La desolazione delle patrie galere di Massimo Congiu MicroMega, 24 febbraio 2022 Nel 2021 è aumentata la popolazione detenuta e 54 carcerati si sono tolti la vita. Al 21 febbraio i suicidi sono già dodici, uno ogni quattro giorni. Ancora cattive notizie dal pianeta carcere: nel 2021 la popolazione detenuta è aumentata, anche se di poco, dopo il calo verificatosi all’inizio della crisi innescata dal Covid. Ma non è tutto, perché, secondo i dati a disposizione, dall’inizio dell’anno in corso si è ravvisata anche una tendenza all’aumento dei i suicidi. Soffermiamoci su questo aspetto. Al 21 febbraio di quest’anno si sono verificati 12 suicidi negli istituti di pena italiani, uno ogni quattro giorni. Ha ragione il garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, ad affermare che questo “è un dato che non può essere né sottovalutato né tanto meno ignorato”. Nel 2021, secondo Ristretti Orizzonti, 54 carcerati si sono tolti la vita, mentre l’anno prima, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), i suicidi sono stati 61. La scelta di porre fine alla propria vita ha senz’altro a che vedere con situazioni personali di profondo malessere, ma va anche detto che il carcere, così com’è, non aiuta i detenuti a uscire dalla spirale depressiva che spesso li avviluppa. Nella situazione in cui versano molti penitenziari del nostro paese, spesso caratterizzati da lacunose quando non assenti attività trattamentali, è facile farsi sopraffare da un senso di demotivazione e arrivare alla certezza di non avere più posto nel mondo di fuori. Purtroppo, il problema dell’isolamento ha assunto proporzioni maggiori dall’inizio della pandemia che ha colpito anche il mondo carcerario. Per evitare i contagi sono state limitate pesantemente le già non sufficienti attività volte al recupero dei ristretti e ridotte anche le possibilità di comunicazione con l’esterno. Pensiamo ad esempio agli incontri fra carcerati e loro familiari. Un aspetto quest’ultimo, che ha contribuito a evidenziare l’importanza di dotare gli istituti in questione di strumenti tecnologici per agevolare le comunicazioni col mondo di fuori. La pandemia ha, insomma, sottolineato, amplificato, problemi già esistenti e apparsi ancora più complessi a causa della diffusione del virus. “Solo un dialogo largo, unito a provvedimenti che rispondano alla difficoltà dell’affollamento particolarmente accentuata in questa situazione pandemica, può indicare la via da percorrere per ridurre le tensioni, ridefinire un modello detentivo e inviare un segnale di svolta nel nostro sistema penitenziario”, ha affermato il garante Palma menzionato da Osservatorio Diritti, e l’affollamento è uno dei problemi che continuano a rendere molte carceri italiane invivibili, dei luoghi privi di umanità e per questo inadatti alla funzione del recupero prevista dall’Articolo 27 della Costituzione. Secondo Osservatorio Diritti le statistiche mostrano un assottigliamento del divario fra presenze e capienza regolamentare degli istituti, ma il problema del sovraffollamento continua ad essere una pesante realtà in diverse regioni, Puglia e Lombardia in testa nel 2021, e in diversi penitenziari. “Si continua a morire in carcere e di carcere”, afferma il garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello che rende note le statistiche relative ai suicidi avvenuti nel 2021 tra i detenuti campani: sette purtroppo riusciti, più 159 tentativi. È sempre Ciambriello a raccontare che quando una persona viene portata in carcere, “il primo giorno incontra il medico, lo psicologo e un educatore. Successivamente queste figure socio-sanitare le vede con un binocolo”. Se l’apparato statale non raggiunge la sufficienza in questo ambito c’è dall’altra il volontariato che sin impegna a fondo per provare a fatica a sopperire alle carenze appena menzionate. Secondo i dati del Dap ci sarebbe un volontario ogni 3,5 detenuti, ma secondo l’Osservatorio Antigone il rapporto è di 1 a 7. L’anno non inizia in modo incoraggiante per le carceri. A maggior ragione ben vengano volontariato e garanti con buona pace di chi, dalle parti della solita destra giustizialista, vorrebbe abolire il sistema della garanzia che invece è sinonimo di civiltà. I detenuti in semilibertà potranno dormire a casa di Giulia Merlo Il Domani, 24 febbraio 2022 Prorogata fino al 31 dicembre 2022 la norma, adottata come misura anti-pandemica, che sospendeva il rientro in carcere per le ore notturne. “Potrà così proseguire il reinserimento nella società”, è il commento del Garante per i detenuti, che ricorda la necessità di misure strutturali per diminuire il sovraffollamento carcerario. I detenuti in semilibertà potranno dormire presso il proprio domicilio, senza dover tornare in carcere. È stata prorogata dalla Camera fino al 31 dicembre, nell’ambito del decreto Milleproproghe, la norma già disposta durante la pandemia. Il detenuto “potrà così proseguire il loro reinserimento nella società” è stato il commento su Twitter del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. “Valutando positivamente l’emendamento al decreto Milleproroghe e ringraziando il Parlamento”, continua il tweet, il Garante nazionale ha ricordato “la necessità di misure strutturali per diminuire il sovraffollamento carcerario”. Questo, precisa, “soprattutto per le persone che scontano pene brevi e per le persone che positivamente hanno vissuto negli ultimi due anni la situazione di semilibertà in licenza” Il Garante ha invitato anche a “una dovuta attenzione a chi, qualunque sia la sua minore o residuale posizione, è costretto al carcere perché privo di dimora stabile o comunque adeguata”. “Senza il nostro emendamento - ha dichiarato il deputato del Pd Walter Verini - queste persone, tra qualche settimana, avrebbero dovuto tornare a dormire in carcere. Tale misura, invece, consente anche ai detenuti in regime di semilibertà di poter proseguire percorsi di recupero per il loro reinserimento nel contesto sociale e va nella direzione di carceri più umane, che mettano al centro non solo la pena ma anche la rieducazione dei detenuti. È un passo significativo rispetto ai molteplici, gravissimi problemi che attanagliano le carceri italiane, per i quali ci aspettiamo ora ulteriori, rapidi interventi (anche con lo strumento del decreto)”. Come cambia l’ergastolo “ostativo” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 24 febbraio 2022 Benefici anche a chi non collabora purché abbia chiuso i legami con i clan. Maria Falcone: “È un buon testo”. Piero Grasso: “Va migliorato”. Il presidente e relatore Perantoni di M5S: “In astratto i benefici saranno possibili anche per mafiosi non pentiti, ma con condizioni rigide e puntuali per accedervi”. Sì da Maria Falcone. Un “sì a metà” da Piero Grasso. Un sì pieno dal Pd, e anche da M5S. Ancora perplessità da Italia viva. Mentre da Forza Italia arriva un sì. Come anche da Fratelli d’Italia. Sull’ergastolo “ostativo” si muove finalmente il Parlamento. Fa un passo avanti la commissione Giustizia della Camera. L’annuncia subito il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S, in attesa che domani giovedì 24 venga votato il mandato al relatore, che è sempre lui. La commissione va incontro, con un testo in buona parte condiviso, all’aut aut della Corte Costituzionale. Era il 15 aprile del 2021 quando la Consulta, con una decisione che non era a sorpresa per via dei precedenti, pose un altolà all’ergastolo “ostativo”, che si chiama così perché vieta la liberazione condizionale ai condannati al “fine pena mai” per reati di mafia che non abbiano accettato di collaborare con lo Stato. Quattro mesi prima aveva seguito la stessa linea per i permessi premio, possibili, secondo la Corte, anche per il mafioso che non si è pentito. Proprio com’era accaduto per il fine vita e il caso Cappato, i giudici costituzionali però hanno dato al Parlamento 12 mesi di tempo per cambiare la legge sull’ergastolo “ostativo”, sulla quale, altrimenti saranno costretti a intervenire direttamente (proprio come hanno fatto per Cappato e la vicenda di Dj Fabo). Il nuovo testo dell’ergastolo “ostativo” - Ma vediamo il testo messo a punto dalla commissione Giustizia, e subito dopo le reazioni raccolte da Repubblica. Anche senza che vi sia stata la collaborazione con la giustizia, i benefici, tra cui la liberazione condizionale, possono essere concessi ai detenuti all’ergastolo “ostativo” purché “gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento, e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. Dunque il detenuto che non si pente deve dimostrare che i suoi legami con il passato non esistono più. Ma quale sarà la procedura da seguire per verificare fino in fondo che è davvero così? Prima di decidere sull’istanza del detenuto, il giudice dovrà chiedere “il parere del pm presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado” o del pm “presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado”. E ancora il parere del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Dovrà acquisire le informazioni dalla direzione dell’istituto dove sta il detenuto. E disporre verifiche sulla sua famiglia, fare accertamenti sui suoi redditi e sulla situazione patrimoniale, sul tenore di vita, sulle attività economiche eventualmente svolte e anche sulla pendenza di misure di prevenzione personali o patrimoniali. Entro 30 giorni tutto il materiale raccolto dovrà essere trasmesso al giudice che però, a quel punto, dovrà comunque “decidere anche in assenza dei pareri, delle informazioni e degli esiti degli accertamenti richiesti”. Qualora dall’istruttoria dovessero emergere “indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e eversiva, o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti”, dovrà essere il condannato a fornire, “entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”. Il nuovo testo che regola la concessione dei benefici stabilisce anche che per poter accedere alla liberazione condizionale vengono aumentati i limiti minimi di pena da scontare: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. A decidere sui benefici sarà il Tribunale di sorveglianza che si pronuncerà sul lavoro esterno e sui permessi premio per i condannati per reati di mafia e terrorismo. Il via libera di Maria Falcone - Maria Falcone, la sorella del giudice Giovanni Falcone ucciso a Capaci esattamente 30 anni fa, legge il nuovo testo e a Repubblica dice: “Da una prima lettura della norma, scritta sulla scia delle precise indicazioni della Corte Costituzionale, mi sembra che il Parlamento stia andando nella direzione giusta, che è quella di impedire a chi mantiene i legami con la mafia di lasciare il carcere e dare, invece, una opportunità a coloro i quali abbiano rivisto criticamente il proprio passato criminale e abbiano preso le distanze dalle organizzazioni mafiose. La norma obbliga chi ha intenzione di accedere ai benefici previsti dalla legge a compiere una profonda rivisitazione critica delle proprie condotte e sarà il tribunale a decidere, sulla base di elementi precisi, se la negazione del vissuto mafioso sia seria, concreta e degna di una positiva valutazione giudiziaria”. Dice ancora Maria Falcone: “Trovo poi condivisibile che la competenza sulle istanze sia rimessa al tribunale di sorveglianza, quindi a un organo collegiale, per evitare la sovraesposizione del singolo magistrato e garantire decisioni più condivise. Sarebbe auspicabile, però, assegnare la competenza sulle richieste a un solo tribunale sul territorio nazionale, come accade per le decisioni sui 41 bis: scelta che assicurerebbe un’uniformità delle pronunce. Giusto anche l’innalzamento del limite di pena oltre al quale si può chiedere l’accesso ai benefici di legge”. Maria Falcone chiude con queste parole il suo ragionamento: “Sono sicura che l’aula della camera saprà mantenere ed eventualmente rafforzare l’efficacia della norma approvata in commissione”. Mario Perantoni: “Obiettivo raggiunto” - Il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, che è anche il relatore del provvedimento, a Repubblica dice: “Sono molto soddisfatto del lavoro che è stato fatto: si è evitato il rischio che venisse smantellato uno strumento fondamentale di contrasto alle mafie. I reati ostativi sono stati introdotti nel nostro ordinamento a causa della nostra specifica e tragica esperienza con il fenomeno delle mafie: non si poteva accettare di azzerarne la funzione. Perciò abbiamo lavorato proprio per salvaguardare le finalità nate dall’esperienza e dal sacrificio di tantissimi servitori dello Stato. Sono convinto che abbiamo raggiunto l’obiettivo. Infatti, pur prevedendo in astratto la possibilità che i benefici penitenziari possano essere concessi anche a mafiosi non pentiti, vengono tuttavia previste una serie di condizioni rigide e puntuali per accedervi. Chi è stato condannato per mafia e non collabora con lo Stato deve dimostrare che non ha più alcun legame, attuale o potenziale, con sodalizi criminali, quindi di non essere più un pericolo per la società. Sono certo che l’Aula affronterà con la stessa responsabilità mostrata dalla Commissione l’esame del provvedimento per una sua rapida approvazione: abbiamo poco tempo per rispettare i termini dettati dalla Consulta”. Appunto il 15 aprile. Sì a metà da Piero Grasso - L’ex procuratore Antimafia Piero Grasso, nonché capo della procura di Palermo, e giudice a latere del maxi processo a Cosa nostra, considera il testo “un buon punto di partenza per adeguare la legge su un istituto cardine della lotta alle mafie ai rilievi della sentenza della Corte e prima dell’intervento demolitorio annunciato dalla Consulta stessa”. Ma Grasso non è del tutto convinto dal testo della Camera: “Dispiace che si sia persa l’occasione per creare un doppio binario tra i reati associativi e i reati individuali di particolare pericolosità, come la violenza sessuale, che però non hanno nulla a che fare col concetto di collaborazione”. Ci sono, secondo Grasso, ancora margini per migliorare il testo: “Ad esempio sul tema dei permessi premio, dove manca lo spostamento della competenza al Tribunale di sorveglianza anziché al magistrato, in modo da evitare che la responsabilità della decisione ricada su un singolo invece che su un collegio”. Da M5S il sì di Ferraresi e Saitta - Dopo lo stop della Consulta all’ergastolo “ostativo” proprio da M5S era arrivata la prima proposta di legge. L’ha presentata l’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi, l’alter ego dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ecco adesso il suo giudizio: “Abbiamo lavorato duramente, sia dal punto di vista dell’urgenza e della priorità della questione, sia in termini di merito, ovvero per dar vita a un testo che rispondesse alle richieste della Corte costituzionale, ma che fosse anche il più rigoroso possibile. Nel merito, nonostante fosse stato di fatto eliminato il vincolo di assolutezza tra collaborazione e accesso ai benefici, che noi ritenevamo fondamentale, pur rispettando il dettato della Corte, abbiamo creato un meccanismo rigoroso, e al contempo severo, che consentirà a un detenuto in carcere perché condannato per gravi reati, di ottenere l’accesso ai benefici penitenziari solo dopo l’accertamento di specifici requisiti e paletti. In una parola, non solo non dovrà avere contatti con le organizzazioni criminali, ma non ci dovrà essere neppure il pericolo di un possibile ripristino dei collegamenti con le medesime. A ciò si aggiunge la novità delle iniziative nei confronti delle vittime, sotto forma di risarcimento del danno e con forme di giustizia ripartiva. Sarà molto importante anche la maggiore partecipazione dei procuratori antimafia all’udienza decisiva con i pareri, nonché il tribunale collegiale che deciderà sulla concessione di permessi premio e sul lavoro all’esterno”. Anche il capogruppo di M5S in commissione Giustizia Eugenio Saitta dà un parere positivo: “Siamo consapevoli che non c’è più tempo da perdere e che va approvata in tempi rapidi una legge che consenta di superare le difficoltà seguite alla decisione della Consulta. Ora abbiamo un testo unificato che tiene conto delle varie osservazioni sia degli esperti, che delle forze politiche. Per noi è fondamentale che sia un organo collegiale, e non un singolo magistrato, a decidere sulla richiesta della concessione dei benefici penitenziari”. Convinto sì del Pd, con Verini e Miceli - Da Walter Verini, tesoriere del Pd e relatore sulla riforma del Csm, arriva un pieno assenso: “Il voto largamente condiviso in Commissione Giustizia sulla riforma dell’ergastolo ostativo è un fatto davvero rilevante. Era doveroso, innanzitutto, cercare di rispettare i contenuti della sentenza della Suprema Corte, che ha ribadito, giustamente, i principi costituzionali della pena come recupero e reinserimento, dei percorsi trattamentali finalizzati alla rieducazione e del diritto di tutte le persone - condannate anche alle pene più dure - di sperare in una nuova vita fuori dal carcere. Al tempo stesso si doveva rispettare la sicurezza dei cittadini, l’esigenza che persone condannate per gravissimi reati di associazione mafiosa (anche se non collaboranti) accedessero ai benefici con la garanzia, tra l’altro, di non mantenere legami associativi, di non continuare - dentro e fuori gli istituti di pena - a praticare e far parte della criminalità organizzata. C’era l’esigenza di rafforzare il rapporto tra le diverse funzioni della magistratura, per non indebolire (nel rispetto dello stato di diritto) il contrasto alle mafie, sempre più pericolose e invasive. Così, oltretutto, non si banalizza e minimizza il principio della collaborazione, che ha contribuito negli anni a grandi risultati e si rafforza la collegialità del lavoro degli stessi magistrati”. Carmelo Miceli, che per il Pd ha fatto parte del Comitato ristretto, si ritiene “molto soddisfatto della sintesi raggiunta”. E dice: “Il testo onora in pieno il mandato della Consulta e risulta perfettamente in linea con l’evoluzione della giurisprudenza in Europa. Grazie alla riforma cui stiamo dando vita, se per un verso la mancata collaborazione degli ergastolani per reati gravi come quelli di mafia e terrorismo non potrà più costituire una condizione ostativa assoluta di accesso ai benefici penitenziari, tale mancata collaborazione continuerà comunque a costituire motivo di presunzione di pericolosità specifica, con l’effetto che sul detenuto non collaborante graverà l’onere di rendersi parte attiva nel dimostrare non solo di avere partecipato attivamente e positivamente ai percorsi di recupero intramurari, ma anche di avere reciso ogni collegamento con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e l’inesistenza di un pericolo di ripristino di tali collegamenti”. Aggiunge Miceli: “Siamo soddisfatti che tutte le forze politiche e il governo abbiano voluto fare proprie due proposte qualificanti del Pd, quella relativa alla valorizzazione dell’eventuale esistenza di iniziative che il detenuto abbia posto in essere a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa, e quella della spersonalizzazione del giudice competente a decidere per i permessi premio e l’autorizzazione al lavoro all’esterno del carcere attraverso l’attribuzione della competenza delle relative istanze in capo al Tribunale di Sorveglianza. Una scelta, quest’ultima, che offrirà maggiori garanzie di serenità di giudizio a quei magistrati che sono chiamati a pronunciarsi sulla concessione di permessi a detenuti che provengono da contesti altamente pericolosi”. “Adesso che il testo è definito - conclude Miceli - chiediamo a tutte le forze politiche di fare un ultimo sforzo, approviamolo urgentemente e senza tentennamenti in entrambi i rami del Parlamento prima della fine di aprile. Farlo prima del trentennale sarà il modo migliore per onorare i giudici Morvillo, Falcone, Borsellino e i ragazzi delle loro scorte”. Per Zanettin, Forza Italia: “Mediazione positiva” - “Siamo soddisfatti della mediazione raggiunta in commissione Giustizia”. Dice così il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin. “Avevamo presentato degli emendamenti basati sulla ragionevole applicazione dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale ed operato sulla presunzione assoluta di pericolosità sociale dei condannati per reati ostativi, rendendola, una presunzione relativa. Questo principio appare recepito nel testo base licenziato. La valutazione del concreto ravvedimento del condannato sarà affidata al giudice di sorveglianza, in composizione collegiale, e potrà essere desunta dal percorso in carcere, secondo un giudizio, che escluda la pericolosità sociale del condannato ed il venir meno di suoi collegamenti con i sodalizi criminali. Merita di essere sottolineato il riferimento