroristico un’ampia varietà di infrazioni, entra in collisione con il principio di sicurezza giuridica. Secondo loro, il testo mina i diritti di riunione pacifica e la libertà di espressione, e impone sanzioni sproporzionate ad atti che non dovrebbero essere trattati da legislazioni antiterroristiche. Congo. Assalto armato al campo profughi di Savo causa 60 morti di Paolo M. Alfier Avvenire, 3 febbraio 2022 Il raid è avvenuto nella provincia dell’Ituri: in azione il gruppo Codeco, che difende gli agricoltori Lendu nella faida con i pastori Hema. Li hanno sorpresi nella notte, invadendo il campo profughi di Savo, vicino alla cittadina di Bule, nella provincia nord-orientale congolese dell’Ituri. Approfittando del buio, un gruppo di miliziani è entrato nel campo e provocato l’ennesimo massacro compiuto con armi da fuoco e machete: almeno sessanta sfollati sono rimasti uccisi, un’altra quarantina feriti per mano del gruppo Codeco, che da alcuni anni pretende di difendere gli agricoltori Lendu nella faida con la comunità di pastori Hema. “Ho sentito delle urla mentre stavo ancora dormendo, poi una sparatoria durata diversi minuti - ha raccontato Lokana Bale Lussa, residente nel campo. Sono scappato vedendo che c’era chi appiccava fuoco nel campo, mentre la gente chiedeva aiuto. Ho capito che i miliziani Codeco avevano invaso la nostra zona. Abbiamo bisogno di maggiore sicurezza: già non avevamo accesso alle nostre terre, ora veniamo perseguitati anche nei campi”. Secondo alcune ricostruzioni, militari dell’esercito congolese avrebbero incrociato i miliziani dopo il massacro, ma il gruppo armato sarebbe comunque poi riuscito a fuggire. L’area in cui ha avuto luogo il massacro è quella di Djugu, al confine con il Lago Albert e l’Uganda che si trovano ad est, area che già da tempo è teatro degli scontri tra le comunità Lendu e Hema. I combattimenti tra i due gruppi sono esplosi tra il 1999 e il 2003, causando decine di migliaia di vittime prima di essere frenati da una forza di interposizione dell’Unione Europea, Artemis. La violenza è poi ripresa nel 2017, attribuita all’emergere di Codeco (Cooperativa per lo sviluppo del Congo) che punta a difendere i Lendu e che, secondo le Nazioni Unite, ha già provocato centinaia di vittime e costretto alla fuga migliaia di civili. Il gruppo - che ultimamente ha più volte preso di mira i campi profughi - è una delle tante formazioni armate che operano nella provincia, tra le più turbolente dell’intera Repubblica democratica del Congo. Il campo profughi di Savo ospita attualmente circa 24mila persone rispetto a un totale di 1,7 milioni di sfollati in tutta la provincia dell’Ituri, provincia in cui nel 2021 le vittime civili sono state oltre 1.200. Sia nell’Ituri che nel vicino Nord Kivu sono peraltro sempre più frequenti le segnalazioni di incursioni di formazioni anche di stampo jihadista. Non a caso proprio nel Nord Kivu, nel territorio di Beni, nei giorni scorsi è stato arrestato un noto jihadista di nazionalità keniana, Salim Mohamed, inviato nella regione dal Daesh. A riferirlo l’Agenzia Fides, che ha riportato la nota di Cepadho, una Ong congolese con base a Goma. Messico. La strage dei giornalisti: 4 uccisi in 32 giorni di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 3 febbraio 2022 Lourdes Maldonado, José Luis Gamboa Arenas, Margarito Martinez Esquivel e Roberto Toledo erano stati tutti minacciati per le loro denunce contro la corruzione. Alcuni erano stati inseriti nel programma di protezione. Quattro giornalisti uccisi in Messico in 32 giorni. Uno a settimana: tre uomini e una donna. L’ultimo due giorni fa. Colleghi esperti, noti. E tutti minacciati. Alcuni inseriti nel programma di protezione che il presidente Obrador, superando i difficili rapporti con i media e la continua banalizzazione del pericolo, alla fine ha applicato. Non parliamo di scorte: sarebbe un lusso in un paese dove 700 giornalisti vengono considerati a rischio e 1.300 difensori dei diritti umani sono nel mirino