Cartabia sceglie il nuovo capo del Dap, è Carlo Renoldi, teorico del carcere “compatibile con la Costituzione” di Liliana Milella La Repubblica, 27 febbraio 2022 La Guardasigilli ha inviato al Csm la richiesta per mettere fuori ruolo il giudice della Cassazione ed ex magistrato di sorveglianza a Cagliari. Che rischia di essere troppo garantista per una parte della maggioranza. Ha un nome il nuovo capo delle carceri scelto dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Che ha appena chiesto al Csm di mettere fuori ruolo Carlo Renoldi, oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, un magistrato che tra i suoi maestri ha Alessandro Margara, che fu capo del Dap ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini. Il suo era un "carcere dei diritti". Sia dei detenuti, sia degli agenti. Una scelta che non stupisce quella di Cartabia, per la sua concezione garantista del carcere stesso. Più volte ribadita prima da giudice e da presidente della Consulta, e poi da ministra. Una scelta che però, proprio per il profilo e la storia di Renoldi, potrebbe creare tensioni nella maggioranza. La nomina del capo del Dap, dopo il via libera del Csm al fuori ruolo, dev'essere assunta dal consiglio dei ministri. E partiti che sono per un carcere duro e senza sconti, soprattutto se di mezzo c'è la mafia, come M5S e la stessa Lega, potrebbero non condividere appieno la decisione. Al nome di Carlo Renoldi la Cartabia arriva dopo aver selezionato e sentito una decina di magistrati. Tra questi ci sono l'attuale vice direttore Roberto Tartaglia, l'ex pm di Palermo voluto dall'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede assieme al capo del Dap Dino Petralia, che ha deciso la sua uscita con un pensionamento anticipato. Stanchezza e voglia di recuperare una dimensione privata, "di fare il nonno", ha detto ai media. Tartaglia sarebbe stato penalizzato solo in quanto giovane di età e di carriera. Tra i magistrati sentiti da Cartabia anche l'ex procuratore di Roma Michele Prestipino e il presidente del tribunale di sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin. Ma alla fine la scelta è caduta su Renoldi che, per la sua concezione del carcere, le sue sentenze, e anche le sue affermazioni pubbliche, appare come una sorta di fotocopia di Cartabia per quell'idea di un carcere dal volto umano che la stessa Guardasigilli ha raccontato in più di un'intervista e in più di un intervento sia da presidente della Consulta che da Guardasigilli. Ma innanzitutto chi è Carlo Renoldi? Ha 53 anni ed è nato a Cagliari, dove ha anche lavorato come giudice penale e come magistrato di sorveglianza. Ha fatto parte dell'ufficio legislativo di via Arenula nel 2013 e ha contribuito a risolvere il caso Torreggiani, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l'Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Ha fatto parte dell'ufficio studi del Csm per approdare poi alla Suprema corte. Le sue sentenze e i suoi scritti, nonché gli interventi nei convegni, rivelano le sue idee. Si definisce un uomo di sinistra, e la sua corrente è Magistratura democratica, ma è iscritto anche ad Area. Ha scritto molti articoli giuridici per "Cassazione penale", la rivista diretta dall'ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, e per Questione giustizia, l'house organ di Md. E tra questi scritti si possono ripescare considerazioni come quelle che seguono. "La mafia è un problema sociale gravissimo, ma un giudice non può essere anti qualcosa, anche un mafioso ha diritto a un processo giusto". E ancora: "Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza". Un carcere in cui "il sindacato ha un valore, ma se svolge una pura difesa corporativa e non guarda alla funzione istituzionale, allora diventa una forza che tradisce l'istituzione". I diritti di tutti quindi, dei detenuti, del personale, che se riconosciuti e garantiti, a loro volta garantiscono i detenuti. Le sentenze di Renoldi in Cassazione vanno nella direzione indicata dalla Consulta con le sentenze sui permessi premio e sulla liberazione condizionale del 2019 e 2021 che fanno cadere il presupposto rigido della collaborazione. Può ottenere i permessi e può liberarsi dall'ergastolo ostativo non più solo chi si pente. In un dibattito del luglio 2020, tuttora disponibile su Radio radicale, Renoldi sposa in pieno "le indubbie aperture della Corte che hanno riscritto l'ordinamento penitenziario". Però critica "le spinte reattive di segno assolutamente opposto, anche rivendicate orgogliosamente oppure nascoste e carsiche, anche abbastanza trasversali, che convergono sinistramente" e riguardano "alcuni ambienti dell'antimafia militante, settori dell'associazionismo giudiziario, nonché quella parte della magistratura di sorveglianza ostile ai diritti dei detenuti". Una critica che coinvolge anche "l'atteggiamento miope di sigle sindacali corporative". Al Dap è favorito il giudice che vuole allentare il 41-bis di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 27 febbraio 2022 Ha plaudito alla Corte costituzionale che ha svuotato l’ergastolo ostativo per mafiosi e terroristi che non hanno collaborato. Ha parlato di antimafia “arroccata nel culto dei martiri” e la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che in Parlamento si è profusa in retorica in vista del trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, lo sceglie come nuovo capo del Dap al posto di Dino Petralia, in pensione anticipata. Il designato è Carlo Renoldi, consigliere della prima sezione penale della Cassazione, esponente di Magistratura democratica. Un semplificatore elementare, pensa che chiunque sia contro l’allentamento del 41-bis e dell’ostativo sia un giustizialista, e pure arcaico. Ma la scelta non sorprende: Cartabia era vicepresidente quando nell’ottobre del 2019 la Consulta stabilì che era incostituzionale l’ostativo che fino ad allora impediva a ergastolani mafiosi (la stragrande maggioranza) e terroristi non collaboratori di chiedere i permessi premio. Ed era già ministra nell’aprile 2021 quando la Corte ha bocciato l’ostativo alla libertà condizionata, rinviando al Parlamento la modifica entro il prossimo maggio. In questo lasso di tempo c’è stato un cambio di posizione dell’Avvocatura dello Stato. Nel 2019, ministro Bonafede, si era schierata contro la tesi di incostituzionalità della Cassazione, accolta dalla Consulta, mentre l’anno scorso si è allineata. Per capire il pensiero del giudice Renoldi è utile ascoltare il suo intervento del 29 luglio 2020 a un convegno sul carcere organizzato a Firenze. Renoldi decanta i provvedimenti “epocali” della Consulta “che hanno riscritto importanti settori dell’ordinamento penitenziario” e si congratula per la sentenza che apre ai permessi premio per mafiosi ergastolani non collaboratori, perché “ha minato alle fondamenta i dispositivi di presunzione di pericolosità sociale che sono incentrati sull’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario”. Altro merito della Consulta è l’aver “riconosciuto finalmente il divieto di effetto retroattivo della Spazzacorrotti”, quella di Bonafede. Altro faro per Renoldi è la Cedu e la “sentenza Viola” contro l’Italia: “Ha acquisito alla dimensione del diritto convenzionale il principio della flessibilità della pena, del finalismo rieducativo con la conseguente incompatibilità con l’ergastolo ostativo”. Tuttavia, spiega, “a queste aperture sul piano normativo, molto importanti” ci sono state reazioni opposte “abbastanza trasversali”. E qui parte l’attacco. Era il 2020, quando non immaginava il ruolo che gli sarebbe stato proposto: “Mi riferisco al Dap, ad alcuni sindacati della polizia penitenziaria, ad alcuni ambienti dell’antimafia militante, ad alcuni settori dell’associazionismo giudiziario e anche ad alcuni ambiti della magistratura di Sorveglianza. Un Dap che in questi anni è rimasto profondamente ostile a quegli istituti che tentano di varare una nuova stagione di diritti ‘giustiziabili’ per le persone detenute. Un atteggiamento miope di alcune sigle sindacali che declinano ancora la loro nobile funzione in una chiave microcorporativa”. Poi il siluro alle posizioni antimafia, contro lo svuotamento dell’ostativo: “Pensiamo all’antimafia militante arroccata nel culto dei martiri, che certamente è giusto celebrare, ma che vengono ricordati attraverso esclusivamente il richiamo al sangue versato, alla necessaria esemplarità della risposta repressiva contro un nemico che viene presentato come irriducibile, dimenticando ancora una volta che la prima vera azione di contrasto nei confronti delle mafie, cioè l’affermazione della legalità, non può essere scissa dal riconoscimento dei diritti”. Non per “esercizio di buonismo, ma come gesto politico ed etico di fedeltà alla Costituzione”. Da chi è costituito per Renoldi il mondo dell’antimafia? Da “associazioni, testate editoriali, soggetti istituzionali, un mondo nel quale accanto a figure animate da un giustizialismo ottuso ci sono però personalità che appartengono alla cultura democratica la cui voce sul carcere ultimamente è stata però declinata solo sul versante del contrasto alla criminalità organizzata, come se la grande questione carceraria potesse essere ridotta ai temi pure importati dalla mafia, del 41-bis”. Con i giustizialisti “democratici” vuole “riannodare i fili del dialogo”. Chissà se considera “ottuso” o dialogante Roberto Tartaglia, il vicecapo del Dap, ex pm del processo sulla trattativa Stato-mafia insieme a Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene. La riforma del Csm in commissione alla Camera, corsa contro il tempo per l’approdo in aula di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 27 febbraio 2022 Ieri a Montecitorio gli emendamenti firmati Cartabia al testo di Bonafede. Perantoni (M5S), presidente della commissione Giustizia, vuole licenziare il testo in due settimane. Riuscirà la riforma del Csm ad agganciare le elezioni per rinnovare la compagine di palazzo dei Marescialli? In una parola, la nuova legge potrà essere pronta definitivamente per il prossimo settembre quando, il 25, scadrà definitivamente il Csm attualmente in carica? Non solo, ma la nuova legge elettorale, un maggioritario binominale con uno spruzzo di proporzionale, sarà già in vigore per eleggere i 20 togati (invece degli attuali 16) che nel 2018 furono selezionati nella prima settimana di luglio? Proprio mentre la Ragioneria generale dello Stato, che fa capo al Mef, dà il via libera alla riforma del Csm sul piano della copertura economica - e il testo licenziato dal consiglio dei ministri l’11 febbraio ieri è arrivato a Montecitorio composto da 38 articoli - sono questi gli interrogativi sia di via Arenula, sia della commissione Giustizia della Camera, che vede al vertice Mario Perantoni di M5S. Entrambi hanno il comune obiettivo di accelerare al massimo l’approdo in aula. Con uno scopo preciso, garantire che il voto per il nuovo Csm sia pienamente “coperto” dalla nuova legge. Ma perché questo accada bisogna correre contro il tempo. Anche evitando - politicamente - chi, nelle file del centrodestra, potrebbe essere tentato dalla strategia di far “scavalcare” la riforma del Csm dai referendum sulla giustizia appena licenziati dalla Consulta. Perché se anche non c’è, per almeno tre di essi, un impatto diretto e tecnico sulla riforma - e parliamo delle ipotesi di cancellare la legge Severino, di smontare le norme sulla custodia cautelare, di separare le carriere di giudice e pm - mentre gli altri due - dare agli avvocati il diritto di voto nei consigli giudiziari, eliminare l’obbligo di 25-50 firme per candidarsi al Csm - potrebbero proprio essere fagocitati dalla nuova legge, tuttavia la questione è tutta politica. Nella contrapposizione tra il centrodestra che vuole incassare una vittoria sui referendum per “pesare” politicamente di più rispetto alla riforma e ad eventuali modifiche imposte a Pd e M5S, come quella del sorteggio per eleggere il nuovo Csm. In questo scenario proprio via Arenula affida al Parlamento l’iter della riforma. Su cui Draghi, almeno in consiglio dei ministri, ha garantito che il governo non metterà la fiducia. Ma i tempi sono quelli che sono. In aula, alla Camera, il testo sul Csm è atteso per la fine di marzo, ma tre settimane a partire da domani, quando si riunisce l’ufficio di presidenza della commissione, non sono tante per un disegno di legge complesso, che affronta questioni epocali come le “porte girevoli” tra magistratura e politica, i criteri di nomina dei magistrati per un incarico di vertice, non ché la stessa legge elettorale. Molto si capirà dall’ufficio di presidenza che Mario Perantoni ha convocato per lunedì. In cui, come conferma lo stesso presidente della commissione Giustizia, si dovrà decidere non solo il calendario dei lavori, ma anche le audizioni sul nuovo testo presentato da Cartabia. Per prassi i gruppi indicano i tecnici “desiderati”. Stavolta ce ne sarà solo uno per gruppo. Per arrivare subito alla “ciccia”, cioè al voto sul testo. Sul quale - ed è già noto - ci sono divisioni nella maggioranza. Perché il centrodestra insiste con il sorteggio, anche se “temperato” da un voto sui nomi sorteggiati per evitare la rotta di collisione con la stessa Corte costituzionale. Un accordo politico è indispensabile, perché il governo è spaccato tra il centrodestra che insiste sul sistema elettorale tramite sorteggio seguito poi dal voto sui candidati sorteggiati, e chi sottoscrive la proposta della Guardasigilli Marta Cartabia sul maggioritario binominale. Ma il vero goal è garantire che il nuovo Csm possa essere eletto con la nuova legge elettorale già pronta ed operativa. E qui, allora, bisogna correre. E