alla giustizia riparativa in favore delle vittime, che costituisce a nostro giudizio un indice di ravvedimento particolarmente significativo, che potrà essere considerato dal giudice”. I dubbi di Annibali di Italia Viva - Parla di un testo ancora da migliorare Lucia Annibali di Italia Viva: “La Consulta ha deciso che la non collaborazione non rappresenta una preclusione assoluta alla richiesta del beneficio. Partenendo da questo principio, si è partiti da un testo che rischiava di andare contro il dettato della Corte, e che ci vedeva contrari. Adesso il testo è stato alleggerito nel suo complesso. Via Arenula ha messo insieme le varie esigenze che partivano dalla preoccupazione di neutralizzare le richieste della Corte e che rischiavano così l’incostituzionalità, come l’aumento draconiano delle pene. Resta però il problema della collaborazione impossibile o inesigibile che, secondo noi, va reintrodotta”. Ecco ancora la Annibali: “Sulla collegialità è importante che non ci sia un tribunale unico a decidere perché è determinante mantenere la prossimità. La collegialità garantisce una decisione più serena, anche per permessi premio e lavoro esterno, e viene meno la possibilità di un reclamo che può favorire una rivalutazione nel merito”. Conclude Annibali: “Abbiamo fatto un passo avanti, ma ci sono tuttora dei punti che ci vedono perplessi e che cercheremo di migliorare in aula, come ad esempio la collaborazione impossibile e inesigibile, o l’aver aumentato a 30 anni la pena dopo la quale si può chiedere la liberazione anticipata”. Da Carolina Varchi di FdI sì al “compromesso accettabile” - “Penso che la nostra proposta fosse la più rispondente alla necessità di dar seguito alla pronuncia della Consulta e mantenere l’istituto dell’ergastolo ostativo anche nella sua funzione di strumento di lotta alla mafia e al terrorismo” dice Carolina Varchi di FdI. Tuttavia, “le modifiche apportate al testo base, accogliendo anche alcune nostre proposte come la competenza del Tribunale in composizione collegiale, lo hanno migliorato rendendolo sostenibile, e perciò voteremo il mandato al relatore. I requisiti per la concessione dei benefici devono essere molto stringenti e il condannato dovrà dimostrare di aver risarcito il danno e interrotto ogni contatto col contesto di provenienza. Come ogni compromesso non ci soddisfa pienamente, ma riteniamo che lo spirito della nostra proposta sia stato recepito e condiviso da tutti”. “Prudenza e più personale prima di aprire le porte del carcere ai boss” di Conchita Sannino La Repubblica, 24 febbraio 2022 Il monito del procuratore di Napoli, Giovanni Melillo, davanti alla commissione parlamentare antimafia sul tema dell’ergastolo ostativo e sulla possibile concessione di benefici carcerari agli esponenti della criminalità organizzata. U nodi ci sono. Molti. Di non facile soluzione. “E forse non basta dire l’Intendenza seguirà”. Il procuratore di Napoli Giovanni Melillo, in audizione ieri sera in Commissione bicamerale antimafia a Palazzo San Macuto, riprende quel proverbiale ordine del Generale francese per segnalare che, prima di aprire a permessi o benefici le celle dei padrini mafiosi e dei loro più pericolosi seguaci, non occorrono solo, in elevata densità, “prudenza e rigore”. Ma servono procedure corrette e uniformi, nuova riorganizzazione delle carceri, maggiore controlli per arginare il peso che i boss tuttora detengono nei penitenziari. E soprattutto: servono più organico, per i giudici di sorveglianza, per le Procure, per quelle forze dell’ordine impegnate sul fronte delle investigazioni antimafia. Perché “su questi uffici grava il compito di dimostrare la cessazione dei rapporti dei detenuti” ergastolani “con le cosche e gli ambienti mafiosi di riferimento”. Eccola, vista dal vertice della più grande Procura italiana, la sfida della riforma dell’ergastolo ostativo: quel “fine pena mai” di eccezionale durezza inflitto ai condannati per reati di mafia che non abbiano accettato di collaborare con lo Stato. Attenzione, dice Melillo: “Inutile dire che ogni errore e ogni sottovalutazione rischia di avere pesanti ripercussioni”. Concrete e simboliche. Sul rischio di fuga dei padrini e sull’allarme sociale. Il procuratore indica anche clamorosi esempi napoletani. Un passo indietro. Già i pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano, di fatto, smontato l’assunto su cui si regge l’ergastolo ostativo, figlio dell’emergenza italiana e della stagione delle stragi mafiose. Così, dopo il prevedibile ultimatum che, un anno fa, la Consulta ha consegnato al Parlamento, è stato licenziato solo 48 ore fa, in Commissione giustizia alla Camera, il testo che dovrà affrontare l’esame dell’aula e che già pone una serie di “paletti” e valutazioni alla concessione dei benefici. Una prova di sintesi tra opposti schieramenti a cui il procuratore di Napoli non sbarra la strada ovviamente. Offrendo, più in generale, l’analisi di alcune, serie criticità. Quindi, citando con accento critico lo storico motto francese (“L’intendance suivra”: ad indicare che le ragioni dell’economia vengono dopo quelle della politica), il procuratore Melillo argomenta: “È un pensiero che può andar bene per le campagne militari, forse, ma non ha mai prodotto buoni frutti o ha innescato pratiche virtuose” nell’ambito di un progetto complesso come la riforma della giustizia, e in particolare, del delicatissimo compito di restituire il fine rieducativo della pena senza registrare cedimenti sul terreno del contrasto alle mafie, e ai suoi capi storici. Non basta prudenza e rigore, insomma. Le “pesanti ripercussioni” che rischia chi aprisse le porte a qualche ergastolano che invece non deve uscire (neanche in permesso) sono collegati a fatti concreti. Ricorda Melillo: “Il principale latitante della camorra si chiama Renato Cinquegranella”, coinvolto “in uno dei più brutali omicidi degli anni Ottanta” - il riferimento è al massacro del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, il 15 luglio 1982. “Evase nel 1989 dopo la concessione del secondo permesso ricevuto. Fu riarrestato nel 1991. Nel 2002, al quarto permesso, nuovamente evase. E da allora si è sottratto ad ogni ricerca”. Melillo torna poi su un tema che, dinanzi alla stessa Commissione antimafia, aveva affrontato nei dettagli e con parole impietose. Sulla capacità delle consorterie criminali di incidere nella gestione dei circuiti penitenziari: “partecipano alla gestione”, in alcuni casi. “Se dico tutto ciò - sottolinea ancora - è perché l’area, i legami dei mafiosi si trasferiscono all’interno dell’ambiente penitenziario”. E non dimentichiamo che “le politiche criminali cambiano, si evolvono, si adeguano”. Milleproroghe: tutte le misure in materia di Giustizia di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2022 Dopo l’approvazione ieri da parte della Camera, con 320 voti a favore, 42 contrari e un astenuto, il decreto legge Milleproroghe che va convertito entro il prossimo 28 febbraio, torna ora al Senato. Arriverà giovedì e sul provvedimento sarà posta la questione di fiducia. Diverse le misure in tema di giustizia introdotte dal decreto-legge n. 228 del 2021 che proroga anche alcune misure emergenziali prese nel corso della pandemia. Per esempio, il processo telematico ma anche l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’esame avvocato, mentre si riduce a 16 mesi la durata del tirocinio per i laureati nel 2019/2020. Si differisce invece al 1° gennaio 2024 l’entrata in vigore delle modifiche relative alle circoscrizioni giudiziarie de L’Aquila e Chieti. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà segnala poi che i detenuti in semilibertà non dovranno tornare a dormire in carcere, in quanto è passata la proroga al 31 dicembre della norma disposta durante la pandemia che permetteva loro di dormire presso il proprio domicilio. Si prorogano al 31 marzo 2022 (nuovo termine dello stato d’emergenza stabilito con Dl n. 221/2021) le norme derogatorie che consentono lo svolgimento in forma semplificata degli esami di abilitazione professionale, nonché di attività pratiche o di tirocinio (articolo 6, comma 4). In materia di personale, invece sarà esercitabile fino al 31 dicembre 2022 (articolo 8): - la facoltà, per i dirigenti di istituto penitenziario, di svolgere le funzioni di dirigente dell’esecuzione penale esterna (comma 1); - la facoltà, per i dirigenti di istituto penitenziario, di svolgere le funzioni di direttore degli istituti penali per i minorenni (comma 2); - la possibilità, per gli uffici giudiziari, di continuare ad avvalersi del personale comunale ivi comandato o distaccato (comma 3); - il divieto di assegnare il personale dell’amministrazione della giustizia ad altra amministrazione (comma 4). Sempre in materia di giustizia il provvedimento interviene: - prorogando di un ulteriore anno la disciplina transitoria che consente l’iscrizione all’albo per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori a coloro che siano in possesso dei requisiti previsti prima dell’entrata in vigore della riforma forense del 2012 (articolo 8, comma 4-bis); - prorogando di un ulteriore anno l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato (articolo 8, comma 4-bis); - riducendo a 16 mesi la durata del tirocinio per l’accesso alla professione di avvocato per coloro che abbiano conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ultima sessione dell’anno accademico 2019/2020 (articolo 8, comma 4-bis); - differendo al 1° gennaio 2024 l’entrata in vigore delle modifiche relative alle circoscrizioni giudiziarie de L’ Aquila e Chieti (articolo 8, commi 4-bis e 4-ter); - prorogando al 31 dicembre 2022 l’efficacia di alcune disposizioni relative allo svolgimento dei processi civili e penali (articolo 16, commi 1 e 4). Si tratta in particolare delle norme relative al deposito telematico degli atti e alla partecipazione al processo e decisione in camera di consiglio da remoto; - prorogando al 30 aprile 2022 l’efficacia di disposizioni speciali dettate nel contesto emergenziale per la giurisdizione tributaria e contestualmente prevedendo che debbano essere bandite, entro tale data, procedure di interpello per la copertura dei posti vacanti presso le commissioni tributarie (articolo 16, commi 3 e 3-bis); - prorogando al 31 marzo 2022 l’efficacia delle disposizioni speciali concernenti l’esercizio dell’attività giurisdizionale amministrativa e contabile (articolo 16, commi 5, 6 e 7). - prorogando al termine dell’emergenza epidemiologica l’efficacia della disposizione concernente la partecipazione dei detenuti alle udienze con modalità da remoto (articolo 16, comma 1-bis); - prorogando al 31 dicembre 2022 le disposizioni speciali dettate nel contesto dell’emergenza sanitaria in materia di ordinamento penitenziario, con particolare riferimento a presupposti e durata di licenze, permessi premio e detenzione domiciliare (articolo 16, comma 7-bis). Giustizia, quanti ostacoli tra Pd e 5S. Conte: se il campo si annacqua dico no di Matteo Pucciarelli e Giovanna Vitale La Repubblica, 24 febbraio 2022 Il caso Open-Renzi è solo uno dei fronti. L’ex premier: “Non ci interessa parlare di politiche astratte”. Enrico Letta avrebbe voluto che i giallorossi votassero allo stesso modo sul caso Open, cioè astensione. Invece due giorni fa in Senato le strade di Pd e 5 Stelle si sono divaricate, col segretario dem rimasto in mezzo a due fuochi: da un lato, un pezzo del suo stesso partito propenso a disattendere gli ordini di scuderia, dall’altro Giuseppe Conte che, reduce da un vertice di quasi due ore con i suoi cinque vicepresidenti, ha ritenuto impraticabile non prendere una posizione netta contro l’arcinemico Renzi. Frattura che ha finito per scatenare forti malumori su entrambi i fronti. “Possiamo anche parlare di politiche astratte, come la questione del campo largo, ma se questo significa solo confrontarsi su politiche annacquate allora noi non ci stiamo, non ci interessa”, alza il tiro nel day after l’avvocato, deluso per la sconfitta in Aula. “Chi vuole lavorare con noi faccia chiarezza”, è la sfida. In linea con quella lanciata pochi giorni prima sui referendum giustizia, contro i quali Conte aveva subito schierato il Movimento, senza neppure avvisare gli alleati. Un blitz che aveva obbligato Letta ad allinearsi (anche a costo di far imbufalire i suoi sindaci, ostili alla legge Severino) pur di evitare il crack della coalizione su un tema tanto delicato. Per di più alla vigilia dell’esame in Parlamento della riforma Cartabia. “Siamo sull’orlo di una guerra che colpisce al cuore l’Europa, con tutto quel che sta accadendo trovo lunare che si facciano polemiche sulle nostre beghe interne”, fra trapelare un certo fastidio il segretario pd. Lui ci aveva provato a trovare un accordo sul conflitto di attribuzione. Lunedì scorso, nel corso di una lunga telefonata, aveva spiegato a Conte quanto fosse importante individuare una posizione comune, come già era accaduto nella Giunta per le immunità. Ma il capo dei 5S non aveva voluto sentire ragioni. E così, allertato dalla capogruppo Simona Malpezzi (“Guarda che 28 dei nostri sono pronti a votare comunque per Renzi”) Letta ha schierato sul sì il Pd. Che altrimenti avrebbe rischiato di spaccarsi. Anche se due big - la responsabile Giustizia Anna Rossomando e Luigi Zanda - hanno preferito defilarsi e disertare il voto. Con lo sguardo rivolto al 2023, l’inquilino del Nazareno sta facendo ogni sforzo per tenere assieme i centristi (da Italia Viva ad Azione) con M5S e sinistra. E con le amministrative alle porte, non poteva certo schierarsi contro Renzi. Mentre Conte da settimane cerca di smarcarsi per riaffermare l’identità un po’ appannata del Movimento: un modo per rispondere a chi, dentro i 5S lo accusa di essersi troppo appiattito sul Pd. L’alleanza resta dunque in piedi perché non ci sono alternative, ma con un registro comunicativo diverso, più aggressivo anche nei confronti degli alleati. “La gente alle Politiche dovrà scegliere tra Conte-Letta e Salvini-Meloni e se il giudizio sarà sulla credibilità allora la bilancia non potrà che pendere a nostro favore”, ragiona il sottosegretario Carlo Sibilia. “L’importante è concentrarsi su quattro o cinque temi. È su quello che si costruiscono gli accordi, non sulle poltrone”. Con il Movimento in calo verticale nei sondaggi, il tentativo è di rivitalizzarne il posizionamento marcando di più il territorio, in un contesto dialettico con i partner di schieramento. “È un metodo che funziona. Sul salario minimo, ad esempio, Letta ci sta seguendo. Ora però vediamo se i suoi parlamentari saranno conseguenti, togliendo gli emendamenti al ddl Catalfo”, nota perfido un contiano. Questo continuo agitarsi, però, è ormai diventato sinonimo di inaffidabilità per molti parlamentari dem. I quali “meno male che Di Maio c’è”, ripetono, vedendo nel ministro degli Esteri un elemento stabilizzatore dell’alleanza. “Mica è un caso se, complice la crisi ucraina, lui ed Enrico hanno iniziato a sentirsi regolarmente”, confida un membro della segreteria Letta. A preoccupare, è il ritrovato asse tra Conte e Di Battista, il capopopolo che se dovesse rientrare nel M5S - e lo farebbe solo se il suo ex partito scaricasse Draghi e il Pd - manderebbe gambe all’aria ogni progetto di coalizione. Un epilogo che, a conti fatti, potrebbe non dispiacere a parecchi, anche fra le fila democratiche. Dove, non solo i filo-renziani, si punta sulla modifica della legge elettorale per guardare al Centro e divincolarsi dall’abbraccio grillino. Anche se, fa notare malizioso un alto in grado del Movimento, “il proporzionale fa gola a tutti, non solo a loro: poter compilare le liste senza dover contrattare i collegi con gli alleati non è una roba da poco”. Riforme della giustizia: basta col processo penale del 1989 di Nicola Ferri Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2022 Nel discorso del secondo mandato, il presidente della Repubblica ha chiesto l’attenzione del Parlamento e del governo sui seguenti punti. 1) Un profondo processo riformatore deve interessare il versante della Giustizia: nella salvaguardia dei principi irrinunciabili di autonomia e di indipendenza della Magistratura - uno dei cardini della nostra Costituzione - l’Ordinamento giudiziario e il sistema di governo autonomo della Magistratura devono corrispondere alle ineludibili esigenze di efficienza e di credibilità. 2) È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento affinché il Csm possa svolgere appieno la funzione che gli è propria valorizzando le indiscusse alte professionalità su cui la magistratura può contare, superando logiche di appartenenza estranee al dettato costituzionale. Dunque, il Capo dello Stato richiede riforme immediate della Giustizia improntate a efficienza, credibilità, alta professionalità. Per quanto riguarda il processo penale è inutile farsi soverchie illusioni poiché potranno rispondere solo in parte a tali obiettivi quelle attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei deputati dove i vari disegni di legge di modifica sono tutti ispirati alla filosofia del processo penale attuale, datato 1989 e pertanto del tutto superato di fronte alle profonde trasformazioni della società italiana con una criminalità sempre più agguerrita e una serie di gravissimi delitti vecchi e nuovi che richiedono risposte ben più rapide ed efficaci (mafia, cartelli della droga, terrorismo, femminicidi, morti sul lavoro, corruzione diffusa, truffe milionarie in danno dello Stato, disastri di danno ambientale, traffico di esseri umani, incendi dolosi boschivi, ecc.). Si impone pertanto una svolta radicale, nel senso della modernità e della efficienza, sia nella fase delle indagini preliminari e sia in quella del giudizio che solo il processo accusatorio può assicurare poiché con le solite “leggine” (di cui dal secolo scorso a oggi si è perso il conto) i tempi e i modi della Giustizia sono inesorabilmente destinati a rimanere bloccati sui disastrosi standard attuali. Il 12 ottobre scorso è entrata in vigore la legge n. 134/2021 di delega al governo per l’efficienza del processo penale: sono due articoli e una miriade di commi condensati in 14 pagine della Gazzetta Ufficiale n. 237/21 che denotano il solito vizio di origine del legislatore italiano, cioè quello di voler prevedere nei minimi dettagli tutte le possibili ipotesi di estensione della voluntas legis, laddove sarebbero sufficienti limitate, sintetiche, chiare espressioni normative per dare attuazione ai principi e ai criteri direttivi previsti dalla legge senza il rischio di letture confuse o errate da parte dell’interprete. Il termine della delegazione, che riguarda in particolare le notificazioni, la durata delle indagini preliminari, il giudizio abbreviato e quello immediato, scadrà il prossimo 12 ottobre, ma il governo può accelerarne il corso, anche archiviando norme di dubbia legittimità costituzionale come quella del Comma i) dell’art. 1 per il quale il Pubblico ministero, nell’esercizio dell’azione penale di cui è il dominus ex art. 112 Cost., dovrebbe attenersi ai criteri generali indicati ogni anno dal Parlamento con apposita legge. Giudice e pubblico ministero: la forza del nostro sistema di Armando Spataro Corriere della Sera, 24 febbraio 2022 Dividere le funzioni o le carriere? Le argomentazioni di chi è contrario e difende l’”unicità”. Caro direttore, a coloro che continuano a recitare il mantra secondo cui separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri renderebbe la giustizia più giusta e - recente novità - la magistratura meno potente, vorrei qui ricordare che la possibilità per chi ha vinto un pubblico concorso di scegliere se fare il giudice o il pubblico ministero e poi di transitare da una funzione all’altra è una “forza” del nostro sistema. Intanto, i due mestieri, pur differenti, hanno una caratteristica comune: il pm condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e non è votato - “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma deve (o dovrebbe) determinarsi a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente. Ciò anche a seguito delle indagini a favore dell’imputato che per legge è obbligato a tali obblighi professionali, fortunatamente per i cittadini, nulla hanno a che fare con le regole del giusto processo e la terzietà del giudice, previste dall’art. 111 della Costituzione. Non si comprende poi perché ci si rifiuti spesso di considerare le norme già vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), che, al di là di altri marginali requisiti, lo vietano all’interno della regione in cui si lavora e lo limitano a un massimo di quattro volte nella carriera (la riforma Cartabia ne prevede due). Peraltro, esaminando i dati ufficiali relativi ai cambi