Cartabia sceglie il nuovo capo del Dap: è Carlo Renoldi di Liana Milella La Repubblica, 28 febbraio 2022 Un teorico del carcere “compatibile con la Costituzione”. La Guardasigilli ha inviato al Csm la richiesta per mettere fuori ruolo il giudice della Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza a Cagliari. Che rischia di essere troppo garantista per una parte della maggioranza. Ha un nome il nuovo capo delle carceri scelto dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Che ha appena chiesto al Csm di mettere fuori ruolo Carlo Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, un magistrato che tra i suoi maestri ha Alessandro Margara, che fu capo del Dap ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini. Il suo era un "carcere dei diritti". Sia dei detenuti, sia degli agenti. Una scelta che non stupisce quella di Cartabia, per la sua concezione garantista del carcere stesso. Più volte ribadita prima da giudice e da presidente della Consulta, e poi da ministra. Una scelta che però, proprio per il profilo e la storia di Renoldi, potrebbe creare tensioni nella maggioranza. La nomina del capo del Dap, dopo il via libera del Csm al fuori ruolo, dev'essere assunta dal consiglio dei ministri. E partiti che sono per un carcere duro e senza sconti, soprattutto se di mezzo c'è la mafia, come M5S e la stessa Lega, potrebbero non condividere appieno la decisione. Al nome di Carlo Renoldi la Cartabia arriva dopo aver selezionato e sentito una decina di magistrati. Tra questi ci sono l'attuale vice direttore Roberto Tartaglia, l'ex pm di Palermo voluto dall'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede assieme al capo del Dap Dino Petralia, che ha deciso la sua uscita con un pensionamento anticipato. Stanchezza e voglia di recuperare una dimensione privata, "di fare il nonno", ha detto ai media. Tartaglia sarebbe stato penalizzato solo in quanto giovane di età e di carriera. Tra i magistrati sentiti da Cartabia anche l'ex procuratore di Roma Michele Prestipino e il presidente del tribunale di sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin. Ma alla fine la scelta è caduta su Renoldi che, per la sua concezione del carcere, le sue sentenze, e anche le sue affermazioni pubbliche, appare come una sorta di fotocopia di Cartabia per quell'idea di un carcere dal volto umano che la stessa Guardasigilli ha raccontato in più di un'intervista e in più di un intervento sia da presidente della Consulta che da Guardasigilli. Ma innanzitutto chi è Carlo Renoldi? Ha 53 anni ed è nato a Cagliari, dove ha anche lavorato come giudice penale e come magistrato di sorveglianza. Ha fatto parte dell'ufficio legislativo di via Arenula nel 2013 e ha contribuito a risolvere il caso Torreggiani, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Ha fatto parte dell'ufficio studi del Csm per approdare poi alla Suprema corte. Le sue sentenze e i suoi scritti, nonché gli interventi nei convegni, rivelano le sue idee. Si definisce un uomo di sinistra, e la sua corrente è Magistratura democratica, ma è iscritto anche ad Area. Ha scritto molti articoli giuridici per "Cassazione penale", la rivista diretta dall'ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, e per Questione giustizia, l'house organ di Md. E tra questi scritti si possono ripescare considerazioni come quelle che seguono. "La mafia è un problema sociale gravissimo, ma un giudice non può essere anti qualcosa, anche un mafioso ha diritto a un processo giusto". E ancora: "Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza". Un carcere in cui "il sindacato ha un valore, ma se svolge una pura difesa corporativa e non guarda alla funzione istituzionale, allora diventa una forza che tradisce l'istituzione". I diritti di tutti quindi, dei detenuti, del personale, che se riconosciuti e garantiti, a loro volta garantiscono i detenuti. Le sentenze di Renoldi in Cassazione vanno nella direzione indicata dalla Consulta con le sentenze sui permessi premio e sulla liberazione condizionale del 2019 e 2021 che fanno cadere il presupposto rigido della collaborazione. Può ottenere i permessi e può liberarsi dall'ergastolo ostativo non più solo chi si pente. In un dibattito del luglio 2020, tuttora disponibile su Radio radicale, Renoldi sposa in pieno "le indubbie aperture della Corte che hanno riscritto l'ordinamento penitenziario". Però critica "le spinte reattive di segno assolutamente opposto, anche rivendicate orgogliosamente oppure nascoste e carsiche, anche abbastanza trasversali, che convergono sinistramente" e riguardano "alcuni ambienti dell'antimafia militante, settori dell'associazionismo giudiziario, nonché quella parte della magistratura di sorveglianza ostile ai diritti dei detenuti". Una critica che coinvolge anche "l'atteggiamento miope di sigle sindacali corporative". Nuovo capo del Dap, M5S e penitenziaria insorgono contro la scelta di Cartabia di Conchita Sannino La Repubblica, 28 febbraio 2022 La Guardasigilli avrebbe individuato Renoldi, giudice di Cassazione (e con un passato da Magistrato di Sorveglianza), alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Divisioni che ora rischiano di compromettere il cammino delle riforme sulla Giustizia “Inaccettabile”, per il Movimento 5 Stelle. Rischioso, per polizia penitenziaria, che intravede “la nascita di grandi conflitti”. Insorgono i pentastellati, a partire dal presidente della commissione Giustizia alla Camera, e danno battaglia anche i sindacati degli operatori della sicurezza interna alle carceri, contro la scelta della ministra Marta Cartabia, che avrebbe già individuato il magistrato Carlo Renoldi, attualmente giudice di Cassazione, e con un passato da Magistrato di Sorveglianza, alla guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Un clima di conflittualità che rischia di compromettere anche il clima di (indispensabile) collaborazione chiesto dalla stessa Guardasigilli - oltre che dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche nei toni fermi del suo discorso d’insediamento per portare “con immediatezza a compimento” le riforme sulla Giustizia, ed in particolare sul Csm. Divisioni che spingono Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, a intervenire in favore di quella designazione: “Un carcere conforme alla Costituzione e ai diritti delle persone è un carcere anche più sicuro. Un grande equivoco pensare il contrario”. Così anche il magistrato che guida l’Anm (l’Associazione nazionale magistrati), Giuseppe Santalucia, getta acqua sul fuoco. “Carlo Renoldi è un magistrato stimato in Cassazione per il suo equilibrio e la competenza tecnica - sottolinea Santalucia - Mi compiaccio della scelta della ministra”. Nel Movimento, invece, crescono i mal di pancia. Per Vittorio Ferraresi, deputato del Movimento 5 Stelle e già sottosegretario alla Giustizia, “se fosse confermata questa notizia, si tratterebbe di un fatto grave che mi lascerebbe senza parole. Renoldi, oltre ad aver improntato interventi in convegni contro il regime 41-bis e a favore di un suo gravissimo annacquamento, non ha risparmiato parole forti con attacchi frontali a forze politiche come il Movimento 5 Stelle e non solo (definendole politiche “reazionarie” e basate su “logiche perverse”), ha anche sminuito “l’antimafia dei martiri” così definita da lui”. Ferraresi affonda: “Mai ci saremmo aspettati un nemico del 41-bis, e degli istituti che il nostro ordinamento pone a contrasto della criminalità organizzata di stampo mafioso, a gestire il Dap. Questo risulterebbe inaccettabile, anche agli occhi delle tante vittime di mafia, che purtroppo continuano ad essere tristemente attuali alle cronache e i cui diritti ricordiamo sono egualmente tutelati dalla Costituizione, di chi vive nel terrore di minacce e ritorsioni, dei magistrati che ogni giorno rischiano la vita per la nostra libertà”. Lo stesso Mario Perantoni, alla guida della Commissione, lancia un alt: “Ci lasciano perplessi le indiscrezioni sul nuovo vertice del Dap alla vigilia dell’approdo in aula della riforma dell’ergastolo ostativo. Non per la persona di Renoldi, ovviamente, ma per le sue esternazioni che connoterebbero il capo del Dap per la sua disponibilità ad allentare le regole del carcere per i mafiosi e per quella sua critica all’antimafia “arroccata nel culto dei suoi martiri”. Posizioni evidente troppo sbilanciate per una carica così delicata: noi vogliamo garantire la tenuta della legislazione antimafia, come stiamo dimostrando in Parlamento con una riforma dell’ergastolo ostativo equilibrata ma coerente con la lotta decisa alla criminalità mafiosa. Il mondo del carcere ha molte criticità che vanno affrontate: il tema della detenzione dei boss di mafia non è tra quelli”. E così anche Eugenio Saitta, capogruppo 5S nella stessa commissione: “Siamo sorpresi e preoccupati per quanto sta avvenendo a proposito della nomina del vertice del Dap. Ed una scelta che desta davvero stupore perché sarebbe orientata verso un alleggerimento del 41/bis, istituto più volte contestato da Renoldi a cui, tra l’altro, non piace l’antimafia ‘arroccata nel culto dei martiri”. Ma è da Giovan Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato della polizia penitenziaria, che arrivano toni non meno duri: “Renoldi è dichiaratamente uomo di sinistra, iscritto a Magistratura Democratica e ad Area. Hanno fatto discutere alcune sue prese di posizione nei convegni particolarmente critiche con l’attuale gestione dell’esecuzione penale esterna che, a suo dire, non rispetta la Costituzione. Da Magistrato addetto all’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia ha gestito la fase applicativa della sentenza Torreggiani”. Nei prossimi giorni, è prevista una riunione tra i sindacati, che ventilano ipotesi di agitazioni. De Blasis ricorda ancora che il giudice Renoldi “si è espresso più volte contro i colleghi antimafia colpevoli a suo dire di essere troppo sbilanciati a favore delle vittime, ha partecipato ai tavoli degli Stati generali dell’esecuzione penale del Ministro Orlando e, in una recente occasione, ha criticato aspramente Gratteri per le sue proposte di riforma del Corpo perché non si può mettere il carcere nelle mani della polizia penitenziaria”. La conclusione è allarmata: “Non rimane difficile prevedere un periodo di grandi conflittualità, e per fortuna che si tratterà soltanto di un anno”. E un’altra componente 5S della commissione Giustizia, la deputata Valentina D’Orso, esprime “forte perplessità per questa scelta: che avviene, peraltro, nell’anno in cui ricorderemo il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio e mentre il Parlamento è impegnato a legiferare sull’ergastolo ostativo e a ribadire quanto sia imprescindibile la funzione di questo istituto nella lotta alle mafie e al terrorismo”. Anche Forza Italia, notoriamente super garantista (specie se in carcere rischiano di finirci i potenti), fa sentire la sua voce attraverso il senatore Maurizio Gasparri. Che però punta il dito sulla corrente. “Non so se sarà ancora una volta un esponente di Magistratura democratica, la corrente di sinistra della magistratura, a impossessarsi del ruolo di capo dell’amministrazione penitenziaria dirigendo il Dap al posto del dottor Petralia, che si è recentemente dimesso - commenta Gasparri - Ma, se così dovesse essere, mi auguro che Renoldi smentisca le dichiarazioni ostili ed offensive che ha rilasciato nel passato contro i sindacati del personale della polizia penitenziaria. Nelle carceri ci vuole una gestione rispettosa dei diritti di tutti, ovviamente anche dei detenuti. Ma anche il personale della polizia penitenziaria merita rispetto”. Ma si tratta di un grande equivoco, è l’obiezione che punta a disinnescare questa nuova conflittualità sulla giustizia. Di cui non c’è davvero bisogno - come si sottolinea in via Arenula da settimane - nel momento in cui occorre varare riforme condivise. Ecco il ragionamento dell’accademico, e presidente emerito della Consulta, Onida. “Il curriculum e le esperienze” del giudice Renoldi “lo rendono, a mio parere, molto adatto a ricoprire il ruolo di capo Dap. Il carcere - sottolinea ancora Onida - ha mille bisogni. Dentro il carcere, vive un’intera umanità: fatta di detenuti e agenti, di cui bisogna garantire la dignità. È un equivoco pensare che un carcere con più diritti sia meno sicuro, anche rispetto ai mafiosi. Per ogni detenuto, in base al suo reato, ci saranno poi accorgimenti particolari”. Così anche il presidente Santalucia, che però precisa di parlare “come collega e non come vertice dell’Anm”, perché ha lavorato con lui: “Io ero vicecapo del legislativo e lui era magistrato addetto all’ufficio legislativo”, Renoldi diede quindi “il suo contributo dopo la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sul caso Torreggiani. In quell’occasione si fecero provvedimenti normativi efficaci contro il sovraffollamento, senza ricorrere a provvedimenti di clemenza”. Per Santalucia, insomma, “non si tratta di essere contro il 41 bis, ma di coniugare la necessità di sicurezza con l’umanizzazione della detenzione”. Non condivide le perplessità sulla scelta di Cartabia, il deputato Pd Walter Verini, membro delle Commissioni Giustizia e Antimafia: “Renoldi è un magistrato di grande preparazione, in generale e in particolare sul tema della gestione e dell’umanizzazione dell’ordinamento penitenziario. Il rigore inflessibile nel contrasto alle mafie e alla criminalità organizzata, dentro e fuori dal carcere, non può essere in contrasto con i principi fissati dalla Costituzione. In questo senso stiamo lavorando, per esempio, anche nella riforma dell’ergastolo ostativo”. Dap a un garantista. È rivolta grillina di Carlantonio Solimene Il Tempo, 28 febbraio 2022 La Cartabia sceglie Renoldi, teorico dell’ammorbidimento del 41 bis. Ma la nomina deve passare dal Cdm. E il M5S annuncia battaglia. Un’altra grana scoppia nella maggioranza Draghi. E a scaldare gli animi è, ancora una volta, il fronte Giustizia. La Guardasigilli Marta Cartabia ha infatti inviato al Csm la richiesta per mettere fuori ruolo il giudice della Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza a Cagliari Carlo Renoldi, una mossa necessaria per nominare lo stesso Renoldi a capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) al posto di Bernardo Petralia, che ha chiesto il pensionamento anticipato. La notizia, anticipata da “Il Fatto quotidiano”, ha però già fatto storcere il naso ai Cinquestelle. E questo perché il profilo individuato dalla ministra ha una chiara radice garantista che, peraltro, è già emersa nelle varie decisioni prese proprio da magistrato della Cassazione e da diversi interventi pronunciati nel corso degli anni. Solo due mesi fa, per citare un esempio, Renoldi ha redatto la sentenza della Suprema Corte che ha dato il via libera al contatto diretto con i figli anche per i detenuti al 41 bis. All’epoca il ministero aveva fatto ricorso contro la decisione di un magistrato di sorveglianza di Sassari che aveva dato il via libera alla consegna di un regalo al figlio minore di 12 anni da parte di un boss della ‘Ndrangheta. Alla fine la Cassazione, però, diede torto al dicastero di via Arenula definendo, nel testo vergato da Renoldi, “illegittimo un decremento di tutela di un diritto fondamentale (quale indubitabilmente l’ordinario sviluppo del minore) se a esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango”. Al di là del caso specifico, Renoldi si è sempre posizionato su una linea garantista, rivendicando l’importanza di un “carcere dei diritti”, sia dei detenuti che degli agenti, pur preservando la necessità della tutela della sicurezza. Parole che si sposano alla perfezione con gli intendimenti già espressi in passato dalla Cartabia ma che cozzano con le sensibilità più giustizialiste della maggioranza. Posizioni già esternate ieri da vari esponenti grillini. “Mai ci saremmo aspettati un nemico del 41-bis e degli istituti che il nostro ordinamento pone a contrasto della criminalità organizzata di stampo mafioso a gestire il Dap” ha tuonato il deputato Vittorio Ferraresi, già sottosegretario alla Giustizia. “Ferma restando la centralità della tutela dei diritti di tutti i detenuti, così come vuole la nostra Costituzione siamo pienamente coscienti dell’importanza, imprescindibile, del circuito del 41 bis che ha consentito al nostro Paese passi in avanti nella lotta alla mafia e al terrorismo impensabili fino a qualche decennio fa” gli fa eco la deputata Giulia Sarti. Va ricordato come i vertici del Dap rappresentino in un certo modo un “nervo scoperto” per i Cinquestelle. È ancora aperta la ferita per le polemiche che sorsero all’epoca della stagione Basentini, prima per la gestione delle rivolte carcerarie nel marzo 2020, poi per la scarcerazione di alcuni boss della malavita durante la prima emergenza Covid. Senza contare lo scontro tra l’allora ministro Alfonso Bonafede e il magistrato antimafia Nino Di Matteo, oggi al Csm, che accusò il Guardasigilli di avergli preferito proprio Basentini alla guida del Dap a causa della pressione dei potenti detenuti legati a Cosa Nostra. Fu a causa di queste polemiche che Bonafede poi, accolte le dimissioni di Basentini, puntò su un simbolo dell’antimafia come Petralia. La nomina di Renoldi, peraltro, dovrà essere ratificata dal Cdm, ed è probabilmente in quella sede che le forze politiche più scettiche (accanto ai 5 stelle potrebbe esprimere perplessità anche la Lega) si dovrebbero far sentire. Da annotare che contro Renoldi si sono schierati ieri anche diversi sindacati di polizia penitenziaria, dal Sappe all’Uspp, temendo una gestione troppo orientata al rispetto dei diritti dei detenuti e poco all’attenzione per la sicurezza degli agenti. “Prevedo un periodo di grande conflittualità” ha chiosato Giovanni Battista De Blasis, segretario generale aggiunto del Sappe. Al Dap un giudice contro il 41-bis? La ministra Cartabia ci pensa di Giorgio Bongiovanni antimafiaduemila.com, 28 febbraio 2022 Nei giorni scorsi a Roma, presso la sede del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il magistrato Bernardo Petralia ha lasciato materialmente l’incarico di capo del Dap salutando tutti i suoi collaboratori. Una decisione presa da tempo con le dimissioni ufficiali, in cui chiedeva di andare in pensione con un anno di anticipo, consegnate lo scorso 6 febbraio. Da quel momento il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha iniziato a cercare il nome del successore. E la voce che circola più spesso tra gli uffici di via Arenula è quello di Carlo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, esponente di Magistratura democratica. Ai più, forse, non dirà molto. Ma chi conosce il personaggio, come ha riportato ieri Il Fatto Quotidiano (e sul punto basta andarsi a rivedere recenti interventi in convegni e affini), sa che si parla di un garantista con precise idee di destrutturazione