il testo deve essere approvato per la fine di maggio. Con un mese di tempo in vista del voto nella prima settimana di luglio. Va bene ridurre i tempi, ma non lo si faccia a scapito delle garanzie di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 27 febbraio 2022 Il Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) è il noto ed ambizioso progetto che prevede l’erogazione a favore del nostro Paese di ingenti somme volte a contrastare gli effetti, in primis economici ma non solo, dettati dall’emergenza pandemica. L’erogazione è soggetta a delle condizioni, tra le quali la realizzazione degli obiettivi comunitari in ambito Giustizia. A quest’ultimo verrebbero infatti destinati 2,7 miliardi di euro. Una somma considerevole che apporterebbe nuova linfa ad un settore da anni vessato da ingenti, ingiustificati tagli, malcelati da una drastica riduzione della spesa Pubblica. Non sarà necessario argomentare circa i danni conseguenti a tali scelte di budget che, ad oggi, sortiscono innumerevoli problemi, dettati soprattutto dalla carenza di organico, in parte contrastato con la recente introduzione di forze umane grazie all’istituzione dell’Ufficio del Processo e di cui lo scrivente ha già avuto modo di parlare, sempre su queste pagine. Ad ogni modo, obiettivo fondante la riforma è la drastica riduzione dei tempi della Giustizia. L’Italia, infatti, rappresenta uno dei fanalini di coda nell’eurozona, con tempi della Giustizia che vanno dagli 8 anni per il processo civile ai 4 per quello penale, prima che si giunga ad una sentenza definitiva. “Deflazione”, questa la parola d’ordine che ha mosso gli interventi del ministro Cartabia, la quale ha l’ambizioso scopo di ridurre i tempi sopra indicati di un dignitoso - 25% per il penale e un -40% per il civile. Pur essendo tutti concordi che una riduzione delle tempistiche sia doverosa, in rispetto del principio della ragionevole durata dei processi, funzionale ad una tutela effettiva che deve giungere in tempi celeri, non può di contro dirsi in ordine ai mezzi giuridici e procedimentali messi in campo coi recenti disegni di legge. Molte le misure che si intendono adottare; ma nel perseguimento di un fine deflattivo, talvolta si sacrifica eccessivamente il diritto delle parti processuali. Se tale circostanza è inaccettabile nel procedimento civile, tanta più attenzione e cautela abbisogna il procedimento penale. Ciò premesso, il Guardasigilli è nuovamente intervenuta per effettuare una relazione sull’attuale stato realizzativo del Pnrr, sottolineando come l’Europa ancora incalzi l’Italia affinché si prosegua nel percorso di riduzione dei tempi. Tra le misure da adottarsi ve ne è una di grande rilievo pratico: un ulteriore aggravio delle sanzioni per quei difensori che perseguono liti cd. “temerarie”; liti che con un giudizio prognostico ex ante, risultano già prive di fondamento, ancor prima di essere esperite e che, pertanto, comportano un aggravio sugli Uffici. Questo per un dettato deontologico basilare che ogni Avvocato deve tenere bene a mente: il legale è il primo sbarramento, il primo presidio, posto a tutela delle azioni che la Parte vuol intraprendere: presidio per la difesa dell’Assistito e presidio a tutela del Sistema, del quale ne è parte, al pari della Magistratura. Lettura quest’ultima che solca il tracciato del rafforzamento della figura dell’avvocato nella Costituzione. Già a giugno dell’anno scorso la Commissione Giustizia licenziava un testo di riforma da far approdare alla Camera con il quale si intendeva apportare un ulteriore giro di vite all’art. 96, comma 3 c. p. c. sulle liti temerarie, ampliando l’applicazione del comma anche nei confronti della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, oltre ad aggiungere che, con la medesima condanna, il Giudice possa disporre, anche d’ufficio a favore della controparte, il pagamento di una somma equitativamente determinata, non superiore al doppio delle spese liquidate e, a favore della cassa delle ammende, il pagamento di una somma non superiore a cinque volte il valore del contributo unificato dovuto. Tale tendenza a limitare i ricorsi, che nella riforma del processo penale si è tentato di perseguire restringendo le maglie, ad esempio, per ricorrere in appello (sia per la Pubblica Accusa che per la Difesa), va dosata soprattutto nel processo penale, laddove, come si anticipava, la tutela del diritto alla difesa gioca sul campo della privazione della libertà personale. Nel rispetto del testo costituzionale non è accettabile una siffatta compressione di garanzie che andrebbe controbilanciata da altri fattori sui quali si tornerà a discutere, quali il venir meno dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non per niente la maggior parte dei quasi tre miliardi destinati al settore Giustizia verranno impiegati nell’introduzione di nuovo organico e nella conseguente ricerca di nuovi spazi e strumenti per accoglierlo, auspicando che a detto organico vengano anche attribuite funzioni più incisive, come ad esempio la restituzione al Gup di quei poteri propri del filtro giudiziario, oggi mero orpello. “Presunzione d’innocenza? Sì, ma tuteliamo il diritto all’informazione” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 27 febbraio 2022 Intervista a Vinicio Nardo sulla presunzione d’innocenza e non solo. “A Milano la sala stampa è a rischio sfratto, un altro ostacolo al diritto di cronaca”. “È necessario tutelare il diritto all’informazione, un diritto, ricordo, costituzionalmente garantito”, afferma l’avvocato Vinicio Nardo, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano. La recente entrata in vigore della normativa sulla presunzione d’innocenza e le sue ripercussioni in tema di comunicazione giudiziaria, ha in questi giorni dato il via ad un dibattito molto sentito fra tutti gli operatori del settore: magistrati, avvocati, giornalisti. Presidente Nardo, può dirci la posizione sul punto dell’avvocatura milanese che lei rappresenta? La libertà di informazione ci deve essere e può esistere anche nel rispetto della presunzione di innocenza. E, soprattutto, deve essere a tutela dalla disintermediazione dei social tra haters e fake news. Il tema delle fake news, anche nell’ambito della comunicazione giudiziaria, è sempre più sentito. Come affrontarlo? È sufficiente la riforma sulla presunzione d’innocenza che stabilisce regole ferree sul flusso comunicativo? È un bene che si sia regolamentata l’ufficialità dei percorsi di “vidimazione” delle notizie da parte dello Stato, sia nella forma dell’Autorità giudiziaria che in quella delle Forze dell’ordine. Ma la libertà di informazione e la ricerca della verità devono essere ancora uno spazio di movimento consentito ai giornalisti e in particolare a loro, proprio per contrastare il buco nero della disintermediazione informativa che ha, come detto, negli haters e nelle fake news una minaccia già presente e che il giornalismo corretto e non diffamatorio deve contrastare. Vede delle criticità nelle nuove regole? Io credo che sull’altare della sacrosanta tutela della presunzione di innocenza non possa finire una apparente forma di censura che passa sottilmente dalle nuove regole del gioco indicate nella Riforma Cartabia a proposito di regole di ingaggio nella comunicazione. Ma di certo l’ultima modalità di elaborare quegli errori può essere mettere il silenziatore alle notizie, come qualcuno e in particolare i giornalisti potrebbero leggere tra le righe dei nuovi provvedimenti. Magari anche all’insaputa di chi li ha diligentemente scritti. Gli avvocati che ruolo potranno avere? Gli avvocati difendono i diritti e i diritti non ammettono processi e condanne a prescindere e invece ne vediamo un giorno sì e un altro pure. La scorsa settimana ci sono svolte diverse cerimonie per i 30 anni di Tangentopoli, uno spartiacque in tema di comunicazione giudiziaria... Il 2022 dovrebbe essere interamente dedicato a riflettere e lavorare sull’eredità dei 30 anni di Tangentopoli e proiettare sul futuro e anche nell’applicazione della Riforma Cartabia tutti gli insegnamenti, per non correre più gli errori che all’epoca fecero in tanti e anche nell’informazione. Trova differenze oggi dal 1992? Da allora molte cose sono cambiate. Noi avvocati siamo i primi a contrastare in tutti i modi consentiti dalla legge e dal buon senso quella cattivissima tendenza che a volte la giustizia e il giornalismo hanno condiviso e che abbiamo sintetizzato nel termine di “processi mediatici”. Adesso esistono i social… Certo: se prima a esserne autori erano i giornali adesso a volte lo sono proprio i social, disintermediando la professionalità dei giornalisti. Al Palazzo di giustizia di Milano la sala stampa è a rischio sfratto causa aumento del canone di locazione. Si stanno cercando soluzioni per evitarne la chiusura? In un momento come questo di fronte alle sensazioni che producono le nuove regole sulla comunicazione a tutela della presunzione di innocenza, suona in effetti molto stridente quello che sta succedendo a Palazzo di giustizia con lo spazio stampa da decenni a disposizione dei cronisti per il loro lavoro sugli articoli. Su di loro, come è già accaduto di recente anche per una nostra associazione di avvocati, è calata la scure dei costi delle spese di gestione della sala, che sta portando ad obbligarli a lasciarla. Per quanta ragione possa avere lo Stato nel reclamare il legittimo pagamento delle spese dovute, qui in gioco c’è l’esercizio del diritto di cronaca. Per questo ci attiveremo per capire come con la Corte d’Appello si possa trovare una soluzione, eventualmente in un altro spazio per consentire ai giornalisti di lavorare quotidianamente a Palazzo anche nei prossimi anni. Re Giuliano terzo, la Corte costituzionale c’est moi di Susanna Turco L’Espresso, 27 febbraio 2022 Ministro. Premier. E oggi presidente della Consulta. Amato dilaga sui media nella forma inedita della sentenza vivente. Per dimenticare il trono che gli è mancato. Il Quirinale. Il primo segnale è arrivato il 3 febbraio, alla cerimonia d’insediamento del capo dello Stato, quando Giuliano Amato, 83 anni, col piglio di chi la corsa per il Quirinale è abituato a perderla (la prima volta fu trent’anni fa, sfamo almeno alla quarta) così salutò Sergio Mattarella: “Hai visto che è finita come dicevamo noi, non come dicevi tu”. Ecco forse già lì iniziava il nuovo corso. “Come dicevamo noi”. Ma noi chi? Amato è il primo nella storia d’Italia ad essersi così sdoppiato in ruoli opposti: due volte presidente del Consiglio (ma anche più volte ministro), ora presidente della Consulta, è passato da massimo decisore politico a massimo giudice delle leggi. Parte e controparte: legittimo, ma complicato. È difficile spogliarsi dai panni del politico, fino a che punto lo si vede già. Moltiplicata l’esposizione mediatica, Amato è comparso in ultimo anche in tv, in prima serata, dove di rado ci si imbatte in un presidente della Consulta in carica. A Di Martedì, sfregando le affusolate dita allenate a vivisezionare commi, Amato ha spiegato dello “sbriciolamento” in atto, parlato di “comunismo” e “democrazie” e ripetuto una specie di curiosa sineddoche: “Se io Consulta”. Ma io chi? “I referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare ad ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino. Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile, il voto popolare”, aveva detto agli assistenti di studio dei quindici giudici costituzionali, cinque giorni prima di bocciare tre quesiti su otto, due dei quali (eutanasia e cannabis) sottoscritti da quasi due milioni di persone. Parole che - sembrando una spinta pro referendum - avevano fatto storcere il naso ai puristi affezionati all’idea per cui i giudici parlano attraverso le sentenze. Non s’era visto ancora niente. Il 16 febbraio, conclusa la camera di consiglio sull’ammissibilità dei referendum, Amato si è presentato in una forma inedita: quella della sentenza vivente. È sceso in conferenza stampa, per comunicare decisioni appena prese dalla Corte circa gli ultimi tre quesiti e spiegare il tutto. “Un’usanza che c’era in anni lontani”, ha detto. Si tratta di una scelta in realtà senza precedenti: né Francesco Saja nel 1987 (tassa sulla salute), né Francesco Paolo Casavola nel 1993 (buonuscita degli statali), avevano infatti parlato di una materia così delicata come il referendum. Ma c’è di più. Amato, nell’illustrare le decisioni, ha raccontato alla sala la sostanza di sentenze inesistenti in quanto ancora non scritte. È entrato nel merito di tabelle, ha fatto esempi sbagliati (quello del ragazzo ubriaco che chiede di essere ucciso: caso in realtà non toccato dal quesito), ha polemizzato con “l’uso generalizzato” del termine eutanasia, fornito in generale elementi che neanche sappiamo se rientreranno nelle motivazioni delle sentenze, certamente in quel momento non ancora estese. In effetti, proprio in tv, Amato ha fatto un superbo lapsus: “Aspettiamo le sentenze che spiegano le motivazioni”, ha detto alludendo ai referendum appena bocciati. Voleva dire: le motivazioni che spiegano le sentenze. Ma ha fornito una splendida sintesi di come si è invertito il corso delle cose: le motivazioni in effetti lui le ha già date, arriveranno poi delle sentenze a spiegarle. La Corte costituzionale c’est moi. Vostro disonore di Simone Alliva L’Espresso, 27 febbraio 2022 Amministrano il diritto ma non ne hanno alcuno. Sono i giudici e i viceprocuratori pagati a sentenza: sostengono gran parte del peso delle cause ma restano eterni precari. Sonia è stata stroncata da un tumore al cervello. Il giorno prima si trovava in Aula, non è riuscita a portare a termine l’udienza. Antonio è tetraplegico