Riforma dell’ergastolo ostativo: sì della Camera buono a metà di Alessio Scandurra* Il Riformista, 26 febbraio 2022 La commissione Giustizia ha approvato il testo base. Una notizia importante che ribadisce il valore dell’articolo 27 della Carta. Purtroppo la lettura della norma non è per nulla rassicurante. Mercoledì la commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha approvato un testo base di riforma dell’ergastolo ostativo. È una notizia importante, riguarda diverse centinaia di persone e investe uno dei principi fondamentali del nostro sistema penale, quello della finalità rieducativa della pena. Ma è una notizia che ha bisogno di qualche premessa. Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua, si tratta perciò di oltre 1.250 detenuti che non hanno alcuna possibilità di reintegrazione sociale, come invece prescrive l’art. 27 della Costituzione, a meno che non collaborino con la giustizia. E questo non è un fatto da poco. La finalità rieducativa della pena sancita dall’art. 27 non significa che “sarebbe opportuno” che la pena rieducasse. Significa che una pena che non ha contenuto rieducativo è costituzionalmente illegittima e vanno cambiate le norme che la regolano. La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva già condannato per questo il nostro paese nel 2019, nel caso Viola contro Italia, per violazione dell’art. 3 della Convenzione, che vieta i trattamenti inumani e degradanti. L’ergastolo ostativo, per come è disciplinato nel nostro ordinamento, configurerebbe appunto trattamento inumano e degradante. Ed il cambiamento delle norme che lo disciplinano è esattamente questo che la Corte Costituzionale ha disposto con l’ordinanza 97 del 2021, dando al Parlamento italiano un anno per adottare le necessarie modifiche. La collaborazione può avere conseguenze terribili su chi collabora o sui suoi familiari. Questo non significa che questa non vada perseguita o incentivata, ma significa che negare a priori i benefici a chi non collabora, anche quando sarebbe comunque opportuno che l’esecuzione della sua pena continui con modalità in parte diverse, significa negare a priori quella finalità rieducativa anche nei casi in cui il magistrato competente comunque la ravviserebbe. Non significa che chi non collabora debba uscire, ma che anche per lui possa valere l’art. 27. Come detto dunque la novità è importante. Purtroppo la lettura di questo nuovo testo non è però rassicurante. Il testo sembra pensato più per garantire un buon margine di ostatività per alcune condanne piuttosto che per adempiere a quanto deciso dalla Cedu e dalla Corte costituzionale. A restringere l’accesso ai benefici più che ad allargarlo. Anzitutto, e chiaramente in controtendenza con quanto chiesto dalle Corti, non sarebbe più possibile la concessione dei benefici nei casi in cui sia accertata una “limitata partecipazione al fatto criminoso”, ovvero “l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità”, nonché quando “la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante”. Viene inoltre alzato il limite di pena da scontare prima di poter essere ammessi alla liberazione condizionale, da 26 a 30 anni, oltretutto senza che sia stata prevista alcuna disciplina transitoria. Queste norme avrebbero dunque l’effetto di rendere più difficile di prima l’accesso ad alcuni benefici. Quanto poi all’accertamento dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, in assenza di collaborazione il meccanismo è estremamente farraginoso ed è tutto da dimostrare che possa davvero dare esito a valutazioni positive. Il rischio di una norma simile è che, sparita la collaborazione impossibile, diventi impossibile la dimostrazione dell’assenza di collegamenti con la criminalità, e dunque che si finisca per continuare a concedere i benefici solo a chi collabora. Non resta che sperare che le norme più problematiche del testo varato dalla Commissione vengano corrette nei passaggi parlamentari successivi, consentendo in questo modo di dare piena attuazione alle pronunce delle Corti e ridisegnare l’ergastolo ostativo in maniera pienamente conforme art. 27 della Costituzione. *Associazione Antigone I diritti dei detenuti con problemi psichici sono violati di Giovanni De Mauro L’Essenziale, 26 febbraio 2022 La Corte costituzionale ha chiesto una nuova legge sulle Rems, le strutture d’accoglienza. Mario (il nome è di fantasia) ha da poco festeggiato in carcere il suo diciottesimo compleanno. In attesa di processo per maltrattamenti ai genitori, da settembre è in custodia cautelare nella Casa circondariale di Monza, nonostante soffra di depressione e disturbo borderline della personalità. Entrambi i giudici per le indagini preliminari che si sono occupati del suo caso concordano sulla necessità di farlo uscire dal carcere per mandarlo in comunità. Ma nessuna delle strutture contattate ha accettato di accoglierlo. “Prima ci hanno detto che è troppo giovane”, racconta la sua avvocata Barbara Manara all’Essenziale, “poi che deve mettersi in lista d’attesa, poi che c’erano problemi con la regione per il pagamento della retta. E i giudici ci hanno detto che non possono scavalcare questi veti. È incredibile”. Nessuna risposta La vicenda di Mario è al vaglio della corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che il 17 febbraio ha chiesto all’Italia chiarimenti in proposito entro cinque giorni. L’ultimatum è scaduto, ma dal governo non è arrivata nessuna risposta. Il 24 gennaio la Cedu ha anche condannato l’Italia per aver detenuto illecitamente un altro cittadino con problemi psichici. Si tratta di Giacomo Seydou Sy, rimasto un anno nel carcere di Rebibbia a Roma nonostante soffrisse di disturbo bipolare e della personalità, e dovesse quindi essere trasferito in una delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Già ad aprile 2020 la Cedu aveva ordinato la scarcerazione di Sy, che era poi stato trasferito nella Rems di Subiaco, dove si trova attualmente. La nuova sentenza della corte europea ha condannato l’Italia a risarcire Sy con 36.400 euro. I casi di Giacomo Sy e di Mario mostrano come la tutela della salute mentale dei detenuti con problemi psichici sia ancora lontana. Una legge del 2014, quella che ha abolito gli ospedali psichiatrici giudiziari, l’aveva affidata alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Le Rems dovevano ospitare al massimo 20 persone, essere diffuse sul territorio, gestite esclusivamente dalle regioni e dalle Asl, dotate di personale medico qualificato. E dovevano entrarci solo pazienti che non potevano accedere ad altre strutture sanitarie o a misure alternative. Gli ultimi dati disponibili sul funzionamento delle Rems raccontano invece una storia diversa. Secondo un’istruttoria disposta dalla corte costituzionale, al 31 luglio 2021 le Rems attive in Italia erano 36, per un totale di 652 posti letto, di cui 596 occupati. La metà dei pazienti scontava misure di sicurezza provvisorie o di altro genere, per le quali sarebbe stato possibile dispone pene alternative o il trasferimento in altre strutture dei servizi territoriali per la salute mentale. La distribuzione delle Rems è inoltre disomogenea. In Umbria, Molise e Valle d’Aosta non ce ne sono, e nelle altre regioni sono organizzate in modi molto diversi. Dal modello diffuso adottato dal Friuli Venezia Giulia, che prevede mini Rems sparse in tutto il territorio, a quello standard da 20 posti letto, fino a quello dei “sistemi polimodulari” (tanti moduli Rems da 20 posti ciascuno). È il caso della Lombardia e della Rems di Castiglione delle Stiviere, dove attualmente risiedono 151 persone, circa un quarto del totale nazionale. Ma il problema più grande è “l’eccessivo ricorso alle Rems da parte della magistratura”, spiega all’Essenziale il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia. Ricorso in ingresso, quando non si trovano misure alternative, e in uscita, quando si fatica a ottenere la libertà vigilata o il trasferimento di queste persone ad altri servizi di salute mentale. Al 3 febbraio, ad esempio, su 75 ospiti delle Rems del Lazio ben 26 erano in attesa di uscirne. “Come nel collo di una clessidra: in tanti vogliono entrare e uscire, ma a passare sono pochissimi, da una parte e dall’altra”, prosegue Anastasia. Per l’accesso alle Rems si creano così lunghissime liste d’attesa. Al 31 luglio 2021 c’erano 750 persone in fila per un posto. Si erano messe in fila, in media, da 304 giorni, e 61 di loro aspettavano in carcere. Nel frattempo il 27 gennaio la corte costituzionale ha chiesto al parlamento una nuova legge sulle Rems. Nell’applicazione di quella vigente, fa sapere la consulta, ci sarebbero infatti “numerose violazioni dei principi costituzionali, che il legislatore deve eliminare al più presto”. Secondo la corte il sistema attuale non tutela “il diritto alla salute del malato, che non riceve i trattamenti necessari per aiutarlo a superare la propria patologia e reinserirsi gradualmente nella società”. Sopravvitto. La roulette dei prezzi in carcere e i “difetti” delle gare d’appalto di Mara Chiarelli ledicoladelsud.it, 26 febbraio 2022 A seconda delle Regioni in cui si trovano, i detenuti pagano costi diversi dei prodotti: differenze notevoli fra gli istituti di Puglia e Basilicata. In caso di 5 o più offerte si stabilisce una media tra i ribassi. Escluso chi ne propone uno maggiore. Sacrificati, costretti a dividersi spazi angusti, ma anche a pagare i beni di prima necessità (come bagnoschiuma, dentifricio, rasoi) con prezzi non calmierati. Succede ai detenuti di tutta Italia, il cui “borsellino” può subire variazioni a seconda che si trovi in un istituto piuttosto che in un altro. Ciò che sembra una questione di fortuna è invece l’esito di aggiudicazioni di gara con meccanismi collaudati e previsti dal codice degli appalti, ma che potrebbero prestarsi a manipolazioni, oltre che a evidenti differenze di costi. All’origine di tutto, dunque c’è la gara per la fornitura di sopravvitto, di tutti quei prodotti cioè che non fanno parte del vitto e che il detenuto può acquistare all’interno del proprio carcere. Una gara che, pur riguardando il territorio nazionale, viene divisa per lotti a seconda di regioni e province. Il 19 novembre scorso è stato pubblicato dall’amministrazione penitenziaria un avviso pubblico per la manifestazione d’interesse alla procedura negoziata, per l’affidamento del servizio con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, garanzia di risparmio per gli utenti finali, con i punteggi divisi fra offerta tecnica e offerta economica. Ma, a pochi giorni dalla scadenza (fissata per il 29), inaspettatamente, il 26 novembre il criterio di selezione viene modificato, diventando “il minor prezzo” o il “massimo ribasso”. Il codice degli appalti, in questo caso, stabilisce un’altra regola. E cioè che, se allo stesso bando di gara si presentano cinque o più aziende, si individua la media dei ribassi (si chiama soglia di anomalia), e chi si discosta troppo, proponendosi con un ribasso molto forte, viene escluso. Una norma che dovrebbe garantire la serietà e attendibilità delle offerte ma che si presta a strumentalizzazioni se, ad esempio, quattro o più aziende fanno cartello, individuando a monte la percentuale media di ribasso, ed escludendo la sesta. Ed è così, ad esempio, che in Puglia un detenuto può acquistare un flacone di detersivo liquido a 2,51 euro, mentre in Basilicata lo stesso detersivo può costare 1,80. E ancora, una confezione di rasoi che in una casa circondariale del Puglia costa 3,16 euro, in Basilicata verrebbe pagata 2,27. Il deodorante spray in Puglia 3,64, in Basilicata un euro di meno, 2,62. L’elenco dei prodotti in vendita è molto lungo e comprende anche alimentari, casalinghi e altri prodotti per l’igiene personale. Una differenza di trattamento che con difficoltà viene rilevata ma che gioca sul quotidiano di persone già costrette a vivere in situazioni difficili, con le strutture cronicamente in sovraffollamento e la storica carenza di personale tra gli agenti di polizia penitenziaria. “Mancano medici e scade il contratto per 500 operatori socio-sanitari” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 febbraio 2022 C’è un grave problema di insufficienza di medici e vari operatori sanitari presso le carceri italiane. Secondo Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, questa situazione critica determinerebbe una vera e propria emergenza sanitaria nelle carceri del Paese, dove in molti casi non si riesce a garantire l’assistenza ai detenuti per carenza di medici di base e specialistici, con pesantissime ripercussioni sulla salute dei reclusi e sulla stessa sicurezza dei penitenziari. Il sindacalista premette che Il 70 per cento dei detenuti soffre di almeno una malattia, ma fra questi la stragrande maggioranza è affetta da molteplici patologie e, non di rado, necessita di assistenza sanitaria h24 che invece non si riesce a garantire. Il segretario generale della Uil-Pa, per rendere l’idea, denuncia che a Bologna con 772 detenuti sono in servizio solo 4 medici di base, sui 16 previsti; a Catanzaro, con 642 ristretti, sono invece 5 i medici in forza, su 14 previsti. E così, a macchia di leopardo, più o meno in tutto il Paese. Si sta quindi assistendo a giornate in cui i sanitari devono decidere chi curare per primo e ad attese di molte ore per coloro che avvertono malori di varia natura. “Vi è evidentemente un problema di organici del personale sanitario - spiega ancora De Fazio -, ma si assiste anche a una certa “fuga dalle carceri”, poiché come denunciamo da tempo sono ormai saltati persino i canoni minimi di sicurezza e ogni giorno si contano minacce, aggressioni e feriti tra le file della Polizia penitenziaria, ma anche dell’altro personale, ivi compresi i sanitari”. A questo si aggiunge un altro problema: con la fine dello stato di emergenza, a meno di interventi normativi, scadrà il contratto per oltre 500 operatori socio-sanitari assunti per far fronte alla pandemia da Covid- 19. “Tutti fattori, peraltro, che minano ulteriormente l’ordine e la sicurezza interna, sia per le proteste dovute alla mancata assistenza, sia per la frequentissima necessità di ricorrere, specie nelle ore notturne, all’intervento del personale del 118 o a visite e ricoveri presso strutture ospedaliere esterne, che tolgono altre donne e uomini alla Polizia penitenziaria, già in deficit di 18mila unità”, denuncia il sindacalista della Uil-Pa. “Da ieri, per di più, con il preannunciato congedo del Capo del Dap, Bernardo Petralia, le carceri non hanno neppure una guida stabile e con mandato pieno. Rivolgiamo pertanto l’ennesimo appello alla Ministra Marta Cartabia, al Ministro Roberto Speranza e al Presidente Mario Draghi - conclude De Fazio - affinché affrontino compiutamente la grande questione penitenziaria, fatta di una sommatoria di emergenze, e che da tempo lede la dignità umana di chi vive e lavora nelle carceri, ma che inficia pure la credibilità del Paese e dei suoi governanti”. Csm e separazione carriere, in commissione partiti divisi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2022 Conclusa la bollinatura degli emendamenti, ora è corsa contro il tempo per approvare le modifiche. Su separazione delle carriere e Csm l’incognita referendum. Approda finalmente in commissione Giustizia della Camera la riforma di Csm e ordinamento giudiziario. Si è infatti conclusa la bollinatura degli emendamenti approvati all’unanimità in consiglio dei ministri ormai due settimane fa e dalla prossima settimana potrà ripartire il confronto tra le forze di maggioranza. Che non si annuncia facile e, verosimilmente, neppure breve. Sul cammino di un intervento già complesso, rimasto nei cassetti di Palazzo Chigi per quasi due mesi anche per la sua