sul 41 bis o l’ergastolo ostativo. Nel recente passato è intervenuto più volte guardando con favore alla doppia decisione della Corte costituzionale sull’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario (l’ergastolo ostativo, ndr) in cui si vieta di liberare i boss stragisti ed i terroristi condannati all’ergastolo, se non collaborano con la giustizia, e quella sulla possibilità per i boss di accedere a permessi premio, dichiarandone di fatto l’incostituzionalità. L’ennesimo scandalo che la ministra della giustizia Marta Cartabia potrebbe porre in essere proprio nell’anno del trentennale delle stragi. Una nomina simile sarebbe un vero schiaffo per tante vittime di mafia che chiedono ancora verità e giustizia. Una decisione nefasta che supererebbe addirittura quella fatta dall’ex ministro Alfonso Bonafede, che nella sua mediocrità nel 2018 scelse come capo del Dap Francesco Basentini al posto di Nino Di Matteo. Una scelta che fu grave anche nella buonafede del ministro, nel momento in cui, nei fatti, andò incontro ai desiderata dei boss che nelle carceri avevano espresso la propria contrarietà al magistrato che aveva indagato sulle stragi e sulla trattativa Stato-mafia. Da quando è stata nominata come ministra della Giustizia la Cartabia ha saputo fare tremendamente peggio. Dapprima promuovendo una nefasta riforma della giustizia che con l’istituto dell’improcedibilità crea impunità e avvantaggia le mafie, così come detto da decine e decine di addetti ai lavori, ed ora con l’idea Renoldi per il Dap. Perché tanto scandalo è presto detto. Parliamo di una figura che ha parlato di antimafia “arroccata nel culto dei martiri”. Così diceva il 29 luglio 2020 in un convegno sul carcere che si è tenuto a Firenze. Dopo aver elogiato i pregi dei provvedimenti della Consulta (uno dei quali fu adottato nel 2019 quando proprio la Cartabia era vicepresidente) congratulandosi per la sentenza che apriva ai permessi premio per mafiosi ergastolani non collaboratori, perché “ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”. Non solo. Renoldi esprimeva i suoi elogi anche per la Cedu e la “sentenza Viola” contro l’Italia (“Ha acquisito alla dimensione del diritto convenzionale il principio della flessibilità della pena, del finalismo rieducativo con la conseguente incompatibilità con l’ergastolo ostativo”) quindi si scagliava contro tutti quei soggetti che avevano osato criticare la decisione della Consulta e della Corte europea dei diritti dell’uomo: sia dentro agli organi istituzionali (“alcuni sindacati della polizia penitenziaria” a “alcuni settori ambiti giudiziari e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza”) che nel mondo dell’antimafia, critico nei confronti del possibile svuotamento dell’ostativo. La chiama “antimafia militante”, a suo parere “arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Non per “esercizio di buonismo, ma come gesto politico ed etico di fedeltà alla Costituzione”. A comporre quel mondo, per Renoldi vi sono “associazioni, testate editoriali, soggetti istituzionali, un mondo nel quale accanto a figure animate da un giustizialismo ottuso ci sono però personalità che appartengono alla cultura democratica la cui voce sul carcere ultimamente è stata però declinata solo sul versante del contrasto alla criminalità organizzata, come se la grande questione carceraria potesse essere ridotta ai temi pure importati dalla mafia, del 41-bis”. E cosa dire delle posizioni assunte da giudice quando, come membro del collegio della Prima sezione Penale di Cassazione, in una sentenza si affermava il principio per cui “il detenuto sottoposto al 41 bis che saluta gli altri carcerati non è sanzionabile perché il saluto non è una comunicazione”? Qualche anno fa il boss Gaetano Riina (oggi ai domiciliari, ndr), fratello del Capo dei capi Totò Riina, che aveva preso in mano il mandamento di Corleone in un’intercettazione diceva in maniera chiara: “Io ho un fratello. Si chiama Totò. È il figlio più grande ed è pure detenuto. Io so che è una povera vittima perché la politica l’ha voluto distruggere ma io non intendo abbandonarlo perché è mio fratello. Con Totò ci capiamo con uno sguardo”. Dobbiamo dedurre, quindi, che tra certi giudici non vi sia una vera conoscenza del fenomeno mafioso? Che apporto potrebbero dare alla lotta alla mafia? Non sarebbe più logico ed opportuno scegliere per la guida del Dap persone competenti in materia di lotta alla criminalità organizzata che conoscono in profondità gli usi ed i costumi di boss ed affini? Non sarebbe più logico che la ministra Cartabia si avvalesse di chi ha già un’esperienza all’interno del Dap, come lo stesso vice-Capo Roberto Tartaglia, o altri magistrati abbiano contezza della reale pericolosità del fenomeno. Quanto ancora potrà andare avanti questo governo di larghe intese, in cui compaiono allo stesso tavolo partiti come Forza Italia (fondati da un uomo della mafia come Marcello Dell’Utri), Lega, Pd, Italia Viva e quel Movimento Cinque Stelle che a causa del suo leader (Beppe Grillo) ha tradito il voto che il popolo gli aveva dato proprio per sfuggire a certe logiche? Siamo curiosi. Perché da domani in aula inizierà il dibattito per la nuova legge sull’ergastolo ostativo. Anche la nomina del nuovo capo del Dap può dare un “indirizzo” alla volontà di governo. Un po’ quel che accadde quando l’Avvocatura dello Stato, lo scorso anno, cambiò rotta senza opporsi alla tesi dell’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. C’era sempre la Cartabia al vertice di via Arenula. Scegliere oggi per il Dap un soggetto che possa essere nella migliore delle ipotesi incompetente in materia di lotta alla mafia e nella peggiore funzionale ai desiderata dei clan, sarebbe un segnale chiaro che il mondo interno ed esterno al Sistema criminale coglierebbe immediatamente. Se ciò avvenisse nel trentennale delle stragi sarebbe veramente come toccare il fondo. Il segno che quelle trattative tra Stato e mafia che si sono consumate nel tempo troverebbero il loro compimento. I risultati (misurati) del lavoro dei detenuti a Human Tecnopole di Sergio Bocconi Corriere della Sera, 28 febbraio 2022 “L’opportunità di un lavoro all’esterno del carcere è l’occasione per potermi riscattare, ricominciare da zero”. Luca è un detenuto di Bollate. Ha ricevuto un’offerta di lavoro dopo il tirocinio previsto da Programma 2121, iniziativa pubblico-privata che vuole valorizzare l’inclusione sociale dei detenuti in Lombardia. Un esempio di innovazione sociale promosso dal ministero di Giustizia, conia partecipazione di Regione Lombardia e Comune di Milano, e di cui il gruppo multinazionale australiano di sviluppo immobiliare Lendlease è catalizzatore strategico. Il programma (che è diventato anche un libro, edito da Egea) è stato avviato nel 2018 con l’intenzione di trasformare in opportunità la presenza del penitenziario di Bollate, vicino a Mind, Milano innovation district, il piano di riqualificazione dell’alta che nel 2015 ha ospitato l’Expo, destinato a realizzare un distretto scientifico-tecnologico. Il progetto, gestito da Arexpo, vale 4,5 miliardi e Lendlease ha una concessione di 99 anni per lo sviluppo del sito. Programma 2121. che è stato ora rinnovato fino a giugno 2026, è per Lendlease uno dei progetti finalizzati a creare entro il 2025 valore sociale per 158 milioni con partnership condivise, senza filantropia e aldilà di obblighi progettuali. “Aziende e investitori hanno sempre più un ruolo di attori protagonisti nella creazione di politiche sociali sostenibili attraverso il modello di partenariato pubblico-privato - dice Andrea Ruckstuhl, head of continental Europe Lendlease - e l’intervento in Mind è coerente con la natura di questa piattaforma che mette al centro innovazione tecnologica e sociale”. “Un aspetto innovativo del programma - spiega Nadia Boschi, head of sustainability Italy and continental Europe di Lendlease - è l’inserimento del detenuto basato su un tirocinio lavorativo in un ambiente non protetto, cioè dove raramente sono presenti altri carcerati”. Una parte del tirocinio è dedicato al software, cui segue un percorso professionale: “Obiettivo è renderlo “occupabile” e cioè che il tirocinio si trasformi in una posizione lavorativa”. Così nel 2018-2021 sono stati attivati tre cicli con 30 profili e 15 aziende ospitanti. Il primo si è chiuso con il 40% delle posizioni trasformate in contratti, il secondo con l’8o96, e il terzo, frenato dal Covid, è in via di conclusione. Le aziende hanno aderito al programma grazie alla “clausola sociale” che Lendlease applica ai contractor, “non vincolante bensì premiante”, spiega Ruckstuhl, “che offre l’opportunità di partecipare a un progetto di impatto sociale”. E il valore sociale creato viene misurato (da un valutatore terzo) con metriche relative ai benefici per gli stakeholder: per i detenuti autostima, senso di dignità, miglioramento della posizione economica e delle attese; per il governo risparmio sui costi con la riduzione di reati e recidiva; per Lendlease e le altre aziende i vantaggi sono anche reputazionali. Al 6 giugno 2021 il valore creato da Programma mi è stato stimato in 1,5 milioni, pari a 4,5 euro ogni 1 investito. Libertà, diritti, lavoro. Così la Consulta ha cambiato la vita degli italiani di Francesca Spasiano Il Dubbio, 28 febbraio 2022 Giugno 1956. Da una parte ci sono Enzo Catani e Sergio Masi, due operai di Prato finiti in carcere per aver distribuito volantini sindacali. Dall’altra Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica, eletto da soli cinque mesi alla guida della Corte Costituzionale appena formata. In mezzo un diritto, un principio sancito dall’articolo 21 della Carta, che con la sentenza numero 1 del 5 giugno la Consulta decide di rendere vincolante: la libera manifestazione del pensiero. Per arrivarci ci erano volute 30 ordinanze. Le prime due del pretore di Prato Antonino Caponnetto, per conto di Masi e Catani, e a seguire tutte le altre. Tutte questioni finite sul tavolo della Consulta con uno scopo preciso: dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 113 del Testo unico di pubblica sicurezza, cioè la norma di matrice fascista che subordinava ad autorizzazione la distribuzione di avvisi o stampati nella pubblica strada (così come “l’affissione di manifesti o giornali, ovvero l’uso di alto parlanti per comunicazioni al pubblico”). Ebbene, i giudici non si limitano a farne carta straccia. Con quella prima, storica, sentenza riescono a legittimare il proprio operato, ad affermare il proprio potere di controllo sulle leggi anteriori alla Costituzione e a tagliare corto con il passato. Riescono cioè a completare il passaggio alla stagione democratica, avviando una bonifica della legislazione fascista. E lo fanno in modo netto, chiaro. Stabilendo che sì, un diritto fondamentale include sempre il limite al suo esercizio, ma che tale limite non può essere fissato da una autorità dotata di “poteri discrezionali illimitati tali cioè che, indipendentemente dal fine specifico di tutela di tranquillità e di prevenzione di reati, il concedere o il negare l’autorizzazione può significare praticamente consentire o impedire caso per caso la manifestazione del pensiero”. Proprio così recita la prima pronuncia della Consulta, una tra quelle che i giudici della Corte hanno selezionato per la rubrica “Sentenze che hanno cambiato la vita degli italiani”. Dalla libertà di espressione e religione, passando per sciopero e aborto, fino all’integrazione dei cittadini stranieri: podcast e brevi pillole video, un racconto con le voci dei giudici costituzionali su alcune decisioni della Corte che, dal 1956 al 2021, hanno inciso profondamente nella vita delle persone e delle istituzioni. “Tappe di un cammino di crescita del nostro Paese grazie all’attuazione della Costituzione e ai suoi valori”, per accorciare la distanza con il cittadino e riprercorre ognuno di quei momenti in cui un diritto ha trovato la sua affermazione definitiva. Adulterio, 1968 - Che a ben vedere era un’affermazione dal basso. Che veniva da dentro il Paese. Con Catani e Masi, “due operai che non sapevano nulla di Costituzione - scrive il professore Maurizio Fioravanti - ma che sentivano di lottare per qualcosa di giusto, rappresentando così qualcosa che è sempre esistito nella storia delle costituzioni, ovvero il sentimento popolare per la Costituzione”. Sarebbe avvenuto lo stesso nel 1968, quando alle donne viene finalmente riconosciuto il più classico dei diritti: l’uguaglianza di fronte alla legge. Una parificazione concreta, nel trattamento delle stesse fattispecie, come nel caso dell’adulterio. Un reato allora punibile con una pena fino a un anno di reclusione, se commesso dalla moglie. Mentre il codice non puniva la relazione adulterina del marito, se non in caso di concubinato. Una disparità che la Consulta decide di spazzare via affermando la dignità della donna. E aprendo la strada a una stagione di straordinari cambiamenti: dalla legge sul divorzio nel 1970, alla riforma del diritto di famiglia nel 1975, fino alla legge sull’aborto nel 1978 e all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981. Quante sentenze, quante storie nel mezzo. La numero 126 del dicembre 1968 non è solo il punto di partenza. È il punto di arrivo che racconta l’evoluzione della coscienza sociale italiana, a partire dal 1961, quando invece la Consulta si era pronunciata sulla medesima materia dichiarando la norma sull’adulterio compatibile con la Costituzione. Cosa era cambiato? Era avvenuto il ‘68, spiega il giudice costituzionale Augusto Antonio Barbera, il vento della ribellione era servito per spostare la barra affinché la Corte operasse un diverso bilanciamento: nel ‘61 tenendo conto eccessivamente nell’unità familiare, e nel secondo caso della dignità della donna. Diritto allo sciopero, 1969 - Quello stesso vento continua a soffiare, e porta un anno dopo alla sentenza numero 31 del 1969 sul diritto allo sciopero. Con la lotta dei lavoratori era emersa infatti una particolare contraddizione; tra l’affermazione costituzionale dello sciopero come diritto da un lato, e la vigenza di norme repressive risalenti al periodo fascista dall’altro. In quel contesto, spiega la vicepresidente della Corte Silvana Sciarra, quella della Consulta risulta “una sentenza moderna”, che si inserisce in quel filone della giurisprudenza con la quale la Corte “cerca di non essere supplente del legislatore”. Il caso di specie riguardava alcuni vigili urbani che avevano scioperato, e la questione verteva sull’abbandono dei pubblici uffici. La Corte interviene sul vuoto normativo e opera alcuni limiti, sancendo che il diritto allo sciopero si esercita sempre nell’ambito delle leggi che lo regalano, ma è anche un diritto da rendere compatibile con l’esercizio di altre libertà. Senza ledere la fruizione degli interessi generali della collettività nell’ambito dei servizi pubblici essenziali, e garantendo alcune “prestazioni minime”. “Una volta ammesso, com’è indubbio - scrive la Corte - che la libertà di sciopero, per rimanere nell’ambito corrispondente al suo oggetto, di libertà di non fare, deve svolgersi in modo da non ledere altre libertà costituzionalmente garantite, com’è quella consentita a quanti non aderiscono allo sciopero, di continuare nel loro lavoro, o altri diritti egualmente protetti, quale quello di poter continuare a fruire dei beni patrimoniali privati o di appartenenza pubblica senza che essi siano esposti al pericolo di danneggiamenti o ad occupazioni abusive, se ne deve dedurre che, già pur sotto questo circoscritto punto di vista, non sia contestabile l’esigenza di limitare il diritto in parola per coloro cui siano demandati compiti rivolti ad assicurare il rispetto degli interessi che potrebbero riuscire compromessi da scioperanti indotti a sostenere le proprie ragioni con intimidazioni o violenze, e rispetto a cui si rende indispensabile l’impiego di congrui mezzi di prevenzione o di repressione. Rilievo ancora maggiore assumono le prospettate esigenze garantiste quando si abbia riguardo ai valori fondamentali legati all’integrità della vita e della personalità dei singoli, la cui salvaguardia, insieme a quella della sicurezza verso l’esterno, costituisce la prima ed essenziale ragion d’essere dello Stato”. Aborto, 1975 - Di certo ci volle ancora qualche anno per arrivare alle conquiste degli anni Settanta, prima con la legge sul divorzio e poi, nel 1978, con la 194 che depenalizzava l’aborto. Lo abbiamo detto, la sentenza sull’adulterio aveva aperto la strada ad altre pronunce storiche. Ma è quella del 1975 a segnare il punto di svolta nel caso dell’aborto. Ricapitoliamo. Prima del ‘78 l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata sempre reato. Nel ‘75, l’allora giovane militante radicale Emma Bonino si autoaccusa di procurato aborto e viene arrestata insieme all’allora segretario del partito Gianfranco Spadaccia e alla segretaria della Cisa Adele Faccio. Scoppia il caso, il dramma invisibile dell’aborto clandestino si pone al centro del dibattito politico e dell’attenzione pubblica. La proposta referendaria dei Radicali non arriva alle urne. Ma il bisogno di riformare la normativa si era già posta al legislatore con la sentenza numero 27 del 18 febbraio 1975 con cui la Consulta, pur ritenendo che la tutela del concepito ha fondamento costituzionale, consente il ricorso all’interruzione di gravidanza “quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”. “Fu una sentenza che ci immise in un mondo nuovo, e non solo per il tema che trattava”, spiega l’attuale presidente della Corte Giuliano Amato. La decisione “ebbe un significato perché aprì il mondo delle scelte che noi facciamo - aggiunge - laddove prima la legge decideva per noi. Fu la sentenza che ci immise in un mondo in cui la nostra libertà coincide con la nostra responsabilità”. Integrazione dei cittadini stranieri, 2015 - “Poiché le attività svolte nell’ambito dei progetti di servizio civile nazionale rappresentano diretta realizzazione del principio di solidarietà, l’esclusione dei cittadini stranieri dalla possibilità di prestare il servizio civile nazionale precluderebbe il pieno sviluppo della persona e l’integrazione nella comunità di accoglienza, impedendo loro di concorrere a realizzare progetti di utilità sociale e, di conseguenza, di sviluppare il valore del servizio a favore degli altri e del bene comune”. Per concludere facciamo un bel salto in avanti e arriviamo al 2015, alla sentenza numero 119 della Corte Costituzionale. A sceglierla per la sua particolare rilevanza è l’ex presidente della Consulta e attuale guardasigilli Marta Cartabia. La quale spiega come la Corte sia intervenuta a più riprese sul tema dell’immigrazione e dell’integrazione dei cittadini stranieri nel nostro tessuto sociale. Anzitutto vigilando sulle leggi che riguardano la regolazione dei