e da quindici anni il suo accompagnatore lo aiuta a salire sul banco giudice di pace, in braccio come si fa con i bambini: “Dottore, se vuole installare qualche rampa o eliminare qualche scalino può farlo. A sue spese”, gli ha risposto il presidente del tribunale. Laura ha avuto due figli: ha lavorato fino a due giorni prima di partorire, poi è rimasta a casa 6 mesi senza poter guadagnare un euro. Durante la seconda gravidanza ha avuto la nomina a giudice onorario presso un tribunale, a pochi giorni dal parto: ha dovuto rinunciare. “Non avevo scelta”. Enza è stata trasportata in ospedale dopo aver perso i sensi durante l’udienza, era al quindicesimo giorno di sciopero della fame ma, per non incorrere nelle sanzioni minacciate dalla Commissione di garanzia, ha continuato a fare il suo lavoro fino al collasso. È il mondo della magistratura onoraria in Italia. Zero rimborsi per le spese legali, zero tutele contro l’abuso di contratti a tempo determinato consecutivi, senza neanche la possibilità di fare causa. Malattie, maternità, infortuni: zero. Nel mondo dei “precari della giustizia” ci sono solo processi e sentenze da scrivere. Solo doveri se si vuole arrivare a fine mese. Un magistrato onorario viene pagato 98 euro lordi fino a cinque ore di udienza e altre 98 lordi se supera le cinque ore. Calcolate al minuto. “Se faccio una pausa, vado in bagno o a pranzo, non valgono”, spiega Elena Pucci, giudice onorario presso il tribunale di Varese. Il lordo dovrebbe coprire anche i contributi previdenziali (obbligatori) e le spese di trasferta: “I soldi che guadagno alla fine coprono le spese che mi portano da Milano a Varese”. Il tempo per studiare i fascicoli e scrivere i provvedimenti non è retribuito: “Direi che è una questione di dignità. Il lavoro è assorbente, abbiamo ruoli autonomi in processi anche importanti”, sottolinea la giudice Pucci che ha scritto sentenze anche per risarcimenti milionari: “Nelle aule di Tribunale ci confondiamo insieme agli altri magistrati ma da un punto di vista di diritti viviamo su un altro pianeta”. Un mondo parallelo, dove pochi vedono le differenze tra due tipi di magistrati celati sotto la stessa toga: i cosiddetti togati o di ruolo - assunti a seguito di un concorso - e i magistrati cosiddetti onorari, a cottimo per titoli (anzianità, pubblicazioni etc.). Creati per occuparsi occasionalmente di reati bagatellari, dal 1998 sono l’ossatura del sistema giudiziario: i viceprocuratori onorari (1.700) e i giudici onorari (2.013) - a cui vanno aggiunti quelli di pace (1.154) - sollevano la mole di lavoro dei circa 9.500 magistrati togati anche su cause importanti. La Commissione europea ha aperto a luglio una procedura di infrazione contro l’Italia per il modo in cui gestisce quest’ultima categoria: “Non sono tutelati”. E con una lettera di messa in mora Bruxelles impone al governo italiano di regolarizzarli. A dicembre per evitare la procedura di infrazione, il ministero della Giustizia guidato da Marta Cartabia ha fatto passare un emendamento alla legge di Bilancio: “Finge di attenuare la situazione ma in realtà la peggiora”, spiega il presidente della Federazione magistrati onorari di tribunale, Raimondo Orrù: “Ci costringe a fare una prova d’esame per l’idoneità, anche a magistrati che lavorano da 20 anni e ci tiene nel costante precariato. I magistrati onorari italiani vengono sottoposti a un’irragionevole procedura concorsuale per rimanere, nondimeno, lavoratori onorari, ossia sprovvisti di qualsivoglia riconoscimento anche solo formale. Per loro resta vietato parlare di giornata lavorativa, orario di servizio, retribuzione, gestione ex-Inpdap, ferie, aspettativa retribuita, ecc.; ma neppure ricevono un trattamento economico adeguato al decoro di un libero professionista operatore del diritto”, sottolinea Orrù. Per accedere al concorso però si presenta quella che il presidente di Fedemot bolla senza mezzi termini come “truffa”. “Qui si chiede la rinuncia alla richiesta dei danni patiti per oltre un ventennio. Un’estorsione: insomma per rimanere come siamo messi oggi, cioè malissimo, mi obblighi a fare un concorso ed io con la semplice presentazione di una domanda automaticamente rinuncio a ogni richiesta risarcimento. La situazione oltre che rilievi di incostituzionalità presenta anche quelli di immoralità: conosco magistrati che vanno alle udienze sotto chemioterapia. Perché non possono fare altrimenti”. Un po’ come è successo a Sonia Rita Caglio del Foro di Monza, giudice onorario presso il tribunale di Bologna. Una vita per la giustizia, la sua storia ricostruita nelle parole di Andrea Giberti, giudice onorario di Modena: “Sonia, il lunedì prendeva il treno da Arcore, cambiava a Milano e, puntuale alle nove iniziava la sua affollatissima udienza nella Sala delle Colonne. Penso che non ci sia situazione processuale peggiore delle convalide di sfratto. Il giudice si trova di fronte a un’umanità dolente. Sonia era esposta a queste scene ogni settimana, ma era un giudice pietoso e sempre aveva a cuore il sollievo di chi aveva davanti a sé. È morta per un tumore cerebrale fulminante. Quel giorno era venuta a Bologna a fare il suo dovere. Non è riuscita a portare a termine l’udienza perché stava male. Ha ripreso il treno per la Lombardia mancando la sua fermata e finì alla stazione centrale di Milano. Suo marito corse a prenderla. Pochi giorni dopo è morta”. Curarsi o guadagnare è una questione declinata da tempo in ogni forma, ma nella magistratura onoraria è una declinazione che dura da vent’anni: “C’è uno scoramento inumano”, si sfoga Giberti: “Nessuno si aspetta una mano, una carezza o un grazie ma non si può umiliare così la gente. La storia di Sonia dimostra come siamo trattati. Come asinelli”. Un pericolo anche l’indipendenza della magistratura: “Così alla gente togli la speranza, si lascia andare e nella migliore delle ipotesi se ne frega, nella minore ti viene un blocco mentale. Un affaticamento”. La magistratura onoraria ciclicamente denuncia con scioperi, lunghi anche sette giorni, un Paese che da più di venti anni ignora un principio logico: è necessario tutelare prima la salute dei garanti della giustizia, in modo tale che sia possibile svolgere, vivi e sani, il lavoro con efficienza e profitto. Eppure, spesso, per chi rende visibile questa richiesta emerge il ricatto. “Chi si lamenta rischia il posto”, racconta Antonio P., giudice onorario con disabilità: “Avrei diritto a una settimana al mese di 104 per le cure. Il condizionale è d’obbligo perché da magistrato onorario non ho un rapporto di lavoro regolamentato e non posso usufruire dei permessi. Certo, potrei fare causa. Ma non affronti le cause in queste condizioni: il rischio è economico ma anche personale. Noi siamo macchine. Nessuno è indispensabile. Ci hanno massacrato in tutti i modi”. Quindi meglio continuare a testa bassa. Prendere o lasciare. Se non accetti tu lo farà qualcun altro. Ogni giorno Antonio arriva in tribunale percorrendo una strada diversa da quella dei suoi colleghi. Impossibile entrare in Aula dalla Camera di consiglio, dalla quale si accede solo da una scala. Con la carrozzina entra dall’ingresso adibito al pubblico, poi per raggiungere la sua postazione, cioè la scrivania del giudice che siede ad un livello superiore rispetto alle parti e al pubblico, in una pedana rialzata, si fa issare dall’accompagnatore e una volta arrivato dietro al grande banco di legno, non riesce a raggiungerlo. La carrozzina fa da barriera tra lui e il banco: “Così per tutto il tempo mi devo tenere i fascicoli in braccio. Ho chiesto delle modifiche. Basterebbe una pedana. Ma non sono un togato. Mi hanno risposto: faccia pure le modifiche che vuole ma non chieda soldi”. Fuori dalle sigle, la questione dei magistrati onorari è ben visibile dai giuristi che denunciano “un abuso” di una figura che per anni ha fatto muovere la macchina della giustizia: “Ferma restando la complessità di stabilizzare certe figure, bisogna considerare che sulle spalle delle varie tipologie di giudici onorari si gioca il funzionamento di molti uffici giudiziari italiani da almeno vent’anni”, spiega Silvia Izzo, professoressa associata di Diritto processuale civile all’università di Cagliari: “A poco a poco la figura del magistrato onorario è stata inserita a tutti i livelli, anche in corte di Appello. Figure che non sono incardinate e che lavorano per lo più a cottimo, cioè per numero di sentenze pronunciate. Il risparmio in termini di costi che ricava la giustizia su queste figure è palese. Sono state istituite per far fronte a esigenze contingenti e poi possiamo dire che ne è stato fatto un abuso”. Resta, in filigrana, la questione del Pnrr nazionale. L’Italia ha infatti proposto un progetto che interviene in alcune materie strategiche per il rilancio dell’economia italiana, tra queste la giustizia fortemente minata dai precari della magistratura. Sarà compito del governo sbrogliare la matassa. “Ma quelli hanno il trapano in mano e le cuffie alle orecchie”, sospira Antonio: “Qui non ci sente mai nessuno”. Gemma Calabresi: “Volevo uccidere gli assassini di Luigi, Dio ha fermato la mia vendetta” di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 27 febbraio 2022 “E ho perdonato”. Gemma Calabresi Milite, la vedova del commissario Luigi Calabresi, si racconta in un libro a 50 anni dall’omicidio: sono stata arrabbiata con lui perché mi lasciò sola. Per i suoi killer ho sempre pregato. Signora Gemma, quando vide per la prima volta suo marito Luigi Calabresi? “Era il Capodanno del 1968, non avevo ancora ventidue anni. I miei erano a Courmayeur, io ero da sola a Milano e non avevo niente da fare. La mia amica Maura insistette perché la accompagnassi a una festa. Lo vidi subito, all’ingresso, e dissi alla mia amica Maura: “Guarda quello, mica male…”. Com’era? “Elegante: doppiopetto scuro, con un righino leggero bianco. Ci ha sempre tenuto molto. Alto, prestante: un bell’uomo. Per tutta la sera ballò solo con me. Poi andai in cucina a bere un bicchiere d’acqua. Lui mi tolse il bicchiere, lo posò, e mi diede un bacio”. E lei? “Io avevo avuto qualche piccolo flirt, ma non mi era mai successo nulla del genere. Amore a prima vista. Mi chiese il numero di telefono. Risposi veloce: “4042334, e non te lo ripeto”. Il giorno dopo Gigi mi chiamò. L’aveva tenuto a mente”. Sulla copertina del suo libro “La crepa e la luce” c’è la foto del vostro matrimonio. “Ci sposammo il 31 maggio 1969, la prima data in cui il nostro parroco, don Sandro, aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta, e ora so perché”. Perché? “Perché avevamo poco tempo. E tutto nella vita ha un tempo, e un senso. Siamo parte di un disegno. Volevamo molti figli, ed era giusto così, perché ognuno di loro ha un compito, ognuno ha da fare cose importanti per se stesso, per Dio, per gli altri. I miei figli sono il dono più bello”. Mario si chiama come il nonno materno, suo padre... “Misi la condizione di non chiamare il secondo Paride, come il papà di Gigi. Infatti il secondo si chiama Paolo, come il suo migliore amico. Ma quando annunciai ai miei che aspettavo il terzo figlio, mio padre reagì male. Chiese: era proprio il caso?, e si mise a piangere. Mi sembrò fragile. Invece aveva capito tutto”. Piazza Fontana. La morte di Pinelli. Suo marito gli aveva mai parlato di lui? “Sì. Si conoscevano bene, si regalavano libri a Natale. Commentavano i fatti, discutevano. Gigi si fermava sempre a parlare con i ragazzi fermati dopo i cortei, anche se il suo capo, Allegra, lo rimproverava. Voleva capire perché gettavano le molotov, perché si armavano. Dopo la sua morte ho ricevuto molte lettere di genitori e anche di giovani che volevano ringraziarlo per questo. Di recente al Miart di Milano ho incontrato uno scultore, un mio coetaneo, che mi ha detto: “Suo marito mi ha salvato, altrimenti avrei preso il mitra”. Era un ragazzo arrivato a Milano dal Sud, figlio di poliziotti, tentato dalla lotta armata…”. Cosa le disse suo marito della morte di Pinelli? “Quello che gli raccontarono i suoi colleghi: che era caduto. Lui non era nella stanza. Dalla morte di Pinelli era distrutto. Quella notte non chiudemmo occhio. Quella, e tante altre notti”. Cominciò la campagna contro di lui... “Trovavo le scritte sui muri vicino a casa, nella discesa verso la metro: “Calabresi assassino”, “Calabresi sarai giustiziato”, “Calabresi farai la fine di Pinelli”. Gigi una volta mi chiese: se dovessi restare sola, ti risposeresti? Risposi di no, e fu contento. Era un gelosone… Cercava di proteggermi”. Come? “Faceva sparire le lettere minatorie, i giornali in cui si parlava di lui. Mi diede delle regole: mai dare il nome Calabresi, neanche dal parrucchiere. Le poche volte che andavamo al ristorante, sempre un tavolo appartato. Le poche volte che andavamo al cinema, entrare a film iniziato e uscire qualche minuto prima. Fare attenzione se qualcuno mi seguiva, o mi aspettava per strada. Lui però non ha fatto attenzione, non si è accorto di Bompressi e Marino che lo aspettavano…”. Non aveva paura? “Sì, ne aveva. Una sera in casa sentimmo un botto di là, lui chiese al suo amico Paolo: mi accompagni a vedere? Temeva stessero sparando dalle finestre. Invece si era rotta la lavatrice”. Però non portava la pistola... “La teneva smontata, in un cassetto, tra i maglioni. Diceva che tanto l’avrebbero colpito alle spalle. Un giorno ebbi un presentimento. Davanti alla farmacia di corso Vercelli mi dissi: sarai vedova. Scoppiai a piangere. Poi mi scossi: sei scema? Quando Gigi tornò a casa, tardi come sempre, pensai: lo vedi? È arrivato, tutto bene. Era un venerdì. Lo uccisero il mercoledì dopo”. Lei teneva un diario... “Un po’ per polemica verso mio marito: “Gigi rientra tardi”, “Gigi passa a salutare poi torna in questura…”. Mai avrei immaginato che sarebbe servito al processo, per confermare il racconto di Marino. Avrebbero dovuto ucciderlo il giorno prima, ma rinunciarono perché non avevano visto la macchina sotto casa. In effetti la sera del 15 maggio io annoto nel diario: “Gigi torna presto!!!”