di funzioni nel triennio giugno 2016-giugno 2019, si può rilevare che sono intervenuti solo 80 trasferimenti da pm a giudici (media annua di 26,66 unità su 2.770 pm in servizio) e 41 da giudici a pm (con media annua di 13,66 unità su 6.754 giudici in servizio). Si sostiene poi che la separazione delle carriere si imporrebbe anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata. Ciò è totalmente privo di fondamento e ignora le radicali differenze tra il nostro ordinamento - per fortuna caratterizzato da indipendenza del pm e obbligatorietà dell’azione penale - e quelli di altri Stati europei. Studiandoli seriamente ci si accorgerebbe che ovunque la carriera del pm sia separata da quella del giudice, il pm stesso dipende dall’Esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo). Ma sarebbe anche chiaro che, sia pure con vari requisiti e grazie a provvedimenti amministrativi, l’interscambiabilità dei ruoli è possibile dovunque (in Austria, in Belgio, in Svizzera, in Olanda, in Germania, in Francia etc.), tranne che in Spagna. Ciò a prescindere dallo status del pm, spesso funzionario dipendente dall’Esecutivo. In Inghilterra e Galles, invece, non esiste il pm nelle forme da noi conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia e può rappresentare la Polizia titolare dell’iniziativa penale. Il sistema statunitense, infine, si divide in giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del presidente degli Stati Uniti, e giustizia statale ove vige il sistema elettorale. Ciononostante, esiste l’interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pm che coinvolge anche l’avvocatura dalla quale, anzi, spesso provengono i pm e i giudici. In più la comunità internazionale, con la raccomandazione del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del pubblico ministero nell’ordinamento penale” (in cui si auspicano “passerelle tra funzioni di giudice e pm” per meglio garantire i cittadini) e con un parere del 2014 del Consiglio consultivo dei Procuratori europei, mostra di viaggiare proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni. È giusto pertanto ribadire che l’unicità delle due carriere è necessaria anche per difendere e rafforzare un’omogenea “cultura giurisdizionale” tra pm e giudici, un’espressione di cui è però opportuno spiegare il significato concreto, poiché spesso viene fatta passare per una cortina fumogena utile per celare supposti privilegi corporativi. In concreto, unicità della cultura giurisdizionale sta a indicare il dovere per il pm e il giudice di compiere lo stesso percorso per l’affermazione della verità. Le valutazioni possono alla fine divergere, ma i canoni della valutazione delle prove devono unirli: il pm dovrà valutarne la fondatezza solo in funzione della loro valenza nella fase del giudizio, mentre è bene che i giudici conoscano a loro volta limiti e doveri propri dell’attività investigativa, senza che ciò determini il loro appiattimento sulle ragioni di chi accusa, ignorando quelle di chi difende. Tesi offensive smentite dalle cronache quotidiane. Mi aspetto a questo punto una furba obiezione: “Ma il quesito referendario propone la separazione delle funzioni, non delle carriere!”. La risposta è facile, non solo richiamando l’unico passaggio che condivido di ciò che ha scritto su questo giornale Angelo Panebianco (“... forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere”), ma anche ribadendo che la separazione drastica delle funzioni già esiste ed è prevista in Costituzione e che elevare un muro per evitare qualsiasi passaggio dall’una all’altra equivarrebbe a introdurre una vera e propria separazione delle carriere dei magistrati, che inevitabilmente porterebbe nel tempo a separare i concorsi per l’accesso in magistratura, il Csm, i percorsi di aggiornamento professionale e altro fino alla dipendenza del pm dall’Esecutivo e alla sua involuzione culturale con progressivo isolamento e gerarchizzazione delle Procure: insomma, danni per tutti, a partire dai cittadini utenti della giustizia. L’avvocato Fausto Coppi su questo giornale, da penalista controcorrente, ha scritto: “... vogliamo davvero che qualcuno passi la vita ad accusare?... Lo scambio di esperienze aiuta a interpretare il singolo ruolo”. Lo ringrazio, come ringrazio il professore Gaetano Silvestri che già molti anni fa ebbe a dichiarare che “purtroppo i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il pm che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulle prospettazioni dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei pm, perché colleghi e amici”. I giudici: incompatibilità e carriere. Le promozioni del Csm e come le ribalta il Tar di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 24 febbraio 2022 Sulle decisioni opache e incomprensibili del Csm in merito a nomine e avanzamenti di carriera abbiamo già scritto il 30 maggio 2021 (qui l’articolo). Ora vediamo, invece, come funziona la giustizia amministrativa, ovvero Tar e Consiglio di Stato. Le promozioni di giudici e pubblici ministeri le fa il Consiglio Superiore della Magistratura, loro organo di autogoverno. Se un candidato escluso non è soddisfatto fa ricorso al Tar e, al grado successivo, al Consiglio di Stato. Entrambi possono annullare la nomina. Succede sempre più spesso. Vediamo qualcuna di queste decisioni. Nel luglio 2020 Pietro Curzio e Angelo Spirito fanno domanda per la carica di primo presidente di Cassazione. Il Csm nomina Pietro Curzio. Da giovanissimo Spirito era stato giudice istruttore al maxiprocesso contro la Nuova Camorra organizzata che portò al più noto errore giudiziario della storia: la condanna di Enzo Tortora, anche se a occuparsene direttamente era stato Giorgio Fontana (che poi lasciò la magistratura). Spirito non ne fu ritenuto responsabile, e non fu perseguito disciplinarmente, ma forse quella vicenda, formalmente inutilizzabile, nella valutazione del Csm ha avuto un peso. Spirito fa ricorso al Tar, che gli dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che invece gli dà ragione e il 14 gennaio scorso annulla la nomina di Pietro Curzio. Motivo: l’anzianità di funzioni da giudice di legittimità di Spirito è di 23 anni, mentre quella di Curzio di 12 anni e mezzo. A questo punto il Csm deve procedere a nuova nomina e, la settimana dopo, alla presenza del presidente Sergio Mattarella, riconferma Curzio. Con nuove motivazioni. Più della durata nelle funzioni di legittimità, che comunque è “superiore a 6 anni”, dice in sintesi la motivazione, va considerata la “massima intensità” dell’esperienza da entrambi svolta in maniera “eccellente”. Requisito che li renderebbe “equivalenti”. In più, valuta il Csm, Curzio ha una maggiore esperienza nell’ufficio spoglio e nella formazione dei magistrati. Spirito ha già presentato il ricorso al Tar denunciando la violazione del giudicato. Le accuse incrociate - È stata annullata anche la nomina a procuratore capo di Roma di Michele Prestipino, preferito dal Csm al pg di Firenze Marcello Viola, perché finito in un intrigo di nomine pilotate. Il secondo era procuratore generale e quindi aveva più titoli del primo che invece era procuratore aggiunto. Il Csm rivota e la spunta il terzo contendente, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. La polemica sotterranea tra il Csm e i “cugini” della giustizia amministrativa, pronti ad accogliere i ricorsi e a stoppare nomine di candidati “inadeguati”, continua. Anzi cresce con le accuse incrociate di pretendere dagli altri ciò che non si fa al proprio interno. Del resto le decisioni non comprensibili prese da Tar e Consiglio di Stato non sono poche. La carriera: dove il Csm blocca, il Tar sblocca - Rilevante quella sul giudice Giuseppe De Benedictis. Lui aspirava a diventare presidente aggiunto dei gip di Bari. Il Csm gli aveva tarpato le ali con una valutazione negativa, ricordando un suo arresto nel 2010 per detenzione illegale di armi: vicenda da cui era stato prosciolto nel procedimento penale e in quello disciplinare. Il Tar gliele aveva restituite: visto che lo avevano scagionato non potevano non promuoverlo. Pochi giorni dopo però un nuovo arresto: trovato in casa un arsenale e 60 mila euro nascosti nelle prese elettriche. Secondo gli inquirenti, mazzette per scagionare mafiosi delle famiglie criminali baresi, foggiane e garganiche. Dalla magistratura De Benedictis se n’è andato da solo. Per la “vergogna”. A Vincenzo Montemurro, nel 2017, il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio revoca la delega delle indagini antimafia. Era saltata fuori una censura che gli era stata inflitta dal Csm per violazione del dovere di riservatezza “di primaria importanza” per le indagini antimafia. Si tratta di “prerequisito di qualsiasi magistrato addetto alla procura”, scrive il procuratore, pur attestando serietà, capacità e dedizione del collega. Il Tar respinge le obiezioni e riassegna la delega a Montemurro con la seguente motivazione: l’articolo 102 del codice antimafia chiarisce che “le designazioni avvengono tenuto conto delle specifiche attitudini” descritte dall’articolo 3 della circolare 24930 che “non fa menzione né dei precedenti disciplinari, né delle circostanze che possono mettere in dubbio il riserbo del magistrato”. Ma c’era bisogno di scriverlo? “Lei non sa chi sono io” - Poi c’è Giorgio Alcioni, un giudice di Milano in rotta di collisione con un barista che voleva aprire un bar nel palazzo dove lui abitava. Tenta in tutti i modi di bloccare la pratica. Poi nomina consulente per una perizia Ctu in un suo processo lo stesso perito che doveva dirimere la sua controversia condominiale. Il barista lo denuncia. Brescia apre un’indagine. Al Csm scatta la valutazione negativa, ma il Tar del Lazio l’annulla: ha diritto a fare carriera. Il giudice è stato condannato pochi giorni fa in via definitiva per concussione a due anni e sei mesi. Al pm di Matera Annunziata Cazzetta il Csm dà una valutazione negativa sulla progressione di carriera. Non si era astenuta dal procedimento su un giornalista da lei stessa querelato. Il Consiglio di Stato il 13 febbraio 2019 l’annulla “la motivazione è generica”. Il Csm allora specifica ed enumera tutti i procedimenti in cui la pm era parte in causa e non si era astenuta. Il Consiglio di Stato annulla ancora: il Csm avrebbe dovuto rivalutare l’imparzialità senza considerare elementi nuovi. Chi nomina i giudici amministrativi - L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità. Ai giudici amministrativi si ricorre per essere tutelati nei confronti della pubblica amministrazione, con una pronuncia oggettiva e imparziale. Eppure si registrano impugnazioni e si ascoltano, nelle sedute del plenum trasmesse da qualche mese in diretta su radio Radicale, vicende non proprio lineari. Vediamo un esempio. Il giudice Giuseppe Daniele nel 2019 fa domanda a presidente del Tar Marche. Viene respinta perché la figlia è avvocato amministrativista proprio ad Ancona e potrebbero trovarsi faccia a faccia in giudizio. Lui fa ricorso e nel frattempo viene nominato alla III sezione del Tar del Lazio. A giudicare il suo ricorso è un collega della stessa sede. Gli dà ragione: non c’è incompatibilità, basta l’astensione. Il Consiglio di Stato ribalta la decisione: c’è una “presunzione di assoluta incompatibilità” quando gli uffici giudiziari hanno un’unica sezione, come quello di Ancona, “a tutela non solo della sostanza, ma della semplice apparenza di imparzialità”. Nel 2021 la sede del Tar Marche si rilibera. Giuseppe Daniele ritenta. La figlia nel frattempo ha vinto un concorso come avvocato o funzionario legislativo della Regione Marche e i suoi atti saranno oggetto di giudizio davanti al padre. Allora lei il 15 dicembre si cancella dall’albo della libera professione. È un atto scontato, gli avvocati della Regione hanno un albo speciale al quale lei si potrà iscrivere. Ma tanto basta per far dimenticare al Cpga la potenziale incompatibilità in giudizio: subito il giorno dopo il plenum nomina Daniele presidente. E la “sostanza”? E “l’apparire imparziale”, dove sono finiti? L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità. Incompatibilità per figli e parenti - La risposta la dà, in diretta radio, il presidente della commissione che si occupa delle nomine, Giampiero Lo Presti: “Mai questo consiglio di presidenza ha valutato ragioni di incompatibilità per coniugi o parenti, dipendenti pubblici soggetti alla giurisdizione amministrativa. Men che mai è stato fatto, e abbiamo ripetuti casi, allo stato anche attuali, di presidenti nominati con parenti, figli, mariti, mogli nell’Avvocatura dello Stato”. E, se non fosse chiaro, aggiunge: “Quindi questa dilatazione, diciamo, del concetto di incompatibilità che oggi ci viene prospettata in relazione ad una situazione non attuale ma ipotetica futura è tale che dovrebbe portarci a ritenere sussistenti incompatibilità per tutti i rapporti con parenti o coniugi dipendenti della pubblica amministrazione o addetti ad uffici legali di avvocature pubbliche e quant’altro”. Tutti sono avvertiti. A partire dal singolo cittadino che dovesse trovarsi di fronte come avvocato o avversario il figlio o il fratello del giudice, magari presidente, sappia che è inutile protestare. Quando il Consiglio di Stato dice no e non motiva - Con qualcuno la severità c’è, più che con altri. Nella seduta del 16 dicembre 2021 si deve nominare il presidente del Tar Piemonte. Viene proposto dalla commissione (all’unanimità) il consigliere Silvestro Maria Russo. Ma il plenum dice: “no”. Motivandolo con ritardi nel deposito delle sentenze, sebbene siano stati recuperati. Nella seduta successiva si deve decidere il presidente della III sezione del Tar Lazio. La commissione è di nuovo favorevole a Russo. Si va al dibattito. Russo, al momento della nomina, ritardi non ne ha più, ma la votazione segreta lo impallina ancora. Senza alcuna motivazione. Al punto che l’allora Presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi, commenta: “Vorrei sapere cosa scrivete dentro questo diniego. Mi pare un atto suicida”. E lascia l’aula affermando che, per la prima, è stata votata una delibera “immotivabile”. Lo seguono altri consiglieri per cui la seduta termina. Arriva il nuovo Presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini, che affronta il caso proponendo di formulare due proposte motivate, quella favorevole e quella contraria. Il voto rimarrebbe segreto, ma quantomeno accompagnato da una motivazione. Quella motivazione che il giudice amministrativo pretende per le nomine del Csm. Si levano mugugni con la scusa che la “segretezza potrebbe venire meno”. Si attende una risposta. Amato arriva anche nei talk show: “Abituatevi a una Corte che spiega le sentenze” di Giulia Merlo Il Domani, 24 febbraio 2022 Il quarto d’ora di intervista del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, alla trasmissione televisiva Dimartedì su la7 si riassume con una sua frase: “Bisogna che l’Italia si abitui a una Corte Costituzionale che non solo emana ma spiega le sentenze”. È quello che Amato ha fatto, scegliendo questa volta il mezzo della televisione in un talk show di prima serata e nelle scorse settimane lo strumento della conferenza stampa per illustrare le scelte della Consulta nel giorno del pronunciamento sui referendum. In questa sede ha argomentato le decisioni e sulle dichiarazioni di inammissibilità dei quesiti su cannabis ed eutanasia, pur invitando ad aspettare “le sentenze che spiegano le motivazioni e queste motivazioni saranno oggetto di condivisione o di critica”. Tuttavia, a domanda sul fatto che il no ad alcuni quesiti abbia ridotto il diritto dei cittadini ad esprimersi, visto anche il grande numero di firme raccolte nella campagna referendaria, ha sottolineato che “siamo 60 milioni di cittadini italiani e i promotori, anche se hanno raccolto centinaia di migliaia di firme, non rappresentano il popolo. La Costituzione stabilisce dei limiti ai quesiti che è corretto sottoporre ai cittadini”. Limiti che la Consulta ha considerato superati dai quesiti inammissibili. La scelta di un programma in prima serata va esattamente nella direzione che il presidente ha intrapreso sin dall’inizio del suo mandato: rendere la Consulta una voce, che parli soprattutto all’opinione pubblica. “Una scelta in continuità con la linea dei suoi predecessori, a partire da Giorgio Lattanzi, ma anche con le prassi del passato visto che la nostra Corte è stata una delle poche a utilizzare dall’inizio della sua attività lo strumento della conferenza stampa”, dice la Angioletta Sperti, associata di diritto pubblico comparato all’università di Pisa e autrice di saggi sulla comunicazione delle corti costituzionali. A cambiare, nel corso del tempo, sono però gli strumenti comunicativi a disposizione. Ora la Corte si avvale non solo delle conferenze stampa e delle interviste sui quotidiani, ma anche delle trasmissioni tv, dei social media e dei podcast. Con il risultato di un messaggio che si amplifica molto di più grazie ai mezzi di comunicazione che rendono molto più veloce raggiungere i cittadini. Sembra definitivamente archiviata, quindi, la linea di pensiero di chi riteneva che la corte, come organo giurisdizionale pur atipico, debba esprimersi solo con le sentenze lasciando agli attori politici strumenti di divulgazione che rischiano di trascinarla nella contesa. Il crinale, però, è sottile e il rischio dell’apparire è quello di sembrare alla ricerca di consenso personale. “Ma esprimere il senso del proprio ruolo e i contenuti delle pronunce non significa autopromuoversi o cercare consenso popolare”, dice Sperti. Al netto dello strumento utilizzato, infatti, è emersa l’abilità di Amato nel non tracimare oltre la soglia del dicibile da parte del più alto rappresentante di un organo costituzionale. Per questo sarebbe un errore applicare alla Corte la categoria politica del consenso popolare. “Il filo conduttore del suo intervento sono stati i valori costituzionali”, spiega Sperti, che analizza così l’interlocuzione che Amato sta instaurando direttamente con l’opinione pubblica attraverso i media: il presidente non si sarebbe mai posto allo stesso livello degli attori politici trasformandosi in uno di loro, ma sta costruendo “il rapporto con l’opinione pubblica attraverso la costruzione del consenso intorno ai valori costituzionali e su questi fa comunicazione”. La differenza è sottile: chi concorre nell’agone politico cerca di orientare l’elettorato secondo le proprie posizioni, mentre la Corte marca la sua differenza dando voce ai valori costituzionali nei quali si deve riconoscere l’intera società civile. Difficile dire se questo metterà a tacere i più critici rispetto alla disinvoltura comunicativa di Amato. Certo è che il presidente ha dato segno di voler caratterizzare così i suoi otto mesi al vertice della Consulta, non solo emanandole ma “spiegando le sentenze”, anche nei luoghi simbolo del confronto politico in televisione come i talk show. Amato show, la politica ha schiacciato il diritto di Franco Corleone* Il Riformista, 24 febbraio 2022 Non è vero che i quesiti su cannabis e eutanasia erano scritti male come lui continua a sostenere ed è assurdo che molti giornalisti si siano inchinati e abbiano accreditato il falso. Dopo Papa Bergoglio da Fazio, non poteva mancare Giuliano Amato da Floris. Non c’è più religione, si potrebbe dire. Occupiamoci della religione laica e il Presidente della Corte Costituzionale si è richiamato al Vangelo della democrazia come centro della convivenza. Non è la sede per commentare le suggestioni espresse sulla pace e sulla guerra, sul ruolo e sulla crisi delle democrazie occidentali, sulla pandemia, sulla scienza e sulla violenza diffusa. Mi limito a commentare le questioni relative ai referendum e alle decisioni sulla ammissibilità. Rispetto alle polemiche suscitate dalla conferenza stampa subito dopo la lunga Camera di consiglio concentrata soprattutto sulla bocciatura dei due referendum su cui sono state raccolte tante firme che testimoniavano l’interesse e l’urgenza dei temi legati alla vita delle persone, Amato ha argomentato che è tempo che l’Italia si abitui alla novità che è utile che le sentenze della Consulta vengano spiegate per essere poi oggetto di condivisione o di critica. Floris ha però sottolineato che i cittadini si sentono frustrati per essere espropriati dell’esercizio della sovranità popolare e della decisione su temi che il Parlamento trascura da troppo tempo. Amato ha aggiunto che i limiti ai quesiti sono definiti dall’art. 75 della Costituzione e che occorrerà leggere le sentenze, evitando polemiche preventive che non servono. Sarà davvero ineludibile una discussione sulle novità che la Corte negli ultimi anni si è data. Per quanto riguarda l’ammissibilità