flussi nel nostro territorio, e in diversi occasioni rimuovendo motivi di discriminazione contro i cittadini stranieri, come quando ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’aggravante di clandestinità che puniva più severamente i non cittadini per la stessa fattispecie di reato. La Corte ha contribuito ad estendere i diritti sociali dei migranti, soprattutto quelli riguardanti i bisogni essenziali della persona in materia di salute e assistenza. Ma la sentenza del 2015 è così importante perché riguarda una storia che seppure piccola è di enorme portata. È il caso di un cittadino pakistano, il quale chiedeva di poter prestare servizio civile volontario per svolgere attività per il bene comune. La legge riservava infatti il servizio civile ai soli cittadini italiani. Ma la Corte interviene dichiarando l’illegittimità di questa esclusione, precisando che il “valore di solidarietà è un fattore di integrazione, non soltanto quando è ricevuta, ma anche quando è prestata”. Giancarlo Coraggio: “Ecco perché parlare al Paese è un dovere della Consulta” di Errico Novi Il Dubbio, 28 febbraio 2022 “Spiegare è doveroso. Comunicare, rendere conto ai cittadini delle ragioni delle nostre decisioni, in modo che possano anche criticarle. Vede, io sono stato per decenni un giudice comune, un giudice amministrativo per l’esattezza: non comunicavo certo con dichiarazioni alla stampa il motivo delle mie sentenze che, ritenevo, dovessero parlare da sole. Ma con la Corte costituzionale cambia tutto: è un’altra cosa. La decisione della Consulta incide sulla vita delle persone, come una legge, e non può essere rovesciata. Perciò è necessario spiegarla, offrirne i motivi anche in forme divulgative. Ed ecco perché non comprendo molto le reazioni di alcuni organi di stampa ai recenti interventi pubblici del presidente Giuliano Amato”. Il presidente emerito della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio è un giurista capace di accogliere nell’austera casa del diritto con il sorriso elegante della migliore tradizione culturale partenopea. “Sono andato via da Napoli presto già per gli studi universitari, compiuti alla Sapienza, e ho ascendenze marchigiane per via materna. Però sono napoletano, sì”. È dunque affascinante interrogare lui, l’immediato predecessore di Amato, sul rapporto della Consulta con la comunicazione. Una presenza nei fatti generosa che contraddice gli stereotipi dell’organo inaccessibile, distante. È una suggestione, quella, legata forse all’inappellabilità delle pronunce costituzionali, che fa più rumore in certe occasioni, come avvenuto per il recentissimo stop ai referendum. Eccolo, il corto circuito: Amato illustra la decisione in conferenza stampa, e persino con un’intervista a La7, e anziché apprezzamenti, arrivano reazioni stizzite. Presidente, intanto come si spiegano questi atteggiamenti di insofferenza? Non trovo una spiegazione, sinceramente, anche perché la presenza della Corte sui media non è nuova. Come segnala un articolo pubblicato su Questione giustizia da Donatella Stasio, responsabile della Comunicazione della Consulta, il dialogo coi media nasce con la Corte ma si è intensificato a partire dalla presidenza di Paolo Grossi, un uomo di grande cultura, un comunicatore. In tante occasioni abbiamo parlato, e l’ho fatto anche io, con i podcast, negli incontri nelle carceri, nelle scuole… Sono stato intervistato da Floris esattamente come Amato, e non è successo nulla. Ho poi illustrato una sentenza importante in un’intervista durante la trasmissione Titolo V, e ancora una volta non è successo nulla. Sì, ciascuno declina la comunicazione con un linguaggio che può oscillare dalla sfumatura tecnica a una più riconoscibile ascendenza politica, ma nel caso di Giuliano Amato mi pare che il giurista sia prevalso nettamente sul politico. In ogni caso, lei dice, è necessario che la Corte parli... È inevitabile, potremmo dire. E non è difficile capire perché. La sentenza di un giudice comune, quale sono stato per tanto tempo, deve difendersi da sola. Ma nel caso delle pronunce emesse dalla Corte costituzionale cambia tutto, perché noi abbiamo inevitabilmente un ruolo politico. Non nel senso che siamo politicamente connotati, altro falso mito non facile da scardinare, ma perché le decisioni assunte dal giudice delle leggi incidono nella vita di tutti, della comunità, e hanno dunque un valore politico nel senso più alto di polis. Inoltre, credo vi sia un ulteriore aspetto che pure si sottovaluta. A cosa si riferisce? Emettere una sentenza costituzionale è come emanare una legge, perché può modificare il quadro giuridico. Ebbene: cosa fa un soggetto politico che promuove una legge? Ne parla, ne illustra le ragioni. È lo stesso anche per noi. Dopodiché, continueranno sempre a dire che siete politicizzati... Fa parte delle regole del gioco... Senta, presidente: voi giudici costituzionali vi sentite portatori del verbo dei padri costituenti? Possiamo dire questo: interpretare un principio della Carta spesso richiede un approfondimento del dibattito che su quella norma vi fu nell’Assemblea costituente. In tanti casi, la soluzione di un giudizio di legittimità è in quel percorso a ritroso. È chiaro però che i principi affermati dai padri costituenti vanno calibrati anche rispetto alla realtà storica e sociale. Il concetto di famiglia dell’immediato dopoguerra non è lo stesso di oggi. Allora era naturale che a una donna fosse preclusa la carriera in magistratura, oggi sarebbe assurdo. E quindi noi dobbiamo compiere lo sforzo di attualizzare quei principi. È forse l’operazione più delicata che tuttavia la Corte non può esimersi dal compiere. È una sorta di alchimia temporale, una bella responsabilità... Beh, l’espressione alchimia temporale mi pare interessante, mi piace. È un po’ così in effetti. Dicevamo all’inizio: voi comunicate anche alla luce del carattere inappellabile delle vostre decisioni... Sabino Cassese ha citato le parole di un giudice della Corte suprema americana: “Noi non siamo gli ultimi perché siamo i migliori, siamo i migliori perché siamo gli ultimi”. È una battuta. Ma è vero che c’è una relazione fra la necessità che il percorso di un giudizio si fermi, come può avvenire con la pronuncia della Corte costituzionale, e il dovere di renderne conto ai cittadini, anche mediaticamente, spiegandone le ragioni. Siamo nel pieno della dialettica fra garantismo e giustizialismo: voi giudici costituzionali fino che punto potete incidere, in quel contesto spesso tesissimo? Mi pare che la sua domanda si regga su un presupposto: noi non possiamo assumere un ruolo politico nel senso immediato del termine. Però la Corte ha dei riferimenti, delle linee guida molto solide, su temi che incrociano la dialettica di cui lei parla. Un esempio? Le pronunce sull’ergastolo ostativo: sappiamo che esiste un filone di pensiero ispirato al motto “bisogna gettare la chiave, fine pena mai”. Ma c’è anche chi ben comprende la necessità di attuare il principio richiamato dall’articolo 27 della Costituzione: il fine rieducativo della pena, il suo carattere che non può mai sfidare il senso di umanità. Bene: la Corte naturalmente è tra chi riconosce tale principio, presente anche nella Convenzione europea dei diritti umani, e quando ci siamo dovuti esprimere su quella materia, non abbiamo potuto che adeguarla all’articolo 27. Anche nelle ultime settimane ci siamo trovati a decidere su una questione inerente la sfera della detenzione: la censura della corrispondenza tra il detenuto in regime di 41 bis e il suo difensore. Nella sentenza abbiamo proiettato la nostra convinzione che tale regime sia uno strumento necessario, che risponde a una precisa logica di contrasto alla criminalità organizzata, ma che non può essere connotato da eccessi inutili, quali la censura della corrispondenza col difensore. Quella norma contrastava paradossalmente, peraltro, con la possibilità dei colloqui riservati fra detenuto e avvocato. E messaggi del genere cominciano a far breccia nell’opinione pubblica? Credo di sì, non abbiamo riscontrato un’eco particolarmente negativa di quella decisione. Credo siamo riusciti a trasmettere l’idea per cui non va certo limitata l’incidenza della risposta penale, che però non deve essere concepita in un’ottica persecutoria. C’è un passaggio di quella sentenza che riconosce la nobile funzione svolta dall’avvocatura... Certo, è un passaggio che ho condiviso profondamente e che è opera del giudice estensore Francesco Viganò, professore di Diritto penale e grande conoscitore di queste materie. Personalmente, in tutta la mia esperienza di giudice amministrativo, ho sempre considerato essenziale il rapporto con il Foro, e credo davvero nel suo ruolo di collaborazione all’interno del sistema giurisdizionale. Posso immaginare che quella sentenza sia stata molto apprezzata dagli avvocati. Nel vostro “Viaggio nelle carceri” ha provato imbarazzo nel testimoniare ai detenuti quei valori costituzionali spesso traditi proprio negli istituti di pena? Guardi, devo dirle di sì: mi sono sentito in imbarazzo. È stato diverso dal viaggio nella scuola, che ci ha regalato l’incredibile entusiasmo dei ragazzi, dietro cui si coglieva l’altrettanto ammirevole impegno dei professori nel prepararli agli incontri. Ma quel viaggio nelle carceri, da cui si è tratto un film, è stato diverso. Ricordo la mia conclusione, nella tappa di Terni: non ho potuto trattenere la commozione, che proviene, devo dirle, da un senso di inadeguatezza. Ci si trova lì, davanti a condizioni umane davvero pesanti, e non si ha certo la via d’uscita del politico, che può impegnarsi a condurre battaglie per migliorare la vivibilità delle carceri, per sanzionare gli abusi. Noi possiamo intervenire solo se siamo chiamati, e lo abbiamo fatto tutte le volte che è stato possibile, anche stigmatizzando, come ha fatto ad esempio Giorgio Lattanzi in una sentenza di cui è stato estensore, il sovraffollamento carcerario. In ogni caso, il senso di frustrazione, in quel viaggio che pure è stato un arricchimento, lo abbiamo avvertito eccome. Il vento dell’antipolitica investe anche la Consulta? Non so se anche noi siamo bersaglio di quella diffidenza che in effetti è avvertita da alcuni nei confronti delle istituzioni e della politica. La Corte, negli ultimi anni, si è “aperta” ai cittadini proprio per tenere vivo quel sentimento di fiducia che istituzioni e politica devono conquistarsi. Forse, però, sotto quest’aspetto sarebbe importante un contributo più costruttivo anche da parte della stampa. C’è il rischio che i media incoraggino una sfiducia verso la democrazia stessa? Può succedere che a furia di evocare una democrazia ideale si smetta di credere in quella reale. Che va costruita ogni giorno. Ciascuno deve fare la propria parte. Il senso della Corte costituzionale per la comunicazione di Donatella Stasio Il Dubbio, 28 febbraio 2022 Qualcuno, a proposito dell’attuale comunicazione della Corte costituzionale, ha parlato di “rivoluzione comunicativa” (attribuendole motivazioni e obiettivi di vario genere). La storia, invece, ci dice che la Corte si è mossa in assoluta continuità con quell’idea di sé, e della comunicazione, germogliata fin dalla sua nascita, sebbene declinata variamente negli anni, anche in funzione delle diverse presidenze che si sono succedute alla sua guida. Ovviamente, in 60 anni è cambiato il mondo. Certamente è cambiata l’informazione: tempi, piattaforme, tecnologie... La contemporaneità impone cambi di passo, ma i cambi di passo non sono salti nel vuoto. Molti hanno paura di cambiare. La Corte no. Un’istituzione che si sente “carne e sangue” della società civile non può non farsi carico dei cambiamenti. Perciò la Corte rifiuta la logica dell’immobilismo e della chiusura. Negli anni sessanta, giornali, tv, radio erano l’unica forma di intermediazione con la società civile; nell’era della comunicazione globale, nel tempo veloce del web, delle fake news e dei social, ma anche della crisi dell’editoria professionale, la Corte capisce di dover strutturare in modo professionale un canale di comunicazione diretta con l’opinione pubblica, senza bypassare i media ma affiancandoli e supportandoli nel compito di garantire il bene comune di un’informazione tempestiva, corretta e completa. Una sfida. Organizzativa e culturale, che però affonda le radici nel passato e che guarda al futuro. Il presidente Lattanzi ha parlato di “prospettiva comunicativa nella quale la Corte crede molto, ritenendola doverosa”. Questa prospettiva, ha aggiunto, “costituisce la cifra di una Corte costituzionale protagonista della contemporaneità, interlocutrice credibile nella promozione di un autentico patriottismo costituzionale, nel ricordo del clima e del contesto in cui è nata la nostra Costituzione, che negli anni, specie negli ultimi, si è andato affievolendo”. Sono parole chiare, che poggiano su fatti concreti e che non consentono di attribuire alla Corte motivazioni e obiettivi diversi. Nell’incontro con i ragazzi reclusi nel carcere di Nisida, che con una disarmante semplicità smentivano alcuni principi costituzionali fondamentali come il diritto di essere trattati allo stesso modo (“La Costituzione dice che siamo tutti uguali. Ma non è vero…”), il giudice Giuliano Amato ha ricordato che “La Costituzione è nata da un clima” e che su quel clima i Costituenti avevano scommesso affinché potessimo trattarci da uguali. “Perché senza quel clima - ha scandito Amato - noi non riusciamo a trattarci da uguali”. Ecco, la Corte ha deciso di concorrere a ricostruire quel clima con una comunicazione al passo con i tempi sia sulla sua attività giurisdizionale sia, più in generale, sui principi e sui valori che la sua giurisprudenza custodisce e promuove. Se ne è arricchito anche il rapporto con i media, in una sinergia che valorizza la funzione sociale dell’informazione. Passano i decenni ma non le controspinte culturali e quindi il cammino di questa comunicazione non è affatto in discesa. Nel terzo millennio c’è ancora “chi ha paura della comunicazione” e promuove il modello di una Corte muta, magari anche bendata, che “parli solo con le sentenze” e solo con un linguaggio tecnico a uso e consumo dei giuristi. Non è qui che vanno analizzate le ragioni di queste controspinte. Qui ci piace esercitare ancora una volta la memoria e scoprire che questo modello era anacronistico già 30 anni fa. Correva l’anno 1987 e i riflettori mediatici erano accesi sulla Corte costituzionale che stava decidendo le sorti della cd. “tassa sulla salute”. Nel mio archivio cartaceo ho ritrovato la cronaca di quel verdetto: quattro cartelle battute rigorosamente a macchina, inviate per fax dalla redazione romana a quella milanese del Sole 24 Ore. L’ho ritrovata anche nel volumone della rassegna stampa del 29 ottobre, conservato nella biblioteca di Palazzo della Consulta (Tassa salute assolta con riserva, di Donatella Stasio, Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 1987). È una cronaca puntuale - come quella di altre testate nazionali - di quanto avvenne quel giorno, in particolare di una decisione innovativa per le modalità della comunicazione. Il presidente della Corte Francesco Saja decise di fare subito un comunicato stampa, “al termine di una lunga e faticosa camera di consiglio”. Fu un comunicato stampa per nulla burocratico ma redatto con un linguaggio divulgativo e chiaro (si veda anche Il Sole 24 Ore del 29 ottobre 1987: La nota che precede la sentenza). Di più. Poiché all’epoca non esisteva la posta elettronica ma soltanto il fax, Saja decise di darne la più ampia diffusione, leggendolo personalmente, davanti alle telecamere e ai taccuini dei giornalisti. Alla lettura seguirono alcune domande, alle quali il presidente non si sottrasse, consapevole dell’estrema delicatezza politica della questione e quindi della responsabilità di un’informazione il più possibile completa. Cito questo precedente (al quale ne seguirono altri simili, per esempio con il presidente Francesco Paolo Casavola, in occasione della sentenza sulla “buonuscita” degli statali, la n. 243 del 1993) come esempio virtuoso di una comunicazione/servizio: completa, chiara, efficace, che non lascia soltanto alle (pur sapienti) mani dei giuristi o dei bravi giornalisti la spiegazione di una decisione delicata politicamente. Dove per comunicazione virtuosa si intende non certo quella che evita le critiche (ce ne furono anche sulla decisione in questione) ma quella che consente di formulare critiche sulla base di fatti veri, non verosimili e tanto meno falsi, e neppure su interpretazioni suggestive. Critiche e dissensi - ce lo ricordava il presidente Bonifacio - fanno parte della vita della democrazia e neanche la Corte costituzionale può pensare di esserne immune. Dunque, negli anni novanta la Corte sperimenta (sia pure in modo ancora occasionale) forme di comunicazione per certi versi persino più avanzate di quelle attuali. Non risulta che sia stata accusata di “autopromuoversi”, di “cercare il consenso popolare”, di “autolegittimarsi”. Non risultano timori di un possibile “condizionamento” del comunicato stampa sulla successiva stesura della motivazione. Né risulta che qualcuno definì quella comunicazione “troppo divulgativa” e quindi potenzialmente “distorsiva”. (...) Immaginare, temere o, al contrario, auspicare che la Corte “torni indietro” è irrealistico. Semplicemente perché nella storia della comunicazione della Corte non c’è un “indietro” a cui tornare (la famosa Torre d’avorio) ma, semmai, c’è sempre stata una “prospettiva comunicativa” che fa della Corte una protagonista della contemporaneità e, quindi, della storia futura. L’alfabeto delle mafie: “F” come Famiglia di Isaia Sales La Repubblica, 28 febbraio 2022 La violenza non è una attività che si passa di padre in figlio né l’attitudine al comando si eredita. La parola “famiglia” in uso nelle mafie può prestarsi a molteplici equivoci se non attentamente spiegata. La confusione è dovuta al fatto che i mafiosi chiamano così la loro unità di base, cioè il nucleo dei loro aderenti di un territorio ben preciso e sottoposti a una gerarchia, mentre il termine fuori dal linguaggio mafioso fa riferimento a specifici legami di sangue. Infatti, la famiglia mafiosa di Corleone non si è mai identificata con la specifica famiglia di sangue di Salvatore Riina, di Bernardo Provenzano o, prima ancora, di Luciano Liggio, così come la famiglia mafiosa di Brancaccio non si identifica solo con i fratelli Graviano, anche se sia a Corleone sia nel quartiere palermitano di Brancaccio alcuni familiari dei capi-mafia hanno giocato e giocano un ruolo importante. In Sicilia, il termine “famiglia mafiosa” è accompagnato dal nome del paese, del quartiere, del territorio dove si esercita il controllo da parte di una cosca e non dal cognome della specifica famiglia di sangue che all’interno di quel nucleo mafioso ne ha il