delicatezza, si è ora inserita anche l’incognita referendum. Tre dei cinque quesiti ammessi, infatti, insistono su temi direttamente interessati dalla riforma. Ad agitare le acque soprattutto la separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri che i promotori del referendum vogliono rendere assoluta, quando il disegno di legge Bonafede a monte degli emendamenti Cartabia a valle, comunque dimezza, facendo passare da quattro a due i passaggi da una funzione all’altra (su questo punto le proposte Cartabia non intervengono direttamente). Già in consiglio dei ministri, peraltro, Forza Italia aveva preannunciato l’intenzione di ridurre ulteriormente, a una sola, le possibilità di transito. Più di contorno, ma comunque significativi, gli oggetti degli altri due quesiti, sul diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari in materia di valutazioni di professionalità dei magistrati, che gli emendamenti Cartabia ammettono sia pure a determinate condizioni, e il minimo di firme necessarie per la presentazione della candidatura dei togati alle elezioni per il rinnovo del Csm, dove gli emendamenti cancellano il requisito per la presentazione nei collegi binominali. Divisivi nella maggioranza sono però anche altri elementi. A partire dal sistema elettorale del Csm, con gli emendamenti del Governo che intendono introdurre un sistema misto maggioritario-proporzionale, provando in questo modo a limitare l’influenza dei gruppi organizzati nella selezione dei candidati. Ma con Forza Italia, Lega e 5 Stelle che intendono riproporre il meccanismo del sorteggio, sia pure temperato per renderlo compatibile con la Costituzione che è chiara nel prevedere l’elezione dei componenti togati. Con il sorteggio cioè si dovrebbe procedere all’individuazione di un numero di candidature superiore a quello dei seggi da coprire, procedendo poi su questi nomi alle elezioni. La ministra Cartabia ha invece introdotto il sorteggio solo invia eventuale, nel caso non sia assicurato un minimo di candidati nei collegi e per garantire la rappresentanza di genere. Altro tema delicato, sul quale le crepe nella coalizione Draghi sono evidenti, è quello delle “porte girevoli” magistratura-politica. Gli emendamenti di 15 giorni fa, oltre a cancellare qualsiasi possibilità di contemporaneo esercizio del mandato politico ed esercizio dell’attività giudiziaria, erigono un muro assoluto alla possibilità di rientro in magistratura non solo per chi ha svolto un incarico elettivo, ma anche per le toghe chiamate a ricoprire ruoli più tecnici nelle compagini ministeriali o nelle amministrazioni locali. Troppo, per il Pd almeno, che si propone di mitigare la previsione, con l’obiettivo di non scoraggiare la partecipazione dei magistrati come figure tecniche oggi di difficile fungibilità. A complicare ulteriormente le cose c’è anche il fattore tempo. Perché la decisione, annunciata in conferenza stampa da Mario Draghi, di non volere procedere con il voto di fiducia sui testi passati con il sì di tutti i ministri, a differenza di quanto invece avvenuto per le due altre grandi riforme previste dal Pnrr, processo civile e penale, se garantisce una dialettica reale in Parlamento, tuttavia è destinata a un sicuro allungarsi del percorso di approvazione. Oggi l’approdo in Aula alla Camera è fissato per la fine di marzo. Ma l’obiettivo è di arrivare all’entrata in vigore della parte dedicata al sistema elettorale prima di luglio, quando sono in agenda, salvo rinvii per ora esclusi esplicitamente da Cartabia, le prossime elezioni per la nuova consiliatura. Del resto va anche ricordato che è dall’inizio di giugno, quando vennero depositati gli oltre 400 emendamenti al testo base Bonafede, che la Camera è rimasta in attesa delle proposte del Governo, impegnato sugli altri fronti aperti. Ora a nove mesi di distanza, i giochi sono ancora tutti da fare. Cartabia: “La presunzione d’innocenza è caposaldo delle democrazie” di Errico Novi Il Dubbio, 26 febbraio 2022 La guardasigilli torna sulle polemiche di questi giorni sulla normativa che cambia il rapporto tra procure e informazione dopo il comunicato della Fnsi. La ministra della Giustizia Marta Cartabia è ritornata sulla presunzione d’innocenza, che nei giorni scorsi è stata duramente criticata dalla Federazione nazionale della Stampa italiana. Al punto che il sindacato dei giornalisti ha presentato un primo esposto all’Unione Europea dove si chiede al commissario alla Giustizia e alla presidente del Parlamento di valutare le difformità tra il testo della direttiva sulla presunzione di innocenza e le norme italiane di applicazione di tale direttiva. La ministra Cartabia, intervenuta da remoto al convegno organizzato dall’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, ha chiarito il suo pensiero: “La presunzione di innocenza da secoli è un caposaldo delle nostre democrazie, così come lo è il diritto all’informazione”. Per la ministra la normativa “sulla presunzione di innocenza non è un’idea della ministra o del governo, ma è la necessaria attuazione di una direttiva europea, che risale al 2016. È una normativa necessaria per bilanciare due irrinunciabili principi della Costituzione italiana e del diritto europeo: da un lato, il diritto dei media di informare e dei cittadini essere informati e, dall’altro, il diritto delle persone indagate e imputate di non essere rappresentate come colpevoli”. Il decreto legislativo sulla presunzione di innocenza, ha spiegato ancora la guardasigilli “non è nient’altro che l’attuazione di una direttiva europea ed è ispirato anche a prassi già in atto da tempo in alcuni uffici giudiziari italiani. I diritti devono essere presi sul serio, come titolava un famoso libro di Ronald Dworkin di alcuni anni fa: cioè devono essere garantiti sul piano dell’effettività, nel contesto storico dato. Oggi dobbiamo fare i conti con i nuovi media e perciò dobbiamo trovare un nuovo equilibrio tra il diritto di informare e il diritto alla presunzione di innocenza, in un contesto in cui la potenza di comunicazione online è amplificata moltissimo dalle tecnologie, che sono in grado raggiungere rapidamente un enorme numero di persone. Quando il contesto e la storia cambiano, anche le modalità di preservare i principi e i diritti di sempre devono essere adeguati”. La ministra ieri ha espresso anche il suo cordoglio per la morte di Liliana Ferraro che “incarnò alti ideali e concretezza delle azioni, necessari allora come oggi nel contrasto ad ogni mafia e ad ogni malaffare”. Via Arenula è stata la sua casa per tanti anni: “Ferraro ha ereditato la missione di Falcone e ha lavorato, fino alla fine, per contrastare la criminalità organizzata”, ha concluso Cartabia. “Il gip Vincenti è innocente” Ma nel frattempo il giudice indagato si è tolto la vita di Simona Musco Il Dubbio, 26 febbraio 2022 Archiviata l’indagine che vedeva coinvolti il magistrato e il figlio avvocato. “Indagato uguale colpevole è un’equazione barbara”. Il Gip Cesare Vincenti e suo figlio Andrea, avvocato, erano innocenti. Lo ha stabilito ieri il Gip di Caltanissetta, che ha archiviato dopo quattro anni l’indagine sulla fuga di notizie legata al Palermo Calcio e in particolare all’ex patron Maurizio Zamparini. Nel frattempo, però, uno dei protagonisti di quella vicenda, il giudice palermitano accusato di aver spifferato notizie segrete al manager e raggiunto dall’avviso di garanzia subito dopo il pensionamento, si è tolto la vita. Era il 20 novembre 2019 quando l’ex presidente dell’ufficio del gip di Palermo si lanciò dal pianerottolo del quinto piano del palazzo in cui abitava, da una finestra del vano scale che dava sul parcheggio interno. Il suo gesto, spiegò all’epoca il difensore del giudice, non aveva a che fare con l’indagine, ma con una crisi depressiva che lo aveva colpito a gennaio 2019. Ma la vicenda, spiega oggi al Dubbio il figlio Andrea, ha comunque influito sul suo stato psicologico. “Non si è suicidato per quella indagine - racconta -, ma sicuramente la stessa ha avuto un’efficienza causale nell’aggravamento della patologia. Purtroppo con la sindrome depressiva ogni problema diventa una montagna invalicabile e mio padre viveva nel terrore di non poter essere in grado di difendersi, pur nell’assoluta consapevolezza della sua innocenza. Ho cercato di rassicurarlo, perché sapevo bene che non c’era alcun fondamento per quelle accuse. Ma per lui il mio era solo un tentativo di tranquillizzarlo. Questa cosa lo ha profondamente turbato”. L’indagine sui Vincenti nacque nell’ambito dell’inchiesta sul Palermo calcio e la fuga di notizie che nel 2018 avrebbe evitato a Zamparini, all’epoca componente del consiglio di amministrazione della società calcistica, la misura cautelare che la procura di Palermo era pronta a chiedere per le accuse di falso in bilancio e autoriciclaggio. Al giudice e a suo figlio si arrivò tramite un’intercettazione, che coinvolgeva un collega del gip, il quale aveva rivelato ad altri colleghi la convinzione che la ‘ talpa’ fosse il presidente Vincenti o il figlio avvocato, che di lì a poco fu nominato componente del comitato etico. Da lì le perquisizioni nelle abitazioni dei due indagati e nello studio del professionista, dopo le quali lo stesso non ha più avuto notizia del prosieguo delle indagini. “Questa persona ha detto che la talpa era Vincenti perché già sapeva di essere sotto indagine per la fuga di notizie. Da questa vera e propria calunnia ne è scaturito un procedimento penale”, ha sottolineato. Nonostante quella intercettazione fosse l’unico elemento a carico dei due, l’indagine è durata quattro anni. Un’enormità, soprattutto se si considera che la notizia di reato si è rivelata semplicemente infondata. “Rimanere sotto indagine tanto tempo è una cosa che può avere delle conseguenze devastanti sulla vita professionale, familiare, sociale - ha proseguito. Nel mio caso l’onestà, la correttezza e l’integrità di mio padre erano talmente note a Palermo che non ho avuto nessun tipo di ripercussione. Ma in altre circostanze sappiamo bene quanto possa essere devastante”. Da qui la condanna della cultura del sospetto: “L’equazione indagato uguale colpevole, un concetto barbaro, veicolato anche da alcuni magistrati, è una cosa che non è degna di un Paese civile e lo dico da avvocato prima ancora che da persona che è finita sotto inchiesta. Il principio per cui la colpevolezza si ha solo quando c’è una sentenza passata in giudicato è una cosa che dobbiamo riacquistare se vogliamo essere qualificati come Paese civile. E purtroppo l’Italia ha dei vulnus molto molto gravi su questi fronti”. Per non parlare, poi, dei temi legati al segreto investigativo: “Non è possibile che a volte si apprenda di essere indagati dai giornali. Se la procura di Caltanissetta avesse indagato senza clamori ci saremmo trovati davanti ad un decreto di archiviazione che oggi non sarebbe stato necessario nemmeno pubblicizzare. Se poi ci fosse stato un rinvio a giudizio allora sarebbe stato sensato rendere quella notizia pubblica, perché fondata. Il pm ha il dovere di indagare, ma deve farlo nel rispetto delle garanzie costituzionali di non colpevolezza dei soggetti sottoposti ad indagine”. Dopo il suicidio, la Camera penale di Palermo aveva stigmatizzato il clamore mediatico della vicenda, parlando di “cortocircuito” e collegando la tragedia di Vincenti all’indagine. “Non c’è dubbio che ci fu un aggravamento dettato da questa situazione - ha aggiunto il figlio Andrea -, ma la stima che il foro palermitano ha sempre avuto nei confronti di mio padre è la migliore dimostrazione di quanto fosse una persona seria. Il primo contraddittorio del magistrato è l’avvocato e se l’avvocato ha stima, rispetto e considerazione del magistrato significa che fa bene il proprio lavoro”. Vincenti, ora, valuterà tutte le azioni possibili da attuare nei confronti di coloro “che hanno calunniato me e mio padre. Saranno chiamati a rispondere delle dichiarazioni rese”. Referendum e responsabilità civile. Occasione mancata o nuova opportunità? di Bruno Lago Il Dubbio, 26 febbraio 2022 Il quesito sulla responsabilità civile era il più importante di tutti tra i sei proposti perché avrebbe potuto avere un effetto trainante per portare gli elettori alle urne referendarie per raggiungere il quorum del 50%, gli altri quesiti, essendo più tecnici, sono meno sentiti dalla gente. Ma il quesito era sbagliato perché non aveva alcun senso chiamare i giudici ad una responsabilità diretta visto che rimaneva immodificato l’art. 2 comma 3 della legge 117/ 88 che esenta i magistrati da responsabilità nell’interpretazione delle norme di legge, dei fatti e delle prove (la cosiddetta clausola di salvaguardia). Non so se si sia trattato di una svista o l’effetto delle convulse trattative Lega - Partito Radicale, ma tant’è, il risultato oggi è quello che ci teniamo una legge sulla responsabilità civile dello Stato per gli errori dei suoi magistrati che non funziona come aveva denunciato pochi mesi fa l’on. Enrico Costa, evidenziando che negli ultimi 12 anni lo Stato era stato condannato solo in 8 casi su 544 procedimenti. Inoltre, nel redigere il quesito, nessuno si era posto il problema del cittadino danneggiato che ricorre civilmente contro lo Stato per errori dei magistrati, al quale conviene sempre avere come controparte responsabile lo Stato e non il singolo magistrato che, invece, dovrebbe essere chiamato a risponderne attraverso un sistema di rivalsa efficace. E così il Presidente della Corte Costituzionale ha liquidato il referendum con una battuta, si sarebbe trattato di un referendum innovativo, non abrogativo! Comunque, fosse passato così il referendum, i magistrati ne sarebbero stati certamente contenti. Fortunatamente dai primi commenti dei promotori dei referendum sembra che ci si orienti a portare avanti una proposta di legge di iniziativa popolare che certo meglio si presterebbe rispetto al referendum per tentare una nuova riforma dell’istituto della responsabilità civile dello Stato e dei magistrati regolato dalla legge 117/ 88. E a ben vedere è importantissimo farlo, perché questa è “la madre” di tutte le riforme, in quanto solo attraverso una vera responsabilizzazione dei magistrati, sia civile che professionale, si potrà ottenere una giustizia più efficiente, rapida e giusta dal momento che nelle statistiche Ue l’Italia è all’ultimo posto per durata dei processi mentre l’indipendenza percepita dei magistrati da parte del pubblico è al livello dei paesi dell’est (fonte Eu Justice Scoreboard 2021). Ma nel proporre una legge di riforma della riforma già tentata nel 2015 con la l. 18/ 15, occorre capire veramente perché queste leggi non hanno funzionato, per evitare di ricadere negli stessi errori di valutazione. Con l’esperienza che ho maturato sul campo facendo un ricorso ex legge Vassalli (respinto), posso affermare che le ragioni per le quali la legge non funziona sono le seguenti: 1. L’impianto della legge è rimasto inalterato, il cittadino deve citare lo Stato nella persona del Presidente del Consiglio e non i magistrati sui quali lo Stato si potrà rivalere secondo specifiche modalità. Questo significa quindi che, in caso di sentenze di primo o secondo grado favorevoli al ricorrente, l’Avvocatura Generale dello Stato ricorrerà sempre fino in Cassazione. Il magistrato invece potrà attendere l’esito del procedimento sapendo che, in caso di condanna dello Stato, potrà essere passibile in alcuni casi entro due anni di un’azione di rivalsa da esercitarsi in via giurisdizionale con i tre gradi di giudizio. Questo impianto porta al risultato per il ricorrente che la disparità di forze in campo scoraggerà l’azione per i costi legali da sopportare e i tempi necessari; per il magistrato che il rischio di una effettiva sanzione, già limitato e rinviato a più di venti anni dall’errore commesso, ben difficilmente incoraggerà comportamenti virtuosi per limitare rischi di effettiva responsabilità civile potenzialmente derivanti dalle proprie delibere. 