La Consulta: “Multa al posto del carcere, così è solo per ricchi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 febbraio 2022 “Il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti”. È netto il giudizio della Corte costituzionale nella sentenza depositata ieri (relatore Francesco Viganò) che riconosce la parziale incostituzionalità di un articolo di legge vigente dal 2003 - applicabile per pene inferiori ai sei mesi di carcere - in quanto viola il principio di uguaglianza e la finalità rieducativa della pena. Infatti per l’articolo 53, secondo comma, della legge 689 del 1981, modificato dall’articolo 4 della legge 134/2003, il valore giornaliero della pena pecuniaria che sostituisce quella detentiva “non può essere inferiore alla somma indicata dall’articolo 135 del codice penale (250 euro per ogni giorno di carcere da commutare, ndr) e non può superare di dieci volte tale ammontare”. Sarebbe come dire che - fa notare la stessa Corte riportando il caso sollevato dal Tribunale di Taranto, che insieme al Tribunale di Ravenna ha portato la questione davanti alla Consulta -, per sostituire la pena di tre mesi di reclusione, un uomo condannato per violenza privata, in seguito al parcheggio della propria auto davanti ad un passo carraio, dovrebbe pagare 22.500 euro: “molto più dei suoi redditi annui”. Insomma, malgrado la stessa legge stabilisca che la pena pecuniaria debba tenere conto anche delle condizioni economiche del reo, 250 euro al giorno, spiega la sentenza, è una quota “ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare”. I giudici costituzionali hanno perciò stabilito che “ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro”. Perché, fanno notare, “se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato”. Affinché la pena sia proporzionale, dunque, bisogna rispettare la prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, adeguando la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo. La Consulta ha poi ribadito, facendo anche riferimento alla delega parlamentare recentemente ricevuta dal governo, “la stringente opportunità - più volte segnalata da questa Corte - che il legislatore intervenga, nell’attuazione della delega stessa ovvero mediante interventi normativi ad hoc, a restituire effettività alla pena pecuniaria”, perché una buona normativa in materia “può costituire una seria alternativa alla pena detentiva”, come già avviene in molti altri Paesi. La Consulta: troppi 250 euro al giorno per tramutare il carcere in pena pecuniaria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2022 La Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per la violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa. La pena pecuniaria è una seria alternativa a quella carceraria, ma il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere in un privilegio per i condannati abbienti. Questo, in sintesi, ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.28 (redattore Francesco Viganò), con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena. La Corte ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il governo per modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza. La norma censurata dal Tribunale di Taranto prevede che il giudice può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi con una pena pecuniaria, il cui ammontare si ottiene moltiplicando i giorni della pena da sostituire per un importo a carico dell’imputato, stabilito tenendo conto delle sue condizioni economiche. Importo che però, nella formulazione dichiarata incostituzionale, non può essere inferiore a 250 euro al giorno. La Consulta ha rilevato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato. Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha proseguito la Corte, è ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone. Emblematico il caso esaminato dal Tribunale di Taranto: una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui. Un coefficiente di conversione così elevato ha determinato, nella prassi dei Tribunali, una drastica compressione della sostituzione della pena pecuniaria, che è invece uno strumento prezioso per evitare che, per un reato di modesta gravità, si finisca in carcere, con effetti più criminogeni che risocializzanti. La Corte costituzionale ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi. Consulta, troppi 250 euro al giorno per sostituire una pena detentiva in pecuniaria di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2022 Così si trasforma in un privilegio per i condannati abbienti. Il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere con la pena pecuniaria in un privilegio per i condannati abbienti. Lo ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.28 , depositata oggi (redattore Francesco Viganò), con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena. La Corte ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il Governo a modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza. La norma censurata - La norma censurata dal Tribunale di Taranto prevede che il giudice può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi con una pena pecuniaria, il cui ammontare si ottiene moltiplicando i giorni della pena da sostituire per un importo a carico dell’imputato, stabilito tenendo conto delle sue condizioni economiche. Importo che però, nella formulazione dichiarata incostituzionale, non può essere inferiore a 250 euro al giorno. La Consulta ha rilevato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato. Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha proseguito la Corte, è ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone. Il caso esaminato - Emblematico il caso esaminato dal Tribunale di Taranto: una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui. Un coefficiente di conversione così elevato ha determinato, nella prassi dei Tribunali, una drastica compressione della sostituzione della pena pecuniaria, che è invece uno strumento prezioso per evitare che, per un reato di modesta gravità, si finisca in carcere, con effetti più criminogeni che risocializzanti. La Corte ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi. Le Rems, sotto esame di Cedu e Corte Costituzionale di Giulia Melani e Katia Poneti Il Manifesto, 2 febbraio 2022 Dal 2017 non abbiamo più gli Opg, sostituiti, grazie ai decreti che si sono susseguiti in materia, da un complesso di misure e istituzioni di cui le Rems rappresentano (o dovrebbero rappresentare) soltanto l’estrema soluzione per le situazioni in cui le misure non detentive non si dimostrino adeguate. Oggi in molti sostengono che le Rems siano poche, i posti insufficienti e le liste d’attesa troppo lunghe, ma raramente ricordano che il numero di misure di sicurezza provvisorie è sproporzionato e il principio di extrema ratio spesso eluso. Il problema delle persone detenute in carcere senza titolo perché prosciolte (35 al 25 ottobre 2021, dati Dap) o in libertà in attesa di un posto in Rems è stato oggetto, pochi giorni fa, di due importanti sentenze: la n. 22/2022 della Corte costituzionale e la sentenza Sy contro Italia del 24 gennaio 2022 della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Gip di Tivoli e relative alle norme che hanno previsto il definitivo superamento degli Opg (art 3-ter del D.L. 211/2011, come convertito in legge 9/2012) ma ha riconosciuto l’esistenza di un problema relativo alle liste d’attesa e chiesto al Parlamento di intervenire per modificare alcuni aspetti del sistema delle Rems. La Corte europea dei diritti dell’uomo, chiamata a giudicare il caso di una persona detenuta per oltre due anni in carcere, in attesa dell’esecuzione del ricovero in Rems, ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione), detenzione senza titolo (art. 5 della Convenzione), violazione del diritto a un equo processo (art. 6 della Convenzione), mancanza di un rimedio effettivo (art. 13 combinato con articoli 3 e 5 della Convenzione), ma non ha ritenuto, in questa fase, di dover indicare allo Stato misure generali da adottare. Entrambe le sentenze evidenziano l’esistenza del problema delle liste d’attesa, che nel secondo caso avrebbe causato la lesione dei diritti di una persona illegittimamente detenuta in un carcere in cui si è realizzato un “abbandono terapeutico”. Dunque, “per andare dove dobbiamo andare”, ovvero per superare il problema delle liste d’attesa e tutelare i diritti delle persone che si trovino illegittimamente detenute in attesa della liberazione di un posto in Rems, “per dove dobbiamo andare?” Entrambe le Corti lasciano aperte varie strade. La Corte costituzionale suggerisce “la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni” ma anche un “altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio”. La Corte Edu, anche se indugia sulle condizioni di legittimità dell’internamento della persona “alienata” e omette di ricostruire la normativa nazionale che non consente di privare una persona con disabilità psicosociale della libertà in quanto “pericolosa a sé o agli altri”, sceglie - come anticipato - di non dare indicazioni generali, perché la scelta spetta allo Stato. L’auspicio è quello che non si scelga la strada - su cui alcuni sembrano convinti a incamminarsi- dell’aumento dei posti in Rems, che rischierebbe di condurci alla realizzazione di un Opg diffuso. Ma che “per andare dove dobbiamo andare” si opti per proseguire nel percorso di affermazione e riconoscimento della soggettività delle persone con disabilità psicosociale, avviato dalla legge Basaglia, che si proceda al superamento del doppio binario previsto dal codice Rocco “riconoscendo il diritto al giudizio” e si operi per garantire che sia tutelata la salute mentale (e non solo garantita l’assistenza psichiatrica) anche nei luoghi di detenzione. La proposta di legge c’è: è la n. 2939 depositata l’11 marzo 2021 alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi. Dobbiamo solo scegliere qual è la nostra via. L’impatto sulla giustizia del bis di Mattarella. Con vista Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 febbraio 2022 La conclusione della partita quirinalizia, con la conferma di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, scongela i dossier più caldi sul tavolo del governo Draghi rimasti in stand-by in queste settimane, primo fra tutti quello sulla riforma elettorale del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Del resto toccherà proprio a Mattarella presiedere nuovamente il Csm, un organo travolto da scandali correntizi e da una crisi di credibilità senza precedenti, e di cui più volte lui stesso ha invocato una riforma radicale, perlomeno del meccanismo elettorale (per una riforma strutturale dell’organo occorrerebbe una modifica della Costituzione, al momento impensabile). L’ultimo appello è giunto lo scorso novembre, quando Mattarella al decennale della Scuola superiore della magistratura ha sollecitato di nuovo governo e parlamento ad approvare una riforma del Csm “non più rinviabile”, che “sappia sradicare accordi e prassi elusive di norme che, poste a tutela della competizione elettorale, sono state talvolta utilizzate per aggirare le finalità della legge”. Le preoccupazioni del presidente della Repubblica, all’epoca convinto di dover passare il testimone a breve, sono legate anche alla circostanza che il Csm dovrà essere rinnovato tra luglio e settembre e che “non si può accettare il rischio di doverne indire le elezioni con vecchie regole e con sistemi ritenuti da ogni parte come insostenibili”. Ora