controllo, il comando o l’egemonia. Le più di 200 famiglie mafiose siciliane si identificano tutte con il nome della località dove comandano e non con il nucleo familiare che le guida. Quindi, nell’organizzazione mafiosa con il termine “famiglia” non si fa riferimento a un’entità di sangue o a legami parentali ma a un territorio dominato, a un luogo dove si esercita il potere di un insieme di mafiosi organizzati e gerarchizzati. Negli Usa, ad esempio, dove in gran parte è stato trasferito- con qualche innovazione- il modello mafioso siciliano, è vero sì che le attuali 5 famiglie newyorkesi portano ancora il nome dei fondatori Gambino, Lucchese, Genovese, Bonanno e Colombo, ma il comando non si è ereditato di padre in figlio (anche se molti parenti stretti ne hanno fatto parte) e nessuno dei capi attuali porta il cognome di colui che diede vita alla famiglia. Unica eccezione è rappresentata da Peter Gotti, successore del capo John Gotti dopo il suo arresto nel 2002, il quale non aveva però legami di parentela con il fondatore Carlo Gambino. Lo stesso Lucky Luciano non era parente del fondatore della famiglia mafiosa di cui divenne capo. Fu il pentito italo-americano Joe Valachi per primo a usare il termine “famiglia” davanti alla Commissione d’inchiesta del Senato americano che prese il nome dal suo presidente McClellan. Al senatore che gli chiedeva che tipo di famiglia fosse quella dei mafiosi, egli rispose: “Questa è l’espressione che usano, ma non è propriamente la famiglia. Non significa padre o madre o sorella o fratello o qualcosa del genere”. L’uso del termine “famiglia” per indicare un insieme di mafiosi organizzati deriva proprio dal modo in cui si divisero il territorio di New York le cinque cosche siculo-americane più importanti, così come è di derivazione americana l’uso del termine “Cosa nostra” come sinonimo di mafia. D’altra parte quello di mafioso non è un mestiere ereditario, che si trasmette di padre in figlio o solo all’interno della stessa famiglia di sangue. Lo storico Salvatore Lupo lo ha ben precisato: “Dal punto di vista sostanziale è vero che la solidarietà familiare va considerata come il nucleo di molte possibili alleanze in molte sfere dell’azione collettiva, del passato e del presente, ed ancora di più in quelle pericolose come la criminalità; però proprio dal punto di vista sostanziale Cosa nostra sia americana sia siciliana non riposa solo sui collanti di natura familista”. D’altra parte se l’organizzazione mafiosa si basasse solo sul nucleo familiare, di sangue o allargato a parenti acquisiti, perché mai ricorrere ancora al rito di iniziazione? Se quello di mafioso fosse un ruolo che si eredita, non ci sarebbe bisogno di nessun giuramento formale, in quanto basterebbe nascere in una determinata famiglia per essere di per sé mafioso. Vedremo più avanti come oggi in alcune organizzazioni criminali, in particolare nella ‘ndrangheta e in parte nella camorra, la famiglia di sangue si è trasformata in un elemento essenziale per l’accesso alla famiglia mafiosa e che negli ultimi decenni tra i due termini c’è, nei fatti, un rapporto sempre più stretto. Ma nella storia delle tre organizzazioni mafiose questa coincidenza è una evoluzione dettata da particolari circostanze, in gran parte innescate dalla repressione degli ultimi decenni, piuttosto che un elemento di continuità e di identità. Nella ‘ndrangheta, ad esempio, la struttura organizzativa basata sulla famiglia di sangue ha assorbito più efficacemente i danni delle rivelazioni dei pentiti e ha reso più difficile accusare i propri parenti, anche se ci sono molti casi in cui ciò è avvenuto lo stesso. Nella mafia calabrese la sovrapposizione tra famiglia di sangue e famiglia criminale è molto più ampia che nelle altre due mafie; nelle ‘ndrine il passaggio di testimone tra padre e figlio a tra parenti è molto più frequente che in altre organizzazioni mafiose. Casal del Principe dall’alto - In origine, però, sia la camorra che la ‘ndrangheta si riconoscevano nell’appellativo di “Onorata società” e non di “famiglia”, in quanto consideravano le loro organizzazioni delle comunità di criminali piuttosto che un insieme di parenti. Non si percepivano come strutture monarchiche ma repubbliche di delinquenti in cui valeva, sicuramente, una certa affinità parentale ma essa non era affatto decisiva. Nelle tre mafie italiane esistenti già nell’Ottocento (la camorra attiva già prima dell’Unità d’Italia) la selezione non era per casato familiare, come nella tradizione baronale, ma per meriti acquisiti lungo le strade del crimine. Il manifestarsi della meritocrazia nel campo criminale precedette quella all’interno delle società uscite dalla fine dell’assolutismo regio e del sistema feudale. È dimostrato storicamente, ad esempio, che dal 1848 al 1915 nessun capintesta della camorra napoletana era stato preceduto dal padre o da un fratello nel comando della “Bella società riformata”, nome con cui si definiva all’epoca la criminalità mafiosa napoletana. E ancora oggi, nonostante l’esistenza di molti clan a spiccate caratteristiche familiari, non si usa solo il cognome del capofamiglia come elemento identificativo, mentre è molto utilizzato il termine “sistema” accompagnato dal nome del quartiere in cui operano i numerosi clan, oppure accanto a clan definiti dal nome del capofamiglia (Mazzarella, Gionta, Nuvoletta) ci sono clan definiti dal nome del luogo di aggregazione (Casalesi, Alleanza di Secondigliano). Insomma, la presenza di diversi congiunti all’interno delle famiglie mafiose non rende le mafie italiane un esempio incontrovertibile di struttura familistica; in ogni caso, il familismo non è la caratteristica identificativa del modello mafioso dalle origini ad oggi, anche se la consanguineità ne rappresenta un dato non trascurabile. La successione familiare nel modello mafioso - Se prendiamo gli ultimi capi della mafia siciliana, della camorra e della ‘ndrangheta, non troviamo casi di successione tra Riina e i figli, i quali anche se sono finiti in galera, non sono diventati capimafia; stessa cosa per i figli di Provenzano, di don Antonio Macrì in Calabria o di Liggio. Solo Matteo Messina Denaro è figlio di un boss mafioso. Il figlio di Cutolo morì ammazzato ma non divenne mai un capo camorrista, e né i figli di Alfieri, né di Nuvoletta né di Bidognetti sono diventati capi camorra, mentre i figli di Sandokan, di Valentino Gionta e i rampolli del clan Giuliano di Forcella sì. La successione può avvenire ma non è la regola: la violenza non è una attività che automaticamente si passa di padre in figlio né l’attitudine al comando si eredita. Stare in una famiglia mafiosa ti dà dimestichezza con la violenza, con l’omicidio e con l’illegalità ma non ti garantisce di ereditare il mestiere di tuo padre. Se vieni da una famiglia mafiosa, puoi diventare mafioso, ma non essere necessariamente il capo. Il tasso di successione padre-figlio nelle mafie è in genere più basso che in altre attività. “Il figlio del capomafia non è detto che gli succederà, mentre le dinastie monarchiche e imprenditoriali-finanziarie sono più rigidamente determinate dal legame familiare”, scrive giustamente Umberto Santino. Il boss pentito Buscetta nelle dichiarazioni rese al giudice Giovanni Falcone sostenne che in linea di massima non si eredita il ruolo di mafioso. Diverso il caso calabrese, dove il merito criminale non è l’unico per fare ingresso nella ‘ndrangheta, poiché i figli maschi dell’uomo d’onore hanno diritto ad essere “battezzati nelle fasce” e quindi ereditano di fatto l’investitura criminale dai titoli conseguiti in precedenza dall’ascendente diretto. Ma se poi da adulti non si dimostrano all’altezza vengono scavalcati da altri. C’è un caso clamoroso nella storia della camorra napoletana che dimostra quanto sia un danno per l’organizzazione passare il comando dal padre ai figli se essi non hanno le attitudini al comando. Nella scissione del clan Di Lauro di Scampia, che ha provocato una delle guerre più sanguinose degli ultimi anni a Napoli nei quartieri della periferia Nord, è stato evidente il conflitto tra concezione familistica e concezione aziendale all’interno del clan di camorra: il passaggio della leadership tra il boss Paolo Di Lauro e il figlio Cosimo (a causa della latitanza del primo) non è stata accettata dagli altri membri del clan. Infatti non è scontato passare il testimone di padre in figlio se ciò è contrario agli interessi aziendali; essere figlio di un capo non vuol dire essere capace di svolgere bene l’attività di manager delle piazze di spaccio, o in altre attività criminali. Ci sono, è vero, passaggi indolori delle redini del clan di padre in figlio (in genere il primo figlio, al di là delle capacità rispetto agli altri fratelli, come un maggiorascato criminale) ma alcuni clan si sono disgregati proprio a causa di questa successione padre/figlio. A volte sono le stesse madri che si rendono conto della scarsa predisposizione dei figli alla violenza e al comando: in una intercettazione telefonica la moglie di un capoclan dei Casalesi propone di aprire al figlio un’impresa di pigiami perché non lo riteneva in grado di comandare il clan. Sebbene il familismo sia stato il topos interpretativo più usato per raffigurare le mafie, i mafiosi non si comportano diversamente nei rapporti familiari di quanto avviene in politica, in economia, in Italia, nelle società europee e anche delle altre parti del mondo. Collocare nella propria scala di affetti e di interessi i familiari prima degli estranei non è un comportamento identificativo delle mafie, o una cosa moralmente sanzionabile, né tanto meno chi lo fa è necessariamente un pessimo cittadino o un potenziale mafioso. I Bush padre e figlio sono stati presidenti degli Stati Uniti; la famiglia Kennedy è stata una specie di dinastia politica; Clinton e la moglie hanno occupato per anni la scena politica americana. In Italia gli Agnelli hanno trasmesso il potere sulla Fiat da quattro generazioni. Fabrizio Barca e altri hanno parlato a ragione di “capitalismo familiare”. Nelle professioni oggi il passaggio di padre in figlio sta ridiventando di nuovo un metodo di trasmissione delle opportunità, visto che in gran parte sono bloccati altri canali di ascesa sociale. Se si paragonano i fenomeni mafiosi alle altre attività d’impresa o alle libere professioni nel campo legale, si può facilmente notare come il familismo mafioso sia meno accentuato del familismo del sistema capitalistico italiano o come sia meno significativo rispetto al passaggio di padre in figlio di molti studi professionali o di insegnamenti universitari. E’ riscontrabile facilmente come nel sistema delle piccole e medie imprese, o nella conduzione di negozi e di altre attività professionali, commerciali e artigiane, la presenza dei figli, dei fratelli, delle sorelle, dei cognati è molto frequente; le attività economiche mafiose, sia illegali sia legali, hanno la dimensione di piccole e media attività e seguono la stessa logica. L’arresto di Cosimo Di Lauro - E così come nel sistema economico funzionano insieme la cooptazione familiare e quella meritocratica, ciò avviene anche nelle mafie. In ogni caso, il familismo è un problema più generale della società e dell’economia e non una esclusiva caratteristica dei sistemi mafiosi. La differenza fondamentale, oltre all’utilizzo nella famiglia mafiosa di parenti in grado di saper usare all’occorrenza la violenza, è data dal fatto che la famiglia di sangue viene sacrificata qualora dovesse entrare in contrasto con gli interessi della famiglia mafiosa: la famiglia di sangue è gerarchicamente subordinata agli interessi della famiglia criminale nel suo insieme. Quando non si arriva ai casi estremi di scelta tra le due appartenenze, prevale una certa fluidità, una certa osmosi tra i due livelli. Ma a volte entrano in contrasto drammatico le due appartenenze e si scatenano guerre, come abbiamo visto nel caso del clan Di Lauro. Significativo poi il fatto che molti clan si basano su famiglie con tanti figli coinvolti: Paolo Di Lauro aveva messo al mondo 11 figli, così come il capostipite dei Giuliano, il padre del boss di Forcella Luigi, che era padre anch’egli di 11 figli; sei erano i fratelli Sarno, clan egemone a Ponticelli, e altrettanto i Licciardi di Secondigliano. Il ruolo delle donne di famiglia è decisivo nella camorra, e negli ultimi anni è cresciuto anche in Calabria e Sicilia: in genere esse si sostituiscono ai fratelli, ai mariti, ai padri e ai figli se sono impediti dal carcere o da una latitanza. A volte la famiglia numerosa viene considerata una benedizione, un capitale competitivo per le attività imprenditoriali. Un tempo ciò avveniva per le famiglie contadine, dove i tanti figli aiutavano a coltivare. Più si è numerosi in famiglia e più spazi si occupano nelle imprese illegali di massa. E laddove i figli non sono tanti, si copre il fabbisogno con i cognati, i cugini e altri parenti di sangue o acquisiti. Nei clan prevale la famiglia allargata, cioè non quella patrilineare ma quella dei cognati che si aggiungono a cognati. La famiglia napoletana del mondo criminale o illegale, se presenta ampi tratti disgregativi dal punto di vita sociale e culturale, si presenta come unità imprenditoriale larga e ciò è molto importante dal punto di vista commerciale-imprenditoriale. La famiglia diseducante è al tempo stesso molto efficace dal punto di vista del mercato criminale. E se nella ‘ndrangheta si tramanda una tradizione, un mestiere che sempre più si eredita di padre in figlio, nella camorra si tramanda un’opportunità familiare attraverso il crimine. Il familismo amorale e le mafie - Indubbiamente alla famiglia (e al conseguente familismo) è stato attribuito dagli studi antropologici un ruolo cruciale nel determinare il circolo vizioso dell’arretratezza del Sud d’Italia, dando a questo concetto una chiave interpretativa delle vicende storiche e sociali meridionali, stabilendo un nesso stretto tra familismo e clientelismo e tra familismo e predisposizione al dominio mafioso. Molti studiosi hanno applicato il concetto di familismo amorale alle mafie anche se il termine non venne usato dal suo inventore (lo studioso statunitense Banfield) come sinonimo di famiglia mafiosa, quasi a sostenere che se c’è stata la mafia è perché a base della mentalità e dei valori dei meridionali c’è innanzitutto la famiglia di sangue a cui sono riservati tutti gli affetti e i valori; mentre fuori della famiglia tutto è lecito, anche ammazzare e delinquere. Questo modo di pensare, cioè di un legame strettissimo tra mentalità familistica e mafie, lo si trova anche in molti dizionari della lingua italiana. Prendiamo il Dizionario Hoepli che così riporta alla voce familismo: “Solidarietà tra appartenenti a un gruppo al di fuori dell’organizzazione sociale, uniti da un patto di sangue a vincoli solitamente consistenti nell’ubbidienza gerarchica e nell’omertà in difesa degli altri affiliati: il fenomeno delle cosche mafiose”. Non sono pochi, infatti, gli studiosi che hanno stabilito un rapporto stretto tra familismo (amorale o meno) e successo delle mafie. Chi più delle mafie può rappresentare al meglio l’esempio concreto del familismo amorale? Nel libro L’Italia fatta in casa degli economisti Alberto Alesina e Andrea Ichino si considera il nesso familismo-mafie come molto significativo per analizzare il sottosviluppo economico e sociale di certe aree d’Italia, come pure altri problemi tipici del Sud, tra i quali appunto quello delle mafie. Insomma per alcuni studiosi il familismo amorale può servire indifferentemente a spiegare l’arretratezza del Sud o le origini delle mafie. ma è una semplificazione che non regge, e che alla lunga si è trasformato in un pregiudizio. Innanzitutto, se ci fosse un rapporto tra il familismo amorale e lo sviluppo delle mafie, il paese dove è stata “scoperta” tale teoria, cioè Chiaromonte in Basilicata (dove Banfield svolse per nove mesi la sua indagine sul campo e dove inventò il termine “familismo amorale”) dovrebbe essere un territorio mafioso per eccellenza, come mafiosa dovrebbe essere tutta la zona attorno dove si presuppone esistessero le stesse condizioni e la stessa mentalità degli abitanti di Chiaromonte. D’altra parte se Banfield parla di una società orientata esclusivamente all’interesse personale, in cui gli individui sono impegnati in una sorta di “lotta hobbesiana” di tutti contro tutti, dove tutti agiscono senza moralità nei confronti degli estranei, dove non esiste alcun riferimento etico se non all’interno della propria famiglia e nessuna forma di solidarietà all’esterno di essa, è facile concludere che di conseguenza a Chiaromonte dovevano essere accaduti numerosi episodi di violenza, un numero elevato di reati, con numerose presenze di criminalità organizzata. Ma leggendo le statistiche degli omicidi si nota che da quando Banfield mise piede a Chiaromonte (1954), fino al 2014, cioè in 60 anni c’è stato un solo omicidio in quel paese e tre tentati omicidi, tutti risolti con la scoperta degli autori. Come si può descrivere un mondo familiare chiuso e in guerra con tutto il resto dell’umanità e poi verificare che quel paese, che dovrebbe essere intriso di sangue, invece è tra i più tranquilli in Italia? In secondo luogo se le mafie sono la conseguenza del familismo amorale dovrebbero essere composte solo da famiglie nucleari, cioè nell’onorata società si dovrebbe entrare solo se membri della stessa famiglia di sangue. Ma non è affatto così, come abbiamo visto prima. Ultima considerazione. I mafiosi non hanno nessuna esitazione a uccidere loro familiari se questo è utile ali fini della tutela del clan e, se richiesto dall’organizzazione, anche se appartenenti alla loro famiglia nucleare (moglie, marito, madre, padre, figli). Ciò viene prescritto apertamente dagli statuti scritti e orali delle organizzazioni mafiose: la famiglia mafiosa viene prima della famiglia di sangue; gli interessi dell’insieme degli appartenenti alle mafie vengono prima delle esigenze dei familiari che ne fanno parte. Uno dei giuramenti a Cosa nostra così recita: “In nome di nostro Signore Gesù Cristo giuro dinanzi a questa società di essere fedele con i miei compagni e di rinnegare padre, madre, sorelle e fratelli e se necessario anche il mio stesso sangue”. Un’altra formula di giuramento dice: “Prima della famiglia, dei genitori, delle sorelle, dei fratelli, viene l’interesse e l’onore della società. Essa in questo momento è la vostra famiglia”. E in un codice della ‘ndrangheta così è scritto: “Prima della famiglia, dei genitori, dei fratelli, delle sorelle viene l’interesse e l’onore della società, essa da questo momento è la vostra famiglia e se commetterete infamità, sarete puniti con la morte. Come voi sarete fedele alla società, così la società sarà fedele con voi e vi assisterà nel bisogno, questo giuramento può essere infranto solo con la