dei referendum è invece da molto tempo che sono state abbattute le norme precise fissate dalla Carta relative alle leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Infatti è invalso il giudizio sulla omogeneità e chiarezza dei quesiti, con un atteggiamento paternalistico verso i cittadini incapaci di capire la domanda, e cosa ancora più grave una valutazione della legge risultante dal referendum con un arbitrario giudizio preventivo di legittimità costituzionale. Risibile poi il riferimento al rispetto di Convenzioni e trattati internazionali che non sono coperti dall’art. 75 che si riferisce a una legge, quella di autorizzazione alla ratifica, che ha cessato i suoi effetti. Torniamo alla conferenza stampa, che non rappresentava l’illustrazione di una sentenza e delle motivazioni, ma una anticipazione che spiegava la decisione. Una prevalenza delle ragioni politiche rispetto a quelle giuridiche. Il titolo del referendum sulle sostanze stupefacenti come deciso dalla Cassazione e condiviso dal Comitato promotore non dava adito a ambiguità, prevedendo tre interventi puntuali, infatti eliminava dall’elenco incredibile di diciassette condotte incriminatrici la coltivazione, cancellava la pena della detenzione, conservando la sanzione penale della multa, per le violazioni relative alle cosiddette droghe leggere, cannabis in particolare e l’eliminazione dalle sanzioni amministrative del ritiro della patente per i soggetti individuati e colpiti per il semplice consumo. Va sottolineato che dal 1990 oltre 1.300.000 giovani sono stati segnalati ai prefetti (quella figura che Garibaldi, Einaudi e Ernesto Rossi volevano abolire) per essere stigmatizzati e sottoposti a varie sanzioni amministrative (la più odiosa quella che abrogavamo) e di questi un milione per aver fumato uno spinello. Il Dpr 309/90, la legge voluta da Bettino Craxi al termine di una campagna dai toni moralistici in nome della guerra alla droga e che cancellò i valori laici e libertari della tradizione socialista di Loris Fortuna, ha provocato in più di trent’anni gravi guasti nei tribunali intasandoli di cause e reati senza vittime e ha determinato il sovraffollamento nelle carceri che per il 30% ospitano detenuti per violazione della legge antidroga, quasi sempre per detenzione e piccolo spaccio. Non mi risulta che Amato si oppose a questa torsione proibizionista e invece è agli atti la sua polemica contro Umberto Veronesi, ministro della Sanità che alla Conferenza sulle droghe a Genova nel 2000 si espresse a favore della legalizzazione della canapa e delle droghe leggere. Quella legge è ignobile e nel 1993 un referendum riuscì a cancellare le norme più ideologiche e repressive, ma il Parlamento si guardò bene da operare una riforma complessiva. Addirittura nel 2006 fu approvato un decreto arbitrario, noto come Fini-Giovanardi, che aggravava la scelta repressiva e che fu cancellato solo nel 2014 dalla Corte Costituzionale. Bene, la legge è anche scritta male. Le diciassette condotte elencate nel primo comma dell’art. 73 riguardano tutte le tabelle delle sostanze stupefacenti (la Fini-Giovanardi sulla base dell’assioma che “la droga è droga” aveva accorpato tutte le sostanze in un’unica tabella con la detenzione da otto a venti anni) e non, come ha sostenuto il prof. Amato solo le tabelle I e III. Solo che la pena per le droghe pesanti è scritta nel primo comma, mentre la pena per le tabelle II e IV, da due a sei anni di carcere, è prevista nel comma 4, richiamando le condotto dei commi 1, 2 e 3. Un errore incredibile e imperdonabile. Eppure nella memoria che illustrava il quesito, tutto era spiegato con limpidità e senza sotterfugi. Sconcerta che molti giornalisti, soggiogati dalla autorevolezza del Presidente Amato, si siano inchinati e abbiano accreditato il falso, cioè che fosse stato il Comitato promotore a compiere un errore. Io mi occupo di politica delle droghe e di leggi relative dal 1975 e sono pronto a un confronto aperto con Giuliano Amato che era Presidente del Consiglio quando io ero sottosegretario alla Giustizia, nel nome di Giancarlo Arnao, protagonista radicale della battaglia antiproibizionista. Credo che nella sentenza non sarà scritto il punto che è però stato alla base della inammissibilità proclamata con sicumera nella conferenza stampa. Valuteremo che fare e come ristabilire verità e diritto. Non ci arrendiamo alle ragioni della forza e del potere. Sarebbe ora che il Parlamento rispondesse alle tante supplenze, con una iniziativa adeguata ai tempi. Molti paesi, dall’Uruguay al Canada, ai tanti Stati degli Usa hanno legalizzato la canapa e in Italia continuiamo a combattere una guerra perduta, fortunatamente. *Presidente del Comitato Scientifico della Società della Ragione E il giudice disse: “L’avvocato che non si dissocia dal proprio cliente ne è complice” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 febbraio 2022 Avvocato complice del cliente: stavolta l’assurda tesi finisce in sentenza. L’incredibile vicenda di due legali del Foro di Milano: il giudice chiede di inquisirli per presunta “collusione morale” con l’assistita. Come può un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio? Questo interrogativo sta arrovellando Enrico Visciano e Alfredo Partexano del Foro di Milano, i quali hanno deciso di raccontare una vicenda che li ha riguardati come professionisti. Tutto nasce da un complesso contenzioso civile, sorto alcuni anni fa, riguardante il pagamento di una quietanza assicurativa a seguito di un incidente stradale mortale. Dal civile si sono poi avuti dei risvolti penali, con un procedimento per calunnia davanti al Tribunale di Monza, nonostante una archiviazione originaria, nei confronti dell’assistita di Visciano e Partexano. Nelle fasi conclusive del processo, con gli interventi dei difensori, il primo colpo di scena: il giudice, a un certo punto, nel corso dell’arringa difensiva, si incammina verso l’uscita per abbandonare l’aula di udienza. “Durante le arringhe davanti al Tribunale di Monza - dicono al Dubbio gli avvocati Visciano e Partexano - ci siamo imbattuti in molteplici interruzioni, nonostante i richiami di noi difensori rispetto all’impossibilità assoluta di interrompere un’arringa finale quale momento sacramentale del rito. Anche l’imputato, non dimentichiamolo mai, ha dei diritti. Le interruzioni erano messe in atto sia dal difensore di parte civile sia dal giudice, che richiamammo affinché tornasse al proprio posto, nel momento in cui decise di allontanarsi dall’aula con i faldoni in mano. Solo con le nostre proteste rivolte al giudice siamo riusciti a concludere le arringhe”. Con la sentenza, l’altro colpo di scena. L’assistita di Visciano e Partexano viene condannata a quattro anni di reclusione, ma a lasciare di sasso gli avvocati sono le parole usate dal magistrato in sentenza. Un passaggio che amareggia i due legali anche per la considerazione complessiva dell’avvocatura. “La lettura della sentenza di condanna - evidenziano - in particolare a pagina 21, portava noi difensori a sentirci colpiti non solo nell’intimo della nostra professionalità ma anche come categoria. Si era deciso di trasferire atti e causa alla Procura anche per le difese, vale a dire nei nostri diretti confronti, per la sola colpa di non esserci dissociati dalle dichiarazioni della nostra cliente”. Dunque, a detta del giudice, gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe, seppur con “toni solo apparentemente più pacati ed urbani”, rischiano quanto la persona difesa. Un’assimilazione singolare. Un assunto che ha lasciato molto perplessi Visciano e Partexano, senza però scoraggiarli. Anzi. Uno sprone ad andare fino in fondo e presentare appello. A Milano, il terzo colpo di scena. “Il nostro stupore - commentano - fu ancora maggiore nel leggere l’atto del Procuratore generale che citava il passaggio della sentenza del Tribunale di Monza, rimarcandolo alla prima riga della propria requisitoria e delle proprie conclusioni scritte, come se fosse l’aspetto più importante del processo”. Una sottolineatura che ha indotto Visciano e Partexano a richiedere la trattazione orale della causa. “Abbiamo deciso - aggiungono - di far risaltare il passaggio a gran voce durante le arringhe in appello e fare menzione del fatto che eravamo stati troppo eleganti nel non dare la necessaria importanza a un così grave fatto. Era giunto il momento di approfondire e sottolineare come i rapporti tra magistratura e avvocatura siano da considerarsi assai compromessi, se davvero può esistere un protocollo secondo cui ogni difensore, all’atto di iniziare la propria arringa, quale momento sacramentale nel rito, è costretto ad alzarsi in piedi, alzare la mano e dissociarsi dall’innocenza del proprio assistito”. A questo punto Enrico Visciano si infervora e descrive i momenti della sua arringa in Corte d’Appello. “Mentre parlavo - afferma - ho voluto battere la mano sulla toga, dalla parte della spalla destra, facendo rimbalzare verso l’alto i cordoni dorati per ben tre volte. Un gesto ben preciso, atto ad indicare l’inviolabilità della toga, di ciò che è molto di più di un mero e semplice servizio. Svolgiamo un ruolo, costituzionalmente garantito, che non può risultar oggetto, da parte di nessuno, di scherno, di interruzioni, di dissacrazioni, di ipotesi di reato nel momento stesso della necessità difensiva del cliente, senza dimenticare la storia personale dei protagonisti coinvolti. Per questo motivo mi rivolsi in udienza al Procuratore generale, chiedendogli di guardarmi negli occhi e di rispondermi, se poteva, proprio lì, davanti a tutti gli astanti, sulla tipologia di reato che avremmo potuto commettere noi avvocati o sul già ricordato trasferimento degli atti alla Procura della Repubblica disposto nei nostri confronti da parte del giudice Colella. Trasferimento rimarcato anche da parte dello stesso Procuratore generale”. Quanto successo pone l’accento sullo svilimento al quale può andare incontro alcune volte il ruolo del difensore. In questo contesto si inserisce il tema del pericolo di spersonalizzazione della difesa sul quale tante volte si sono soffermati importanti esponenti dell’avvocatura. Le parole del presidente del Coa di Milano Vinicio Nardo (si veda Il Dubbio del 12 gennaio 2022) sono un riferimento significativo: “L’avvocato deve seguire le sorti del cliente. Deve essere la fotocopia del cliente, non del magistrato. Il magistrato è un funzionario di Stato e risponde allo Stato. L’avvocato è un libero professionista e risponde al cliente”. Per la cronaca è opportuno segnalare che la Corte d’Appello ha comunque assolto la cliente di Visciano e Partexano. I giudici hanno accolto le domande sulla prescrizione e revocato le statuizioni civili, ossia il danno pari quasi a 80mila euro concesso alla parte civile in primo grado. “Il che - concludono i legali - non ci pare poco, dopo una condanna in primo grado a quattro anni di reclusione”. Femminicidi, l’inferno degli “orfani speciali”: duemila figli senza voce di Conchita Sannino La Repubblica, 24 febbraio 2022 “Siamo vittime due volte”. In Italia manca persino un censimento ed un osservatorio dedicato ai bambini e ragazzi rimasti senza madre. In campo il privato sociale, iniziative con istituzioni e Parlamento. Al via il progetto “Respiro”: 3,3 milioni per 6 regioni, per assistere piccoli e caregiver. Giuseppe è già in camice da un ospedale del nord, sta per entrare in sala operatoria, non vuole rinunciare a quei pochi minuti per dirlo. “Dei figli che restano, di quei ragazzi bisogna occuparsi subito, neanche un mese o dieci anni dopo il femminicidio. Avevo 18 anni quando mia madre è stata uccisa, si chiamava Olga. Ma mentre l’assassino in carcere poteva contare da subito sul supporto psicologico, io da figlio ho dovuto aspettare venti anni per potermene permettere uno: e pagato da me. Ho provato a fare i conti con la devastazione che mi portavo addosso, è stata durissima perché siamo stati soli: io, i miei due fratelli e i pochi cari che si potevano occupare di noi”. Un’atroce esecuzione di 25 anni fa, quando nessuno li chiamava femminicidi, lui guarda l’orologio, comincia il turno: “Questo lavoro mi ha salvato. Mio padre ha tolto la vita, io provo a custodirla. Sono qui anche per testimoniare che se ne può uscire, si può sopravvivere: ma i danni non te li toglie nessuno e quel peso non può stare solo sulle spalle degli innocenti, i figli o i loro nonni”. Vera, invece, è on line da una città piena di sole ed è appunto una (giovane) nonna: per lei anche elaborare il lutto sarebbe stato un “lusso”, c’era da occuparsi e far crescere Asia, la piccola della sua Giada, la figlia assassinata a soli venti anni dal compagno già denunciato e allontanato all’epoca, per violenza. “Mi considero una vittima collaterale, al pari della mia Asia, di cui sono madre, padre e nonna. Noi siamo condannati a vivere in un miscuglio di dolore e rabbia, per sempre. Anche se io non mi sono mai arresa, anche se ho fondato un’associazione e continuo a promuovere questa rete tra vittime, vedo che c’è ancora tanta ignoranza della legge, ci sono tanti figli abbandonati, troppi intoppi burocratici o lentezze. Ma questo non lo possiamo consentire”. Li chiamano “orfani speciali”: ma di straordinario c’è solo l’intreccio tra trauma, solitudine, difficoltà economiche, mancanza di prospettive. Comun denominatore: la mancanza di un modello di intervento dello Stato, multi-disciplinare. E nonostante l’importante passo avanti della legge sui femminicidi, approvata quattro anni fa, con annessi supporti economici previsti, le carenze sono tuttora diffuse, da nord a sud. Vuoti a cui si comincia a dare risposte, anche facendo tesoro della sofferenza di chi ci è passato prima, come racconta l’evento on line sui figli delle donne vittime di femminicidio in Italia, organizzato dall’impresa sociale “Con i bambini” cui partecipano anche la senatrice Valeria Valente, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi, e il deputato Paolo Siani, vicepresidente della commissione parlamentare d’inchiesta per l’infanzia e l’adolescenza. Sono duemila ragazzi in tutta Italia, gli orfani speciali: di varia età, ma in grandissima parte minori, secondo uno studio su cui hanno lavorato gli esperti di “Con i bambini”, presieduta da Marco Rossi-Doria, che ieri ha ricevuto un messaggio di buon lavoro da parte del premier, Mario Draghi, esteso a tutti i 400 operatori in collegamento. Grazie ai fondi pubblici del credito d’imposta e ad alcune esperienze pilota in tutta Italia, la fondazione “Con i bambini” ha presentato una rete di interventi da 3,3 milioni di euro distribuiti in quattro anni. Il progetto prevede la presa in carico concreta di 50 orfani “storici” più 50 “nuovi”, grazie alle competenze e alle sensibilità maturate sul campo con 100 psicoterapeuti, 100 operatori, 60 equipe miste e oltre 50 protocolli d’intesa. Il progetto “Respiro”. Si tratta di un’azione che unisce competenze e sensibilità grazie a 13 partner, attivi sull’intero territorio nazionale e in particolare in Campania, Calabria, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Un progetto che prende le mosse da un’altra virtuosa esperienza (il protocollo “Giada”, radicato in Puglia) ed è stata battezzato non a caso “Respiro”. “Perché è l’acronimo di Rete di sostegno per percorsi di inclusione e resilienza con gli orfani speciali, ma anche perché quando succede, tutto trema e ti manca l’aria, come ha scritto un’altra minore sopravvissuta all’omicidio di sua madre”, spiega Fedele Salvatore, presidente della coop Irene 95 e direttore del Progetto. “Credo che sia una grandissima possibilità oltre che per raggiungere finalmente tutti gli orfani, offrendo a ciascuno risposte per bisogni diversi, anche per costruire le opportune sinergie tra quanti (operatori pubblici e del privato sociale) sono impegnati su questo fronte, in una logica di vera sussidiarietà orizzontale e verticale”, sottolinea. Un percorso lastricato di ostacoli - Per la senatrice Valente, “questo è solo l’inizio di un percorso che deve vederci sempre più impegnati e integrati nel dare risposte ai territori e alle singole persone e nuclei colpiti. Su questo campo è importante poter dire per una volta che le risorse ci sono, che c’è un impegno bipartisan, allora dobbiamo capire dove si inceppa il meccanismo, quali sono gli anelli mancanti su cui dobbiamo essere concentrati”. La presidente della commissione d’inchiesta ricorda che “ogni anno circa 250 ragazzi, tra figlie e figli, vengono resi orfani a causa del femminicidio delle loro madri, accompagnato a volte dal suicidio dei loro padri, autori del delitto. Migliaia sono invece i figli e le figlie che assistono agli abusi e alle violenze in famiglia. Nell’affrontare la violenza contro le donne dobbiamo sempre, necessariamente, tenere conto anche di loro”. Valente sottolinea che “nel 2018 il Parlamento ha approvato la legge n. 4, due anni dopo sono arrivati i regolamenti attuativi, ma sappiamo che tantissimi di questi “orfani speciali” - come li aveva chiamati Anna Costanza Baldry, la studiosa che per prima ha acceso i riflettori sulla loro condizione - non riescono ancora ad accedere al supporto previsto. Un ostacolo che non possiamo consentire”. Rossi-Doria, un lungo lavoro alle spalle contro le povertà educative come maestro di strada, poi sottosegretario all’Istruzione nei governi Monti e Letta, ricorda che “il progetto Respiro, importante e necessario, coniuga esperienze e professionalità altamente qualificate. E offre alle politiche pubbliche il senso di un lavoro competente e comunitario, di cui tenere conto”. Anche il deputato Siani, che conosce quella sofferenza anche da pediatra, oltre che da familiare di vittima innocente (suo fratello Giancarlo è il giornalista ucciso dalla camorra a Napoli nel 1985) pone l’accento sulla centralità “che il Parlamento deve dedicare ai nostri giovanissimi concittadini. Conosco il lavoro profondo e instancabile di molti operatori, ma occorre che le leggi facciano il loro mestiere. Abbiamo proposto la creazione di un’Agenzia per l’Infanzia, come strumento agile e coadiuvante, certo non serve un altro carrozzone”. Due volte vittime - Quasi tre ore di confronto: scambio di lavoro e approfondimento a tratti toccante. Ma il fulcro di tutto restano quelle testimonianze, le loro voci. Giuseppe Delmonte ora è medico, ha 43 anni, è di Varese, fu anche testimone dei maltrattamenti su sua madre, Olga Granà, eliminata con sette colpi d’ascia: “Il suo fu un omicidio annunciato, come spesso accade. Tutto il vuoto e la solitudine che abbiamo vissuto non si può dimenticare. Solo adesso, dopo 25 anni, io riesco a parlarne e a lanciare il mio grido per gli altri - ricorda ancora - I femminicidi si prendono giustamente tutte le prime attenzioni, poi c’è il colpevole, ci sono i processi. Invece cala il silenzio e la dimenticanza su quelli che restano e sono troppi piccoli di fronte a un fardello enorme: anche se magari erano maggiorenni, come lo ero io all’epoca”. L’infanzia di Asia a Catania, invece, è assicurata da nonna Vera Squatrito. Che ora chiede di incontrare la presidente Valente, di mettere a disposizione anche ciò che ha visto e vissuto. “Sono una di quelle che in Italia ha dovuto seppellire sua figlia e ora combatte per sua nipote: se può, anche per tutti gli altri. Qui, in Sicilia, ci sono tanti figli vittime di femminicidio neanche censiti, tanti nuclei che non sanno come essere aiutati, dopo il sangue e il dolore subito restano tuttora abbandonati al loro destino. Dobbiamo aprire queste maglie, lasciare anche che i bambini vengano ascoltati, aiutati economicamente, e seguiti fino in fondo: ad esempio non si può imporre un rapporto di quella figlia o figlio con un padre che ha ucciso, se non in un percorso deliberatamente scelto dal minore, che deve avere voce. Per il bene di questi ragazzi, se ne deve uscire, ma tutti insieme. Invece noi viviamo per sempre all’ombra dell’assassino. E dobbiamo mettere in conto che poi torni in libertà, prima o poi. Cose a cui non saremo mai preparati”. “Mio marito, Raffaele Cutolo. I giovani non seguano il suo esempio” di Monica Scozzafava Corriere del Mezzogiorno, 24 febbraio 2022 “Basta con l’odio, lui ha scelto di pagare”. La figlia Denyse: voglio diventare criminologa. La porta di ingresso della casa dove vive Immacolata Iacone dà direttamente sulla strada, ed è aperta. All’ora di pranzo il via vai è continuo. C’è Alessia che torna da scuola, Gianluigi un caro amico di famiglia che di martedì viene sempre. Tommaso, il rumeno che vive qui da anni. E una schiera di nipoti che passano a salutare zia Tina. Poi arriva Denyse. “Mamma, devo dirti due cose. Una bella e una brutta, quale vuoi prima?”