dei sicari. Protezione significa un file aperto nello schedario delle minacce e, nei casi estremi, una pattuglia di agenti che passa sotto casa ogni tanto. È servito a poco. Nel 2021 nove cronisti sono stati falciati dal piombo dei killer. Si sommano ai 138 assassinati dal 1992, secondo il CPJ, il Comitato di difesa dei giornalisti fondato a New York nel 1981. Anche se Articolo 19, l’associazione dei giornalisti messicani, fissa in 145 il numero delle vittime dal 2000. Lourdes Maldonado, José Luis Gamboa Arenas, Margarito Martinez Esquivel, Roberto Toledo. Sono gli ultimi martiri della libertà di informazione in Messico. Tutti assassinati in questo primo scorcio del 2022. Lourdes Maldonado viveva a Tijuana e da qui copriva la politica. Da mesi era sottoposta a continue minacce. Telefonate anonime, strani personaggi che le si avvicinavano, che le suggerivano di cambiare mestiere. Era tenace, precisa, attendibile. Svelava truffe e corruzioni delle amministrazioni locali. Sapeva di essere in pericolo. Aveva chiesto un mese fa protezione direttamente a Obrador. Nel corso della consueta conferenza stampa che il presidente tiene ogni mattina alle 7 al posto della domanda lo aveva esortato: “Rischio di essere uccisa. La prego di farmi proteggere”. E’ stato inutile. L’hanno sorpresa due killer mentre era alla guida della sua auto: tre colpi a bruciapelo, in faccia. José Luis Gamboa Arenas era il direttore di Inforegio, sito web di Veracruz. Anche lui denunciava la corruzione nelle amministrazioni locali e i rapporti con la criminalità del posto. Anche lui è stato sorpreso per strada e fatto fuori con una facilità sconcertante. Margerito Martinez Esquivel faceva il fotoreporter. Era una leggenda a Tijuana. Conosceva ogni angolo della frontiera che si snoda lungo il confine sud degli Usa. Faceva questo lavoro da 20 anni. Era il primo ad arrivare sul posto, anche prima della polizia. Era collegato alla radio delle pattuglie e appena arrivava la segnalazione di una sparatoria scattava con la sua macchina fotografica sempre appesa al collo, lo sguardo vigile, pieno di curiosità. Era generoso: se lo chiamava qualche collega arrivato in ritardo gli passava i dettagli del servizio. Era pericoloso: lo hanno ucciso mentre rientrava in redazione, due colpi alle spalle. Lunedì scorso è toccato a Roberto Toledo, anche lui un veterano del giornalismo. Collaborava con il portale Monitor Michoacán da 22 anni. Conosceva bene il sottobosco politico di quello Stato. “Denunciare le corruzioni di governi corrotti - ha detto con voce rotta dall’emozione in un video il direttore Armando Linares - ha portato alla morte di uno dei nostri colleghi. Non ci arrendiamo. Non abbiamo pistole o fucili. La nostra unica arma è questa”, ha aggiunto mostrando una penna. Il portavoce della Presidenza, Jesús Ramirez, ha condannato l’assassinio e ha assicurato che il governo non lascerà impunito il caso. Ma ha anche aggiunto, questa volta su Twitter, che Toledo non era un giornalista. Un tentativo di sminuire la portata dell’ennesimo omicidio tra chi fa informazione che ha sollevato la durissima protesta della categoria esasperata dallo stillicidio di esecuzioni e dall’inerzia degli inquirenti. Durante lo scorso fine settimana c’è stata la mobilitazione di tutti i giornalisti messicani in 23 Stati del paese. Si chiede protezione vera e soprattutto giustizia. Il direttore di Monitor Michoacán ha replicato con stizza al tweet del portavoce della Presidenza. “Roberto manteneva un basso profilo, viste le continue minacce”. Oltre a convivere con la paura i giornalisti in Messico sono pagati male. Molti si dividono tra tanti lavori ma non per questo i killer li risparmiano. Iraq. Ecco perché l’Isis è tornato una minaccia mortale di Gianluca Di Feo e Paolo Mastrolilli La Repubblica, 3 febbraio 2022 Complice la divisione tra le diverse forze che hanno fatto la guerra al Califfato, lo Stato islamico moltiplica gli attacchi nel settentrione iracheno e nella Siria nord-orientale. Yousif