morte”. Dice Calderone che quando giurò da mafioso gli venne detto: “Non puoi tradire Cosa nostra, perché è al di sopra di tutto. Viene prima di tuo padre, e di tua madre. E di tua moglie e dei tuoi figli. La pretesa di Cosa nostra è totale sull’individuo che ne fa parte. Egli entra in una famiglia che è più importante della famiglia di sangue”. E Calderone continua: “Quando loro hanno deciso, non sono più padrone di me stesso. Possono ordinarmi di uccidere una persona conosciuta, un parente, una persona cara, e io non avrei scelta: lo dovrò fare. Se hanno deciso di eliminare mio fratello, quasi certamente chiederanno ad altri di farlo, ma io dovrò accettare la decisione. O si china la testa o si fa la guerra.” Vediamo cosa dice un altro mafioso: “Se uno fa un giuramento e accetta certe regole, le deve rispettare. Se mi dicevano che mio fratello era un infame, io lo uccidevo. Ci sono stati padri che hanno ammazzato i figli, e l’incarico gli veniva affidato proprio per metterli alla prova. Alcuni, saputo del tradimento, hanno chiesto di sparare di persona, dimostrando che Cosa nostra veniva prima del proprio sangue”. La regola d’obbedienza è così forte che “se il capo chiama, bisogna sempre essere disponibili al punto da lasciare anche la moglie che sta partorendo!” ricorda un pentito di mafia. E continua: “La parentela, l’amicizia non valgono niente di fronte alla fedeltà a Cosa nostra. Se è in gioco l’interesse della famiglia mafiosa, tutti questi sentimenti scompaiono, passano in secondo piano”. Anche nella Sacra corona unita il giuramento fa riferimento all’obbligo di considerare la famiglia nucleare subordinata a quella mafiosa: “Giuro di disconoscere padre, madre, fratelli e sorelle, nell’esclusivo interesse dell’organizzazione”. Gianluca Bidognetti, figlio del boss dei Casalesi, partecipa attivamente alla caccia alla madre pentita, ferisce la cugina e tenta di uccidere la sorella della madre nel tentativo di avere notizie sul suo rifugio. E la madre, Anna Carrino, per anni compagna del boss Francesco Bidognetti, da cui aveva avuto tre figli, in un’intervista alla trasmissione televisiva Anno Zero dice: “Per i camorristi il legame con la camorra è più forte di quello con i figli”. Nel clan Sarno di Ponticelli si verifica l’uccisione di Giuseppe Schisa (che in carcere aveva manifestato l’intenzione di pentirsi) con la collaborazione logistica del fratello Roberto. Non parliamo poi dei tantissimi episodi in cui pubblicamente parenti stretti di pentiti hanno rinnegato i loro cari. Maurizio Prestieri, un boss legato a Paolo Di Lauro, racconta che per gli ex affiliati del clan che volevano passare alla parte vincente degli scissionisti, vigeva una regola semplice: “Devi uccidere un tuo parente, ne scegli uno e spari. Solo così ti prendono nel loro clan perché sono sicuri che non stai barando”. Il criminologo Howard Abadinsky così commenta: “I mafiosi si uccidono tra di loro a tradimento, all’occorrenza anche tra fratelli, in barba al supposto familismo, e magari si mettono d’accordo con gli assassini dei loro congiunti”. George Simenon, che niente sapeva di Cosa nostra americana né tantomeno delle mafie italiane, se non quello che leggeva sui giornali, decise di ambientare un suo romanzo negli Usa e tra i criminali mafiosi di origine italiana. Ebbene lui colse subito il fatto che laddove prevale la violenza assassina essa non risparmia i propri familiari. Ne I fratelli Rico racconta appunto di un omicidio di un giovane boss che stava per tradire l’organizzazione avallato e agevolato da uno dei fratelli. Nel film Il padrino, Michel Corleone fa uccidere il cognato e perfino il fratello Fredo. Le organizzazioni mafiose esigono l’interezza della persona che ne fa parte allo stesso modo delle organizzazioni militari o religiose. George Simmel ha spiegato il meccanismo: il simbolismo dei riti sono modalità atte a esaltare un sentimento di appartenenza e devozione e, contemporaneamente, a richiedere un sentimento di appartenenza totale ed esclusiva, compatibile con altre appartenenze e affetti ma, nel momento del bisogno, esclusiva. Certo alcuni mafiosi hanno insistito con questo stretto legame della mafia con l’idea di famiglia, come ad esempio Joe Bonanno nelle sue memorie, ma tale concetto fa parte solo di quella nobilitazione della violenza di cui i mafiosi sono grandi esperti. Nella storia di ieri, di oggi e forse di domani, le strutture e i sistemi familiari, le lotte e le strategie delle famiglie hanno avuto un ruolo primario nelle strategie di conquista e di mantenimento del potere dei ceti alti della società, molto meno nei ceti popolari. Nei ceti economicamente più deboli alla famiglia ci si appoggia per sopravvivere, nei ceti alti per incrementare maggiormente potere e ricchezza. Il familismo nelle realtà povere è stato tutt’al più strumento di difesa, mentre in quelle ricche strumento di conquista. E questo non valeva solo per l’Italia come ha dimostrato Paul Ginsborg nel suo libro Famiglia Novecento. Le mafie in genere copiano i comportamenti dei ceti dominanti della società e sanno usare anche le strategie matrimoniali a tali fini: i matrimoni combinati per consolidare i vincoli tra famiglie potenti non sono certo un’invenzione dei mafiosi! Il commercialista “consapevole” concorre nel reato dichiarativo di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2022 Illeciti tributari. La Cassazione: contribuisce al meccanismo fraudolento il professionista che, per timore di perderlo, non denuncia il cliente evasore. Il commercialista concorre nel reato dichiarativo del proprio cliente allorché agevola consapevolmente la sua condotta criminosa e non rileva che il suo contributo non sia determinante ai fini della commissione dell’illecito, né che ne sia l’ispiratore. È quanto emerge dalle più recenti pronunce della Corte di cassazione in tema di concorso del professionista nell’illecito del cliente. Ma vediamo in concreto i termini della delicata problematica. Concorso nel reato La maggior parte dei contribuenti si affida per gli adempimenti fiscali e contabili a commercialisti e consulenti. In presenza di illeciti penali tributari commessi dal contribuente si pone spesso il dubbio se del reato possa rispondere (a titolo di concorso) anche il professionista che assiste il cliente. Da un lato, infatti, alcune violazioni sono così articolate e sofisticate che sembra inverosimile siano state ideate dal contribuente sprovvisto di specifiche cognizioni tecniche, dall’altro il professionista si limita di sovente a eseguire adempimenti (contabilità, versamenti, dichiarazioni) sulla base della documentazione fornita dal cliente e neanche si può ovviamente pretendere che nei confronti di quegli atti assuma un approccio investigativo-inquisitore. In tale contesto, la norma di riferimento (articolo no del codice penale) si limita a prevedere che quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita. Secondo le sezioni unite penali della Cassazione (sentenza 36258 del 2012) il concorso comprende tutte le diverse forme e i diversi gradi di partecipazione criminosa, indipendentemente dall’importanza di quest’ultima nella determinazione dell’evento, compresa la partecipazione morale al fatto altrui nelle sue varie forme del mandato, dell’incitamento, del rafforzamento della volontà dell’autore (cosiddetto principale) e dell’agevolazione in genere. Con specifico riferimento ai reati tributari, per la Suprema corte non vi è dubbio che il soggetto attivo possa essere soltanto il contribuente obbligato dell’adempimento. Tuttavia, anche soggetti diversi (dottori commercialisti, consulenti contabili, avvocati e coloro che prestano assistenza tributaria) possono occupare una posizione penalmente rilevante rispetto ai clienti a favore dei quali prestano la propria attività professionale. A tal fine, per ritenere il professionista compartecipe nei reati del proprio cliente è necessario che sia integrato il dolo specifico dell’illecito e, pertanto, che l’apporto prestato sia “intriso” di volontà fraudolenta finalizzata all’evasione, ancorché, come detto, l’apporto professionale non sia determinante ai fini dell’attuazione dell’illecito. Il rapporto col cliente - Così di recente è stato ritenuto responsabile di dichiarazione fraudolenta unitamente al proprio cliente il commercialista che ne aveva tenuto la contabilità curando la registrazione delle fatture ed effettuando dichiarazioni dei redditi e bilanci e che, seppur a conoscenza di varie anomalie emergenti dalla contabilità (presenza di numerose autofatture con identità di nome tra cedente e acquirente per importi rilevanti, prelievi di elevate somme in contanti), non si era attivato per segnalarle agli organi competenti, ma aveva proseguito nell’assistenza per timore di perdere il cliente. In questo modo, secondo la Cassazione (sentenza 159 del 2022) ha contribuito all’attuazione del meccanismo fraudolento posto in essere dalla società del cliente. È stato poi ritenuto concorrente nel reato di indebita compensazione il consulente che, sistematicamente, ha creato fittizi crediti per agevolare la società nei pagamenti (sentenza 44939 del 2021). E ancora, sulla delicata apposizione del visto di conformità da parte del consulente rispetto a dichiarazioni riportanti crediti di imposta sospetti, la Suprema corte (sentenza 26089 del 2020) ha ritenuto responsabile il professionista che aveva omesso i dovuti controlli. È stato invece sempre escluso (anche di recente con la sentenza 4973 del 2022) che l’omessa presentazione della dichiarazione possa essere attribuita al professionista incaricato della trasmissione e risultato inadempiente, in quanto si tratta comunque di un obbligo specifico del contribuente, che impone un obbligo di verifica dell’avvenuto adempimento ove delegato a terzi. Campania. Detenuti malati: “Mancano i posti in ospedale” napolitoday.it, 28 febbraio 2022 La denuncia del Garante della Campania: “In regione solo 36 letti per oltre 6mila carcerati. Le attese delle cure superano i tempi delle pene”. “In Campania su 6702 detenuti presenti nelle 15 carceri per adulti ci sono appena 36 posti di degenza negli appositi reparti ospedalieri”. Il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambirello, in visita all’Ospedale Cardarelli punta l’attenzione sull’assistenza sanitaria a chi sconta una pena in carcere. “Al Cardarelli ci sono 12 posti, oggi solo nove perché una stanza con tre posti è inutilizzabile. A Benevento, per volere della direzione sanitaria dell’Ospedale San Pio, non ci sono posti riservati ai detenuti. Perché solo così pochi posti? Tantissimi detenuti attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. Nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e della tutela della salute, credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti”. Per il Garante la riforma sanitaria in carcere è ancora una chimera: “Tarda ad avere piena e incondizionata applicazione. Tale diritto deve essere riconosciuto conciliabile e non contradditorio con le esigenze di sicurezza. L’irragionevole incertezza, a volte gelosie tra l’area sanitaria e le direzioni delle carceri sono un’afflizione aggiuntiva per i detenuti. Le aggravanti nelle carceri sono poi gli aumenti dei detenuti con un problema in più: quello mentale e quello delle tossicodipendenze”. Torino. Il carcere dei ragazzini: un detenuto su dieci ha meno di 24 anni di Sarah Martinenghi La Repubblica, 28 febbraio 2022 “Crescita impressionante” della fascia più giovane dietro le sbarre. Focus rafforzato sulla riabilitazione per evitare che diventino recidivi. Più di un detenuto su dieci al carcere di Torino ha tra i 18 e i 24 anni. I giovani e giovanissimi sono al momento 162, oltre l’11 per cento dei circa 1.400 reclusi del Lorusso e Cutugno. “Non ricordiamo una situazione simile, c’è stata una crescita impressionante dei più giovani dietro le sbarre”, commenta chi lavora nella casa circondariale di via Pianezza. I numeri lo confermano. I giovani detenuti del Lorusso e Cutugno nei primi due mesi del 2022 raggiungono già il 65% della somma dei detenuti registrati in Piemonte nell’intero 2021. Nel corso dell’anno passato sono stati infatti 249 i detenuti nella fascia 18-24: un numero più basso rispetto al 2020, quando i coetanei erano stati 323. Presenze analoghe, per quanto altalenanti, si sono susseguite nell’ultimo decennio e bisogna andare indietro nel tempo per trovare un numero decisamente più alto di giovani reclusi: 546 in tutto il Piemonte nel 2012 e persino 649 nel 2011 e 636 nel 2010. Livelli a cui si rischia di tornare se il carcere torinese continuerà nei prossimi mesi ad aprire le porte delle celle ad arrestati poco più che ragazzini. Ed è una situazione che impone una riflessione su come si sia tornati a così alti livelli di delinquenza giovanile. La Città di Torino a questo proposito sta lavorando a Icarus, un progetto europeo per combattere la devianza giovanile che mette in campo anche l’intelligenza artificiale. Ci sta lavorando il Team innovazione della polizia locale, che ha elaborato un approccio innovativo che permette di valutare attraverso un algoritmo l’impatto che hanno avuto i diversi interventi adottati a favore delle nuove generazioni, dalle scuole allo sport, dalla riqualificazione dei quartieri alle lezioni sulla legalità. Per ciascuno si cercherà di capire con metodo scientifico energie investite e risultati ottenuti, così da restituire alla pubblica amministrazione analisi basate sui dati e metodologie scientifiche, che diventano uno strumento per decidere le politiche future. “Grazie a questo progetto - spiega Gianna Pentenero, assessora alle Politiche per la sicurezza - l’innovazione interviene a servizio delle politiche di prevenzione e contrasto al disagio giovanile, che sono fortemente sostenute dall’amministrazione e messe in atto dalla polizia locale”. Proprio in questi giorni anche l’ufficio del Garante dei detenuti di Torino ha avviato una serie di interviste ai detenuti appena maggiorenni per capire le origini del fenomeno delinquenziale, con particolare attenzione ai quartieri di Torino in cui sono cresciuti e alle compagnie frequentate. “Si tratta di un lavoro che ha anche lo scopo di prevenire collocazioni in carcere non sufficientemente tutelate - spiega la garante Monica Gallo. I giovani con i primi approcci delinquenziali dovrebbero avere sezioni dedicate con potenziamenti delle attività trattamentali, la ripresa immediata dei percorsi scolastici e ogni supporto possibile perché prendano consapevolezza delle ferite che provocano i reati che hanno commesso”. In questo periodo anche il Ferrante Aporti sfiora la sua massima capienza. Ad oggi ospita 40 ragazzi, tra minorenni e giovani adulti. Ma è anche pieno il Cpa, il centro in cui vengono portati arrestati e fermati prima di varcare il portone del carcere minorile. D’altra parte le cronache offrono uno spaccato impietoso della delinquenza giovanile e minorile in particolare. Pochi giorni fa è stata data notizia dell’arresto da parte dei carabinieri di Alba di un quindicenne che ha aggredito e ferito una donna di 89 anni per strapparle la borsa a tracolla, mentre i carabinieri della San Carlo a Torino hanno arrestato una baby gang composta da giovani fra i 18 e i 20 anni, che avevano rapinato dei coetanei e poi avevano esibito il bottino sui social. “Negli ultimi due turni i pm dei minori hanno seguito sette arresti ciascuno: non si vedono mai questi numeri”, conferma la procuratrice dei minori Emma Avezzù per quanto nelle strutture torinesi vengano ospitati anche giovani di Milano, dal momento che anche le loro strutture sono piene. “Evidentemente questa impennata degli arresti è un problema delle grandi città del nord Italia, occorre lavorare molto sui minori quando delinquono per fermare un’escalation che li porterà a entrare e uscire dal carcere anche da adulti”, conclude. Pozzuoli (Na). Con la start-up Palingen detenute dalla cella alla sartoria di Raffaella Grimaldi Corriere del Mezzogiorno, 28 febbraio 2022 Inclusione sociale, moda etica e sostenibile. Sono i punti di forza di Palingen, la start up a vocazione sociale che ha preso in gestione la sartoria del carcere femminile di Pozzuoli. L’ottica è quella del reinserimento economico di persone svantaggiate tramite l’implementazione di progetti ecosostenibili. A raccontare l’iniziativa Marco Maria Mazio, fondatore dell’azienda. “Elevare la dignità delle persone tramite il lavoro e l’insegnamento dell’arte della sartoria italiana in maniera innovativa”, la sua mission. L’iniziativa nasce all’inizio del 2020. “A quel periodo risale infatti uno dei lavori del quale siamo particolarmente orgogliosi”, racconta Mazio. In collaborazione con l’amministrazione del carcere, Maria Luisa Palma, e con lo stilista Alessio Visone (volontario nel progetto) le detenute hanno realizzato delle mascherine che sono state donate alla comunità di Sant’Egidio per le persone senza fissa dimora. Si riparte nel maggio 2021, quando, la Palingen prende in gestione il laboratorio sartoriale all’interno del carcere. Due le innovazioni della start up: moda sostenibile e inserimento delle detenute in un’ottica aziendale. Sono attualmente otto le detenute attive nel progetto, già orientate al mondo del lavoro e alla vita che le attenderà dopo il carcere. Secondo i dati condivisi da Palingen e forniti da Giuseppe Guerini, presidente di Alleanza Cooperative Sociale, solo il 10% dei detenuti che hanno partecipato ad un programma di reinserimento all’interno del carcere, rischia la recidiva. Il lavoro, dunque, come migliore occasione di riscatto. Palermo. “La luce della speranza”: sit-in davanti al carcere Ucciardone giornalelora.it, 28 febbraio 2022 Parteciperà il Commissario della DC Nuova, Totò Cuffaro. Un sit-in in memoria dei due ragazzi morti suicidi recentemente nelle carceri di Palermo e Catania, si terrà a Palermo, il prossimo martedì 1 marzo, davanti alla casa circondariale Ucciardone di Palermo, a partire dalle 19,30. L’evento, dal titolo “La Luce della Speranza”, organizzato dalla Responsabile Regionale del Dipartimento Diritti Umani con delega Art 3-27 della costituzione della Democrazia Cristiana Nuova, insieme al Responsabile Regionale del Dipartimento Legalità e Antimafia della DC Nuova, seguirà l’Assemblea di “Nessuno Tocchi Caino” che avrà luogo, alle ore 16, presso la Fonderia Oretea di Palermo. All’iniziativa, prenderanno parte, tra gli altri, il Commissario Regionale della Democrazia Cristiana Nuova, Totò Cuffaro, il Segretario dell’ONG Nessuno Tocchi Caino, l’onorevole Sergio D’Elia e i membri del consiglio direttivo Sabrina Renna, Donatella Corleo e Antonio Coniglio. Gorgona (Li). Una nuova vita per gli animali dell’isola carcere di Maria Neve Iervolino kodami.it, 28 febbraio 2022 L’esperta: “Modello replicabile in altri istituti penitenziari”. Il “Progetto Gorgona”, dell’associazione Do Re Miao