. Immacolata detta Tina raccoglie i capelli neri con una forcina, poi si siede. Lo sguardo verso Denyse è severo. “Lei è uguale al padre”, dice. Il padre è Raffaele Cutolo, ed effettivamente la somiglianza è impressionante. “L’espressione degli occhi, l’ovale del viso… Mi sembra di guardare mio marito”. Non è soltanto una somiglianza fisica. L’unica figlia di Cutolo è una ragazzina decisa. Sorridente e guardinga. L’ultimo ricordo di papà? “Uno solo? Un libro non basterebbe per raccontarli tutti. Io l’ho avuto un papà, ci ho giocato, parlato, discusso. Mi sono anche presa i suoi rimproveri. Prima che lo ricoverassero sono andata a trovarlo e non mi ha riconosciuta, sto ancora male per questo”. É stata Denyse a volere i manifesti nell’occasione dell’anniversario della morte, lei a convincere la madre. E sempre lei a decidere di pagarli con i suoi risparmi. Poi all’uscita dalla scuola i contromanifesti, dove suo padre viene raffigurato come un criminale. Assorbe gli insulti sui social e abbozza. Protetta dalla madre e dalla sua forza innata. “Poi - aggiunge - possono dire quello che vogliono. É mio padre e merita di essere ricordato così. Punto”. Prova a non cedere alle lacrime. Cambia argomento: “Mamma, ho avuto sei e mezzo in italiano e cinque in inglese, ma posso recuperare”. Erano queste le due “cose” che voleva dire appena è tornata. Nella cucina con i mobili di legno color rovere, in stile anni Ottanta, c’è una tavola rettangolare e di lì a poco Immacolata mette tovaglia e posate. Mentre sul fuoco bolle l’acqua per la pasta. Un giorno normale in una famiglia normale, al di là di una porta dove non esistono più segreti da custodire. Un piatto deve essere portato su per Rosetta, 85 anni, sorella di Raffaele che da circa otto mesi non esce più di casa. Abita a poche decine di metri, Tina l’assiste: “Rosetta ha la sua età, a volte però ho la sensazione che faccia finta di non capire. Lei sa sempre tutto”. Rosetta è la sorella di Raffaele, donna potente che nel periodo in cui il fratello era latitante ha retto le casse del clan. In questa casa tutti sanno tutto, tutti sanno che Raffaele Cutolo è stato in carcere per 53 anni. “Nessuno dice però - racconta Immacolata - che non ha mai avuto l’imputazione di associazione camorristica”. Ma come, un uomo al 41 bis in isolamento diurno e notturno nelle prigioni di tutta Italia e capo indiscusso della Nco non è un camorrista? “Per la legge non lo è stato, ha scontato ergastoli. Ha chiesto anche scusa a suo modo. E anche sul mancato pentimento ci sarebbe poi da discutere”. Immacolata è un fiume in piena. Voce sottile, mai esitante: “Cosa significa chiedere scusa? Parlare a comando per fare favori a qualcuno? O per ottenere sconti di pena? Mio marito sa quel che ha fatto e ha scelto di pagare fino alla fine. Gli omicidi? Sì, tutti abbiamo perso affetti cari, la sofferenza è stata ed è enorme. Ma siamo andati avanti, i morti che ho avuto anche io non ritornano. Vorrei dirlo a chi si ostina, a chi continua a dare colpe alla mia famiglia. Cutolo è stato uomo sempre, ha sbagliato. A sua figlia ha insegnato a chiedere scusa quando si commettono errori. Non è un esempio per i giovani, tutt’altro. Ma per Denyse, vi assicuro, è stato e continua ad essere un punto di riferimento”. Immacolata prende il cellulare e mostra alcuni messaggi. C’è tutta la conversazione con un parente avvenuta poco prima dell’anniversario della morte di Raffaele. I manifesti, appunto. “Lasciate stare, non è importante”, scriveva lei. Ma lui insisteva: “Facciamoli invece, si fanno per tutti”. E alla fine: “Mi confronto con Denyse, sceglie lei”. E la ragazzina dai capelli lunghi e neri, appassionata di musica e star di TikTok, decide per il sì. Va bene anche la messa, alle 18.30. Quanto all’anima benedetta, è un prestampato. “Neanche sapevo che fosse scritto così”. assicura Immacolata. Che in ogni caso rivendica la libertà di scelta. “Possiamo stare anche dopo la sua morte a coltivare odio e polemiche? Direi che può bastare”. Alle pareti della cucina ci sono foto dappertutto. Ricordi di vita vissuta, scene da un matrimonio che non è mai stato realmente tale, flashback di un amore che evidentemente è andato oltre tutto. Si è nutrito di incontri nelle carceri, di lettere lunghissime. Di scenate di gelosia e di ripicche. “C’è stato anche un buffetto - ricorda sorridendo - Sa perché? Lui mi aveva fatto ingelosire, una donna gli scriveva in carcere, lo voleva incontrare. A me non piaceva, era sicuramente una infiltrata. Voleva indurlo al pentimento. Glielo dicevo ma Raffaele non mi ascoltava. E allora finsi una amicizia particolare con un giornalista, lui ci cascò e accennò a uno schiaffetto. Ma non mi colpì, aveva troppo rispetto. Raffaele era sensibile al fascino femminile, questa era la cosa di lui che non amavo. Il resto è stato un legame forte, fortissimo. Nel bene e nel male. Nel segno della complicità assoluta. Nella vita si sceglie con chi e da che parte stare. Io ho scelto lui, il mio uomo per sempre”. Una settimana dopo la sua morte Immacolata ha raccolto scatoloni e per la prima volta ha svuotato gli armadi del marito: i suoi vestiti piegati uno ad uno. Le lettere, centinaia, riposte per bene in un cassetto, i fascicoli dei processi, i telegrammi, gli oggetti di Raffaele, le foto: un libro dei ricordi che doveva lasciare la casa di viale delle Rose ad Ottaviano. Sarà questo invece il materiale per il docufilm che verrà realizzato dalla casa di produzione Cosmo che a sua volta venderà i diritti a un colosso televisivo. “C’è una vita da raccontare, quella vera però - spiega Immacolata - fatta di sofferenze ma anche di piccole e grandi gioie. C’è poi una verità, la nostra, da ristabilire: il male sì, la fantasia no”. Denyse ascolta tutto, da un lato rimugina sui voti presi a scuola (frequenta il liceo di Scienze Umane) dall’altro immagina il futuro. “Vorrei fare la criminologa”, dice con piglio di sfida. Di per sé è già singolare, i motivi poi sono a suo dire “speciali”. “Non so mio padre perché è morto, credo che tanta gente sia nelle stesse condizioni e vuole sapere. Aiutare a scoprire la verità è importante”. Raffaele Cutolo era molto malato, lei fissa lo sguardo verso la parete dove c’è una foto incorniciata: lei con il papà nel giorno della sua prima comunione. “Siamo così sicuri che era malato? Mah. Perché si è ammalato?”. Poi si alza e cambia ancora argomento: “Sono fiera di mia madre, è severa ma giusta”. Immacolata guarda le foto di quando era anche lei come Denyse: bella, magra (“ho fatto cinquecento punture di ormoni per avere la mia bambina, ci sta che sia ingrassata”) e donna nello sguardo. Donna alla quale il marito ha detto in uno degli incontri: “Meglio mangiare pane duro e vivere anziché bistecche e morire”. Moglie alla quale ha dedicato lettere d’amore (“perchè non ti ho conosciuta prima?”). Lei oggi fa la sarta, cuce e ricama. “Vendo anche qualche pezzo di corredo per le giovani spose, qui da noi seguiamo ancora questa usanza”. Lei giovane sposa lo è stata, in un carcere, accanto a un uomo che a casa non è tornato mai. C’è un piccolo cero appoggiato su un mobile: “Il segno che Raffaele è qui con noi”. La sensazione di rispetto verso l’uomo è assoluta, nonostante tutto: “Mio marito ha sbagliato certo, ma l’amore non si decide a tavolino. Dovrei essere condannata per questo?”. Mette i broccoli in padella, Tina. É vestita di nero, ed è un segno di lutto. Al mare, l’estate scorsa, non ci è mai andata. “Per rispetto”. Morì per un colpo di pistola dei carabinieri: risarcita la famiglia di Mauro Guerra di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 24 febbraio 2022 I familiari del 32enne avranno giustizia solo sotto forma di un risarcimento pecuniario. Ma non ci sarà una condanna a pena detentiva nei confronti di Marco Pegoraro, perché la Procura della Repubblica di Rovigo non aveva presentato ricorso contro l’assoluzione in primo grado del militare. I familiari di Mauro Guerra, 32enne ucciso da un colpo di pistola sparato da un maresciallo dei carabinieri durante un trattamento sanitario obbligatorio, avranno giustizia solo sotto forma di un risarcimento pecuniario. Ma non ci sarà una condanna a pena detentiva nei confronti di Marco Pegoraro, perché la Procura della Repubblica di Rovigo non aveva presentato ricorso contro l’assoluzione in primo grado del militare. Così il processo, pur nello scenario di un’accusa per eccesso colposo di legittima difesa, ha avuto un epilogo dimezzato. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’Appello di Venezia che ha riconosciuto l’esistenza del reato, con conseguente condanna al risarcimento e con una provvisionale di 260mila euro. Sono state così accolte le richieste formulate dai difensori di parte civile, gli avvocati Fabio Pinelli e Alberto Berardi. Guerra era stato ucciso con un colpo di pistola il 29 luglio 2015 in un campo di grano a poche centinaia di metri da casa, a Carmignano di Sant’Urbano, in provincia di Padova. Stava fuggendo da un trattamento sanitario non autorizzato a cui i carabinieri della stazione locale volevano sottoporlo. Il maresciallo dei carabinieri si era giustificato sostenendo di essere stato costretto a sparare per salvare il brigadiere Stefano Sarto, dopo che questi era stato colpito alla testa, alla mascella e alle costole. La reazione di Guerra al Tso era stata violenta, si era dato alla fuga, poi si era divincolato per evitare di essere bloccato e portato in ospedale. Nella sentenza di primo grado, emessa il 15 dicembre 2018, il giudice Raffaele Belvederi aveva sostenuto che Pegoraro fosse stato costretto a sparare anche se poi aveva accusato i carabinieri di avere tenuto un comportamento arbitrario e illegittimo. Nel processo di secondo grado il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione dell’imputato, spiegando che il carabiniere non aveva mirato alla testa di Guerra. Gli avvocati di parte civile, al contrario, hanno sostenuto che non si era creata alcuna situazione di pericolo e quindi i carabinieri avrebbero anche potuto lasciar fuggire, temporaneamente, Guerra. Inoltre il brigadiere aggredito non era in pericolo di vita. Infine, i carabinieri che avevano circondato Guerra erano a pochi metri di distanza e avrebbero potuto neutralizzare l’uomo anche senza ricorrere alle armi. Guerra era laureato in Economia e commercio e stava per diventare commercialista. Il provvedimento di Tso avrebbe dovuto essere autorizzato dai sanitari e dal sindaco. Al loro arrivo i militari trovarono Guerra a torso nudo. L’uomo, avendo capito che non c’era un provvedimento scritto, si era dato alla fuga e aveva colpito il brigadiere. Poi era stato raggiunto da un colpo di pistola all’addome. Dopo la sentenza, Giusy Businaro, la mamma di Mauro, ha dichiarato: “Non so neanche cosa dire, sono stata abituata ad avere mazzate troppo grandi in queste aule… che io chiamavo aule di ingiustizia, perché l’ingiustizia è venuta fuori tutta. Sono uscita perché non ero più in grado di reggere l’ennesima pugnalata alle spalle”. Invece una condanna c’è stata. “Ma non è una condanna che mi apre il cuore, che mi consente di dire che a Mauro è stata fatta giustizia. Mauro ha pagato con la vita gli errori di questi uomini, di quell’uomo… Lui avrà la sua libertà, potrà continuare a fare la sua vita, ad avere un lavoro. Invece per Mauro è finito tutto e per noi non è finito niente”. Il maresciallo e il caso Guerra. Assolto per averlo ucciso ma deve pagare 260 mila euro di Roberta Polese Corriere del Veneto, 24 febbraio 2022 Assolto per averlo ucciso, ma condannato a risarcire la famiglia della sua vittima. Il maresciallo Marco Pegoraro il 29 luglio del 2015 sparò e uccise Mauro Guerra, trentaduenne di Carmignano, nel corso di un tentativo di Tso illegittimo. Il processo penale si è concluso con l’assoluzione, ma ieri Pegoraro è stato condannato a un risarcimento di 260mila euro. “Questa condanna non rende giustizia a Mauro”, dice la mamma Giuseppina Businaro. “In nome del popolo italiano la sezione penale della corte d’appello di Venezia dichiara l’imputato Marco Pegoraro responsabile ai soli fini civilistici e lo condanna al risarcimento del danno a favore delle parti civili”. Si è chiusa così ieri l’udienza in appello del processo al carabiniere che il 29 luglio 2015 sparò e uccise Mauro Guerra, trentaduenne di Carmignano di Sant’Urbano (Padova), mentre stava cercando di eseguire nei confronti della vittima un Tso illegittimo. Pegoraro è stato condannato al risarcimento della famiglia di Guerra: 260mila euro di provvisionale, la procura generale aveva chiesto l’assoluzione del carabiniere. Atipico l’iter giudiziario della vicenda: inizialmente il pm di Rovigo, Fabrizio Suriano, aveva chiuso le indagini accusando Pegoraro di omicidio volontario. In corso d’opera il procuratore capo Carmelo Ruberto tolse il caso al sostituto e lo gestì direttamente, derubricando il reato in eccesso colposo di legittima difesa, sostenendo in aula l’innocenza del carabiniere. In primo grado il maresciallo venne assolto, stando alle ricostruzioni fatte in aula al momento dello sparo Guerra stava picchiando un carabiniere, Pegoraro ha premuto il grilletto perché temeva per la vita del collega. Il giudice Raffaele Belvederi, nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, aveva però usato parole dure nei confronti dei militari dell’Arma, colpevoli quel giorno di aver messo in atto un assedio ingiustificato nei confronti di Guerra e di aver esasperato la vittima per portare a termine un Tso arbitrario, non approvato da nessuna autorità e che ha avuto un epilogo tragico. È su questo tracciato che hanno fatto ricorso in appello le parti civili, la Procura dal canto suo non poteva fare appello, dal momento che essa stessa aveva chiesto l’assoluzione. Quello di ieri è pertanto un ricorso civile sul risarcimento penale negato in primo grado e ora concesso perché la Corte ha riconosciuto la responsabilità dei fatti a Pegoraro. “Questa condanna non può lasciarmi soddisfatta, non posso dire che oggi a Mauro sia stata resa giustizia - dice la mamma di Guerra, Giuseppina Businaro - ha pagato con la vita l’errore di questi uomini. Il carabiniere andrà avanti con la sua vita, avrà un lavoro, per lui non è finito niente, per Mauro è finito tutto. Quell’uomo sarebbe dovuto andare in prigione”. Soddisfatti gli avvocati che hanno seguito la famiglia Guerra fin dall’inizio, Fabio Pinelli e Alberto Berardi. “Volevamo che venisse riconosciuto un diritto fondamentale: il divieto di essere sottoposti ad un trattamento sanitario obbligatorio in assenza del rispetto dei protocolli e dei provvedimenti che lo legittimino - dice l’avvocato della famiglia, Pinelli. È in gioco il rapporto tra autorità e libertà: deve essere sempre rimarcato come il sacrificio dei diritti fondamentali vada limitato ai casi espressamente previsti dalla legge. Mauro Guerra non poteva essere sottoposto a Tso e non aveva commesso alcun reato”. L’imputato Marco Pegoraro, presente in aula assistito dall’avvocato Stefano Fratucello, è uscito senza commentare. “Il maresciallo è un militare e accetta la decisione dei giudici - ha detto per lui il suo legale - non è insensibile e capisce il dolore e la sofferenza della famiglia Guerra”. È scontato che la difesa farà ricorso in Cassazione. Se la Suprema Corte dovesse confermare il verdetto gli avvocati potranno far valere questo esito anche in sede civile, dove si provvederà a chiedere un risarcimento più ampio rispetto alle provvisionali statuite ieri. Intanto in questi giorni i consigli di classe di alcune scuole della Bassa Padovana hanno accettato di portare nelle classi il documentario che racconta la storia di Mauro Guerra, dal titolo “Le regole di Arnold per il successo”, del regista bolognese Dario Tepedino. Calunnia, non è reato se l’imputato ha come unica difesa possibile quella di accusare un terzo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2022 Deve esserci stretta connessione funzionale tra la falsa affermazione e la scelta di professarsi innocente. L’imputato che falsamente accusa un terzo del reato che gli viene contestato non è punibile per la calunnia se non travalica i limiti della difesa. L’affermazione falsa deve però essere indispensabile: cioè l’unico strumento di difesa a disposizione dell’imputato. Quindi accusare un terzo - sapendo che questi è innocente - fa venir meno il reato di calunnia se vi è stretta connessione funzionale: la falsa accusa deve essere “essenziale” alla difesa. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6598/2022, ha perciò respinto il ricorso della parte civile contro l’assoluzione dal reato di calunnia dell’imputato che l’aveva accusata di essere in realtà la vera autrice del falso in scrittura privata a lui contestato. La vicenda riguardava l’imputazione del concessionario per aver falsificato la firma della parte civile su un documento di noleggio di un’auto. Secondo la Cassazione va confermato il ragionamento dei giudici di merito secondo cui l’imputato, per esercitare il proprio diritto di dichiararsi innocente, non poteva che accusare la persona di cui aveva falsificato la firma di averla in realtà apposta di suo pugno. Cioè l’accusa era “essenziale” alla determinazione dell’imputato di difendersi dall’accusa di aver commesso il reato previsto dall’articolo 485 del codice penale. Al contrario, la parte civile che aveva contestato la paternità di quella che appariva essere la propria firma, riteneva che l’addetto alla concessionaria - imputato del falso - poteva difendersi sostenendo di non sapere chi avesse falsamente sottoscritto il documento di noleggio del veicolo. Cioè l’accusa mirata contro di lui non era essenziale alla difesa. I giudici di appello, come conferma ora la Cassazione, hanno ritenuto, invece, che non vi era valida alternativa per l’addetto alla concessionaria se non quella di accusare l’apparente autore della firma. Brescia. Emergenza suicidi nelle carceri, parla la Garante dei detenuti di Giorgia Venturini fanpage.it, 24 febbraio 2022 “Col Covid è peggiorato tutto”. Dall’inizio dell’anno sono tanti i suicidi nelle carceri. La situazione è peggiorata con la pandemia. A Fanpage.it spiega quello che sta accadendo la garante dei detenuti del carcere di Canton Mombello a Brescia. In Italia da inizio anno i suicidi nelle carceri, come riporta il dossier “Morire in carcere”, sono stati 12. Ad amplificare il problema nelle carceri è stata la pandemia che ha azzerato le attività e ha reso impossibili le necessarie quarantene. Perché tutte queste morti? E come è possibile prevenirle? Ha spiegato tutto a Fanpage.it Luisa Ravagnani, garante dei detenuti del carcere di Canton Mombello a Brescia. Cosa vuole dire essere un detenuto in tempo di pandemia? Il carcere non è più come prima la pandemia. I detenuti vivono la carcerazione in modo molto più pesante: in carcere le attività si sono ridotte per paura dei contagi e arrivano sempre meno spese o altri genere di confort da fuori perché i famigliari si trovano più in difficoltà economica. Molti a causa della pandemia hanno perso il lavoro. Non c’è più quell’osmosi che c’era prima del 2020 con il territorio: in pochi da fuori entrano in carcere per aiutare a svolgere qualche attività e viceversa. C’è poca attenzione verso le condizioni psicologiche dei detenuti? Sì, perché chi prepara le direttive anti Covid per il carcere forse non sa cosa vuol dire mantenere le mascherine tutto il giorno qui. La quarantena in cella non è come essere isolati in un appartamento, anche piccolo. In carcere la convivenza è forzata e permanente. La maggior parte dei detenuti vivevano prima della pandemia con le sbarre aperte dalla mattina alla sera: possono entrare e uscire impiegando il loro tempo a fare cose costruttive. Si perde anche l’intimità del bagno: con la cella aperta e con il rispetto l’uno con l’altro una persona poteva avere un minimo di riservatezza. Con la pandemia e con le quarantene si è azzerato tutto. Una condizione che ha contribuito ai tanti suicidi in carcere? Anche. Queste condizioni si uniscono a tanti altri problemi. L’accumulo di tanti problemi può portare al suicidio. Durante la pandemia le persone in carcere non hanno uno sguardo sul futuro, senza qualcuno che si interessa realmente delle condizioni dei detenuti. Mancano le risposte alle tante domande. Il peggio del peggio è questo sentore di misure che dovrebbero arrivare per aiutarli ma che alla fine non arrivano mai, come la liberazione anticipata speciale. Tanto promessa ma mai attuata. Eppure da due anni parlano di necessità di riconoscere lo sforzo fatto in carcere durante il periodo pandemico ma poi non si fa nulla. I detenuti hanno bisogno di tutto tranne di illusioni. Questi problemi c’erano anche prima della pandemia ma in questi ultimi due anni sono stati accentuati. Non