. Aveva trovato posto in cortile, la 500 blu non era parcheggiata per strada come al solito. Guadagnò un giorno di vita”. Come ricorda il 17 maggio 1972? “Era uscito, poi era tornato indietro per cambiarsi la cravatta. Ci ha sempre tenuto molto. Quella mattina aveva pantaloni grigi, giacca scura con i bottoni di madreperla, e una cravatta di seta rosa. La cambiò con una bianca e mi chiese: come sto? Stai bene Gigi ma stavi bene anche prima, gli risposi”. E lui? “Sì, ma questo è il segno della mia purezza. È l’ultima frase che mi ha detto. La frase che mi ha lasciato”. Chi la avvisò della sua morte? “Era il primo giorno di lavoro per la nuova signora delle pulizie. Arrivò in ritardo, trafelata: “Mi scusi, hanno sparato a un commissario…”. Mio marito è un commissario, risposi. Lei fu prontissima: “Cos’ha capito, hanno sparato a un commissario in piazzale Baracca, hanno fermato il tram e sono dovuta venire a piedi…”. Quella donna aveva compreso, era stata velocissima a inventarsi una frottola, cui io fui felice di credere. Non l’ho mai rivista. Ho ripensato molte volte a lei. Ha attraversato la mia vita nel giorno più drammatico, si è presa cura dei bambini, e non l’ho neppure pagata…”. Da chi seppe? “Telefonai in questura; non rispondevano. Insistetti; attaccarono il telefono. Chiamai dal telefono della vicina, risposero: non è ancora arrivato. Poi suonò alla porta un sarto nostro amico, il signor Federico. Per anni mio figlio Mario ha avuto paura del signor Federico, anche se lui gli portava bellissimi regali…”. Cosa le disse il signor Federico? “Niente. Mi guardava pallido, impietrito. Io lanciai un urlo: “Noooooo!”. Poi feci un gesto come per indicare i soprammobili, i libri, le cose comprate nel viaggio di nozze, come a dire: tutto questo non avrà più senso. Il signor Federico tentò di abbracciarmi, ma io non volevo essere abbracciata, così cominciai a girare, e Mario aggrappato alla mia gonna girava con me, e con suo fratello che era ancora nella mia pancia. L’ho chiamato Luigi, come il padre”. Non morì subito. “Il signor Federico disse che lo stavano operando, il vicequestore che era ferito alla spalla, un collega diede un’altra versione. Arrivò don Sandro, il prete che ci aveva sposati, e mi accompagnò dai miei. Fu don Sandro a dirmi: è morto. Lo disse senza emettere suoni, solo con i muscoli della bocca. Me lo ricordo sempre quel volto che dice: è morto”. E lei? “Mi accasciai sul divano. Mi sentivo distrutta, svuotata, abbandonata. Un dolore lacerante, anche fisico. Non so quanto tempo sono stata lì, con le mani nelle mani di don Sandro. So che a un certo momento Dio è arrivato”. Dio? “Dio era lì con me, su quel divano. Ne sono assolutamente certa. Ho sentito una pace profonda. Tutto, le persone che parlavano piangevano gridavano, tutto era ovattato, distante”. Lei aveva già fede? “Avevo avuto un’educazione religiosa come quasi tutti gli italiani, andavo in chiesa la domenica con Gigi, ma non ero particolarmente religiosa. Il dono della fede arrivò allora. Proposi a don Sandro: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. Ma non era roba mia. Io ero una ragazza di venticinque anni cui avevano appena ammazzato il marito. Era Dio che mi indicava la strada, che rendeva testimonianza attraverso di me. Lì ho capito che ce l’avremmo fatta, io e i bambini. Certo, sapevo che la vita non sarebbe più stata la stessa. Ma sentivo che non ero sola. Dio era già stato allertato, forse dai miei vicini di casa…”“. In che modo? “Il nostro appartamento dava sull’interno; per questo non ho sentito gli spari, né ho visto il corpo. Ma i miei vicini hanno sentito, hanno visto. E per primi hanno pregato per lui. Così Dio è venuto da me”. E lei andò all’obitorio. “Accarezzai il viso di Gigi, e ritrassi la mano: era già freddo. Gli accarezzai i capelli, ma erano rigidi, forse impregnati di sangue; ma io volevo ricordarmi i suoi capelli morbidi, lunghi, almeno per un poliziotto… E poi sì, l’avevano colpito alle spalle”. Cosa accadde fuori dall’obitorio? “C’erano dei ragazzi che inveivano contro mio marito, che gridavano insulti e slogan. Mio fratello Dino ebbe un gesto gentile: mi tappò forte le orecchie, così non sentii nulla, solo il battito accelerato del cuore. Ora, io vorrei dire a quei ragazzi, cinquant’anni dopo, che hanno fatto una cosa terribile. Puoi anche essere contento in cuor tuo che abbiano ucciso il commissario Calabresi; ma non puoi urlarlo in faccia alla vedova, che poi era una ragazza poco più grande di loro. La morte esige silenzio”. Dei funerali cosa ricorda? “La bandiera sulla bara. Volevano toglierla prima di seppellirlo, dicevano che andava restituita. Qualcuno dalla folla gridò: “Deve riposare con il tricolore!”. Così glielo lasciarono. È un pensiero che mi conforta”. Lei ebbe segni di ostilità, ma anche di solidarietà... “Ogni giorno arrivava un pacco con un regalo per i bambini. Un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina per Luigi che doveva ancora nascere. Ma siccome all’obitorio indossavo un cappottino rosso, la prima cosa che avevo trovato per coprirmi in un maggio ancora freddo, dalla Sicilia mi scrissero: “Svergognata!”. Una coppia di amici di Gigi mi mandò una lettera di due pagine. Nella prima c’erano frasi di circostanza, che finivano con un “d’altronde”. Nella seconda pagina era scritto: “Chi la fa l’aspetti”. Mi sono sempre chiesta perché. Perché volessero ferirmi come se fossi la moglie di un assassino”. Nel necrologio lei scrisse le parole di Gesù in croce: “Perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. “Il cardinale di Milano Colombo disse che quelle parole erano un fiore che sarebbe fiorito nel tempo. E così è stato. Ma ci ho messo tutta la vita a perdonare. All’inizio volevo, al contrario, vendicarmi”. Vendicarsi come? “L’unico momento di pace nella giornata erano i dieci minuti tra quando prendevo il Tavor e quando mi addormentavo, nel lettone accanto a mia madre, che papà mi aveva ceduto: ero tornata a vivere dai miei. In quei dieci minuti immaginavo di mettermi una parrucca rossa e infiltrarmi nei circoli dell’estrema sinistra, fino a quando non avrei trovato qualcuno che si vantava di aver ammazzato Calabresi. A quel punto avrei tirato fuori dalla borsetta la pistola. E gli avrei sparato. Se ripenso a quella ragazza e alla sua rabbia provo tenerezza. La cosa più importante della mia vita è stata questo cammino della pacificazione e del perdono, durato cinquant’anni”. Andava a trovarlo al cimitero? “Tutte le settimane. Io gli parlavo, mentre Mario, Paolo e Luigi giocavano con gli altri bambini”. Quali altri bambini? “Il loculo di Gigi era accanto alle tombe dei bambini, dove c’erano le macchinine e gli altri giocattoli lasciati dai genitori. Nel libro scrivo che i miei figli avevano il permesso di giocarci, a patto di rimettere tutto a posto. Quando Mario ha letto le bozze, mi ha fatto notare che invece avevano il permesso di portare a casa le macchinine, purché le sostituissero con altre. Idealmente si scambiavano i giocattoli con quei bambini che non c’erano più”. Signora Gemma, è una cosa straziante. “Soffrivamo tutti, però Gigi era con noi. L’ho sempre fatto sentire vivo. Pettinavo i bambini come lui, con la riga: adesso ci pettiniamo come papà, dicevo. Preparavo gli involtini che gli piacevano tanto, dicevo: papà li avrebbe mangiati tutti, e loro facevano a gara a finirli. Qualche volta ho fatto sentire la voce del padre, registrata sul magnetofono Geloso; poi ho smesso, perché li intristiva. A Mario avevo detto: papà è andato a prepararci una casa dove vivere tutti insieme. Lui ogni sera mi chiedeva: ma quando è pronta questa casa? Era un bambino un po’ triste. Ma dal papà, come i fratelli, ha preso una certa spavalderia. Raccontavo loro i suoi scherzi…”. Quali scherzi? “Anche feroci. In questura c’era un collega dongiovanni, che cambiava una fidanzata dopo l’altra. Gigi fece stampare false partecipazioni in cui annunciava il suo matrimonio: i colleghi si congratulavano, gli facevano i regali, e quello non si capacitava…”. Lei non aveva ancora trent’anni. Non aveva amici? “Amici e niente più. Qualche volta uscivo, ma al ritorno i miei mi dicevano che uno dei bambini si era svegliato, e mi sentivo in colpa”. Poi, nella scuola dove insegnava religione, incontrò il suo secondo marito, Tonino Milite... “Quando scoprì che avevo tre figli, disse: sarà dura dividere la michetta in cinque… Non ci eravamo ancora sfiorati. Poi abbiamo avuto un altro figlio, Uber. Dal latino: ubertoso, fertile, felice”. Tonino Milite era un pittore comunista... “I miei, democristiani, non ne erano contenti. Poi capirono. Paolo e Luigi cominciarono a chiamarlo papi. Mario invece per anni l’ha chiamato per nome”. Cosa votava il commissario Calabresi? “All’inizio Dc, poi socialdemocratico. E io pure, perché lo seguivo”. Nel 1988 finirono in carcere per il suo assassinio gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani. “Dicevo che avrei dato dieci anni di vita in cambio della verità. Me ne hanno portati via undici. I processi furono il mio calvario”. I giornali erano quasi tutti innocentisti. “È vero. Però nessuno ha mai scritto una riga contro di noi. Ai figli avevo detto: riabiliteremo papà con il nostro comportamento e con il nostro amore. Saremo come lui ci voleva. Dovranno riconoscere: una persona che ha avuto una moglie e dei figli così non può aver ammazzato qualcuno, non può aver gettato un altro uomo dalla finestra”. Ha mai pensato che gli accusati potessero essere innocenti? “Ho anche detto: noi rispetteremo le sentenze, e non le commenteremo. Quando ci fu la prima condanna, piansi al pensiero della figlia di Bompressi, una bella ragazza dai capelli rossi, che avevo visto più volte. Ho perdonato tutti, anche se all’inizio in aula mi imponevo di fare la faccia dura, cattiva. E per tutti ho sempre pregato, a volte chiamandoli per nome, a volte pensando genericamente ai tanti che avevano inveito, che avevano firmato”. Il manifesto contro il “commissario torturatore” fu firmato dai più importanti intellettuali italiani. “Alcuni, da Paolo Mieli a Eugenio Scalfari, hanno chiesto scusa. Altri, come Fulco Pratesi, mi hanno assicurato che non sapevano niente: erano iscritti a gruppi che aderivano e davano i nomi dei soci. Altri ancora, quando li ho incontrati, non mi hanno vista, o hanno fatto finta di non vedermi. Ma ora sono in pace con tutti”. Però i condannati non le hanno chiesto perdono… “Questo per me non ha alcuna importanza. Il perdono non si chiede, si dà. È il frutto del cammino iniziato su quel divano, da quel necrologio. Non è stato un percorso facile. A volte bastava una frase, un articolo, per farmi tornare indietro. E comunque Marino il perdono l’ha chiesto”. Chiese anche di incontrarla, ma lei all’inizio rispose di no… “C’era un processo in corso. Lo scorso anno però ci siamo visti. Lui cercò di minimizzare: “Io ho solo guidato la macchina, e per guidarla c’era la fila…”. Gli risposi che sapeva dove andava quella macchina, e che per me tutti erano responsabili allo stesso modo. Forse sono stata troppo severa. Certo, apprezzavo la sua confessione, il suo pentimento. E siccome l’avevano fatto sentire un traditore, alla fine gli ho detto: chi dice la verità non tradisce mai”. Suo figlio Mario ha incontrato Pietrostefani… “Pietrostefani era il più duro, il più impenetrabile. Ma alla fine Dio è andato anche da lui”. Se ne attende l’estradizione… “Saperlo in carcere non mi darebbe alcuna gioia. Me ne darebbe invece sentire parole di verità. All’inizio vedevo in loro soltanto degli assassini, ma ho capito presto che erano stati anche altro. Buoni padri, ad esempio. Persone che avevano fatto volontariato. Che avevano fatto anche del bene”. Con Sofri ha mai parlato? “No”. Sogna ancora suo marito Luigi? “A lungo non l’ho sognato. Poi ho cominciato a fare due sogni, sempre gli stessi. Nel primo corriamo insieme per mano, ma lui resta indietro, e muore. Nel secondo andiamo al ristorante, c’è un’esplosione, io esco ma lui resta, e c’è una seconda esplosione. Prima quei sogni mi angosciavano. Poi mi ha fatto piacere rivedere il suo volto. Noi siamo invecchiati, lui invece è sempre giovane”. A Luigi non sarà dispiaciuto che lei si sia risposata? “No! Lui è lassù, è felice, ha una visione ben più ampia della nostra. Sono io che in passato sono stata arrabbiata con lui, che mi aveva lasciata sola…”. È certa di rivederlo? “Tutti rivedremo le persone care. Ne sono sicura da quando Dio venne a trovarmi, seduta su quel divano”. Qualcuno vorrebbe farlo santo. “Ma no! Era un poliziotto che amava il suo lavoro, e ne conosceva i rischi. Era una brava persona, ma una persona normale. Come ha detto nostro figlio Luigi: ci manca solo che lo facciano santo, e me lo portino via del tutto”. Lei ha incontrato la vedova Pinelli, grazie a Napolitano. “Per decenni hanno tentato di contrapporci, di presentarci come nemiche. Invece eravamo solo due donne che si erano ritrovate vedove, lei con due figlie. Quando sono arrivata al Quirinale era già là, seduta. Ci siamo date la mano. Poi si è alzata e ci siamo abbracciate. Io ho detto: finalmente. Licia ha risposto: peccato non averlo fatto prima”. Lei chiude il libro dicendo che senza quella tragedia oggi sarebbe una persona peggiore. Perché? “Perché ho avuto tanto dolore ma anche tanti incontri, tanto