2. Il mantenimento della cosiddetta clausola di salvaguardia (l’interpretazione di norme di diritto, di valutazione del fatto e delle prove) che esclude di fatto da azioni di responsabilità civile gran parte dell’attività dei magistrati, salvo provare la colpa grave e il dolo che risultano sempre quasi impossibili da provare per l’interpretazione della Cassazione. 3. L’eliminazione della “negligenza inescusabile” come condizione per qualificare la colpa grave del magistrato e la violazione manifesta della legge e del diritto europeo sono state controbilanciate dall’introduzione di alcune condizionalità (grado di chiarezza delle norme violate, inescusabilità e gravità dell’inosservanza) sulle quali non mancherà certo di continuare ad esercitarsi la Cassazione a tutela dei colleghi, come da prassi consolidata che occorre stroncare sopprimendo tali condizionalità. 4. Il mantenimento nella legge di riforma degli obblighi di aver esperito tutti i rimedi, anche se non necessari, relativi del procedimento contestato e di aver sollecitato provvedimenti comunque dovuti ai fini del diniego di giustizia rappresentano ulteriori ostacoli che concorrono a tutelare in modo squilibrato la posizione dei magistrati, penalizzando l’interesse dei ricorrenti danneggiati. I magistrati naturalmente non condivideranno mai questa analisi, soprattutto gli argomenti di cui ai punti 1 e 2, e sosterranno che si tratta di aspetti indispensabili per salvaguardare il principio prioritario di rango costituzionale, quello dell’indipendenza dei giudici. Ma a ben vedere si tratta di un tabù evocato per mantenere garanzie e privilegi: non è forse altrettanto importante garantire al cittadino danneggiato dagli errori dei magistrati il diritto al risarcimento come richiesto dalla Corte di Giustizia con una sentenza contro l’Italia nel 2011? Giuliano Spazzali: “Servono processi penali per i pm che sbagliano” di Francesco Specchia Libero, 26 febbraio 2022 L’ex legale di Cusani: “No alla responsabilità civile. A giudicare i magistrati deve essere il Csm. La gente ha paura della giustizia. Il caso Davigo? Una nemesi”. Mollemente assiso sotto la libreria casalinga, sigaretta nazionale senza filtro che s’accende a intermittenza, un blocco di appunti per rabboccare la memoria, le borse sotto gli occhi gonfie come quelle zeppe di documenti con cui movimentava i processi: Giuliano Spazzali rimugina. A 83 anni l’ex principe del foro è ancora preso nella morsa della giustizia, tra referendum e affini. Avvocato Spazzali, riaffiora Mani Pulite. Cosa resta di quel periodo e dei suoi protagonisti? Lei difendeva Sergio Cusani, il suo pizzetto dalla tv faceva faville... “Ha presente i Tre moschettieri? Ecco, 30 anni dopo, per parafrasare Dumas, posso dire che Aramis era Colombo, galante e claustrale, Di Pietro e Davigo si scambiavano i ruoli di Athos e Portos, mentre D’Ambrosio era D’Artagnan; e non dimentichiamoci Italo Ghitti alle indagini preliminari. Una storia che nasce dall’8655/92, un fascicolo delle notizie di reato vuoto che si riempiva a ogni indagine. Con alcuni di loro ho buoni rapporti, Colombo fa cose egregie di divulgazione per le scuole”. Non la impressiona che, giusto nel Trentennale (di cui si è parlato ieri in un convegno al Palazzo di Giustizia di Milano) di Mani Pulite, Piercamillo Davigo sia stato rinviato a giudizio? “Mi viene da dire: cazzo, Davigo ha bisogno di un buon avvocato, è la restituzione del maltolto: ne ha combinate troppe. È una nemesi storica, come quella di Di Pietro che ora fa l’avvocato; mi ricordo i tempi di quando mi rinfacciò che “due libri li abbiamo letti” e io gli risposi: “Certo, lei ha letto Pinocchio, io Sandokan alla riscossa. Quella di Davigo però è altro, è una storiaccia”. Cosa pensa della “Loggia Ungheria”? “Tecnicamente una cagata tremenda”. Sulla Giustizia la Consulta ha ammesso 5 quesiti referendari su 6 che - mi pare di capire - lei voterà. Il tutto mentre i tribunali sono scossi dalle dichiarazioni di Palamara e dai sondaggisti per i quali risulta che solo un italiano su tre abbia fiducia nelle toghe. Come se lo spiega? “È il Sistema e il suo riflesso sul Csm, di cui ora assistiamo a un disperato tentativo di riforma compromesso dalle correnti. Più che non fidarsi della magistratura, la gente ha paura di averci a che fare. Guardi (mi fa un disegnino con tre monadi staccate che rappresentano i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario): in alcuni punti si fondono tra loro, e lì l’autonomia dei tre poteri diventa fittizia. Qui urge mettere mano ai fondamentali. Per esempio la custodia cautelare. Ci sono celle nella sede della polizia dove ho visto di tutto. Pinelli, d’altronde, è “scappato volando” da lì. Bisogna anche dire che lì è stato messo Mario Chiesa, un personaggio di rara supponenza, prima di esser interrogato”. Il referendum riguarda pure il Csm: candidature dei membri, entrata nei consigli giudiziari degli avvocati che valutano i magistrati. Non è citato il sorteggio dei membri, ma se ne parla sempre… “Il sorteggio mi pare inusuale, va bene per il Superenalotto. E non sono d’accordo con gli avvocati nei consigli giudiziari che giudicano i magistrati: è una contaminazione sconveniente, o fai l’avvocato o il magistrato”. Cosa pensa del fatto che sia stata esclusa dai referendum la responsabilità civile delle toghe? “Sulla responsabilità civile è difficile, nel caso dei magistrati, formulare la causa petendi (la costruzione del diritto soggettivo fatto valere in giudizio con la domanda proposta, ndr), e in ogni caso il cittadino ha solo - forse - un risarcimento del danno. In realtà lì la responsabilità del pm dovrebbe essere penale, non civile, e se ne dovrebbe occupare il Csm. Ma non come ora, dove la lentezza dei procedimenti è assurda e dannosa per i cittadini”. Lei ha iniziato come civilista e poi è finito col difendere gli studenti dei cortei anni 70. Si è mai ritrovato come giudice un pm con cui si era scontrato? Cosa pensa della separazione delle carriere? “Penso che il magistrato inquirente debba fare l’inquirente e non passare a giudicante, e viceversa. Anche perché, noi avvocati, coi pm abbiamo una contrapposizione spesso forte. Anche se, col tempo, io ho imparato che lo scambio di funzioni spesso non viene determinato dalla volontà di un magistrato che, da giovane, senza pratica, si ritrova catapultato dalla commissione di un distretto di Corte d’appello in un ruolo per il quale era inadatto. Ecco, ci vorrebbe un ulteriore periodo di pratica per entrambi i ruoli. Poi è vero che la differenza di giudizio tra inquirente e giudicante è molto alta”. La riforma Cartabia arriverà prima dei referendum? “La Cartabia è importante che si faccia ma non solo per i soldi che ci arriveranno dall’Europa. È un fatto di costruzione umana, di recupero della fiducia nella giustizia...”. La giudice: “Centinaia di denunce per codice rosso, se devo scegliere metto in coda altri processi” di Manuela Messina La Repubblica, 26 febbraio 2022 Dopo il calo durante il lockdown, tornano ad accumularsi i fascicoli per stalking e maltrattamenti. Per questo la giudice di Milano Panasiti spiega in aula al processo per caporalato: “Tra una donna che rischia di essere ammazzata e altre inchieste do la precedenza alla prima”. Roia: “Stiamo riducendo i tempi”. Da una parte, l’incremento delle denunce per reati legati alla violenza di genere dopo lo stop importantissimo avuto durante il lockdown della primavera del 2020. Dall’altro, anche “l’ottimo lavoro” del dipartimento fasce deboli della Procura di Milano, molto attivo nel contrasto a reati come violenze sessuali, maltrattamenti e atti persecutori. Sono queste sostanzialmente le ragioni dell’aumento sensibile dei processi da “codice rosso”, la legge 69/2019 a tutela di donne e soggetti deboli. Un tema di cui ha parlato apertamente la presidente della nona sezione penale del tribunale di Milano Mariolina Panasiti: in aula la giudice, nel processo a carico della ex manager di Uber per caporalato, ha invitato le parti a ridurre la lista testi al fine di accorciare i tempi del dibattimento in quanto la sezione nona (che si occupa di questo tipo di reati) è già oberata da centinaia di processi scaturiti da fascicoli da codice rosso. “Sono procedimenti - ha detto in aula Panasiti - da cui possono scaturire omicidi, in cui ci sono misure cautelari che scadono e io, se devo scegliere, scelgo la donna che rischia di essere ammazzata e questo processo lo metto in coda”. Fabio Roia, presidente vicario del tribunale e componente dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne, spiega che “l’aumento sensibile dei processi è stato determinato innanzitutto dal fatto che durante il primo lockdown c’era stato un abbattimento delle denunce del 70 per cento. Dopo la fine di quel periodo, fortunatamente, le donne che hanno subito violenze hanno ripreso a denunciare e questo è molto positivo. Inoltre - sottolinea Roia - il dipartimento fasce deboli sta lavorando molto bene”. Da qui vi è oggi la necessità per la Presidenza del Tribunale di adottare “gli opportuni accorgimenti per far sì che i tempi medi di definizione di questi procedimenti - che a Milano sono oggi di circa un anno - vengano ulteriormente contenuti attraverso provvedimenti organizzativi che stanno per essere adottati”. Roia ha spiegato anche che la presidenza del tribunale “ha fatto una riunione con tutti i presidenti delle sezioni, ed è stata fatta un’analisi dei dati. E adesso deve lavorare per adeguarsi nuovamente e per assicurarsi quella risposta ottimale di durata dei procedimenti di circa 8 - 10 mesi e che si è allungata a un anno”. Segnala Roia un altro dato tecnico: ovvero la legge 69/2019 sul codice rosso ha anche fatto sì che un reato, il maltrattamento con presenza di minori, sia diventato di competenza di un organo collegiale (tre giudici) al posto del giudice unico. “Il processo è sempre lo stesso, sono semplicemente aumentate le pene. Si tratta di una disfunzione su cui stiamo lavorando e che abbiamo segnalato attraverso canali istituzionali al Parlamento per mettere mano alla correzione della norma”. La detenzione cautelare sopravvenuta all’affidamento in prova ne determina solo la sospensione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2022 In assenza di revoca espressa il giudice può solo affermare l’incompatibilità tra la custodia e il beneficio per altra condanna. La detenzione cautelare non cancella, ma sospende, la misura alternativa dell’affidamento in prova concessa a titolo di espiazione della pena già comminata per altro reato. Il giudice, che applica i domiciliari all’imputato già in affidamento per altro titolo, una volta dichiarata l’incompatibilità tra le esigenze cautelari e il beneficio in atto, non fa che applicare la custodia al termine della quale, però, può ben riprendere l’affidamento già concesso e su cui non ha potere di pronunciarsi nel merito in tale sede. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 6922/2022, ha accolto il ragionamento del ricorrente secondo cui il giudice di sorveglianza aveva travalicato i propri poteri decretando la “cessazione” della misura alternativa, in sede di applicazione di quella cautelare sopravvenuta per altro titolo. L’affidamento è, nei fatti, solo sospeso fino alla cessazione della detenzione custodiale. Nel caso concreto il ricorrente scontava la misura alternativa alla detenzione quando gli veniva applicata una “nuova” misura cautelare personale di detenzione domiciliare. Il giudice giudicata la misura custodiale incompatibile con l’affidamento, oltre a disporre la detenzione domiciliare riteneva automaticamente revocata la misura alternativa, che invece andava ritenuta solo sospesa. In realtà la norma interpretata dalla Cassazione è l’articolo 298 del Codice di procedura penale che nulla dice su un caso del genere. Essa, infatti, regola il caso inverso cioè la sopravvenienza dell’esecuzione della carcerazione quando la persona è già sottoposta a custodia cautelare. In particolare la Cassazione boccia l’automatismo applicato dai giudici ricordando loro che al centro della valutazione da fare in simili casi c’è solo un giudizio di compatibilità. Infatti, va sottolineato che lo stato detentivo cautelare neanche preclude la possibilità di richiedere e vedersi riconosciuta la misura alternativa dell’affidamento in prova per condanna precedente: con il risultato che la sua esecuzione è rinviata al termine della custodia cautelare sopravvenuta. Riabilitazione, tre anni di buona condotta dall’estinzione anche della pena pecuniaria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2022 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza, n. 6923 del 2022. I tre anni di “buona condotta” prodromici alla “riabilitazione” non iniziano se il condannato, pur avendo scontato la reclusione, non ha ancora pagato la pena pecuniaria. Essa infatti costituisce parte della sanzione principale che deve dunque essere integralmente estinta perché possa decorrere il termine necessario per la concessione della riabilitazione. Né ci si può trincera dietro il fatto che la cartella di pagamento sarebbe arrivata con “colpevole ritardo”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza, n. 6923 del 2022, dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo contro l’ordinanza del Tribunale di Torino che, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile l’istanza di riabilitazione. Secondo il ricorrente, il Tribunale ha attribuito una rilevanza decisiva alla mancata decorrenza del termine di tre anni dall’estinzione della pena pecuniaria, senza però considerare che egli aveva dato prova di buona condotta e di pieno reinserimento nella comunità, “tanto da provvedere al pagamento della pena pecuniaria non appena ricevuta la cartella di pagamento che era stata colpevolmente notificata a distanza di oltre tre anni dall’esecuzione della pena detentiva”. Per la Prima sezione penale, invece, il tribunale correttamente ha confermato la declaratoria di inammissibilità dell’istanza. L’articolo 179 del codice penale, infatti, al primo comma, stabilisce in modo chiaro che: “la riabilitazione è conceduta quando siano decorsi almeno tre anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta”. Il distacco temporale minimo di almeno tre anni tra estinzione, espiativa o meno, della pena e proposizione della richiesta è quindi previsto “senza lasciare spazio per interpretazioni differenti o per abbreviazioni discrezionali del termine stesso”. E, come chiarito dalla giurisprudenza della Corte, “la pena pecuniaria fa parte della sanzione principale che deve essere integralmente estinta perché possa decorrere il triennio, preteso dal primo comma dell’articolo 179 codice penale”. Nell’ipotesi di applicazione di pena detentiva congiunta a quella pecuniaria, dunque, ai fini del calcolo del termine triennale previsto per la riabilitazione “occorre avere riguardo non solo alla data di espiazione della pena detentiva, ma anche a quella di pagamento della pena pecuniaria, giacché anche quest’ultima contribuisce, allo stesso titolo, a costituire la pena principale del reato”. Tale sistema normativo, conclude la decisione, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non pone dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con la “finalità e rieducativa della pena” atteso che “l’impossibilità di accedere al beneficio è ancorato alla mancata espiazione di una porzione della pena, quella pecuniaria per scelta volontaria del condannato che non deve necessariamente attendere l’avvio della