Ibrahim non viaggia più di notte lungo le strade intorno alla sua città natale, Jalawlain, nel nordest dell’Iraq. Teme di essere coinvolto negli attacchi dello Stato Islamico. “La polizia e l’esercito non vengono più nella nostra zona. Se lo fanno, vengono attaccati dai militanti”, dice alla Reuters il 25enne, che per vivere vende pesce in un mercato vicino. Quasi tre anni dopo che l’Isis ha perso la sua ultima enclave, i combattenti dello Stato Islamico stanno ritornando come una minaccia mortale, aiutati dalla mancanza di controllo centrale in molte aree. Lo Stato Islamico è lontano dalla formidabile forza di una volta, ma cellule militanti che spesso operano in modo indipendente sono sopravvissute in un’area dell’Iraq settentrionale e della Siria nord-orientale e negli ultimi mesi hanno lanciato attacchi sempre più pericolosi. “Siamo divisi, loro ritornano” - “Daesh (Stato islamico) non è così potente come lo era nel 2014”, sostiene Jabar Yawar, un alto funzionario delle forze peshmerga della regione del Kurdistan autonomo dell’Iraq. “Le sue risorse sono limitate e non c’è una forte leadership congiunta”, dice all’agenzia di stampa britannica nella città di Sulaimaniya. “Ma se le controversie politiche non saranno risolte, Daesh tornerà”. Alla fine di gennaio, lo Stato islamico ha compiuto uno dei suoi attacchi più letali contro l’esercito iracheno da anni, uccidendo 11 soldati in una città vicino a Jalawla, secondo fonti della sicurezza. Lo stesso giorno, i suoi militanti hanno preso d’assalto una prigione in Siria sotto il controllo della milizia curda appoggiata dagli Stati Uniti nel tentativo di liberare i detenuti fedeli al gruppo. È stato il più grande attacco dello Stato Islamico dal crollo del suo auto-dichiarato califfato nel 2019. Almeno 200 detenuti e militanti sono stati uccisi, oltre a 40 soldati curdi, 77 guardie carcerarie e quattro civili. Funzionari e residenti nel nord dell’Iraq e nella Siria orientale attribuiscono gran parte della colpa alle rivalità tra gruppi armati. Quando le forze irachene, siriane, iraniane e guidate dagli Stati Uniti hanno dichiarato sconfitto lo Stato islamico, si sono affrontate in tutto il territorio che aveva governato. Ora le milizie sostenute dall’Iran attaccano le forze statunitensi. Le forze turche bombardano i militanti separatisti curdi. Una disputa territoriale infuria tra Bagdad e la regione autonoma curda dell’Iraq. Le tensioni stanno minando la sicurezza e il buon governo, causando confusione. Per Ibrahim significa attraversare posti di blocco presidiati in vario modo da soldati iracheni e paramilitari musulmani sciiti per andare a lavorare in una città controllata fino a pochi anni fa dai curdi. Secondo i funzionari locali, le aree tra ogni avamposto militare sono il luogo in cui si nascondono i militanti dello Stato Islamico. Uno schema simile si verifica attraverso il corridoio di 400 miglia di montagne e deserto attraverso il nord dell’Iraq e in Siria, dove un tempo dominava lo Stato Islamico. Città come Jalawla portano le cicatrici di aspri combattimenti cinque anni fa - edifici ridotti in macerie e segnati da fori di proiettili. Gli stendardi in onore dei comandanti uccisi di diversi gruppi armati si accalcano per lo spazio nelle piazze cittadine. In alcune parti dell’Iraq in cui opera lo Stato Islamico, la disputa principale è tra il governo di Bagdad e la regione autonoma del Kurdistan settentrionale, sede di enormi giacimenti di petrolio, un territorio strategico rivendicato da entrambe le parti. Gli attacchi più mortali degli jihadisti in Iraq negli ultimi mesi sono avvenuti proprio in quelle aree. Decine di soldati, di combattenti curdi e residenti sono stati uccisi in violenze che i funzionari locali hanno attribuito ai militanti fedeli al gruppo. Secondo Yawar, i combattenti dello Stato Islamico utilizzano la terra di nessuno tra i checkpoint dell’esercito iracheno, dei curdi e delle milizie sciite per riorganizzarsi. “La distanza, l’area non controllata