c’è più nulla da capire, ma da agire. Il quotidiano invece è l’abbandono totale. Si può prevenire il suicidio per particolari detenuti? Tendenzialmente i periodi più a rischio di suicidio sono il primo ingresso e il momento dell’arrivo della sentenza definitiva. Il primo ingresso perché l’impatto con il carcere è più devastante, hai consapevolezza di quello che ti sta per accadere. Mentre la sentenza in via definitiva ti dà consapevolezza di quanto tempo dovrai stare dietro a delle sbarre. Più la pena è alta più il rischio ovviamente aumenta. Poi ci sono tutti i problemi legati alla sfera affettiva del singolo individuo. Una brutta notizia legata alla famiglia fuori, come un lutto o una malattia grave di un proprio famigliare, è vissuta con un impatto emotivo più amplificato all’interno del carcere. Il detenuto non è a casa a vedere cosa sta succedendo e tutte le notizie gli arrivano in modo più dilatato nel tempo. Prendono consapevolezza che non sono riusciti a salutare il proprio famigliare: tutti elementi che incidono in modo grave sulla psicologia in carcere. All’interno del carcere c’è l’aiuto psicologico? Sì certo. Solitamente lo chiedono in molti, anche chi non soffre di patologie psichiche. Possono rifiutarsi, ma è molto difficile. È molto più facile che chiedano aiuto. Spesso quando faccio i colloqui con i detenuti mi dicono che vorrebbero parlare con uno psicologo ma non sono in lista perché non hanno problemi particolari. Loro vorrebbero solo avere qualcuno che li ascolti. La direzione delle carceri cosa fanno per prevenire i suicidi? Ci sono una serie di protocolli che includono anche una formazione specifica sul tema: ovviamente però se un detenuto vuole togliersi la vita il modo lo trova. Le modalità sono sempre le stesse? Solitamente si impiccano con le lenzuola del letto: le agganciano al letto più in alto o alle sbarre delle finestre. Tendenzialmente si suicidano con impiccagione. Poi può succedere di tutto. Chi cerca di fare un tentativo di autolesionismo che purtroppo però finisce in tragedia, spesso ingoiando le lamette. Chi invece si tiene da parte le pastiglie che doveva prendere quotidianamente e le ingoia tutte una sola volta. Le modalità sono di ogni tipo. Di solito chi sono le persone che arrivano al suicidio? Spesso si trattano di ragazzi giovani o di stranieri. Gli stranieri perché spesso hanno difficoltà a farsi capire. Sentono di essere discriminati dagli altri detenuti e dagli agenti. Poi magari non è vero, ma basta la percezione. Derivata anche da una situazione passata. Poi però c’è tutto il capitolo della discriminazione sostanziale: è un dato di fatto che gli stranieri usufruiscono molto meno delle misure cautelari sul territorio. A parità di reato l’indagato in attesa di una decisione del giudice sta in carcere perché magari non ha un domicilio di riferimento. Così come la misura alternativa: il compagno di cella italiano che ha risorse sul territorio magari esce, mentre il detenuto straniero no ma semplicemente perché non ha una casa. Anche se il reato è meno grave e hai una condotta perfetta. Bisogna intervenire il prima possibile. Napoli. “Il Sindaco Manfredi dimentica i detenuti”, lo sfogo del Garante Pietro Ioia di Francesca Sabella Il Riformista, 24 febbraio 2022 “Sono passati quasi cinque mesi dalle elezioni e il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi non mi ha mai fatto una telefonata”. A parlare è Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli. Il sindaco, a quanto pare, si è dimenticato di chi vive dietro le sbarre, degli ultimi. E se è vero che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, è altrettanto vero che siamo una città di incivili. Per carità, Napoli è sommersa da numerosi problemi (trasporto pubblico, riscossione dei tributi, progetti Pnrr, solo per citarne alcuni), ma il primo cittadino non può dimenticare gli ultimi solo perché vivono rinchiusi in una cella. Manfredi è il sindaco della città che ospita Poggioreale, l’inferno delle carceri italiane dove sono presenti oltre 2.200 detenuti a fronte di una capienza di 1.571 posti, oltre al penitenziario di Secondigliano e al carcere minorile di Nisida. Nonostante questo il neo sindaco negli ultimi 140 giorni non ha mai fatto una telefonata a chi, sostituendosi spesso allo Stato, si occupa dei detenuti della città. E se ne occupa gratis, perché a differenza del garante dei detenuti regionale, per quello cittadino non è prevista alcuna retribuzione. Un vuoto della politica che riecheggia tra i padiglioni del penitenziario e diventa insopportabile per chi ci vive e per chi tenta di fare qualcosa per loro. “Non ho un ufficio in cui lavorare, il mio ufficio è la strada o il bar - spiega Ioia - Visito spesso Poggioreale, Secondigliano e il carcere di Nisida, sono diventato un punto di riferimento per le famiglie dei detenuti che, non sapendo a chi appellarsi, si rivolgono a me anche solo per far arrivare ai parenti mascherine e beni di prima necessità. Eppure, il sindaco non mi ha mai chiamato”. Stesso atteggiamento della precedente amministrazione che nel dicembre 2019 lo nominò garante dei detenuti salvo poi rifugiarsi in un silenzio interrotto negli ultimi mesi dall’assessore Giovanni Pagano che gli concesse un ufficio a palazzo San Giacomo. “In questi mesi ho parlato solo una volta con l’assessore alle politiche sociali Luca Trapanese - fa sapere Ioia - una breve telefonata nella quale mi prometteva un incontro e una visita nei penitenziari della città. Mai più sentito”. E mai si è fatto sentire il sindaco di Napoli. “Manfredi dovrebbe venire a vedere in che condizione vivono i detenuti - racconta Ioia - Anche de Magistris promise di accompagnarmi nelle carceri, poi non l’ho più visto”. Oggi Ioia spera di aprire un dialogo con la nuova amministrazione anche se l’inizio non è stato dei migliori. “Purtroppo quello che succede dietro le sbarre interessa a pochi ma continuerò, a prescindere dal mio mandato, a dare voce agli ultimi, a far valere i loro diritti. Sabato scorso - sottolinea - sono stato nel penitenziario di Secondigliano per far visita a un detenuto di 88 anni, forse il più anziano d’Italia. É una larva umana, ha 17 patologie ma resta in cella in attesa che il Tribunale di Sorveglianza nelle prossime ore si esprima sull’istanza presentata dai legali”. Ioia è un ex detenuto (è stato in carcere 22 anni) che ha denunciato le “cella zero” di Poggioreale, dove venivano commesse violenze nei confronti dei reclusi. Attaccato dopo la sua nomina dalla Lega di Matteo Salvini per il suo passato, è stato definito “garante della chiavicumma” dal consigliere regionale dei Verdi Francesco Emilio Borrelli solo perché durante il primo lockdown dovuto all’emergenza Covid, insieme al garante regionale Samuele Ciambriello, si batteva per la tutela della salute anche nelle carceri. I garanti continueranno a occuparsi di chi vive in cella, ma la politica abbia il coraggio di varcare quelle celle e garantire a chi ci vive un trattamento umano e la possibilità di reinserirsi all’interno della società. Dopotutto, la funzione del carcere è questa o no? Napoli. Senza fissa dimora. Lo psichiatra Emilio Lupo: “I dormitori vanno chiusi” di Maria Pirro Il Mattino, 24 febbraio 2022 “Servono piuttosto la progettazione di nuovi percorsi e la messa in opera di ulteriori attività volte all’inclusione. Anche per le persone che sono costrette a vivere per strada, senza una fissa dimora, l’attenzione si riaccende il più delle volte in seguito a episodi luttuosi, come la morte di un clochard a causa del freddo, oppure quando è il decoro della città a reclamare un intervento urgente. Prima di essere nuovamente dimenticati, alla fine restano intatti i problemi, persistenti i bisogni e inviolate le crudezze della marginalità che di tutto questo è causa”. Emilio Lupo, psichiatra e responsabile nazionale organizzazione di Psichiatria Democratica, chiede uno spazio invece per presentare proposte concrete, dopo la riflessione dell’assessore comunale al welfare, Luca Trapanese, ospite della web tv del Mattino: “Vorrei pertanto provare a dare un contributo per andare oltre, per svoltare”, dice. Cosa propone? “Penso a nuovi percorsi che consentano di oltrepassare quei vecchi schemi, spesso intrisi di pregiudizi, per approdare a nuove sponde così come negli anni passati è avvenuto per i brefotrofi, gli ospizi, i manicomi e, ci auguriamo, presto anche per le carceri. Queste esperienze hanno avuto, come alternativa all’istituzione escludente e segregante, funzionale all’espulsione della persona disagiata, la comunità allargata e partecipativa”. Dal suo osservatorio, qual è lo stato dei servizi in città? “A Napoli un percorso è iniziato e non sono mancate nel corso degli anni iniziative volte a rispondere ai bisogni primari dei senza fissa dimora: offerta di posti letto presso il dormitorio del Comune e dal mondo del volontariato e servizi di sostegno alla persona (cambio indumenti, docce, consultazione legale), queste ultime affidate alle cooperative sociali. Con le nelle mense e la consegna di pasti o di materiale in più punti della città. Pur avendo fatto certamente passi avanti proprio nell’offerta, registriamo però che non c’è stato lo scatto e, in genere, resta prevalente la tendenza a ridurre tutto al pasto, al letto e al decoro, che non è poco ma non abbastanza. Bisogna andare oltre. C’è bisogno di un nuovo paradigma”. Ossia? “Mi rifaccio alle dichiarazioni dell’assessore Trapanese sul Mattino, sua l’idea di avere centri con massimo quindici posti funziona. “Chi ci va non si sente in un dormitorio, ma piuttosto in una comunità”: è una affermazione che trovo pienamente condivisibile, perché implica altre scelte di fondo, e mi auguro che alle parole segua una progettazione di nuovi percorsi e la messa in opera di ulteriori attività volte all’inclusione. Per poter “svoltare”, infatti, occorre concepire e attuare pratiche di deistituzionalizzazione, a cominciare dallo smantellamento progressivo dei dormitori, figli di una cultura della semplificazione, che si limita agli interventi di ordinaria umanità e che da sempre ignora l’importanza del lavoro di connessione tra diversi”. Lei ha partecipato alla chiusura dei manicomi in città… “Per questo, riguardo alla deistituzionalizzazione, al riconoscimento dei diritti e alle pratiche di inclusione noi di Psichiatria Democratica qualcosa da dire l’abbiamo. Da oltre venti anni, tentiamo di annodare un lungo filo rosso attraverso modalità e caratteristiche innovative degli interventi da attuare sull’intero territorio cittadino. A nostro avviso, analisi dei bisogni e concretezza delle proposte non possono che procedere parallelamente, ed è in questa direzione che riteniamo dirimente poter leggere e decodificare le variegate necessità e bisogni delle singole persone, così da poter programmare interventi capaci di soddisfare le esigenze via via emerse”. In concreto, come? “Si tratta di promuovere un’accoglienza sia notturna che diurna differenziata nelle risposte, in linea con quanto indicato da Trapanese. E poi, un graduale inserimento nel mondo del lavoro, nel pieno rispetto delle individualità, da realizzarsi attraverso aree di intervento specifiche, con il coinvolgimento dei diversi attori in campo (Istituzioni, mondo della cooperazione e dell’artigianato, eccetera. Quindi, prevedere la possibile sistemazione in piccoli gruppi-appartamento o in alloggio autonomo, alla creazione di spazi con caratteristiche chiare e nette: luoghi di vita di dimensioni appropriate, ben inserite nel tessuto territoriale, aree di scambio da attraversare, in cui “attivare risorse multiple e articolate… secondo i bisogni e nel rispetto delle individualità”. Questo lo scrivevamo nel frontespizio di un progetto sui senza dimora, che nel lontano 2002 presentammo alla città come “Laboratorio per le città sociali” di cui facevamo parte insieme alle sezioni napoletane di Magistratura Democratica, della Cgil Fp e dei Cantieri sociali”. Le iniziative oggi appaiono piuttosto frammentate… “Suggeriamo, infatti, l’armonizzazione dei diversi interventi da intraprendere, in maniera che tutti gli attori in campo - enti locali, associazionismo, cooperazione sociale e volontariato - costituiscano ciascuno una tessera dell’intero mosaico. Con un intervento promosso e coordinato direttamente dal Comune, le ricadute positive possono essere ancora più importanti, razionalizzando le spese anche al fine di evitare da un lato doppioni di interventi e differenziando meglio gli ambiti di intervento. Le premesse ci sono tutte perché l’amministrazione napoletana guidi e coordini un processo di presa in carico della comunità intera e non soltanto spicchi di essa, avanguardie presunte o reali, benefattori a intermittenza (per dirla con don Ciotti), riprendendosi nelle mani il ruolo solidale e inclusivo che la Costituzione le assegna”. Lecco. “Perché abolire il carcere. Le ragioni di No Prison”. Se ne parla a Calolziocorte leccotoday.it, 24 febbraio 2022 Al circolo Arci Spazio condiviso si terrà un incontro dedicato alla Giustizia riparativa con la presentazione di un libro sul (delicato) tema. Il Tavolo lecchese per la Giustizia Riparativa invita a partecipare alla presentazione del libro “Perché abolire il carcere. Le ragioni di No Prison” ad opera degli autori Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi, chiamati a porre in dialogo le ragioni del movimento abolizionista - che rappresentano - col punto di vista riparativo. L’appuntamento è in programma giovedì 3 marzo alle ore 20.45 presso il salone del Circolo Arci Spazio Condiviso di Calolziocorte, e verrà proposto anche in diretta streaming sulla pagina Facebook di Spazio Condiviso. La giustizia riparativa: vittime, autori di reati e comunità - “Oggi i conflitti e i reati si generano in contesti sociali sempre meno capaci di comprenderli e di gestirli per superarli, feriscono le relazioni, rompono il patto sociale, generano allarme e senso di insicurezza - spiegano i promotori dell’iniziativa - La Giustizia Riparativa offre una visione e un orizzonte di pratiche innovative per riparare i danni del conflitto, ricostruire relazioni e rafforzare la sicurezza sociale, coinvolgendo tutte le parti implicate: vittime, autori di reato e comunità. È una giustizia che si realizza nell’incontro, nel riconoscimento reciproco, nel dialogo, nell’ascolto, nella responsabilizzazione personale e collettiva”. Casa e lavoro le emergenze dei calolziesi più fragili - “È necessario che ci sia una comunità capace di prendersi cura dei suoi cittadini e cittadine, delle relazioni e dei legami sociali. Una comunità che si senta parte in causa, non solo in quanto vittima della violazione delle sue regole, ma anche in quanto partecipe dei percorsi di ascolto e dialogo tra le parti coinvolte nel conflitto, nell’ottica di ricomposizione delle relazioni e dei danni che si sono generati. Tutto questo nel rafforzamento della cultura del diritto e dei diritti orientati al benessere di tutte le parti e coinvolgendo la comunità in cui è vissuta l’esperienza del danno, lavorando in chiave preventiva per evitare che i conflitti sfocino in reati”. Il confronto con “No prison” - Per riflettere con la cittadinanza su una specifica proposta, l’Innominato, Tavolo lecchese per la Giustizia Riparativa, ha così scelto di tornare a confrontarsi (come già una decina circa di anni addietro) con gli autori di un modello di proposta di trasformazione sociale particolarmente esplicito e sfidante. Per questo ha invitato a una serata di confronto pubblico Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi, autori del libro “Perché abolire il carcere. Le ragioni di No Prison” (2021), i quali saranno appunto chiamati a porre in dialogo le ragioni del movimento abolizionista - che rappresentano - col punto di vista riparativo, nell’occasione rappresentato da referenti del Tavolo lecchese dell’Innominato. A Lcco e Calolzio si inaugurano due “Angoli” di giustizia riparativa - L’appuntamento per partecipare alla presentazione del libro è per giovedì 3 marzo, alle ore 20.45, presso il Salone del Circolo Arci, Spazio Condiviso, Piazza Regazzoni 7 a Calolziocorte. Modera: Cecco Bellosi de Il gabbiano. Nel rispetto delle norme anti Covid la sala potrà ospitare 40 persone in presenza (prenotazioni via mail a linnominato@leccorestorativecity.it). Diretta streaming sulla pagina di Spazio Condiviso: https://tinyurl.com/5n6h2jvx La scheda del libro “Perché abolire il carcere” - La povertà, per chi è ristretto nelle carceri italiane, è l’elemento caratterizzante della distanza che li separa dal resto della società, del disinteresse o peggio odio nei loro confronti da parte dei liberi che non hanno nessuna voglia di approfondire la questione. “La prigione umilia, annulla, stigmatizza e impone il dolore, la sofferenza, è crudeltà, crea la mancanza di responsabilità verso il proprio comportamento e aumenta la pericolosità di tutti coloro che vi transitano, che diventano a loro volta moltiplicatori irreversibili e potenziali della violenza ricevuta - spiegano i curatori del volume - Continuare a sostenere il sistema carcerario significa in fondo autorizzare la pratica della vendetta di Stato e della sua violenza, con l’imposizione del dolore e della sofferenza ai ristretti. Non vi è alcun motivo di credere che lo spettro della prigione ridurrà la criminalità, è pertanto assurdo ritardare la ricerca di soluzioni di non carcere”. Durante l’anno in corso, ricorre tra l’altro il decennale dell’Innominato: Tavolo lecchese della giustizia Riparativa, nato a Lecco il 23 maggio 2012 in occasione della celebrazione della strage di Capaci. La serata del 3 marzo vuole segnare l’apertura degli appuntamenti previsti dal Tavolo programmati per questa annualità significativa. Milano. Dai barconi di Lampedusa nascono violini di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 febbraio 2022 Recuperare e trasformare legni provenienti dai barconi di migranti naufragati sulle coste dell’isola di Lampedusa in strumenti musicali. Nove dei dieci barconi trasportati da Lampedusa nel carcere di Milano Opera, infatti, forniranno legno per costruire violini, viole e violoncelli che comporranno l’“Orchestra del mare”. È il fine del progetto “Metamorfosi” presentato nella casa di reclusione milanese, dove detenuti già esperti nell’arte di costruire violini pregiati daranno al legno delle barche nuova vita e significato. Promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, che a Opera gestisce e finanzia il laboratorio di liuteria e falegnameria, in collaborazione con il Ministero dell’Interno, l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli (ADM) e la Casa di Reclusione Milano, il progetto intende offrire lavoro e formazione ai detenuti e, insieme, sensibilizzare sui temi dell’inclusione sociale e dell’accoglienza. Funzione quest’ultima affidata in gran parte all” Orchestra del mare” che gradualmente si comporrà di strumenti realizzati con i legni dei barconi. “Accogliendo queste dieci imbarcazioni, oggi diamo una seconda vita ad assi all’apparenza irrecuperabili, che potranno invece essere sublimate in strumenti musicali - ha specificato la ministra della Giustizia Marta Cartabia in un messaggio inviato agli organizzatori e letto dal direttore di Opera Silvio Di Gregorio - “allo stesso tempo, diamo una seconda occasione a chi, mentre espia la sua pena, lavorerà per trasformare quei barconi in un violino, una viola e un violoncello. Costruire un violino è un’arte che richiede pazienza, cura, fatica. La stessa pazienza, cura e fatica necessari in un percorso di reinserimento di chi ha commesso un reato e si impegna a riparare. Quando questi legni, impregnati di salsedine e speranze, suoneranno nella futura “Orchestra del mare” daranno voce allora a tutto questo: ai sogni e alle angosce di chi su queste imbarcazioni ha cercato una rinascita; agli estremi respiri di chi non ha mai terminato quella navigazione e agli sforzi di chi ha cercato un riscatto”. Il direttore del carcere di Opera, Silvio Di Gregorio ha evidenziato la valenza formativa sul piano umano e lavorativo del progetto, un’opportunità in più da offrire i detenuti “di recuperare la propria dignità umana e, quindi, a cambiare i punti cardinali della propria vita, prendendosi cura della comunità civile e contribuendo con il proprio lavoro al ‘progresso materiale o spirituale della società’. “Metamorfosi “è l’evoluzione di un’iniziativa sperimentale di creazione di oggetti di carattere sacro e di strumenti musicali avviata nel 2021 dal presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, Arnoldo Mosca Mondadori. Sotto la guida di Francesco Tuccio (l’artigiano di Lampedusa che con i rottami del grande naufragio del 2009 costruì una croce