procedura coattiva, a meno di adempiervi spontaneamente”. Rebibbia, s’impicca in cella a 44 anni. La Procura apre l’inchiesta. Stramaccioni: “Strage infinita” di Andrea Ossino e Alessio Campana La Repubblica, 26 febbraio 2022 Mamadou, 44enne originario della Guinea, è morto il 17 febbraio. Il sostituto procuratore Arcuri ha aperto un fascicolo contro ignoti, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio, accusa necessaria per poter svolgere gli accertamenti del caso. Una condanna alle spalle, un procedimento in corso e un lungo soggiorno in carcere all’orizzonte. La strada per Mamadou era diventata in salita. E giovedì scorso si è impiccato nella cella del Nuovo complesso di Rebibbia dove era detenuto. Una morte, l’ennesima avvenuta nelle carceri italiane, che adesso è al vaglio della procura di Roma. Mamadou, quarantaquattrenne originario della Guinea, il 17 febbraio 2022 ha aspettato che tutti i suoi compagni di cella fossero assenti, poi, intorno alle 14,30, si è impiccato, presumibilmente utilizzando i lacci delle scarpe. Era entrato nel penitenziario romano a dicembre del 2021, dopo essere stato detenuto a Rieti. Una condanna di sei anni per reati di droga e un’altra pendenza in corso di definizione. Mamadou era solo, senza vestiti puliti o amici che venissero a trovarlo durante le visite. L’amministrazione penitenziaria ha subito catalogato il caso come un suicidio, ma il sostituto procuratore Maurizio Arcuri non intende lasciare nulla al caso. Per questo motivo ha aperto un fascicolo contro ignoti, ipotizzando il reato di istigazione al suicidio, un’accusa necessaria per poter svolgere gli accertamenti del caso. La polizia scientifica e il medico legale sono stati inviati a ispezionare la cella e il corpo dell’uomo, mentre altri detenuti e la comandante del reparto sono stati ascoltati come persone informate sui fatti. Per chiarire la dinamica della morte, gli investigatori hanno anche acquisito i filmati catturati dalle telecamere di sicurezza del penitenziario. “Le indagini sono a tutto campo”, spiega il difensore della vittima, l’avvocato Andrea Palmiero, mentre sono ancora in corso le ricerche per trovare i familiari di Mamadou. Quello del quarantaquattrenne è l’ennesimo suicidio nelle carceri italiane, in un 2022 che è iniziato, sotto questo punto di vista, nel peggiore dei modi. Meno di un mese fa, nella struttura femminile, un altro suicidio è stato sventato soltanto grazie alla prontezza di una detenuta; mentre è ancora oggetto di mistero il caso della morte di un giovane a Regina Coeli: morto a causa di una bomboletta del gas, potrebbe essersi suicidato - come pare plausibile - ma potrebbe anche essere deceduto in seguito a un tragico incidente. Non è raro, infatti, che la bomboletta per la cottura dei cibi venga utilizzata come palliativo. La garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha parlato di “strage infinita all’interno dei penitenziari. Un sovraffollamento continuo, mancanza di personale, di educatori, di psicologi, di attività. Sono tantissimi coloro che vengono trasferiti da altri istituiti senza neanche i propri effetti personali - ha continuato - Padre Lucio (un sacerdote del carcere, ndr) mi ha detto con preoccupazione che per la prima volta gli è capitato di avere il magazzino vuoto per le tante persone che entrano senza soldi e senza nulla”. Soltanto nelle ultime settimane sono arrivate circa 70 persone a Rebibbia: “Spesso non riescono a parlare con gli educatori”, dice Stramaccioni. Padre Lucio, con Mamadou, non ha fatto in tempo a parlare, e anche il coronavirus ha influito negativamente sulla salute mentale dei detenuti. Al 21 febbraio, nelle carceri del Lazio, risultavano 20 persone positive a Regina Coeli, 6 nel femminile di Rebibbia, 22 al Nuovo Complesso, 2 a Frosinone, 1 a Cassino, 57 a Rieti, 22 a Velletri, 2 a Viterbo e 57 a Civitavecchia. “Ogni caso è una storia a sé - ha detto Stefano Anastasìa, garante dei detenuti del Lazio riferendosi all’ultimo episodio di Regina Coeli - ma qualcosa li tiene insieme tutti: l’insopportabilità del carcere, in generale e in particolare durante la pandemia. Speriamo che arrivi presto una riforma”. Carinola (Ce). Dramma nel carcere: detenuto si dà fuoco, è grave di Gianluca Russo ilmeridianonews.it, 26 febbraio 2022 Il 45enne ha ustioni sul 70% del corpo. Indagini in corso sui motivi che hanno condotto l’uomo ad un gesto così eclatante. Dramma ieri nel carcere di Carinola, nel casertano. Un detenuto di 45 anni, originario dell’hinterland partenopeo, si è ferito gravemente in seguito a quello che appare come un tentato suicidio. Stando a quanto emerso l’uomo si è dato fuoco utilizzando dell’alcol. Restano da chiarire i contorni dell’episodio sul quale sono in corso indagini ma le sue condizioni sono ritenute molto serie. È stato portato d’urgenza all’ospedale Cardarelli di Napoli. Il 45enne ha ustioni sul 70% del corpo. Indagini in corso sui motivi che hanno condotto l’uomo ad un gesto così eclatante e dai risvolti drammatici. Catanzaro: Emergenza nel carcere, la denuncia del sindacato: “Solo 5 medici e oltre 600 detenuti” calabria7.it, 26 febbraio 2022 “Adesso è vera e propria emergenza sanitaria nelle carceri del Paese, dove in molti casi non si riesce a garantire l’assistenza ai detenuti per carenza di medici di base e specialistici, con pesantissime ripercussioni sulla salute dei reclusi e sulla stessa sicurezza dei penitenziari”. È quanto denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Il 70 per cento dei detenuti soffre di almeno una malattia, ma fra questi la stragrande maggioranza è affetta da molteplici patologie e, non di rado, necessita di assistenza sanitaria h24 che invece non si riesce a garantire - prosegue il Segretario della Uilpa. Per rendere l’idea, a Bologna con 772 detenuti sono in servizio solo 4 medici di base, sui 16 previsti; a Catanzaro, con 642 ristretti, sono invece 5 i medici in forza, su 14 previsti. E così, a macchia di leopardo, più o meno in tutto il Paese. Stiamo assistendo a giornate in cui i sanitari devono decidere chi curare per primo e ad attese di molte ore per coloro che avvertono malori di varia natura. Vi è evidentemente un problema di organici del personale sanitario, ma si assiste anche a una certa ‘fuga dalle carceri’, poiché come denunciamo da tempo sono ormai saltati persino i canoni minimi di sicurezza e ogni giorno si contano minacce, aggressioni e feriti tra le file della Polizia penitenziaria, ma anche dell’altro personale, ivi compresi i sanitari”. “A questo - aggiunge De Fazio - si aggiunga che con la fine dello stato di emergenza, a meno di interventi normativi, scadrà il contratto per oltre 500 operatori socio-sanitari assunti per far fronte alla pandemia da Covid. Tutti fattori, peraltro, che minano ulteriormente l’ordine e la sicurezza interna, sia per le proteste dovute alla mancata assistenza, sia per la frequentissima necessità di ricorrere, specie nelle ore notturne, all’intervento del personale del 118 o a visite e ricoveri presso strutture ospedaliere esterne, che tolgono altre donne e uomini alla Polizia penitenziaria, già in deficit di 18mila unità. Da ieri, per di più, con il preannunciato congedo del Capo del Dap, Bernardo Petralia, le carceri non hanno neppure una guida stabile e con mandato pieno. Rivolgiamo pertanto l’ennesimo appello alla Ministra Marta Cartabia, al Ministro Roberto Speranza e al Presidente Mario Draghi - conclude - affinché affrontino compiutamente la grande questione penitenziaria, fatta di una sommatoria di emergenze, e che da tempo lede la dignità umana di chi vive e lavora nelle carceri, ma che inficia pure la credibilità del Paese e dei suoi governanti”. Catania. Parte il progetto “Un laboratorio per scrivere il proprio futuro” sicilianetwork.info, 26 febbraio 2022 Per offrire opportunità formative ai giovani dei quartieri più svantaggiati. Il progetto realizzato dalla Fondazione Piazza dei Mestieri “Marco Andreoni” con il sostegno di Intesa Sanpaolo e Fondazione Cesvi vuole contrastare l’abbandono scolastico e offrire l’opportunità concreta ai giovani dei quartieri periferici catanesi di costruire il proprio futuro al di fuori di un percorso di disagio sociale. Prevista la riqualificazione parziale, interna ed esterna, della struttura “Duca di Carcaci” che potrà così ospitare corsi di formazione, un’aula polifunzionale e altri spazi didattici. È possibile sostenere il progetto con una donazione sul sito web di For Funding, la piattaforma di crowdfunding di Intesa Sanpaolo: l’obiettivo è raccogliere 100.000 euro entro fine giugno. Il progetto fa parte del programma Formula, che include iniziative legate alle specificità dei vari territori, alimentate anche dalle devoluzioni del Gruppo bancario e dedicate a sostenibilità ambientale, inclusione sociale e accesso al mercato del lavoro per le persone in difficoltà. Non c’è nulla di più efficace che “isolare” per punire i condannati e esiliare gli sconfitti di Massimo Carlotto Tuttolibri - La Stampa, 26 febbraio 2022 Da Gorgona, colonia penale del Granducato di Toscana, ai depositi alluvionali dove sono confinati i Rohingya. Un saggio censisce 270 isole carcere nel mondo: la loro storia racconta le società attraverso la pratica penale. L’universo penitenziario è sconosciuto alla stragrande maggioranza degli italiani. I media se ne occupano se la notizia suscita allarme o scalpore, ma l’interesse per la sorte dei reclusi è affidata ai soliti operatori, intellettuali, giuristi e volontari che ritengono, a ragione, che la pena debba essere civile e nel rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Le prigioni esistono da sempre e la loro storia è ancora più sconosciuta. Valerio Calzolaio, con un passato da parlamentare e da sottosegretario al Ministero dell’Ambiente, e un presente da giornalista, saggista, esperto di letteratura, contribuisce a colmare la lacuna con un saggio: “Isole carcere, geografia e storia”, edizioni Gruppo Abele. Calzolaio è un intellettuale curioso, con uno sguardo unico sulla realtà. I suoi saggi si distinguono sempre per la capacità di analizzare i temi da punti di vista estremamente originali, acuti, dotti, rigorosi nella ricerca. Leggere Calzolaio è una sorpresa continua. E Isole carcere non delude le aspettative. Anzi. Per raccontare la storia dei penitenziari costruiti sulle isole di tutto il mondo, di per sé già straordinaria, l’autore affronta il concetto di isola con un approccio scientifico, biologico e antropologico. Da Darwin alle Galàpagos, dalla biogeografia insulare alla storia delle presenze umane, scopriamo come l’uomo abbia iniziato a concepire l’isola come ecosistema umano e la possibilità di usarlo come meta dell’esilio o per scopi detentivi, quando le società iniziarono a organizzarsi da un punto di vista giuridico. Greci, romani, i conflitti geopolitici della storia moderna, le colonizzazioni: così scopriamo che lungo i secoli, le scoperte dell’uomo vengono applicate alla pena, in particolare l’architettura che teorizza, immagina, progetta. La storia delle carceri isolane è così complessa - e allo stesso tempo così affascinante, soprattutto perché permette di osservare le società attraverso l’idea e la pratica della pena - che l’autore si pone il problema di capire se la classificazione debba avvenire con criteri geografici o tenendo conto delle caratteristiche di ecosistemi coevoluti con i sapiens. Le isole carcere nel mondo sono diverse centinaia ma il saggio ne censisce e analizza 270. La parte dedicata all’Italia è davvero interessante, dove oltre ai penitenziari, gli illuminati riformatori, in particolare del Granducato di Toscana, indicarono le colonie penali come luoghi riabilitativi e ancora oggi Gorgona ne ospita una. E qualche secolo più tardi il regime fascista usò le isole per confinarvi gli antifascisti. Eppure nonostante quello che hanno rappresentato come strumenti segreganti, vendicativi, fonti di sofferenze inenarrabili, raccontate nel corso del tempo dalle cronache, dalla letteratura e dal cinema, le isole carcere continuano a rappresentare una soluzione per gli stati. Ad esempio per i migranti. Dall’Europa all’Australia, al Bangladesh dove i dimenticati profughi Rohingya vengono ammassati addirittura su un’isola formata da instabili depositi alluvionali. Alcune sono state chiuse e destinate ad altri usi come l’Asinara in Italia. Calzolaio, che se ne è occupato quando era sottosegretario, propone per tutte la fine dell’esperienza penitenziaria, per restituire gli ecosistemi insulari a soluzioni diverse, anche di riproduzione sostenibile. La seconda parte del saggio è un vero e proprio viaggio in 22 isole, dalla arcinota Alcatraz alla sconosciuta Suomenlinna: otto isole, alcune collegate da ponti al largo di Helsinki. Campo di prigionia, carcere, luogo di preparazione alla prossima libertà e infine dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Tra le italiane, Santo Stefano, la più piccola delle isole ponziane, da sempre inadatta a ospitare essere umani, conserva una struttura carceraria paurosa, denominata Ergastolo. Furono i Borbone a erigerla a fine Settecento, una costruzione a ferro di cavallo con 99 celle che, crudelmente avevano vista solo all’interno e non verso il mare. Però dal punto di vista architettonico è di grande bellezza e vale la pena visitarla. Frutto dell’ingegno del maggiore Winspeare e dell’architetto Francesco Carpi, certi di interpretare i principi illuministi del filosofo inglese Jeremy Bentham. Strutture simili vennero edificate in varie parti del mondo, tra le più note quella di Rottnest Island, in Australia, destinata agli aborigeni. La bellezza, la ricchezza di fauna e flora, sono le contraddizioni più evidenti. Il nostro immaginario suggerisce scogli desolati sormontati da manieri inaccessibili, ma molte delle isole carcere sono luoghi da sogno come dimostrano le fotografie che corredano le schede. La scrittura di Valerio Calzolaio è davvero godibile, accompagna il lettore sorprendendolo con una visione unica, in cui scienza e storia si fondono. Un saggio importante sulla storia dell’uomo e sulla necessità di “isolare” per esiliare o punire. E sulla necessità di una serie di riflessioni determinanti per il nostro futuro, anche dal punto di vista ambientale. Un anno con Godot. Quando l’arte porta evasione in carcere di Pietro Cerniglia thewom.it, 26 febbraio 2022 L’arte, il teatro e l’evasione sono al centro di “Un anno con Godot”, il film proposto da Sky. La divertente commedia, nel segno di Beckett, trae spunto da una storia, incredibilmente, vera, di cui si sta realizzando il remake anche in Italia. Il film proposto racconta la storia di Etienne, un attore in difficoltà che accetta di condurre un seminario di teatro in prigione per guadagnare qualche soldo utile a sbarcare il lunario. Sorpreso dalle doti di recitazione dei detenuti, Etienne decide di organizzare con loro uno spettacolo da portare in scena sul palcoscenico di un vero teatro. Ha così inizio una formidabile avventura umana dal finale per tutti inaspettato. Ma quello che sorprende maggiormente della commedia è il modo in cui l’arte, dentro le mura di un carcere, diventi simbolo di speranza, libertà ed… evasione, nel vero senso della parola. Da una storia vera - Un anno di Godot, il film che Sky propone il 3 marzo, trae spunto dalla vera storia di Jan Jönson, accaduta nel 1985. Ha raccontato il regista Emmanuel Courcol: “Qualche anno fa, il mio produttore Marc Bordure mi ha fatto scoprire un documentario sulla storia di un regista teatrale, Jan Jönson, che ha messo in scena Aspettando Godot con i detenuti di un carcere in Svezia. Lo spettacolo aveva avuto un successo così grande da spingere le autorità a dare il permesso ai detenuti di andare in tour fino a raggiungere il Teatro Royal di Goteborg. Qui, il giorno della prima, cinque dei sei detenuti protagonisti sono evasi, generando un inatteso scompiglio”. “Ho subito cominciato a pensare a una trasposizione francese e contemporanea della vicenda”, ha proseguito Courcol. “In un primo momento, sono state tante le domande che mi sono posto: non sarebbe stato troppo scomodare Beckett? Avrei dovuto sostituire la recitazione con il canto? Con la musica? Con la danza? E se i protagonisti anziché uomini fossero state donne? Su una cosa ero certo: non potevo usare l’ambiente carcerario svedese degli anni Ottanta. Con il passare del tempo, ho poi realizzato di dover rimanere il più fedele possibile agli eventi”. Una commedia beckettiana - Il regista Courcol non ha però voluto che Un anno con Godot, film proposto da Sky, fosse un dramma. Anzi, ha scelto la chiave della commedia. “Non amo particolarmente mettere in scena la disperazione, anche quando racconto drammi”, ha sottolineato. “Credo ci sia sempre spazio per un raggio di sole, per la speranza. Ho dunque voluto mettere in evidenza il potenziale emotivo, comico e drammatico di questo gruppo di detenuti chiamati a rappresentate il testo di Becket e molto più vicini all’universo di Aspettando Godot di quanto si possa immaginare. Il vuoto, l’assenza, l’attesa, la vacuità totale e l’ozio, elementi della rappresentazione, segnano anche il quotidiano dei detenuti ed è questa la ragione per cui il testo li tocca molto da vicino. Aspettando Godot è forse una delle opere contemporanee più conosciute nel mondo del teatro contemporaneo e il cui titolo da solo riassume bene la trama estremamente semplice. Ho voluto conoscere ovviamente Jan Jönson e ne ho apprezzato la personalità appassionata, ossessiva e segnata dall’esperienza con i detenuti, un’avventura che gli ha completamente cambiato la vita al punto di divenire amico di Beckett e da ripetere l’esperienza svedese con un gruppo di detenuti di San Quentin in California (senza evasione finale!)”