che la scelta per il Mattarella-bis è stata compiuta, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, per lungo tempo tra i papabili per il Quirinale, sarebbe pronta a presentare le tanto attese proposte di riforma del sistema elettorale del Csm. Secondo le ultime indiscrezioni, le proposte andrebbero in direzione di un sistema maggioritario binominale, con collegi medio-piccoli e la garanzia della parità di genere. Possibile anche l’aumento dei consiglieri togati da 16 a 20 e dei membri laici da 8 a 10. Esclusa, dunque, l’adozione del meccanismo del sorteggio per l’elezione dei membri togati del Csm, la proposta più estrema avanzata da diverse parti per mettere fine una volta per tutte alle degenerazioni delle correnti (il meccanismo del sorteggio sarebbe previsto solo in via residuale, nel caso in cui non ci dovessero essere sufficienti candidature nei vari collegi). Per quanto riguarda le norme sull’ordinamento giudiziario, il pacchetto predisposto da Cartabia prevedrebbe il divieto di fare contemporaneamente il magistrato e ricoprire incarichi elettivi e politici, come invece è possibile oggi (si veda il caso Maresca), criteri più stringenti sulle “porte girevoli” tra politica e magistratura, e nuove regole per le procedure di conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi degli uffici giudiziari (quelli finiti al centro dello scandalo Palamara) per consentire nomine basate su trasparenza, obiettività e merito. I tempi, visto il previsto rinnovo del Csm in estate, appaiono strettissimi. Ma per Mattarella, che nel 2019 definì “sconcertante e inaccettabile” il quadro emerso dallo scandalo Palamara, sottolineando le “conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza” non solo del Csm ma dell’”intero ordine giudiziario”, la mancata approvazione di una riforma per l’elezione del Csm da parte delle forze politiche risulterebbe inaccettabile, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica (tanto che non è da escludere un’ennesima sollecitazione sul tema nel discorso di insediamento al Quirinale previsto giovedì). La magistratura associata attende le mosse della politica, con i soliti toni polemici, ma stavolta con minor potere negoziale. Proprio mentre il parlamento in seduta comune procedeva alla rielezione di Mattarella, l’Associazione nazionale magistrati teneva giovedì e venerdì scorsi un referendum consultivo online tra gli iscritti proprio sul sistema elettorale del Csm. Il referendum si è rivelato un fallimento. Come previsto, le toghe alla fine hanno detto no sia al sorteggio che al sistema maggioritario per eleggere il Csm, ma il vero dato politico è un altro, e duplice. Primo: quasi la metà dei magistrati aventi diritto al voto (circa 4 mila su 8 mila) ha deciso di non partecipare al referendum, segnalando una crisi di legittimazione dell’Anm ormai irreversibile. Secondo: il 42 per cento dei magistrati votanti ha detto sì al sorteggio temperato dei candidati al Csm. Insomma, persino tra le toghe il sorteggio non sembra poi così male. Csm e Consiglio di Stato la guerra infinita dei ricorsi per le nomine di Errico Novi Il Dubbio, 2 febbraio 2022 C’è innanzitutto un’alea di incertezza che permane sulla più alta delle magistrature. Pietro Curzio e Margherita Cassano sono sì stati riconfermati dal Csm, lo scorso 19 gennaio, al vertice della Cassazione, ma il contenzioso sulle loro nomine non pare esaurito: il “contendente” Angelo Spirito, che alla Suprema corte presiede la Terza civile, è in procinto di depositare un ulteriore ricorso, stavolta per ottenere la “ottemperanza” della sentenza precedente. Un extended time non imprevisto, ma che certamente complica il quadro faticosamente ricomposto dalle “rinomine lampo” del Csm. Ma a parte la singola incognita che tuttora grava su Curzio e Cassano, permane anche una più generale precarietà del cosiddetto autogoverno dei magistrati, se non dell’intero ordine giudiziario: fin dove può spingersi la censura amministrativa? Davvero la rivendicazione di autonomia espressa da Palazzo dei Marescialli con la riconferma di Curzio e Cassano si regge su basi robuste? E se non fosse così, riuscirà, la riforma del Csm, a stabilire regole meno esposte ai ricorsi? E infine, qual è il grado di credibilità di una magistratura che, ora come ora, continua a essere divisa sul controllo di legalità interno? Domanda, l’ultima, che in un’intervista pubblicata sul Riformista di ieri, un togato del Csm come Sebastiano Ardita ha impietosamente rilanciato. Ecco, ma prima di tornare alle scelte del giudice Spirito, si può aggiungere un’ulteriore e non trascurabile chicca: il prossimo 21 febbraio, in Consiglio di Stato si discuterà un altro ricorso relativo sempre alle vecchie nomine del presidente e dell’aggiunto della Cassazione, attivato stavolta da Camilla Di Iasi, attuale presidente della tributaria civile della Suprema corte, la sezione più grande di piazza Cavour, che gestisce, con un organico di oltre 70 magistrati, il contenzioso più ampio e finanziariamente rilevante dell’intera giustizia italiana. Di Iasi chiede, anzi aveva chiesto, che, per le funzioni di primo presidente aggiunto, fosse riconosciuta la prevalenza dei suoi titoli rispetto a quelli di Cassano. In teoria, dopo la sentenza depositata lo scorso 14 gennaio che ha accolto il ricorso di Spirito avverso le nomine di Curzio e Cassano, è venuto meno il motivo del contendere: la nomina impugnata da Di Iasi è già stata caducata dal Consiglio di Stato. Ma soprattutto, è stata superata dalla rinomina votata la settimana dopo dal Csm. Eppure, indiscrezioni riferiscono della possibile introduzione di motivi aggiunti da parte della magistrata ricorrente, che consentirebbero al Consiglio di Stato di esprimersi comunque. Sarebbe un colpo di scena, sul quale però non è facile azzardare previsioni. È un fatto, invece, che Spirito, valuta in queste ore la possibilità di attivare il giudizio di “ottemperanza” contro il Csm: vuol dire rivolgersi ancora al Consiglio di Stato affinché, stavolta, dichiari che la rinomina di Curzio e Cassano configura in realtà una elusione del precedente giudicato amministrativo, ed è dunque da considerarsi nulla. Soprattutto, con la propria azione, Spirito imporrebbe la designazione di un commissario ad acta che proceda a invalidare la delibera del 19 gennaio e a imporre a Palazzo dei Marescialli una nuova valutazione fra Curzio, Cassano e Spirito coerente con la sentenza “pro Spirito” depositata da Palazzo Spada lo scorso 14 gennaio. Non è sicuro che il Spirito assuma davvero un’iniziativa così dirompente. Il suo difensore, il professor Franco Gaetano Scoca, spiega di considerare “assolutamente percorribile tale opzione: d’altra parte, il presidente Spirito”, aggiunge, “sa di poterla perseguire solo se sorretto da una forte motivazione”. Spirito mantiene il riserbo. Colleghi che hanno avuto modo di parlargli ipotizzano una “terza via”: un giudizio di ottemperanza attivato solo sulla nomina dell’aggiunto Cassano, per evitare una tensione istituzionale troppo alta, considerato che sul voto bis del Csm ha impresso il proprio sigillo Sergio Mattarella, appena rieletto Capo dello Stato e dunque presidente del Csm. Scelte delicate. Ma, come minimo, l’alea di cui sopra è ben percepibile. Poi c’è un ultimo dettaglio. Il documento approvato venerdì scorso dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, il Csm dei giudici di Tar e Palazzo Spada, su sollecitazione della Associazione tra i magistrati del Consiglio di Stato: si tratta della “pratica a tutela” aperta dopo che il relatore della sentenza su Curzio e Cassano, Alberto Urso, era stato impallinato dai giornali in quanto il ricorrente da lui “premiato”, Spirito appunto, aveva fatto parte della commissione del concorso con il quale lui, Urso, era diventato consigliere di Stato. Ebbene, alla fine del documento approvato dal plenum del “Cpga” si “ribadisce il compito istituzionale della giustizia amministrativa, che non può avere altro riferimento che il dettato costituzionale e legislativo, senza distinzioni, per natura e categoria degli atti posti alla sua attenzione”. Come dire: rivendichiamo il diritto a censurare le tue nomine, caro Csm, non sei sottratto al controllo di legalità. Ora, quello di Palazzo Spada potrà sembrare un proclama da sconfitti. Ma dire che la lite fra magistrati si sia conclusa per sempre con la vittoria del Csm sarebbe da illusi. Presunzione d’innocenza, l’altolà dei giornalisti: “Con la nuova norma più processi mediatici” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 febbraio 2022 Più passano i giorni e più i detrattori della nuova norma sulla presunzione di innocenza aumentano, anche con motivazioni alquanto suggestive e paradossali. È emerso chiaramente durante le inaugurazioni giudiziarie nei vari distretti di Corte di Appello, durante le quali diversi procuratori generali, quali quello di Perugia, Sergio Sottani, e quello di Milano, Francesca Nanni, l’hanno criticata perché troppo restrittiva. Ad allearsi ai magistrati arrivano i giornalisti: due giorni fa il Consiglio dell’Ordine delle Marche ha diramato una lunga nota nella quale si dice che “il dlgs presunzione d’innocenza peggiora il processo mediatico” in quanto “tanto più si rende difficoltoso il contatto con la fonte ufficiale, tanto più si rischia di aumentare i processi sui media”. Addirittura, si arriva a dire che “i limiti imposti dal decreto 188, pur diretti a rafforzare la presunzione di innocenza, rischiano di suscitare l’effetto opposto rispetto a una corretta informazione, la quale, di fronte a muri e filtri cercherà altri canali, altre fonti, meno ufficiali e forse più interessate. Anche perché i limiti previsti sono vincolanti solo per le fonti pubbliche e non per le difese o parti offese nel procedimento”. Per l’avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro Studi Giuridici “Aldo Marongiu” dell’Ucpi, “non è paragonabile il fenomeno delle conferenze stampa o delle veline delle procure con i comportamenti deontologicamente scorretti tenuti in modo occasionale da avvocati spregiudicati. Il lettore del giornale o lo spettatore del tg sono certamente più influenzati dalla comunicazione ufficiale della pubblica autorità che non dalla notizia filtrata ai giornalisti da altre fonti”. Proprio il Centro Marongiu è stato co-organizzatore due giorni fa, insieme alle Camere penali di Firenze e Pistoia, e alla Fondazione per la Formazione forense dell’Ordine degli avvocati di Firenze, di un convegno sulla nuova norma. Tra i relatori il procuratore di Pistoia, Tommaso Coletta, per cui “la norma non è epocale” e “mancano tra i destinatari i giornalisti e gli avvocati”. In pratica non è cambiato nulla e non avevamo bisogno di questa ulteriore legge che si va ad aggiungere alle migliaia che già avevamo, secondo il magistrato. Mentre per gli avvocati intervenuti rappresenta invece un importante tassello, un pezzo di Costituzione che si rafforza nella pratica. A tirare le somme dell’evento è sempre l’avvocato Zilletti: “C’è un problema culturale di fondo: è assurdo ritenere di poter ledere la dignità e la presunzione di innocenza di una persona solo per il fatto di essere indagata”. La preoccupazione sollevata però da Gianluca Amadori, Consigliere dell’Ordine nazionale dei giornalisti, è che la norma metta un freno alle comunicazioni, ledendo il diritto dei cittadini ad essere informati. “Ma siamo così sicuri - replica Zilletti che le notizie delle indagini debbano necessariamente essere oggetto di comunicazione? Se il fatto di essere iscritto nel registro degli indagati non può costituire un pregiudizio - non ne deriva infatti un carico pendente -, perché dovrebbe essere data per forza notizia dell’iscrizione? Basta poco per essere indagati ma ricordiamoci che può arrivare il decreto di archiviazione. E allora perché uno dovrebbe finire necessariamente sbattuto sulle prime pagine dei giornali se manca persino la domanda del processo?”