Ergastolo ostativo, da lunedì in Aula. I punti critici di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 febbraio 2022 Relatore della riforma, il pentastellato Mario Perantoni. La denuncia dell’associazione Antigone. Il deputato pentastellato Mario Perantoni ha ricevuto ieri dalla commissione Giustizia della Camera, che presiede, il mandato come relatore sulla riforma dell’ergastolo ostativo, il cui testo unificato ed emendato, licenziato dalla stessa commissione mercoledì scorso, approderà in Aula lunedì 28 febbraio (anche se la prossima settimana, in teoria, sarebbe quella dedicata alla ripresa dell’iter della legge sul suicidio assistito). I pareri positivi delle commissioni Bilancio e Affari costituzionali sono giunti ieri a sancire l’ulteriore passo avanti del provvedimento resosi necessario da quando, il 15 aprile 2021, la Consulta definì incostituzionali le leggi vigenti che precludono “in modo assoluto, a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia, la possibilità di accedere al procedimento per chiedere la liberazione condizionale, anche quando il suo ravvedimento risulti sicuro”, e diede un anno di tempo al legislatore (scadenza maggio 2022) per sanare questo vulnus. Il testo base sembra soddisfare tutto l’arco politico, dalla maggioranza (qualche dubbio solo da Italia viva e Leu) fino a Fd’I che ieri ha espresso apprezzamento per le ultime modifiche che “permettono di mantenere” l’ergastolo ostativo (ovvero fine pena mai) “anche nella sua funzione di strumento di lotta alla mafia e al terrorismo”. Di diverso avviso è ad esempio l’associazione Antigone secondo la quale “il testo sembra essere destinato più a salvare un buon margine di ostatività per alcune condanne piuttosto che ad adempiere a quanto deciso dalla Corte europea dei diritti umani con la sentenza Viola e dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021”. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, infatti, ci sono diversi punti critici. Il primo riguarda l’eliminazione della concedibilità del beneficio, già prevista dalla legge vigente, nei casi in cui sia accertata una “limitata” o “irrilevante” partecipazione al crimine. Inoltre, “viene introdotta una sorta di corsa ad ostacoli per il richiedente, compresa la dimostrazione della esclusione dell’attualità di collegamenti “con il contesto nel quale il reato è stato commesso”; un concetto - spiega Gonnelle - tanto vago da risultare poco comprensibile”. Senza contare il fatto che viene innalzato il limite di pena da scontare per essere ammessi al beneficio da 26 a 30 anni, “oltretutto senza che sia stata prevista alcuna disciplina transitoria, il che darà certamente luogo a problemi applicativi”. E infine, nelle udienze del tribunale di sorveglianza che decide la concessione dei benefici, il pm può essere lo stesso del tribunale distrettuale che ha emesso la sentenza di primo grado, “senza che sia dato capire chi, quando e come possa decidere tale anomala partecipazione (anche fuori distretto) di un pm che sarebbe incompetente”. Ergastolo ostativo, la riforma arriva alla Camera col sì anche di Fratelli d’Italia di Giulia Merlo Il Domani, 25 febbraio 2022 Il testo riforma la concessione dei benefici carcerari ai detenuti ostativi: la proposta prevede che possano ottenerli anche senza collaborazione giudiziaria ma a specifiche condizioni e con la valutazione caso per caso del tribunale di sorveglianza. Anche FdI ha votato il mandato al relatore, il grillino Perantoni: “Accolte molte nostre proposte”. Il 28 febbraio arriva in aula alla Camera la proposta di riforma del carcere ostativo, alla luce dell’ordinanza della Corte costituzionale che aveva dichiarato parzialmente illegittima la norma che prevede la concessione dei benefici solo i cosiddetti collaboratori di giustizia nel caso di reati ostativi. Il relatore del testo è il presidente della commissione Giustizia, il grillino Mario Perantoni, e il testo finale è stato votato da tutti, compresa l’opposizione di Fratelli d’Italia. Attualmente, l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati ostativi (in particolare mafia e terrorismo), di cui all’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, prevede l’automatismo per cui il beneficio carcerario si ottiene solo se si collabora con la giustizia. ll nuovo testo ora prevede che i benefici carcerari, che oggi sono il lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, possano essere concessi ai detenuti e agli internati - anche in assenza di collaborazione - qualora abbiano dimostrato “l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento”, “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo” e l’esclusione “dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. In sostanza, il detenuto deve dimostrare che, anche senza aver collaborato con la giustizia, ha imboccato un percorso riabilitativo e le condizioni concrete in cui il percorso si sta svolgendo. Saranno tenute in considerazione la condotta carceraria, il percorso del detenuto al percorso rieducativo ma anche tutti gli aspetti che portino a escludere attuali collegamenti con la criminalità. A decidere sarà il Tribunale di sorveglianza in funzione collegiale che dovrà valutare la recisione definitiva dei collegamenti con la criminalità, con il parere del pubblico ministero e del procuratore antimafia e l’acquisizione di informazioni presso il carcere. Per accedere alla liberazione condizionale, invece, vengono aumentati i limiti minimi di pena da scontare: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. La posizione di Fratelli d’Italia - Anche Fratelli d’Italia ha votato il mandato al relatore. E la capogruppo in commissione, Carolina Varchi, ha spiegato che “le modifiche apportate al testo base, accogliendo anche alcune nostre proposte come la competenza del Tribunale in composizione collegiale, lo hanno migliorato rendendolo sostenibile e per questo abbiamo votato favorevolmente il mandato al relatore”. La proposta di Fratelli d’Italia era più stringente. Per questo Varchi ha precisato: “Come ogni compromesso non ci soddisfa pienamente, ma riteniamo che lo spirito della nostra proposta sia stato recepito e condiviso da tutti”. L’esercito dei “liberi sospesi” scontano una pena oltre la pena di Valentina Manchisi Il Riformista, 25 febbraio 2022 Sono 80mila, attendono risposta alla istanza di misura alternativa. Ma l’attesa a volte è più lunga della pena. Nel frattempo in tanti riprendono in mano la propria vita, l’esigenza rieducativa decade. Serve una riforma. Il dibattito sull’irragionevole lentezza del processo penale in Italia è, purtroppo, sempre attuale. Altrettanto tristemente attuale è il dramma del carcere ogni qual volta esso venga applicato. Famiglie, affetti, psiche di chi finisce nelle maglie del sistema penale vengono tragicamente devastati. Nell’alveo delle risposte del nostro sistema sanzionatorio esiste poi una zona grigia, tanto consistente quanto poco dibattuta se non per motivi meramente organizzativi: la fase di concessione delle misure alternative alla detenzione, applicabili quando le pene non sono eccessivamente elevate e se non riguardano condanne per reati ostativi. Sarebbero risposte sanzionatorie da far invidia a qualsiasi sistema special preventivo, se non fosse per una grave falla del sistema: vengono applicate a distanza di parecchi anni non solo dal fatto commesso, ma anche dal momento in cui vengono richieste. I Tribunali di Sorveglianza scoppiano, e si è tentato di alleggerirne il carico attribuendo al singolo Magistrato di Sorveglianza la competenza per le pene di minore entità, peraltro con una decisione priva di precedente contraddittorio che quindi viene fortemente ridotto seppur in un momento tanto delicato perché direttamente incisivo sulla libertà della persona. Sono anni che Rita Bernardini solleva la questione delle circa ottantamila persone che attendono una risposta alla propria istanza di espiazione della pena in misura alternativa al carcere: ottantamila “liberi sospesi”, persone che in molti casi hanno sì commesso reati nel passato, ma che nei lunghi anni del processo penale a loro carico e dell’attesa del procedimento in Sorveglianza hanno ripreso autonomamente in mano la propria vita, ripagato i danni civili e morali causati con le proprie condotte, trovato lavoro stabile, creato una famiglia. Persone che improvvisamente si ritrovano a temere che un Tribunale o un Magistrato possa applicare loro una misura più o meno privativa della libertà personale, carcere compreso. Il numero di anni che trascorre tra il momento dell’istanza di misura alternativa del condannato e il momento in cui viene emessa la decisione non di rado supera moltissimo l’entità della pena stessa. Un tempo in cui tante persone, ben prima dell’intervento dello Stato educatore, possono dare concretamente prova di aver ricostruito autonomamente una vita risocializzata. Non esiste nel nostro sistema - penale e penitenziario - un meccanismo che possa avallare un’avvenuta riconciliazione di questi soggetti con la società, quand’anche essi abbiano già restituito e ricostruito. Così, quella di tanti “liberi sospesi” diviene un’espiazione ben più lunga rispetto a quella prevista dalla sentenza di condanna, creando una condizione disumana e che riporta indietro di anni il positivo percorso di vita di costoro. È un’afflizione aggiuntiva, una pena oltre alla pena. Qualcosa di più della sanzione, che però non trova fondamento in una norma di legge bensì solo nell’inerzia, nel malfunzionamento, nella carenza di risorse e di personale: un sistema colabrodo in cui ciclicamente si cerca di salvare il salvabile tra un rattoppo legislativo e un protocollo organizzativo. Vien da domandarsi se, a tali condizioni, non sia da ridiscutere il concetto di esigibilità della pena quando quest’ultima non risponda più alla primaria esigenza di rieducazione del condannato sancita dall’articolo 27 della Costituzione. La certezza della pena, intesa ciecamente quale risposta automatica e a prescindere dalla realtà fattuale e personale del singolo individuo a cui è stata comminata, nei fatti si traduce in una mera prassi burocratica: deve avere il suo corso perché la legge così stabilisce e anche perché la società non può accettare che un condannato non sconti la sua condanna. Una riflessione va fatta anche in relazione al principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale, con una lettura a contrario, situazioni diverse devono essere trattate in modo diverso e che, perciò, non viene rispettato se la pena viene applicata a prescindere dai profili rieducativi, quand’anche essa non ne abbia. Esiste la prescrizione della pena, controbatteranno i puristi del codice Rocco. Ma il presupposto di tale istituto è che l’esecuzione non sia in corso e così le richieste di misure alternative alla detenzione finiscono affollate in quell’imbuto chiamato Tribunale. Servirebbe che il legislatore intervenisse per modificare tutte le norme rilevanti sul sistema sanzionatorio e per prevedere, in caso di tardiva trattazione delle richieste di misura alternativa, una valutazione sull’esigibilità della pena in ogni singolo caso concreto, nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e di rieducazione, poiché in una società che possa dirsi rispettosa dei diritti umani fondamentali non è ammissibile un meccanismo automatico ove le falle burocratiche minano ogni giorno la vita di chi, invece, nello Stato dovrebbe trovare una maggiore tutela. Dino Petralia si congeda dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria agenparl.eu, 25 febbraio 2022 Picchetto d’onore per salutare il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, che ha lasciato materialmente il Dap, oggi, salutando tutti i suoi collaboratori nell’atrio della sede romana del dipartimento dopo le ore 13.30. Petralia si è dimesso dall’incarico, lo scorso 6 febbraio, chiedendo di andare in pensione con un anno in anticipo, il primo marzo di quest’anno. “Salute e saluti a tutti. Le cose iniziano e finiscono”. Ha esordito dinanzi a collaboratori e agenti della Polizia Penitenziaria. “Questa è una cosa che finisce ma solo formalmente perché poi le cose che si consolidano nel cuore non finiscono mai e quindi abbiamo, come dire, contratto un rapporto d’amore - ha aggiunto nel suo breve ed intenso discorso di commiato - Più che un rapporto d’amore. Io vi saluto, da questo momento sarete più soli. Anch’io sarò più solo, ma forse sarò più solo io però rientro nella vita vera che è quella che mia aspetta e lo dico con una ‘tristezza euforica’. È un ossimoro che sta a significare esattamente cos’è il mio sentimento in questo momento. Gratitudine, ma anche contentezza. Vi ringrazio veramente di cuore. E vi porterò sempre nel cuore”, ha concluso. Petralia, ex magistrato, 2 anni fa, è stato nominato al vertice del Dap dall’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, a seguito delle dimissioni di Francesco Basentini, dopo le rivolte nelle carceri di marzo 2020 e le polemiche legate alle scarcerazioni dei boss e detenuti ad alta sicurezza, durante la prima ondata del Covid 19. Nello stesso periodo si dimise anche il direttore generale dei detenuti, il magistrato Giulio Romano, appena dopo 3 mesi dal suo insediamento. Lo riferisce Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. “Ora - aggiunge il sindacalista -, auspichiamo che il Governo proceda a nominare immediatamente il successore conferendo un incarico di ampio respiro, magari guardando alle professionalità interne al Dap, affinché non vi siano vuoti o incertezze di gestione che possano destabilizzare ulteriormente il già agonizzante sistema carcerario”. Dal carcere: “Ho sbagliato, ma ho bisogno di aiuto: dov’è lo Stato?” Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2022 Buongiorno, vorrei parlarvi del mio pensiero e del mio vissuto nelle carceri: vi posso assicurare che è molto brutto. La metà della mia vita l’ho vissuta in carcere. Mi domandate se c’è sofferenza? Certo che sì. La prigione è un luogo fuori dal mondo, sei come chiuso in una bolla d’aria e la cosa più brutta è che soprattutto in Italia non vogliono far vedere realmente come si vive all’interno degli istituti di pena. Tutti i giorni le stesse abitudini: chi ha una condanna lunga osserva tutto, ma è totalmente inerme dinanzi alle grosse ingiustizie che un detenuto vive quotidianamente. La mattina si fa la conta poi la battitura, praticamente come un film che hai visto e rivisto mille volte. Ci sono detenuti che non vedono la famiglia per anni. Capita di non poter vedere i propri figli perché scegli di non aumentare in te stesso la grande angoscia che hai, già solo la metà basterebbe per farti fare un gesto inconsulto, cioè quello di farla finita per sempre. In Italia, ripeto, è peggio che altrove, perché se chiami un educatore o uno psicologo puoi anche attendere mesi, se stai male non interessa nulla a nessuno… e poi si domandano (le istituzioni) del perché di tanti accoltellamenti o suicidi o omicidi o del tagliarsi, procurandosi autolesioni che saranno per sempre lì sul nostro corpo a vita? È ovvio, non c’è assistenza, non c’è cura e soprattutto non c’è riabilitazione dopo la punizione e si esce, nella maggior parte delle volte, più cattivi di come si è entrati. Nelle carceri italiane in gran parte non ci sono termosifoni; molti giorni ci si lava con acqua fredda… Ma in tutto questo marasma soffro in silenzio! Sì, è vero, ho fatto i miei sbagli: rapine, furti, spaccio, armi; ho fatto soffrire chiunque fosse intorno a me: moglie, figli, parenti, ma sto pagando con dignità la mia lunga condanna, cercando di uscire come un uomo migliore. E soprattutto lo sto facendo da solo, senza l’aiuto delle istituzioni! Io vorrei vedere un magistrato qui dentro in carcere per un periodo di tempo in modo da rendersi conto da solo della schifezza in cui viviamo. Noi siamo solo un numero, siamo solo pecore, siamo solo lo scarto della società. Ma non è così: provate a darmi un lavoro, provate ad assistermi durante la detenzione e io vi garantisco che mi sveglierò col sorriso sapendo di andare a lavorare e rientrerò la sera stanco ma con le lacrime di gioia perché vedere i miei figli contenti, sapendo che hanno un “vero padre” accanto tutte le sere, vi garantisco che per un ex detenuto non avrebbe prezzo! Chiudo questo monologo ripartendo da un nuovo libro da leggere, prendendo un foglio e buttando giù i miei pensieri, oppure appartandomi con un mio compagno detenuto per tirarci su l’un l’altro, in attesa che qualcuno si accorga che io esisto, che sono una persona con problemi da aiutare e non da buttare nel secchio dell’immondizia; solo così potrete fare di un mondo un mondo migliore, solo così potete fare di un uomo un uomo migliore, solo così potete dire che esiste la “vera” umanità. Un detenuto a Regina Coeli, Roma Caro Riformista, comunicare è un dovere della Consulta di Donatella Stasio* Il Riformista, 25 febbraio 2022 La portavoce della Corte