. Un lavoro da prendere sul serio - Il protagonista principale di Un anno di Godot, il film proposto da Sky, nei panni di Etienne è Kad Merad. Noto per Giù al Nord e Les choristes - I ragazzi del coro. “Etienne prende sul serio il suo lavoro con i detenuti. Li tratta come tratterebbe i veri attori ed è l’unica persona ad avere il coraggio di affrontare Kamel, il vero capo della prigione temuto da tutti”, ha raccontato l’attore. “Non ha problemi con l’affrontarlo faccia a faccia: è entrato in carcere per fare teatro, indipendentemente dalle minacce, e il boss presto crolla di fronte alle sue ferme intenzioni. Con Jordan, uno dei detenuti, stabilisce quasi una relazione padre-figlio: potrebbe essere realmente suo figlio, quel figlio che non vuole fare l’attore e a cui il padre sottolinea invece le sue straordinarie qualità”. Un cast variegato - Variegato è il gruppo di attori chiamati in Un anno con Godot, film che Sky offre il 3 marzo, a interpretare i detenuti, con origini socioculturali differenti, protagonisti di Aspettando Godot. Wabinlé Nabié è Moussa, arrestato per aver ucciso accidentalmente qualcuno durante uno scontro. Sofian Khammes è Kamel, il rapinatore divenuto “capo” del carcere. David Ayala è Patrick, detenuto per una truffa ai danni degli anziani. Pierre Lotin è Jordan, ladruncolo recidivo. Lamine Cissokho è Alex, spacciatore di poco conto e Alexander Medvedev è il russo Bojko, che dentro il carcere si occupa di lavori domestici. Non mancano poi nomi più blasonati del cinema francese come Marina Hands (è Ariane, la direttrice del carcere) e Laurent Stocker (è Stéphane, regista teatrale). Il remake italiano - La forza e il messaggio lanciato da Un anno con Godot, il film Sky, è tale che in Italia si è pensato di farne un remake. Si chiama Buon viaggio ragazzi con la regia di Riccardo Milani e uscirà al cinema distribuito da Vision Distribution. Le riprese si sono già concluse e il posto di Kad Merad nella nostra versione è preso da Antonio Albanese. Con lui ci sono Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Giacomo Ferrara, Giorgio Montanini, Andrea Lattanzi, Nicola Rignanese e Fabrizio Bentivoglio. La storia di Buon giorno ragazzi è presto raccontata. Di fronte alla mancanza di offerte di lavoro, per sbarcare il lunario, Antonio, attore appassionato ma spesso disoccupato, accetta un lavoro come insegnante di un laboratorio teatrale all’interno di un istituto penitenziario. All’inizio titubante, scopre del talento nella improbabile compagnia di detenuti e questo riaccende in lui la passione e la voglia di fare teatro. Antonio riesce a convincere la direttrice del carcere a valicare le mura della prigione e mettere in scena la famosa commedia di Samuel Beckett Aspettando Godot su un vero palcoscenico teatrale. Giorno dopo giorno i detenuti si arrendono alla risolutezza di Antonio e si lasciano andare scoprendo il potere liberatorio dell’arte e la sua capacità di dare uno scopo e una speranza oltre l’attesa. Così quando arriva il definitivo via libera, inizia un tour trionfale. Acqua, nucleare, soldi ai partiti: così falliscono i referendum di Daniela Preziosi Il Domani, 26 febbraio 2022 Nel 1993 un referendum abolì il ministero dell’Agricoltura e delle foreste. Lo chiedevano nove regioni che volevano prendersene i poteri. Ma a stretto giro “il morto” è resuscitato con il nome di ministero delle Politiche per l’ambiente. Nella stessa carneficina era finito, sempre tramite il voto popolare, il ministero del Turismo; ma nel 2009 è stato riesumato dal governo Berlusconi, nel 2013 è stato incorporato dal dicastero dei Beni culturali e alla fine l’anno scorso Mario Draghi, senza complessi, lo ha fatto tornare allo splendore di ministero autonomo, nell’assetto che ventisette anni prima il referendum aveva cancellato. Alla vigilia di un’altra tornata di referendum abrogativi, le forze politiche che li hanno promossi - e quelle che li contrastano - si agitano per il quorum, sempre più difficile da raggiungere. Ma la strategia dell’astensionismo, teorizzata da Bettino Craxi con il suo invito ad “andare al mare” anziché votare il no al taglio della scala mobile (nel 1985 vinse lui), non è l’unica via per far fallire un quesito. C’è anche quella, più raffinata, di ignorarne l’esito. Tecnica molto praticata dai governi e dai parlamenti italiani, e favorita da diffusi fenomeni di amnesia collettiva. Il più smagliante esempio è il referendum sull’acqua pubblica. Celebrato nel giugno 2011, era partito, racconta Marco Bersani, uno dei leader di quel movimento, “nel 2005, quando una serie di comitati territoriali iniziano a coordinarsi tra loro”. Nasce il Forum italiano dei movimenti per l’acqua, presenta in parlamento una legge di iniziativa popolare: un successone. Ma il testo ristagna per anni alla Camera. “Un nuovo enorme tam tam produce un milione e 400mila firme e porta a votare sì al referendum oltre 26 milioni di persone, la maggioranza assoluta del popolo italiano”. I grandi partiti lo considerano una iattura, il Pd di Bersani, Pierluigi, arriva al sì fuori tempo massimo, “a pochi metri dal traguardo, da una parte perché si accorge che avrebbe potuto vincere, dall’altra perché interpreta quella spinta come utile a mettere in crisi il governo Berlusconi”. È un plebiscito. Poi però, racconta ancora Marco Bersani “gli anni successivi sono un percorso a ostacoli. D’altronde la vittoria referendaria, con il suo no al mercato come unico regolatore sociale, appariva di un antagonismo culturale e politico senza precedenti”. L’agosto del 2011, a due mesi dalla vittoria referendaria, è quello della lettera della Bce firmata dal due Trichet-Draghi che apre la strada alla crisi di Berlusconi e al rigore di Monti. Il movimento non si ferma, riprova con una legge d’iniziativa popolare che però “non va oltre le commissioni”. Intanto “a livello locale le grandi multiutility fanno pressioni enormi”. Insomma: “I risultati non si sono visti. Con l’unica eccezione di Napoli, che con la giunta De Magistris ha attuato il referendum”. Oggi la beffa conclusiva: “Ora c’è il rischio di chiudere quella stagione con l’approvazione del ddl Concorrenza. Il provvedimento riesce a dire, all’articolo 6, che la funzione di un comune è quella di ricorrere al mercato per la gestione di tutti i propri servizi, da quelli a “rilevanza economica”, dunque acqua, energia, rifiuti, trasporto locale, fino ai servizi sociali e culturali; e se un comune decide di autoprodurre un servizio, deve sottoporsi a una trafila di procedure, compreso il passaggio all’Antitrust. È il tentativo di rendere definitiva la privatizzazione dei servizi pubblici locali e di stravolgere la storica funzione pubblica e sociale dei comuni. Un tentativo che va fermato senza se e senza ma”. Eppure, almeno sull’acqua, era già stato fermato dieci anni fa. I radicali, partito referendario per antonomasia, hanno i loro cavalli di battaglia quanto a referendum ignorati. Fra i principali, il finanziamento dei partiti e la responsabilità civile dei magistrati. Il primo è stato abolito nell’aprile del 1993 e ripristinato subito nel dicembre dello stesso anno (legge 515). Poi di nuovo abolito, questa volta da una legge, nel 2014 dal governo di Enrico Letta, e ora di nuovo in odore di riabilitazione, come male minore, viste le disastrose conseguenze dei soldi versati dai privati alle forze politiche e alle fondazioni. Ma è la responsabilità civile dei magistrati a essere citata ogni giorno negli approfondimenti di Radio Radicale, complice la recentissima bocciatura da parte della Corte costituzionale di un nuovo referendum sullo stesso tema. Il quesito votato nel 1987 poggiava sull’articolo 28 della Costituzione che prevede che “ogni singolo funzionario, compresi i giudici, siano direttamente responsabili per i danni causati nell’esercizio delle proprie funzioni”. Vinto il referendum, trovato l’inganno: inventata cioè una legge che fingeva di accoglierne il principio, e invece lo rovesciava e rendeva impossibile - i dati lo confermano - il meccanismo. Lo stesso Marco Pannella lo denunciò in ogni sede. Lo si legge sulla pubblicazione Noi del 1993: “Psi e Pli erano con noi. Ebbene, appena un anno dopo, la lobby corporativa dei giudici riportò una sua ignominiosa vittoria: stracciando Costituzione e democrazia, grazie anche a un parlamento servile e cieco, un ministro di Grazia e giustizia socialista (Giuliano Vassalli) ottenne la pratica abolizione di un principio che doveva invece essere esteso e reso effettivo”. Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga promulgò, e secondo Pannella finì che poi Vassalli riscosse un premio “Il partito socialista lo ha trasferito alla Corte costituzionale, dove siede a giudicare le sue stesse leggi: e, solo per un pelo, Craxi ha mancato di farlo eleggere alla presidenza della Repubblica”. Anni dopo Pannella raccontò che Craxi, ormai fuggito a Tunisi, era pentito di essersi fatto prendere la mano da Vassalli, giurista, partigiano ma anche uno dei socialisti che non aveva condiviso il referendum. La lista è lunga, c’è anche il voto sull’ingresso dei privati nella Rai, 1995. Vinto, e dimenticato. Tecnicamente non sono invece stati “traditi” i referendum contro il nucleare. Anche se le recenti intemperanti dichiarazioni del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani lasciano qualche dubbio: il nucleare escluso nel 1987 con voto popolare era quello “di prima generazione”, ha sostenuto, “In futuro, quando avremo tutti i dati sui costi per megawatt, sulla produzione di scorie radioattive, su quanto sono sicure le centrali di quarta generazione, allora il paese potrà prendere le sue decisioni”. Edo Ronchi, ex ministro, storico ambientalista ed estensore dei primi tre quesiti del 1987, conferma che di tradimento in senso stretto non si tratta: “I quesiti non lo vietavano direttamente perché non esisteva una legge sul nucleare, ma modificavano le normative che consentivano di fare le centrali nucleari”. Il primo quesito chiedeva l’abolizione dell’intervento statale nel caso in cui un comune non avesse concesso un sito per una centrale nucleare; il secondo abrogava i contributi statali ai comuni per la presenza di centrali nucleari sui loro territori; il terzo aboliva per l’Enel la possibilità di costruire centrali all’estero. Per questo fu possibile che nel 2011 se ne riparlasse, con un altro referendum: “Nel 2009 il governo Berlusconi vuole tornare al nucleare. Fa una nuova legge e dà la possibilità di fare centrali nucleari con altre procedure rispetto a quelle abrogate. E allora si raccolgono le firme per prevedere un nuovo referendum”. Nuova valanga di no nukes, “anche se i partecipanti furono meno del 60 per cento perché i filonucleari pensavano di boicottare il referendum”. Insomma Cingolani è un “traditore”, ma solo a metà: “Un conto è la ricerca, che non è stata mai limitata, un conto è la programmazione e la realizzazione di impianti innovativi. Che saranno innovativi quanto si vuole, ma sempre basati sulla fissione, dunque non sono consentiti, e ci vorrebbe una legge che però contrasterebbe il referendum fatto. Infatti il ministro fra le tante dichiarazioni ha detto anche che “in Italia non lo possiamo fare perché c’è stato un referendum”. E in effetti non lo possiamo fare. Ma attenzione, il parlamento è sovrano: può varare una legge che, modificando il testo abrogato, lo ripristina”. Più tranchant Ermete Realacci, già presidente di Legambiente e ora di Symbola: “Chi ripropone il nucleare fa chiacchiere da bar. L’anno scorso in tutto il mondo la produzione di energia da nucleare è calata di 3mila megawatt e quella da rinnovabili è aumentata di 290mila megawatt. In Francia Emmanuel Macron fa un po’ di campagna elettorale ma se non ci mette molti soldi pubblici fallirà anche la centrale in costruzione a Flamanville, in ritardo di oltre sette anni e con costi triplicati”. Per questo la “tassonomia” della Ue, dice Realacci, “consente i finanziamenti. Certo, se qualcuno vuole vendere il nucleare ai paesi arabi preferisco sia la Francia anziché la Russia o la Cina. Ma in occidente al nucleare non crede più nessuno. Neanche Matteo Salvini: lo voglio vedere a dire a Luca Zaia che costruisce una centrale in qualche paese del Veneto per far pagare l’energia di più agli italiani. La ricerca sulla fusione va fatta perché può aprire altre porte: se non facevamo i voli spaziali non avremmo oggi i pannelli fotovoltaici. Ma una cosa è la ricerca, il resto sono solo ragionamenti oziosi”. Diritti: non si chiamerà più Ius soli ma Ius scholae. La legge è pronta di Giovanna Casadio La Repubblica, 26 febbraio 2022 Il nuovo obiettivo: il riconoscimento di cittadinanza ai minori stranieri legato a un percorso scolastico. Il provvedimento punta a un accordo ampio e veloce, anche se la strada è tutta in salita: Lega e FdI hanno fatto sapere che non se ne parla. Dalle parole ai fatti: è pronta la legge sulla nuova cittadinanza che riguarderà un milione di ragazzi figli di immigrati nati e cresciuti in Italia. Potranno diventare cittadini italiani, uscendo dal limbo che li vede italiani di fatto ma non di diritto. Doveva essere discussa ieri in commissione Affari costituzionali, ma la guerra Russia-Ucraina ha congelato tutto. Perciò la proposta presentata dal presidente della commissione, il grillino Giuseppe Brescia, che ne è anche il relatore, slitta alla prossima settimana. Dopo decenni di scontri, e addirittura una approvazione nel 2015 alla Camera per poi finire nel nulla al Senato, il provvedimento è l’erede dello ius soli. Modifica la legge numero 91 del 1992 che si basa sullo ius sanguinis, il diritto cioè alla cittadinanza italiana solo se figlio di almeno un genitore italiano. Mentre i bimbi figli di stranieri possono chiedere la