tra l’esercito iracheno e i Peshmerga a volte è larga 40 km”, dice Yawar. Mohammed Jabouri, un comandante dell’esercito iracheno nella provincia di Salahuddin, sostiene che i militanti tendevano ad operare in gruppi di 10-15 persone. A causa della mancanza di intese sul controllo del territorio, ci sono aree in cui né l’esercito iracheno né le forze curde possono entrare per inseguirli. “Ecco dove agisce il Daesh”, aggiunge parlando con la Reuters. Le forze paramilitari dello Stato iracheno allineate con l’Iran in teoria si coordinano con l’esercito iracheno, ma alcuni funzionari locali affermano che ciò non accade sempre. “Il problema è che i comandanti locali, l’esercito e i paramilitari... a volte non riconoscono l’autorità dell’altro”, ha detto Ahmed Zargosh, sindaco di Saadia, una città in una zona contesa. “Significa che i militanti dello Stato Islamico possono operare nelle aree vuote”. Zargosh vive fuori dalla città che amministra, dicendo che teme l’assassinio da parte dei militanti dello Stato Islamico se rimane lì la notte. Anche i militanti dello Stato Islamico all’altra estremità del corridoio del territorio conteso, in Siria, stanno approfittando della confusione per operare in aree poco popolate. “I combattenti entrano nei villaggi e nelle città di notte e hanno libero sfogo per operare, razziare cibo, intimidire le imprese ed estorcere ‘tasse’ alla popolazione locale”, dice Charles Lister, ricercatore del Middle East Institute. “Ci sono molte divisioni locali, siano esse etniche, politiche, o settarie, da utilizzare a proprio vantaggio”. Le forze governative siriane e le milizie sostenute dall’Iran controllano il territorio a ovest del fiume Eufrate e le forze curde sostenute dagli Stati Uniti sono di stanza a est, compreso il luogo in cui è avvenuto il recente attacco alla prigione. Il quadro sul versante iracheno della zona di frontiera non è meno complesso. Soldati e combattenti allineati con Iran, Turchia, Siria e Occidente controllano diversi segmenti di terra, con posti di blocco separati a volte a poche centinaia di metri l’uno dall’altro. Secondo funzionari occidentali e iracheni, l’Iran e le sue milizie per procura cercano di mantenere il controllo dei valichi di frontiera iracheno-siriano che sono la porta di Teheran verso Siria e Libano. I funzionari statunitensi incolpano quelle milizie per aver attaccato le circa 2.000 truppe americane di stanza in Iraq e Siria che combattono lo Stato Islamico. Teheran non ha commentato se l’Iran sia coinvolto. La Turchia, nel frattempo, lancia attacchi con droni dalle basi nel nord dell’Iraq contro militanti separatisti curdi che operano su entrambi i lati del confine. Al culmine del suo potere dal 2014 al 2017, lo Stato Islamico ha governato milioni di persone e rivendicato la responsabilità o ispirato attacchi in dozzine di città in tutto il mondo. Il suo leader Abu Bakr al-Baghdadi ha dichiarato il suo califfato su un quarto dell’Iraq e della Siria nel 2014 prima di essere ucciso in un raid delle forze speciali statunitensi nel nord-ovest della Siria nel 2019, quando il gruppo è crollato. Le forze armate nel nord dell’Iraq e nel nord-est della Siria affermano il solo numero dei soldati di tutti i gruppi contrari al Daesh sarebbe sufficiente a impedire qualsiasi rinascita. Ma questi gruppi o eserciti o milizie sono divisi fra di loro. Sulla scia dell’assalto alla prigione, la coalizione militare guidata dagli Stati Uniti che combatte lo Stato islamico ha affermato che i recenti attacchi alla fine lo hanno reso più debole. Non tutti in Iraq e Siria hanno la stessa idea. “Dopo l’attacco alla prigione in Siria, temevamo che Daesh potesse tornare”, ha detto Hussein Suleiman, un impiegato del governo nella città irachena di Sinjar, che lo Stato islamico aveva invaso nel 2014 e dove ha massacrato migliaia di membri della minoranza yazida. “Lo Stato Islamico è venuto dalla Siria l’ultima volta. Le truppe irachene e le forze curde erano qui anche allora, ma sono fuggite”.