Costituzionale ci scrive per contestare le nostre critiche all’esposizione mediatica del Presidente Amato. Dice che non è la prima volta e che è giusto così. Caro Direttore, sul Riformista di oggi compaiono alcuni articoli sulla Corte costituzionale e sul suo presidente (“La democrazia dello share, anche la Consulta è spacciata”; “Amato Show, la politica ha schiacciato il diritto”) dai quali purtroppo emerge mancanza di conoscenza della Corte, del suo ruolo, della sua attività e della sua comunicazione. Ne esce una rappresentazione deformata della realtà. La libertà di critica è fuori discussione ma, senza entrare nel merito delle valutazioni espresse dagli autori, è doveroso mettere ordine nei fatti. Non è la prima volta che la Corte costituzionale organizza una conferenza stampa del presidente per spiegare decisioni non ancora depositate. È accaduto negli anni ‘80 per la decisione sulla “tassa sulla salute” e negli anni 90 per quella sulla buonuscita degli statali. Decisioni che interessavano milioni di persone. Nessuno ha mai gridato allo scandalo. Anche stavolta la conferenza stampa è stata decisa dalla Corte nella sua collegialità, non dal presidente. Il quale, a nome della Corte e con tutti i giudici presenti, ha spiegato le decisioni appena prese (come peraltro la Corte fa, da anni, anche con comunicati stampa che anticipano il deposito della sentenza) e ha risposto alle numerose domande di colleghi giornalisti seri, preparati, esperti, anche del Riformista. Quanto all’intervista con Giovanni Floris, non è la prima volta che un presidente della Corte accetta un’intervista televisiva, anche per spiegare sentenze non ancora depositate. Due casi l’anno scorso, con il presidente Giancarlo Coraggio: prima a Di Martedì e poi Titolo V, per parlare della decisione appena presa sulla gestione della pandemia in capo allo Stato (e non alle Regioni). Domande e risposte. Peraltro, l’intervista al presidente Amato di Giovanni Floris non è tornata sul merito delle decisioni sui referendum ma ha avuto ad oggetto temi diversi, che hanno a che fare con la Costituzione e i suoi valori. Tutto è documentato sul sito della Corte e chiunque può rivedere la conferenza stampa e l’intervista. La Corte costituzionale, fin dalla nascita, considerata l’incidenza delle sue decisioni nella vita delle persone, sente il “dovere di comunicare” e, soprattutto negli ultimi anni, lo declina in modo coerente con le esigenze di trasparenza, di conoscenza, di controllo sociale e di promozione della cultura costituzionale. Per farlo, utilizza gli strumenti di comunicazione della contemporaneità, come peraltro fanno altre alte Corti europee (salvo i podcast, ancora non diffusi in altre istituzioni). Dispiace che questi fatti siano totalmente ignorati o trasfigurati, perché si sta parlando del più alto organo di garanzia della Repubblica. L’apertura e la trasparenza delle Istituzioni dovrebbe essere vissuta non come un pericolo ma come un momento importante della vita della democrazia. Grazie dell’attenzione. *Responsabile comunicazione della Corte Costituzionale Dottoressa Stasio, lei scrive che la Corte Costituzionale è il “più alto organo di garanzia della repubblica”. Penso che lei abbia assolutamente ragione. Sicura che il luogo giusto nel quale affermare questa garanzia siano gli studi televisivi di Giovanni Floris? (Piero Sansonetti) Vincenzo Maiello: “Rimodellare alcuni reati che generano processi lunghi e inutili” di Viviana Lanza Il Riformista, 25 febbraio 2022 A trent’anni da Tangentopoli il tema dei condizionamenti tra magistratura e politica è ancora molto attuale, e resta un nodo irrisolto. Ne parliamo con l’avvocato e professore Vincenzo Maiello, giurista e colonna della Federico II, protagonista di importanti battaglie dell’Unione Camere penali e, tra gli altri, di un applaudito confronto in punta di diritto con Piercamillo Davigo in occasione del dibattito organizzato dagli avvocati napoletani con l’ex pm di Mani Pulite, a Castel Capuano, nel febbraio 2020. Partiamo dal dato storico: Tangentopoli. Cos’è stato e quali conseguenze ha generato? “Mani pulite - il fronte giudiziario di lotta a Tangentopoli - è stata un insieme di cose, come ampiamente illustrato dalla storiografia di questi anni. La valutazione di ciò che quella vicenda ha rappresentato deriva, com’è scontato, dagli angoli di osservazione. Se, a dispetto del tempo trascorso, residuano tuttora perplessità e scarsa chiarezza sul come un’ordinaria indagine per corruzione si sia rapidamente trasformata in una inchiesta epocale sulle relazioni incestuose tra le grandi imprese, i partiti di governo e i loro dirigenti, sono invece evidenti gli effetti che quella pagina cruciale di storia italiana ha prodotto sia sul piano della delega politica, sia nelle dinamiche fra i poteri dello Stato. Dal primo punto di vista, emerge la disarticolazione del quadro politico, segnata, per un verso, dalla dissoluzione dei partiti di massa protagonisti del governo del Paese e, per l’altro, dalla riconversione della rappresentanza parlamentare dapprima in chiave leaderistica, poi su base demagogica e populistica. Nell’ottica istituzionale, Mani pulite ha innovato la costituzione materiale del primo quarantennio repubblicano, ridefinendo i ruoli del legislativo e del giudiziario nei rapporti con il popolo. Sono accadute vicende dirompenti per gli equilibri dello Stato di diritto costituzionale: da un lato, la giurisdizione ha cessato di essere la ‘voce’ della legge e del diritto - quest’ultimo inteso quale impresa collettiva che coinvolge una complessità di formanti - divenendo cassa di risonanza delle aspirazioni popolari e suo diretto interlocutore. Dall’altro, il potere parlamentare - oggettivamente intimidito dal clima malmostoso dell’assedio giudiziario - si è ritrovato a svolgere funzioni ausiliarie all’azione repressiva della magistratura (non senza ambigua enfasi e sottili slittamenti semantici definita di controllo di legalità), venendo così meno alla propria funzione di indirizzo politico. Molti sono i fatti che ne costituiscono riprova: ci limitiamo a segnalare la cosiddetta dottrina Borrelli, che rivendicava con orgoglio l’ancoraggio dell’agire giudiziario alla “sensibilità media del popolo”, e l’appello televisivo rivolto dagli esponenti del pool contro il decreto-legge Biondi. Questa ricerca di legittimare l’azione giudiziaria ‘dal basso’ della piazza - anziché dal piano alto della divisione costituzionale dei poteri - ha inciso sugli approcci interpretativi e sulla conformazione applicativa della legge penale e delle regole processuali, oscurandone la funzione di garanzia di cui è presidio il loro carattere controintuitivo ed antilogico”. Quanto la politica si è messa nelle condizioni di essere commissariata dalla magistratura e quanto la magistratura ha sconfinato in un campo non suo? “Sullo sfondo ci sono le molte facce della questione morale e i nodi irrisolti del finanziamento della politica. È indubbio che le indagini degli anni novanta hanno affondato il bisturi della repressione nel mare magnum della corruzione sistemica, un gigantesco Golem di grandi e piccole illegalità prosperate nel sottobosco di una politica disattenta alla selezione del proprio personale. Certo l’azione giudiziaria non avrebbe conosciuto le dimensioni e le punte di pervasività, raggiunte specie nei confronti dei membri del Parlamento, senza la riforma dell’articolo 68 della Costituzione”. Cosa occorrerebbe per ristabilire un equilibrio tra questi due poteri: politica e magistratura? “Oggi sta crescendo la sensibilità e l’interesse verso forme e strumenti di salvaguardia della politica nei rapporti con il potere giudiziario. In questa prospettiva, occorrerebbe riflettere sul ripristino dell’autorizzazione a procedere, se del caso affidandola ad un organo a struttura mista cui demandare la valutazione del fumus persecutionis. Fuor di ogni discorso politically correct, andrebbero, poi, anche rimodellate le fattispecie penali riguardanti le condotte della politica, espungendone quegli elementi di accentuata porosità semantica che consentono di avviare con facilità indagini. Penso, ad esempio, a tutti quei reati-accordo fondati sul mero impegno ad attivarsi, in altri termini sulla semplice promessa. Sono quelle figure di reato che, a causa della loro impalpabilità, ma anche della forte carica simbolica, sono all’origine di mega inchieste che impegnano risorse e anni di lavoro investigativo, e processuale, spesso sfociate nella scoperta di topolini insignificanti per il diritto”. Quale riforma, a suo parere, potrà davvero risolvere i problemi e i mali della giustizia? “Una riforma organica che riguarda i codici, l’ordinamento penitenziario e le leggi di ordinamento giudiziario. Una politica autorevole dovrebbe assumere su di sé la responsabilità di progetti riformatori di ampio respiro: senza, e oltre, temo che siano operazioni di facciata che lasciano inalterate le cause delle patologie”. Vinicio Nardo: “Sì alla presunzione d’innocenza, ma tuteliamo il diritto all’informazione” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 febbraio 2022 “Nel Palazzo di giustizia milanese la sala stampa è a rischio sfratto, un altro ostacolo al diritto di cronaca”. “È necessario tutelare il diritto all’informazione, un diritto, ricordo, costituzionalmente garantito”, afferma l’avvocato Vinicio Nardo, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano. La recente entrata in vigore della normativa sulla presunzione d’innocenza e le sue ripercussioni in tema di comunicazione giudiziaria, ha in questi giorni dato il via ad un dibattito molto sentito fra tutti gli operatori del settore: magistrati, avvocati, giornalisti. Presidente Nardo, può dirci la posizione sul punto dell’avvocatura milanese che lei rappresenta? La libertà di informazione ci deve essere e può esistere anche nel rispetto della presunzione di innocenza. E, soprattutto, deve essere a tutela dalla disintermediazione dei social tra haters e fake news. Il tema delle fake news, anche nell’ambito della comunicazione giudiziaria, è sempre più sentito. Come affrontarlo? È sufficiente la riforma sulla presunzione d’innocenza che stabilisce regole ferree sul flusso comunicativo? È un bene che si sia regolamentata l’ufficialità dei percorsi di “vidimazione” delle notizie da parte dello Stato, sia nella forma dell’Autorità giudiziaria che in quella delle Forze dell’ordine. Ma la libertà di informazione e la ricerca della verità devono essere ancora uno spazio di movimento consentito ai giornalisti e in particolare a loro, proprio per contrastare il buco nero della disintermediazione informativa che ha, come detto, negli haters e nelle fake news una minaccia già presente e che il giornalismo corretto e non diffamatorio deve contrastare. Vede delle criticità nelle nuove regole? Io credo che sull’altare della sacrosanta tutela della presunzione di innocenza non possa finire una apparente forma di censura che passa sottilmente dalle nuove regole del gioco indicate nella Riforma Cartabia a proposito di regole di ingaggio nella comunicazione. Ma di certo l’ultima modalità di elaborare quegli errori può essere mettere il silenziatore alle notizie, come qualcuno e in particolare i giornalisti potrebbero leggere tra le righe dei nuovi provvedimenti. Magari anche all’insaputa di chi li ha diligentemente scritti. Gli avvocati che ruolo potranno avere? Gli avvocati difendono i diritti e i diritti non ammettono processi e condanne a prescindere e invece ne vediamo un giorno sì e un altro pure. La scorsa settimana ci sono svolte diverse cerimonie per i 30 anni di Tangentopoli, uno spartiacque in tema di comunicazione giudiziaria... Il 2022 dovrebbe essere interamente dedicato a riflettere e lavorare sull’eredità dei 30 anni di Tangentopoli e proiettare sul futuro e anche nell’applicazione della Riforma Cartabia tutti gli insegnamenti, per non correre più gli errori che all’epoca fecero in tanti e anche nell’informazione. Trova differenze oggi dal 1992? Da allora molte cose sono cambiate. Noi avvocati siamo i primi a contrastare in tutti i modi consentiti dalla legge e dal buon senso quella cattivissima tendenza che a volte la giustizia e il giornalismo hanno condiviso e che abbiamo sintetizzato nel termine di “processi mediatici”. Adesso esistono i social… Certo: se prima a esserne autori erano i giornali adesso a volte lo sono proprio i social, disintermediando la professionalità dei giornalisti. Al Palazzo di giustizia di Milano la sala stampa è a rischio sfratto causa aumento del canone di locazione. Si stanno cercando soluzioni per evitarne la chiusura? In un momento come questo di fronte alle sensazioni che producono le nuove regole sulla comunicazione a tutela della presunzione di innocenza, suona in effetti molto stridente quello che sta succedendo a Palazzo di giustizia con lo spazio stampa da decenni a disposizione dei cronisti per il loro lavoro sugli articoli. Su di loro, come è già accaduto di recente anche per una nostra associazione di avvocati, è calata la scure dei costi delle spese di gestione della sala, che sta portando ad obbligarli a lasciarla. Per quanta ragione possa avere lo Stato nel reclamare il legittimo pagamento delle spese dovute, qui in gioco c’è l’esercizio del diritto di cronaca. Per questo ci attiveremo per capire come con la Corte d’Appello si possa trovare una soluzione, eventualmente in un altro spazio per consentire ai giornalisti di lavorare quotidianamente a Palazzo anche nei prossimi anni. L’appello di Costa: “Stop alle Camere di consiglio da remoto” di Valentina Stella Il Dubbio, 25 febbraio 2022 Accolto come raccomandazione un ordine del giorno dell’onorevole Enrico Costa, nominato ieri vice- segretario di Azione, in merito alla Camere di Consiglio da remoto. Esso impegna il Governo a valutare gli effetti applicativi della disciplina che ha prorogato, oltre il termine dello stato di emergenza fissato al 31 marzo 2022, l’efficacia di alcune disposizioni concernenti lo svolgimento dei processi. Per il processo penale, la norma prevede la trattazione in camera di consiglio da remoto dei procedimenti penali in Cassazione, senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti, salvo che il ricorrente richieda espressamente la discussione orale; la possibilità di assumere da remoto le deliberazioni collegiali in camera di consiglio; il procedimento semplificato nel giudizio penale di appello e nei procedimenti di impugnazione dei provvedimenti di applicazione di misure di prevenzione personali; la possibilità che la decisione sia presa sulla base di un giudizio cartolare, che si svolge in camera di consiglio, a distanza e senza la partecipazione di pm e difensori delle parti. Nella relazione illustrativa al decreto legge si sostiene che “la proroga delle predette misure si rende necessaria in relazione all’attuazione degli obiettivi di smaltimento dell’arretrato assunti dall’Italia in sede di Pnrr, e idealmente dovrebbe saldarsi alle nuove misure allo studio del Governo in sede di recepimento delle deleghe per la riforma del processo civile e penale”; al contrario, scrive Costa, ‘le disposizioni attinenti alla possibilità di svolgimento delle camere di consiglio “da remoto”, cioè senza la contestuale presenza del giudice nella sede giudiziaria, trovano il proprio fondamento nella sola emergenza sanitaria e non sono oggetto di alcuna previsione da parte della legge delega n. 134 del 2021: ciò perché è inimmaginabile che possa essere stabilito, in via ordinaria, che i giudici non si riuniscano fisicamente nella medesima sede’. Il tema delle Camere di Consiglio da remoto è molto sentito dall’Unione delle Camere penali. Il segretario Eriberto Rosso ci dice: “Ringraziamo l’Onorevole Costa per il suo impegno in questa battaglia che come tante altre ci vede insieme. La raccomandazione è comunque un segno e un impegno, in particolare della ministra della Giustizia, per lavorare affinché il 31 marzo questa inaccettabile disciplina finisca. Si tratta di una previsione che non è prevista nella riforma del processo penale. Quindi sarebbe davvero incredibile se si continuassero a prevedere le Camere di Consiglio da remoto oltre il 31 marzo. Sarebbe solo una comodità per qualche ufficio giudiziario a discapito dei diritti della difesa. Noi continueremo a mobilitarci perché tutto il pacchetto emergenza finisca il 31 marzo”. Riforma Cartabia, la critica del procuratore di Milano: “Così si introduce concetto della velina di regime” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 25 febbraio 2022 “Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare cosa sia d’interesse pubblico, è un compito dei giornalisti”. Con queste parole ieri Riccardo Targetti, procuratore di Milano, ha stigmatizzato quello che lui stesso è stato costretto a mettere in pratica, ovvero le norme della legge Cartabia su temi come la libertà di stampa, le prerogative dei magistrati e il ruolo dei giornalisti. In uno