cittadinanza dopo i 18 anni, e se hanno risieduto ininterrottamente in Italia. Non sarà più così. Il Pd, ma anche buona parte dei 5Stelle e la sinistra, dovrebbero spuntarla con il primo passo in Parlamento di un diritto tanto atteso: fu una campagna della comunità di Sant’Egidio nel 2010 a mettere in agenda la necessità di cambiare lo ius sanguinis. Adesso il testo che la commissione di Montecitorio è chiamata ad esaminare è in tre articoli e introduce lo ius scholae o ius culturae. In pratica “un bambino nato in Italia o arrivato in Italia prima di avere compiuto 12 anni, nel momento in cui compie un ciclo scolastico di 5 anni, facendone richiesta, ottiene la cittadinanza italiana”: così recita la proposta sulla quale si comincerà a discutere e a votare alla Camera. Spiega Brescia che la legge prevede esclusivamente lo ius scholae, cioè il riconoscimento di cittadinanza ai minori stranieri legato a un percorso scolastico. Quindi aggiunge: “Credo che il modello dello ius scholae possa trovare un consenso largo, anche perché mette al centro il valore della scuola, il ruolo dei nostri insegnanti. È in classe che si costruisce la cittadinanza, l’appartenenza a una comunità. Ho lavorato su questo testo semplice che può essere approvato già in questa legislatura”. Un provvedimento che punta a un accordo ampio e veloce, anche se la strada è tutta in salita. Sia Matteo Salvini sia Giorgia Meloni hanno fatto sapere che non se ne parla. Ne è consapevole Matteo Mauri, ex vice ministro all’Interno, al quale il segretario dem, Enrico Letta ha delegato il dossier cittadinanza. “Siamo molto soddisfatti che se ne ritorni concretamente a discutere. Il Pd è da sempre molto determinato e il segretario Letta ha spinto da subito in questa direzione. È una questione di civiltà che è in sintonia con la maggior parte dell’opinione pubblica. Sarebbe assurdo non farlo. Sappiamo che non sarà facile a causa dell’opposizione ideologica di alcuni partiti. Ma faremo di tutto per farla passare nella forma più avanzata possibile”. Brescia è fiducioso che sulla proposta snella da lui presentata si possa arrivare all’approdo. Lancia anzi un appello: “Ci sono leggi e regole che cambiano la vita di migliaia di persone e ci sono discussioni politiche che vengono fatte per lasciare tutto com’è. Serve un impegno serio con zero propaganda. Chi aspetta da anni questa legge non merita uno show pre-elettorale e strumentalizzazioni da destra e sinistra”. Eutanasia, imparzialità della Consulta? Amato non ha certo nascosto la propria opinione di Vittorio De Vecchi Lajolo Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2022 Cito dal regolamento della Corte Costituzionale: Ai membri […] è fatto divieto, in particolare per la durata del loro mandato di prendere posizione pubblicamente o di prestare consulenza su questioni che siano state o possano essere oggetto di decisione della Corte; […] E ancora: Nello svolgimento delle loro funzioni, così come al di fuori di esse, i giudici della Corte Costituzionale si comportano in modo tale da non compromettere la reputazione della Corte, la dignità della funzione e la fiducia nella loro indipendenza, imparzialità, neutralità ed integrità. […] I giudici non esprimono pareri su questioni di diritto costituzionale né previsioni sull’esito di procedimenti pendenti davanti alla Corte o imminenti. […] Nei rapporti con i mezzi di comunicazione, i giudici della Corte Costituzionale si esprimono con modalità ed in formati compatibili con l’incarico, la reputazione della Corte e la dignità della loro funzione. […] Anche dopo il termine del loro mandato i giudici della Corte Costituzionale si attengono a principi di moderazione e discrezione nelle esternazioni e nel comportamento con riferimento all’attività della Corte. E infine: I comunicati stampa concernenti sentenze e altre decisioni vengono allestiti dal cancelliere in collaborazione con l’incaricato dei contatti con i media e approvati dal collegio giudicante di regola assieme alla redazione della sentenza. A questo punto, se qualcuno ha, volente o nolente, creato un’associazione mentale tra i passaggi riportati qui sopra e l’”Amato-show” di giovedì 16 febbraio scorso, nonché la replica di martedì 22 da Floris, sarà saltato sulla sedia per lo spavento. Possibile che il presidente della Corte Costituzionale applichi un’interpretazione così disinvolta del regolamento al quale dovrebbe conformarsi? Niente paura, l’equivoco è presto spiegato: le citazioni qui sopra sono tratte dai regolamenti delle corti costituzionali francese, tedesca e svizzera. Quello della Corte Costituzionale italiana non prevede nulla di simile. Eppure, perbacco, a leggerli sembrerebbero principi universali, validi in qualsiasi democrazia che adotti il principio di separazione dei poteri. Anche all’ordinamento (giudiziario) italiano il concetto di terzietà e imparzialità del giudice non è certo estraneo. Allora perché mai dovrebbe essere lecito, proprio per i membri del più autorevole organo giusdicente della Repubblica, infrangere questa regola? Non entro nel merito delle recenti decisioni sull’inammissibilità dei quesiti referendari su eutanasia e legalizzazione della cannabis, anche perché ancora non se ne sa moltissimo. In un paese normale attenderemmo di leggere le sentenze per commentarle. Ma siccome il presidente della Corte Giuliano Amato ha ritenuto opportuno prima indire una conferenza stampa e poi, non pago dei 60 minuti di show offerto ai giornalisti, bissare con l’intervista da Floris, era veramente inevitabile che finisse per “prendere posizione pubblicamente” e “esprimere pareri su questioni di diritto costituzionale”. E non ha certo cercato di nasconderla, la propria opinione, come dimostrano alcuni passaggi tratti dalla conferenza stampa: “Peccato che il referendum non fosse sull’eutanasia ma fosse sull’omicidio del consenziente.” L’ordinamento italiano (articolo 75 Costituzione) conosce solo il referendum abrogativo. Per poter abrogare qualcosa, bisogna che prima ci sia. L’eutanasia che non c’è non si può abrogare; l’omicidio del consenziente, ovvero l’articolo 579 del Codice Penale che punisce “chi cagiona la morte di un uomo col consenso di lui”, invece sì. O uno giudica che l’abrogazione proposta avrebbe prodotto una norma incostituzionale, oppure uno ammette il referendum. Non è compito della Corte o dei suoi membri esprimere opinioni. “Leggere o sentire che chi ha preso la decisione che abbiamo preso ieri non sa che cos’è la sofferenza mi ha ferito, ha ferito tutti noi e ci ha ferito ingiustamente. […] Dire che questa Corte fosse mal disposta significa dire una cattiveria che Cappato si poteva risparmiare, sarebbe stato meglio si interrogasse su ciò che stava facendo, dato che nel quesito non si parlava di eutanasia ma di omicidio del consenziente”. La Corte Costituzionale è chiamata a valutare la costituzionalità di una norma. I giudici sono togati proprio perché nell’esercizio delle loro funzioni non dovrebbe avere alcun peso la loro personalità individuale, ma solo il ruolo che ricoprono. Un giudice che sostiene di essere “personalmente ferito” dal commento di una parte in causa è un’aberrazione giuridica e un segnale di profonda confusione sul ruolo che è chiamato a svolgere. Sembra che la valutazione di una questione costituzionale e umana di estrema importanza, come l’eutanasia, sia diventata una bega personale tra Amato e Cappato. “La decisione è stata presa sulla base di criteri previsti dalla Costituzione. Io sono assai meno politico di lui, dovrebbe saperlo.” Meno politico? Un giudice costituzionale che, in un paese serio, sostenesse così candidamente di essere “assai meno politico” sarebbe almeno travolto da un ciclone di indignazione se non costretto a dimettersi. La politica è (o dovrebbe essere) un tabù assoluto per un giudice nello svolgimento delle proprie funzioni, altrimenti addio imparzialità. Poi, siccome evidentemente non era ancora soddisfatto del proprio operato, Amato ha colto l’occasione di martedì scorso per annunciare che, a suo avviso “i promotori di un referendum, anche se hanno raccolto centinaia di migliaia di firme, non rappresentano il popolo” (che o è un’ovvietà, o è un giudizio politico sulla bontà dell’iniziativa referendaria) e che “bisogna che l’Italia un po’ si abitui al fatto che una Corte Costituzionale, oltre che a parlare con le sentenze, si adopra anche per spiegarle.” Peccato che nessuno gli abbia fatto notare che è compito della stampa di informare, spiegare e commentare, non dei giudici. A questo punto uno potrebbe legittimamente cominciare a nutrire qualche dubbio sulla reale imparzialità della Corte o sul rispetto del principio fondamentale di separazione dei poteri. In fondo, se solide democrazie di comprovata qualità come Francia, Germania e Svizzera circondano la libertà di opinione dei giudici di tali e tante cautele, qualche buon motivo ci sarà. Ma forse non c’è neanche bisogno di arrivare a tanto. Basta soffermarsi brevemente sul curriculum - indubbiamente brillante - del presidente per rendersi conto che quando uno è stato “membro del Parlamento per 18 anni, Ministro dell’Interno, due volte Ministro del Tesoro e due volte Presidente del Consiglio” ed è ancora oggi (tra le altre cose) professore universitario e autore di innumerevoli pubblicazioni “su antitrust, libertà individuali, forma di governo, integrazione europea e su vari temi politici” nonché, naturalmente, giudice costituzionale, forse qualche volta faccia un po’ di confusione tra i tanti ruoli che ricopre. Contro la guerra folle, la verità della pace di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 26 febbraio 2022 Condanniamo questa avventura del Cremlino che è una aperta violazione del diritto internazionale, con la stessa forza e chiarezza con cui questo giornale ha condannato le guerre occidentali (e non solo, a cominciare dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979) all’Iraq, alla Somalia, all’ex Jugoslavia, all’Afghanistan, alla Libia, a Gaza e alla Palestina, alla Siria. Noi diciamo un forte, urlato quanto disperato No all’aggressione militare della Russia di Putin all’Ucraina che da ieri mattina mostra con la decisone di sorvoli di caccia militari su Kiev risvegliata dagli allarmi aerei, un aspetto che sarebbe criminale. Condanniamo questa avventura del Cremlino che è una aperta violazione del diritto internazionale, con la stessa forza e chiarezza con cui questo giornale ha condannato le guerre occidentali (e non solo, a cominciare dall’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979) all’Iraq, alla Somalia, all’ex Jugoslavia, all’Afghanistan, alla Libia, a Gaza e alla Palestina, alla Siria… Comunque le immagini della metropolitana di Kiev con bambini e donne terrorizzate sono una ferita della memoria: con un indicibile dolore personale, ci ricordano le notti dei bombardamenti Nato di Belgrado di 23 anni fa, che avremmo voluto fossero le ultime nella storia d’Europa. Speriamo che non arrivi mai anche stavolta per le vittime civili il disprezzo dell’etichetta “effetti collaterali”. Il nostro cuore dalla parte degli ultimi e dei deboli e la nostra ragione “internazionale” stanno in questo momento con i civili ucraini. E con quelli russi che manifestano per la pace, contro la guerra. Non amiamo la geopolitica: alla fine è disposizione di bandierine su carte geografiche per giochi di guerra sempre contro le sorti del mondo. Va da sé che ci troviamo di fronte allo stravolgimento degli assetti strategici mondiali. Siamo contro la guerra, nessuna ragione politica la giustifica, contro a prescindere da chi la muova, siamo contro i complessi militari-industriali siano essi occidentali, cinesi e russi: queste istituzioni che presiedono ai Pil nazionali e alle politiche di potenza preparano scenari distruttivi e di morte come questo. Sarebbe ora che la politica ne prendesse atto invece di relegare questioni come la pace, lo stop alla crescita della spesa militare, il disarmo, la dismissione delle diffusissime armi nucleari in Europa, in uno scantinato negletto e dimenticato; come se non riguardassero l’allocazione delle risorse non solo energetiche, l’uscita dal disastro pandemico, la transizione ecologica. La pace è una costruzione non solo una volontà. Ecco invece che questi argomenti tornano al centro della scena con i lampi dei missili sugli schermi tv. Certo più difficili - se non impossibili - da affermare in questo momento drammatico. Che vede un interventismo democratico italiano dell’ultim’ora dopo che per 8 anni di guerra civile, 14mila morti e due milioni di profughi, sulla crisi ucraina ha colpevolmente taciuto. Cosa dicono infatti l’amministrazione americana e la leadership atlantica alla Russia: “Volevate meno Nato, così ne avrete di più”. Una risposta ovvia, che però implicitamente riconosce che la strategia dell’allargamento della Nato ad Est era ed è una minaccia. Ora il rischio è che l’Alleanza atlantica non avrà più freno. E questo anche grazie all’iniziativa di guerra di Putin che non ha pretesti. Tantopiù che 24 ore prima del riconoscimento delle indipendenze di Lugansk e Donetsk, si può dire che Putin solo schierando le truppe alla frontiera aveva “vinto” la partita, rimettendo la palla dell’adesione alla Nato dell’Ucraina e del rilancio degli accordi di Minsk nel campo avversario, dividendolo. Insomma non è vero che Putin non avesse altra scelta che l’invasione, come dice. Quale è la patologia-ideologia che muove il presidente russo. La più evidente è quella della sortita dall’umiliazione della fine della potenza sovietica e dalla vendetta contro le mosse belliche occidentali che l’hanno ratificata. Ma siamo sul crinale di una scelta folle, contraddittoria e suicida. Dell’Urss in Russia sono rimasti gli asset economici che privatizzati hanno costruito la genia degli oligarchi ex funzionari di partito, e le fabbriche d’armi ora più che rinnovate. A Putin non interessa il socialismo, nemmeno quello reale, figurarsi la rivoluzione bolscevica, non a caso ha bisogno di attaccare Lenin che vedeva invece nella prima Costituzione dell’Unione sovietica del 1924 come decisiva l’indipendenza delle quattro repubbliche socialiste che allora la componevano. Se è vero che il crollo dell’Urss avviene su una faglia nazionalista, ora bombardando Kiev Putin bombarda la sua stessa storia, ferisce le stesse radici russo-ucraine, cancella l’eguale identità slava - altro che ritorno della Grande madre Russia. E così facendo distrugge la credibilità della nuova Russia come potenza “altra” che finora aveva ascritto a suo merito. Dopo il suicidio dell’Urss, con Vladimir Putin siamo al suicidio della Russia. Non è tornata l’Unione sovietica ma la guerra calda - sullo sfondo di una minaccia nucleare - nel cuore d’Europa, sulla pelle dei civili e del futuro del mondo, alimentata dalla follia nazionalista. Subito un cessate il fuoco, Putin si fermi e si ritiri, ha già distrutto abbastanza. Se l’Italia di Draghi frena sulle sanzioni di Marcello Sorgi La Stampa, 26 febbraio 2022 Il rischio di restare a secco di gas, di vedersi bloccare, oppure, che è lo stesso, offrire dalla Russia a prezzi inaccettabili quasi metà delle forniture di gas: ecco qual è per l’Italia il prezzo della guerra in Ucraina. Draghi lo ha spiegato chiaramente, ieri in Parlamento, e d’improvviso s’è capito il perché della condotta defilata del premier nella prima crisi internazionale in cui è stato accusato di aver giocato un ruolo insufficiente, indebolendo la politica delle sanzioni minacciata dall’Europa, anche prima che Putin decidesse di muovere le forze armate. Ora che volano i missili e i corpi delle vittime si allineano sui selciati, l’Italia dovrà abituarsi all’idea di passare da un’emergenza a un’altra. Da quella sanitaria