affetto, tanto amore, tanta solidarietà, tanta gente che ha pregato per me. Ho scoperto che la cosa più importante della vita sono gli altri. Ho fatto un percorso inverso a quello dei terroristi. Loro disumanizzavano le vittime, illudendosi di uccidere dei simboli. Io li ho umanizzati, arrivando a capire che c’erano vittime anche tra loro”. Antigone e Regione Puglia si confrontano per discutere di salute e carcere leccesette.it, 27 febbraio 2022 Tavolo tecnico sul tema della salute in carcere, che mette al centro dell’agenda politica regionale i principi sanciti dall’art 32 della Costituzione. Si è tenuto giovedì scorso presso la Sala Guaccero della Presidenza del Consiglio regionale della Puglia il tavolo tecnico - durato circa tre ore - sul tema della salute in carcere. Un tavolo chiesto da Associazione Antigone Puglia alla Regione Puglia e voluto dalla Presidente Loredana Capone. È la prima volta che in Puglia si costruisce un tavolo tecnico sul tema della salute in carcere che mette al centro dell’agenda politica regionale uno dei temi fondamentali sanciti dall’art 32 della Costituzione. Insieme a tutti i Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza della Puglia, al Provveditore regionale del Dap, ai direttori delle carceri, ai dirigenti sanitari della Asl, al Garante delle persone detenute Piero Rossi si è chiesto alla politica e al neo assessore alla sanità Dottor Rocco Palese, di occuparsi della salute fisica e psichica delle oltre 4.000 persone che affollano le galere della Puglia. “Antigone Puglia - ha affermato la presidente Maria Pia Scarciglia, presente alla riunione insieme all’avvocato Alessandro Stomeo, socio di Antigone Puglia - è riuscita a mettere attorno al tavolo tutti i principali attori del sistemazione penitenziario che si sono finalmente parlati dopo anni, in particolare per affrontare il tema della salute in carcere e non solo. Abbiamo chiesto alla politica e ai vertici regionali della Asl di fare la loro parte ponendo al centro delle priorità: telemedicina, servizi psichiatrici, investimento su risorse umane e prevenzione del rischio suicidario”. “La sfida - continua la presidente di Antigone Puglia - non è soltanto combattere la pandemia ma investire sul personale, formare ed incentivare i giovani medici, sulla tecnologia e sulla rigenerazione dei luoghi detentivi. Noi continueremo a fare ciò che da trent’anni sappiamo fare osservando e monitorando il carcere attraverso proposte capaci di trasformare il carcere in un luogo dignitoso e degno di un paese civile che ripudia la violenza”. Terni. Accorciare le distanze tra carcere e società, via al progetto “Pane e pizza” umbria24.it, 27 febbraio 2022 In capo l’associazione Demetra e Arciragazzi: eventi di sensibilizzazione nelle piazze e formazione per 14 detenuti. Due azioni sinergiche che accorcino le distanze tra carcere e società civile. È questo l’obiettivo del progetto ‘Pane e pizza’ promosso dall’associazione Demetra e dall’associazione Arciragazzi ‘Gli anni in tasca’: “Un’opportunità di riscatto e inclusione sociale nonché lavorativa”. ‘Pane e pizza’ L’iniziativa, in collaborazione con la Casa circondariale di Terni, l’ufficio di Esecuzione Penale esterna di Terni e la società cooperativa sociale Helios, con il contributo della fondazione Carit, si svolgerà nell’arco di un anno. Da una parte, si propone infatti di formare professionalmente un team di 14 detenuti i quali, a fianco di una pasticcera professionista e di due tutor, prepareranno prodotti da forno utilizzando i macchinari già presenti all’interno del carcere. Dall’altra, si propone invece di organizzare nelle piazze, grazie all’aiuto di 20 persone in misura di messa alla prova e lavori di pubblica utilità, eventi di sensibilizzazione che, allo stesso tempo, facciano conoscere il prodotto sfornato. “Il nostro vuole essere un prodotto competitivo a tutti gli effetti - dicono i due coordinatori Caterina Moroni e Marco Coppoli - per questo prevediamo anche ricerche di mercato a regola d’arte e laboratori di comunicazione e marketing nei quali coinvolgere i detenuti”. Concreta partecipazione attiva, quindi, nella costruzione di un business che possa durare anche dopo la fine del progetto e dare, attraverso il lavoro, una possibilità di reintegrazione. Palermo. Il progetto che porta l’arte nelle carceri arte.sky.it, 27 febbraio 2022 Cinque artiste italiane, dottorandi ed esponenti del mondo accademico internazionale lavoreranno con i detenuti degli istituti penitenziari di Palermo per il progetto “GAP - Graffiti Art in Prison”. Un percorso all’insegna dell’inclusività sociale e del valore educativo dell’arte. A partire dal mese di maggio l’arte entrerà nelle carceri di Palermo con il progetto triennale e multidisciplinare GAP - Graffiti Art in Prison, che vedrà coinvolti, oltre ai detenuti, cinque artiste italiane ed esponenti internazionali del mondo accademico. Il progetto, organizzato dal Simua - Sistema Museale dell’Università degli Studi di Palermo, con il patrocinio del Ministero della Giustizia e del DAP - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, si svolgerà in collaborazione con tre strutture penitenziarie palermitane: la Casa di Reclusione Ucciardone, la Casa Circondariale Pagliarelli e l’Istituto Minorile Malaspina. Protagonista dell’iniziativa sarà anche Sky Arte, che racconterà l’intera rassegna con il film-documentario girato da Chiara Agnello. Coordinato da Gabriella Cianciolo, Laura Barreca e Gemma La Sita, il progetto GAP sperimenta un modello di ricerca e collaborazione interdisciplinare tra il mondo dell’arte, quello accademico e il contesto penitenziario. Intento del progetto è riqualificare, proprio attraverso i linguaggi delle arti contemporanee, le vite dei detenuti all’interno delle carceri, sperimentando e percorrendo nuove forme di inclusione e socialità, e utilizzando il patrimonio artistico e culturale come valore educativo. “Il progetto internazionale si basa sul valore dell’inclusione”, spiega Laura Barreca. “Attraverso processi di partecipazione attiva, sperimenta modalità di relazione e apprendimento ‘empatico’ tra soggetti diversi, senza distinzioni di provenienza. L’obiettivo è avvicinare ambiti sociali solo apparentemente distanti, come quello dell’alta formazione universitaria con il delicato contesto delle carceri, a cui è rivolta tutta la nostra attenzione”. Il team di artiste invitate a partecipare al progetto, con la collaborazione dell’Associazione Acrobazie di Palermo, saranno Matilde Cassani, Stefania Galegati, Elisa Giardina Papa (nell’immagine in apertura), Giovanna Silva e la regista Chiara Agnelli - che seguirà il corso dei lavori raccontandoli all’interno di una pellicola riassuntiva dell’intera esperienza. Si tratta di artiste esponenti di ambiti disciplinari differenti quali video, fotografia, design e installazioni. I risultati, frutto dei vari incontri nei penitenziari, saranno presentati in un progetto espositivo all’Università di Palermo nel 2023. Sciascia e la giustizia, la sconfitta della ragione ansa.it, 27 febbraio 2022 Un saggio di Amodio e Catalano pubblicato da Sellerio. Molte opere di Leonardo Sciascia pongono la questione giustizia al centro della riflessione. La vocazione dello scrittore è quella di scavare nei casi giudiziari più controversi per comprendere perché mai la ragione finisca per essere sopraffatta dall’arbitrio. Questo itinerario letterario, ma anche civile di Sciascia sul tema della giustizia “tradita” è ora ripercorso da Ennio Amodio e Elena Maria Catalano nel saggio “La sconfitta della ragione” edito da Sellerio. I due autori sono docenti universitari di procedura penale, quindi propongono un’analisi delle posizioni di Sciascia, spesso accompagnate dalle polemiche, con l’ottica dei professionisti del diritto. E ne condividono soprattutto il “rifiuto del misticismo giudiziario”. Lo scrittore, sostiene nella prefazione Gianni Puglisi, ha scelto una dimensione critico-logica, “si ispira ai valori della libertà individuale e sociale” e non soggiace ad “alcuna prevaricazione politica e sociale”. È forte nelle sue opere il richiamo dell’illuminismo che, secondo Amodio e Catalano, punta alla radicale riforma della giustizia, alla denuncia della fragilità del percorso indiziario, alle distorsioni della macchina della giustizia, alla riscoperta dei diritti dell’uomo e quindi al primato della ragione. Questa visione della giustizia emerge sia dai suoi romanzi polizieschi - Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il contesto - così diversi dal genere del giallo classico e così orientati a valorizzare il ruolo dei funzionari minori fedeli alle istituzioni e alle leggi ma destinati alla sconfitta perché schiacciati dalle trame del potere. È proprio quello che accade al giudice di Porte aperte e al capitalo Bellodi del Giorno della civetta. Grande era anche la diffidenza di Sciascia sia verso lo spettro dell’errore giudiziario sia verso i “professionisti dell’antimafia”, l’ultimo caso su cui la preoccupazione dello scrittore per la formazione di un nuovo sistema di potere gli attirò le polemiche più aspre. Eppure, osservano Amodio e Catalano, il suo era un “illuminismo ben temperato” che con lo strumento della critica cercava di sfuggire al rischio della spettacolarizzazione della giustizia e della deriva dell’ingiustizia. Referendum, delusi ma non vinti di Carmine Fotia L’Espresso, 27 febbraio 2022 Beppino Englaro: “Si va avanti, solo la politica è rimasta ferma sull’eutanasia”. Disobbedienza civile per liberalizzare la cannabis. Il presidente della Corte Costituzionale; Giuliano Amato, li ha pubblicamente umiliati indicandoli come manipolatori, fabbricatori di quesiti farlocchi, attivisti del populismo digitale (i termini non erano questi ma la sostanza sì). Sono dunque tornato a sentire le donne e gli uomini, per lo più giovani, che hanno raccolto le firme per i referendum bocciati, che affidano a L’Espresso le loro risposte. Nel merito, la Corte ha bocciato il quesito sull’eutanasia affermando che avrebbe leso i più fragili e quello sulla cannabis perché avrebbe consentito la produzione delle droghe pesanti. I promotori hanno replicato, per il primo, che non è vero perché il quesito manteneva le pene proprio nei casi citati dal presidente Amato; nel secondo che le altre sostanze contenute nella tabella delle droghe non possono essere consumate senza ulteriori passaggi, come invece avviene per la cannabis e che quindi non sarebbe stata liberalizzata alcuna altra produzione che non fosse la cannabis perché per passare dal papavero e dalle foglie di coca all’eroina e alla cocaina servono processi di raffinazione che la legge avrebbe continuato a punire. Non proseguo nei dettagli giuridici che ho riassunto brevemente, perché voglio capire soprattutto come hanno reagito gli attivisti per i diritti civili e cosa pensano di fare ora. “È stata una conferenza stampa sovietica nella forma e nella sostanza”, attacca Antonella Soldo del Comitato per la Cannabis legale: “Mentre infatti la bocciatura del quesito sull’eutanasia era stata comunicata con un testo scritto, nel caso di quello sulla cannabis e sugli altri non ammessi non c’è alcun testo scritto, ma una conferenza stampa nella quale, senza che i promotori abbiano potuto esprimere alcuna valutazione, si spiegano le ragioni del no, dicendo molte cose non vere, conducendo attacchi personali ai promotori, arrivando persino a delegittimare le firme digitali, nell’epoca in cui si fa tutto con lo Spid. E poi, sono stati bocciati gli unici referendum per i quali erano state raccolte quasi due milioni firme e che secondo i sondaggi fatti anche dopo la bocciatura della Corte avrebbero vinto e trascinato la partecipazione popolare fino al quorum. Ecco tutto questo per me ha un sapore sovietico”. Aggiunge Paola: “Quando diciamo questo non vogliamo affatto attaccare gli altri referendum, ma respingere le cose non vere che sono state dette sulla raccolta di firme. Per la prima volta si sono mobilitati anche 3mila avvocati, abbiamo fornito la massima informazione sui quesiti e possiamo assicurare che nessuna firma è stata data e raccolta con superficialità”. Immaginiamo che al liberal-socialista Giuliano Amato, della cui profonda cultura democratica nessuno può dubitare, una tale accusa debba bruciare più di tante altre. E tuttavia, le decisioni della Corte appaiono come la normalizzazione di un vasto movimento popolare ma non populista, che si propone di affrontare il ritorno alla vita democratica dopo le sofferenze e le oggettive restrizioni delle libertà inferte dalla pandemia, aprendo una grande stagione dei diritti civili. Come si sono sentiti gli attivisti dopo l’attacco del presidente delle Corte? Il movimento andrà avanti? Come? Sono queste le domande che abbiamo posto a un gruppo di 30/40enni, formato prevalentemente da donne, che avevamo già incontrato durante la raccolta delle firme. Dice Miriam: “Non ci siamo sentiti soli, c’è stata una grande reazione di indignazione popolare”. Aggiunge Virginia: “Ci hanno scritto in tanti che si pongono la nostra stessa domanda: come funziona la democrazia in Italia se a venire bocciati sono gli unici referendum su cui sono state raccolte le firme?”