scenario che rischia di generare un’impasse nel sistema informativo: “Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare - ha aggiunto. Come cittadino la giudico male, non mi è piaciuta per niente. Mi sembra che questa legge introduca il concetto della velina di regime”. A due settimane dall’invio della circolare con cui il procuratore ha accolto le disposizioni della legge Cartabia in materia di rapporti con la stampa, si moltiplicano le prese di posizione critiche nei confronti della norma. E stavolta parole dure arrivano proprio dal capo della procura milanese, subentrato come facente funzioni dopo il pensionamento di Francesco Greco. In particolare evidenziando i limiti della legge sulla presunzione d’innocenza che prevede due aspetti per l’autorizzazione alla divulgazione della notizia: ovvero l’attinenza alle indagini e l’interesse pubblico. “Mentre sul primo sono ovviamente d’accordo - ha detto Targetti - rispetto al secondo non penso debbano essere i magistrati a dover valutare cosa sia d’interesse pubblico, quello è un compito dei giornalisti”. Il procuratore Targetti lo ha spiegato alla tavola rotonda organizzata a Milano da Usigrai dal titolo “Presunzione di innocenza; maggiori tutele per il diritto delle persone sottoposte ad indagini non diventi bavaglio all’informazione”. “Questa legge ha dato al procuratore un potere che reputo assolutamente eccessivo - ha aggiunto Targetti. Per questo, dopo averne parlato con alcuni colleghi, sto pensando di creare un ufficio stampa nostro che possa interfacciarsi con i giornalisti per la verifica della notizia, che è quello che vi serve”. Un altro dei problemi che si affaccia riguarda la verifica delle notizie che viene resa ancora più complicata: “la verifica è fondamentale, senza di quella l’informazione è monca”. Le parole di Targetti arrivano in un momento complicato per i rapporti con gli organi di informazione, anche in relazione al rischio di chiusura della sala stampa al terzo piano del Palazzo di Giustizia. Argomenti su cui è intervenuto anche il presidente dell’ordine degli avvocati Vinicio Nardo: “A trent’anni da Tangentopoli pericoloso dare segnali di marcia indietro. E i giornalisti a Palazzo hanno diritto ad uno spazio - si legge in un comunicato. Sull’altare della sacrosanta tutela della presunzione di innocenza, non può finire una apparente forma di censura, che emerge dalle nuove regole della riforma Cartabia”. Nardo ha poi aggiunto: “Suona molto stridente quello che sta succedendo a Palazzo di Giustizia con lo spazio stampa da decenni a disposizione dei cronisti per il loro lavoro sugli articoli. Su di loro, come è già accaduto di recente anche per una nostra associazione di avvocati, è calata la scure dei costi delle spese di gestione della sala, che sta portando ad obbligarli a lasciarla”. “Procure, la legge Cartabia introduce le veline di regime” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 25 febbraio 2022 Presunzione d’innocenza - Targetti, procuratore capo di Milano: “Potere eccessivo per una democrazia”. La Fnsi scrive all’Ue: “Bavaglio”. Dal Palazzo di Giustizia di Milano arriva una stroncatura tonda tonda della legge sulla presunzione di innocenza, entrata in vigore in dicembre, firmata dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Si tratta del decreto legislativo che imbriglia i magistrati e imbavaglia i giornalisti. È Riccardo Targetti, il procuratore facente funzioni, in attesa che arrivi il successore di Francesco Greco, ad aprile, a parlare: “Come magistrato la giudico una legge piuttosto difficile da applicare. Come cittadino la giudico male. Mi sembra che questa legge introduca il concetto della velina di regime”. L’occasione è un dibattito organizzato dall’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai su questa legge che prevede possano essere solo i procuratori a interagire coni cronisti “con comunicati ufficiali” e solo quando “la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico”. Inoltre, le conferenze stampa sono limitate a “casi di particolare rilevanza pubblica”. Ed è sulla pretesa che siano i procuratori a stabilire quando c’è un interesse pubblico che Targetti dissente ancora: “Non penso debbano essere i magistrati a dover valutare, quello è un compito dei giornalisti”. Il procuratore reggente evidenzia pure l’aumentato potere dei suoi omologhi: “Mi sono chiesto, nel momento in cui ho redatto la circolare applicativa, se non stavo addossando al procuratore, in questo caso a me stesso e a chi mi succederà, un grande potere, molto maggiore di prima e se questo potere non è concentrato in maniera eccessiva per uno Stato democratico”. Il riferimento è anche a una novità assoluta: “Il potere di vaglio del procuratore anche per le notizie delle forze di polizia”. Infine, riconosce la difficoltà “della verifica della notizia, fondamentale, da parte dei giornalisti” tanto che pensa di creare un ufficio stampa in Procura. Critico anche il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano, Vinicio Nardo: “Siamo per primi noi avvocati a contrastare quella cattivissima tendenza che a volte la giustizia e il giornalismo hanno condiviso, i ‘processi mediatici’, tuttavia sull’altare della sacrosanta tutela della presunzione di innocenza non può finire una apparente forma di censura che passa sottilmente dalle nuove regole del gioco”. Al dibattito è intervenuto anche Beppe Giulietti, presidente della Fnsi. Ha annunciato che il sindacato dei giornalisti ha presentato un esposto a Bruxelles dove si chiede al Commissario europeo della Giustizia di valutare “o una procedura di infrazione o una difformità” della norma rispetto al recepimento da parte dell’Italia della direttiva europea sulla presunzione di innocenza. Giulietti denuncia anche che il diritto di cronaca è minacciato quotidianamente dallo stallo della “legge sulle querele bavaglio” presentate contro i giornalisti a scopo intimidatorio. Poi, la richiesta della Fnsi alla ministra Cartabia: aprire “un tavolo congiunto coinvolgendo tutti i soggetti che crede, per arrivare all’approvazione delle norme necessarie”, altrimenti “siamo pronti a una manifestazione sotto al Senato dove saranno schierati i 27 cronisti sotto scorta, insieme ai colleghi minacciati dalle querele bavaglio”. Le baby gang di provincia, pendolari delle risse nella Milano che luccica di Brunella Giovara La Repubblica, 25 febbraio 2022 Novara, viaggio nelle banlieue all’italiana dove la legalità si perde e i ragazzi imparano la rabbia al ritmo trap. È andata così. Il kebabbaro aveva appena chiuso, bussa un ragazzino e chiede aiuto. “Aprimi, vogliono ammazzarmi”. L’uomo, musulmano timorato di Dio, lo nasconde giusto in tempo perché bussa un altro ragazzino, e ha una pistola. “Non ho aperto, ho fatto scappare l’altro dal retro. Quanti anni avevano? Quattordici, più o meno. E io chiedo: cosa sta succedendo, qui a Novara?”. Succede quel che succede in tutta l’Italia del Nord, nelle città medie come è questa, dominata dal Monte Rosa e dalla cupola dell’Antonelli, 121 metri con un Cristo Salvatore. Ma qui, come a Brescia, Padova, Trento, Pavia, in queste banlieue di provincia chi salverà il futuro dei teenager poveri, stressati dalla pandemia, violenti, spesso seconda generazione e quindi ancora più incattiviti, ma anche italiani, ragazzini per bande che si formano, svaniscono e ricreano, su un ritmo trap che qui fa “Hey Hey Hey, Novara City/Oh Oh Oh, fanculo la pula”. Eppure è un posto tranquillo, questa città sulla rotta Torino-Milano, ogni 25 minuti un treno ti porta in Centrale, “andiamo a fare serata a Milano”, talvolta finisce in tragedia come a Capodanno, le ragazze violentate davanti al Duomo. L’ultimo rapporto del Servizio analisi criminale della Polizia spiega il trend in crescita di reati minorili, dei 25mila ragazzi denunciati o arrestati nel 2021. Le regioni più colpite, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Perciò Novara, città tipo, 100mila abitanti, 15mila stranieri, “non peggio di altre realtà”, dice il sindaco Alessandro Canelli, Lega. “C’è un fenomeno di baby gang, ma sono ben conosciuti, monitorati dalle forze dell’ordine. Nelle metropoli ci sono state situazioni limite, io spero che non si arrivi a questo”. A fine agosto la polizia ha chiuso l’indagine Quiet adolescence, fermando la banda (dodici, dai 14 ai 17 anni) che da mesi colpiva al Parco dei Bambini. Ne accerchiavano uno, lo picchiavano e gli portavano via collanina, cellulare, soldi. Dopo le denunce hanno minacciato le vittime sui social, poi di persona. Metà italiani, metà stranieri. All’inchiesta ha partecipato la polizia giudiziaria della Procura per i minori di Torino, seguendo profili Facebook e Instagram, là dove viaggiano veloci le chiamate alle armi, i video delle imprese, la trap e la drill. L’eroe novarese è Zefe, Kazir Siffedine, famiglia marocchina. Fermato a Milano nell’aprile 2021: nel quartiere San Siro 300 ragazzi molto aggressivi stavano partecipando a un video con lui e altri due trapper, Neima Ezza, e Baby Gang, cioè Zaccaria Mohuib. Zefe aveva un machete, quindi denunciato per porto abusivo di armi. E non poteva venire a Milano, per via di un obbligo di dimora, dopo una rissa a Novara. Ha vent’anni, si trascina dietro migliaia di ragazzini che si riconoscono nei contenuti violenti dei suoi testi. Lui dice “voglio dare voce a chi non ce l’ha. E voglio comprare una villa a mia madre”, visto che è nato a Sant’Andrea. Ma i ragazzi percepiscono solo il messaggio violento, “O la fame o la fama”, sta scritto su un muro delle “case bianche” di via Bonola, così marce che il Comune le abbatterà. Nel frattempo gli stessi ragazzi vanno a vedere la città che scintilla: “Milano, il centro del Nord, offre locali, corso Como, i vip, i calciatori”, dice Marco Terraneo, docente di Sociologia alla Bicocca. “A Novara, a Lodi, in provincia questo non c’è, ovvio che loro si dirigano verso quelle luci che brillano. Ma ne sono esclusi”. Giuseppe Passalacqua, insegnante, fa parte di SerMais, associazione di progetti educativi. Non gli piace il termine “baby gang”, sa che adesso più che violenza “c’è il ritiro sociale, il mutismo. I cappucci tirati sulla testa, zero voglia di parlare...”. Poi “li vedi esplodere in maniera incontrollabile. Dieci anni fa le risse erano più frequenti, ora meno. Ma quando esploderà...”. Poi, ci sono cento minori non accompagnati, arrivati perlopiù dall’Egitto con i barconi. Alcuni in comunità, molti però vivono intorno alla stazione, di piccolo spaccio, furti, rapine. A Sant’Agabio, da sempre quartiere ghetto, la mamma marocchina Yasmine dice “i cattivi ci sono, ma non sono marocchini. Sono italiani, egiziani, pakistani. Qui non c’è niente per i ragazzi, c’è solo il giardino dei bambini”. Dietro l’angolo c’è il campo di calcio Olimpia, e Novara ha squadre di hockey, pallavolo, calcio, basket, football americano. È che lo sport costa, le scarpe costano. La Fondazione De Agostini lancia un progetto per “realizzare il sogno sportivo di bambini meno fortunati”. Quindici tra i 6 e i 14 anni avranno “borse sport” di 3 anni per corsi offerti da Polisportiva San Giacomo, Usd San Rocco, Novara Basket. Quindici, meglio di niente. Gianluca Pinnisi, responsabile area minori, Servizi sociali del Comune: “Seguiamo 3.700 famiglie, e 2mila minori. Vandalismi, risse, furti, hanno 14 anni, anche tredici, molte le femmine. Le risse si sono spostate in centro, questo ha allarmato la città, la politica”. Anche italiani, “due ci hanno portato il figlio coinvolto in una baby gang. Non ha detto una parola”. Scuole e associazioni, tra Fadabrav, Libera, Centro per le famiglie, questura e polizia locale fanno rete, organizzano incontri di educazione civica, “ma in questi posti la legalità si perde, onore e rispetto sostituiscono la legge”, spiega Antonella Gallicchio, educatore dei Servizi sociali. “A Sant’Agabio 30 bambini non vanno a scuola, perché è una fatica: li devi svegliare, cibare, portare. Il livello culturale è basso, sono aumentati i casi di deficit cognitivo infantile”. C’è “la rabbia di essere il povero, che non può fare, avere”, e “a volte penso che Sant’Agabio sia una giungla. Ma il problema non è solo loro, è di tutti”. La baby gang? “Il gruppo è appartenenza”. Nel niente, è qualcosa. “Si lavora per prevenire un fenomeno già preoccupante”, dice il sindaco. “Con un’azione culturale sulle famiglie, interventi nelle scuole. E noi come amministrazione, vogliamo creare posti dove i ragazzi possano esprimersi. Ma belli, perché il bello chiama il bello”. L’ex caserma dei Cavalleggeri è stata trasformata da Comune e associazioni in Nova, spazio aperto, corsi, doposcuola, teatro. Don Tiziano Righetto, per anni parroco a Sant’Agabio: “Con i ragazzi bisogna investire in tempo. Costruire relazioni significative, e anche formare gli educatori”. E “non basta la repressione, non è solo un problema di ordine pubblico”, aggiunge Terraneo. Come dice Yassine, 14 anni, italo-marocchino, “da piccolo venivo bullizzato perché andavamo alla Caritas. Mi vergognavo molto, l’unica emozione era la musica rap-drill. Mi consolava perché anche i cantanti erano soli come me. Ma oggi tanti fanno i finti crimi, cioè criminali, perché è divertente...”, è una moda. Poi qualcuno ha capito che aveva un talento per il calcio e così Yassine si è salvato, uno su mille. Consulta, i bambini devono avere legami giuridici con i parenti di chi li adotta di Liana Milella La Repubblica, 25 febbraio 2022 Dopo le due sentenze del 2021 che contenevano un pressante invito al Parlamento a rendere omogenee le leggi sulle adozioni, la Corte dichiara incostituzionale quella che “non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante”. Entusiasta la reazione dell’avvocato Alexander Schuster: “Finalmente anche questi piccoli avranno diritto ad avere dei nonni e degli zii”. Ancora una volta, parlando di una sentenza della Consulta, si può citare il detto napoletano “i figlie so’ piezz’ ‘e core”. E ovviamente devono essere tutti uguali e godere degli stessi diritti. La Corte l’aveva già detto l’anno scorso, in due sentenze, la 31 e la 32 sulle adozioni di coppie omosessuali, inviando un deciso monito al Parlamento a cambiare tutte le leggi in cui si annidano, invece, evidenti discriminazioni nei confronti dei minori e dei loro diritti che non sono tutti identici. Come quelle nei confronti di bambini adottati da coppie dello stesso sesso, all’interno di unioni civili. Ma stavolta la Consulta, affrontando una questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale per i minorenni di Bologna, va molto più avanti. La relatrice è Emanuela Navarretta, la docente di diritto privato a Pisa scelta dal presidente Mattarella nel settembre del 2020 come nuovo giudice costituzionale. Che decide per l’incostituzionalità di due articoli - il 55 della legge del 1983 sulle adozioni, nonché l’articolo 300 del Codice civile (il secondo comma) - con l’obiettivo di garantire a tutti i bambini adottati gli stessi diritti. Entusiasta il commento a caldo dell’avvocato di Trento Alexander Schuster, che proprio due giorni fa aveva scritto un lungo articolo su Questione Giustizia, la rivista online di Magistratura democratica, e adesso a Repubblica dice: “Questa decisione conferma la grande sensibilità della Corte già dimostrata l’anno scorso su questi temi. E dove l’istituto dell’adozione era già stato criticato, con il monito al Parlamento a intervenire con la massima urgenza sulla questione. Adesso la Corte amplia le tutele per questi bambini dando loro finalmente il pieno diritto ad avere nonni, zii, sorelle e fratelli”. Ecco, proprio questo ha fatto la Consulta con la sua pronuncia di incostituzionalità. Che ha affrontato il caso delle cosiddette adozioni “in casi particolari”, cioè quelle che riguardano quattro categorie di bambini adottabili, i bambini orfani di padre e di madre, i bambini afflitti da disabilità, i bambini definiti con una bruttissima espressione dei “figliastri”, cioè nati da un precedente matrimonio, o ancora bambini che vivono con il coniuge del genitore biologico, comunque tutti i bambini che non sono altrimenti adottabili. Tutti questi bambini, per “colpa” delle leggi, non hanno gli stessi diritti degli altri. Per esempio nel cognome, nel ruolo del genitore, che non è un genitore fino in fondo, per cui il bambino non ha né nonni, né zii, né effettivi legami di parentela. Con gravi conseguenze, anche di tipo ereditario, ma anche nella garanzia di poter godere della stessa assistenza sanitaria o ancora degli alimenti. Rispetto alle adozioni “in via principale”, quelle di piccoli abbandonati o di coppie coniugate, parliamo dunque di bambini discriminati nei loro diritti. La Consulta ha spazzato via tutto questo. E come scrive una nota dell’ufficio stampa, che anticipa il contenuto della prossima sentenza, boccia come incostituzionali le norme nella parte in cui prevedono che “l’adozione non induce alcun rapporto civile tra l’adottato e i parenti dell’adottante”. La