poi donata a Papa Ratzinger) i detenuti hanno realizzato presepi con legno e altro materiale proveniente da relitti raccolti a Lampedusa. Grazie alla supervisione del maestro liutaio Enrico Allorto gli artigiani hanno in seguito dato vita a un violino, primo degli elementi di cui si comporrà l’Orchestra del mare. Lo strumento e il progetto sono stati presentati il 4 febbraio scorso in Vaticano al Papa davanti al quale è stata suonata da Carlo Parazzoli, primo violino dell’accademia di Santa Cecilia, una composizione del maestro Nicola Piovani. La nascita di “Metamorfosi” è stata resa possibile dalla disponibilità della Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese nel sostenere la richiesta, avanzata dal direttore di Opera di poter lavorare su una cospicua quantità di legni ricavati dai barconi sequestrati a Lampedusa. Su suo impulso, il Ministero dell’Interno ha assegnato dieci barconi alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, trasportati nella reclusione milanese grazie alla collaborazione dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli (ADM) la struttura che ha tra le sue funzioni il compito di rimuovere e smaltire le imbarcazioni usate dai migranti. Apprezzandone il “forte valore simbolico che evidenzia la capacità di istituzioni e società civile di camminare insieme verso un impegno comune” la ministra Luciana Lamorgese ha sottolineato come essa offra “un nuovo progetto di vita grazie al lavoro di chi sta espiando la propria pena”. L’utilità di interagire tra istituzioni è stata sottolineata anche da Marcello Minenna, direttore generale ADM che ha definito il progetto “un valore aggiunto, particolarmente quando supportano iniziative di sensibilizzazione e solidarietà”. L’orchestra del Mare già dal prossimo anno dovrebbe comporsi di sei violini, una viola e un violoncello, che saranno prestati ad artisti di tutto il mondo. Uno dei barconi sarà installato nel cortile dell’Istituto, in ricordo dei migranti mai giunti a destinazione. “Questi strumenti musicali potranno così essere suonati portando con loro una cultura della conoscenza, dell’accoglienza e dell’integrazione attraverso la bellezza e le armonie - ha commentato Arnoldo Mosca Mondadori - “vogliamo che le persone, soprattutto i più giovani, possano conoscere e divenire consapevoli del dramma che vivono quotidianamente, in tanti Paesi del mondo, i migranti, costretti a fuggire da guerre, persecuzioni, povertà, carestie”. Gli ospiti dimenticati al Forum della Pace di Luigi Manconi La Stampa, 24 febbraio 2022 La si può definire una occasione sapientemente buttata al vento. E, infatti, quella in corso a Firenze sarebbe potuta essere una preziosa opportunità per riflettere su cosa significhino oggi pace e guerra. Mentre quest’ultima, nella sua forma classica - antica e brutale - si impone lungo la frontiera russo-ucraina, su tante altre linee di confine la partita resta aperta: e si potrebbe ancora operare al fine di “dare una chance alla pace”. Col titolo “Mediterraneo frontiera di pace” si è aperto ieri, nel capoluogo toscano, un convegno promosso dalla Conferenza episcopale italiana, che si pone l’obiettivo di rilanciare l’interesse verso l’area del Mare Nostrum e incentivare il dialogo tra i vescovi di tutte le Chiese che affacciano su quelle coste. Parallelamente, a partire da venerdì, si svolgerà un forum organizzato dal primo cittadino di Firenze, Dario Nardella, che farà incontrare i sindaci delle principali città mediterranee. Dunque, circa centoventi tra vescovi e sindaci provenienti da Algeria e Croazia, Albania e Slovenia, Grecia e Israele, Malta e Libia e Spagna e altri Paesi ancora. La potenziale importanza di tali incontri è confermata dalla presenza di Papa Francesco e da quelle del presidente del Consiglio Mario Draghi, del ministro degli Esteri Luigi di Maio e di quello dell’Interno Luciana Lamorgese. Una grande occasione, come si diceva, che avrebbe l’ambizione di porre le basi, per quanto esili, di una possibile convivenza pacifica in un’area del mondo così cruciale e così travagliata. Ma una opportunità che risulta già compromessa da come sono stati preparati i lavori e scelti i partecipanti e i relatori. Il forum dei vescovi si presenta come monoreligioso, invertendo così quella ispirazione ecumenica che sembrava un’acquisizione ormai consolidata. Tanto più determinante, quella ispirazione, in una regione dove l’intreccio tra le confessioni è assai fitto e le tensioni che ne nascono incrinano i progressi pur notevoli compiuti dal dialogo interreligioso. E invece, a Firenze, si incontreranno solo i presuli delle chiese cattoliche, mentre non si potrà ascoltare la voce di quegli esponenti dell’ebraismo e dell’Islam che, pur con enorme fatica e dolore, e tra molti lutti, perseguono le vie accidentate e tortuose del dialogo, come altrettanti “operatori di pace” (Matteo 5.3-10). E ancora: intorno al forum dei sindaci già si è aperta una polemica a motivo della presenza, tra i relatori, di Marco Minniti, presidente della fondazione Med-Or. Una parte dell’opinione pubblica, della Chiesa cattolica e dell’associazionismo criticano la sua presenza a causa, in particolare, della politica per l’immigrazione attuata durante il suo incarico di ministro dell’Interno. Rispondendo a un lettore proprio sulla scelta dei relatori del forum, il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, ieri ha scritto: “Tutti possono parlare di pace e di libertà e di giustizia, persino quanti hanno lasciato fare (e magari hanno anche speso quattrini perché si facessero) “lager” per migranti nel deserto libico all’odioso scopo di mantenere l’ordine in mare aperto e alla porta d’Europa”. Personalmente ritengo che il vero problema sia rappresentato non dalle presenze, bensì dalle assenze. Consideriamo quel titolo, “Mediterraneo frontiera di pace”: se in quel mare, nell’ultimo decennio, c’è stato un qualche processo di affermazione di valori universali e una qualche possibilità, se non di cancellare, almeno di trattenere e limitare la “pulsione di morte” lo dobbiamo a soggetti civili e religiosi non invitati agli incontri di Firenze. Non ci saranno, infatti, quelle organizzazioni non governative che hanno tessuto la sola trama capace di salvare dalle torture in Libia e dal naufragio in mare decine di migliaia di fuggiaschi (Open Arms e Medici Senza Frontiere, Sea Watch e Mediterranea, Emergency e Sos Mediterranee…). E non ci saranno la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche e la Caritas: ovvero coloro che hanno realizzato quei corridoi umanitari da tutti invocati e da troppi colpevolmente ignorati, che hanno costituito il solo sistema di protezione per consentire l’ingresso legale in Italia a chi non ha più un giaciglio dove posare il capo. E non ci sarà il cardinale Francesco Montenegro che, da arcivescovo di Agrigento e da presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, ha svolto una fondamentale attività a favore delle concrete forme di accoglienza e di inclusione degli stranieri nel nostro Paese. Il suo silenzio in questa circostanza evidenzia ancor più una tendenza della Chiesa italiana a rattrappirsi proprio mentre celebra il rito dell’apertura al mondo. Ma così ci si trova non sulle orme di Giorgio La Pira, bensì su quelle di Camillo Ruini. Tre milioni di poveri in fila per il reddito di cittadinanza di Valentina Conte La Repubblica, 24 febbraio 2022 Sono persone escluse o che faranno domanda. Tra chi riceve il sussidio anche 800 mila “lavoratori indigenti”. L’indagine Inapp. Il Reddito di cittadinanza di fatto è anche un “ammortizzatore sociale universale” per i lavoratori poveri. A questa conclusione arriva l’indagine campionaria Inapp che quantifica in 1,8 milioni le famiglie beneficiarie e in altre 3 milioni quelle potenziali la cui domanda è stata respinta o che intendono farla. Un dato shock, considerato anche il fatto che in metà di queste platee - reale e potenziale - c’è almeno una persona che lavora, anche in pianta stabile. Ma il cui stipendio necessita di un’integrazione per non scivolare nella povertà assoluta: working poor. La pandemia ha dato il colpo di grazia. Se infatti, dice Inapp, nel pre-Covid erano 814 mila i nuclei familiari beneficiari di Reddito, con il Covid se n’è aggiunto un altro milione. E altri 3 milioni bussano alla porta: tra questi soprattutto famiglie numerose e famiglie del Nord escluse da requisiti inadatti a intercettare bisogni differenziati sul territorio e laddove ci sono molti figli e qualche risparmio in banca, come evidenziato dalla commissione Saraceno. I dati Inapp - elaborati su un campione Istat di 45 mila famiglie intervistate da marzo a luglio 2021 - non sono distanti da quanto evidenzia anche Inps, allorquando afferma che in tre anni la misura ha aiutato 4,6 milioni di persone per una spesa di 20 miliardi (di cui 8,8 nel 2021). E che il 70% delle prime 860 mila famiglie del 2019 ancora percepisce il sostegno perché non è uscita dalla povertà. L’indagine Inapp, per sua stessa ammissione, sottostima il fenomeno della vulnerabilità in Italia, visto che le interviste non riescono a intercettare i “marginali estremi”, come senzatetto, famiglie gravemente indigenti, migranti. A colpire è il dato sulla condizione occupazionale: su 1,8 milioni di percettori, all’incirca 800 mila hanno un contratto stabile o a tempo, ma pagato molto poco (il Rdc integra il reddito da lavoro fino a 6 mila euro annui per un single). Di quel milione senza lavoro, perché in cerca o inattivo, solo il 39% è stato contattato da un Centro per l’impiego e il 32,8% dal proprio Comune di residenza. E questa è l’altra faccia, quella meno efficace della misura voluta per contrastare la povertà con un sostegno economico, ma anche per rimettere gli esclusi sui binari dell’integrazione lavorativa o sociale. Certo, in mezzo c’è stato il fermo del lockdown, la pandemia e le difficoltà generali a trovare un posto. Figuriamoci per i meno attrezzati percettori del Reddito, quasi sempre non immediatamente collocabili senza un’assistenza e formazione ad hoc. Ma i dati anche qui colpiscono. L’indagine Inapp rivela che di quel milione di non occupati col Reddito solo l’8% ha ricevuto un’offerta di lavoro (77.500), solo il 3,5% l’ha accettata (33.800) e solo il 2% è impegnato nei Puc (20 mila), i progetti di pubblica utilità attivati dai Comuni. Davvero molto poco. Non sappiamo poi cosa sia successo a chi un lavoretto ce l’ha. Né ancora possiamo valutare l’effetto della “riforma Draghi”: decadenza dal beneficio dopo il rifiuto di un’offerta congrua su due e decurtazione di 5 euro al mese. Inapp però ci dice che il 78% delle offerte di lavoro è stato rifiutato perché inadeguato e dunque non congruo con l’esperienza e il titolo di studio. E un altro 12% per uno stipendio troppo basso (anche questo vietato dalla riforma Draghi). Solo l’8% rifiuta perché il posto è lontano da casa (smontato un altro luogo comune). “La misura ha sostenuto i più vulnerabili, visto che il 77% ritiene il Reddito indispensabile e oltre il 60% in grado di migliorare la salute psico-fisica e la fiducia in se stessi”, dice Sebastiano Fadda, presidente Inapp. “Ma questo strumento non può assumersi anche la responsabilità di colmare le debolezze strutturali del mercato del lavoro e il sistema di protezione sociale dei lavoratori”. Alternanza scuola-lavoro. Serve una maggiore informazione sui rischi di sfruttamento di Antonio Bevere Il Manifesto, 24 febbraio 2022 In attesa di nuove maggioranze parlamentari e del ripristino di una riformatrice conflittualità sociale, può sembrare realistico proporre un percorso di studio e di informazione sulla tipizzazione normativa delle azioni di sfruttamento. Di recente siamo stati colpiti dalla morte di Lorenzo, che lavorava in fabbrica nell’alternanza scuola-lavoro. Obbligatoria da quindici anni in su in base alla “buona scuola” di renziana memoria (legge n. 17/2015). Lorenzo quindi era obbligato a lavorare come un dipendente, con tutti gli obblighi relativi, ma senza alcun diritto, né retributivo, né sindacale, né normativo. In teoria un diritto ce l’aveva: proprio quello sulla sicurezza nel posto di lavoro, poiché in base al d.lgs. n. 81/2008 gli studenti sono equiparati ai lavoratori e sono sottoposti al controllo sanitario nei casi previsti dalla legge, anche se tutto è lasciato in mano alle aziende, che in Italia non brillano certo per il rispetto delle norme sulla sicurezza, grazie anche agli insufficienti controlli ispettivi. E quindi lecito l’interrogativo sull’effettività della garanzia e del rispetto delle norme di sicurezza, tanto più con riguardo a giovani in età scolastica inesperti e non ancora pienamente maturati, coattivamente trapiantati in un ambiente di soggezione e di pericolo, tra adulti, che, senza distinzioni di età, di genere, di nazionalità, possono essere esposti a sfruttamento anche disumano. Proprio l’anticipazione della meglio gioventù nella condizione di sfruttati rende necessario soffermarci sul concetto di sfruttamento, che si verifica quando il datore di lavoro approfitta dello stato di inferiorità della parte debole del rapporto in termini di retribuzione, orario, ambiente, controllo, durata, risoluzione. D’altro canto l’anticipazione dell’ammaestramento e dell’impiego di sfruttati da allevamento nella struttura scuola-fabbrica è risorsa preziosa nel rilancio dell’economia. Di qui la violenza della polizia contro la protesta degli studenti contro l’obbligo ad essere esposti alle regole dello sfruttamento. È bene quindi informare che lo sfruttamento è punito severamente dal codice penale, non solo nelle ipotesi più gravi di riduzione e mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.), ma anche nei casi più lievi nei quali vi sia comunque l’approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore (art. 603 bis c.p.), che si trova in “posizione di vulnerabilità”, definita dalla direttiva 2011/36/Ue del Parlamento europeo, all’art. 2, par. 2, come “una situazione in cui la persona… non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”. L’approfittamento si consuma soprattutto in osservanza della strategia del profitto, che porta a tagliare sui costi del lavoro e della sicurezza e a privilegiare gli investimenti nelle materie. La violazione di queste norme non è certo episodica ed è stata favorita dalla progressiva riduzione delle norme di tutela dei lavoratori, soprattutto in materia di durata del rapporto e licenziamenti, in nome del mito del liberismo, che ha reso sostanzialmente precari tutti i lavoratori, non più in grado di reagire e pretendere l’applicazione dei loro diritti. In attesa di nuove maggioranze parlamentari e del ripristino di una riformatrice conflittualità sociale, può sembrare realistico proporre un percorso di studio e di informazione sulla tipizzazione delle azioni di sfruttamento. Ricordiamo quindi che, in base all’art. 603 bis c.p. si ha sfruttamento in caso di “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato…reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie…sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro…sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”. In questa situazione di eterna emergenza di criminalità economica, nasce l’esigenza di divulgare in linguaggio corrente le tipizzazioni dello sfruttamento e le concrete esperienze, quale strumento di autodifesa. Con l’efficace assistenza del sindacato e del garantismo civile e penale, si può iniziare la diffusione del sapere sulla consumazione di questo delitto, sui dolorosi segnali trasgressivi e sulla reale punizione dei trasgressori. Così forse il bracciante agricolo senza contratto, il dipendente a tempo determinato ma ad orario illimitato, l’edile e il metalmeccanico ad alto rischio ma a basso salario, lo studente costretto ad esordire nel mondo degli sfruttati e tutte le innumerevoli vittime della fantasia padronale potranno reagire, rifiutando il ruolo di sfruttati o schiavi. Fine vita, ora la legge lungo la rotta tracciata dalla Consulta di Mons. Vincenzo Paglia Famiglia Cristiana, 24 febbraio 2022 Una cosa è lasciar morire, un’altra uccidere. Il testo in discussione è un buon punto da cui partire. Con alcuni auspicabili emendamenti Dichiarando il quesito referendario non ammissibile, la Corte Costituzionale ha anche chiarito diversi equivoci. La domanda era infatti presentata come l’affermazione di un diritto a non soffrire. Espressione di forte impatto emotivo, ma di scarso rigore concettuale. Il diritto che si può legittimamente sostenere non è di annullare le sofferenze, ma di alleviarle. Sappiamo bene come esse facciano parte della vita, per esempio in certe fasi critiche della crescita personale o della vita sociale. Il problema maggiore, però, è che il quesito faceva coincidere l’eliminazione delle sofferenze con quella del sofferente, mettendo in gioco la stessa vita. Per di più si lasciava intendere che il tema riguardasse pazienti in gravissime condizioni cliniche. La Corte stessa aveva depenalizzato, in circostanze molto gravi, l’assistenza al suicidio, modificando con la sentenza 242/2019 l’articolo 580 del Codice penale. Ma il quesito referendario riguardava l’articolo 579, sull’“omicidio del consenziente”, proponendo di abrogarne le sanzioni, per di più prescindendo da ogni riferimento allo stato di salute. Molto opportunamente il presidente della Corte, Giuliano Amato, ha precisato che si sarebbe così aperto “all’impunità penale di chiunque uccide qualcun altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra”. Per questo motivo, la proposta andava ben oltre l’ambito sia dell’assistenza al suicidio sia dell’eutanasia. Questioni su cui, ha spiegato Amato, è compito del Parlamento legiferare. La proposta di legge sull’assistenza al suicidio è un tentativo di rispondere a questa responsabilità. Punto di convergenza tra diverse posizioni essa può costituire, con alcuni auspicabili emendamenti, una accettabile mediazione. Infatti, in una società pluralista non si può pretendere di far coincidere la sfera etica con quella giuridica: sono due dimensioni distinte, anche se non separate, per cui occorre trovare un terreno comune. Appare qui la questione della sofferenza. Un ambito in cui le cure palliative possono fornire un apporto determinante, ancora troppo poco conosciuto e praticato. Il loro obiettivo è di accompagnare a tutto campo la persona malata e non più guaribile: trattare i sintomi e alleviare il dolore, senza accelerare né rinviare indebitamente la morte. Siamo nella linea richiamata da Papa Francesco, per cui la morte “va accolta, non somministrata”, secondo “quella frase del popolo fedele di Dio: “Lascialo morire in pace, aiutalo a morire in pace”. Si custodisce così quella fondamentale caratteristica di evento in cui, come diceva il cardinale Martini, la persona è chiamata a “disporre di sé nella sua totalità, anche se disporre di sé comporta accettare che qualcosa viene nella propria esistenza non da sé”, in un gesto di radicale affidamento. Confine italo-francese: un muro invisibile di violazioni e morte per i migranti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 febbraio 2022 L’Italia e la Francia, si rendono complici di un’emergenza in termini umanitari e sanitari. Solo di recente sono morti tre migranti, tra i quali un minore. Secondo le organizzazioni umanitarie, sono effetti collaterali di precise scelte politiche che vanno cambiate radicalmente. Uno lo hanno trovato carbonizzato, nei primi di febbraio, semi disintegrato su una linea ferroviaria alla frontiera italo francese. Non sono riusciti ad identificarlo. Un altro ancora è stato ritrovato il 26 gennaio a Salbertrand, in alta Val di Susa, vicino ai binari della Torino-Modane. Quest’ultimo lo hanno identificato grazie alle impronte digitali: aveva 15 anni e fuggiva dall’Afghanistan. Sono tragedie che riguardano i migranti che tentano di varcare la frontiera tra Italia e Francia. Un muro invisibile, ma dove si consumano violazioni dei diritti fondamentali. Come denunciano diverse associazioni dei diritti umani come l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e Medu (Medici per i diritti umani), alle frontiere vengono lesi il diritto di asilo, anche di minori e soggetti vulnerabili, e altri diritti fondamentali quali il diritto alla salute e quello a poter avere accesso ad una anche minima forma di accoglienza così da evitare gravi forme di emarginazione. Viene inoltre leso il diritto alla verità nel momento in cui le persone decedute rimangono senza identità. Le associazioni umanitarie: modificare le politiche di gestione delle frontiere - Per questo motivo, un numero consistente di organizzazioni umanitarie, hanno lanciato un appello alle autorità italiane e francesi di modificare le