con Lav e Università di Milano, offre una seconda possibilità alle persone e agli animali dell’ultima isola carcere europea. Il 25 giugno 2022 partiranno altri animali da carcere di Gorgona, l’ultima isola-carcere europea. Saranno circa gli 80 animali da reddito che potranno iniziare una nuova vita in un rifugio dopo una vita di sfruttamento. Il carcere di Gorgona, a 34 chilometri dalla costa livornese, esiste dall’Ottocento e al suo interno risiedono persone condannati in via definitiva che scontano la fine della pena in regime di semilibertà. Gli umani però non sono gli unici ospiti: dal Dopoguerra a Gorgona sono arrivati anche gli “animali da reddito” destinati alla macellazione all’interno dell’azienda agricola gestita dai detenuti. “Sono arrivata a Gorgona come volontaria nel 2014, e già dal primo giorno ho potuto osservare l’angoscia dei detenuti per la macellazione degli animali e anche per il loro sfruttamento - racconta a Kodami Barbara Bellettini, operatrice Iaa - I vitelli venivano fatti nascere per stimolare nella madre la produzione di latte, una volta raggiunto lo scopo venivano uccisi”. Dal 2020 però le cose sono cambiate: l’azienda agricola non ha più animali a scopo alimentare. Le capre, le mucche, i maiali e i conigli di Gorgona possono avere così una nuova vita. La maggior parte di loro è stata, o sarà, trasferita nei rifugi della Penisola, mentre una piccola parte resterà per partecipare ad attività per la rieducazione dei detenuti. Belletti la definisce una “piccola rivoluzione” resa possibile dall’intervento congiunto dei rappresentanti delle istituzioni ad ogni livello - dall’amministrazione comunale di Livorno fino al Ministero dell’Interno - con il supporto della Lega nazionale anti vivisezioni (Lav). Gorgona è diventata così un vero e proprio caso studio per nuovo approccio di realizzare “Interventi assistiti con gli animali”, pratica nota come Pet therapy. Il progetto Gorgona - A dare vita il “Progetto Gorgona” è stata l’associazione Do Re Miao, in collaborazione con la Lav e l’Università di Milano-Bicocca. “Con il nostro intervento vogliamo valorizzare la presenza animale dell’isola, e attraverso questa realizzare pienamente l’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, commenta Bellettini. Ma non solo: Gorgona si prepara a diventare un modello replicabile in altri istituti penitenziari che hanno a disposizione animali da reddito. “Oltre a condurre il progetto ci stiamo occupando di raccogliere una serie di dati, utili ai fini della ricerca, per studiare in maniera scientifica l’impatto di questo tipo di interventi sui detenuti - chiarisce l’operatrice Iaa - Speriamo che questa interazione uomo-animale possa favorire acquisizione di nuove competenze relazionali e sensibilità in chi ha subìto una condanna definitiva, senza che ciò implichi lo sfruttamento degli animali”. Dei circa 80 detenuti di Gorgona, 20 sono stati selezionati dai rieducatori per prendere parte all’iniziativa con un team multidisciplinare composto da operatori esperti in Iaa, veterinari e altri. Gli incontri si dividono in due momenti: una prima parte teorica, in cui i volontari trasmettono conoscenze specifiche sulle specie presenti sull’isola, e una seconda dedicata all’interazione con gli animali, racconta Bellettini: “Parliamo con loro dell’impatto dell’uomo sulla fauna, ma anche dell’evoluzione delle mucche e dei maiali. Inoltre lavoriamo molto sull’etologia, sulla spiegazione delle cure parentali e della gestione delle gerarchie tra gli animali. Dopo questa fase accompagniamo le persone nei momenti di interazione diretta”. Non è la prima volta che Do Re Miao conduce percorsi con gli animali per la rieducazione in carcere, ma è la prima volta che avviene con animali da reddito: “Di solito proponiamo percorsi formativi relativi gestione del cane, al fine di acquisire competenze cinofile - dice Bellettini - Al termine consegnamo un attestato di partecipazione e la possibilità per coloro che vorranno di lavorare con la cooperativa Il Melograno, attuale gestore del canile comunale di Livorno. In questi casi il nostro obiettivo è creare una rete all’esterno delle carceri per trovare appoggio dopo la detenzione”. Nonostante il progetto sia iniziato da meno di un mese, i detenuti coinvolti si sono dimostrati molto ricettivi, racconta l’operatrice: “La maggior parte delle persone ha con gli animali un rapporto molto bello, quasi tutti gli animali hanno un nome e spesso ci viene raccontata la loro storia. Se qualche animale ha problemi ci chiedono consiglio. Ricordo di un uomo in particolare che ha raccolto un cardellino implume in difficoltà: lo ha svezzato per poi liberarlo appena è stata in grado di volare da solo”. Il Progetto Gorgona è iniziato a gennaio e il termine è per il momento stimato a giugno, quando l’attuale direttore del carcere andrà in pensione. Il testimone passerà quindi alla nuova amministrazione penitenziaria che potrà decidere se continuare, o meno, l’iniziativa. Cecilia Strada: “La voce dei pacifisti è forte, gli Stati rinuncino alle armi” di Niccolò Carratelli La Stampa, 28 febbraio 2022 La presidente di Emergency: “La guerra non si umanizza, va abolita. Le persone si immedesimano, ma va fatto anche per Paesi più lontani”. Chissà cosa avrebbe detto Gino Strada. In questi giorni di guerra ai confini dell’Europa, si avverte la mancanza della voce del fondatore di Emergency, morto lo scorso agosto. “Papà avrebbe scosso la testa, come faceva sempre - dice Cecilia Strada - avrebbe guardato le immagini in tv con aria incredula, commentando con qualche parolaccia”. Ex presidente di Emergency, ora impegnata con la ong ResQ People Saving People e le missioni di soccorso ai migranti nel Mediterraneo, Cecilia ricorda bene una frase di Albert Enstein, che il padre citava sempre, tanto da diventare il motto di Emergency: “La guerra non si può umanizzare, si può solo abolire. Lo ha ripetuto per più di 30 anni - ricorda - ma tutti quelli che l’hanno vista con i loro occhi sanno che la guerra non è mai la soluzione”. Eppure in qualche modo ci si arriva, non capita per caso la guerra… “Quando sembra inevitabile è perché non si è fatto nulla per evitarla. Del resto, c’è sempre qualcuno che con la guerra si arricchisce. Bisogna cambiare radicalmente sistema, pensare a un mondo smilitarizzato, a un completo disarmo nucleare. Perché, finché esistono ordigni capaci di annientare l’intera umanità, qualcuno potrebbe usarli. E non è un problema del cattivo di turno, Putin o chi per lui, il disarmo deve valere per tutti. Noi, invece, i nostri arsenali li aumentiamo: la Nato, ad esempio, vuole incrementare la dotazione di armi nella base italiana di Ghedi”. La solita ipocrisia del finanziare la guerra e poi chiedere la pace? “Beh, se l’Europa vuole essere un continente di pace, certo non può continuare a vendere armi in tutto il mondo. Vale anche per l’Italia, scommetto che tra i mezzi che i russi stanno usando per invadere l’Ucraina ci sono anche nostri blindati Iveco, magari anche armi prodotte nel nostro Paese. Del resto, ai tempi del governo Berlusconi, ma anche con il governo Renzi, si sono moltiplicate le esportazioni di armi e materiale bellico verso la Russia”. Quindi, dovremmo smettere di esportare armi? “È ovvio che il sistema diverso di cui parlo non piacerà alle industrie delle armi e a tutti quelli che speculano sulle guerre, ma non c’è alternativa. Dobbiamo fermare questa aggressione russa in Ucraina con tutti gli strumenti diplomatici disponibili, con le sanzioni più forti, ma non possiamo fermarci lì, altrimenti questo copione si ripeterà in futuro. Noi dimentichiamo quello che è già successo: ho sentito qualcuno dire che “per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, torna la guerra in Europa”, rimuovendo completamente i fatti della ex Jugoslavia”. C’è chi ha ironizzato anche sui pacifisti distratti, che erano finiti chissà dove… “Ho letto, anche alcuni giornalisti si sono chiesti dove fossero finiti i pacifisti: magari potrebbero intervistarli più spesso, perché sono sempre lì, lavorano tutto l’anno per promuovere il disarmo. Anche prima di questa guerra, visto che c’erano già altri conflitti nel mondo, di cui non si parla. Bisogna affrontare certi temi prima che cadano le bombe, non mentre la gente muore”. Si aspettava questa risposta degli italiani, scesi in piazza con le bandiere della pace? “Sì, me l’aspettavo ed è una bella cosa. Del resto, c’è stata un’immedesimazione maggiore: è una guerra geograficamente più vicina e, spiace dirlo, con persone bianche coinvolte, oltre a una grande massa di informazioni disponibili. Mi auguro, però, che questa sia una sveglia, per ricordarci che la guerra non capita solo agli altri, lontano da noi, in qualche Paese africano più arretrato a livello politico ed economico”. Anche per questa vicinanza l’Europa ora si mobilita per accogliere i profughi ucraini, come non sempre ha fatto in passato… “Voglio sperare che questa accoglienza avvenga davvero, perché ricordo che anche la scorsa estate tutti volevano i profughi afghani, ma poi molti di loro sono finiti comunque a morire di freddo sulla rotta balcanica. Ho sempre la sensazione che i profughi siano più simpatici quanto più sono lontani. Del resto, è la stessa Europa che non disdegna di blindare le proprie frontiere, costruendo muri: ne hanno fatto uno pure in mezzo al mare, finanziando a più riprese la cosiddetta guardia costiera libica”. Il punto è che gli ucraini sono veri profughi, mentre via mare ne arrivano di finti, come dice Matteo Salvini? “Chi sono i profughi non lo decide Salvini e nemmeno Cecilia Strada. Posso dire che, guardando le persone recuperate dalla nostra nave la scorsa estate, si poteva disegnare l’atlante delle guerre del mondo. Comunque, penso che nemmeno Salvini creda davvero a quello che dice, è solo un modo per prendere voti. Guardi, se avessi posto sulla nave, nella nostra prossima missione, lo inviterei a dare una mano: sono sicura che, con le persone vere davanti, anziché numeri e slogan, tirando su dall’acqua bambini di pochi mesi, il calcolo politico passerebbe in secondo piano. Roma pronta a mobilitarsi per accogliere i profughi dall’Ucraina di Ester Palma Corriere della Sera, 28 febbraio 2022 Il Comitato in prefettura e la riunione della Protezione civile, mobilitate le associazioni religiose e le parrocchie. Partito anche il tam tam sui social per le raccolte a sostegno delle vittime del conflitto. Migliaia, forse milioni di messaggi Whatsapp per raccogliere fondi, un comitato in prefettura e oggi la riunione della Protezione civile nazionale con quelle regionali: Roma si prepara a accogliere i profughi in fuga dall’Ucraina. In prima linea le associazioni religiose, dalla Caritas alla Comunità di Sant’Egidio, che da giorni si stanno organizzando offrire ospitalità e sostegno a chi in 5 giorni è passato da una vita normale all’orrore della guerra. Pronta a muoversi anche la diocesi di Roma, che dovrebbe lanciare le sue iniziative a breve, forse proprio il 2 marzo, Mercoledì delle ceneri e data scelta da papa Francesco per la giornata di preghiera e digiuno per tutti i cattolici del mondo, uniti per la pace. Ma molte parrocchie romane stanno già raccogliendo soldi e coperte, abiti, cibo e medicinali. Al momento non è ancora possibile stabilire quanti saranno i profughi in arrivo a Roma e quanti potranno essere ospitati dalla stessa comunità ucraina cittadina, 20mila persone quasi tutte donne non giovanissime che lavorano come badanti e colf. Chi ha una casa accoglierà parenti e amici fuggiti dalle bombe. Il comitato istituito in Prefettura è pronto a definire le prime misure per la gestione degli arrivi dall’Ucraina, con la distribuzione dei profughi in strutture romane, ma anche di altri Comuni del Lazio, e il potenziamento dell’ufficio immigrazione per rilasciare più in fretta possibile i necessari permessi di soggiorno. Ancora fermo invece il Campidoglio: che aspetta indicazioni dal Viminale e anche di sapere appunto quanti profughi la città dovrà gestire. Mentre per oggi pomeriggio è prevista la riunione della Protezione civile nazionale con quelle regionali, da cui dovrebbe uscire una strategia di intervento più definita. “Non abbiamo ancora deciso niente”, spiegano dalla Regione. “Aspettiamo le decisioni della Protezione civile. Ma dovremmo muoverci come abbiamo fatto con gli afghani: organizzare una prima accoglienza negli alberghi vuoti per la crisi Covid, poi, essendo richiedenti asilo, rientreranno nel circuito Sprar e saranno gestiti a livello nazionale”. Intanto Sant’Egidio raccoglie già da giorni le richieste di ricongiungimento familiare delle ucraine e fondi, oltre che posti letto. La Caritas ha promosso una raccolta di denaro, attraverso Whatsapp e si prepara anche a realizzare la prima accoglienza degli sfollati. Ieri mattina moltissimi romani hanno poi ricevuto l’appello, inoltrato più e più volte via Whatsapp, di padre Marco Semehen, rettore della basilica di Santa Sofia, sede religiosa a Boccea della comunità ucraina di Roma: “Abbiamo già fatto partire per Leopoli nei giorni scorsi due grossi furgoni con le prime offerte della comunità. Ma non bastano e allora chiediamo aiuti ai romani”. Ieri pomeriggio in piazza della Repubblica, gremita di ucraini, italiani, bielorussi e persone di altre nazionalità, si è svolta una nuova manifestazione per la pace iniziata con l’inno nazionale ucraino e un “Padre nostro” recitato da ognuno nella sua lingua: “Chiediamo che si fermino, non siamo in pericolo solo noi, ma tutto il mondo”. “Migranti, le vittime in mare? Sono il 50% in più” di Paolo Lambruschi Avvenire, 28 febbraio 2022 Lo statistico Farcomeni: i calcoli sui decessi ufficiali dei migranti lungo la rotta mediterranea sono molto sottostimati. E i viaggi su mezzi improvvisati hanno aumentato l’insicurezza. I fantasmi morti ai confini della Fortezza Europa sono molti di più di quanti abbiamo finora stimato nei giorni dedicati alla memoria e al dolore. Sono almeno 44.000 le vittime sulle rotte che portano all’Europa negli ultimi 27 anni. Finora le stime dicevano 30mila, vuol dire quasi il 50% di morti in più. I nuovi calcoli li ha rifatti uno statistico di Roma, Alessio Farcomeni 44 anni, ordinario di statistica alla facoltà di economia di Tor Vergata dal 2019. “Sappiamo tutti - spiega Farcomeni - che i calcoli sui decessi ufficiali sono sottostimati. La mia procedura ci permette di avere una correzione automatica in tempo reale, e offre una stima accurata. I calcoli aggiornati vedono a marzo del 2020 44mila vittime anziché le 30.000 fin qui accreditate. Il periodo preso in esame va da gennaio 1993 a marzo 2020. Mi aspetto di sbagliare di 2000 decessi circa, per eccesso o per difetto. Colpisce che il numero sia cresciuto in modo lineare nel tempo, soprattutto il numero di morti per ciascun tentativo di ingresso”. Come lo spiega? Probabilmente prima si partiva con mezzi più sicuri, probabilmente erano barche più piccole. Venti anni fa avevamo 1.600 decessi l’anno. Adesso siamo oltre il doppio, e il problema sta peggiorando. Principalmente la responsabilità è dei trafficanti, visto che gli eventi avvengono principalmente in mare. Che dati usa? Con la collaborazione dell’associazione United for Intercultural Action ho dati su qualunque tentativo di ingresso in Europa, su qualunque rotta, con fonte i media; e anche eventi nel porto sicuro. Ci sono persone morte di freddo dopo essere state portate a terra oppure perché non vengono curate tempestivamente. È accaduto anche che dei migranti abbiano avuto malori in stazione e il medico si sia rifiutato di visitarli. Quali sono i punti più pericolosi? La Libia è la peggiore, un vero inferno se si contano i morti prima della partenza e quelli che avvengono sulla rotta verso l’Italia. Nel 2015 ci sono stati molti decessi in Grecia, Turchia e sulle rotte balcaniche, ma la stragrande maggioranza dei decessi è avvenuta sulla rotta tra Libia e Italia. Non c’è paragone con la rotta più recente delle Canarie, o quella del canale della Manica tra Francia e Gran Bretagna. Quali sono le percentuali? Il 30% dei decessi sono avvenuti in Libia e il restante 20% tra l’Italia e il mar Mediterraneo. Quindi la metà dei 44.000 decessi è avvenuta sulla rotta Libia Italia. A seguire la Spagna con il 10% e la Grecia con il 5% di decessi, avvenuti tutti nel periodo in cui la Turchia ha fatto passare le persone per mettere pressione politica sull’Europa. Che metodo usa per aggiornare i calcoli? Viene creato un report degli avvenimenti che si riescono a registrare e poi si fa la somma delle vittime. Il problema è che non riusciamo a contare e a riportare tutti gli eventi. La mia è una tecnica statistica: quando parlo di 44.000 morti effettuo una stima, non un conteggio reale. Lo faccio sulla base di un modello semplice in cui vado a cercare di capire come estrapolare gli eventi non registrati. Un naufragio da 1.000 decessi viene riportato almeno da 50 fonti, ma uno con pochi decessi viene riportato solo da una o due. Riesco così a stimare quanti sono i decessi attesi a zero fonti, e poi moltiplico per la stima del numero di eventi a zero fonti. I miei risultati sono stime, ma attendibili. Ho ad esempio effettuato delle simulazioni, facendo vedere che mi avvicino al numero reale con gli eventi non riportati. Questo ha convinto i colleghi che hanno visionato il mio articolo che la tecnica era attendibile. Esistono dei calcoli anche sui decessi nel deserto? Le stime dicono che ce ne siano altrettanti rispetto al mare... Ho registrato alcuni di questi decessi, ad esempio 196 dal Niger. Le fonti sono scarse. Dei migranti nel deserto non parlano in molti, ma sono quelli più dimenticati e nascosti. Se la Ue annuncia il grande riarmo di Donatella Di Cesare La Stampa, 28 febbraio 2022 La parola “nucleare” squarcia i cieli dell’Europa e, pronunciata da Biden, rilanciata da Putin, sembra uno spettro che rispunta d’un tratto non per riportarci al paesaggio della guerra fredda, bensì per annunciarci che stiamo entrando in un inatteso e lugubre capitolo della storia. Ascoltiamo forse, tra i rumori dei bombardamenti e delle esplosioni, anche il canto del cigno dell’Europa? Quella in cui abbiamo creduto in tutti questi decenni e che ci sembrava riprendere fiato dopo la pandemia? Perché se questa guerra dovesse continuare, l’esito sarebbe, oltre alla morte e alla devastazione, anche una sorta di autoannientamento dell’Europa, il continente il cui suolo gronda ancora del sangue provocato dai nazionalismi, ma anche la patria dei diritti umani e dei valori, come uguaglianza, libertà e solidarietà, che più che mai appaiono irrinunciabili. Non se ne parla quasi. E invece è doveroso. Purtroppo in queste ore diventa sempre più difficile un ragionamento politico. L’enorme emotività, scatenata dalle immagini e dai resoconti bellici, la connessa animosità, che è sempre un portato