Corte scrive che il mancato riconoscimento dei rapporti civili con i parenti di chi adotta viola l’articolo 3 della Costituzione sull’uguaglianza e discrimina appunto quel bambino che è stato adottato nella categoria dei “casi particolari” rispetto agli altri figli più fortunati perché adottati nella pienezza del significato che il concetto stesso di adozione può avere. La conseguenza è che il bambino adottato “in casi particolari” non potrà godere, come scrive la Corte, delle “relazioni giuridiche che contribuiscono a formare la sua identità e a consolidare la sua dimensione personale e patrimoniale”. Tutto questo in netto contrasto con la nostra Carta che all’articolo 31 tutela “l’infanzia” e con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tutela a sua volta il rispetto della vita privata e familiare. Puglia. Tavolo sulle carceri con i direttori delle Asl e i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza consiglio.puglia.it, 25 febbraio 2022 Si è tenuto ieri mattina, presso la Sala Guaccero di via Gentile, a Bari, il tavolo tecnico sul tema della salute all’interno delle strutture detentive pugliesi convocato dalla Presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone, d’intesa con l’assessore alla Sanità, Rocco Palese, su richiesta dell’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale “Antigone”. All’incontro erano presenti il Provveditore regionale della Puglia e della Basilicata, il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, i direttori generali delle ASL e i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza pugliesi. Tante le criticità ma anche le proposte messe in campo dagli intervenuti che hanno mostrato grande favore nei confronti dell’iniziativa che, per la prima volta, ha riunito attorno a un tavolo i vertici del sistema sanitario regionale e quelli del sistema penitenziario. Dal sovraffollamento delle carceri (la Puglia infatti conta oggi oltre quattro mila detenuti), alla necessità di intervenire sulla diagnostica a distanza dotandosi della tecnologia della telemedicina e del sistema delle cartelle cliniche elettroniche, così da consentire un monitoraggio costante dei detenuti affetti da patologie e al contempo ridurre, qualora possibile, le procedure di trattamento presso le strutture sanitarie; al bisogno di formazione specialistica per gli operatori sanitari che operano negli istituti penitenziari; alla richiesta di rafforzamento delle attività dell’Osservatorio sanitario regionale e di una maggiore sinergia nella programmazione degli interventi tra Regione Puglia e amministrazione penitenziaria; alla necessità di dare una risposta forte alla problematica relativa alla fragilità psichiatrica di detenuti e internati garantendo, per i primi il necessario supporto psicologico, e per i secondi la riduzione dei tempi di accesso alle Residenze per le misure di Sicurezza (Rems). “La visita negli istituti penitenziari e l’incontro con i direttori in questi anni di attività politica - ha detto la presidente del Consiglio regionale della Puglia, Loredana Capone - mi hanno fatto comprendere quanti problemi ci sono purtroppo all’interno delle nostre carceri e quanto fondamentale sia intervenire al più presto per assicurare una migliore condizione di salute ai detenuti. Per questa ragione ho accolto subito l’invito di Antigone e, insieme all’assessore Palese e al garante regionale Piero Rossi, che ringrazio per il grande lavoro svolto, ho voluto incontrare oggi tutti i direttori e i presidenti dei Tribunali di sorveglianza, e i direttori delle Asl pugliesi, per fare il punto sullo stato delle cose e programmare azioni comuni che portino a soluzioni concrete. Un primo passo è stato già compiuto con l’impegno che abbiamo assunto a programmare subito un incontro con l’Agenzia Regionale strategica per la Salute ed il Sociale della Regione Puglia per strutturare un progetto di telemedicina negli istituti penitenziari che renderebbe certamente meno onerose ma soprattutto più efficaci le cure per i detenuti. Ma sono molte le problematiche da affrontare, a partire dal bisogno di psichiatri, psicologi e strutture specialistiche di settore, e questo è un ulteriore elemento di cui tener conto anche perché c’è un fabbisogno rispetto al quale si è pronunciata la stessa Corte Costituzionale e la Corte Europea dei diritti umani. Insomma garantire la salute è fondamentale per tutte le cittadine e i cittadini pugliesi ma in luoghi come gli istituti penitenziari, in cui le difficoltà anche psicologiche sono enormi, bisogna intervenire con altrettanta efficacia e celerità per evitare che si verifichino tragedie come quelle di Foggia e Brindisi in cui a inizio d’anno due giovani detenuti si sono tolti la vita. È un tema complesso quello delle carceri che la Regione, però, intende affrontare fino in fondo e in sinergia con tutti gli attori coinvolti”. “Esprimo viva gratitudine nei confronti della Presidente Capone - è intervenuto il garante regionale dei diritti delle persone private della libertà, Piero Rossi - per aver voluto convocare tutti i fondamentali interlocutori del settore in una proficua riunione plenaria, di confronto condiviso a tutti i livelli. È evidente che la garanzia di salute in favore delle persone detenute oggi necessita di un ripensamento e anche di una omogeneizzazione delle offerte territoriali. Occorre che cittadini come tutti gli altri ma privati della libertà possano avere accesso alla fruizione di un diritto che resta fondamentale ed inviolabile”. “Affronteremo tutte le questioni e proveremo a fare la nostra parte - ha aggiunto l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese. Veniamo da un periodo particolarmente complicato, com’è quello della pandemia, e nonostante tutte le fragilità esistenti siamo riusciti, grazie all’impegno di tutto il personale penitenziario, ad affrontarlo nel migliore dei modi. Adesso dobbiamo concentrarci per risolvere tutti i problemi che nel corso di questi anni sono venuti a determinarsi. Non è troppo tardi ma dobbiamo certamente ripartire da un maggiore raccordo tra struttura sanitaria e struttura penitenziaria. Sono certo che ogni Asl possa e debba indicare un referente per l’assistenza sanitaria nelle carceri e sono altrettanto convinto che sia necessaria una formazione specifica per i sanitari che operano negli istituti. L’impegno della Regione c’è, intanto, il primo passo sarà quello di interessare il direttore dell’Ares, il dott. Giovanni Gorgoni, della necessità di sviluppare un progetto per portare la telemedicina nelle strutture penitenziarie”. Napoli. Il carcere è un inferno, lo dicono anche gli agenti di Viviana Lanza Il Riformista, 25 febbraio 2022 Il carcere è un luogo invivibile, che esaspera gli animi e schiaccia ogni diritto della persona, anche i più elementari. Ora lo dicono a voce alta anche gli agenti della polizia penitenziaria, quelli che all’interno degli istituti di pena rappresentano lo Stato, lo stesso Stato che lascia che le carceri continuino ad essere un inferno. Ieri a Napoli gli agenti della polizia penitenziaria hanno organizzato una protesta. Con striscioni e bandiere delle più rappresentative sigle sindacali, si sono riuniti davanti alla sede dell’amministrazione penitenziaria della Campania. “Non siamo torturatori ma torturati da un sistema penitenziario poco dignitoso per uno Stato che si definisce civile. Diciamo basta!”, hanno affermato gridando i loro i disagi, i loro problemi. Certo, la loro, è una battaglia di categoria. ma si spera che possa servire per accendere un faro in più nel buio dell’indifferenza con cui i più guardano al sistema carcere e alle condizioni inumane nelle quali sono lasciati i detenuti, in particolare i più soli nella società, gli ultimi. Sventolando bandiere dei sindaci Osapp, Sinappe, Uilpa, Uspp, Fns Cisl, Cnpp, Cgil, agenti della polizia penitenziaria e rappresentanti sindacali hanno partecipato al sit-in di protesta “contro vertici politici e un Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria silente”, “che - accusano i sindacati della penitenziaria - intende disporre degli uomini e di donne in divisa come meglio crede”. Cosa chiedono i sindacati, che giorni fa hanno anche indetto lo stato di agitazione? “Il ripristino delle non più sostenibili condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria in servizio presso gli istituti per adulti e minorenni e un miglioramento delle relazioni sindacali con i l provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania”. “Siamo qui, tutti i sindacati della polizia penitenziaria riuniti perché da anni c’è uno stato di abbandono. Soltanto in Campania mancano 600 agenti, serve una riforma del sistema penitenziario”, ha affermato Ciro Auricchio, segretario regionale Uspp. “Il Governo è assente, le norme non sono più adeguate e le carceri sono vetuste e non più in grado di garantire sicurezza sociale”, ha aggiunto Lorenza Sorrentino, segretario regionale Fns Cisl. Una battaglia di categoria, dicevamo. Al difficile quadro descritto dai sindacati della penitenziaria aggiungiamo noi, occorre non dimenticare le condizioni spesso invivibili nelle quali si trova a vivere una gran parte dei detenuti della Campania. Il sovraffollamento ne è la principale causa, a cui vanno aggiunti gli scarsissimi investimenti nelle attività di rieducazione dei detenuti, le carenze negli organici di figure come educatori e psicologi, una mancata attenzione per anni all’edilizia e all’architettura penitenziaria, e il fallimento della sanità penitenziaria e della tutela della salute delle persone private della libertà, il fallimento delle Rems, cioè delle strutture sanitarie di accoglienza per autori di reato affetti da disturbi mentali e ritenuti socialmente pericolosi. Fallimenti di cui parlano anche gli agenti della polizia penitenziaria, denunciando la mancanza di figure specializzate all’interno degli istituti di pena e le difficoltà riscontrate dagli agenti stessi nell’improvvisarsi psicologi o operatori nella gestione di detenuti con problemi psichiatrici. Roma. Combattiva, capace, rispettosa: confermate Gabriella Stramaccioni come Garante dei detenuti! di Rita Bernardini Il Riformista, 25 febbraio 2022 In questi ultimi anni abbiamo constatato quanto sia stata attenta, efficace e ispirata ai principi costituzionali l’opera svolta dal Garante dei detenuti di Roma Capitale. Un impegno quotidiano portato avanti da Gabriella Stramaccioni in tutte le strutture penitenziarie con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei detenuti in vista di un loro concreto reinserimento nella comunità cittadina. Sempre aperta al dialogo e rispettosa delle istituzioni tanto quanto determinata a far rispettare i diritti sanciti dalla Costituzione, la Garante Stramaccioni è stata capace di costruire una rete di relazioni importanti con le associazioni presenti negli istituti di pena e con gli stessi familiari delle persone ristrette. Ecco perché, in vista della scadenza del suo mandato, confidiamo in un rinnovo dell’incarico attuale per dare continuità alle iniziative intraprese, tutte improntate - anche nei difficili due anni di pandemia - alla riduzione delle distanze tra il mondo “fuori” e quello “dentro” le celle. Sottoscrivono l’appello: Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino; Pasquale Bronzo, professore associato di procedura penale, Università degli studi di Roma, “La Sapienza”; Vittorio Antonini, Associazione culturale Papillon-Rebibbia onlus; Valentina Calderone, Direttrice A Buon Diritto Onlus; Maurizio Falessi, Presidente Cooperativa Sociale Assalto al Cielo; Laura Liberto, Coordinatrice Nazionale Giustizia per i Diritti; Giovanna Longo e tutte le volontarie e i volontari di “A Roma, Insieme - Leda Colombini ODV”; Alberto Spampinato, Presidente di Ossigeno per l’Informazione; Paolo Strano, Presidente di Semi di Libertà Onlus; Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione Enzo Tortora; Flavia Filippi, giornalista La 7; Riccardo Arena, responsabile Radio Carcere/Radio Radicale; Monica Cristina Gallo, Garante dei detenuti Comune di Torino; Roberto Giachetti, deputato del gruppo Italia Viva; Margherita Corrado, Senatrice del gruppo M5s; Roberto Rampi, Senatore del gruppo PD; Fulvio Abbate, scrittore; Maria Teresa Caccavale - Presidente Happy Bridge e ex docente di Rebibbia; Maria Sole Lupi - Segretaria volontaria Happy Bridge e giornalista Junior; Mariantonietta Cerbo, socio fondatore del CESP- Centro Europeo Studi Penitenziari in Roma, già dirigente penitenziaria di esecuzione penale esterna; Roberta Brega, Giurista e Criminologa; Marta Mengozzi, Ricercatrice in Istituzioni di Diritto pubblico Università di Roma Tor Vergata, docente progetto Università in carcere; Elisabetta Rampelli - Avvocato Presidente Nazionale UIF Unione Italiana Forense; Loris Facchinetti, Segretario Tribunale “Marco Pannella”; Paolo Signorelli, direttore di notizie.com; Cristina Pace, ricercatrice universitaria; Beatrice Busi Deriu, founder di Ethicatering; Mario Barbaro, coordinatore Associazione Pannella di Torino; Monica Bizaj, responsabile A.R.T. 27 - Associazioni in Rete per il Territorio; Donatella Corleo, Consiglio Generale Partito Radicale; Maria Laura Turco, avvocato; Valentina Manchisi, avvocato; Annaisa Garcea, avvocato; Stefano Liburdi, giornalista; Luca Giordano, avvocato; Italico Perlini, avvocato, ex parlamentare; Enrico Seta, avvocato, presidente del Comitato per Pittelli; Umberto Baccolo, Giornalista, regista, consiglio direttivo Nessuno tocchi Caino; Claudio Mori, Presidente Fondazione Massimo Consoli; Alessandro Bortolotti, giornalista; Ludovica Andò, responsabile della Compagnia AdDentro/Associazione SangueGiusto - Istituti penitenziari di Civitavecchia e Latina; Silvio Palermo, Presidente Associazione culturale Made in Jail; Giancarlo Brunello, Cittadinanzattiva Treviso; Patrizia Gisella Corasaniti, ambasciatrice Epea Lazio (European Prison Education Association); Beppe La Pietra, dirigente territoriale area Parma e Piacenza di Cefal Emilia-Romagna, coordinatore delle attività realizzate dagli enti di formazione professionale all’interno degli Istituti Penitenziari di Parma; Franco Fucilli, veterinario, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale; Elisa Torresin, attivista per i diritti umani; Carlo Vigevano, architetto; Valeria Di Folco, architetto e insegnante di Arte; Vincenzo Lamusta, consulente; Federico Tantillo, editore; Eduardo Gaudio Montalti; Cristina Cecchini, operatrice sociale; Carmine Guerriero, ingegnere, ex detenuto; Guido Saccardi, dirigente d’Azienda, cooperatore; Mauro Lami, presidente Colibrì OdV; Loredana Greco, responsabile Italia Area Minori; Loretta Rossi Stuart, attrice; Tatiana Procacci; Pietro Apolloni; Sandra Marini; Giovanni Lucarelli; Antonietta Ricciardi; Pietro Apolloni; Sandra Marini; Adolfo Mitiaro; Marco Costantini; Gennaro Mokbel; Simona Pinto; Valerio Ansuini; Paola Suprano; Anna Portente; Lunina Casarotti; Pieralfonso Iacono; Giuseppe Lombardi; Ida Petricci; Antonietta Ricciardi; Giuseppe Rotundo; Marco Daniele Clarke; Luisa Roseo. Pozzuoli (Na): Una start up a vocazione sociale: detenute dalla cella alla sartoria di Raffaella Grimaldi Corriere del Mezzogiorno, 25 febbraio 2022 Il progetto di inclusione sociale di Palingen. L’amministratore Marco Mazio: “Le donne sono retribuite e inserite già prima che finisca la pena”. Inclusione sociale, moda etica e sostenibile. Sono i punti di forza di Palingen e della sua iniziativa. Palingen è una start up a vocazione sociale che ha preso in gestione la sartoria del carcere femminile di Pozzuoli. L’ottica è quella del reinserimento economico di persone svantaggiate tramite l’implementazione di progetti ecosostenibili. A raccontare l’iniziativa Marco Maria Mazio, fondatore dell’azienda. “Elevare la dignità delle persone tramite il lavoro e l’insegnamento dell’arte della sartoria italiana in maniera innovativa”, la mission dell’azienda. L’iniziativa sostenibile - L’iniziativa di prendere in gestione la sartoria del carcere femminile di Pozzuoli nasce all’inizio del 2020. Il blocco dovuto alla pandemia non ha impedito al progetto di andare avanti. “A quel periodo risale infatti uno dei lavori del quale siamo particolarmente orgogliosi”, racconta Mazio. In collaborazione con l’amministrazione del carcere, Maria Luisa Palma, e con lo stilista Alessio Visone (volontario nel progetto) le detenute hanno realizzato delle mascherine che sono state donate alla comunità di Sant’Egidio per le persone senza fissa dimora. Si riparte nel maggio 2021, quando, la Palingen prende in gestione il laboratorio sartoriale all’interno del carcere. Due le innovazioni della start up: moda sostenibile e inserimento delle detenute in un’ottica aziendale. Otto detenute - “Le detenute sono delle vere e proprie lavoratrici: oltre ad essere retribuite vengono inserite in una logica aziendale già prima della fine della pena. In questo modo si riduce il rischio di recidiva una volta uscite dal carcere”, spiega Mazio. “Il processo di formazione è simultaneo alla produzione. Le detenute sono, così, già orientate al mondo del lavoro e alla vita che le attenderà dopo il carcere”, sottolinea l’imprenditore. Sono attualmente otto le detenute attive nel progetto. La sartoria di Palingen è sostenibile. Una duplice possibilità è data alle donne protagoniste del progetto, le detenute, e ai materiali utilizzati nel processo. “Seguendo il principio dell’economia circolare vengono ridotti sprechi e rifiuti sartoriali”, spiega Mazio. La finalità - Il risultato? Collezioni etiche e sostenibili commissionate da importanti brand e aziende del settore. Il lavoro di start up, aziende e cooperative che operano nell’ambito della redenzione carceraria è di fondamentale importanza per il recupero dei detenuti all’interno del tessuto della società. Secondo i dati condivisi da Palingen e forniti da Giuseppe Guerini, Presidente di Alleanza Cooperative Sociale, soltanto il 10% dei detenuti che hanno partecipato ad un programma di reinserimento all’interno del carcere, rischia la recidiva. Si alza al 90% la soglia per i detenuti che non vengono inseriti in alcun progetto. Il lavoro, dunque, come migliore occasione di riscatto. Nessuno scarto, solo seconde possibilità. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Le camicie della Polizia penitenziaria saranno prodotte da 40 detenuti di Raffaele Sardo La Repubblica, 25 febbraio 2022 Siglato protocollo d’intesa con la Fondazione Isasia, noto brand che produce camicie di alta qualità. Quaranta detenuti del Carcere di Santa Maria Capua Vetere produrranno camicie per la polizia penitenziaria delle carceri italiane. Il protocollo d’intesa è stato stipulato nell’istituto penitenziario “Francesco Uccella”, in mattinata, tra la direttrice del carcere, Donatella Rotundo e il presidente della “Fondazione Isaia”, Gianluca Isaia, a capo del noto brand che produce camicie di alta qualità. “Dopo quello che è accaduto con le violenze in questo carcere - dice la direttrice - sono venuta qui per voltare pagina. Il mio obiettivo è quello di fare diventare questo istituto di pena un luogo dove i detenuti vorranno venire volentieri”. Nel laboratorio che sta per essere attrezzato, saranno prodotte 28,500 camicie all’anno per agenti maschi e femmine della polizia penitenziaria. La produzione partirà tra poco più di un mese in un altro laboratorio, più piccolo, ma già pronto dove verranno prodotte le prime 4000 camicie all’anno. “Il progetto - dice ancora la direttrice - ha anche l’obiettivo di eliminare quella frattura che si è creata tra agenti e carcerati. Attraverso il lavoro vogliamo tentare un ritorno alla “normalità”, che è quello che i detenuti chiedono. Perché una volta in libertà, il detenuto se non ha un lavoro, è sempre portato un’altra volta a delinquere. I detenuti saranno prima formati e al termine di questa formazione, da parte della Fondazione Isaia ci sarà poi la possibilità di un inserimento nel mondo lavorativo”. “I detenuti li stiamo scegliendo, con una selezione - spiega il comandante della polizia penitenziaria - la sarta valuterà le persone dal punto di vista tecnico. Dal punto di vista giuridico abbiamo cercato di scegliere tra i detenuti che hanno un fine pena almeno di tre anni, in modo tale che dopo la formazione possiamo avere persone che poi manteniamo. Tra i criteri di valutazione - aggiunge il comandante - anche la buona condotta. Ovviamente i detenuti saranno pagati”. “Quello che posso dire - afferma il direttore della “fondazione Isaia”, Tommaso D’Alterio - è che il progetto è interessante perché ha un mercato di sbocco. Hanno già all’interno la commessa da parte dell’amministrazione penitenziaria. E questo è un dato importante che permette al progetto di poter durare nel tempo. Questi ci porta tutti ad essere concentrati al massimo, come se avessimo un’azienda come cliente”. “Non faremo più gare di appalto - aggiunge la direttrice Donatella Rotundo - Produrremmo noi le quasi trentamila camicie all’anno rispondendo direttamente all’amministrazione penitenziaria che ogni mese ci comunicherà quelle che sono le taglie mancanti. E poi la camicia con il segno distintivo di Isaia verrà indossato dalla polizia penitenziaria di tutt’Italia e ci sarà anche un piccolo cartoncino dove verrà scritto dove e come nasce quel capo di vestiario. Nel laboratorio ci saranno solo detenuti maschili. Per le detenute donne, c’è un altro progetto che faremo partire a breve. Riprenderemo la produzione di cravatte già avviata a Pozzuoli e poi interrotta. Un progetto che ha come partner Marinella, il noto brand napoletano. Cravatte che indosseranno sempre gli agenti della polizia penitenziaria di tutt’Italia” Gianluca Isaia, presidente della omonima fondazione, assicura il massimo impegno per la realizzazione del progetto: “Con questo progetto, che ho accettato con entusiasmo, possiamo provare a cambiare la vita a qualcuno che è stato più sfortunato di noi. Il nostro è un territorio difficile - aggiunge - fare un’iniziativa del genere e portarla a termine mi pare importante. So bene che la fortuna o la sfortuna di nascere in un certo contesto ti può portare a sbagliare, perciò siamo impegnati da parte nostra a dare la possibilità a tutti di poter cambiare”. “E di detenuti bravi - assicura la sarta appositamente assunta - ce ne sono davvero. Solo che a loro non è stata mai data la possibilità di mettere in pratica le loro capacità”. “A Santa Maria Capua Vetere sono accaduti fatti che sono ancora all’attenzione dell’autorità giudiziaria - afferma Marco Puglia magistrato di sorveglianza - ma ora questo progetto con il coinvolgimento di imprenditori importanti, oltre ad essere uno strumento per sensibilizzare vuole dimostrare anche che il carcere non è soltanto quello che abbiamo visto in quelle immagini che hanno fatto il giro del mondo, ma può essere anche un luogo di crescita, di cultura e soprattutto di speranza”. Terni. “Pane & Piazza”: progetto di economia carceraria per i detenuti umbriacronaca.it, 25 febbraio 2022 Le due associazioni ternane promotrici: “Un’opportunità di riscatto e inclusione sociale nonché lavorativa”. Si sono appena concluse presso il Centro Palmetta di Terni le giornate di avvio del progetto “Pane & Piazza”, promosso dall’associazione Demetra e dall’associazione Arciragazzi Gli Anni in Tasca, in collaborazione con la Casa Circondariale di Terni, l’ufficio di Esecuzione Penale Esterna di Terni e la società cooperativa sociale Helios, con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Terni e Narni. L’obiettivo è ambizioso: portare a compimento, entro 12 mesi, due azioni sinergiche che accorcino le distanze tra carcere e società civile. “Pane & Piazza” è, non a caso, il titolo dell’iniziativa. Da una parte, si propone infatti di formare professionalmente un team di 14 detenuti i quali, a fianco di una pasticcera professionista e di due tutor, prepareranno prodotti da forno utilizzando i macchinari già presenti all’interno del carcere. Dall’altra, si propone invece di organizzare nelle piazze, grazie all’aiuto di 20 persone in misura di Messa alla Prova e Lavori di Pubblica Utilità, eventi di sensibilizzazione che, allo stesso tempo, facciano conoscere il prodotto sfornato. “Il nostro vuole essere un prodotto competitivo a tutti gli effetti - ci dicono i due coordinatori Caterina Moroni e Marco Coppoli - per questo prevediamo anche ricerche di mercato a regola d’arte e laboratori di comunicazione e marketing nei quali coinvolgere i detenuti”. Concreta partecipazione attiva, quindi, nella costruzione di un business che possa durare anche dopo la fine del progetto e dare, attraverso il lavoro, una possibilità di reintegrazione. All’incontro di avvio del progetto ha partecipato in qualità di formatore anche Marco Mucaria, portando a Terni l’esperienza del Biscottificio realizzato dalla cooperativa sociale Voci Erranti. Palermo. Arte entra nelle carceri, con Graffiti Art in Prison ansa.it, 25 febbraio 2022 Al via progetto Gap con università e case di reclusione. L’Arte entra in carcere con il progetto Gap “Graffiti Art in Prison” del Simua-Sistema Museale dell’Università degli Studi di Palermo, in partenariato con il Kunsthistorische Institut in Florenz - Max-Planck-Institut, il Dems dell’Università di Palermo, l’Università di Saragozza e l’Accademia di Arte e Design - Abadir di Catania, finanziato nell’ambito del programma europeo Erasmus+ col patrocinio del Ministero della Giustizia e del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Cinque le artiste coinvolte nel progetto, in collaborazione con le Case di reclusione Ucciardone e Pagliarelli e l’Istituto Minorile Malaspina di Palermo. Le artiste sono Matilde Cassani, Stefania Galegati, Elisa Giardina Papa, Giovanna Silva. Inoltre è stata siglata la partnership con Sky Arte per il film-documentario realizzato da Chiara Agnello. “Graffiti Art in Prison - spiega il rettore dell’Università di Palermo Massimo Midiri - valorizza la sinergia tra arte, cultura e formazione, genera un forte legame tra società e mondo accademico nel segno dell’inclusione sociale e della promozione umana, contribuendo alla qualità della vita nei penitenziari”. Per il direttore del Simua Paolo Inglese: “Il progetto è ormai un punto di riferimento importante, in linea con le politiche che tendono a valorizzare il ruolo della cultura e dell’arte nei processi di riqualificazione di vita all’interno dei penitenziari”. Il direttore del Carcere Ucciardone di Palermo Fabio Prestopino, sottolinea in proposito che la comunità dell’Ucciardone accoglierà con gioia il progetto di Matilde Cassani inserendolo armonicamente all’interno della cinta muraria borbonica, aggiungendo un elemento artistico a quello storico”. Il progetto triennale, coordinato da Gabriella Cianciolo, Laura Barreca, Gemma La Sita, sperimenta un modello di ricerca interdisciplinare attraverso collaborazioni orizzontali e condivise tra l’Università e il contesto penitenziario, con la presenza di artisti, docenti, studiosi ed esperti da tutto il mondo. L’obiettivo è di intraprendere nuovi percorsi apprendimento e di inclusione sociale attraverso i linguaggi delle arti contemporanee in grado di sollecitare nuove forme di recupero alla socialità. “Il progetto internazionale si basa sul valore dell’inclusione - spiega Laura Barreca, Coordinatrice Artistica di Gap - e attraverso processi di partecipazione attiva. L’obiettivo è di avvicinare ambiti sociali solo apparentemente distanti, come quello dell’alta formazione universitaria con il delicato contesto delle carceri, a cui è rivolta tutta la nostra attenzione”. I progetti saranno realizzati nel corso del 2022-2023 con la collaborazione dell’Associazione Acrobazie di Palermo, specializzata in pratiche sociali e di welfare culturale. Il gruppo di artiste coinvolte proviene da ambiti disciplinari differenti quali video, fotografia, design progettuale, azioni partecipative, interventi su scala urbana, i cui risultati saranno presentati in un progetto espositivo all’Università di Palermo nel 2023. Lo strapotere dell’accusa di Sabino Cassese Corriere della Sera, 25 febbraio 2022 Le conclusioni del nuovo saggio di Sabino Cassese “Il governo dei giudici” (Laterza) in uscita il 3 marzo. In Italia il ruolo dei pubblici ministeri si è esteso oltre i limiti della Costituzione. Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, scrisse il suo famoso libro ne11748. Era nato nel 1689 e morì nel 1755. Visse, quindi, per 26 anni sotto il regno del Roi Soleil, Luigi XIV, che durò 72 anni. In quel tempo si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne. Nel capitolo 6 del libro XI della sua opera illustrò la separazione dei poteri perché “il potere potesse limitare il potere”. Influenzato da Montesquieu, il costituente americano Alexander Hamilton scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio. Quella separazione dei poteri è ora tradita, come è stato osservato, dall’espansione del potere giudiziario in Italia, “una società amministrata dalla giustizia penale”, che ha “l’ambizione alla popolarità” ed è circondata da un “alone mediatico”. Di qui una “crisi di effettività e di autorevolezza della giurisdizione”, alimentata anche dal “dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano”, nonché “da deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona”. Dinanzi a questo fenomeno, gli italiani si sono divisi tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti garantisti. L’Eurobarometro segnala l’Italia tra i Paesi in cui l’indipendenza del sistema giudiziario è considerata negativamente e indica che il grado di fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario è del 37% mentre per la polizia e l’esercito è al 64%. Questa analisi ha mostrato che il governo dei giudici in Italia ha assunto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi perché è più pervasivo. La magistratura è più presente nello spazio pubblico e meno capace di dare giustizia, ma si sente investita della delega sociale al controllo della virtù e si vale di un’opinione pubblica sensibilizzata, per utilizzare il naming and shaming. Le procure hanno maggiori poteri. Il corpo politico è recessivo, anche se, talora, strumentalizza la magistratura. La macchina della giustizia italiana è inadeguata a far fronte all’esplosione del diritto degli ultimi decenni e lascia la crescente domanda di giustizia insoddisfatta. Le cause iscritte e quelle pendenti sono troppe. La durata media dei processi è tra le più alte in Europa. Per questo, l’Italia è continuamente sanzionata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la fiducia degli italiani nell’affidabilità del ricorso alla giustizia è nettamente inferiore alla media europea, la maggioranza degli italiani è convinta che i giudici non siano imparziali, molte multinazionali sono restie dall’investire in Italia. Questa situazione ha gravi conseguenze sull’intero sistema istituzionale e sui rapporti tra Stato e cittadino. Infatti, le norme diventano realtà con l’intervento dei giudici, che sono l’anello che chiude la catena del sistema giuridico. Sono le corti che debbono assicurare, in ultima istanza, il rispetto del diritto. Ma giustizia ritardata è giustizia negata. Dal che conseguono l’impunità, la fuga dalla giustizia (arbitrati) e l’adattamento all’illegalità (il condominio rinuncia a portare in giudizio il condomino moroso, se sa che occorreranno anni per ottenere giustizia). Insomma, l’insufficienza grave dell’intera macchina giudiziaria produce effetti che si ripercuotono sull’intero vivere civile, impediscono o rallentano gli investimenti, disabituano a quel severo minimo di governo che è necessario in ogni società, inducono a comportamenti illegali e incentivano la lawlessness. Un altro paradosso è quello di un corpo giudiziario composto da persone mediamente ben preparate, ma chiuso in sé stesso, corporativo, che non riesce a trovare nella sua esperienza le idee per correggersi e che pare incapace di far maturare proposte di ordinamenti migliori e di dialogare con la cultura, le professioni, il mondo politico. Il corpo si compone di persone laboriose e di “sfaticati”, di pochi ciarlieri e molti silenziosi, di difensori a spada tratta del diritto di non essere né misurati né valutati, e di pragmatici programmatori. Di qui una grande varietà tra corti e tribunali, anche con molti divari territoriali. Nell’attività rivolta all’esterno sono continue le interferenze della minoranza rumorosa con l’attività normativa dell’altro corpo dello Stato, quello legislativo, interferenze rafforzate da continui “appelli al popolo” in nome dell’onestà e di altre virtù. Simmetricamente, si registra una progressiva resa dell’autorità politico- legislativa al corpo dei magistrati (specialmente a quelli dell’accusa), resa che si sostanzia nella riduzione del perimetro dell’immunità riservata in origine dalla Costituzione ai parlamentari, in un allargamento legislativo del perimetro del diritto penale (ad esempio, con la creazione di nuove figure di reato) e in una tendenza del potere esecutivo e del presidente della Repubblica a disinteressarsi dell’organizzazione e del funzionamento della magistratura e della gestione del relativo personale. Quello che la Costituzione definisce “ordine” è divenuto “potere”. Al compito di dare giustizia si affianca quello di predicare le virtù. In conclusione, l’ordine giudiziario ha acquisito un ruolo diverso da quello prefigurato nella Costituzione. Nel 1948, si pensava a un corpo che amministrasse la giustizia, difeso da possibili interventi esterni, grazie alla sua indipendenza. Domanda di giustizia, debolezze del corpo politico, interesse di quest’ultimo a sfruttare l’indipendenza della magistratura, chiusura corporativa hanno, invece, modificato la “Costituzione materiale”: la magistratura ha fatto nello stesso tempo troppo poco e troppo. Troppo poco per l’enorme domanda di giustizia insoddisfatta