. Racconta Piera: “Non ho mai ricevuto tanti messaggi, neppure quando mi sono laureata e il senso era: non mollare. Ognuno di noi proseguirà portando qualcuno nel cuore”. “Io nel cuore porterò mia nonna, ammalata di cancro e scomparsa di recente, che raccolse le firme per il referendum sull’eutanasia nel suo circolo di Burraco. Lei diceva che Gesù è stato sulla croce poche ore e che Dio avrebbe capito”, racconta Antonia. “Ho raccolto la firma della mia catechista”, ricorda Paola, “Io quella di una suora”, interviene Jennifer. “Per l’eutanasia abbiamo raccolto le firme anche sui banchetti ma la modalità digitale ha consentito di firmare a tanti disabili”, aggiunge Matteo. Il nuovo movimento per i diritti civili non sembra intenzionato a fermarsi: “In questo momento sono a Bruxelles per organizzare un’iniziativa europea di partecipazione popolare per ottenere la non punibilità del consumo di droghe leggere”, afferma Virginia mentre Matteo annuncia “nuovi atti di disobbedienza civile di massa” sulla cannabis. Su Micromega, Beppino Englaro ha commentato così: “Nessuno arretrerà di un centimetro. La mole di firme raccolta dimostra che la società vuole sentirsi finalmente libera. Quando abbiamo iniziato la nostra battaglia per Eluana eravamo soli. Soli a rivendicare un diritto sacrosanto che mia figlia voleva esercitare, non noi genitori. Lei non aveva voce e quella voce gliel’abbiamo prestata. Oggi non è più così. La società civile ha preso in carico il tema, si è espressa in tutte le sedi possibili, con ogni tipo di manifestazione possibile. A non essere cresciuta, maturata, a essere rimasta ferma è solo la politica”. La politica, ha perfettamente ragione Englaro, è la grande assente. Soprattutto la politica della sinistra che tace o balbetta, mentre la destra è da sempre decisamente contro ogni estensione dei diritti. E non dovrebbe invece la sinistra immergersi in questa sorte di fiume carsico che interpreta in pieno il diritto a una morte dignitosa, a non dover subire l’indegnità del sistema carcerario per uno spinello? La sinistra cerca i giovani ma non sta mai dove vivono, lottano, si impegnano (come dimostra il fatto che il 70 per cento delle firme per la cannabis sono di under-35), al massimo li invita a qualche colto seminario. Per parlare di questo mi rivolgo a Gianfranco Spadaccia, storico leader radicale, compagno di lotta di Marco Pannella. Spadaccia ha scritto un libro davvero bello (“Il Partito Radicale, sessant’anni tra memoria e storia”, edito da Sellerio). Si legge anche come il romanzo di formazione di una giovane classe dirigente che, per la prima volta in Italia dopo il fallimento del partito d’azione, dà corpo e sostanza militante a una componente liberale della sinistra, che si pone come obiettivo non “l’unità delle forze laiche”, ovvero un centrismo conservatore, bensì “l’unità laica delle forze di sinistra” per l’alternativa alla Dc. Se l’obiettivo politico non fu mai raggiunto, attorno alla leadership carismatica di Marco Pannella e con tantissimi altri protagonisti, si aggrumò tuttavia un grandioso movimento per i diritti civili che investì tutta la sinistra, tanto i socialisti alleati spontanei, quanto i comunisti riluttanti. Dice Spadaccia: “Fu Paolo Mieli a dire che quello radicale fu l’unico caso italiano di liberalismo popolare e non elitario”. E aggiunge tagliente: “Un socialista che boccia i referendum? Sorvolo per carità di patria”. Come mai però, nessun partito di sinistra ha difeso i referendari? “A parte la galassia radicale, la sinistra italiana oggi è ben lontana da quegli anni. Il Psi fu nostro alleato naturale, ma anche il Pci di Longo fu aperto, molto più di quello di Berlinguer. Il Pd, erede dei post-comunisti e dei post-democristiani, è molto più indietro di quei partiti. Sembra che i diritti civili siano una sovrastruttura, mentre riguardano i fondamenti della democrazia. È grave che non capiscano che per sconfiggere quella che Marco Pannella chiamò la peste italiana, che oggi ha il volto del populismo e del nazionalismo, la partecipazione popolare che si esprime nei referendum e nelle lotte per i diritti civili è essenziale”. “Non potete fermare il vento, gli fate solo perdere tempo”, mi dice Antonia, giovane attivista pro-eutanasia legale dai capelli blu, citando i versi di Fabrizio De Andrè. I referendum e gli alibi sui temi etici: il Parlamento si nasconde da troppo tempo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 febbraio 2022 In Italia tante famiglie debbono, per aiutare i congiunti che soffrono, andare in Svizzera, visto che nel loro Paese i malati non possono disporre della propria vita. La politica non può più ignorare la richiesta d’aiuto di chi ogni giorno lotta per poter morire. “Ora posso disporre della mia vita, finalmente”. Lo ha detto Mario dopo aver avuto il via libera a schiacciare il bottone che gli inietterà il farmaco per morire. Suicida per mettere fine a un’esistenza che lui non ritiene di poter continuare. Al termine di una battaglia lunga e complicata durante la quale, tetraplegico per un incidente, ha affrontato con dolore rifiuti e umiliazioni, Mario può dirsi sollevato. Ma quanti sono i Mario in Italia? Quante sono le famiglie di Eluana che per dire basta debbono andare in Svizzera visto che nel loro Paese non possono disporre della propria vita? Tante, poche, a questo punto non ha importanza. Anche se riguardasse soltanto una persona, non si può più fare finta di nulla. Non è consentito ignorare la richiesta di aiuto e di assistenza che arriva da chi ogni giorno lotta per poter morire. Ecco perché quanto è accaduto alla Corte costituzionale richiama tutti a una riflessione che vada oltre i quesiti referendari. Perché è giusto e sacrosanto chiamare i cittadini a pronunciarsi attraverso i referendum, la consultazione popolare è la massima espressione della democrazia e come tale deve essere difesa e incoraggiata. Ma ci sono temi sui quali il Parlamento non può più nascondersi, argomenti rispetto ai quali deve essere messa da parte la propaganda decidendo di occuparsene in maniera rigorosa. E bisogna farlo al più presto. Da troppo tempo i temi etici diventano terreno di scontro tra i partiti e spesso all’interno degli stessi partiti. Nonostante la richiesta forte da parte dei cittadini, deputati e senatori si accapigliano arrivando talvolta a dimenticare quali siano le priorità. È accaduto recentemente con il disegno di legge Zan, accade ogni volta che si affrontano progetti di legge che interrogano le coscienze. E questo sembra ormai diventato l’alibi per non decidere, per rinviare scelte che invece appaiono urgenti. Alla fine anche sulla giustizia si è preferito portare avanti la campagna referendaria anziché intervenire su alcuni punti della legge che hanno dimostrato di essere fallaci o quantomeno inadeguati a risolvere i problemi. Negli ultimi anni abbiamo assistito alle guerre interne alla magistratura, a uno scontro sempre più violento tra toghe e politica, soprattutto per fermare la perdita di credibilità delle toghe e più in generale del sistema giudiziario. Adesso che la Corte costituzionale ha ritenuto ammissibili cinque quesiti, toccherà ai cittadini farlo, decidere perché il legislatore non è riuscito. Ed è proprio su questo che i politici dovrebbero interrogarsi, analizzando l’incapacità di correggere in maniera pacata e costruttiva alcune storture che inevitabilmente condizionano la vita del nostro Paese. I mesi che ci separano dalla fine della legislatura saranno segnati da un’uscita dall’emergenza causata dalla pandemia da Covid-19 che non sarà né semplice, né veloce. Molte sono le norme che dovranno essere approvate e alcune, ancora una volta, riguardano il quotidiano di ognuno di noi. Dai vaccini al green pass, dallo smart working alla riorganizzazione della vita dei ragazzi, l’Italia - segnata dalla crisi economica e dalla necessità di ottenere i fondi del Pnrr - dovrà ripartire. Ma questo non deve diventare la scusa per mettere da parte il resto, per lasciare indietro chi è più fragile. Deve essere invece la nuova sfida da vincere. I politici hanno l’occasione di dimostrare di essere all’altezza dei cittadini, delle loro aspettative. Sarebbe bello scoprire che hanno deciso di non sprecarla. “Mio figlio Dj Fabo è morto con il sorriso, ma cinque anni dopo nulla è cambiato” di Caterina Pasolini La Repubblica, 27 febbraio 2022 “Oggi sono cinque anni che mio figlio è morto in Svizzera, ma la legge in cui sperava, perché quelli come lui potessero smettere di soffrire nella loro casa, nel loro letto, con amici e famiglia accanto, ancora non c’è in questo Paese. Ancora oggi chi decide che la sua vita è una insopportabile sofferenza deve emigrare di nascosto come un ladro. Non solo, provo rabbia e vergogna all’idea che non abbiano lasciato votare il referendum sull’eutanasia. Ora siamo tutti un po’ più prigionieri”. Carmen Carollo parla con forza e commozione, il tempo non lenisce la ferita, l’assenza del suo ragazzo a cui parla, a cui racconta le lunghe giornate perché lo sente accanto, dentro di sé ogni ora. Carmen è la mamma di Fabiano Antoniani, dj Fabo, il disk jokey milanese, viaggiatore per il mondo che nel 2017, cieco e tetraplegico per un incidente, dopo anni di sofferenza morì grazie al suicidio assistito. Marco Cappato, dell’associazione Coscioni, che lo aveva accompagnato, si autodenunciò, rischiando 12 anni di carcere. Finì assolto grazie a una sentenza della Consulta che nel 2019 ha legittimato in alcuni casi il suicidio assistito e ha invitato il Parlamento a legiferare in materia. Cosa ricorda dell’ultimo giorno con suo figlio? “Il peggio è stata la partenza, portarlo in Svizzera, verso la fine che desiderava. Mentre lo avevo accanto in macchina pensavo al mio viaggio di ritorno, quando lui non sarebbe stato più con me. Qualcosa di impensabile. Come fa una madre a desiderare la morte del figlio, di un figlio che ho aspettato per dieci anni perché non restavo incinta? Eppure. Quando siamo arrivati, quattro amici gli hanno fatto una sorpresa, ed è stata una giornata di risate, dolce. Fabo era sereno, chiacchierone. Quando è stato il momento, dopo che il medico gli ha chiesto ancora una volta se era sicuro di volerlo, mi ha guardato, gli ho sorriso e gli ho detto per la prima volta: ‘La mamma vuole che tu vada’. Solo allora lui ha stretto i denti per azionare il macchinario. E, giuro, è morto sereno”. Prima era contraria a lasciarlo andare? “Era cieco, tetraplegico, ma per un po’ ha cercato di tirare avanti. Ha sperato anche nelle staminali, quando invece ha capito che non c’era più nulla da fare, mi ha chiesto: mi vuoi anche così? Io gli ho risposto sì. Sono una mamma, come potevo pensare di volere la sua morte? Solo dopo ho capito che ero egoista”. Cosa l’ha convinta? “Il suo perenne dolore tra mille contrazioni, io che sono contraria a tutte le droghe mi sono persino messa a coltivare la cannabis per fare delle gocce che gli dessero sollievo. Era terribile poi la continua umiliazione che vedevo sul suo volto. Non ne poteva più di sentirsi un oggetto in mani altrui, toccato in tutti i posti perché non poteva fare nulla da solo. Per lui non era vita, non era qualcosa degno di essere vissuto. Ma non gliel’ho mai detto per anni che avevo cambiato idea”. E quando Fabo ha chiesto di morire? “Valeria, la sua straordinaria compagna che gli ha sempre portato il sole, il mondo nella sua stanza, e che gli è stata vicino fino alla fine, ha contattato Cappato che ha spiegato a lui e a tutti noi le diverse possibilità. Fabiano ha scelto la Svizzera, il suicidio assistito, una morte immediata, non voleva morire poco a poco, costringerci a vederlo spegnersi in una lunga agonia”. Chi è per lei Marco Cappato? “Marco per me è come un figlio, gli voglio bene per il suo coraggio, per come si batte perché tutti siano liberi di scegliere, per come ha affrontato un processo, rischiato dodici anni di carcere, per come è stato vicino a noi fino alla fine e anche ora”. Cos’ha pensato dopo la sentenza della Consulta che autorizzava il suicido assistito? “Che Fabiano sarebbe stato felice, anzi era felice. Lui sarebbe stato contento dell’assoluzione di Cappato, delle cose che stavamo cambiando, per tutti. Avrebbe potuto morire segretamente rischiando meno, aveva invece voluto che la sua fine fosse pubblica per aiutare anche gli altri, quelli come lui. Per questo penso che ora sia incavolato, perché non hanno permesso il referendum”. Il referendum sull’eutanasia? “Sì, io provo rabbia, senso di ingiustizia. Non riescono a capire quello che non provano sulla loro pelle, non riescono a sentire il dolore di chi non ha vie d’uscita da sofferenze senza fine. Non pensano a quel milione e più di persone che ha firmato pensando ad amici genitori figli nel dolore?”