della guerra, impediscono quel piccolo passo indietro che serve per riflettere e forse per assumere la posizione di chi guarda alla pace. La reductio ad Hitlerum di Putin, assurto dall’oggi al domani a emblema del male assoluto, la superficiale e fuorviante narrazione secondo cui staremmo assistendo allo scontro fra democrazie occidentali e autocrazie (come se nel contesto ucraino non ci fossero oligarchi e corrotti), oltre a impedire un’analisi approfondita, spingono l’opinione pubblica unicamente a schierarsi. Un tempo c’erano i partiti che, con il dibattito interno, offrivano gli strumenti per un confronto; adesso la politica si è azzerata anche in questo. Dal punto di vista filosofico - ma l’Europa è la filosofia - questi sono giorni molto gravi. Per la prima volta la Germania, che non è più quella di Merkel, rompe la promessa che aveva fatto a se stessa e agli altri dopo il 1945. Scholz annuncia il grande riarmo decidendo di investire il 2 per cento del pil, una cifra enorme, per le spese militari. E inoltre autorizza la consegna di 1.000 armi anticarro e 500 missili terra-aria all’Ucraina, varcando quel limite del coinvolgimento militare che fino a poco tempo fa sarebbe parso ai tedeschi insuperabile. Ma soprattutto - sottolineiamolo - si spezza il forte legame tra Germania e Russia, costruito con grande fatica prima e dopo la riunificazione, legame non solo economico, ma anche politico e culturale. Lo stesso dicasi per l’Italia che, tra vicende alterne, aveva a sua volta mantenuto un vincolo con la Russia, che non era solo la fornitura del gas. Sono questi i due paesi che, dopo aver perso la Seconda guerra mondiale, più degli altri, e forse più della stessa Francia, hanno voluto un’Unione Europea capace di guardare a Est e di mirare alla pace. E sono questi i due paesi che rischiano oggi di essere i più colpiti, spinti, come sono, non solo ad accettare quasi un’economia di guerra, ma anche a interrompere il rapporto con la Russia. Qualcuno ha parlato di “ignavia” dell’Occidente riferendosi evidentemente all’Europa. Peccato che a farlo sia uno che a suo tempo aveva incitato l’attacco contro la Libia. Non vorrei che in queste ore concitate si scambiasse per codardia o inerzia quella che invece dovrebbe essere la giusta avvedutezza politica, la lungimiranza di chi non rinfocola gli animi, non attizza l’odio, ma guarda al rispetto e alla pace tra i popoli europei. La Russia è europea sotto numerosissimi aspetti. Non è una landa selvaggia e sterminata a est - ma è la nostra cultura. E non possiamo perdere il popolo russo che non è identificabile con Putin. Oggi invece sembra quasi avverarsi sotto i nostri occhi la profezia di Carl Schmitt: le potenze di acqua da una parte e quelle di terra dall’altra. Queste ultime evidentemente soccombenti. Se siamo arrivati a questo punto è perché sono stati compiuti gravi errori almeno dal 2014, a cominciare da quella piazza a Kiev gremita da nazionalisti di estrema destra e milizie filonaziste assecondate dall’Occidente. Le preoccupazioni di Mosca erano note e legittime a proposito della neutralità dell’Ucraina. Per non parlare del Donbass con brutalità commesse da entrambi i fronti. Non si è lavorato per trovare una soluzione. La Nato ha molte responsabilità. E proprio perciò vorremo sentire in questi momenti drammatici la voce dell’Europa, di quella che sa bene che cosa vuol dire guerra e che dovrebbe non fornire per la prima volta armi letali, bensì essere protagonista della pace. Guerra in Ucraina, le bombe cadono in Europa: ritorno alla paura di Domenico Quirico La Stampa, 28 febbraio 2022 Si riaffaccia un sentimento sepolto da decenni non abbiamo più il privilegio di sentirci al sicuro. Paura. Perfino la parola respinge. Eppure quante volte l’abbiamo pronunciata nei due ultimi anni, quelli della pandemia, del virus, della peste. La spiavamo silenziosamente in ogni istante dentro di noi, e lei si faceva largo con poco, un colpo di tosse, i muscoli indolenziti, una inspiegabile mancanza d’aria. Era, quella, paura intima, personale, privata impalpabile che trasformava gli altri in pericolo, sospetto, inconsapevole assassino. E adesso? Eccola di nuovo che scotta, brucia, aspetta al varco, ripropone. La guerra appena lì dietro, a un passo, con le immagini dove le vittime, i paesaggi urbani sono nostri, riconoscibili, li vorresti sfiorare per riconoscerne il tratto. In cui è una umanità anch’essa vicina e che ci assomiglia la creatrice dell’inferno. La paura è diversa. Adesso si è fatta materia solida, immagine, la tocchi: è paura di uomini che imbracciano armi o di grossi mostri di ferro che corrono su distese gelate o avanzano cauti nelle città, aerei che sfrecciano in cieli opachi e missili che si materializzano solo nella loro distruzione. E di megatoni che diventano anche essi palpabili, pronti a rendere ridicola la domanda chi vince? Mi scrive una madre: “Sì, da alcuni giorni, da quando questo è iniziato ho paura. Non capisco niente del perché questa mischia succede, ma ho paura per me per i miei figli... ho la paura dei bambini…”. Ecco: la paura dei bambini, quella che salta fuori dal buio e ti azzanna, la paura che ti strappa un urlo ma che poi non se ne va e ti riconsegna all’indifferenza. Quella semmai era la paura della peste, del coronavirus che sveltamente siamo riusciti a dimenticare, e non perché ne è arrivata una più grande. questa ti resta dentro, esiste molto di più di quello che attorno a te pure esiste. Dall’Ucraina ci urta e ci stravolge l’altra paura che è più antica e che pensavano non ci appartenesse più. La paura in occidente era la malattia, la paura del male ancora inguaribile, fatale e per questo innominabile, nascosto dietro un alzarsi degli occhi o una sospensione che bastava a far capire: è morto di... O in un continente che ha sconfitto la miseria biblica quella della fame e della carestia, ma non la povertà, la paura di ridiventare poveri o di essere meno ricchi. Entrambe non ci hanno mai abbandonate. La paura solida, concreta della bomba, della raffica di mitra, dello squadrone della morte era semmai la paura riservata ai lontani, ai paesi dei fanatici e dei primitivi. La guerra invece: quante ne abbiamo viste di guerre dal 1945 a oggi. Ma le abbiamo appunto viste o lette, erano ontologicamente e geograficamente lontane. Ammettiamolo: anche la paura del terrorismo, in fondo, è qualcosa di impalpabile. Sono assassini senza volto indecifrabili dietro i loro cappucci e turbanti, colpiscono e spariscono, potrebbero non tornare più. Una malattia della modernità a cui si porrà rimedio con la Sicurezza. In fondo Bin Laden in questo ha fallito: la sua paura mostruosamente perfetta non ha scompaginato la nostra società, è diventata solo tragica storia. Questa volta la guerra è qui, quasi ne sentiamo il rumore anche noi satolli di pace. A cui si aggiunge un altro incubo rimosso, il sinistro tentennare della Bomba. La evoca minaccioso un signore della guerra, Putin, che ha già scavalcato molte linee che sembravano intoccabili. Vivo, tremendo, il nichilismo definitivo esce dai film, dalla fantascienza degli effetti speciali. Già questa paura ci sta cambiando, diventiamo come quegli animali che anche quando si accovacciano per mangiare o dissetarsi, sono sempre all’erta, non riescono mai a liberarsi dal senso di essere circondati dal pericolo. La tana della lepre, anche se è assente, è sempre piena di paura. Lo scandalo di una guerra reale in Europa ha fatto riaffiorare il senso di perenne minaccia che è dentro di noi, che accompagnava le generazioni che ci hanno preceduto in quello che è stato il continente dei conflitti, dei massacri, marchiato dagli scarabocchi sanguinosi dell’uomo Solo che stavolta non possiamo rimuoverlo, il vizio della paura. Non c’è colpa ad aver dimenticato che la guerra esiste, è umano, verrebbe da dire perfino giusto. Chi pensa di esser felice non tollera la sofferenza degli altri, l’annulla e gli sembra che la propria serenità si proietti sull’universo. E invece. Ho frequentato luoghi dove hai la sensazione di esser stato colto in flagrante da ogni elemento disumano che è in noi e di essere in balia delle sue testimoniane implacabili. Dove ogni istante può essere quello del giudizio sommario, luoghi della sofferenza lucida se giorno e oscura e tetra se notte. La Siria è stato uno di questi luoghi dove la vita è scorticante e quando ti trovi senza più pelle sei trascinato verso l’abisso. Ebbene raramente vi ho incontrato la paura, intendo non tra i fanatici del martirio e i combattenti, ma tra i civili, gli sfollati, gli inermi. C’era molto da leggere in quegli uomini semplici che la forza degli eventi aveva ancor più semplificato: istinto di conservazione, egoismo, tenace speranza di sopravvivere, gioia di riuscire a mangiare, a bere, a dormire. Ogni tanto il loro silenzio e l’ombra della loro grande umanità erano rotti da un grido o da un brivido intenso. Ma paura no. Non avevano paura quelli che ho visto ad Al-Marieh rifugiati in un vecchio grumo di macerie di un bombardamento precedente. Era appena finito il passaggio degli elicotteri e i bambini già si addormentavano. Le famiglie continuavano a sedere a terra a gruppo, aspettando che fumo e polvere si levassero, erano come massa di lava, dura, scura, immobile. I ragazzini sgattaiolavano già in strada scavalcando lembi di cemento e rottami, impazienti di vedere cosa era successo. Un palazzo in fondo era attraversato da uno squarcio da cui vedevi il cielo. Si alzava, quella manciata di polvere umana, si scuoteva di dosso lo sporco: erano felici di essere ancora una volta vivi. Si perdevano nelle strade sconvolte senza imprecare la sorte o il loro dio, portandosi dietro una fatica di vivere da far sbigottire. In luoghi dove la guerra è abitudine e dura anni l’unica felicità possibile che esiste è quella imminente, dell’attimo. La paura è un lusso riservato a coloro per cui il pericolo è una eccezione, non la regola. Le due guerre del Cremlino di Ezio Mauro La Repubblica, 28 febbraio 2022 L’aggressione all’Ucraina e quella alla democrazia occidentale. Ci sono due guerre in corso sulla linea del Dnepr, il fiume della Storia che sta diventando la nuova frontiera tra Est e Ovest. La prima è una guerra di carne, sangue e terra come i conflitti classici del Novecento, con la città di Kiev che prova a resistere intrappolando nei boschi e nei tweet la potenza dei suoi aggressori, all’assalto del cuore dell’Ucraina. La seconda è la guerra alla democrazia che è la prima vera battaglia del secolo nuovo e promette di ridisegnarlo nei suoi equilibri, nella sua gerarchia e nei suoi valori, non soltanto nei suoi confini, perché è un conflitto di idee e di identità, che ha per posta l’egemonia culturale del nuovo mondo. Nel primo caso, sono contrapposte la Russia e l’Ucraina. Nel secondo la Russia e l’Occidente, perché Putin in realtà con le sue truppe uscite dalle caserme sta cercando nei vicoli di Kiev l’anima dell’Europa. Tutto questo accade perché la Storia si è spezzata. Improvvisamente non c’è più un racconto unico del mondo, condiviso e accettato dai vincitori e dai vinti dei vecchi conflitti, dai premiati e dagli sconfitti della globalizzazione, dai superstiti delle crisi che abbiamo attraversato: tutti con la loro legittima lettura particolare degli eventi, ma tutti tenuti dentro la cornice generale di una vicenda comune in cui ci siamo riconosciuti, accettando la moralità politica del suo percorso, pur tra tante contraddizioni e frequenti infedeltà. Il Novecento dopo aver dischiuso proprio qui in Europa l’orrore di due guerre mondiali ha regolato i conti con le due pretese totalitarie che aveva generato, la lezione del conflitto e l’ambizione della pace hanno faticosamente realizzato un sistema di garanzia internazionale e un meccanismo di regolazione delle tensioni tra i Paesi, la tecnologia e la paura hanno trasformato la potenza atomica di distruzione in deterrenza, la politica ha sorvegliato i nazionalismi costruendo in Europa un’Unione col compito di radunare la Storia e la civiltà del continente trasformandola in autorità e identità. La cifra unificante di questo processo è la democrazia, infine unica religione civile superstite dopo la morte delle ideologie, riconosciuta come valore supremo ovunque, praticata con ambiguità in più di una capitale, in contraddizione con se stessa nella prova delle crisi, insidiata dalla scorciatoia semplificatrice del populismo, svuotata dagli abusi del moderno autoritarismo: e tuttavia punto di riferimento comune, principio ispiratore e regolatore non solo della politica, ma della vita sociale. Potremmo dire che la democrazia dei diritti e la democrazia delle istituzioni, insieme con lo Stato di diritto e la legalità internazionale è la vera natura del patto di civiltà che lega l’Europa, gli Stati Uniti, Israele e il Giappone in una cultura comune, che chiamiamo Occidente. In questi lunghi decenni di pace, questo impegno è stato talvolta travisato, mistificato e anche tradito, ma non rinnegato. Faticosamente, ha rappresentato il codice condiviso di interpretazione del bene e del male nella modernità e nella quotidianità, della declinazione del progresso civile nel rispetto della giustizia e della libertà. Com’è evidente la scelta della democrazia e la sua pratica è appunto un’espressione di libertà, ma è soprattutto un vincolo: agli egoismi, all’irresponsabilità, all’abuso e al sopruso, alla dismisura e allo squilibrio, alla potestà della forza. Abbiamo creduto che questi valori potessero diventare universali, in un atto di fede. Abbiamo pensato di esportarli con le armi, in un gesto di superbia. Siamo stati testimoni incoerenti, e tuttavia testardi nel credere alla democrazia: perché noi siamo questo, o non siamo nulla. Oggi la guerra portata da uno Stato sovrano contro e dentro un altro Stato sovrano attraversa e sgretola tutta questa impalcatura, infrange il diritto internazionale, violenta la sovranità nazionale, fa saltare quei vincoli reciproci, nega il diritto del popolo ucraino di scegliere il suo destino, svuota di qualsiasi autorità l’Onu, infrange la mappa del mondo disegnata a Jalta, rompe la sacralità del confine. Ecco perché questa guerra non è una partita a due, ma coinvolge già il mondo, proprio in quanto sconvolge l’ordine mondiale mentre lo nega, precipitandolo nel buio. A Kiev si apre un’era incognita, senza più regole, senza un riferimento comune, un unico criterio di giudizio. Da oggi ognuno decide cos’è bene o cos’è male, la forza diventa la nuova misura, nella guerra russo-ucraina scompaiono il diritto e i diritti, l’Europa non ha più un codice. È precisamente questo che innesca la seconda guerra, tra Mosca e l’Occidente. Putin ci sta restituendo la consuetudine della democrazia (nel suo Paese deformata da democratura) dicendoci tenetevela, è roba vostra, non l’accettiamo come pratica perché è inefficiente rispetto alla potestà suprema e assoluta dell’autocrazia, ma soprattutto la rifiutiamo come canone planetario di valutazione di quel che è giusto e di quel che è sbagliato. Sta respingendo l’universale in cui noi crediamo riducendolo a occidentale, sta svalutando l’assoluto a relativo. Ciò che il leader del Cremlino con l’invasione dell’Ucraina ci manda a dire è che non c’è più un unico sistema di credenze in Europa, perché la forza vale quanto e più del diritto, la regola è annullata dal colpo di mano, i diritti non reggono davanti ai tank. In sostanza Putin ripropone un’altra volta l’eresia orientale, notificando all’Occidente che la democrazia non è un valore generale e perpetuo, ma soltanto l’ideologia temporanea, faticosa e disarmata dei “vecchi credenti” in una parte limitata del mondo. Dietro l’offesa della guerra c’è in realtà l’istinto di difesa dell’aggressore, la sua paura. Oggi come ieri, infatti, la democrazia con tutte le sue difficoltà rappresenta per il potere russo il principio di contraddizione, ciò da cui il Cremlino si sente minacciato ben più che dalla Nato: dentro il Paese e fuori. Per questo l’opposizione russa è stata rasa al suolo prima di dare il via ai piani operativi di invasione, e Navalny è in carcere. Putin ha calcolato i rapporti di forza, ma non può misurare gli effetti di una guerra prolungata sulla sua popolazione, dove la radicalità del conflitto può addirittura suscitare un embrione di opinione pubblica. Ecco perché ha bisogno di giocare nel teatro ucraino la carta del secondo decisivo conflitto, la battaglia ideale contro la democrazia. Questa guerra è già in corso: l’Occidente lo sa? Le mafie gemelle di Ucraina e Russia e i traffici di droga, gas e oro di Roberto Saviano Corriere della Sera, 28 febbraio 2022 Guardare come si comportano i clan significa capire la guerra. Per decenni ciò che ha tenuto uniti i due Paesi è la criminalità organizzata, con proventi miliardari. Le commistioni con la politica e i metodi di Putin per controllare lo strapotere dei boss. Quando nel marzo 2016 chiesi a Garry Kasparov, uno dei più grandi scacchisti della storia, il ruolo della mafia russa, lui rispose: “Tanto, sulle questioni fondamentali agiscono sempre su ordine del vertice”. E chi è il vertice, mi affrettai a chiedere? “Ovviamente, Vladimir Putin”, mi rispose Kasparov, stupito di doverlo ribadire. Mi chiedo come sia possibile che nel dibattito internazionale sia del tutto assente la domanda fondamentale: qual è il ruolo delle organizzazioni mafiose in questa guerra? Nessuno che si chieda come sia possibile che, in un territorio da sempre completamente egemonizzato dai cartelli criminali, questi non siano né citati, né conosciuti, né considerati dai reporter e dal dibattito politico. Ciò che per decenni ha tenuto unite Ucraina e Russia è la mafia. E questa guerra è una guerra che ha la sua vocazione mafiosa dietro il mascheramento geopolitico del conflitto con la Nato con l’Europa. Guardare come si stanno comportando i clan mafiosi significa capire la guerra. È così sempre: in Afghanistan, nella guerra in Jugoslavia, in Siria, in Congo. Identifica le mafie, osservale e scoverai i veri interessi. “Michas” e “The Brain” - Nonostante la memoria dell’Holodomor, il terribile olocausto della fame che il governo bolscevico russo ha perpetrato sugli ucraini tra il 1932 e il 1933 (ammazzando di stenti sei milioni di persone) la criminalità organizzata russa e ucraina da sempre sono state gemelle. La più importante organizzazione mafiosa russa, la Solncevskaja bratva, ossia la Brigata del Sole, è governata da una diarchia: il russo Sergej Michajlov, detto “Michas”, e l’ucraino Semyon Mogilevich, detto “The Brain”. Per comprendere d’immediato la loro potenza economica riporto di seguito alcuni dati provenienti da diversi studi condotti fra il 1996 e il 2011 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine: 1 miliardo di dollari è il guadagno annuale dall’esportazione di eroina in Cina, 8 miliardi di dollari sono i proventi