. Ad aprire il convegno era stato il deputato di Azione Enrico Costa: “Una cosa che non posso ritenere coerente con l’attuale legge è l’atteggiamento di molte forze di polizia che sfornano quotidianamente dei comunicati stampa su indagini, inchieste, sequestri, perquisizioni o altro”. Molte forze di polizia, ha detto Costa, “lo fanno, devo dire, non controllate dal procuratore della Repubblica che è il soggetto al quale questa normativa dà in mano il controllo, la regia, il filtro e la valutazione. Questo non è possibile. È necessario un intervento del ministero della Giustizia che con l’Ispettorato monitori quello che sta accadendo”. Infatti, come emerso grazie anche ad un nostro monitoraggio divulgato durante l’incontro, l’applicazione della norma è a macchia di leopardo. In alcuni comunicati della polizia giudiziaria è specificato che “la presente comunicazione è stata autorizzata dalla procura”, in altri questa dicitura manca. Per quanto concerne l’atto motivato, lo stesso è una rarità. In una nota della Guardia di Finanza concernente una operazione antifrode si dichiara, un po’ tautologicamente, che “il Procuratore della Repubblica ha autorizzato la diffusione delle notizie agli organi di stampa, sussistendo l’interesse pubblico al contrasto alle frodi fiscali, che arrecano danno alle entrate erariali dello Stato”. Sempre lo stesso procuratore, nel caso dell’interdizione totale per un anno per due avvocati, indagati per i reati di falsificazione e circonvenzione di incapace, motivava la nota “sussistendo l’interesse pubblico a tutela del principio di correttezza e di buona fede, da parte di particolari categorie professionali, nei rapporti con i propri assistiti, soprattutto se appartenenti alle fasce più deboli”. La questione dell’interesse pubblico rimane aperta: chi decide quale inchiesta ne sia meritevole? Zilletti teme che “tutto, secondo un’interpretazione troppo ampia della norma che potranno darne le procure, diventi di interesse pubblico, a scapito quindi degli indagati”. Magistrati onorari in sciopero, pioggia di rinvii di Viviana Lanza Il Riformista, 2 febbraio 2022 “Con le modifiche che la legge di bilancio 2022, che ha apportato alla normativa che disciplina lo stato giuridico dei magistrati onorari, non si è data alcuna risposta alle legittime rivendicazioni della categoria, mantenendo l’impostazione della riforma “Orlando” sebbene questa, nel suo complesso, sia stata dichiarata illegittima e stroncata senza appello dall’Unione europea e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, che ritengono il suo impianto contrastante con il diritto dell’Unione”. È da qui che partono le ragioni della protesta che è alla base dello stato di agitazione proclamato da pm e giudici onorari, magistrati di fatto ma non di diritto pur svolgendo nelle aule di tribunale una gran parte del lavoro. L’astensione dalle udienze, iniziata ieri, è prevista fino al 4 febbraio. Una settimana di stop che si tradurrà, nel distretto di Napoli, nel rinvio di centinaia di udienze. Basti pensare che nel Tribunale di Napoli i giudici onorari sono 121 su un organico di 156 posti, un numero pari alla metà dei giudici ordinari (215 posti coperti su 236 in organico). Il peso della magistratura onoraria sull’attività giudiziaria è stata riconosciuta anche di recente dai vertici degli uffici giudiziari napoletani in occasione delle relazioni a bilancio di dodici mesi di attività a Palazzo di Giustizia: “Con riferimento alle procedure di rito monocratico l’unico plausibile strumento per ovviare al notevolissimo numero di pendenze appare essere quello di un più incisivo se non massiccio impiego della magistratura onoraria”. Impiego previsto soprattutto per tutti i procedimenti aventi ad oggetto reati puniti con una pena non superiore ai quattro anni. Quindi per una gran mole di processi. Eppure, “con le disposizioni appena introdotte si continua a negare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato e si evoca una ambigua “stabilizzazione” nelle funzioni (che permangono onorarie)” lamentano i magistrati onorari spiegando così le ragioni dell’astensione. “Inaccettabile - si legge nella nota dell’AssoGot - è la condizione prevista al comma 5 dell’emendamento per cui la domanda di partecipazione al “concorso” (obbligatoria per chi non voglia decadere dall’incarico) “comporta rinuncia ad ogni ulteriore pretesa di qualsivoglia natura conseguente al rapporto onorario pregresso, salvo il diritto all’indennità di cui al comma 2 in caso di mancata conferma”. Non è ammissibile che per partecipare ad una selezione che, oltretutto, non prevede l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, si debba rinunciare a far valere i diritti relativi al precedente rapporto, non già di prestazione “volontaria” di attività onoraria, ma di lavoro con le caratteristiche della subordinazione, come riconosciuto dalla Cgue. Altrettanto inaccettabile è la previsione di un compenso solo “parametrato” ad alcune voci stipendiali spettanti al personale amministrativo giudiziario, con espressa esclusione delle poste retributive accessorie, nonostante il lavoratore comparabile sia stato chiaramente individuato dalla CGUE nel magistrato professionale, in mancanza, inoltre, dell’obbligo, a carico dello Stato, del versamento dei contributi previdenziali e assistenziali che, pertanto, permangono a carico del magistrato onorario. Assolutamente offensiva è poi l’indennità prevista dal comma 2 dell’art. 29 in caso di mancata conferma, tanto nell’ipotesi di mancata presentazione della domanda, quanto in quella di mancato superamento della procedura valutativa. Con un importo irrisorio, per di più lordo e limitato da un plafond, il datore di lavoro pubblico, dopo aver gravemente violato i diritti dei magistrati onorari, vorrebbe “autoassolversi”, a buon mercato, sulla pelle di chi ha finora contribuito in misura enorme e professionalmente qualificata all’amministrazione della Giustizia”. Emilia Romagna. Carceri, il nuovo Garante regionale è Roberto Cavalieri La Repubblica, 2 febbraio 2022 È il parmigiano Roberto Cavalieri il nuovo Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale. Succede a Marcello Marighelli. Eletto dall’Assemblea legislativa (con 43 voti), resterà in carica per cinque anni. Dal 2014 è garante comunale per i diritti dei detenuti a Parma, una realtà carceraria in cui è presente il regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro. L’incarico a Parma è stato assegnato a Roberto Cavalieri dopo che lo stesso aveva ricoperto l’incarico di coordinatore dello Sportello informativo e di mediazione linguistico-culturale rivolto ai detenuti. Ha svolto poi attività di consulenza in ambito penale per diversi soggetti istituzionali, compresi gli Istituti penitenziari di Parma. Ha anche collaborato, nell’ambito della formazione, con il ministero della Giustizia per l’attuazione di progetti collegati all’inclusione sociale del detenuto. Si è occupato, inoltre, di cooperazione internazionale, collaborando anche con la Caritas. Si è laureato in Scienza della terra all’Università di Parma. Il Garante delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale è un istituto a tutela dei detenuti. È un organo autonomo e indipendente che concorre a garantire il rispetto dei diritti e della dignità delle persone private della libertà personale, favorendone il recupero e il reinserimento nella società. L’intervento del garante è aperto a tutti gli adulti e ai minori (italiani e stranieri) presenti sul territorio regionale ristretti o limitati nella loro libertà personale. Campania. Ciambriello: “Dalla politica trascuratezza e pressapochismo sui temi del carcere” retesei.com, 2 febbraio 2022 Nella giornata di ieri, accogliendo un invito del Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, il provveditore reggente dell’Amministrazione penitenziaria della Campania, Carmelo Cantone, ha ricevuto i Garanti territoriali dei detenuti: Pietro Ioia (Napoli), Emanuela Belcuore (Caserta) e Carlo Mele, rappresentato da Giovanna Perna (Avellino). Per il Garante Samuele Ciambriello l’incontro ha rappresentato un momento importante di condivisione: “abbiamo fatto il punto della situazione sulle criticità, nonché sulle buone prassi adottate nelle carceri campane, in periodo di pandemia da Covid-19. Abbiamo stigmatizzato alcune disarticolazioni di norme, regolamenti e circolari non applicati in alcuni istituti penitenziari. Abbiamo convenuto sulla necessità di incontrare al più presto i vertici della sanità campana, visto che da quattordici anni ormai questa è di competenza delle Regioni. Infine, abbiamo rappresentato allarmi e drammi esistenziali di detenuti. Dalla politica romana solo trascuratezza e pressapochismo sui temi del carcere”. L’incontro odierno, altresì, è stata l’occasione per firmare un protocollo d’intesa tra il Garante campano delle persone private della libertà personale e il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria campana, al fine di organizzare una collaborazione rapida, trasparente ed efficace negli istituti di pena della Campania. Il Garante Ciambriello, infine, comunica che attualmente i detenuti campani affetti da Coronavirus sono 460, di cui 4 ricoverati in ospedale, mentre sono 180 i contagiati tra gli agenti di polizia penitenziaria. Palermo. Avviso pubblico per la nomina a Garante comunale dei diritti dei detenuti comune.palermo.it, 2 febbraio 2022 È indetto l’avviso pubblico per la presentazione delle domande da parte dei soggetti che, avendo i requisiti richiesti, siano interessati alla nomina di Garante Comunale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale del Comune di Palermo. Requisiti richiesti: • possesso della cittadinanza italiana; • godimento dei diritti civili e politici; • garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni; • comprovata esperienza, almeno quinquennale, nell’ambito delle tematiche riguardanti la realtà carceraria e dei diritti umani, da documentare in curriculum vitae; • non svolgere qualsiasi altra attività tale da pregiudicare l’efficace ed imparziale svolgimento e il libero esercizio delle funzioni proprie dell’istituzione. In particolare non essere amministratore delle strutture carcerarie o legale rappresentante in Associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti alla persona ed interessate ai problemi penitenziari; • non svolgere qualsiasi altro incarico governativo o istituzionale e qualsiasi altra attività professionale che determini un conflitto d’interesse • possesso dei requisiti per l’elezione a Consigliere/a comunale secondo le norme della disciplina vigente. Gli interessati e le interessate a ricoprire tale carica possono inviare la propria candidatura, utilizzando il modulo di dichiarazione di disponibilità, allegato al presente avviso e il curriculum vitae entro e non oltre il 2 marzo 2022 tramite posta elettronica certificata, avente ad oggetto “Avviso Candidature Garante Comunale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale” all’indirizzo: settoreservizisocioassistenziali@cert.comune.palermo.it. L’Ufficio ricevente provvederà a stilare l’elenco delle istanze pervenute e a trasmetterlo al Sindaco entro i 30 giorni successivi al termine fissato per la presentazione delle candidature. L’esito della procedura sarà pubblicato sul sito internet istituzionale del Comune di Palermo. Info: https://www.comune.palermo.it/palermo-informa-dettaglio.php?tp=1&id=33862. Cagliari. Covid, nel carcere di Uta 82 detenuti positivi di Luciano Onnis La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2022 Il 10 gennaio non c’era un solo positivo nei dieci settori del penitenziario, adesso quasi il 14 per cento dei reclusi ha contratto il Covid. La variante Omicron sembra aver interrotto lo stato di calma piatta di cui aveva beneficiato il carcere di Uta fino a venti giorni fa: il 10 gennaio non c’era un solo positivo nei dieci settori del penitenziario, adesso sono 82 su circa 600 detenuti, come dire che quasi il 14 per cento dei reclusi ha contratto il Covid. Nessun allarme, almeno per ora: i detenuti positivi al tampone sono stati trasferiti in due reparti della struttura destinati a chi ha contratto il virus, ma nessuno - assicura il direttore sanitario Luciano Fei - ha finora accusato sintomi preoccupanti: “Un solo detenuto, con patologie pregresse piuttosto serie - spiega Fei - è stato trasferito due volte in ospedale ma ha firmato il foglio di dimissione volontaria per rientrare in carcere”. Per i detenuti che hanno condiviso la cella con i positivi la procedura è quella standard: tampone subito, in caso di esito negativo nessuna quarantena. Resta una domanda? Che cosa è accaduto nei primi giorni di gennaio? “Eravamo in una situazione invidiabile - avverte Fei - nessuno dei quasi seicento detenuti era risultato positivo nonostante i controlli continui. Purtroppo in quei giorni qualcuno è entrato nella struttura e la variante Omicron, molto più contagiosa delle altre, ha provocato questa situazione”. I vaccini però sembrano aver salvato i reclusi da conseguenze gravi: “Abbiamo due terzi dei detenuti che hanno completato il ciclo vaccinale - fa i conti il direttore sanitario - un terzo deve ancora ricevere la terza dose mentre i no vax sono soltanto venticinque e non c’è verso di convincerli. È chiaro che senza una vaccinazione così estesa la situazione sarebbe stata diversa”. Il dirigente medico smentisce la denuncia pubblica circolata nei giorni scorsi, secondo la quale al centro medico di Uta mancherebbero costantemente farmaci fondamentali: “Non è vero - taglia corto Fei - è accaduto che un giorno, ma davvero un giorno sia mancata la tachipirina. Certo, non deve succedere. Ma si è trattato di ventiquattr’ore”. Milano. Il carcere a due anni dalla pandemia di Emanuela Gazzotti cattolicanews.it, 2 febbraio 2022 “Chi si occupa dei margini della società si occupa delle frontiere”. Una frase, quella dello psicologo dell’emergenza Fabio Sbattella, che sintetizza il valore delle esperienze traumatiche che capitano nella vita e dalle quali si impara a cambiare lo sguardo, oltrepassando la paura del limite e scorgendo la bellezza del valicarlo. Il tempo del Covid ha avvicinato realtà che abitualmente pensiamo lontanissime. Come nel caso del carcere. Avremmo mai immaginato di provare la sensazione di privazione della libertà che i detenuti sperimentano ogni giorno fino alla fine della loro pena? I lockdown degli ultimi due anni ci hanno immersi in una realtà simile anche se con le dovute distinzioni. Mai come in questo tempo la popolazione degli istituti penitenziari si è trovata unita nel disorientamento, nella preoccupazione, nella solitudine, nella stanchezza, nella sensazione di impotenza. Eppure tutti insieme, detenuti, polizia penitenziaria, medici, avvocati, magistrati, provveditori si sono uniti, hanno puntato alla frontiera e l’hanno oltrepassata insieme. Questo è uno dei temi approfonditi durante il convegno “Diritti e restrizioni, evoluzioni e rivoluzioni. Il carcere a due anni dalla diffusione della pandemia da Covid-19” che si è svolto lunedì 31 gennaio a chiusura del master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici. Il dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica dal 2020 ha svolto molte ricerche, nominate dalla direttrice Antonella Marchetti, per studiare l’impatto del Covid nei diversi ambiti di vita di anziani, famiglie, organizzazioni, società. E un’équipe di psicologi si è dedicata ad approfondire la situazione vissuta dai detenuti nella prima fase di lockdown, il periodo caratterizzato dalle rivolte dei detenuti. “Dalle narrazioni che abbiamo avuto la possibilità di analizzare emerge una forte preoccupazione dovuta alla consapevolezza dell’impossibilità di attenersi in modo scrupoloso alle prescrizioni fornite dal nostro governo e dall’OMS - ha spiegato Emanuela Saita, psicologia e direttrice del master in Psicologia penitenziaria. Nelle fasi iniziali della pandemia le mascherine e il disinfettante non sembravano sufficienti. Oltre a ciò, il carcere - pensato come un luogo che separa il dentro dal fuori in termini di “sicurezza” - non poteva più essere vissuto come un luogo sicuro perché chi entrava e usciva dagli istituti penitenziari (ad esempio gli agenti) veniva vissuto come un pericolo di contagio”. Queste considerazioni sono state confermate dai relatori intervenuti al convegno. Gli infettivologi Roberto Ranieri e Ruggero Giuliani hanno riportato l’esperienza all’interno del carcere di San Vittore e di Bollate a titolo di esempio nell’adottare tutte le misure di prevenzione, spostare i detenuti che necessitavano di cure ospedaliere, allestire reparti Covid all’interno del carcere e uno speciale all’interno dell’ospedale San Paolo, tracciare il contagio, operazione che in carcere è molto più facile che in qualsiasi ambiente libero. Infatti, durante il primo lockdown i contagi sono stati sotto i 100 su una popolazione di 700mila detenuti. Il problema sanitario e la preoccupazione del contagio, si evince dalla ricerca, hanno messo in evidenza la paura che non sempre era contenibile perché non si capiva quello che stava succedendo. Un problema serio è stata la gestione della comunicazione. Come ha dichiarato il professor Sbattella, “la comunicazione è ciò che fa esistere risorse e minacce. La rappresentazione della minaccia deve essere ben costruita altrimenti si crea solo panico”. Inoltre “il trauma si basa sulla paura nella solitudine. Gli esseri umani sono mammiferi sociali e davanti al pericolo lo guardano meglio per capire, e se stanno bene sanno chiedere aiuto. La nostra forza è la relazione, la solidarietà”. Un concetto ripreso dal dottor Ranieri che ha spiegato come il personale penitenziario sia diventato un supporto al personale sanitario, partecipando ad attività specifiche come per esempio la vestizione tipica di medici e infermieri per accompagnare i detenuti. In modo solidale, ciascuno ha imparato a rivedere la propria immagine e il proprio ruolo. Al convegno hanno portato la loro testimonianza anche Francesca Valenzi, Dirigente Ufficio Detenuti e Trattamento, e Maria Pitaniello, direttrice della casa circondariale monzese. Sono stati sottolineati la fatica, il disorientamento di fronte a un’emergenza già dichiarata nella Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2020 ma che nessuno aveva preso in considerazione. E ancora la fondamentale importanza di lavorare insieme per avviare provvedimenti nuovi e di comprendere lo scetticismo, la diffidenza e la rabbia dei detenuti nei confronti dell’istituzione. Giovanna Di Rosa, presidente dell’Ufficio di sorveglianza di Milano, è intervenuta sulle problematiche relative ai provvedimenti da adottare di fronte all’emergenza come la scelta della scarcerazione in caso di pene molto brevi per far fronte al problema del sovraffollamento nelle carceri, che in emergenza rappresentava un’aggravante. Per garantire il diritto alla salute è stato fondamentale sovvertire alcune regole ordinarie nel sistema penitenziario, come ha precisato Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano. Infine, del tema delle rivolte all’inizio della pandemia ha parlato il provveditore di Milano Pietro Buffa che ha attribuito una valenza politica alle rivendicazioni della libertà da parte dei detenuti. “Il virus è stato usato come clava, uno strumento primitivo per far valere un proprio pensiero, non chiedendo un reale confronto ma esprimendo una pretesa”. La protesta vista dunque come l’espressione di un mal contento già in essere in carcere e di ideologie pregresse che hanno trovato nel virus l’occasione per emergere. “Il virus è sbocciato come un germoglio del male, quasi alla fine dell’inverno, a cavallo con quella che dovrebbe essere una delle più belle stagioni in assoluto: la primavera. Ma dare spazio all’espressione personale relativa ad eventi così come soggettivamente esperiti consente di comprendere che quel germoglio, apparentemente nocivo, ci dimostra che vi è sempre vita”. Le parole conclusive della professoressa Saita hanno riportato la speranza e un pensiero costruttivo nella consapevolezza che dal male può nascere sempre il bene. Padova. La nuova vita di Michele dopo il carcere di Sara Loffredi Vanity Fair, 2 febbraio 2022 Con una cooperativa ridà lavoro e dignità ai detenuti. Dopo 12 anni di carcere, la nuova vita: una cooperativa che ridà lavoro e dignità ai detenuti. Ma quello commesso da Michele Montagnoli è un crimine orribile, che lo inchioda comunque al passato. E che agita la coscienza di chi ha deciso di incontrarlo. L’autostrada è immersa nella nebbia. Al casello di Verona Sud intravedo una macchina ferma sulla destra e lì accanto un uomo in piedi, dritto, che fissa la strada. Immagino sia la persona con cui ho appuntamento. Accosto, respiro. Mi chiedo se me la sento davvero. Non riesco a rispondermi, ma scendo dall’auto. L’uomo mi viene incontro con la mano tesa: “Michele, piacere”. Salgo sulla sua macchina, direzione Padova. Quando studiavo Giurisprudenza, uno dei miei cavalli di battaglia era la funzione rieducativa della pena e ora la richiamo alla mente, perché la mia agitazione faccia un passo indietro. Michele Montagnoli ha ucciso la sua compagna nel 2005 ed è uscito di prigione nel 2017, dopo aver scontato dodici anni di carcere. Siamo diretti alla sede della cooperativa All’Opera, l’impresa di cui lui è socio fondatore e che si occupa del reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti. L’altro socio è Massimiliano Miele: i due si sono conosciuti anni fa all’interno del carcere Due Palazzi, nella cooperativa Giotto. “Ci occupiamo di detenuti, è vero, ma non solo”. La voce di Michele mi stana dai pensieri. “Abbiamo contrattualizzato anche richiedenti asilo, persone appartenenti alle categorie protette e più in generale svantaggiate, che faticano a cercare un’occupazione”. Facciamo tappa a Vigonza, sede della Fralex, azienda specializzata nell’assemblaggio industriale di piccoli elettrodomestici. Alla cooperativa hanno affidato lo smontaggio delle macchine del caffè e l’inscatolamento delle cialde. Mi avvicino ai ragazzi che stanno lavorando in magazzino, scambio qualche parola con loro. Hu ha 32 anni, mi racconta che fuori dal carcere non c’era nessuno ad aspettarlo e lo fa in un italiano incerto. Viene qui in bici. “Abiti lontano?”, gli chiedo. Scuote la testa. “Gli abbiamo trovato una stanza in paese”, si inserisce Massimiliano, l’altro socio. “Cerchiamo di dar loro una mano anche sulle questioni pratiche, i colloqui con l’assistente sociale, i documenti. Sappiamo cosa significa”. “D’altronde”, continua Michele, “le anime di All’Opera sono due, quella imprenditoriale e quella sociale, e una non può vivere senza l’altra”. Risalgo in macchina con lui, la seconda tappa è il loro ufficio di Padova dove ci aspetta Tommaso Bedin, rappresentante legale della cooperativa. Quando Michele parla di nuovo, guarda la strada. “In cella puoi mentire a tutti ma non a te stesso. Hai tanto tempo per pensare a quello che hai fatto e alla vita che ti ha portato lì. Il carcere mi ha salvato. Prima correvo i rally e avevo tra le mani sempre troppi soldi e troppa cocaina. A trent’anni lavoravo nell’impresa di famiglia e un giorno mio padre mi ha proposto di affidare un’attività a dei detenuti. Gli ho risposto che era un matto e che non avrei mai voluto avere a che fare con quella gente lì. Poi sono diventato io, quella gente lì. E ora lo sono i ragazzi che aiutiamo”. Ragazzi come Hu, appunto. O come Giovanni, che ha 42 anni e mi compare sorridente nello schermo, collegato da Bari, dove ha raggiunto la famiglia per un permesso premio. È quello che si dice un “articolo 21”: esce dal carcere solo per lavorare, coordina la squadra del magazzino di Vigonza e la sera rientra in cella. “La mattina mi sveglio e sono contento di avere un impegno da affrontare”, mi spiega, “a volte non è facile far andare d’accordo tante persone di nazionalità diverse, ma mi impegno perché tutti lavorino bene insieme”. Mi parla del suo percorso, del ruolo fondamentale che hanno avuto gli educatori. E conclude lapidario: “Oggi senza lavoro non so stare”. Una delle prime domande che facciamo a una persona sconosciuta è: “Di cosa ti occupi?”