e per la fuga dalla giustizia; troppo per la politicizzazione endogena del corpo dei magistrati (o almeno di quelli di essi più attivi) e per il posto nuovo da essi occupato sia nell’opinione pubblica, sia tra le forze politiche: nell’opinione pubblica, nel senso di avere nutrito un’attesa di giustizieri e una delusione di giustizia, nelle forze politiche, nel senso di condizionarne l’agenda. Il posto, quindi, della magistratura nella Costituzione materiale è ben diverso da quello prefigurato dalla Costituzione formale. In Italia, come in altri Paesi, il potere giudiziario ha acquisito, nel corso della storia repubblicana, un ruolo importante nel sistema politico-costituzionale, a danno degli altri due poteri dello Stato. Ma il modo in cui questo processo è avvenuto e i risultati prodotti sono diversi. In Italia, più che gli organi giudicanti, hanno guadagnato prominenza quelli dell’accusa, mentre invece, a causa dei loro ritardi, i primi hanno visto arretrare il proprio ruolo (un esempio è la fuga dalla giustizia). In Italia, la prominenza è avvenuta non grazie alla giudiziarizzazione, ma piuttosto a causa di un diverso meccanismo, che segue una strada diversa e in un certo senso alternativa, quello di naming and shaming. In Italia, la prominenza acquisita dal corpo dei magistrati è andata a discapito della loro indipendenza, a causa della politicizzazione endogena che ha prodotto. A furia di occhio per occhio il mondo diventerà cieco di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 25 febbraio 2022 Lo diceva Ghandi. Chissà se le sue parole torneranno alla memoria dei giudici della corte suprema indiana chiamati a confermare o meno 38 condanne a morte comminate dal tribunale speciale di Gujarat. Il centro storico di Ahmedabad, capitale culturale del Gujarat, uno degli Stati dell’India, è stato riconosciuto nel 2017 come patrimonio dell’umanità. Nella breve descrizione che si trova nel sito web dell’Unesco si legge che la sua architettura, fatta di processi di stratificazione, memorie e tecnologie, miti e simboli, integra dimensioni sociali e spirituali ed è “un eccezionale e unico esempio di convivenza multiculturale”. Il prestigioso riconoscimento pare voler preservare, con le composizioni lignee, anche l’universo di relazioni sociali che nel tempo lo hanno modellato tenuto conto che oggi è sottoposto alla pressione di uno sviluppo speculativo unito a un progetto di amnesia. Mi riferisco allo sradicamento delle memorie culturali, allo sgretolamento di relazioni di vita accettabili in una città in fortissima crescita. In bilico tra la vita e la morte, il centro storico di Ahmedabad, diventa metafora del come si può dire e fare giustizia. L’India è una repubblica democratica, dove la Corte Suprema contiene l’uso della pena di morte. Con la storica sentenza “Bachan Singh contro lo Stato del Punjab” del 9 maggio 1980 ha sostenuto che la pena capitale può essere applicata solo se il caso rientra tra quelli “più rari tra i rari”. Entro questi limiti, condanne a morte ed esecuzioni si continuano a registrare. La settimana scorsa si è saputo che un tribunale speciale del Gujarat ha condannato a morte ben 38 persone e all’ergastolo altre 11, mentre 28 sono andate assolte. Se la sentenza verrà confermata in appello passerà alla storia per il numero di condanne capitali pronunciate in un sol colpo. Dal 2010, l’India ha impiccato sette persone in quattro esecuzioni distinte: Ajmal Kasab, il 21 novembre del 2012 per l’attacco terroristico del 2008 a Mumbai; Afzal Guru, il 9 febbraio del 2013 per l’attacco terroristico al Parlamento del 2001; Yakub Memon il 30 luglio 2015 anche lui per gli attacchi dinamitardi di Bombay nel 1993; infine, i quattro stupratori del caso Nirbhaya impiccati insieme nel carcere di Tihar a Delhi il 20 marzo 2020. Le ultime 38 condanne a morte sono state l’esito di un maxi processo ultra decennale che si è svolto a porte chiuse, in un’aula allestita nel carcere di Sabarmati, durante il quale sono stati uditi oltre mille testimoni su quanto accadde ad Ahmedabad il 26 luglio del 2008. Nell’arco di un’ora 21 ordigni, nascosti in biciclette e altri oggetti di uso quotidiano, vennero fatti esplodere nel centro della città in due serie di esplosioni successive. La prima era avvenuta nei pressi di un frequentato centro commerciale e la seconda, circa 20 minuti dopo, nei pressi dell’ospedale in cui erano stati portati alcuni dei feriti. Furono 56 le vittime, 200 i feriti. L’attentato, l’ultimo atto di una catena di violenze, è stato rivendicato dal gruppo terroristico Indian Mujahideen (IM), una fazione dello Students Islamic Movement of India (SIMI), già dichiarato fuorilegge, che aveva agito per vendicare i massacri religiosi del 2002 a Godhra, altra città del Gujarat. Nelle violenze di Godhra, scoppiate per vendicare l’incendio di un treno in cui avevano perso la vita 59 indù, vennero inseguiti, violentati, bruciati e massacrati almeno mille musulmani. Ora, mettendo a confronto il numero delle vittime dei diversi attacchi, non v’è pareggiamento tra i piatti della bilancia delle vendette religiose. Neanche la vendetta di stato, la pena di morte, potrebbe mai ristabilire l’equilibrio nella bilancia. L’aritmetica della giustizia retributiva produrrebbe effetti umanamente insostenibili perché - come diceva il Mahatma Gandhi - con l’occhio per occhio alla fine il mondo sarebbe diventato cieco. Vedremo se la Corte Suprema indiana confermerà o meno le 38 condanne a morte, se il caso rientra o meno tra “i più rari dei rari”. Di fronte ai conflitti indiani che non sono pochi, anche in rapporto al livello di povertà e ai problemi legati alla convivenza tra religioni non sempre tolleranti, la risoluzione umanamente sostenibile è ben rappresentata nella storia e architettura del Centro Storico di Ahmedabad che sono lì a insegnare - insieme a Ghandi che da questa città iniziò la sua “marcia del sale” - che l’equilibrio, l’armonia, l’ordine vivono e durano nel tempo solo se basati sulla nonviolenza, l’integrazione, la cooperazione. Nel 1992 apparve un aureo libretto di Bifo (Franco Berardi), che per immaginazione sociologica e capacità di lettura del presente metterei accanto ai saggi di Bauman, Sennett, etc. (benché più “militante”): Come si cura il nazi ora riproposto dall’editore Tlon, con una bella prefazione di Luca Cirese e una postfazione dell’autore. La diagnosi è classicamente marxiana (Grundrisse): il capitale ha sviluppato una potenza produttiva e tecnologica straordinaria, che però non mette al servizio dell’umanità, o solo quanto basta per ricavare il suo profitto. Premessa generale è l’idea che il fine dell’uomo è potenziare l’intelletto sovraindividuale, la intelligenza collettiva ai fini della propria liberazione (Aristotele riletto da Averroè). Bifo è forse il frutto migliore della fervida stagione dell’operaismo: ne conserva l’audacia teorica senza certa ferrigna pesantezza. Ripassiamo a grandi linee l’analisi contenuta nel libello, dove fa interagire Marx con Deleuze e Lenin con Tristan Tzara. Perlopiù il valore della merce, nella economia immateriale (fatta di beni immateriali) non è più dato dal lavoro in essa contenuto ma dall’immaginario: principale forza produttiva è l’intelligenza, la capacità di relazioni, il linguaggio, l’assistenza. Il che schiude prospettive inedite di emancipazione. Oggi si fronteggiano due soggetti: la mondializzazione, fredda e impersonale, che implica sradicamento, e il bisogno spesso paranoico di identità locale, tribale, di radici salde anche se magari inventate. Un po’ lo schema del sociologo Benjamin Barber in un saggio uscito da noi nel 2002: globalismo vs tribalismo, McMondo vs Jihad, tra loro segretamente e involontariamente complici, dunque entrambi da rigettare. Anche se personalmente non sono perfettamente equidistante: il McMondo, per quanto orribile, contiene pur sempre alcuni anticorpi. Come peraltro sa Bifo l’illuminismo finisce in idolatria e la modernità occidentale sarà pure andata a male, tuttavia implica da sempre la critica della modernità stessa, da Baudelaire e Nietzsche fino a Marcuse. Proprio Marx apprezzava questo aspetto dirompente della modernità, che ingarbuglia ogni appartenenza e identità. Né sono del tutto convinto che il consumismo sia uguale al gulag: la pubblicità ti inganna e ti seduce, ma non ti controlla interamente. È però indubitabile che il nazismo attuale si genera dal terrore “malato” della contaminazione e del contatto, e dalla ricerca di certezze populiste e identitarie. Ora, prima di arrivare alla pars costruens, davvero innovativa (su come interferire con la costruzione dell’immaginario), vorrei esprimere un dubbio su un solo aspetto. Dopo pagine e pagine in cui leggiamo una apologia dello spaesamento e dello sconfinamento, una gaia scienza del nomadismo, del transito e dell’erranza, viene umanamente voglia di stabilire ogni tanto dei confini, benché provvisori, di essere anche un po’ stanziali. Simone Weil nel suo elenco dei “bisogni dell’anima” - nell’Enracinement (1943) - metteva accanto al bisogno di giustizia, di libertà, di verità, di uguaglianza, etc., anche quello di gerarchia, di sicurezza, di ordine, di obbedienza, e infine di radicamento. Insomma se intendiamo trovare un nuovo fondamento della convivenza sociale dobbiamo allora disporre di un orizzonte antropologico sufficientemente ampio. Il punto è dare risposte mature a questo insieme di bisogni: ogni radicamento dovrebbe essere ogni volta scelto consapevolmente dagli individui e non coincidere con una mitica origine, o peggio con sangue e suolo. Lo stesso Bifo poi mostra un piccolo cedimento identitario quando non può fare a meno di richiamarsi alla centralità del “comunismo”, anche se definito però elegantemente come “assenza”, come “indicibile” (una teologia negativa lievemente estetizzante). Sempre Weil lamentava che non esistono atei ma idolatri. Difficile non esserlo per niente. Là dove queste pagine ritrovano tutta la loro verità è quando si impegnano a definire in cosa consista la cura del nazi, e - intendo sottolinearlo - si tratta di un nazi dentro e fuori di noi. Dato che il nazismo di ieri e quello di oggi (appena più depresso) nasce da un irrigidimento, dalla ossessione della purezza (e del capro espiatorio), dall’ipernazionalismo, dalla paranoia identitaria, e infine dalla “pretesa di dominare il corso storico e naturale degli eventi” - mentre sappiamo che la realtà è impura, e inoltre mutevole ma immodificabile, ingovernabile - bisogna allora ripensare la politica stessa, oggi tanto più impotente quanto più parla di strategie e progetti. Bifo propone di agire molecolarmente, dentro “microsituazioni comunitarie”, di ridicolizzare ovunque il culto economicistico, la identificazione tra ricchezza e consumo, di insegnare (e imparare) a sorridere, di sottrarsi alla competizione, di perdere il controllo (il quale è sempre una illusione), oltre - beninteso - la proposta di una riduzione generale dell’orario di lavoro (che permetterebbe a ciascuno una maggior cura di sé). Ora, affinché questo appello non finisca in una nobile retorica, in un messaggio gentile, vagamente zen, bello ma anche un po’ fumoso - “disponibilità alla deriva”, abbandonarsi alle correnti, disperdere il sé ... il lettore è chiamato a tradurlo nella propria esistenza. Insomma il libro di Bifo va completato e direi collaudato dentro la esperienza quotidiana, anche immaginando sperimentazioni personali, esempi tangibili e sorridenti di “ben fare”, terapie contagiose e irradianti (sapendo inoltre che un naziskin è spesso meno coerente del suo stereotipo). Provo a fare solo un paio di esempi. Ciascuno dovrebbe - nel suo ambito professionale - rinunciare al potere di cui si trova anche casualmente a disporre (come medico, come docente, come leader politico, come giornalista...). In tal modo “togliere alla relazione sociale il suo carattere violento”, decostruire logiche di dominio entro il proprio ruolo sociale. E ancora: dovrebbe dimostrare non retoricamente ma con il proprio concreto stile di vita che limitarsi alle cose essenziali è più interessante e piacevole della ricerca del successo. Si fronteggiano potenze nucleari, salviamo la pace con la pace di Alex Zanotelli Il Manifesto, 25 febbraio 2022 È arrogante follia l’attacco di Putin contro l’Ucraina, ma non è forse folle anche la politica della Nato nei confronti dei Paesi dell’Est dell’ex-Patto di Varsavia? È buio e sono ore drammatiche. Sempre e solo guerra: quando è che l’uomo rinuncerà alla follia della guerra? Stiamo giocando con il fuoco, quello nucleare che ci condurrà dritti all’ “inverno nucleare”. Questo è un momento di estrema gravità in cui si scontrano due potenze nucleari, Russia e Usa/Nato. È follia l’attacco di Putin contro l’Ucraina, ma altrettanto folle la politica della Nato nell’inclusione dei paesi dell’ex-Patto di Varsavia. La Nato, sorta come alleanza militare dell’Occidente contro i paesi comunisti, non sarebbe dovuta scomparire con la caduta del muro di Berlino? Come mai la Nato ha continuato ad armarsi fino ai denti, fino a spendere oltre mille miliardi di dollari all’anno? Sia ben chiaro che siamo contro l’imperialismo russo come anche quello occidentale, ma Putin, dal suo punto di vista, non si sta espandendo, ma si sta difendendo. E non era nostro compito bloccare questo accerchiamento della Russia molto tempo fa? Ci siamo dimenticati che gli Usa nel 1961 hanno reagito allo stesso modo, quando i russi volevano mettere i missili a Cuba? Già allora abbiamo evitato una guerra nucleare. Non abbiamo imparato nulla dalla storia? Continuiamo nel nostro delirio di onnipotenza? Non è forse perché noi occidentali come gli Stati uniti - che vantiamo più civiltà - siamo prigionieri del “complesso militar-industriale” a cui è assoggettato tutto questo pazzo mondo? Abbiamo militarizzato il cielo che è diventato anch’esso teatro di scontro. Elon Musk vi ha già inviato 1.900 satelliti e vuole inviarne altri 42.000. La Cina lo sta già accusando di spionaggio a favore degli Usa e ha tentato il suo missile ipersonico che elude ogni difesa. Siamo ormai alle ‘star wars’ come le chiamava Reagan. Ma non contenti stiamo supermilitarizzando la Terra che è diventata una discarica di armi. Lo scorso anno la spesa militare mondiale si è aggirata sui duemila miliardi di dollari. E questo riarmo è contagioso. La pesante militarizzazione della Cina sta spingendo ora le nazioni del Pacifico a fare altrettanto: Giappone, Corea del Sud, Malesia e Taiwan. Nel 2020 perfino l’Africa ha già superato i 43 miliardi di dollari in armi. Ma ancora più agghiacciante è la corsa al riarmo nucleare da parte delle grandi potenze, soprattutto Usa, Russia e Cina. L’amministrazione Obama già aveva stanziato mille miliardi di dollari per modernizzare il suo armamentario atomico. e così abbiamo le nuove e più micidiali bombe atomiche, le B61-12 che arriveranno presto anche in Italia per rimpiazzare una settantina di vecchie B61. La Cina, che ha oggi un arsenale di 200 testate atomiche vuole arrivare entro il 2030 ad averne almeno un migliaio. Gli Stati Uniti ne hanno già pronte al lancio oltre tremila. La Russia ne ha altrettante. Il nuovo accordo militare tra Usa, Gran Bretagna e Australia (Aukus) per la difesa della zona del Pacifico, incrementerà questa corsa al riarmo nucleare. Gli Usa hanno già venduto all’Australia i sottomarini atomici. È per questo che gli scienziati hanno già posto le lancette dell’Orologio dell’Apocalisse “a 100 secondi dall’inverno nucleare”. Infatti basta un “incidente di percorso” come quello dell’Ucraina - o su Taiwan - per farci precipitare nel baratro. È mai possibile che sia solo papa Francesco a dirci ripetutamente: “Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche. Saremo giudicati per questo”. Purtroppo con amarezza devo constatare che il grande movimento popolare contro i missili a Comiso, contro la guerra in Jugoslavia e in Iraq, non c’è più. Come mai, in questi anni non siamo riusciti, purtroppo, ad appassionare i giovani e tutti gli italiani alla Pace? I tanti gruppi che lavorano per la Pace, spesso dimenticati dalla Politica, devono sforzarsi di creare un grande movimento nazionale per portare ancora una volta in piazza il popolo della pace, perché convinca il governo alla demilitarizzazione del territorio italiano. E mi appello anche alle comunità cristiane perché si impegnino per questo scopo. In questo momento così difficile dobbiamo unitariamente chiedere al governo italiano non solo la condanna dell’invasione, ma una neutralità attiva nel dialogo con la Russia per il ritiro delle sue truppe dall’Ucraina, nonché per la revoca del riconoscimento della indipendenza delle repubbliche del Donbass. Inoltre, se non è troppo tardi, deve chiedere all’Ucraina altresì che riconosca l’autonomia del Donbass come previsto dagli accordi di Minsk. Per questo c’è bisogno che il governo italiano si adoperi a convocare una conferenza internazionale per avviare queste trattative e ripristinare la pace in Ucraina. Dobbiamo tutti impegnarci a fondo per salvare la pace che è il supremo bene in questo momento storico: pace fra gli uomini, pace fra le nazioni, pace con il Pianeta Terra. Solo così potremo evitare sia l’”inverno nucleare” come l’“estate incandescente” per la crisi climatica. Queste minacce alla sopravvivenza umana sul Pianeta Terra sono intrecciate tra di loro. “Tutto è connesso” su questa Terra, ci ha ricordato papa Francesco nella Luadato Si’. Non dimentichiamoci che le armi e la guerra pesano sul Pianeta tanto quanto lo stile di vita del 10% ricco del mondo. Per questo è fondamentale l’impegno di tutti, soprattutto dei pacifisti per la Pace, osando anche gesti coraggiosi come quelli attuati da don Tonino Bello e Beati i Costruttori di Pace quando sono entrati pacificamente in piena guerra a Sarajevo. Dobbiamo realizzare quello che l’amico Gino Strada ha affermato con tanto coraggio: “Come l’umanità è stata capace di rendere l’incesto un tabù, altrettando deve farlo con la guerra”. E come dice papa Francesco in Fratelli Tutti: “Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!”