della mediazione della vendita dell’eroina afghana, 620 milioni di dollari il profitto ricavato dal legname russo tagliato illegalmente per il mercato cinese delle costruzioni. Questi elencati sono solo la superficie della loro attività. La massa di soldi che l’organizzazione ricava, li ricicla e investe in Europa, negli Usa e in Israele. Solo nel 2018, per esempio, ha riciclato 50 milioni di euro di beni immobili in Spagna, meta prediletta dagli affiliati della Solncevskaja insieme alla Svizzera, dove Michajlov “Michas” è proprietario di una lussuosa villa (del resto su Wikipedia è segnalato come businessman; quello che è considerato il capo di una delle organizzazioni più potenti del mondo dal 1991 al 1994 ha lavorato alla Parma Foods, una joint venture russo-italiana). L’alleanza del gas - Cos’è che ha permesso nei decenni passati che si creasse la grande alleanza politica russo-ucraina delegandola nelle mafie? La risposta è: il gas. La società di intermediazione di gas, RosUkrEnergo (che ha sede in Svizzera e il cui 50% delle azioni è del colosso del gas russo Gazprom), fu creata nel 2004 dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma e da Vladimir Putin. Trasportava il gas dal Turkmenistan alla Naftogaz, la società nazionale ucraina di petrolio e gas; Naftogaz doveva comprare da questa società di intermediazione russa e doveva vendere solo in Ucraina il gas. La RosUkrEnergo che vendeva gas agli ucraini (e non solo, anche a diversi paesi dell’Est) lo vendeva a un prezzo più alto rispetto a quello di mercato, e informalmente obbligando tra l’altro a darlo gratuitamente alle zone filorusse di Crimea e Donbass. L’alleanza si basava sostanzialmente sui tre pilastri: Mogilevich, il boss ucraino ai vertici della mafia russa, l’appoggio di Vladimir Putin e quello di Dmytro Firtash. Quest’ultimo era l’intermediario tra il governo ucraino, Gazprom e il primo ministro ucraino (dal 2002 al 2007 e poi dal 2010 al 2014) Viktor Janukovy?. Nel 2009 ufficiali del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) fecero un’indagine sull’appropriazione indebita di 6,3 miliardi di metri cubi di gas naturale di transito accusando Naftogaz Ukrainy di aver rubato quei 6,3 miliardi di metri cubi di gas. Sì, perché l’alleanza mafiosa sotto il potere della Solncevskaja bratva non garantiva solo la distribuzione dei dividendi della RosUkrEnergo (dal 2005 al 2007 1.753 miliardi di dollari) ma, rubando il gas in transito attraverso l’Ucraina verso altri Paesi permetteva alle varie bratva mafiose di venderlo di contrabbando alle società di importazione gas di mezzo mondo. Guadagnavano dal gas legale e dal gas rubato (che andava a carico dei contribuenti ucraini che dovevano pagarlo). Il mediatore in fuga - L’Ucraina era trattata come una colonia da cui estrarre grandi rendite senza pagare le tasse; i fondi venivano depositati in paradisi fiscali offshore. Dymitri Firtash, il grande mediatore del gas è fuggito dall’Ucraina, rifugiandosi in Austria per evitare l’estradizione, ed è accusato negli Stati Uniti di corruzione per 500 milioni di dollari. Firtash era legato al presidente della campagna di Trump, Paul Manafort, e ha come avvocato a sua disposizione Rudolph Giuliani, legale di Trump condannato nel 2021 per aver “comunicato dichiarazioni manifestamente false e fuorvianti a tribunali, legislatori e all’opinione pubblica in generale (…) in relazione al fallito tentativo di rielezione di Trump nel 2020”. È Firtash stesso ad aver svelato che l’alleanza russo-ucraina si basava su un accordo mafioso, e questo lo sappiamo grazie ai preziosi documenti pubblicati da Wikileaks: durante un incontro riservato con l’ambasciatore USA William Taylor, nel 2008, ammise che era Mogilevich il vero potere della società di intermediazione. L’Ucraina, ha affermato, è “governata dalle leggi della strada”. All’ambasciatore americano Firthas descrisse che era impossibile avvicinarsi a qualsiasi funzionario governativo ucraino senza incontrare contemporaneamente anche un membro della criminalità organizzata. Tutte queste confessioni, Firtash le face nell’ottica di mostrare all’amministrazione americana, che sapeva da tempo impegnata a indagare su di lui, che agiva solo su “costrizione”, che era la prassi balcanica agire sempre in concordanza con la mafia e che senza il boss Mogilevich niente si poteva muovere nel gas, pur specificando più volte che con lui non aveva mai avuto rapporti diretti. Ovviamente, uscito il cablogramma, Firtash spaventato di essere stato involontariamente la prova che il mondo cercava sulle informazioni su RosUkrEnergo ha negato al mondo intero di aver detto nulla del genere. L’”imprevisto” Maidan - Cosa ha interrotto questo schema del gas mafioso che ingabbiava l’Ucraina? L’imprevisto che persino Solncevskaja bratva non poteva prevedere è stata la rivoluzione di piazza Maidan del 2014, quando l’Ucraina in rivolta denunciò i brogli elettorali di Janukovy?, costringendolo a scappare a Mosca. L’inaspettata insurrezione del popolo ucraino legato al desiderio europeista fece saltare il banco dell’accordo mafioso: “Va detto - afferma il politologo britannico Taras Kuzio, tra i maggiori esperti mondiali delle dinamiche che stiamo descrivendo - che l’Ucraina, prima della rivolta di Maidan del 2014, era diventata uno stato mafioso neo-sovietico”. L’Europa, sotto il ricatto del gas russo, lasciò sola l’Ucraina in questa nuova stagione di indipendenza ma soprattutto di liberazione dal potere mafioso. Anzi, le banche europee e svizzere accolsero i soldi dell’Organizacija (termine con cui viene definito l’insieme delle diverse organizzazioni russe). L’Austria accoglie Firtash. Il sostegno europeo all’Ucraina è stato più di forma che reale, in questa dinamica lo spazio che la Nato e gli USA vedono per poter portare avanti la propria politica internazionale. Contrabbando sul Mar Nero - I vory (padrini) stanno approfittando della tensione al confine tra Ucraina e Russia per aumentare il proprio potere. La Crimea è il centro del contrabbando tra Europa e Russia: traffico di droga e merce chiamata per anni “la Sicilia ucraina” (riferendosi al potere di Cosa Nostra). Mark Galeotti, uno dei maggiori studiosi della mafia russa, ha scritto: “La Crimea è la prima conquista della storia condotta da gangster che lavorano per uno Stato”. I famosi soldati senza insegne che fanno scorribande non sono altro che membri della Solncevskaja bratva di Mogilevich e Michas. Viktor Shemchuk, ex procuratore capo della regione, ricorda: “Ogni livello del governo di Crimea è mafiosizzato. Non era insolito che una sessione parlamentare iniziasse con un minuto di silenzio in onore di uno dei ‘fratelli’ (affiliati) assassinati”. Il Mar Nero e Odessa sono i grandi spazi in cui si articolano diversi traffici: circolano la benzina venduta di contrabbando, tonnellate di carbone scavato illegalmente caricato su navi pronte a dirigersi in mezzo mondo, eroina, oro. Tutto ciò che può evadere il peso del fisco in cambio di una tassa ai vory mafiosi. Tutto ciò che deve entrare illegalmente in Europa passa da questi luoghi. Buco nero di merci, eroina, materie prime. La giornalista russa Yuliya Polukhina fa una sintesi chiara: “I beneficiari di questa guerra sono i politici, gli oligarchi e i gangster. Carbone, oro, benzina e tabacco. Questo è ciò per cui si battono nell’Ucraina orientale”. La conquista del Donbass e della Crimea è servita soprattutto a proteggere gli affari. Gli affiliati hanno innescato un’insurrezione per poter creare repubbliche autonome a Donetsk e Lugansk, ma non sono altro che repubbliche di mafiosi, governate per procura da Mosca. I leader della rivolta, come riporta Galeotti, hanno tutti nickname che avevano quando erano dentro la bratva: Motorola, Batman, Shooter. Putin e “i drogati” - Il 17 aprile 2015, Radio Svoboda intervista un volontario russo che aveva creduto alla propaganda di Putin, all’illusione di andare a combattere contro i fascisti ucraini: “Quando arrivi lì, ti rendi subito conto che non si tratta di unità militari, ma di vere e proprie bande” L’ex generale della polizia ucraino Vladimir Ovchinsky commenta: “Ora si sta verificando una sorta di nazionalizzazione della mafia”. Eppure Putin nell’accusa alle autorità ucraine le definisce “banda di drogati e neonazisti”. Quel passaggio sui “drogati” è chiaramente riferito al ruolo che l’Ucraina svolge come transito del narcotraffico ma ignora che è la mafia russa ad organizzarlo. Ma potrebbe esserci di più, forse i cartelli ucraini si stanno sfilando dalla storica alleanza con le bratva di Mosca? La mafia ucraina è in scissione come il Paese? Ha deciso di non sottostare ai gruppi crimeani? Di sottrarsi al dominio delle famiglie di Donetsk? Questo è il vero tema da comprendere nelle prossime ore. Mark Galeotti nel libro The Vory: Russia’s Super Mafia scrive: “L’Ucraina è … un Paese in cui tutte le principali organizzazioni criminali russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura del vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovy?”. Il patto tra Stato e criminali - Le strutture criminali ucraine sono simili a quelle russe, sebbene su scala ridotta e in un territorio in cui la maggioranza delle organizzazioni opera a livello locale: allo stesso modo, però, sono in simbiosi con una classe politica profondamente corrotta e mirano al controllo oligarchico dell’economia. “Il flusso di droga attraverso Donbass, verso l’Ucraina, e poi verso l’Europa, non si è ridotto di un solo punto percentuale, anche mentre i proiettili volano avanti e indietro attraverso la linea del fronte”, dichiara un ufficiale dell’SBU a Mark Galeotti, parlando degli scontri del 2014 nella regione. Il crimine organizzato russo si compone di diversi livelli. Putin, già dalla fine del 1999, ha smesso di portare avanti la politica della lotta al crimine, che pure l’aveva animato nei primi anni al potere. Un livello di strada viene genericamente perseguito, ci sono processi, arresti, se c’è stupro, se ci sono omicidi che allarmano la popolazione e perseguito lo spaccio in strada se compromette la pace sociale, ma in carcere sostanzialmente le organizzazioni governano tutto, continuano ad affiliare e proteggono i loro detenuti uccidendone i rivali. Chi si muove al livello più alto di organizzazione invece diventa interlocutore privilegiato con un unico vincolo: non deve mai creare problemi allo Stato e al suo capo. Se creano problemi al governo o si alleano con oppositori volendo sostituirlo verrebbero considerati come nemici dello Stato e sarebbero semplicemente annientati con l’aiuto di tribunali, polizia, sentenze. In realtà, la mafia russa non coincide completamente con lo Stato, la mafia russa è una delle infinite articolazioni del potere istituzionale russo, con cui è in dialettica. Solncevskaja bratva di Mosca, la Bratski Krug (circolo dei fratelli) di San Pietroburgo e la Tambov Gang, i grandi nemici della Solncevskaja, sono le anime che dominano affari e vita della Russia insieme ai loro satelliti in Georgia, Kazakistan, Cecenia, Ungheria, Serbia, Bulgaria, Cekia. Tagliare teste e punire - Putin usa ed è usato dalle organizzazioni criminali, i vory sono fondamentali per la sua internazionale criminale con cui sabota i nemici o influenza gli amici. Non solo nelle operazioni in Donbass, ma anche in Montenegro, quando avvenne tramite cartelli criminali locali alleati delle bratva un tentativo di colpo di Stato nel 2016, per evitare che l’area aderisse alla Nato. Ciclicamente lo stesso Putin teme lo strapotere dei membri dell’Organizacija, contro cui agisce solo quando gli creano problemi, quando non riesce a schermarli dalle magistrature occidentali che trovano prove dei loro affari mettendo a rischio la reputazione del governo o peggio quando agiscono sostenendo i suoi rivali politici. Per tenere sotto controllo, Putin deve ciclicamente tagliare teste e punire. Nel 2016, per esempio, la polizia russa ha fatto irruzione nell’appartamento di uno dei suoi alti ufficiali, il colonnello Dmitry Zakharchenko, che era a capo di un dipartimento all’interno della sua divisione anticorruzione. Lì hanno trovato 123 milioni di dollari: così tanti che gli investigatori hanno dovuto sospendere le ricerche mentre cercavano un contenitore abbastanza grande da trasportare tutto quel denaro. In realtà non erano soldi suoi, era solo il custode del fondo comune, l’obshchak, di una banda di “Lupi mannari”: così sono chiamati gli uomini della mafia dentro la polizia. Mafia e politica - Putin deve ricordare ai vory che è lui che dà l’autorizzazione alla loro vita; ovviamente sa benissimo che sarà finita quando il suo potere dipenderà dai vory. Per ora questo equilibrio è mantenuto perché le bratva russe e i vory continuano a fare affari sulle risorse naturali e sulle concessioni date dallo Stato: questa è la “dipendenza” della mafia russa dal potere politico in cui si mischia e confonde. Gestiscono cose il cui profitto devono smezzare con le istituzioni e tra l’altro delegare alle organizzazioni spesso significa permettere un’efficienza verticale che nessun’altro potrebbe garantirti. Come descrive bene Taras Kuzio nel libro Ukraine: Democratization, Corruption, and the New Russian Imperialism il ruolo dei vory è sempre solo quello di risolvere problemi, chiedi e ti sarà dato. La realtà della Solntsevo negli anni ha stretto alleanze e levigato attriti con le già fiorenti mafie locali ucraine: “L’Ucraina - scrive Galeotti - è un buon esempio, un Paese in cui tutte le principali associazioni russe hanno interessi, operazioni, partner e persone, e dove anche la cultura vory è ancora presente. Solntsevo ha un rapporto di lunga data con il “clan Donetsk” criminale-politico, che era la base di potere dell’ex presidente Viktor Janukovy?, per esempio”. Il rapporto tra mafia e politica è talmente stretto che persino eventi traumatici, come l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014 e i successivi scontri nel Donbass, avvengono con il sostegno attivo dei vory locali. Se potessi chiedere a Semyon Mogilevich come finirà questa guerra, avrei certamente l’opinione più aggiornata, più utile, più profonda che potremmo ottenere, che nessun analista, nemmeno le informazioni che i Servizi americani hanno fatto trapelare ai giornali, riuscirebbero a dare. Osservare le dinamiche criminali, in questo caso, significa guardare al cuore pulsante delle questioni. Guarda la mafia, vedi il crimine; guarda attraverso la mafia, vedi il destino dell’economia del tuo tempo. Stati Uniti. Migliaia di morti per abuso di oppioidi: le aziende farmaceutiche sono responsabili di Chiara Basso Il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2022 Gli oppioidi sono usati per la gestione del dolore e provocano grossi problemi di dipendenza. Secondo molti Stati e amministrazioni locali degli Usa, sia le aziende farmaceutiche come J&J sia quelle che si erano occupate della distribuzione di tali farmaci sono responsabili di aver contribuito alla grave crisi sanitaria ancora in corso nel paese che negli ultimi vent’anni ha provocato la morte per overdose di centinaia di migliaia di cittadini. Oltre 100mila morti di overdose in un anno negli Usa, la maggioranza causata soprattutto dall’abuso di fentanyl, un oppioide cento volte più potente della morfina. Una pandemia silenziosa che hanno messo sul banco degli imputati anche le case farmaceutiche. Che adesso hanno deciso di trovare un accordo con Stati e governi locali per evitare le cause. Johnson&Johnson e tre importanti distributori farmaceutici hanno raggiunto accordi a livello nazionale in Usa per versare 26 miliardi di dollari in risarcimenti per la crisi sanitaria degli oppioidi, dopo le cause intentate. Gli oppioidi sono usati per la gestione del dolore e provocano grossi problemi di dipendenza. Secondo molti Stati e amministrazioni locali degli Usa, sia le aziende farmaceutiche come J&J sia quelle che si erano occupate della distribuzione di tali farmaci sono responsabili di aver contribuito alla grave crisi sanitaria ancora in corso nel paese che negli ultimi vent’anni ha provocato la morte per overdose di centinaia di migliaia di cittadini. Johnson&Johnson, AmerisourceBergen, Cardinal Health e McKesson hanno annunciato il piano per il deal lo scorso anno, ma l’accordo era subordinato alla partecipazione di una certa massa critica di governi statali e locali. Il 25 febbraio scorso era il giorno della scadenza per le società per annunciare se ritenevano che un numero sufficiente di governi si fosse impegnato a partecipare all’accordo, rinunciando al diritto di citare in giudizio le società. A questo punto il denaro dei risarcimenti potrebbe iniziare a fluire verso le comunità locali entro aprile. “Non avremo mai abbastanza soldi per risolvere immediatamente questo problema”, ha affermato Joe Rice, uno dei principali avvocati che hanno rappresentato i governi locali nel contenzioso che ha portato all’accordo. “Quello che stiamo cercando di fare è dare a molte piccole comunità la possibilità di provare a cambiare la situazione”. I soldi non andranno direttamente alle vittime della dipendenza da oppioidi o ai loro sopravvissuti, ma devono essere utilizzati dalle comunità. L’accordo prevede infatti che vengano usate per interventi di sanità pubblica utili a gestire l’epidemia in corso ancora oggi, per esempio per fornire un alloggio alle persone che soffrono di dipendenza e non hanno una casa. E infatti Kathleen Noonan, ceo della Camden Coalition of Healthcare Providers, ha spiegato che una parte del denaro dovrebbe essere utilizzata per fornire alloggio a persone con dipendenze che sono senza tetto. Dan Keashen, portavoce del governo della Contea di Camden, ha affermato che i funzionari stanno pensando di utilizzare i soldi per una campagna di istruzione pubblica per mettere in guardia sui pericoli del fentanil (un oppioide). E vogliono anche mandare più consulenti per la droga nelle strade. Alla Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale che combatte il traffico di droga, dicono di aver sequestrato nel corso del 2021 quantità tali di fentanyl da fornire ogni cittadino degli Stati Uniti di una dose letale. “E, ogni giorno, continuano i sequestri di nuove partite”. A parte i finanziamenti federali, a parte l’opera di repressione (gran parte della droga statunitense arriva dai cartelli messicani, che rielaborano componenti di provenienza soprattutto cinese), ci si chiede a questo punto cosa fare. Una strada possibile è sicuramente la riduzione delle ricette mediche che prescrivono antidolorifici. I medici americani ne hanno negli anni passati ampiamente abusato, tanto che, spiega un esperto dei Cdc, “si prescrivono oppiacei quando ti cresce il dente del giudizio”. L’abuso di anti-dolorifici, fin dalla più tenera età, ha portato a forme di dipendenza dalle droghe che in molti casi si sono rivelate fatali.