del Covid che non le ha ancora consentito di tirare il fiato, a questa nuova energetica. Nuova, poi, per modo di dire, dal momento che per i governi repubblicani il problema del fabbisogno crescente di energia e della progressiva dipendenza da fornitori esterni ha sempre rappresentato un’ossessione. Da affrontare, fin dai vecchi tempi della Prima Repubblica, mantenendo buoni rapporti a Sud e a Est, con la costa nordafricana dei satrapi musulmani e con il confine orientale del moloch comunista. Inoltre, nel tempo, invece di incrementare le fonti interne, siamo riusciti a disperderle, ha ricordato Draghi. Tal che abbiamo ridotto la produzione di gas dai 17 miliardi di metri cubi del 2000 ai 3 miliardi attuali, incrementando di quasi un terzo (27 per cento in più) gli acquisti dalla Russia. In poche parole, siamo il Paese del referendum sul nucleare, votato nel momento di maggiore emotività per l’incidente di Chernobyl, e di quello sulle trivelle, fortunatamente fallito. Non siamo in grado di servirci del gas liquido americano che Biden ci offre perché non abbiamo un numero sufficiente di rigassificatori. E siamo stati incapaci di dotarci di un piano serio, in grado di proiettarci a medio termine verso l’autonomia e l’indipendenza energetiche. Così, adesso che insieme all’Europa andiamo a litigare con Putin, come pronto soccorso dovremo riaprire le centrali a carbone, chiuse perché troppo inquinanti. Draghi non s’è spinto ad annunciare una nuova “austerità”, ed anzi ha garantito altri interventi contro il “caro bollette”. Ma è chiaro che qualcosa andrà fatto, che nuovi sacrifici ci aspettano, dopo quelli sopportati nella lunga stagione del Covid. Per un po’, ci aiuteranno la buona stagione, il rialzo delle temperature e l’ora legale. Ma di qui al prossimo inverno, se l’orizzonte internazionale dovesse restare grigio di nubi tossiche e rosso di lampi di guerra, bisognerà trovare il modo di salvarsi. Pur avendo Draghi incassato un consenso politico quasi unanime (la guerra non consente distinzioni), è lecito dubitare che il clima solidale e unitario possa durare. Oltre a quella energetica, che tradotta in slogan di propaganda elettorale è appunto il “caro bollette”, una bandiera che Salvini e Meloni hanno solo provvisoriamente ammainato per la drammaticità del momento, la guerra in Ucraina contiene un’altra incognita, visibile e palpabile nelle tragiche immagini che ci arrivano dai luoghi dell’invasione: carovane di profughi in marcia, con le poche cose che riescono a portare in spalla, che presto verranno a bussare alle nostre porte. Si calcola un’ondata tra uno e cinque milioni di arrivi. Sperando che la guerra possa essere ricomposta in breve, si tratta già di un numero di persone da sistemare troppo grande per non creare, come in passato, divisioni tra accoglienza e respingimenti, tra solidarietà e durezza e tentazioni di nuovi muri in Europa. Tornano alla mente l’esodo siriano del 2015, che segnò per la prima volta l’autorità intoccabile della Merkel. E nuovamente i leader della destra nostrana in perenne competizione: non aspetteranno molto, Salvini e Meloni, prima di rimontare sul loro classico cavallo di battaglia dell’immigrazione. L’attacco a Kiev, la libertà fa paura di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 febbraio 2022 La storia della Nato è un puro pretesto. L’Ucraina attuale va spenta perché dà il cattivo esempio, perché Putin deve dimostrare alla sua opinione pubblica che dopo il comunismo la storia della Russia non prevede che possa esserci la libertà. Come mai l’effettiva e ormai antica partecipazione alla Nato dei Paesi baltici, della Estonia, della Lituania e della Lettonia, tutti Paesi confinanti con la Russia e con contingenti di truppe Nato presenti da tempo nel loro territorio, non ha mai suscitato l’ira funesta dell’Imperatore del Nord e la sua minaccia alla loro indipendenza? Come mai la suscettibilità nazionale del despota moscovita non ha mai mostrato eccessiva preoccupazione per il fatto che la Polonia - membro anch’essa della Nato e confinante anch’essa con la russa Kaliningrad - potrebbe, se volesse, sbriciolare in poche ore con un opportuno lancio di semplici missili da crociera la base della flotta russa del Baltico? E come mai invece la semplice, del tutto remota, ipotetica, eventualità che l’Ucraina aderisse alla medesima Nato lo ha spinto addirittura a replicare contro Kiev un Blitzkrieg di schietto stampo hitleriano? C’è una sola risposta possibile a queste domande, ed è che molto probabilmente nell’azione militare di Putin l’ipotetica adesione di Kiev alla Nato non c’entra nulla, al contrario di quanto cercano di far credere i filoputiniani di casa nostra per i quali in un modo o nell’altro la colpa di qualunque cosa di brutto succede nel mondo è sempre degli Stati Uniti e dei loro alleati, cioè dell’Occidente. In realtà l’Ucraina andava rimessa in riga e sottoposta al trattamento Ungheria ‘56 e Praga ‘68 perché agli occhi di Putin rappresentava sì un pericolo, ma non un pericolo militare in quanto presunto avamposto del “nemico secolare”, bensì il pericolo di un contagio. Del contagio della libertà. Nel trentennio della sua indipendenza l’Ucraina si é mostrata innanzi tutto capace, a differenza della Russia, di fare i conti con la realtà del passato comunista. Un passato - bisogna ricordarlo - che per lei ha principalmente voluto dire negli anni Trenta una feroce collettivizzazione della terra e il conseguente massacro premeditato di due-tre milioni di persone per decisione presa a Mosca dal potere sovietico. Non basta. La società ucraina, priva dell’ombroso sospetto verso l’Occidente che ha sempre dominato il sentire comune dei russi, è stata anzi aperta alle sue molteplici influenze attraverso la Polonia a nord e a sud attraverso la grande metropoli marittima di Odessa e la sua vivacissima vita intellettuale: influenze tradizionalmente percorse e innervate, in entrambi i casi, dal multiforme fermento di una vasta presenza ebraica. Ad rendere ancora più vario e mobile un tale panorama, ben diverso da quello della Russia profonda, una tradizione religiosa frastagliata che accanto al Cristianesimo ortodosso ha visto da sempre il cattolicesimo uniate, forte di alcuni milioni di fedeli e più recentemente un milione circa di protestanti. È questo sfondo storico, questa vitalità sociale, che spiegano la capacità dell’Ucraina di uscire in modo relativamente positivo dalla cappa di piombo dell’economia statalista del periodo sovietico. Di avviare quindi uno sviluppo, che aiutato non da ultimo da un poderoso flusso di rimesse dei suoi numerosi emigranti, le ha consentito pur tra gli alti e bassi del ciclo mondiale di conseguire traguardi di crescita anche industriale non indifferenti, ad esempio nel settore aerospaziale. Ma non solo: è lo sfondo storico di cui ho detto che le ha consentito soprattutto di riuscire a stabilire un regime passabilmente democratico dopo essersi liberata dei tentativi di Mosca di imporre a Kiev il suo protettorato. L’Ucraina insomma è un grande Paese, un cuore del mondo slavo, anzi in certo senso una sua matrice prima (si ricordi che fu a Kiev che per la prima volta il Cristianesimo giunse in Russia), cha attraverso mille difficoltà ha dimostrato però di saper gettarsi alle spalle il passato comunista e di voler intraprendere un cammino che la porti a ricongiungersi con l’Europa democratica. È precisamente questo che a Putin e all’oligarchia postsovietica appare intollerabile, da cancellare in ogni modo. È l’esempio infatti di una parte del mondo che per tanto tempo è stato russo, che ha avuto un ruolo essenziale nella cultura russa, ha fatto parte della statualità russa sfociata nel comunismo, ma che tuttavia ha rifiutato il vincolo e il lascito di quel passato. Ha rifiutato i sogni legati a quel passato che invece ancora ossessionano la mente del padrone del Cremlino. Ha rifiutato di sottostare al fascino delle pagine di grandezza che pure vi sono iscritte (ad esempio le pagine della “grande guerra patriottica”), del loro ricordo, se il prezzo doveva essere quello di restare una società economicamente arretrata governata da un despota e da una cerchia di lestofanti suoi amici. La storia della Nato è un puro pretesto. L’Ucraina attuale va spenta perché dà il cattivo esempio, perché Putin deve dimostrare alla sua opinione pubblica che l’unico destino possibile per la Russia è quello che lui incarna. Che dopo il comunismo la storia della Russia non prevede che possa esserci la libertà. Noi siamo disposti a usare la forza? di Domenico Quirico La Stampa, 26 febbraio 2022 Il dilemma lo ha posto, anzi ce lo ha posto, il presidente ucraino Volodymir Zelensky. Forse perché il suo paesaggio quotidiano è ormai gonfio di battaglia, fragore, violenze e rischio. Non è più tempo di chiacchiere, ha detto, di promesse, di vi siamo vicini, di massime solidarietà eccetera. La domanda è: siete disposti a usare la forza per salvarci dai russi? I carri armati di Putin sono davanti al mio palazzo. Non esiste altro modo di aiutarci se non opporre alla forza una forza più grande. Tutto il resto è la via malsicura e ipocrita delle parole, è smercio da bottegai dell’umanesimo. Le vittime hanno una straordinaria capacità di fare a pezzi la retorica. Due giorni di mischia e gli ucraini hanno capito che dietro le dichiarazioni di appoggio dell’Occidente che garantisce: attaccando voi hanno attaccato l’Europa, reagiremo perché Putin vuole in realtà umiliare le democrazie e la vostra sofferenza ci appartiene, c’era una riserva mentale. L’assenza cioè di un vincolo, di una clausola, un pezzo di carta che costringesse con irrimediabilità notarile questi alleati renitenti a diventarlo nella realtà dei fatti. Detto in parole semplici: la terza Guerra mondiale per fortuna non è ancora iniziata e non inizierà perché niente obbliga gli occidentali a rispettare le loro dichiarazioni roboanti perdendo la faccia. L’Ucraina resterà dunque un problema locale. Ma se il prossimo bersaglio nella putiniana riscrittura della storia fossero i baltici? Anche lì ci sono minoranze russe da brandire. Già. Ma i baltici sono nella Nato. Hanno una carta da spendere per obbligarci. I dispotismi, come i sistemi totalitari, impongono sempre la brutalità dei discorsi semplici, quelli delle risse tra bulli: che ruotano attorno alla forza. Quale prezzo siete disposti a pagare per trasformare la minaccia di punirci in forza, quanto siete disposti a pagare per fare anche voi la guerra? Dove inizia per voi un conflitto esistenzialmente necessario, che giudicate, a torto o a ragione, di sopravvivenza? Noi la guerra la facciamo. E voi? Zelensky lo sa dopo aver assistito, lui tra i sibili di sirene e di bombe, al placido dibattito occidentale sull’arma totale del “codice swift”. Esige di sapere: noi ucraini, la nostra indipendenza che comprende anche le magagne ereditate gli errori commessi i vizi del nostro modo di essere, quanto valiamo? Un sistema di sanzioni più o meno “light” o ricorrerete anche voi, la Nato, l’Europa, alla forza per fermare il prepotente di turno al Cremlino? Zelensky gioca a carte scoperte perché non ha più tempo. Neppure l’occidente. Attenzione. Le insinuazioni piovono: questo è discorso da guerrafondai, si vuole forse l’Apocalisse? perché questa sarebbe una guerra vera, non quelle combattute dall’Occidente negli ultimi anni con poco rischio, raid di forze speciali, droni, elicotteri, mischie brevi con manipoli di fanatici armati di mitra e barricati in catapecchie. Sarebbe la guerra vera, totale, che assorbe tutto e coinvolge tutti. Con i morti, i prigionieri, incendio potenzialmente illimitato. Non più la dissuasione che serve da soffice cuscinetto alla pigrizia del pensiero, l’ora della verità non è la crisi internazionale ma la guerra con il terrore che si converte lentamente in ordine del mondo. È la carta di Putin e prima di lui di altri perturbatori dell’ordine del mondo che giudicano iniquo o sfavorevole alle loro mire. Tutto nasce dal disprezzo rancoroso per i sistemi democratici considerati avviliti, costituzionalmente deboli, storicamente in decadenza. Loro, gli autocrati, gli inventori delle democrazie leggere, ridotte alla buccia e svuotate del nocciolo ovvero il reciproco controllo dei poteri, sì che sanno usare i morti e la paura con la disinvoltura con cui i meccanici impugnano quegli arnesi multiuso con cui si può far tutto, pinza tenaglia cacciavite. E martello. Sono certi che l’Occidente non sia disposto a rinunciare ai propri comodi che considera l’unica giusta causa, si sia disabituato all’idea del sacrificio e della morte e che quindi sia sempre disposto a pagare la propria tranquillità e a mercanteggiare la pace. A costo di sacrificare quello che non considera indispensabile, la zavorra delle vittime, degli aggrediti, dei deboli. Per questi lettori inconsapevoli di Spengler, noi evitiamo il soggetto della guerra come coloro che non amano parlare delle proprie malattie. Si fatica a dar loro torto, se si scorre il lungo, recente elenco di chi abbiamo sacrificato alla vulnerabilità dei nostri interessi, dai cambogiani ai siriani e ai curdi e agli afgani. In realtà Putin sembra essersi avviato sullo schema dell’azzardo dei dittatori, il bluff, il giocar tutto su una mano per volta, contando sul fatto che l’avversario intimorito non chieda di vedere quanto valgono davvero le sue carte. Basta rileggere la storia degli anni trenta in Europa. Il primo test per Hitler fu l’Austria. Colpo riuscito. Le potenze democratiche non chiedevano altro che voltar gli occhi da un’altra parte. In fondo era un boccone piccolo. Poi provò a giocare con una posta un poco più alta, la Cecoslovacchia: uno stato che non esiste... una invenzione di Versailles... diceva con disprezzo l’imbianchino diventato signore della guerra. Non sono definizioni che avete sentito qualche giorno fa….che ronzano di nuovo tra noi come mosche sul tavolo? E poi c’erano le minoranze tedesche dei Sudeti che la propaganda tedesca definiva “vittime di genocidio”, che non chiedevano altro che tornare alla madrepatria perduta. Chissà se i russi vi hanno tratto spunto per i ribelli del Donbass… Quella volta fu più complicato. I generali del Terzo Reich aspirante a divenir millenario ebbero i brividi, certi che il bluff non avrebbe funzionato e Francia e Gran Bretagna li avrebbero fatti a pezzi. E invece fu Monaco. Che ancora ci pesa come memoria e onta. Poi la Polonia. Il boccone era grande, così grande che Hitler trovò prudente dividerlo con un altro commensale, l’uomo d’acciaio, Stalin: metà per uno, in buona amicizia. Come se Putin dicesse alla Cina: a me la Ucraina a te Taiwan. Chissà... Quella volta calcolò male: con la Polonia c’era in mezzo un impegno, l’obbligo occidentale di intervenire in difesa con le navi e gli eserciti. La Gran Bretagna (la Francia molto a malincuore non aveva nessuna affezione così onerosa per i polacchi), scelse la guerra. Russia, la democrazia fallita costa cara a tutto il mondo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 26 febbraio 2022 La profezia di Nixon nel 1992: “In Russia il comunismo è stato sconfitto, ma la libertà è in prova. Se non funzionasse, ci sarà un’inversione e una spinta verso un nuovo dispotismo. Questo costituirebbe un pericolo mortale”. Ci avete pensato? Se in Russia ci fosse la democrazia, tutto questo non sarebbe accaduto. La guerra folle cui stiamo assistendo, la colata di prepotenza e nostalgie imperiali, sarebbe impensabile. Ma la democrazia, in Russia, non c’è. C’è un uomo al comando, da ventidue anni: sempre più solo, ossessionato, imperscrutabile. Noi europei l’abbiamo accettato, con molta rassegnazione e un po’ di cinismo. Tutti: da Roma a Londra, da Parigi a Berlino. Come se la Russia e i russi fossero