. Solidarietà al popolo ucraino e la Farnesina riunisce la cooperazione internazionale di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 25 febbraio 2022 La Comunità di Sant’Egidio, che ha una rappresentanza a Kiev, ha programmato una preghiera a Roma, dopo le iniziative dei giorni scorsi. La mobilitazione della rete Caritas. “Fermiamo la guerra”. È l’appello accorato che arriva anche da tutto il mondo dell’associazionismo italiano dopo le notizie dell’attacco russo all’Ucraina. In più città è stata subito promossa e organizzata una serie di iniziative e presidi, preghiere e sit-in rivolti alla pace, per una situazione che non avrà ripercussioni solo politico-militari, ma anche umanitarie. Così in Italia si è messa in moto la grande macchina della solidarietà. Intanto alla Farnesina è stata programmata una riunione di coordinamento, presieduta dalla vice ministro agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale Marina Sereni, con Cooperazione Italiana e Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che si occupano di interventi di aiuto nelle aree di crisi, per fare il punto su possibili interventi d’assistenza umanitaria in Ucraina (#RussiaUkraineCrisis). Tra le prime associazioni a mobilitarsi, in verità già nei giorni scorsi, è stata la Comunità di Sant’Egidio, movimento laicale di ispirazione cristiana cattolica, che è presente a Kiev, così come in altri centri della Russia. Giovedì scorso è stata organizzata una manifestazione a Roma “molto partecipata e a cui hanno aderito tutti i partiti e moltissime associazioni”, hanno fatto sapere dalla Comunità di Sant’Egidio. Una messa per la pace è stata poi celebrata il giorno successivo nella capitale ucraina: in quell’occasione il responsabile Yuriy Lifanse aveva evidenziato “la profonda preoccupazione di tutti noi” per l’escalation di tensione nell’area. Preoccupazione che poi si è rivelata fondata. In serata, alla luce degli ultimi avvenimenti, la Comunità di Sant’Egidio ha organizzato un incontro di preghiera per la pace nella basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma con collegamento streaming per quanti volevano partecipare anche a distanza. Ma moltissime sono state, come detto, le iniziative messe in atto nelle ultime ore e altre sono quelle programmate nei prossimi giorni. Si sta attivando la rete di tutte le Caritas per un appello a fermare il conflitto ma anche e soprattutto per aiuti immediati alla popolazione civile ucraina. “Ogni conflitto porta con sé morte e distruzione, provoca sofferenza alle popolazioni, minaccia la convivenza tra le nazioni”: per questo i vescovi del Mediterraneo - riuniti a Firenze per l’incontro Mediterraneo frontiera di pace - hanno chiesto “ad una sola voce pace”, esprimendo preoccupazione e dolore per lo scenario drammatico in Ucraina e hanno fatto “appello alla coscienza di quanti hanno responsabilità politiche perché tacciano le armi”. “In questo momento difficile, c’è un grande bisogno di unità, sostegno, abbiamo bisogno di sentire che non siamo soli”, ha spiegato don Vyacheslav Grynevych, direttore della Caritas-Spes Ucraina, dopo il precipitare degli eventi. Intanto Caritas Italiana ha avviato una raccolta fondi per fornire gli aiuti necessari e rispondere ai bisogni più urgenti. Quindi i vescovi del Mediterraneo hanno deciso di terminare i lavori del pomeriggio in anticipo per potersi recare nella Basilica di Santa Maria Novella per un momento di adorazione eucaristica e di preghiera silenziosa per la pace. Anche la Croce Rossa Italiana ha lanciato un’urgente raccolta fondi finalizzata al sostegno delle enormi necessità, cui stanno dando risposta senza sosta i volontari della Croce Rossa Ucraina. Un’emergenza sanitaria e sociale per la mancanza di acqua, cibo, elettricità e assistenza di cui sono vittime centinaia di migliaia di persone. Il tutto, aggravato dalla pandemia di Covid-19 ancora in atto. La Croce Rossa è sul posto da sempre e, “dopo quasi 8 anni di conflitto, vista l’escalation delle violenze, ha bisogno di tutto il sostegno possibile. Sono decine di migliaia le persone aiutate ogni giorno attraverso la fornitura di beni di prima necessità, la riparazione di sistemi idrici e l’erogazione di forniture essenziali per gli ospedali”. A Milano oltre mille persone si sono ritrovate nel tardo pomeriggio in piazza della Scala per una manifestazione per la pace la guerra, organizzata da Cgil, Cisl, Uil, Anpi, Arci e Acli. Al centro della piazza è stata srotolata una grande bandiera dell’Ucraina, mentre centinaia di simboli di pace sono sventolati tra la folla. “È un segnale importante che Milano vuole dare contro un atto gravissimo e una violazione della autodeterminazione dei popoli, vogliamo esprimere il valore importante della resistenza. L’ Italia ripudia la guerra: il valore della pace che è stato fondamento dell’Europa sia valore di riferimento per tutti. Occorre scuotere le coscienze, i fatti ci devono riguardare, la pace è un bene prezioso”, ha commentato Roberto Cenati, presidente dell’Anpi Milano. A Roma la seduta straordinaria dell’Assemblea capitolina, dedicata alla crisi del turismo nella Capitale, con il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, è stata aperta da un minuto di silenzio “per la pace e il dialogo” contro l’invasione della Ucraina. La presidente dell’Assemblea, Svetlana Celli, ha espresso “il rammarico e la preoccupazione” dell’Assemblea per quanto sta accadendo tra Russia e Ucraina. Un presidio poi si è tenuto davanti all’ambasciata russa della capitale, presenti associazioni, esponenti politici e molti ucraini che vivono a Roma. In serata il Colosseo si è acceso con i colori della bandiera ucraina mentre domani pomeriggio, venerdì, il sindaco Gualtieri ha indetto una fiaccolata per la pace in solidarietà al popolo ucraino. L’appuntamento sarà alle 18 in piazza del Campidoglio da cui si partirà con una simbolica marcia per la pace verso il Colosseo. Presidio anche davanti alla facciata del Santuario di Pompei dedicata alla Pace universale, con un momento di preghiera per l’Ucraina, come ha annunciato don Ivan Licinio, vice rettore del Santuario, responsabile del servizio per la Pastorale giovanile della Prelatura di Pompei: “Ci incontriamo, credenti e non, con le candele accese per chiedere che termini subito la follia della guerra”. Una nota di condanna è arrivata dalle Acli, Associazioni cristiane lavoratori italiani: “Condanniamo fortemente l’aggressione militare russa ai danni della sovranità della Repubblica Ucraina e ci uniamo a tutte le preghiere, le manifestazioni, i cortei che chiederanno la pace e che ritengono che la pace esista solo nella giustizia, e che non siano ammesse ambiguità nel distinguere torti e ragioni, oppressi ed oppressori, aggrediti ed aggressori”. Inoltre “invitiamo per questo motivo tutte le cittadine e i cittadini ad esporre le bandiere della pace e ci uniamo, con le donne e gli uomini di buona volontà, alla giornata di digiuno per la pace promossa da Papa Francesco per il 2 marzo prossimo”, concludono le Acli. Come ha fatto il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, che ha esposto la bandiera della pace sul balcone di Palazzo delle Aquile, in altre sedi comunali e a Palazzo Comitini. “È un invito al dialogo contro ogni violenza e contro la guerra che in queste ore minaccia il territorio ucraino e la comunità internazionale ed esprime, inoltre, la condanna per il grave attacco militare da parte della Russia”. Altre iniziative di solidarietà all’Ucraina sono previste in Calabria. Sindacati e associazioni hanno chiamato a raccolta la cittadinanza per sabato, 26 febbraio, a Catanzaro. L’appuntamento è per le 17.30 in piazza Galluppi, nei pressi della prefettura. E a Cosenza, le associazioni, i sindacati e i movimenti cittadini danno appuntamento, sempre per sabato 26 febbraio, alle 17, in piazza Kennedy. Un appello alla solidarietà e all’assistenza alle vittime è stato diffuso da Aoi. “Non si è riusciti a fermare la guerra, ma gli sforzi per evitare il disastro umanitario adesso devono intensificarsi. I Paesi europei non possono solo rispondere con l’invio o il rafforzamento dei contingenti militari presenti nelle aeree limitrofe. Alla guerra occorre opporre le ragioni del dialogo fino in fondo, partendo dalla condanna incondizionata, unanime e decisa delle invasioni e degli attacchi militari”, ha affermato la portavoce Silvia Stilli. Per le organizzazioni della società civile di solidarietà e cooperazione internazionale la priorità è la difesa della popolazione civile e l’accesso all’assistenza umanitaria alle vittime, assieme ad ogni sforzo diplomatico per fermare la guerra in atto. “Aoi accoglie positivamente le dichiarazioni di queste ore della presidente Ue, Ursula von der Leyen, e del Presidente del Consiglio Mario Draghi”. E propone alle organizzazioni associate di aderire “alla giornata di digiuno per la pace del 2 marzo promossa da papa Francesco. Aoi ritiene determinante che sia l’Onu, non la Nato a confrontarsi con Putin e con tutte le parti coinvolte nel conflitto. Aoi, come da sua mission, aderirà alle iniziative e manifestazioni che si stanno organizzando nel Paese” a favore della pace. Costretta a seguire la linea delle sanzioni l’Italia ora rischia la crisi energetica di Paolo Delgado Il Dubbio, 25 febbraio 2022 La tempesta del caro energia una sciagura che strangola in culla la ripresa post-Covid. Non ci sono distinguo nella politica italiana. Non solo l’intera maggioranza, ex putiniani della Lega inclusi, ma anche l’opposizione di Giorgia Meloni si schierano senza mezzi toni a favore delle sanzioni contro la Russia. Lo hanno detto ieri nelle dichiarazioni a caldo. Lo ripeteranno oggi in Parlamento nel dibattito che seguirà le comunicazioni di Draghi, prima alla Camera e subito dopo al Senato. Il quadro della politica italiana si presenta quindi come identico a quello dell’Europa, dove tutti concordano con la presidente von der Leyen sulla necessità di rispondere all’invasione russa con misure tanto severe da ‘sopprimere’ l’economia russa. L’auspicio, per nulla inconfessato, è che sanzioni così dure spingano la popolazione russa, o più probabilmente l’establishment, a rovesciare Putin. Speranza lecita ma con scarse probabilità di avverarsi. Sta di fatto che non è mai successo che sanzioni, anche molto rigide e prolungate nel tempo come quelle degli Usa contro Cuba o di Israele contro Gaza, spingano chi è preso di mira a più miti consigli oppure ne provochino la detronizzazione. In questo caso, poi, c’è un problema enorme in più del solito. Mai prima d’ora la scelta di comminare sanzioni aveva implicato il pagamento di un prezzo così esoso per alcuni dei Paesi che decidono la punizione. E mai prima d’ora il momento era stato, per i Paesi occidentali, così fragile e delicato: dopo una pandemia, all’inizio di una ripresa resa fragile da un’imprevista e già selvaggia crisi energetica. Non era un mistero che l’Italia, il Paese più a rischio di tutti, avrebbe preferito evitare sanzioni di questo tipo. Draghi lo aveva detto chiaramente, anche a costo di tirarsi addosso gli strali americani. Con prudenza e discrezione l’Italia avrebbe probabilmente continuato a tirare in quella direzione anche dopo l’occupazione delle ‘ repubbliche indipendenti’ del Donbass. Ma l’attacco di ieri ha bruciato ogni ponte e la linea di Roma non può che essere durissima, del tutto allineata con quella degli Usa, della Nato e della Ue. Forse persino di più, dati i sospetti precedenti, tanto da spingere Draghi a definire ‘impossibile’ il dialogo. Ma se ieri e oggi sono i giorni dell’ira e dell’unità non scalfita in alcun modo contro l’aggressore, domani, o più precisamente martedì quando il presidente del consiglio sarà di nuovo in aula per un dibattito più approfondito e coronato da mozioni, qualche altra riflessione probabilmente spunterà fuori. Non tutti i Paesi europei occidentali pagheranno lo stesso prezzo e nessuno è in condizioni più a rischio dell’Italia. Qui la tempesta del caro energia, moltiplicato dalla crisi, rischia di strangolare in culla la ripresa. I rapporti tra Italia e Russia sono particolarmente intensi. Anche a prescindere dal capitolo più doloroso, il prezzo del gas, saranno coinvolte l’agricoltura, già provata dalle sanzioni antirusse del 2014, e la finanza, con le banche italiane molto esposte. Unità dovrà dunque significare, a livello europeo, anche solidarietà. Non potrà ripetersi la triste sceneggiata del Trattato di Dublino, che metteva proprio l’Italia in prima linea sul fronte immigrazione ma senza alcun supporto solidale da parte del resto d’Europa. La partita della crisi ucraina e delle sanzioni dovrà essere giocata come quella del Covid, con la messa in campo di una vera solidarietà e di un sostanzioso sostegno da parte dei Paesi meno colpiti da fall out delle sanzioni. Ma lo stesso discorso vale per il governo italiano. A pagare il rialzo dei costi dell’energia, e poi la conseguente impennata dell’inflazione, saranno i cittadini italiani. Il peso della chiusura dei rapporti commerciali con Putin ricadrà sulle aziende italiane. Non sarà possibile senza un sostegno sul modello di quello offerto nei due anni della crisi Covid. Il governo dovrà garantire ristori subito e una strategia in grado di allentare la morsa in tempi brevi. Senza questi due passaggi, un’attiva solidarietà dell’intera Europa e un drastico intervento del governo a sostegno delle fasce travolte dalla nuova crisi, l’unità di questi giorni si sfalderà in poco tempo. In fondo, è proprio su questo che scommette il giocatore d’azzardo Putin. Proteste in Russia contro l’invasione di Luigi De Biase Il Manifesto, 25 febbraio 2022 Crisi ucraina. Le truppe russe hanno attaccato l’Ucraina distruggendo in gran parte il suo potenziale difensivo: arsenali, aeroporti e centri di comando. L’operazione si muove su tre fronti: da est (Donbass) dal nord (Bielorussia) e dal sud (Crimea e Mar nero). La risposta delle forze dell’ordine contro chi ha manifestato è stata la stessa già vista in più occasioni in passato: tanti arresti, quasi ottocento. Con un attacco cominciato all’alba e condotto per tutta la giornata contro obiettivi militari, il capo del Cremlino, Vladimir Putin, ha trasferito dai palazzi della diplomazia alle caserme dell’esercito il piano con cui intende modificare l’architettura della sicurezza in Europa. Le forze armate russe hanno distrutto in un solo giorno di guerra gran parte del potenziale difensivo dell’Ucraina. Aeroporti. Arsenali. Centri di controllo e di comando. In decine di città. Su un territorio lungo quasi mille chilometri. Il sistema antiaereo del paese, per stessa ammissione dello stato maggiore di Kiev, già ieri non esisteva più. I militari russi hanno preso persino il territorio attorno alla centrale di Chernobyl, a un centinaio di chilometri dalla capitale. La decisione assunta a Mosca di tenere chiuso sino al 2 di marzo un gran numero di scali nella Russia del sud fissa almeno sulla carta una scadenza temporale a questa operazione. Che ricorda per molti versi la breve campagna intrapresa nel 2008 in Georgia. Ma senza provocazioni. E con proporzioni decisamente più vaste. L’offensiva si muove su tre fronti. Da est, e quindi dalle regioni di Donetsk e di Lugansk. Da sud, ovvero dalla Crimea e dalle navi schierate nel Mar Nero. E poi da nord, dal confine bielorusso, lungo il quale si trovavano da giorni trentamila militari russi, ufficialmente per esercitazioni. Putin ha descritto le ragioni di quella che ha chiamato “operazione speciale di guerra” in un video che la tv pubblica ha trasmesso ieri, alle prime ore del mattino. In quei pochi minuti è parso teso e stanco. Ha parlato della richiesta di sostegno militare ricevuta dalle repubbliche ribelli di Donetsk e Lugansk, che lui stesso aveva riconosciuto