. In quest’ottica, dare un lavoro a chi è stato in carcere e ha scontato una condanna significa fornire una nuova e concreta possibilità di identificazione, per evitare il più possibile il perpetuarsi di comportamenti devianti e criminali. “Non voglio dimenticare il male che ho fatto”, mi dice Massimiliano, “perché dimenticare porta gli eventi a ripetersi. Se fossi rimasto negli altri istituti avrei continuato a essere quello che ero. È stato un educatore che veniva dai Due Palazzi a raccontarmi cosa si faceva a Padova, quando io stavo a Palermo. Ho voluto subito venire qui”. “Il lavoro è al centro del mio progetto di cambiamento”, mi racconta Giuseppe, un uomo di 46 anni che lavora con All’Opera da un anno e mezzo. “Mi occupo della finitura delle impronte auricolari per GN Hearing, che produce protesi acustiche. È un lavoro delicato, penso sempre che dall’altra parte c’è una persona che ha necessità di un apparecchio per poter sentire. Quando sono arrivato avevo paura, non sai mai come gli altri possano reagire. Ma ho pensato soltanto a svolgere il mio compito al meglio, il resto è venuto da sé”. “Siamo stati in assoluto il primo cliente di All’Opera”, ammette con orgoglio Giulio Sartori, customer care manager Italia della multinazionale GN Hearing. “L’azienda aveva una necessità operativa e ne è stata affiancata una sociale: la sensibilità già c’era, i nostri pasti sono gestiti dalla cooperativa Work Crossing che opera nel carcere di Padova… ma tra l’avere addetti esterni o interni la percezione cambia”. “E com’è andata?”, gli chiedo. Fa un attimo di pausa. “Di fronte a questi temi ci sono due visioni, una è quella che ritiene impossibile il cambiamento e allora non rimane altro che la pena di morte. L’altra è quella che non identifica un detenuto con il suo reato e pensa ci possa essere un recupero della persona. In quest’ultimo caso, più delle parole contano i fatti. Siamo stati dei facilitatori, abbiamo mostrato di crederci”. “Il lavoro è il primo passo per il reinserimento nella società”, mi spiega Melania Russo, psicologa che ha un ruolo fondamentale nella cooperativa All’Opera. “Chi esce dal carcere è spesso senza punti di riferimento e capita che incappi di nuovo in situazioni disfunzionali. Avere un’occupazione è determinante per evitarlo. Molti hanno difficoltà relazionali, difficoltà a seguire le regole del lavoro; la cooperativa si fa carico di questo aspetto e io li seguo nel processo: non si tratta solo di insegnare un mestiere ma di costruire un percorso di cambiamento, una nuova vita”. “L’unico modo per sviluppare il senso di responsabilità nelle persone è affidare loro delle responsabilità”, si legge nella sede di Italchimica, azienda italiana di detergenza e sanificazione professionale. Stefano Belloni, responsabile risorse umane e affari legali, ha le idee chiare in proposito. “Abbiamo raggiunto molti obiettivi in questi due anni così difficili per tutti. Ora vogliamo restituire valore alla comunità con progetti sociali. Ci interessa essere uno dei contesti dove attività come quelle di All’Opera siano recepite e valorizzate, stiamo ragionando con loro in termini di collaborazione per il nuovo anno”. Mentre torniamo verso Verona, Michele mi fa sentire alcuni dei tanti messaggi vocali che riceve. “Se hai un lavoro per me, io vengo”. “Sono bravo nelle attività manuali, avete qualcosa?”. Lui e Massimiliano sono una speranza per chi sta ancora dentro, la dimostrazione che esiste la possibilità di una vita diversa. Nell’aprile 2020, in una Piazza San Pietro deserta, Michele ha partecipato alla Via Crucis con papa Francesco insieme a don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova. “Il Papa mi ha detto che sono un vivo che è resuscitato. Io non sono più l’uomo che ero, l’unico mio desiderio sarebbe tornare indietro per riparare, ma non si può. Anche se per la legge sono libero, in realtà non lo sarò mai, perché ogni giorno ho con me la consapevolezza di ciò che ho fatto, del dolore che ho causato”. Lo saluto, risalgo in macchina. Mentre guido lungo un’autostrada senza più nebbia penso che sarebbe stato più facile per me non conoscere il reato compiuto da Michele. Ci sono abissi personali in cui è meglio non immergersi. Ma credere davvero che la pena abbia una funzione rieducativa, come è scritto nella nostra Costituzione, significa anche comprendere l’importanza di raccontare una storia come quella di All’Opera. Il senso di quest’impresa sta tutto nelle parole che il presidente di una grossa fondazione padovana ha rivolto un giorno a Michele e a Massimiliano: “Il vostro progetto mi fa stare tranquillo. Soprattutto per i miei nipoti”. “Teneri assassini”: Sales racconta il mondo delle baby-gang napolitoday.it, 2 febbraio 2022 L’esperto di camorra analizza il fenomeno del momento a Napoli. È nelle librerie “Teneri Assassini - Il mondo delle baby-gang a Napoli”, di Isaia Sales, testo edito della casa editrice Marotta & Cafiero. Un saggio che esplora il mondo della criminalità minorile a Napoli da molti punti di vista: storico, sociologico, criminologico. “Isaia Sales entra nella scuderia della Marotta & Cafiero con una riflessione lucida che analizza il fenomeno delle baby-gang non dal solito punto di vista mediato e riduttivo. Ma lo fa portando numero a sostegno della comprensione del disagio giovanile e contestualizzandolo in uno scenario internazionale”, dichiara il direttore editoriale della Marotta & Cafiero, Rosario Esposito La Rossa. “Contrariamente a quanto si ritiene - spiega l’autore nella prefazione - Napoli non è compresa tra le prime cinquanta città più violente al mondo per numero di omicidi. Napoli non è neanche la città con più omicidi in Europa in rapporto alla popolazione”. Sales si chiede da dove derivi, quindi, la singolarità della situazione dell’ordine pubblico a Napoli. “Essa è dovuta innanzitutto alla ‘qualità’ delle azioni criminali, alla radicalizzazione violenta di una parte consistente dei giovanissimi dei quartieri, a un alto indice di recidiva da adulti dei minori finiti nel circuito delle carceri minorili, alla ‘ percezione’ che si ha della fase attuale. Il saggio fa parte della collana “Le lucciole”, diretta da Felice Cocozza. Isaia Sales è un saggista, politico e insegna “Storia delle mafie” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Ha collaborato con numerosi giornali ed è attualmente editorialista de “Il Mattino”. Sales è uno dei più grandi studiosi della camorra e del Sud d’Italia. È stato sottosegretario al Ministero del Tesoro nel primo governo Prodi. Suicidio assistito, il tribunale condanna ancora le Marche di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 febbraio 2022 Eutanasia legale. Il giudice ordina all’Azienda sanitaria regionale di verificare le condizioni di “Antonio”. Muro dell’assessore leghista Saltamartini: “Intervenga il Parlamento”. Per la seconda volta, negli ultimi sette mesi, il Tribunale di Ancona ha emesso un’ordinanza con la quale intima alla Azienda Sanitaria Unica Regione (Asur) Marche di procedere nell’iter di accesso al suicidio medicalmente assistito di un paziente che ne abbia fatto richiesta. Dopo aver emesso ben due sentenze (l’ultima, il 9 giugno 2021) per agevolare la richiesta avanzata da “Mario”, il paziente tetraplegico di 43 anni che ha già ottenuto la verifica delle proprie condizioni ma ancora attende l’ennesima commissione preposta a decidere il tipo e la quantità di farmaco da utilizzare per porre fine alle sue sofferenze, questa volta i giudici marchigiani si sono pronunciati sul caso di “Antonio”. Altro nome di fantasia per una persona, anch’egli di 43 anni e residente nelle Marche, che da quasi 18 mesi vede la propria richiesta bloccata da un muro di gomma, quello eretto dall’assessore regionale leghista Filippo Saltamartini che, dopo aver snobbato perfino la circolare ministeriale che lo richiamava ai propri doveri, ieri ha detto: “È una questione che deve essere affrontata dal Parlamento”. La notizia della sentenza di Ancona è stata diffusa dall’associazione Luca Coscioni che ha messo il proprio pool di legali, capitanati dalla segretaria dell’organizzazione, l’avvocata Filomena Gallo, a disposizione di Antonio, il giovane tetraplegico a seguito di un incidente stradale e con un quadro clinico molto compromesso, che chiede all’Asur Marche di verificare le proprie condizioni fisiche e psichiche, come previsto dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul caso “Cappato-Dj Fabo”. Nell’ordinanza di fine gennaio, la giudice di Ancona sottolinea che l’uomo avrebbe “già messo da parte la somma necessaria per andare in Svizzera per realizzare il proprio intento”. Antonio però vorrebbe morire tra i suoi cari. “Non è più la mia vita, prima facevo tutto da me adesso devo chiedere qualsiasi cosa - ha spiegato qualche mese fa in una lettera aperta - L’appoggio della mia famiglia è stato di grande importanza nei momenti più difficili della mia vita ed ora posso dire grazie anche a loro se ho la forza e il coraggio di affrontare questa nuova sfida che mi riporterà ad una rinascita”. Il tribunale anconetano ha ordinato quindi all’Asur Marche di accertare, previa acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente, “se Antonio è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; se sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; se le modalità, la metodica e farmaco prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile”. E “non assume rilievo la circostanza dedotta dall’Asur per cui la Regione Marche non ha ancora individuato il comitato etico “territorialmente competente”. Secondo l’ordinanza infatti “diversamente opinando, si arriverebbe ad una abrogazione tacita della pronuncia della Corte Costituzionale e al mantenimento dello status quo ante rispetto alla pronuncia”. Abrogazione che, spiega Filomena Gallo, “per legge non è possibile perché una sentenza della Corte Costituzionale non può essere riformata o cancellata dal Parlamento o da un Tribunale ordinario”. L’assessore Saltamartini invece si rifugia dietro un “noi non possiamo obbligare un medico a farlo”, spalleggiato dalla senatrice Paola Binetti, molto attiva in questo periodo con convegni e incontri nel sollecitare un movimento di medici e strutture obiettrici al suicidio assistito. “Il reiterato ostruzionismo dell’azienda sanitaria sta comportando una continua negazione di diritti costituzionali ma soprattutto il prolungarsi delle sofferenze dei malati”, sottolinea Gallo invitando l’Asur Marche a “collaborare al rispetto della legalità anziché continuare a negarla”. Migranti. Chiusa la procedura per la sentenza Cedu sugli hotspot, deluse le associazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 febbraio 2022 Per il governo italiano è giunto solo un monito del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per le condizioni degli hotspot italiani. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha ufficialmente chiuso la procedura di supervisione sull’attuazione della sentenza Khlaifia c. Italia della Corte europea dei diritti umani. Deluse le associazioni Asgi, A Buon Diritto e Cild, le quali ritengono che la decisione del Comitato dei Ministri sia in contrasto con la tutela dei diritti delle persone che dal 2011 ad oggi sono transitate negli hotspot italiani e invitano la società civile a non abbassare la guardia. La notizia di tale decisione l’ha resa nota l’associazione per gli studi Giuridici sull’immigrazione (Asgi), ripercorrendo tutta la vicenda. La Cedu aveva riscontrato gravi violazioni da parte dell’Italia - Tutto parte dalla sentenza del 15 dicembre 2016. La Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Khlaifia c. Italia, ha riscontrato la violazione da parte dell’Italia dell’art. 5 Cedu, commi 1, 2 e 4 in relazione al trattenimento privo di base legale e di garanzie di tre cittadini tunisini trattenuti nel 2011, dapprima presso il Centro di soccorso e prima accoglienza (Cspa) di Contrada Imbriacola (oggi hotspot) a Lampedusa, e poi a bordo delle navi Vincent e Audacia. Inoltre riscontrava la violazione dell’art. 13 Cedu, con riferimento all’art. 3 Cedu, in ragione dell’assenza di una procedura per poter presentare doglianze relative alle condizioni del trattenimento. L’Asgi sottolinea che si tratta di una sentenza tristemente ancora attuale, ricordando che ancora oggi non è prevista una convalida davanti ad un giudice per il trattenimento in hotspot e che non esistono rimedi giurisdizionali specifici - contrariamente a quanto avviene per chi è detenuto in carcere - per poter contestare le condizioni di vita in tali centri. Il tragico esempio della morte di Wissem Abdel Latif - Per capire l’attualità della sentenza Khlaifia c. Italia, l’associazione fa il tragico esempio della morte di Wissem Abdel Latif, prima trattenuto all’interno dell’hotspot di Lampedusa in assenza di informativa legale e nell’impossibilità di presentare richiesta di protezione internazionale, in una condizione di fortissimo isolamento, poi trasferito su una nave “quarantena” fino al trattenimento nel Cpr, funzionale all’allontanamento, senza soluzione di continuità. Questa volta le conseguenze sono state ancora più drammatiche, rispetto alle testimonianze raccolte negli anni dalle organizzazioni della società civile su questo tipo di procedure, che comportano illegittimi allontanamenti dal territorio e negazione del diritto alla libertà di movimento. Wissem è, infatti, morto in stato di contenzione, dopo più di un mese di illegittimo trattenimento, proprio mentre il Giudice di pace di Siracusa annullava il decreto di respingimento emesso nei suoi confronti alla luce del mancato accesso all’esercizio del diritto di asilo in frontiera. Il monito all’Italia del Comitato dei Ministri - Dunque, la totale assenza di diritti e garanzie negli hotspot è ancora attuale, ma nonostante ciò il Consiglio d’Europa, nella riunione dello scorso 2 dicembre ha deciso la chiusura della procedura di esecuzione della sentenza Khlaifia c. Italia. Seppur mantenendo il monito nei confronti delle autorità italiane a tenere in adeguata considerazione le preoccupazioni espresse dalla società civile, il Comitato dei Ministri ha sottolineato l’importanza di un continuo dialogo con quest’ultima e con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, affinché si adottino tutte le misure necessarie per garantire una rigorosa e coerente applicazione del nuovo quadro giuridico. “Con questo risultato, a cinque anni dalla condanna della Corte EDU, si avalla l’applicazione dell’approccio hotspot caratterizzato dalla privazione indebita della libertà personale, funzionale a impedire anche l’accesso alla richiesta di protezione internazionale. Questa posizione del Comitato desta forti preoccupazioni alla luce del fatto che lo Stato italiano continua a non prevedere diritti e garanzie nel sistema hotspot, come puntualmente denunciato dalla società civile”, denuncia con forza l’Asgi. Il rischio è il “non detto”. Quello che il Comitato non dice ma sembra lasciare intendere è che, su questo argomento, ormai tutto è sostanzialmente lecito. “Bisogna quindi continuare a raccogliere le testimonianze delle persone migranti, a denunciare le condizioni del trattenimento per pretendere un superamento della detenzione amministrativa e, nelle more, avere garanzie per chi è detenuto in hotspot, in Cpr e negli altri luoghi della detenzione amministrativa almeno pari a quelle previste per la detenzione in carcere”, conclude l’Asgi. Migranti. Italia-Libia, quinto anniversario dell’accordo della vergogna di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 febbraio 2022 Detenzione arbitraria, tortura, trattamenti inumani, stupri e violenze sessuali, lavori forzati e uccisioni illegali. Questo è l’atroce destino a cui, negli ultimi cinque anni, sono andati incontro oltre 82.000 uomini, donne e bambini intercettati in mare e riportati in Libia - 32.425 solo nel 2021 - grazie alla collaborazione dell’Unione europea con lo stato nordafricano, collaborazione di cui l’Italia è dal 2017 in prima linea. Domani è infatti il quinto anniversario degli accordi di cooperazione tra Italia e Libia finalizzati all’intercettamento dei migranti e dei rifugiati durante la traversata del mar Mediterraneo e al loro ritorno forzato nell’inferno libico. Il Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia scadrà nel febbraio 2023 ma se le autorità italiane non lo annulleranno entro il 2 novembre 2022, sarà rinnovato automaticamente per altri tre anni. Amnesty International col suo appello, altre organizzazioni per i diritti umani e diversi parlamentari ritengono sia ampiamente giunto il momento di porre fine a questo approccio vergognoso che mostra un totale disprezzo per la vita e la dignità delle persone. Chiedono, al contrario, l’apertura di percorsi legali urgentemente necessari per le migliaia di persone intrappolate in Libia e che hanno bisogno di protezione. Continuare a stringere accordi con chi tortura e uccide rende complici di crimini di diritto internazionale. Per quanto tempo ancora le autorità italiane considereranno accettabile questa complicità? Migranti. Memorandum Italia-Libia, cinque anni di violazioni di diritti umani di Matteo De Bellis* Il Domani, 2 febbraio 2022 Nella settimana della leggerezza sanremese, il quinto anniversario del Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia sulle politiche migratorie e di frontiera, firmato a Roma il 2 febbraio 2017, difficilmente guadagnerà clamore o celebrazioni pubbliche. Da una parte, i “genitori” politici di quell’accordo - l’allora Presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e il ministro dell’Interno, Marco Minniti - sono passati ad altre funzioni e questioni. Dall’altra, sebbene l’accordo continui a godere di un supporto trasversale, troppe sono le notizie di torture e violenze perpetrate contro donne, uomini e bambini riportati in Libia con l’aiuto dell’Italia, perché qualcuno se ne possa intestare il merito. Ma proprio perché è facile immaginarsi che i più preferiranno far passare l’anniversario sottotraccia, sembra utile soffermarsi sulla genesi di quell’accordo, sulle sue conseguenze e sulle sfide che la sua eredità ci pone. Il Memorandum d’Intesa rappresentò lo strumento politico con cui l’Italia marcò un cambio di rotta nella gestione del fenomeno degli sbarchi di rifugiati e migranti provenienti dalle coste libiche. Con la sua firma, si puntò sull’idea che piuttosto che salvare persone in mare e sbarcarle in un luogo sicuro - come fatto, almeno a tempi alterni, tra fine 2013 e 2016 - fosse più conveniente bloccare e respingere quelle persone in Libia. In realtà, più che di una novità si trattava di un ritorno al passato, perché già nel 2008-2010 il governo Berlusconi aveva puntato sui respingimenti marittimi verso la Libia. Ma quella politica era stata prima interrotta dal conflitto civile in Libia e dalla morte di Gheddafi, e poi demolita da una sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani, che nel 2012 aveva sancito che intercettare persone in mare e riportarle in Libia equivaleva a torturarle. Fu proprio per aggirare quella sentenza e il principio di non-respingimento che nel 2017 il governo italiano escogitò un trucco, che costituisce la spina dorsale del Memorandum: si ricostituì la Guardia costiera libica - dotandola di motovedette (italiane), di formazione (in Italia o su navi italiane), di una zona di ricerca e soccorso (delineata dalla Guardia Costiera Italiana) e di un centro di coordinamento (su una nave della Marina Italiana ormeggiata a Tripoli) - e si chiese a questa di intercettare persone in mare e riportarle in Libia, per conto dell’Italia ma non in suo nome. Il risultato fu una riduzione netta degli sbarchi in Italia, ottenuta però scaricandone il prezzo sulle persone catturate in mare per poi essere riportate in Libia e stipate a tempo indeterminato in centri di detenzione orripilanti, sui bambini che in quei centri morivano di stenti, sulle donne seviziate e stuprate, sugli uomini che venivano torturati mentre al telefono supplicavano i parenti di vendere i propri pochi averi per pagare il riscatto. Era, questa, una realtà che il Memorandum - che chiamava quei lager “centri di accoglienza” - fece finta di non vedere. E che la politica avrebbe provato a sotterrare, sotto le promesse vaghe di Minniti, i dinieghi plateali di Salvini o i silenzi di Lamorgese. Dunque, un trucco per aggirare il diritto internazionale e una mano sugli occhi per non vedere ciò che sarebbe accaduto dall’altra parte del mare: in questo consisteva, a conti fatti, l’intesa. E in questo ha consistito, da allora, la politica del governo italiano nel Mediterraneo centrale, che a prescindere da chi lo guidasse ha continuato a donare motovedette, firmare contratti per la loro manutenzione, far decollare droni per identificare barche in mare e comunicarne la posizione ai libici, programmare corsi di formazione, e da ultimo anche fornire un centro di coordinamento mobile per i guardacoste libici. Nonostante i trucchi e tentativi di non vedere, nel corso degli anni la voce di chi l’Italia ha provato a nascondere aldilà del mare ha fatto talvolta breccia, creando imbarazzi. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è visto costretto a promettere una riforma del testo del Memorandum, mentre il parlamento si è impegnato a rivalutare l’opportunità di estendere le missioni di supporto ai guardacoste libici. Ma sono state iniziative vacue e infruttuose, utili solo a schivare critiche e ad accompagnare la retorica “alta” di un governo che usa la sparuta presenza dell’Unhcr in Libia come foglia di fico, e che si fa bello di corridoi umanitari creati dalla società civile, anche se poi nei fatti li strozza, elargendo visti in numeri decisamente inferiori alle necessità. Non dobbiamo stupirci, allora, se lo scorso autunno rifugiati e richiedenti asilo hanno cominciato a protestare, a Tripoli, chiedendo di essere evacuati. Hanno continuato a farlo per mesi, finché lo scorso 10 gennaio le forze libiche li hanno arrestati a centinaia e stipati nel centro di detenzione di Ain Zara. Intanto, in centri di detenzione come quello, le violazioni continuano, perché non solo l’impunità resta prevalente, ma addirittura chi è sospettato di avere responsabilità per maltrattamenti fa carriera. Come Mohamed al-Khoja, che in precedenza dirigeva il centro di detenzione di Tariq al-Sikka, noto per violenze ed abusi, e che di recente è stato nominato alla guida del Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione illegale del governo libico. Pure fuori dai centri di detenzione, la vita di rifugiati e migranti resta in bilico, con il rischio costante di violenze, rapine, rapimenti, sfruttamento ed espulsioni sommarie. Anche in mare, la situazione stenta a migliorare. Tant’è che lo stesso Ammiraglio Stefano Turchetto, a capo della Missione Irini, ha dovuto riconoscere - in un rapporto confidenziale rivelato dalla Associated Press la scorsa settimana - che i guardacoste libici continuano a macchiarsi di “uso eccessivo della forza” piuttosto che seguire “standard comportamentali adeguati... in linea con i diritti umani”. E se le morti in mare continuano - ne sono state contate 1.553 nel 2021 - l’anno appena terminato ha segnato un record nel numero di persone riportate in Libia, ben 32.425. Numeri troppo grandi per intuirne il dolore, perché ogni donna, ogni bambino, ogni uomo trascinato indietro nei lager libici è una storia individuale, fatta innanzitutto di speranze, di umanità, di relazioni, di volontà di riscatto, prima ancora che di sofferenza. Collettiva è invece la responsabilità - nostra - per aver contribuito a causare quel dolore. E collettiva dovrebbe essere la necessità - ora - di cambiare le cose. Perché se è vero che la Libia attraversa una fase politica ed istituzionale delicatissima, è anche vero che l’Italia può giocare un ruolo significativo nel pretendere dal governo in carica e da quello che emergerà dalle elezioni - se e quando queste avranno luogo - rispetto per le persone e i loro diritti e giustizia per le vittime dei crimini aberranti perpetrati sinora. Piuttosto che continuare a nascondere la testa nella sabbia, il governo Draghi dovrebbe ascoltare il recente richiamo del Segretario generale delle Nazioni unite, il quale, rimarcando che la Libia non rappresenta un porto sicuro per lo sbarco di rifugiati e migranti, ha chiesto di “rivedere politiche che supportano intercettazioni in mare e il ritorno di rifugiati e migranti in Libia”. Il semestre di Presidenza francese del Consiglio europeo, appena cominciato, potrebbe portare alla riattivazione dei meccanismi di ricollocazione per persone soccorse in mare, ci cui l’Italia beneficiava finché sono stati sospesi per la pandemia. Ma i relativi negoziati dovrebbero essere usati per far partire una revisione complessiva dell’approccio europeo nel Mediterraneo centrale e in Libia. Anche a livello nazionale, le opportunità per una riflessione non mancheranno quest’anno. Prima con le decisioni da prendere in merito alla proroga o meno delle missioni militari, comprese quelle in Libia. E poi con la scadenza del prossimo 2 novembre, data ultima entro la quale il governo potrà ritirare la propria firma dal Memorandum, prima che questo si rinnovi automaticamente per altri tre anni. Sono occasioni da non perdere, perché se un anniversario non ci offre niente da celebrare, forse possiamo fare in modo che sia l’ultimo. *Ricercatore di Amnesty International Quei 2mila italiani dimenticati all’estero. In prigione tra anomalie e diritti negati di Fausto Biloslavo Il Giornale, 2 febbraio 2022 Da Marco Zennaro, detenuto in Sudan, a Enrico Forti, 20 anni di carcere negli Usa. Connazionali nei guai e senza solidarietà. Politici, non solo di sinistra, grandi organizzazioni in difesa dei diritti umani, università e riflettori sempre accesi dei media. Bello e soprattutto politicamente corretto battersi per Patrick Zaki, pur sempre, però, cittadino egiziano che studiava a Bologna. Peccato che sia molto minore la mobilitazione per i casi di cittadini italiani incastrati dietro le sbarre all’estero, pure in paesi golpisti. Battaglie evidentemente meno alla moda e radical chic per connazionali “prigionieri” di serie B. Il veneziano Marco Zennaro non ha bisogno di cittadinanze onorarie o richieste a gran voce in Parlamento, come nel caso di Zaki, per venir tirato fuori dal Sudan in mano ai golpisti. Il 23 gennaio l’imprenditore bloccato a Khartoum, dopo un brutto periodo passato in carcere per una controversia commerciale, spera di vedere la luce nell’udienza stabilita dal tribunale. Purtroppo il fascicolo viene trasferito alla Corte di Appello di Khartoum, come in un sadico gioco dell’oca, e l’udienza cancellata. Zennaro non può lasciare il Sudan dal primo aprile dello scorso anno e rischia di rimanere bloccato ancora a lungo. L’accusa di truffa non è nobile come quella di Zaki di avere protestato contro il generale Al Sisi, ma in Sudan comandano i golpisti. E come denuncia Cristiano, il padre di Zennaro, il miliziano che accusa il figlio è lo zio di un generale sudanese a capo delle forze irregolari che appoggiano la giunta militare dopo il colpo di stato del 25 ottobre. Il prigioniero più noto, che avrebbe già dovuto tornare in Italia, è Enrico Forti, detto Chico. L’italiano è da 22 anni in carcere negli Stati Uniti, condannato all’ergastolo fino alla morte. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva annunciato l’imminente soluzione del caso con il trasferimento in patria e la pena da scontare nel nostro paese. Forti si proclama da sempre innocente, ma i riflettori sono accesi a intermittenza e non fa notizia come Zaki. Il 19 gennaio in Parlamento, il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, dichiara che il caso “è complesso, non so quando potrà avere una soluzione. Siamo in attesa di risposte che continuiamo a sollecitare”. Le risposte sulla pagina Facebook degli amici del prigioniero oltreoceano sono inviperite: “Ma andateci voi in galera vergogna!!!! Per la Baraldini che era veramente colpevole siete andati con l’aereo di stato. Buffoni!!”. Il riferimento è all’estremista di sinistra riportata in patria dopo la condanna negli Stati Uniti. Gianni Forti, lo zio di Chico, aveva esultato per la liberazione di Zaki: “È una iniezione di speranza, ma sono 22 anni che stiamo aspettando. Decenni di battaglie che ancora sono valse a nulla. La nostra famiglia è distrutta”. Dietro le sbarre nel mondo ci sono 2.024 italiani in attesa di giustizia, la maggior parte nell’Unione europea (1.489). “Prigionieri dimenticati, italiani detenuti all’estero tra anomalie e diritti negati” è il titolo del libro di Katia Anedda, che racconta 13 storie drammatiche di chi non si chiamava Zaki. Simone Renda, il bancario leccese ucciso sotto tortura in un carcere messicano, Claudio Castagnetta morto in circostanze misteriose in una prigione canadese, il videomaker Carmine S. che si è fatto oltre un anno dietro le sbarre a Bali perché “lavorava senza permesso”, secondo la polizia. Federico Cenci, autore di un altro libro-denuncia con Fabio Polese sui connazionali detenuti all’estero, osserva: “Zaki ha avuto un’eco mediatica che può aver influito sulla sua recente scarcerazione. Ma non per tutti è così”. Ucraina. Rocchelli, l’uccisione riguarda le autorità italiane di Luigi De Biase Il Manifesto, 2 febbraio 2022 Sarebbe partito dal generale ucraino Mikhailo Zabrodskyi l’ordine di aprire il fuoco contro il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli e l’attivista russo Andrey Mironov, uccisi nel Donbass, il 24 maggio del 2014. La rivelazione pubblicata in anteprima dal settimanale L’Espresso conferma ancora una volta le responsabilità dello Stato ucraino, responsabilità che la procura di Pavia e i carabinieri del Ros di Milano avevano già individuato con lunghe indagini sul campo. Il duplice omicidio è stato al centro di un clamoroso caso giudiziario. In primo grado, nel 2019, il tribunale di Pavia ha condannato a ventiquattro anni di carcere, per il ruolo in concorso con altri, un uomo della guardia nazionale con passaporto italiano e ucraino di nome Vitaly Markiv. Nel 2020 la Corte di Appello di Milano lo ha assolto per non avere commesso il fatto sulla base di quello che può essere considerato un vizio di procedura. Un anno fa la Cassazione ha ribadito la sentenza di secondo grado. Ancora adesso, quindi, la morte di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov resta senza colpevoli. I due hanno perso la vita a pochi chilometri da Slovyansk per i colpi di mortaio sparati da una collina chiamata Karachun. Slovyansk era allora governata dai ribelli. In cima a Karachun erano appostate la Guardia nazionale ucraina e la 95esima brigata dell’esercito, sotto il comando diretto di Zabrodskyi. In quella zona Rocchelli e Mironov erano arrivati a bordo di un taxi assieme al fotografo francese William Roguelon, l’unico riuscito a salvarsi nonostante gravi ferite alle gambe. La testimonianza pubblicata da l’Espresso è di un ex militare della 95esima brigata che era sulla collina al momento dei fatti, che ha abbandonato l’esercito e vive oggi in Europa. Le sue parole ricalcano lo sviluppo degli eventi così come Roguelon lo ha descritto di fronte ai carabinieri e nel dibattimento. “Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: Quelle persone non devono stare li?. Poi abbiamo iniziato a sparare con le armi pesanti”. Il “comandante” sarebbe proprio Zabrodskyi, che in guerra ha ottenuto il titolo di Eroe della patria e un seggio alla Rada con il blocco dell’ex presidente Petro Poroshenko, nella stessa lista di Andrij Parubij, fra i fondatori, negli anni Novanta, del Partito social-nazionale d’Ucraina. L’inchiesta è firmata da tre giornalisti italiani, Valerio Cataldi, Giuseppe Borello e Andrea Sceresini. Sceresini conosce bene il conflitto. A partire dal 2014 ha documentato per La Stampa, Mediaset, Rai e Sky la realtà sul fronte ucraino e su quello dei separatisti. L’anno seguente ha scritto con il collega Lorenzo Giroffi il libro Ucraina, la guerra che non c’è per l’editore Baldini&Castoldi. Il nuovo lavoro, che sarà trasmesso in versione integrale da RaiNews in un reportage dal titolo La disciplina del silenzio, rappresenta uno sviluppo significativo rispetto al caso giudiziario che ha visto imputato Markiv. A lui gli inquirenti erano arrivati dopo un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. “Appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante. Così è successo con l’auto dei due giornalisti”, era riportato nell’articolo. L’attacco su civili inermi doveva, quindi, servire da avvertimento a tutti coloro che intendessero avvicinarsi a Slovyansk. Markiv, come detto, è stato assolto in via definitiva, ma con la stessa sentenza la Corte di Appello ha confermato per intero la ricostruzione degli inquirenti. Anziché collaborare alle indagini, le autorità ucraine hanno sostenuto versioni alternative e discutibili, secondo le quali Rocchelli e Mironov sarebbero morti perché erano nel posto sbagliato, oppure perché vittima di fuoco incrociato. Il nome di Zabrodskyi era già comparso in passato. Mai, però, era stato possibile collegarlo in maniera così precisa al duplice omicidio. In un anno di ricerche e di interviste, Cataldi, Borello e Sceresini sono arrivati con strumenti giornalistici là dove i magistrati di Pavia hanno dovuto fermarsi per i limiti di giurisdizione che hanno condizionato indagine e processo; nel punto esatto che le autorità ucraine hanno cercato di occultare attraverso una pesante opera di depistaggio; lo stesso punto che la politica italiana sembra avere deliberatamente ignorato, come se la tutela dei nostri cittadini all’estero si debba esercitata soltanto quando incontri il gradimento dei governi stranieri. È sorprendente, a questo proposito, che Zabrodskyi sieda nel Comitato parlamentare di amicizia Italia-Ucraina. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha ribadito più volte l’impegno delle istituzioni nella ricerca della verità. A sette anni e mezzo dalla morte di Andrea Rocchelli e di Andrei Mironov è arrivato il momento di azioni concrete. In Myanmar triplice emergenza, la comunità internazionale deve intervenire di Piero Fassino* La Repubblica, 2 febbraio 2022 Dittatura, pandemia e recessione hanno riporta il popolo birmano indietro di decenni. Non bisogna rassegnarsi a un Paese orfano della sua libertà. Ad un anno esatto dal golpe del 1 febbraio 2021, il Myanmar continua a essere sotto il tallone di una dittatura feroce e sanguinaria. 1600 le persone uccise da polizia e esercito, migliaia gli arrestati, violenta e indiscriminata la repressione contro la resistenza di autodifesa sorta negli Stati interni, inascoltati tutti gli appelli internazionali alla apertura di un dialogo nazionale. Ed è di questi giorni la notizia di una ulteriore e imminente processo ad Aung San Suu Kyi per presunti brogli alle elezioni dell’autunno 2020. Brogli che nessun osservatore internazionale ha mai rilevato, né denunciato. Dalla presa del potere dei militari oltre 400.000 persone hanno abbandonato le proprie abitazioni, mentre oltre 30.000 hanno chiesto asilo in un paese confinante, aggiungendosi all’altissimo numero di rifugiati Rohingya. Nonostante in tutto il Paese proseguono azioni di resistenza civile in una lotta impari, ma che testimonia una incrollabile fede negli ideali di libertà e democrazia. Uno scenario drammatico a cui si aggiungono gli effetti devastanti di Covid19. Il fragile sistema sanitario sta cedendo, mancano tamponi, ossigeno e la campagna vaccinale procede con lentezza. Il personale sanitario, tra le categorie che maggiormente si sono opposte al colpo di stato, è stato decimato da centinaia di arresti e decine di morti. Non meno critica la situazione economica: nel 2021 il prodotto nazionale ha subito una contrazione di circa il 20% e quasi una persona su due vive sotto la soglia di povertà. Metà delle imprese straniere hanno interrotto la loro attività, crollati gli investimenti diretti esteri e i consumi interni. Insomma il Myanmar vive una triplice emergenza - dittatura, pandemia, recessione - che riporta il paese indietro di decenni, azzerando i risultati politici e socioeconomici realizzati nella transizione democratica guidata da Aung San Suu Kyi. È urgente dunque una ripresa di iniziativa della comunità internazionale che, assorbita dalla lotta alla pandemia e da altre crisi - il conflitto russo-ucraino, l’espansionismo cinese, i conflitti che percorrono il Mediterraneo - sembra essersi dimenticata di quel che accade nel sudest asiatico. Alle sanzioni economiche e commerciali comminate dall’occidente non e’ corrisposta analoga scelta da parte dei Paesi asiatici che, tutti, considerano le sanzioni una violazione della sovranità nazionale. E là dove l’economia birmana cede sotto i colpi della recessione, pronta è la Cina ad intervenire accrescendo la propria presenza. E ai cinque punti per il ristabilimento della democrazia elaborati dall’Asean - la associazione di cooperazione tra i Paesi del sud-est asiatico - i militari birmani hanno risposto con una assoluta e arrogante indisponibilità. Eppure il Myanmar - il solo Paese del Sudest asiatico che condivide i confino con Cina e India - è parte essenziale di quello scacchiere indopacifico investito da molte criticità: la tensione tra Pechino e Taiwan, le turbolenze che percorrono l’Asia centrale, il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan, le mai sopite tensioni tra India e Pakistan, l’assertivo espansionismo asiatico di Pechino. Non solo, ma da come evolveranno paesi come il Myanmar si potrà scorgere quale futuro per la democrazia e i diritti umani oggi insidiati da dittature e autocrazie in tante aree del mondo. Insomma, sono forti e fondate le ragioni che chiedono di non rassegnarsi ad un Myanmar orfano della sua libertà. *Presidente della Commissione Esteri della Camera dei Deputati Dagli algoritmi ai pm robot, così la Cina sperimenta la sua giustizia artificiale di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 2 febbraio 2022 Gli ingenti investimenti tecnologici della Cina stanno riguardando anche la giustizia ed impensieriscono i servizi segreti occidentali. A partire da quelli di Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Le attenzioni del governo cinese sono rivolte all’applicazione dell’intelligenza artificiale nei procedimenti penali. Una rivoluzione che con l’onda lunga della globalizzazione del Dragone potrebbe interessare da qui a poco tempo l’Europa e il resto dell’Occidente. Poche settimane fa il sito del South China Morning Post ha dato la notizia del particolare attivismo della Procura del popolo di Shangai Pudong. Qui gli sviluppatori stanno mettendo a punto un sistema che doterà la pubblica accusa di una macchina capace di individuare otto reati molto comuni a Shangai, come la guida pericolosa e le frodi con le carte di credito. Non saranno esclusi nel futuro prossimo aggiornamenti dell’algoritmo per altri reati. Nel robot sono stati memorizzati circa 17mila casi giudiziari, che coprono un arco temporale di cinque anni, dal 2015 al 2020. La precisione del pm robot si aggira attorno al 97%. Si tratta, però, sempre di una macchina e alcuni interrogativi sorgono spontanei in caso di errore di valutazione. Chi ne risponderà? Potranno attribuirsi responsabilità ad un algoritmo, senza dimenticare che questo viene creato da un programmatore e utilizzato da un magistrato? Abbiamo parlato degli scenari cinesi con l’avvocato Luigi Viola, esperto di giustizia predittiva, e Salvatore Colella, sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Matera. “Le tecnologie, anche le più avanzate, sono strumenti al servizio dell’uomo”, riflette l’avvocato Viola, che di recente ha pubblicato in cinese il suo libro “Interpretazione della legge con modelli matematici”, risultato best seller top five Rakuten-Kobo. “Le nuove tecnologie - dice Viola non devono spingersi fino a sostituire una decisione umana, come quella di accusare o non accusare. Credo che sostituire il pubblico ministero umano con un robot sia un allontanamento dalla realtà, almeno per due ragioni. La prima riguarda il giudice, che deve valutare le prove. Ciò implica capacità di pesare anche elementi soggettivi. A titolo meramente esemplificativo si pensi ai “motivi abietti o futili” di cui all’articolo 61, numero 1, del Codice penale. Abbiamo di fronte un concetto che difficilmente può essere automatizzato, ma necessita di una ponderazione umana. La seconda ragione è che il sistema con cui viene costruita l’intelligenza artificiale, che in Cina dovrebbe procedere all’accusa, rischia di essere fallace perché basata su una raccolta di dati precedenti. Abbiamo l’utilizzo del metodo induttivo che è fisiologicamente fallace. Questo metodo funziona, appunto, tramite la raccolta di un numero enorme di casi giudiziari, che servono per addestrare l’intelligenza artificiale. Purtroppo, così facendo, dinanzi ad un caso inedito, per contenuto oppure per strategia difensiva, il robot si basa sul passato, non tenendo conto della specificità del singolo caso. La conseguenza è che finisce per trattare una situazione giuridica non già per come è, ma per come se fosse una precedente. Questa fallacia determina l’ingiustizia di trattare una situazione diversa, come se fosse uguale ad una precedente”. Viola non crede che in Italia si possa arrivare ad un pubblico ministero senza sembianze umane. “Esiste nel nostro ordinamento - evidenzia - un principio di parità delle armi nel processo, in uno con il diritto inviolabile alla difesa, in base all’articolo 24 della Costituzione. Ebbene, è lapalissiano che, se vi dovesse essere un pm robot, allora verrebbe vulnerata la parità delle armi perché l’accusa godrebbe di uno strumento di cui la difesa non dispone e, per quello che è dato sapere, non potrebbe neanche sindacarlo tramite verifica dell’algoritmo e della correttezza dei dati inseriti”. Diverso il parere del magistrato Salvatore Colella in merito all’influenza tecnologica nel settore della giustizia da parte della Cina e all’arrivo del pm robot. “Non solo sono certo che possa arrivare in Europa - afferma il pubblico ministero in servizio a Matera - piuttosto la ritengo una certezza inevitabile. Quello che ritengo siano incerti sono soltanto i tempi, che possiamo assumere non saranno brevissimi, poiché la nostra storia e la nostra attitudine culturale, anche in materia giuridica, è totalmente diversa da quella asiatica e noto che in ambito umanistico vi sia sempre una minore permeabilità alle innovazioni”. Il fare posto all’intelligenza artificiale in sostituzione del pubblico ministero pone questioni delicatissime. “Non sono un informatico - commenta Colella - ma è un campo che mi appassiona molto e sul quale mi tengo molto informato. Ritengo che l’intelligenza informatica abbia potenzialità enormi, che sfuggono ai più, ma forse anche agli stessi informatici e oggi trova applicazioni in settori disparati senza nemmeno saperlo. Il limite maggiore, ma che appartiene forse all’uomo piuttosto che alle macchine, credo sia il momento dell’auto- apprendimento. Allo stato dell’arte penso che possa essere un validissimo aiuto per il pubblico ministero nel momento dell’acquisizione ed analisi dei dati ma non possa sostituirlo nel momento decisionale”. Secondo Colella, occorre avere un approccio aperto rispetto alle novità in arrivo e non osservarle con timore. “Attualmente - spiega - le applicazioni di intelligenza artificiale fondano il momento cognitivo sull’analisi dei dati empirici ed in questo non differisce molto dall’uomo, tuttavia quest’ultimo apprende e metabolizza dati su ogni materia e momento della propria esistenza ed elementi del suo patrimonio cognitivo spesso entrano in gioco in meccanismi decisionali anche in materie totalmente diverse da quelle alle quali tali dati si riferiscono. In una scena del crimine, nell’interrogatorio di un indiziato, solo per fare qualche esempio, spesso sono molto importanti le sensazioni ed il tono di voce. Ritengo, quindi, che la difficoltà maggiore sarà capire come dire alle macchine di selezionare nell’algoritmo decisionale pure dati e fattori che non si può prevedere possano avere rilevanza”.