politiche relative alla gestione delle frontiere interne, con particolare riferimento alle modalità con le quali i controlli di polizia e di frontiera vengono svolti, garantendo il pieno rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti, in particolare, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché degli obblighi in materia di protezione internazionale e di non respingimento; così come chiedono alle autorità locali di predisporre servizi adeguati a rispondere alle esigenze e al bisogno di protezione dei migranti presenti nei luoghi di frontiera garantendo in primo luogo accoglienza anche alle persone in transito. Valle di Susa: lo snodo principale di due cammini transfrontalieri - Uno dei corridoi principali di passaggio verso la Francia è l’Alta Valle di Susa. Più nello specifico Oulx è snodo nell’Alta Valle di due cammini transfrontalieri: in direzione di Bardonecchia (Frejus e Colle della Scala) e verso Claviere, Monginevro e Briançon. A partire dal 2017 l’Alta Valle di Susa, e in particolare Bardonecchia, ha iniziato ad essere attraversata da un flusso consistente di migranti di provenienza sub sahariana, uomini molto giovani che cercavano un valico alternativo a Ventimiglia. A partire dal 2018 i flussi hanno continuato a crescere e progressivamente si sono spostati verso il valico del Monginevro. Durante la stagione estiva questi percorsi, seppur faticosi, non presentano particolari difficoltà, in inverno, al contrario, mettono a rischio la vita per le condizioni estreme e per le criticità delle alte quote innevate. Il rischio di perdersi e di ipotermie è estremamente alto per persone che non conoscono questo habitat. Dal 2017 ad agosto del 2020 circa 10.000 migranti hanno attraversato le Alpi - Secondo una stima redatta da Medu (medici per i diritti umani), dal 2017 ad agosto del 2020 è probabile che circa 10.000 persone abbiano attraversato le Alpi passando dalla Valle di Susa. Le stime divergono anche perché non tutti coloro che passano si fermano negli stessi rifugi. Nel 2019 gli sbarchi dalla rotta del Mediterraneo centrale hanno cominciato a diminuire sensibilmente; nel 2020, il periodo di lockdown ha di fatto determinato un assottigliarsi dei flussi, ma non li ha interrotti. In seguito, però, a partire dalla fine della quarantena, si è di nuovo assistito ad un incremento massiccio. Nei mesi di luglio e agosto scorso, circa 570 persone hanno transitato da Oulx e sono arrivate al “Refuge Solidaire” di Briançon. Il trend ha continuato a poi crescere, in cui si può ipotizzare più del raddoppio dei numeri proposti. Fratture non ricomposte, infezioni, neonati con dissenteria - La maggior parte dei migranti, attualmente provengono dalla rotta balcanica. Sono afghani, iraniani, mediorientali, molti curdi, ma anche magrebini che hanno scelto di non passare dalla Libia o attraversare il mare. Non solo uomini soli, ma soprattutto famiglie con numerosi figli anche in tenera età o nati lungo il cammino. Ma per rendere bene l’idea, bisogna partire dai dati certi, anche se non recenti. Nell’estate del 2020 - secondo il rapporto Medu - sono stati contati 130 tra bambini ed adolescenti e 45 famiglie che hanno soggiornato temporaneamente a Oulx. La presenza di neonati, di donne gravide o puerpere ridefinisce l’emergenza e rende necessarie attenzioni mediche, ginecologiche e pediatriche, che sono del tutto carenti. Coloro che arrivano hanno alle spalle viaggi che vanno dai due ai quattro anni (a volte sei) e l’attraversamento della Croazia con le sofferenze dovute ai lunghi cammini (a volte più di 15 giorni a piedi e molteplici tentativi di violenze della polizia e delle milizie), arrivano stremati, in condizioni di salute assai problematiche, con l’urgenza di ripartire a causa dei debiti accumulati nel viaggio e della disponibilità di denaro ormai in esaurimento. La maggioranza denuncia traumi, infezioni, fratture non ricomposte agli arti inferiori e spesso piaghe ai piedi e infezioni dovute a rovi e spine, che si sono infettate. Sempre più arrivano neonati, bambini con patologie gravi: Medu racconta di un neonato con sindrome down, un altro, di 7 mesi, con tosse e dissenteria protratta per più di un mese. Senza parlare delle donne che hanno appena partorito o che hanno patito aborti, minori che hanno perso i contatti con i genitori nei Balcani. Medu rivela due casi di donne gravide con diabete. Sono proprio le donne che presentano maggiori fragilità e segni di sofferenza anche psichica: soprattutto depressione, attacchi di panico, angoscia. L’accoglienza del rifugio Massi in Val di Susa - Fino al 21 marzo del 2021, a Oulx i migranti di passaggio in alta Valle di Susa potevano contare anche sulla casa cantoniera occupata dai militanti No Tav. Dopo lo sgombero ordinato dalla prefettura, il flusso si è addensato tutto intorno al centro di accoglienza “Rifugio Fraternità Massi”, vicino alla stazione ferroviaria italiana. La struttura dispone di camere con bagno su tre piani, di locali cucina e refettorio adeguati al volume degli ospiti in transito e di un ampio spazio esterno. Il centro è funzionante ogni giorno h24. Gli ospiti possono usufruire di un pasto caldo, una doccia, un posto letto e la colazione. Il “Rifugio Fraternità Massi” è nato con lo scopo di far fronte all’emergenza migranti esclusivamente dal punto di vista umanitario, un servizio di accoglienza libero e anonimo e un punto di riferimento per queste persone che sfidano il freddo e la montagna. Il centro è divenuto anche uno spazio aperto al volontariato di valle e un osservatorio delle dinamiche migratorie che interessano il territorio. Nato come punto di accoglienza libero ed anonimo, è divenuto presto un riferimento per i migranti che sfidano il freddo e la montagna per proseguire il proprio cammino verso altri paesi europei. Sempre se riescono ad attraversare il muro invisibile eretto nel 2015, quando la Francia, con una decisione improvvisa e unilaterale, ripristinò i controlli al confine con l’Italia per bloccare il passaggio dei migranti decisi a raggiungere altri Paesi del continente. E alcuni di loro muoiono. L’idea di Europa che ora è in bilico di Antonio Polito Corriere della Sera, 24 febbraio 2022 L’Unione europea ha preso forza ed è cresciuta alla caduta dell’Urss. Ma se tutto ciò che è avvenuto dalla fine dell’Impero a oggi può essere messo in discussione, la Ue stessa è messa in discussione. Tutti presi a difendere la loro indipendenza da Bruxelles o dai vicini, gli Stati europei si sono scoperti dipendenti da Mosca per l’energia, e dagli Stati Uniti per la difesa. Il combinato disposto di queste due dipendenze rende l’Europa impotente di fronte alla crisi ucraina. Si dice che “l’Europa si fa nelle crisi”. È stato così molte volte, dalla Guerra fredda al Covid: le grandi emergenze internazionali hanno spesso rafforzato e rilanciato la solidarietà reciproca. Capiremo presto, a partire dal vertice straordinario dei capi di Stato e di governo di stasera, se anche stavolta sarà così, e ce lo auguriamo. Ma questa crisi appare già adesso diversa, peggiore, potenzialmente distruttiva per il progetto politico e ideale dell’Unione. Putin sta infatti riscrivendo con i carri armati il nuovo ordine europeo uscito dalla Rivoluzione del 1989 e dalla fine dell’Impero comunista. Quando descrive l’Ucraina né più né meno come un’espressione geografica, “interamente creata dalla Russia”, ne cancella la storia di Paese sovrano iniziata proprio nel 1991, l’anno della dissoluzione dell’Urss, con un atto di indipendenza che fu votato dal 90% degli ucraini. Ma se tutto ciò che è avvenuto dalla fine dell’Impero a oggi può essere messo in discussione, l’Unione europea stessa è messa in discussione. Essa infatti rispose al crollo del Muro di Berlino con l’allargamento a Est, per unificare il continente. Fu un processo costoso e anche generoso, riabbracciare e sostenere i “fratelli” che erano rimasti intrappolati dall’altra parte della Cortina di Ferro dopo la Seconda guerra mondiale. Generoso perché diede una prospettiva a Paesi la cui economia e la cui società erano state praticamente distrutte dal comunismo. E costoso, perché comportò l’annacquamento del progetto europeo, diluito su un territorio troppo vasto e troppo diverso per poter ancora sperare nella “unione politica” sognata dai fondatori. E infatti lo vediamo da anni: i valori su cui si fonda l’Unione sono ormai apertamente contestati proprio dai Paesi che per primi si ribellarono al giogo sovietico. La Polonia che fu di Solidarno??, l’Ungheria di Imre Nagy, la Cechia di Václav Havel, si sono trasformati nei protagonisti di quella secessione strisciante che va sotto il nome di Gruppo di Visegrád. Si ricrea un po’ alla volta, nei comportamenti e nei principi prima ancora che nella politica, un confine tra l’Europa e l’Est. E non è un caso se alcuni osservatori cominciano a parlare di una “nuova Helsinki”, riferendosi all’accordo di sicurezza e cooperazione che fissò i rapporti tra Ovest ed Est in Europa nel 1975, quando il comunismo era ancora ben saldo. Si farebbe del resto un torto alla strategia di Putin e alla chiarezza con cui l’ha espressa nel suo discorso se davvero credessimo che si sta mangiando a fette la sovranità ucraina solo per impedire che Kiev entri nella Nato: vuole l’Ucraina, vuole un governo vassallo, vuole spostare a Ovest i confini del suo sogno imperiale. Macron e Scholz, i leader di Francia e Germania, si erano del resto affrettati ad andare a Mosca per giurare che l’allargamento dell’Alleanza Atlantica non era all’ordine del giorno, né per oggi né per domani. Lui ha incassato. Ma poi ha fatto lo stesso ciò che intendeva fare, dando agli europei una prova tangibile e cocente della loro marginalità: alla mattina l’Eliseo faceva sapere che Mosca aveva accettato la proposta di un vertice bilaterale tra Putin e Biden, e alla sera il Cremlino riconosceva le due repubbliche del Donbass e dava il via alla escalation militare. In questo modo, paradossalmente, l’autocrate russo ha finito per dar ragione ai falchi americani, che volevano Kiev nella Nato per difenderla, e torto proprio agli europei, che erano invece più comprensivi delle ragioni russe e pronti al compromesso. Ma se la crisi ucraina sta mettendo a repentaglio l’assetto geopolitico su cui si fonda da trent’anni il progetto dell’Unione, presto metterà alla prova anche la sua compattezza e unità. Putin ha nelle mani il rubinetto del gas, fonte da cui l’Italia - tanto per fare un nome - è “totalmente dipendente”, parola del ministro Cingolani. E la cosa straordinaria, che la dice lunga sulla lungimiranza e l’autonomia delle classi dirigenti europee, è che dal 2014, anno dell’invasione della Crimea, l’Europa ha accresciuto, non ridotto, la sua dipendenza energetica dalla Russia. Hanno messo la testa nella bocca dell’orso, ricevendone non di rado pacche sulle spalle, consulenze e prebende, e qualche finanziamento ai partiti sovranisti. Non sarà facile ora per questi stessi leader spiegare alle loro opinioni pubbliche che dovranno pagare un prezzo, in bolletta e in esportazioni, al programma di sanzioni contro Mosca. Se nel 1939 gli europei si domandavano se valesse la pena “morire per Danzica”, oggi non sembrano disposti nemmeno a un weekend di austerity per Kiev. Ecco perché lo scatto di orgoglio, dignità, volontà politica e spirito unitario, cui sono chiamati oggi i capi di governo è davvero vitale per l’idea stessa di Europa. Inesistente militarmente, divisa politicamente, ricattabile economicamente, nel giro di pochi giorni l’Unione rischia altrimenti di perdere anche quello che è stato finora il suo massimo merito storico: aver messo fine alle guerre sul continente. Ucraina, i pacifisti italiani senza voce nel confronto Usa-Russia di Corrado Zunino La Repubblica, 24 febbraio 2022 “Stanchi e demoralizzati”. Cecilia Strada: “La pandemia ha ristretto gli orizzonti. E pesa la frustrazione di constatare che non siamo mai riusciti a impedire un conflitto”. Angelo Pezzana: “Questo pacifismo non vale più, dopo 80 anni non è abituato, come le democrazie, a contrastare i dittatori come Putin”. Pacifismo accennato, timido si può dire. Sulla facciata della residenza comunale di Rimini da ieri è esposta, al vento artico, la bandiera arcobaleno. Andando a ritroso, sabato scorso il Padre delle periferie del mondo, Alex Zanotelli, comboniano, ha radunato con un megafono in Largo Berlinguer vecchi attivisti di Napoli: “I governi dovrebbero considerare la guerra un tabù alla stregua dell’incesto”, ha detto, “e cancellarla dalla faccia della terra”. Giovedì, prima di tutti, la Comunità di Sant’Egidio ha riempito Piazza Santi Apostoli, Roma: luci dello smartphone accese con un tempo instabile. “Vogliamo andare avanti nei prossimi giorni”. La Tenda della pace a Messina. I sindaci del Fiorentino, da Fiesole a Campi Bisenzio. Lodevole, ma limitato. Oggi quel movimento che nutrì gli anni a cavallo del Duemila appare residuale. Le bandiere del 2003 non si vedono ai balconi dei civili italiani e i tre milioni che assediarono la capitale contro l’inganno della guerra a Saddam sono una storia lontana. La domanda, cattiva, insegue le anime belle di allora: dov’è il pacifismo nel 2022 quando i carrarmati di Putin sono nel Donbass? E, soprattutto, dove sono i pacifisti? “La domanda è, in verità, posta male”, esordisce Cecilia Strada, responsabile della comunicazione di ResQ, figlia del medico Gino e dei suoi insegnamenti: “La guerra non è la soluzione, è la malattia”, diceva. Oggi Cecilia dice: “I pacifisti sono qui e tutti i giorni provano a cambiare la cultura che porta alle guerre. Non escono da un armadio ogni volta che c’è un nuovo conflitto, ma bisogna mettere un microfono davanti alle loro bocche, accendere una telecamera sui loro visi. Siamo negli ospedali nelle zone più difficili, andiamo nel Mediterraneo a salvare vite e nelle scuole a parlare di Costituzione. Certo, tutto è più difficile di vent’anni fa, allora non si metteva in discussione il salvataggio di un uomo in mare. E così è cambiata la percezione di una guerra. Forse in questo raggelamento delle coscienze c’è la frustrazione nel constatare che non siamo mai riusciti a impedire un conflitto e che molti politici che stavano con noi, vent’anni dopo sono alfieri del “peacekeeping”, le missioni militari a fini umanitari. Sì, la pandemia ha ristretto i nostri orizzonti, quando avrebbe dovuto allargarli”. Angelo Pezzana, già radicale, fondatore del Fuori, sostiene che questo pacifismo non è più niente e che dopo ottant’anni di pace “non è abituato, così come le nostre democrazie, a combattere i dittatori alla Putin”. Un arnese pacifista di quegli anni in continua mobilitazione è Don Vitaliano Della Sala, parroco di Mercogliano, provincia di Avellino. Diceva messa ai ragazzi antagonisti che con le gambe sui binari fermavano “i treni della morte”. Adesso, con la solita sincerità, dice: “Quel mondo lì, il pacifismo antagonista, oggi fatica a schierarsi contro Putin perché dovrebbe dar ragione agli americani. La verità è che è cambiato un modo di sentire, si è allargato il disinteresse. Nessuno crede davvero che il conflitto in Ucraina possa coinvolgerlo. È difficile persino organizzare una veglia per l’Ucraina in chiesa, anche se molte badanti sono nostre fedeli. Il pacifismo ha preso colpi pesanti. Ricordo quei tempi. Il G8, poi le Torri gemelle. O stavi con lo Stato o con i terroristi. La marcia di Firenze, le bandiere sui balconi, i tre milioni di Roma. E poi la guerra in Iraq è esplosa comunque, un mese dopo. L’idea di essere inutili ti cambia. Il papa, a volta, sembra solo. Io prego ogni domenica contro il conflitto in Ucraina, ma la gente non sembra preoccupata”. Reduce di quel racconto contro le guerre permanenti è Luca Casarini, nel luglio 2001 voce delle Tute bianche, schiantate anche loro a Genova. “Considero una sciagura il fatto che il mondo non abbia un attivismo pacifista come quello che ho conosciuto io, un’opinione pubblica reattiva. Quella presenza forte non impediva che le guerre accadessero, ma era utile per la formazione di una coscienza. Ci vuole una critica nelle piazze, non si può delegare tutto a un’opinione digitale. Oggi non mancano le informazioni sulla guerra, mancano le persone in strada che fisicamente ci si oppongono. Il conflitto in Ucraina è disumano e il pacifismo dei corpi è potente, ma oggi noi siamo vecchi insieme al nostro corpo e al massimo possiamo istigare una diserzione, così come tutti i giorni facciamo i “passeur” con i migranti. Certo, non combatteremmo mai con le truppe della Nato, ma nessuno può dirci che stiamo con lo zar Putin. Noi pacifisti se vivessimo in Russia saremmo già in carcere”. La Corte penale internazionale contro i golpisti del Myanmar di Emanuele Giordana Il Manifesto, 24 febbraio 2022 Contro la giunta il processo per il massacro dei rohingya alla Corte internazionale di giustizia e una nuova mobilitazione nel primo anniversario delle manifestazioni seguite al golpe nel febbraio 2021. Si muove anche l’Ue: quarto ciclo di sanzioni a società e membri del governo golpista. Un Paese che si ferma per protestare nonostante le minacce. I generali golpisti alla sbarra alla Corte di Giustizia dell’Aja con l’accusa di genocidio. La decisione della Ue di colpire i grandi gruppi industriali del Paese. L’ultimo schiaffo della giunta militare al tentativo negoziale dei Paesi vicini. È una settimana importante per il Myanmar quella che si è aperta lunedì con il procedimento che vede imputato Tatmadaw, l’esercito birmano, con un’accusa di genocidio contro la comunità rohingya e che è proseguita ieri con un ennesimo sciopero nazionale nel Paese delle mille pagode. Ma andiamo con ordine. Ieri si è manifestato in piccoli gruppi in varie parti del Paese sfidando le minacce delle autorità di arrestare chiunque si unisse alle manifestazioni anti giunta. La giornata - il 22 del 2 del 2022 - segnava l’anniversario della cosiddetta “Rivoluzione dei 5-2” dello scorso anno con un massiccio sciopero generale a livello nazionale contro Tatmadaw tre settimane dopo il golpe del primo febbraio. La protesta di ieri è così diventata un nuovo appuntamento chiamato dei 6-2. Lunedì è stata invece la prima giornata del procedimento aperto alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja (Icj, il principale organo giudiziario delle Nazioni unite) su richiesta del Gambia che vede imputato il Myanmar per genocidio sul dossier rohingya, una comunità in gran parte espulsa in Bangladesh nel 2017 quando non uccisa o torturata in Myanmar dove ne restano 600mila. Gli avvocati birmani hanno chiesto l’archiviazione del caso: la corte dell’Onu non avrebbe giurisdizione in quanto non è un caso tra Stati poiché il Gambia ha agito per conto dell’Organizzazione della cooperazione islamica che non lo è. Inoltre perché non esiste una controversia legale tra i due Paesi. I legali del Gambia risponderanno oggi alla ripresa delle udienze. Ma il processo ha sollevato un caso perché molti osservatori hanno sostenuto che accreditare i militari come rappresentanti del Myanmar equivale a riconoscere de facto il golpe. All’inizio dell’udienza però, il presidente della corte, giudice Joan Donoghue, ha osservato “che le parti in un caso controverso davanti alla corte sono Stati e non particolari governi”. Quanto all’esecutivo clandestino birmano (Nug), che avrebbe voluto essere chiamato in causa, ha al contempo chiarito di non volersi opporre al giudizio della corte come, prima del golpe, volevano invece fare i legali del Myanmar sin dalla prima udienza cui si era presentata Aung San Suu Kyi nel 2019 e come ora chiedono i golpisti. Sempre lunedì, Il Consiglio europeo ha adottato un quarto ciclo di sanzioni al Myanmar. Misure che prendono di mira altre 22 persone e quattro entità, inclusi esponenti del governo e società statali che forniscono risorse sostanziali al Tatmadaw o società private strettamente legate ai vertici militari: si tratta di Htoo Group, Ige (International Group of Enterpreneurs), Mining Enterprise 1 (ME 1) e Myanma Oil and Gas Enterprise (Moge). Le misure restrittive - informa una nota - si applicano ora a un totale di 65 persone fisiche e 10 entità e includono congelamento di beni e divieto di negoziare fondi e transazioni con persone cui è impedito entrare o transitare nel territorio della Ue. Domenica invece la giunta militare ha respinto la richiesta dell’inviato speciale dell’Asean (dieci Paesi del Sudest asiatico) di incontrare esponenti del governo clandestino (Nug) che secondo Tatmadaw sono terroristi. Il ministro degli Esteri cambogiano Prak Sokhonn ha in mente un viaggio in marzo, ora però messo in dubbio dall’ennesimo rifiuto dei militari che non sembrano voler tenere aperto nemmeno il più tenue spiraglio negoziale.