lunedì, e della cornice legale costruita attorno l’intervento, una cornice che il Consiglio della federazione ha completato in settimana con il via libera all’impiego delle forze armate all’estero. Nel video ha ribadito il proposito di “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina. E ha sistemato questa guerra lungo una linea di continuità con la lotta al terrorismo condotta in Cecenia vent’anni fa; con l’intervento in Siria di fronte alla minaccia dello stato islamico; e con l’annessione della Crimea. Dopodiché ha lanciato una terribile minaccia a i governi che potrebbero intralciare i piani russi, facendo riferimento, forse, ai paesi Baltici, oppure alla Turchia, che ha ricevuto la richiesta dall’Ucraina di chiudere l’ingresso al Mar Nero alle navi russe. Servizi segreti occidentali ritengono che il messaggio di Putin sia stato registrato lunedì, dopo il vertice al Cremlino con il Consiglio di Sicurezza e dopo la firma sugli accordi militari con i rappresentanti di Donetsk e di Lugansk. Che cosa è accaduto nei tre giorni che hanno separato il video e la decisione di procedere con l’esercito? È possibile che negoziati informali con gli Stati Uniti siano andati avanti, coperti dal massimo livello di riserbo di cui la diplomazia è capace. Ed è possibile che quei negoziati abbiano raggiunto un limite considerato da Putin e dai suoi consiglieri come invalicabile. Forse in quella stessa condizione russi e americani si erano già trovati altre volte nel corso degli ultimi mesi, ed è stato in quelle circostanze che il capo della Casa Bianca, Joe Biden, ha lanciato i suoi appelli, ritenuti allarmistici dagli stessi ucraini, su una invasione “imminente”. L’ultimo atto di Washington prima dell’invasione è stata la firma su misure economiche che riguardano il gasdotto Nord Stream 2. “Ora è soltanto un pezzo di ferro in fondo al mare”, ha detto il portavoce del dipartimento di stato. Poche ore più tardi la registrazione di Putin è stata trasmessa dalla tv russa. È come se con questa operazione il Cremlino avesse cercato di ottenere sul piano militare quelle “garanzie scritte” sulla sicurezza a cui il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha lavorato negli ultimi mesi. Ieri i diplomatici hanno lasciato la strada ai militari. Il risultato di questa scelta non è sicuro. Prima di tutto perché le possibilità di ottenere ascolto dagli Stati Uniti e dall’Unione europea non sembrano affatto cresciuto. E poi perché la guerra all’Ucraina rischia di sollevare forti proteste nelle grandi città russe. Gli indici di Borsa hanno toccato il minimo storico. Il rublo è scambiato quasi a cento contro l’euro. L’ultimo sondaggio del Levada Center dice che il 60 per cento dei cittadini attribuisce la responsabilità di quanto accade sia comunque della Nato. Ma in oltre quaranta città, a partire da Moca e San Pietroburgo, migliaia di persone sono scese in strada in segno di protesta. La risposta delle forze dell’ordine è stata la stessa già vista in più occasioni in passato: tanti arresti, quasi ottocento, secondo il ministero dell’Interno. Torture e stupri nelle carceri russe. I video choc di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 febbraio 2022 Stupri con sbarre di ferro, pestaggi e umiliazioni. Le organizzazioni umanitarie sono costrette a denunciarle dall’estero. Oscurato dalle autorità russe il sito Gulagu.net che ha reso pubblici i filmati delle violenze. I detenuti vengono tenuti fermi mentre vengono stuprati, le urla spaccano i timpani, i tentativi di resistenza sono futili. Si vede l’immagine di un detenuto tenuto fermo sulla branda, completamente nudo. Un agente penitenziario lo stupra con una lunga sbarra rossa. Si tratta di uno dei filmati pubblicati su Gulagu.net, un progetto contro la corruzione e la tortura in Russia che riunisce oltre 19mila difensori e volontari. Video inediti girati di nascosto all’interno delle carceri russe che per la crudeltà di immagini, bisogna avere uno stomaco forte vederli fino alla fine. Avviso ai lettori: le immagini delle violenze subite dai detenuti sono davvero molto forti e disturbanti. Per questa ragione non abbiamo incluso i video all’interno dell’articolo. Per chi volesse visionarli sono disponibili qui. Lo ribadiamo, si tratta di immagini crude e drammatiche, ma crediamo che la denuncia vada diffusa il più possibile per onorare chi ha avuto il coraggio di filmarle e per provare a smuovere qualcosa nella palude terrificante delle carceri russe. In un video girato il 25 giugno 2020, si vede un uomo che ordina a un detenuto, con le mani legate alla branda e le gambe sollevate sulla testiera, di dichiarare il suo nome forte e chiaro. L’operatore inquadra il volto in primo piano, insieme alle corde che lo legano, mentre un altro uomo lo tiene per le gambe. La vittima è quindi ripresa di lato, mentre un aguzzino lo stupra, senza usare il preservativo. Anche chi aderisce alla fratellanza dei “ladri-in-legge”, gruppo di detenuti appartenenti alla mafia russa, viene preso di mira. Nel girato del 10 aprile del 2020, si vede un giovane, nudo, che giace a pancia in giù con le mani legate con un nastro adesivo dietro la schiena. L’aguzzino gli pianta un anfibio sulle scapole, lo chiama per nome e gli chiede: “Chi sei nella vita?”. Il prigioniero risponde: “Nessuno, sono un pezzente”. Una voce fuori campo aggiunge: “Sei un galletto”. L’altro continua a premere l’anfibio sulla testa del prigioniero e lo apostrofa: “Ma che ladro-in-legge vuoi essere tu!”. Il progetto di Gulagu.net fornisce ai detenuti e ai loro parenti, ex detenuti e attivisti per i diritti umani, l’opportunità di scrivere e parlare delle loro esperienze relative al mantenimento delle persone nelle carceri e nelle colonie, nonché della loro esperienza di interazione con i tribunali e le forze dell’ordine. Ha come missione lo smascherare le bugie di dipendenti senza scrupoli del Servizio Penitenziario Federale e di altre forze dell’ordine; fornire assistenza legale gratuita e aiutare a pagare gli avvocati alle vittime di tortura e alle famiglie delle persone torturate nei sotterranei e, non per ultimo, quello di inviare rapporti su fatti specifici identificati di tortura e violazioni sistematiche dei diritti all’Onu, al Cpt e alla Cedu. Quando sono stati pubblicati i video nel maggio dello scorso anno, gli amministratori di Gulagu.net sono stati costretti a lasciare la Russia. Il sito è stato bloccato dalle autorità e non è quindi accessibile ai cittadini russi. Ma chi ha portato allo scoperto quei video in carcere? Una volta cercato asilo in Francia, essendo fuggito dalla Russia temendo per la sua incolumità, ha rivelato pubblicamente la sua identità. Si chiama Sergey Savelyev, un ragazzo bielorusso di 32 anni che ha trascorso ben otto anni nel carcere russo. Savelyev ha iniziato a condividere i video con attivisti per i diritti umani dopo il suo rilascio nel febbraio del 2021. Nel corso di diversi mesi ha condiviso centinaia di file. Era stato fermato all’aeroporto di San Pietroburgo mentre si recava a Novosibirsk. Al banco del check-in, uomini in abiti civili hanno iniziato a interrogarlo. Hanno detto di sapere tutto sulla sua corrispondenza con Vladimir Osechkin, il capo di Gulagu.net, minacciandolo che lo avrebbero messo in carcere per fagli scontare 20 anni di carcere per tradimento. “In primo luogo, confesserai tutto, e poi verrai trovato morto in una cella”, gli hanno intimato. Oppure, l’alternativa era che lui collaborasse alle indagini e ammettesse di essere stato costretto a raccogliere prove “che screditano il servizio carcerario russo”. A quel punto, Savelyev, per potersi salvare, ha firmato alcuni documenti accettando di collaborare con le autorità e gli è stato permesso di andare. A quel punto, è scappato. Ha preso un minibus dalla Russia alla Bielorussia e poi ha viaggiato attraverso la Tunisia fino alla Francia. Una volta nella zona di transito dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, ha chiesto aiuto alla polizia. Nel 2013, Savelyev è stato condannato per un reato di droga e condannato ad otto anni di carcere. Fu mandato in una prigione nella città russa di Saratov, nota per le accuse di abusi sui detenuti. Sostiene di essere stato duramente picchiato non appena è arrivato. In seguito ha avuto la fortuna di essere notato come qualcuno che sapeva usare un pc ed è stato portato nell’ufficio del carcere per lavorare in un ruolo amministrativo. Uno dei suoi compiti era guardare le registrazioni video delle telecamere del corpo delle guardie carcerarie. Ben presto si rese conto che mentre molte delle registrazioni erano benigne e semplicemente documentavano i giri delle guardie, alcune mostravano violenti abusi sui detenuti ed erano profondamente inquietanti. A quel punto, di nascosto, è riuscito a copiarli e salvarli in una chiavetta. Poi, nel 2021, le ha consegnate agli attivisti umanitari di Gulagu.net. Divenuti oramai pubblici, Putin è stato costretto ad intervenire e licenziare tutti i dirigenti dell’amministrazione penitenziaria. “Queste torture avvengono anche nei penitenziari americani e francesi”, ha dichiarato il presidente russo. Sì, ma non proprio a questi livelli. Ma se anche fosse, a differenza della Russia, le organizzazioni dei diritti umani non sono costrette ad abbandonare il proprio Paese per poter rendere pubbliche le denunce. La differenza, che non è poca, sta tutta qui. Stati Uniti. I libri che non entrano nelle carceri statunitensi di Anna Franchin Internazionale, 25 febbraio 2022 Nell’aprile del 2021 il sistema penitenziario dell’Iowa ha approvato una norma che vieta agli enti di beneficenza, alle famiglie e ad altri soggetti di fornire libri ai detenuti. “Le persone incarcerate possono procurarsi dei libri solo attraverso uno dei venditori approvati”, si legge nel documento. Volumi rigorosamente nuovi, quelli usati non sono ammessi. La misura ricalca una strategia diffusa in tutto il paese, ha scritto Alex Skopic su Protean, un giornale non profit di sinistra. Il Michigan ha introdotto un regolamento simile nel 2018; altri stati - come Ohio, Pennsylvania e Washington - non ci sono riusciti solo per le proteste dei cittadini. Ufficialmente, il divieto serve a prevenire il contrabbando e quindi a tutelare la sicurezza e l’ordine nelle prigioni. Ma la circolazione non autorizzata di merci, che è un problema nelle carceri, riguarda di rado i libri: gli oggetti più gettonati sono cellulari, sigarette, marijuana. “La vecchia immagine del libro scavato all’interno per nascondere un seghetto o una pistola va bene per un fumetto, non per la realtà”, sottolinea il giornalista. “Se viene usata per giustificare un provvedimento, vuol dire che c’è sotto qualcos’altro”. Interessi non letterari - Come spesso succede, il vero fine è il profitto. Tra i pochi rivenditori di libri a cui i detenuti dell’Iowa devono rivolgersi ci sono Barnes & Noble e Books-a-Million (due delle più grandi catene di librerie statunitensi), che gli offrono i loro prodotti a prezzo pieno. Per gli ebook la situazione è ancora più assurda. Lo denunciava nel 2019 l’organizzazione Appalachian prison book project: le persone in carcere possono scaricare moltissimi testi in modo gratuito e legale da varie piattaforme, per esempio il Progetto Gutenberg, ma per leggerli sono obbligate a usare i tablet forniti da aziende come Global Tel Link, che fa pagare agli utenti i minuti di connessione. Su ogni spesa, l’istituto penitenziario riscuote una commissione del 5 per cento. Parallelamente, sono stati tagliati servizi essenziali come le biblioteche. Skopic fa l’esempio dell’Illinois: nel 2017 il sistema carcerario dello stato, che ospita circa 39mila detenuti, ha speso in libri 276 dollari. Ai limiti sulle donazioni e ai tagli, infine, si aggiungono gli elenchi dei testi non ammessi per il loro contenuto: praticamente ogni prigione americana ha la sua lista. Ne parlano Andy Chan e Michelle Dillon, dell’organizzazione non profit Books to prisoners, in un articolo uscito a gennaio sul Washington Post. Il pretesto è un fatto che risale alla fine di dicembre del 2021, quando un carcere del Tennessee ha restituito all’associazione un pacchetto con tre copie di un libro non autorizzato. Il volume in questione era una biografia di Malcolm X, uscita per la stessa casa editrice che negli Stati Uniti pubblica la serie di Harry Potter e consigliata agli studenti della scuola secondaria. Chan e Dillon spiegano che la censura prende di mira i testi di autori afroamericani o che contengono critiche al trattamento dei neri. Di recente ha colpito The new Jim Crow: mass incarceration in the age of colorblindness di Michelle Alexander, L’occhio più azzurro di Toni Morrison e I am not your negro di James Baldwin. Nel 2020 il Wisconsin ha permesso che i detenuti leggessero Mein Kampf ma non le pubblicazioni sulle Pantere nere. L’anno prima l’organizzazione Pen America aveva concluso in uno studio che “i sistemi carcerari mettono frequentemente al bando la letteratura che discute di diritti civili e di abusi all’interno dei penitenziari”, considerandola una minaccia. Limitare il diritto alla lettura dei detenuti è una pratica intimamente legata al suprematismo bianco, e quindi alla storia americana. Ma le mobilitazioni recenti in tutto il paese fanno sperare in un cambiamento, senza contare che ci sono modi abbastanza semplici per favorirlo. Gli attivisti di Books to prisoners e il giornalista Skopic li suggeriscono: fare donazioni a una biblioteca penitenziaria, sostenere un progetto locale di alfabetizzazione, o fondarne uno. Afghanistan. Le proteste delle donne sono finite? di Marjana Sadat La Repubblica, 25 febbraio 2022 Gli arresti e la diffusione del video con le “confessioni forzate” delle attiviste arrestate sembrano aver raggiunto il loro obiettivo e nessuno osa più scendere in piazza per continuare a protestare. Dopo l’ascesa al potere dei talebani a metà agosto del 2021, le donne sono state l’unico gruppo che si è opposto ai talebani e che ha manifestato contro di loro reclamando i suoi diritti fondamentali. Ma i talebani vogliano far tacere le loro voci ricorrendo alla forza. Dopo il recente arresto di donne che manifestavano e di attiviste, le proteste sono praticamente scomparse. Oggi ho cercato di intervistare alcune di loro, ma nessuna ha voluto parlare. Dopo l’allargarsi delle proteste in altre province, nel mese di gennaio i talebani hanno arrestato quattro donne che manifestavano. Nei giorni scorsi, il ministero dell’Interno dei talebani ha pubblicato un video di 14 minuti in cui alcune delle manifestanti parlano del loro legame con donne residenti all’estero. Il video ha suscitato molte reazioni, Amnesty International lo ha criticato per esempio. Samira Hamidi, promotrice delle campagne di Amnesty per l’Asia meridionale, in una serie di tweet ha scritto: “Si può vedere la paura sui loro volti. Trema loro la voce e alcune non osano nemmeno guardare l’obiettivo che le riprende”. L’organizzazione internazionale ha definito “sporca e pericolosa” questa politica dei talebani. Human Rights Watch, da parte sua, ha detto che non è chiaro in quali circostanze sia stato girato il video. Le attiviste per i diritti delle donne che vivono all’estero ritengono che siano state costrette a dire quello che gli era imposto e hanno definito il tutto una “confessione forzata”, estorta in un’atmosfera di paura e di panico. Le attiviste per i diritti umani fuori dall’Afghanistan dicono che i talebani hanno preso in ostaggio non solo le donne, ma anche le loro famiglie e i loro figli e hanno ottenuto quella confessione davanti alla telecamera con la tortura e il terrore. Tarnum Saeedi, un’attivista per i diritti delle donne che partecipava alle proteste nelle strade di Kabul, attualmente all’estero, fa notare che nel video traspare lo stato di panico delle donne arrestate: “I talebani hanno torturato le ragazze mettendole nelle peggiori condizioni mentali, ma i crimini dei talebani non potranno continuare fino al giorno del giudizio. Questo tempo buio finirà”. Infine, conclude Saeedi: “Capiamo e rispettiamo ogni parola detta da queste ragazze coraggiose sotto costrizione mentre sono detenute dai talebani. Sono state costrette a dire queste cose sotto tortura. Ci auguriamo che i talebani fermino questi crimini”. Asefa Stanekzai, una militante afghana per i diritti delle donne che vive attualmente all’estero, conferma che è evidente come il video sia stato registrato in una situazione particolare. “Si fonda sull’intimidazione e la paura e vuole dimostrare che tutti gli afghani sono soddisfatti della situazione attuale”, dice. Le proteste sono finite? Gli arresti e la diffusione del video con le “confessioni forzate” delle donne arrestate sembrano aver raggiunto il loro obiettivo, e cioè che le donne non osino più scendere in piazza per continuare a protestare. Negli ultimi giorni tutto tace, le donne che protestavano non esprimono più le loro idee nemmeno sui social media.