incompatibili con un sistema libero e democratico. Come se lo scivolamento verso l’autoritarismo rapace fosse una faccenda che non ci riguardava. Ci riguarda eccome, invece. La prova sono le immagini da Kiev, la nostra impotenza, il peso che portiamo nel cuore. L’invasione dell’Ucraina è un orrore per tutti. Per chi ha vissuto le speranze di trent’anni fa assume i contorni di una beffa. Il tracollo del comunismo sovietico - un sistema cupo, segnato da oppressione e persecuzioni - era stato salutato con entusiasmo dalla maggioranza dei russi e degli europei, di qui e di là della cosiddetta “cortina di ferro”. Tra il 1989 e il 1991 avevamo assistito alle insurrezioni popolari, alle rivoluzioni (quasi sempre incruente), alle ricostruzioni, alle elezioni: Varsavia, Berlino, Praga, Budapest, Bucarest, Sofia, Tirana; poi Vilnius, Riga, Tallin, Minsk, Tblisi, Yerevan, Chi?in?u, Kiev. E Mosca. Quando la bandiera rossa sul Cremlino è stata ammainata per l’ultima volta - il giorno di Natale del 1991, alle 19:32 - s’è aperta una enorme opportunità. Per tutti: per i russi e per il mondo libero, del quale volevano far parte. Noi, quella opportunità, l’abbiamo sprecata. Quello che è successo in Russia negli anni Novanta è tristemente noto: un leader debole come Boris Elstin, lo scontro tra bande di affaristi, la spoliazione sistematica dello Stato, la criminalità in festa. Sulle responsabilità è stato scritto e detto moltissimo. Le opinioni sono diverse, certo. Su una cosa, però, sembrano quasi tutti d’accordo: le democrazie occidentali avrebbero dovuto - e potuto - fare di più, e di meglio. L’allargamento a est dell’Unione Europea era opportuno, quello dell’Alleanza Atlantica forse inevitabile, ma probabilmente frettoloso. Lo hanno ricordato in molti, in questi giorni, anche Tom Friedman sul New York Times. Non intende giustificare in alcun modo la follia sanguinaria di Putin. Vuole solo ricordare che l’espansione della Nato a oriente poteva essere letta come un’umiliazione della Russia, e fornire un pretesto a un capo populista - com’è accaduto. Le grandi nazioni non vanno umiliate. La resurrezione tedesca, giapponese e italiana dopo la Seconda guerra mondiale ha anche questa spiegazione: gli sconfitti sono stati aiutati a risorgere. C’è un’intervista sbalorditiva di Richard Nixon, datata 1992. Il vecchio presidente, affaticato ma lucido, esprime un parere che, a distanza di trent’anni, sembra una profezia: “In Russia il comunismo è stato sconfitto, ma la libertà è in prova. Se non funzionasse, ci sarà un’inversione e una spinta verso un nuovo dispotismo. Questo costituirebbe un pericolo mortale per il resto del mondo. Perché quel dispotismo si combinerà col virus dell’imperialismo, una caratteristica della politica estera russa per secoli”. Abbiamo ignorato l’intuizione di Nixon, non abbiamo ascoltato chi sosteneva che la Russia andasse sostenuta, non sfruttata. L’idea di democrazia è stata minata, derisa, lentamente abbandonata. Ricordo l’esperimento della Moscow School of Political Studies di Lena Nemirovskaya, negli anni Novanta. L’intenzione era aiutare lo sviluppo civile, politico e sociale dalla nuova classe dirigente post-sovietica. Amministratori, magistrati, accademici e giornalisti europei volavano a Mosca e restavano alcuni giorni, per raccontare il funzionamento della democrazia. Ho partecipato a due edizioni, nel 1999 e nel 2000: con i nuovi sindaci dalla Siberia e con i giovani parlamentari della Duma. Interferenza straniera, ha deciso il governo russo negli anni Duemila. Esperimento cancellato. L’ascesa di Vladimir Putin, e la discesa verso l’autoritarismo, è stata salutata con favore da molti russi, frustrati dalla corruzione e spaventati dal caos. Ed è stata accettata da troppi europei. Molti erano disinformati, parecchi distratti, ma alcuni erano complici: per interesse economico o per opportunismo politico, talvolta per una combinazione di queste cose (“le quinte colonne di Putin”, le ha definite il liberale Guy Verhofstadt in una memorabile sfuriata al Parlamento europeo). Pochi hanno visto il pericolo, nonostante gli arresti degli oppositori, gli omicidi misteriosi, gli arricchimenti inspiegabili. Tutte queste cose le abbiamo rimosse: il fascino e le opportunità della Russia erano più seducenti. La democrazia? Incompatibile con il popolo russo, lasciavano capire politici italiani, diplomatici americani, imprenditori di ogni latitudine. Il risultato è quello che vediamo. Provare orrore non ci giustifica, anzi. Una Russia democratica - ripetiamolo - non avrebbe neppure concepito l’invasione della vicina Ucraina. Una Russia autoritaria, questa invasione l’ha invece immaginata, programmata, minacciata, cinicamente eseguita. E ha agito così anche perché l’Ucraina è una democrazia. Imperfetta, ma una democrazia. Kiev - nonostante le difficoltà e le false partenze - è la dimostrazione che il “mondo russo” caro a Putin non è incompatibile con elezioni libere, partiti indipendenti, libertà di espressione. Una provocazione intollerabile, per l’uomo solo al Cremlino. Francia. Bataclan, il processo del secolo. I poveri figli dell’Isis di Emmanuel Carrère* La Repubblica, 26 febbraio 2022 La storia di Antoine e di sua moglie Safia è quella tipica di una radicalizzazione. Ma a pagarne le spese, quando il sogno svanisce, sono i loro bambini, vittime due volte. Le storie di radicalizzazione generalmente vengono raccontate dal punto di vista dei genitori, e sono tutte molto simili. Sintetizzerò brevemente il primo capitolo del resoconto che mi hanno fatto Anne e Pierre Martinez, una coppia di una sessantina d’anni, tutti e due educatori, agnostici, aperti, totalmente impreparati all’idea che loro figlio Antoine a 18 anni potesse cominciare a togliere dalla paella (Pierre è un pied-noir di origine spagnola) con aria disgustata i pezzetti di chorizo, e che poi si lasciasse crescere una grande barba, e che poi adottasse il qamis, e che poi presentasse ai genitori una ragazza giovanissima e col velo, Safia, che sposa con rito religioso e che non ha ancora finito le superiori quando mette al mondo il loro primo figlio. Pierre e Anne si chiedono quale legame potrà esistere con un bambino allevato con valori così lontani dai loro, ma contro ogni aspettativa le cose vanno meglio del previsto. Antoine e Safia gli lasciano molto spesso il piccolo Nadim, che li adora e che loro adorano. Non hanno il diritto di bere vino davanti a lui, ma di decorare l’albero di Natale sì. Hanno scoperto il rassicurante concetto di “salafismo quietista” e si ripetono che loro figlio è un salafita quietista, che ovviamente preferirebbero che non lo fosse, ma che in ogni caso è il minore dei mali, e non si allarmano quando la famigliola di salafiti quietisti, a cui poco tempo prima si è aggiunto un secondo bambino, se ne va in vacanza in Italia, nell’estate del 2015. Qui comincia il secondo capitolo, molto più cupo del primo. Innanzitutto Antoine e Safia non dicono dove sono, e questo significa che non sono in Italia ma in Siria, sotto lo stendardo nero del califfato. Poi Antoine spiega che è meraviglioso vivere sotto lo stendardo nero del califfato, che stanno in un bell’appartamento a Mossul e che sì, certo, ci sono dei problemi, ci sono delle violenze, ma nel giro di qualche mese tutto si sarà stabilizzato e mamma e papà potranno venire in vacanza. In vacanza?, replica Pierre allibito. Nello Stato islamico? A partire da quell’estate, i Martinez cominciano a condurre una doppia vita. Attaccati al telefono, le notti insonni, confidandosi solo con quelli che condividono la loro sventura, entrano nel mondo crudele dei genitori di jihadisti, che si raccontano le tappe della radicalizzazione dei loro figli, si scambiano le rare notizie che ricevono e i loro contatti con la Dgsi, i servizi segreti interni. Da una telefonata all’altra, l’entusiasmo di Antoine per il califfato e la prospettiva di vacanze di famiglia a Mossul si sfalda. Mentre lui segue una formazione militare, Safia e i due bambini lo aspettano in una madafa, una casa riservata alle donne sole, dove “riservata” significa che sono sequestrate lì dentro. A volte li tengono separati e a volte li fanno rincontrare, senza che sappiano mai il perché, e dopo un po’ non cercano più di nascondere che hanno una paura folle, e molto più di Daesh che delle truppe di Bashar. Quando nasce il loro terzo figlio, Antoine dice ai suoi genitori tra i singhiozzi: non voglio che i nostri figli vivano qui, vogliamo rientrare, vogliamo consegnarci. Trova un passatore, ma prima di arrivare alla frontiera turca l’uomo li lascia tutti e cinque sul bordo della strada portandosi via i soldi. Antoine viene arrestato, siamo nel 2018, è il caos totale, la caduta dello Stato islamico, un periodo talmente pericoloso che i Martinez sono sollevati quando vengono a sapere che Safia e i bambini ora si trovano in un campo di prigionia gestito dai curdi, nel Nordest della Siria. Un campo di prigionia è un posto dove c’è la Croce Rossa, le autorità consolari: i bambini vogliono essere rimpatriati; i genitori andranno in carcere, questo è sicuro, ma affronteranno la cosa. I Martinez si rivolgono ripetutamente al ministero degli Affari esteri, ma gli spiegano che la Francia non ha più relazioni diplomatiche con la Siria e non si può fare niente. Niente. Safia non ha più un telefono, è proibito nel campo, ma ogni tanto qualcuno gliene presta uno e non è rassicurante venire a sapere che Nadim, il giorno dei suoi otto anni, è stato picchiato, preso a sassate e gettato dentro un cassonetto della spazzatura da una banda di ragazzini smagriti e selvaggi; è terrorizzato, non esce più dalla tenda. Anche Safia, che viene insultata e minacciata da donne rimaste fedeli a Daesh, è sempre sul chi vive. I Martinez inviano tutto il denaro che possono, bisogna passare attraverso una serie di intermediari sempre meno legali, con in più il rischio di essere perseguiti per finanziamento del terrorismo, ma è l’unica soluzione perché i bambini possano avere dell’acqua minerale invece dell’acqua imputridita che fa venire la dissenteria in un campo dove tutti camminano letteralmente nella merda, del cibo in più e dei pannolini (perché nel frattempo Safia ha messo al mondo un quarto bambino). Si passa tutta la giornata sotto le tende, per terra, perché fuori è pericoloso. Furti, stupri e aggressioni. Visto che le stufe a cherosene rischiano di far scoppiare un incendio, di notte vengono spente, anche se d’inverno fanno -10° ma d’estate +40°. Nel maggio del 2019 Antoine viene condannato a morte da un tribunale di Bagdad. Secondo le ultime notizie, si trova in una prigione dove 60-70 persone sono ammassate in celle di 60 metri quadri. I Martinez a quel punto fanno una mossa audace: vanno in Siria aggrappandosi a una Ong austriaca e al termine di un percorso di guerra fatto di una successione di uffici, bicchierini di tè zuccheratissimo e bakshish (le bustarelle), ottengono il foglio con il timbro che consente loro di raggiungere il campo, con le loro valigie piene di regali e manuali scolastici. Al campo lasciano entrare gli austriaci, ma loro no, e neanche le loro valigie. Le guardie curde sono piuttosto gentili, hanno l’aria desolata, ma no, i francesi non è possibile: ordini dall’alto. Tornano il giorno dopo e riescono a vedere Nadim e due dei suoi fratelli attraverso la recinzione, a baciarli attraverso la recinzione: non pensavano che avrebbero vissuto nella loro vita un’esperienza così straziante. Dura cinque minuti, poi arrivano le guardie con le mitragliette e portano via i piccoli, che piangono. Prima di andarsene, Pierre fa il giro del campo a piedi, costeggiando la recinzione: in meno di un quarto d’ora. È all’interno di questo perimetro che si svolge tutta la vita dei suoi nipoti. L’ultimo, nato nel campo, non ha mai conosciuto altro che questo. I Martinez rientrano delusi, sconvolti, ma con una speranza, perché in Francia si stanno facendo preparativi, ai più alti livelli, per rimpatriare madri e bambini; le madri saranno giudicate da tribunali francesi, i bambini mandati in affido ad altre famiglie. Ma poi esce un sondaggio che rivela che la maggioranza dei francesi è preoccupata dalla prospettiva di questo ritorno e il processo viene congelato immediatamente. Il ministro degli Affari esteri Le Drian va a Bagdad con la speranza di mollare la patata bollente alle autorità irachene, che gli rispondono che il loro Paese non è una “discarica di jihadisti”. Dal 2019 i rimpatri vengono fatti, secondo la formula ufficiale, “caso per caso”, vale a dire arbitrariamente, con il contagocce, e separando i bambini dalle loro madri, cosa che non fa nessun altro Paese. Restano circa 200 bambini francesi nel campo, bambini che non hanno scelto di avere dei genitori jihadisti e che crescono nell’indigenza, la violenza e spesso il culto di un padre che considerano come un martire. Sono spaventosamente infelici e anche - è ovvio - potenzialmente pericolosi, e questo spinge una parte dell’opinione pubblica a ritenere che sia meglio lasciarli crepare lì dove sono. Si può ritenere il contrario: che rimpatriarli sia non soltanto un dovere umanitario, ma una precauzione per la sicurezza. È quello che pensano non soltanto i nonni, ma insieme a loro anche decine di magistrati, di psichiatri dell’infanzia, di politici, che moltiplicano invano appelli e allarmi. I responsabili a cui si rivolgono guardano da un’altra parte, dicono che non è così semplice. Certo che non è così semplice, nessuno dice il contrario, ma tra farsi carico di questi bambini, con tutte le difficoltà che presenta, e abbandonarli sotto il sole mortale del Rojava, senza altro destino che quello di diventare delle bombe umane, intossicati dall’odio per il Paese che li ha lasciati alla loro sorte, penso, come Anne, Pierre e i loro amici, che la prima opzione sia preferibile alla seconda, e anche se non sono uno che di solito firma petizioni, questa la firmo eccome. *Traduzione di Fabio Galimberti In Kosovo un carcere danese da 210 milioni. Copenaghen invia 300 detenuti di Andrea Brenta Italia Oggi, 26 febbraio 2022 La lettera di intenti fra il ministro danese della giustizia e il suo omologo kosovaro era stata firmata lo scorso 20 dicembre. Ora si delineano i dettagli che, a partire dall’inizio del 2023, vedranno una parte (300 detenuti, per lo più extracomunitari) della popolazione carceraria danese traferita nel centro di detenzione di Gjilan, a Sud di Pristina. Svelati i costi (210 milioni di euro, 60 milioni dei quali andranno a progetti di climatici e programmi per rafforzare il rispetto dei diritti dell’uomo e lo stato di diritto in Kosovo) e anche le condizioni poste dalle autorità kosovare, che rifiutano di accogliere condannati per terrorismo, criminali di guerra, malati in fase terminale o detenuti con problemi psichiatrici che richiedano cure e trattamenti al di fuori del carcere. Inoltre gli eventuali conflitti fra i prigionieri e le guardie carcerarie saranno sottoposti alla giurisdizione kosovara e regolati dal sistema giudiziario locale. In sostanza, lo stato danese non avrà nulla da dire se un sorvegliante maltratterà un detenuto. La Danimarca deve fare i conti con una popolazione carceraria che, dal 2015, è cresciuta del 20% e oggi è pari a oltre 4.200 detenuti, il 46,3% dei quali di origine straniera, su una popolazione di 5,8 milioni di abitanti. Il centro di detenzione di Gjilan non intende essere altro che una prigione danese situata in Kosovo. I sorveglianti dovranno parlare inglese per comunicare con i detenuti. Questi ultimi però saranno esclusi dal programma di reinserimento poiché alla fine della pena non saranno reinseriti nella società danese. L’incognita sulla loro sorte ha scatenato le preoccupazioni di ong e media dei due paesi.