. Cosa vorrebbe dire ai politici che stanno discutendo la legge? “Si mettano una mano sul cuore pensando a chi sta male. La vita è di chi la vive”. La guerra colpisce l’Ucraina ma la crisi umanitaria è già europea di Francesca De Benedetti Il Domani, 27 febbraio 2022 Mentre tanti europei e un certo numero di russi scendono in piazza per chiedere la pace, gli ucraini vivono la guerra: ci sono i 198 morti riferiti sabato mattina dal ministero della Salute ucraino, una cifra che non racconta però le storie dei bambini finiti dentro quel numero. Dalle cinque di pomeriggio alle otto di mattina, la capitale è sotto coprifuoco, ed è così che si sveglia. E poi ci sono le persone in fuga: già ora, almeno 120mila, la maggior parte verso la Polonia. Nel 2014, quando Vladimir Putin si è preso la Crimea, si è arrivati a quel numero dopo mesi, non in pochi giorni. Si fuggiva da una parte di paese all’altra, e dopo anni - a fine 2016 - gli sfollati interni erano quasi due milioni. Stavolta, con tutta l’Ucraina bersagliata dalla Russia, persino il lembo più vicino alla Polonia e quindi a ridosso di un territorio Ue e Nato, la prima previsione dell’Onu è che se la situazione si deteriora, come pare, ci saranno quattro milioni di persone in cerca di protezione in Europa. Ora un intero popolo è costretto alla fuga. Non c’è solo la guerra che uccide in Ucraina ma anche la crisi umanitaria che coinvolge tutta Europa, e che si preannuncia di proporzione vasta. Eppure l’occidente si muove con lentezza: fino a sabato, ancora si discuteva su quali paesi avessero ostacolato l’esclusione della Russia dal sistema di pagamenti Swift. E soltanto ora, la Germania ha dato segno di cambiare il suo approccio sul blocco delle armi destinate all’Ucraina. Volodymyr Zelensky, il presidente ucraino che ha rifiutato di andare in esilio, invita la popolazione a resistere e gira video col telefonino per mostrare che non abbandona Kiev. Prova a galvanizzare una popolazione che guarda attonita i missili cadere, e altrettanto fanno gli Stati Uniti: anche se “la maggior parte dei 150mila soldati russi sono già dentro il paese”, dice il Pentagono, “sono pure sempre più frustrati” dall’opposizione sul campo degli ucraini. Ma intanto la Russia ha esteso la sua offensiva, e a prescindere dai ritmi o dal raggiungimento dell’obiettivo cruciale, cioè la presa della capitale, l’esercito russo coi suoi missili e carrarmati terrorizza il paese da ogni lato. “Avanzate in tutte le direzioni”, è l’ordine del Cremlino. A sud ci sono battaglie in punti strategici, e Putin ha disposto carrarmati e jet. Il Donbass, a est, è stato il prodromo dell’invasione. A nord i bersagli non sono solo Kiev, o Chernobyl, ma anche Charkiv, e il Cremlino osa anche nei punti più vicini alla frontiera con l’Ue. Non viene risparmiata neppure Leopoli, vicina al confine polacco, dove gli Stati Uniti avevano in un primo tempo spostato la loro ambasciata e dove gli ucraini si dirigono per fuggire in Ue: “C’è la vernice fluorescente sulle strade, la hanno usata le forze russe per dirigere i missili”, conferma Marc Santora, sul posto per il New York Times. Sia la Nato che la Casa Bianca hanno sempre ribadito di limitarsi a presidiare con le truppe l’alleanza, di cui l’Ucraina non fa parte, anche se Zelensky oggi ha insistito su una futura adesione all’Ue. Alcuni paesi occidentali spediscono però armi, come fa il Belgio promettendo 2mila mitragliatrici; o carburante, come la Slovacchia. Il premier Mario Draghi, nella telefonata al presidente ucraino, ha detto che “l’Italia fornirà all’Ucraina assistenza per difendersi”. La Germania, che nelle scorse settimane aveva suscitato polemiche per la scelta di impedire l’arrivo di armi verso Kiev, ora fa un passo: ha autorizzato ieri l’Olanda a far arrivare materiale bellico nel paese. Poi il tweet del cancelliere: “L’attacco russo segna una svolta. È nostro dovere fare del nostro meglio per aiutare l’Ucraina a difendersi dall’esercito invasore di Putin. Ecco perché le stiamo fornendo mille armi anticarro e 500 missili stinger”. Si allunga la lista di paesi che chiudono i propri spazi aerei alle compagnie russe: oltre a Varsavia o Praga, ieri anche Estonia e Slovenia. Anonymous, il collettivo hacker, dichiara la sua cyberguerra contro il governo russo: ieri l’attacco informatico ha mandato in panne siti web governativi e presidenziali di Mosca. Chi in questa guerra teme di più la Russia, e cioè la leadership ucraina ma pure quella polacca e dei paesi baltici, insiste che l’Ue debba fare di più. Si spiega così sia la pressione di Zelensky verso i governi italiano, ungherese e cipriota, che quella del premier polacco Mateusz Morawiecki verso il suo omologo Olaf Scholz. L’obiettivo era di piegare le ultime reticenze all’adozione di sanzioni anti-Mosca che coinvolgano il sistema di pagamenti internazionali Swift. “L’Italia si allinea al resto dell’Ue”, dice Draghi per rassicurare Kiev, mentre Berlino pare arrendersi a “una restrizione mirata e funzionale” a Swift. Mentre l’Ue impiega tempo e fatiche per assumere una posizione drastica verso la Russia, il Cremlino è già oltre. L’ex presidente Dmitry Medvedev annuncia contromisure: “Blocco di asset e compagnie straniere in Russia, magari la nazionalizzazione delle proprietà di giurisdizioni “poco amichevoli”. Il presidente ucraino fa pressioni anche sulla Turchia perché chiuda alle navi da guerra russe Bosforo e Dardanelli; Turchia che in teoria è alleata, e membro Nato, ma sconta le ambiguità tattiche del presidente Recep Tayyp Erdogan. La diplomazia sconta i suoi limiti e la guerra procede, intanto l’Ue fa fronte a una crisi umanitaria. Paesi come la Polonia discutono da settimane dell’arrivo di ucraini in cerca di protezione. Ma sia Varsavia, che la Commissione Ue, hanno contribuito fino a poche settimane fa a legalizzare i respingimenti illegali alla frontiera con la Bielorussia, usando dispositivi di emergenza che restano invece tuttora inutilizzati per accogliere. Stavolta i governi polacco e ungherese usano parole di accoglienza: la Polonia fa da scudo a Mosca e l’Ungheria per la presenza di proprie minoranze in Ucraina. Pure la destra italiana, con Matteo Salvini, fa i distinguo: questi “sono profughi veri”. Stavolta nessuno osa sostenere in pubblico che gli ucraini non vadano accolti. Ma manca ancora un piano strutturato europeo. “Esigeremo un intervento alla plenaria straordinaria di martedì”, dice l’eurodeputato Pd Pierfrancesco Majorino, che è stato alla frontiera polacca. “Spero sia un’occasione per aiutare anche chi è rimasto bloccato alla frontiera da prima”. Pacifismo. Le due generazioni della piazza no war di Giuliano Santoro Il Manifesto, 27 febbraio 2022 Gli studenti raggiungono sindacati e pacifisti. Landini: “Condanniamo Putin, ma bisogna arrivare alle cause del conflitto ucraino”. Nel codice non scritto delle manifestazioni a Roma, Santi Apostoli è la piazza della testimonianza ma non delle manifestazioni oceaniche. Non contiene molte persone ma consente di radunarsi e stringersi attorno a un palco, solitamente posizionato in fondo al quadrilatero, con la faccia verso il palazzo della Provincia. Eppure, quest’oggi da Santi Apostoli la gente chiamata a raccolta da Cgil, Cisle e Uil oltre che da Anpi, Arci, Emergency, Rete Pace e disarmo e molti altri, tracima e arriva quasi fino a piazza Venezia. È il segno che contro la guerra ucraina va radunandosi (e ricomponendosi) un popolo multiforme. Non era scontato, perché chi si mobilita deve misurarsi con uno scenario ribaltato rispetto a quelli consueti: l’operazione di polizia internazionale (anzi, di “sicurezza internazionale”, secondo le parole di Putin) questa volta viene da Oriente verso Occidente. Maurizio Landini prova a riallacciarsi ai cicli delle lotte per la pace precedenti: “Siamo contro la guerra sempre e comunque. Da qualunque parte venga - dice il segretario generale della Cgil - Condanniamo senza mezze misure Putin, ma dobbiamo capire le ragioni che hanno determinato questa situazione. E come mai, ad esempio, dopo la caduta del muro di Berlino ci siamo trovati a a perseguire politiche che hanno favorito la crescita di logiche nazionaliste e populiste”. Ma prima di fare qualsiasi passo, è la posizione dei sindacati, bisogna far tacere le armi. Rivolgendosi ai manifestanti italiani, Yuriy Sheliazhenko del movimento pacifista ucraino rigetta ogni ipotesi di spirale bellica: “Chiediamo alle leadership di fare un passo indietro e sedersi al tavolo dei negoziati - afferma - La pace può essere raggiunta solo con principi e metodi nonviolenti”. La piazza segue il filo che collega le richieste dei pacifisti ucraini e quelle dei russi che in questi giorni sono scesi in strada. “Un gran numero di attivisti, scienziati, giornalisti, musicisti hanno fatto dichiarazioni contro questa guerra e nelle città russe si moltiplicano le azioni di protesta - è il messaggio di Elena Popova del Movimento obiettori di coscienza russi - La polizia ci ferma, ci arrestano solo perché diciamo no alla guerra”. “L’attacco all’Ucraina era programmato - dice ancora Landini - Proviene da chi è nemico della democrazia della libertà della autonomia dei popoli. Adesso il rischio nucleare è concreto, per questo non devono essere le potenze con le loro logiche a confrontarsi. Per questo è necessario ritrovarsi in piazza”. Landini delinea le parole chiave per affrontare questa guerra: “multilateralismo”, “rispetto degli accordi di Minsk” e la garanzia di “corridoi umanitari” e “accoglienza” per i profughi. Poi l’impegno per una mobilitazione permanente e allargata a tutta l’Europa: “Chiederemo al sindacato europeo di organizzare altre manifestazioni in Ue fino a quando non avremo fermato questa guerra”. Tra le bandiere arcobaleno ci sono anche quelle di Sinistra italiana, Rifondazione e Verdi. Si vedono i ministri Andrea Orlando e Roberto Speranza. “Rispondere alle bombe con le bombe vuol dire avviare il mondo verso una tragedia incalcolabile - dice Nicola Fratoianni di Sinistra italiana - Bisogna utilizzare ogni strumento sapendo che anche quelli economici devono essere utilizzati non tanto per tutelare i nostri interessi”. A proposito di sanzioni: per il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli, “è importante che Draghi abbia rivisto la posizione italiana e dato il suo consenso all’esclusione della Russia dallo Swift”. Gli studenti si sono dati appuntamento al Colosseo. Arrivano in corteo dietro lo striscione che dice “Le loro guerre, i nostri morti”. Anche se molti di loro ancora non erano nati quando, ormai diciott’anni fa, due milioni di persone invasero Roma per impedire la guerra di Bush Jr contro l’Iraq, invitano a ricordare “tutte le guerre degli ultimi venti anni, dalla ex Jugoslavia all’Afghanistan”. Sono quelli della Lupa, il movimento delle scuole superiori che sta lottando contro l’alternanza scuola-lavoro. Lo striscione firmato dall’Unione degli Studenti recita: “Studenti contro la guerra e ogni imperialismo”. Ed ecco un cartello con la clessidra stilizzata di Extinction Rebellion che invita a farla finita con la “dipendenza energetica dal fossile di Putin”. È la generazione della lotta contro il global warming che si trova davanti anche la minaccia della guerra. Ambiente e crisi energetica. La soluzione non è riaprire le centrali a carbone di Greenpeace Italia, Lega Ambiente, Wwf Il Manifesto, 27 febbraio 2022 La lettera delle associazioni ambientaliste. Alla crisi dei rapporti con la Russia non si può rispondere con un passo indietro. Solo investendo sulle rinnovabili si può raggiungere l’autonomia energetica. Di fronte all’aumento esponenziale dei prezzi del gas, alla guerra e ai possibili problemi di approvvigionamento, occorre reagire in modo strutturale e non con soluzioni a volte false, a volte inammissibili, a volte facili (forse), ma che sicuramente rischiano di perpetuare i problemi e non risolverli. È questo l’appello che lanciano Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia rispondendo al Presidente del Consiglio Mario Draghi che oggi ha parlato della possibilità di riaprire in Italia le centrali a carbone per compensare l’eventuale calo delle importazioni di gas dalla Russia. Le soluzioni vere e strutturali sono evidenti e già alla nostra portata: energie rinnovabili, accumuli, pompaggi, reti, risparmio e l’efficienza energetica, un mix formidabile. È di tutta evidenza che in tempi di carenza di energia, il primo passo è usare l’energia al meglio e risparmiarla: questo però deve diventare non un atteggiamento momentaneo, ma una priorità permanente. Dal lato delle fonti alternative, se gli operatori energetici, non un’associazione ambientalista, si dichiarano in grado di installare 60 GW di rinnovabili in 3 anni, a patto che si velocizzino al massimo le pratiche autorizzative, sarebbe davvero assurdo che dal Governo non si cogliesse la palla al balzo e non si mettesse su una task force per individuare le modalità e aiutare la pubblica amministrazione a dare risposte alle richieste pendenti. Questa dovrebbe essere la priorità assoluta, con l’obiettivo di approvvigionarci interamente da fonti rinnovabili entro il 2035: si può fare, è un obiettivo che altri Paesi si sono già posti. È la vera e l’unica garanzia di indipendenza energetica perché non dipendente da combustibili importati, ancorché fossili. La soluzione falsa è quella del cosiddetto gas nazionale: la retorica inutile e dannosa che vuole il via allo sfruttamento intensivo e massiccio delle estrazioni di gas sul nostro territorio e nei nostri mari. Come dimostrato in una nota tecnica del WWF sul Gas Nazionale, anche volendo sommare tutte le riserve nazionali, incluse quelle difficilmente estraibili a causa di costi economici ed energetici poco sostenibili, l’Italia avrebbe al massimo riserve di gas per 111,588 miliardi di m3. Dal momento che il nostro paese consuma (C) circa 75-76 miliardi di m3 /anno, anche sfruttando tutte le riserve (poco realistico) queste sarebbero in grado di coprire appena un anno e mezzo della domanda di gas nazionale. (Un tema, quello della insensata corsa al gas, sviluppato anche in questo report di Legambiente). Inoltre, il gas nazionale non sarebbe per forza destinato al mercato nazionale e non farebbe alcuna differenza dal lato dei prezzi, a meno che non si voglia nazionalizzarlo. Una accelerazione spinta sulle rinnovabili avrebbe anche effetti occupazionali netti positivi come dimostrato dallo scenario commissionato da Greenpeace Italia. La soluzione inammissibile è la riapertura delle centrali a carbone: l’Italia gioca non solo la sua credibilità, ma anche molte delle sue riduzioni di gas serra che deve attuare sul rispetto dell’impegno di chiudere tutte le centrali a gas entro il 2025. Le centrali a carbone vanno chiuse senza se e senza ma, i tentativi dei soliti noti che cercano di riportare in auge persino il peggior combustibili fossile, un vero e proprio killer non solo del clima, ma anche della salute umana e delle attività economiche, si scontra con la sofferenza decennale degli abitanti dei territori su cui le centrali insistono. Tutti gli amministratori, indipendentemente dal colore politico, vogliono che le centrali si chiudano: e vanno chiuse. La soluzione facile (forse) ma sicuramente nel senso sbagliato è quella dell’aumento delle infrastrutture per il gas: sarebbe uno spreco di risorse, immobilizzate in un combustibile fossile quando la decarbonizzazione va invece accelerata. Ma non è solo una questione ambientale: noi attualmente abbiamo infrastrutture sovradimensionate, oggi i rigassificatori che abbiamo li paghiamo in bolletta perché sono sottoutilizzati. Il Mite dovrebbe informarsi e usare al meglio le strutture esistenti prima di parlare di nuovi rigassificatori che saranno disponibili, a essere super-ottimisti, tra 5 anni. Noi oggi dobbiamo minimizzare le infrastrutture che rischiano di immobilizzare i soldi da destinare invece alla transizione energetica. Per Greenpeace Italia, Legambiente e WWF Italia, di fronte alla grave crisi internazionale attuale, e alla gravissima crisi climatica che ci colpisce già, ma che rischia di diventare ingestibile con l’aumento della temperatura - ce lo ricorderà con dati aggiornati e ulteriormente preoccupanti l’Ipcc, lunedì 28 alle 12 - siamo a un bivio: non dobbiamo assolutamente scegliere la strada di spendere tanto per perpetuare i problemi attuali, bensì imboccare decisamente la strada del futuro. Fermare l’incendio con le armi della politica di Domenico Gallo Il Manifesto, 27 febbraio 2022 L’incubo di una nuova guerra in Europa si è materializzato nella notte fra il 23 e 24 febbraio. Gli spettri che si agitavano sull’Europa orientale hanno abbattuto il tabù della guerra e adesso le forze infernali liberate stanno realizzando la loro mietitura di distruzione e morte. L’incubo di una nuova guerra in Europa si è materializzato nella notte fra il 23 e 24 febbraio. Gli spettri che si agitavano sull’Europa orientale hanno abbattuto il tabù della guerra e adesso le forze infernali liberate stanno realizzando la loro mietitura di distruzione e morte. Noi siamo convinti che la guerra sia un male in sé stessa e che nessuna ragione politica può rendere questo male conveniente o giustificabile. Tanto più nel teatro dell’Ucraina dove l’esasperazione e la strumentalizzazione politica di opposti nazionalismi ha provocato già un conflitto doloroso che si è trascinato per otto anni senza soluzione. Ogni giorno, ogni ora di guerra comportano sofferenze indicibili e rendono sempre più difficile la convivenza futura fra le popolazioni coinvolte nel conflitto. Per questo da ogni angolo d’Europa, da ogni quartiere, da ogni città, si deve levare concorde una sola voce: cessate il fuoco! Deve essere ben chiaro che l’intervento militare della Russia contro l’Ucraina, non realizza un’azione legittima di difesa delle due Repubbliche del Donbass, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle Nazioni unite, come preteso da Putin, ma costituisce una violazione del divieto dell’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, interdetta dall’art. 2, comma 4, della Carta dell’ONU. Quali che siano le controversie fra gli Stati e quali che siano le ragioni dell’uno o dell’altro, queste non possono essere risolte affidandosi al giudizio delle armi. L’azione della Russia costituisce un’ingiustificabile violazione del diritto internazionale, simile all’aggressione perpetrata dagli Stati Uniti contro l’Iraq il 20 marzo 2003, diretta ad abbattere il regime politico di quel paese e sostituirlo con un altro governo. Sul piano formale le due violazioni si equivalgono ma non possiamo ignorarne la diversità delle motivazioni. Nel primo caso gli Stati uniti sono stati spinti ad aggredire uno Stato distante diecimila chilometri dai loro confini col pretesto - palesemente falso - della presenza di armi di distruzione di massa; nel secondo caso la Russia ha agito con il pretesto di tutelare la sua sicurezza nei confronti dell’Ucraina, paese confinante che ambiva ad assicurarsi la protezione delle armi di distruzione di massa della Nato. Adesso gli Stati uniti, il Regno Unito e l’Unione europea, si affannano a minacciare e applicare sanzioni sempre più dure nei confronti della Russia. A ben vedere Biden aveva minacciato delle sanzioni durissime per scoraggiare ogni intervento militare, ma non è servito a niente: l’arma delle sanzioni si è rivelata spuntata. La Nato, in questo momento sta dimostrando tutta la sua impotenza, il tintinnio delle sciabole, non riesce a nascondere il suo fallimento come sistema capace di garantire la pace in Europa. Dobbiamo interrogarci come è stato possibile che il clima di distensione, di smilitarizzazione e di pacificazione in Europa, introdotto da Gorbaciov con l’abbattimento del muro di Berlino, il ritiro delle truppe dell’Unione sovietica dall’Europa orientale e lo scioglimento del patto di Varsavia, sia stato rovesciato nel suo contrario. La fine della guerra fredda è stata protervamente interpretata dalle Cancellerie occidentali come una vittoria che avrebbe consentito ai vincitori di umiliare perennemente i vinti, come fecero insensatamente le Potenze dell’Intesa nei confronti della Germania, uscita sconfitta dalla prima guerra mondiale. Gli Stati Uniti hanno coinvolto l’Europa attraverso la camicia di forza dell’Alleanza atlantica, in una insensata politica di scontro con la Russia, che ha sostituito la cooperazione con l’emarginazione, il dialogo con l’intimidazione, col risultato di provocare una pericolosa rinascita dell’orgoglio nazionale russo. A questo disastro ci ha portato la pretesa di trasformare l’Ucraina nella lancia della Nato nel costato della Russia. Mettere il coltello alla gola di una grande potenza non è il modo migliore per assicurarsi la convivenza pacifica. A questo punto non basta gridare pace, pace perché le armi si fermino, e le sanzioni non devono essere intese come uno strumento per continuare la guerra con altri mezzi. Al contrario la minaccia di sanzioni particolarmente umilianti rischia di gettare benzina sul fuoco, se non si affrontano i nodi politici reali. Occorre fermare la guerra subito e pensare ad una soluzione che ponga l’Ucraina in una condizione di neutralità, fuori dalla Nato e libera da ogni sudditanza verso la Russia, garantendo alle zone prevalentemente popolate da russi una effettiva autonomia. Questa è l’unica prospettiva realistica che noi invochiamo con voce alta per superare il fragore delle armi. I bambini e la guerra, condannati alla paura di Walter Veltroni Corriere della Sera, 27 febbraio 2022 Un adolescente europeo di oggi se alza la testa non immagina l’uomo sulla Luna. Immagina un missile o un aereo impazzito. Di questo ora c’è traccia nel suo vissuto. Lo squarcio in quel palazzo di Kiev sembra il fratello, nel dolore, di quello provocato dagli aerei dirottati da al Qaeda l’undici settembre del 2001. In mezzo ventuno anni. Il tempo in cui diverse generazioni sono cresciute. Bambini, adolescenti, giovani. Per tutta la loro vita queste generazioni hanno vissuto sotto il segno della paura. Sì, hanno avuto i cellulari e i social network. Ma la cifra emotiva della loro formazione è stata la paura del presente. E del futuro. Qualcosa di innaturale, per i giovani. Quell’attentato di New York, che mostrava la forza della violenza e la fragilità dell’innocenza. E poi il Bataclan, Charlie Hebdo, le teste tagliate, Fukujima, le catastrofi ambientali. Fino a questi due anni di pandemia che hanno cambiato il modo di studiare, amare, vivere di tutti i ragazzi del mondo occupando i loro volti con delle mascherine e i loro pensieri con il senso di un pericolo immanente. Si dice, a ragione, che chi è nato dopo la Seconda guerra mondiale ha avuto la fortuna, qui in Europa, di vivere la più lunga stagione di pace di questo continente. Ma la verità è che la autentica fortuna è stata incontrare e conoscere la speranza. Quella di cambiamenti scientifici, sociali, di conquiste di libertà politiche e civili che sono, in fondo, il lascito positivo di quelle generazioni. Un adolescente europeo di oggi, per non parlare di quelli che vivono nella guerra o nella povertà, se alza la testa non immagina l’uomo sulla Luna. Immagina, meglio teme, un missile, o un aereo impazzito. Di questo ora c’è traccia nel suo vissuto. Abbiamo misurato, con colpevole ritardo, gli effetti della pandemia sulla coscienza e lo stato d’animo dei giovani. Abbiamo potuto registrare quanta tristezza, ansia, rabbia, male di vivere questi due anni di trinciamento delle relazioni sociali, di compressione del naturale bisogno di autonomia dalla famiglia abbiano comportato nei ragazzi. Ora, quando sembrava che si potesse finalmente riguadagnare una specie di normalità, la guerra - una guerra così vicina e così folle, così carica di conseguenze universali, come una pandemia violenta - riavvolge, specie i più giovani, in un gorgo di paura e di nero. Le prime vittime di una guerra sono i bambini, sempre. E spesso si ignora chi vive sotto le bombe o le sofferenze delle guerre dimenticate, quelle meno occidentali. Poi arrivano immagini di ambienti urbani non dissimili dai nostri, paesaggi e colori che sembrano i nostri e allora, forse giustamente, la guerra, con il suo carico di distruzione e di terrore, ci sembra possibile, sembra riguardarci direttamente. Penso a quel bambino morto dissanguato, penso ai piccoli malati di tumore in pericolo nella Kiev senza medicine e cibo, penso a quella bambina, avrà avuto sei o sette anni, che, rifugiata nella metropolitana, pronuncia piangendo una parola che avrebbe il diritto di non conoscere: “Io non voglio morire, voglio solo che tutto questo finisca”. Penso alla bimba infagottata in un piumino che, sul predellino di un pullman, si separa dal padre che resta per combattere, civile armato. Lo vede piangere, e allora piange anche lei. Penso a quei bambini che diventano profughi, una parola da grandi, che sono strappati dalle loro case e sbattuti nei rifugi o messi in marcia, affamati, verso una normalità che diventa l’unica speranza possibile. I loro occhi, forse persino quelli dei nostri ragazzi, non saranno più gli stessi, ormai. Con Putin e tutti gli altri nemici delle libertà umane, il peggio del Novecento torna, sospinto dalla paura: negazione della bellezza delle diversità, insofferenza per la democrazia, violenza come regolatrice dei conflitti. Come diceva Giorgio Gaber: “Non insegnate ai bambini. Non insegnate la vostra morale, è così stanca e malata. Potrebbe far male”. La grande fuga in auto degli ucraini verso i Paesi della Ue: è emergenza profughi di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 27 febbraio 2022 Gli Stati Uniti prevedono che tra uno e cinque milioni di persone potrebbero lasciare il Paese, passando soprattutto attraverso la Polonia. Gli Stati Uniti paventano il rischio di un nuovo 2015, di una nuova emergenza profughi che potrebbe travolgere l’Europa dopo l’assalto russo all’Ucraina. Secondo fonti governative citate dal New York Times tra uno e cinque milioni di ucraini potrebbero cercare rifugio in Europa, passando soprattutto attraverso la Polonia. Sui media tedeschi sono rimbalzati numeri più modesti: tra 800mila e il milione. Ma è chiaro che molto dipenderà dall’intensità e lunghezza dell’attacco russo. L’Agenzia Onu per i rifugiati parla di una situazione in rapido peggioramento e ha chiesto ai Paesi vicini di mantenere le frontiere aperte. L’Alto commissario Filippo Grandi parla di “vittime” e “persone che fuggono dalle loro case in cerca di riparo”. E l’Onu ha stanziato 20 milioni di dollari per le urgenze umanitarie nel Paese sotto attacco delle truppe russe, ha annunciato ieri il segretario generale Antonio Guterres. A Jasionka, nella parte orientale della Polonia, le autorità locali hanno già organizzato un campo profughi con 500 posti letto, altri otto sono stati tirati su lungo il confine. Alcuni organi di stampa locali riferiscono di treni Kiev-Varsavia stipati di ucraini disperati, in fuga dal Paese bombardato dai caccia russi. Sui media sono rimbalzate le immagini di colonne di automobili dirette verso Ovest e di migliaia di veicoli intrappolati alla frontiera, con attese fino a sei ore per varcare il confine polacco. Il ministro della Salute polacco, Adam Niedzielski, ha annunciato di aver già preparato alcuni treni speciali per poter trasferire i feriti dal confine ucraino in 120 ospedali polacchi. “In totale - ha detto - stimiamo di poter accogliere migliaia di feriti, anche gravi”. Interpellato da Repubblica, il viceministro degli Esteri, Pawel Jablonski, ha ricordato che dopo l’annessione della Crimea nel 2014 “centinaia di migliaia di migranti sono stati accolti in Polonia”. Ma ha aggiunto di aspettarsene “molti di più” dopo l’attacco a vasta scala sferrato dalla Russia nelle scorse ore. In Polonia vivono già circa 1,5 milioni di ucraini. Dopo la crisi dei migranti del 2015, la Polonia si è sempre rifiutata di accogliere i rifugiati provenienti dalla Siria, dall’Iraq e dal Medio Oriente infiammato dalle guerre civili e da altri conflitti. Ma gli ucraini sono sempre stati accolti, e a nelle scorse il governo di Mateusz Morawiecki ha detto che, se necessario, aprirà le frontiere persino per un milione di profughi dal Paese vicino. Ma in ogni caso l’Europa ha già fatto sapere che non si volterà dall’altra parte. La ministra tedesca dell’Interno, Nancy Faeser, ha dichiarato ieri via twitter di essere “a stretto contatto” con il governo polacco e con la Commissione europea per far fronte a una possibile emergenza. “I meccanismi per il coordinamento degli aiuti umanitari e i meccanismi di supporto sono già attivati per assicurare che tutto l’aiuto necessario sia garantito in tempi rapidi”, ha aggiunto.