Un’altra nomina è possibile. Perché salvare il Dap dai pm di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 febbraio 2022 Ma chi lo ha detto che il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, cioè l’articolazione del ministero della Giustizia che si occupa della gestione dei circa 200 istituti di pena sparsi per il Paese, debba per forza essere un magistrato, per di più con esperienza da pubblico ministero (e magari pure antimafia)? È la domanda che circola tra gli addetti ai lavori in seguito all’annuncio delle dimissioni dell’attuale capo del Dap, Bernardo Petralia, con un anno di anticipo sulla data di scadenza del suo incarico. Petralia ha motivato la sua richiesta di pensionamento anticipato con il desiderio di dedicarsi alla famiglia, riaprendo la partita per la nomina a uno dei posti più ambiti della pubblica amministrazione. Un rilievo dovuto non solo all’indubbio prestigio della carica (il capo del Dap è equiparato ai comandanti generali degli altri tre corpi di polizia), ma anche al lauto trattamento economico spettante (uno stipendio di circa 320 mila euro annui, pensionabili a vita e non legati alla durata dell’incarico). La domanda posta in avvio sorge da una statistica eloquente: “Dei 14 capi che si sono alternati alla guida del Dap, 12 provenivano dalle procure e la maggior parte dalle Direzioni distrettuali antimafia”, sottolinea al Foglio, l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane. Anche Petralia non è sfuggito a questa statistica, avendo svolto per decenni la funzione di pubblico ministero antimafia. Anche Petralia, come i suoi predecessori, non sarà ricordato per un particolare slancio riformatore nella gestione della delicata amministrazione penitenziaria. Del resto, è stato lo stesso Petralia poche settimane fa a dirsi “addolorato e intristito” per la situazione carceraria: “Non posso dire di essere soddisfatto, di aver raggiunto degli obiettivi. E nemmeno di vedere l’orizzonte degli obiettivi a stretto passo. Io visito due istituti a settimana. E delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”. Insomma, sono queste parole di “resa”, unite ad altre dichiarazioni rilasciate da Petralia di recente (“A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere”), a rendere chiaro l’ennesimo fallimento della prassi che vede la gestione dell’amministrazione penitenziaria essere affidata a un pubblico ministero, cioè a un soggetto che nulla o poco sa della realtà carceraria e che lavora principalmente secondo un’ottica repressiva (spesso mafiocentrica) e di tutela della sicurezza. Tutto il contrario di ciò che la gestione di una macchina così complessa come quella penitenziaria richiederebbe: elevata conoscenza specifica del settore penitenziario, attitudini manageriali e organizzative, maggiore apertura alle finalità costituzionali di rieducazione del condannato, persino conoscenze di base di psicologia e sociologia per una migliore definizione di effettivi percorsi di rieducazione dei detenuti. La legge (n. 395/1990) stabilisce che al vertice del Dap possano essere nominati (dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro della Giustizia) o magistrati di Cassazione con funzioni direttive superiori o dirigenti generali di pari qualifica, provenienti quindi dall’amministrazione pubblica penitenziaria. Dopo questa lunga serie di pm prestati - con scarso successo - alla gestione degli istituti di pena, sembra sia arrivato il momento di cambiare strada: scegliendo come nuovo capo del Dap ancora un magistrato, ma proveniente dalla giurisdizione di sorveglianza e non dalla pubblica accusa, oppure una figura interna allo stesso dipartimento. “Escluderei la nomina di un magistrato, ancor di più di un pm, come è stato finora”, afferma Polidoro, “perché si tratta di una nomina che mira esclusivamente alla sicurezza delle carceri, mentre la detenzione deve mirare soprattutto alla rieducazione e al recupero dei detenuti”. “Si potrebbe pescare all’interno della stessa amministrazione penitenziaria, dove c’è grande esperienza - aggiunge Polidoro - ma ciò che è cruciale è che a capo del dipartimento si affermi una figura con attitudini manageriali, cioè dotato delle competenze necessarie a gestire un dipartimento che, per la sua dimensione e complessità, è assimilabile a un’azienda”. “Che competenze può avere un magistrato a dirigere un dipartimento così grande e chiamato a gestire una serie di questioni così delicate (istituti di pena, polizia penitenziaria, percorsi di rieducazione e di reinserimento dei detenuti)?”, si chiede ancora Polidoro. Spetterà alla ministra della Giustizia Marta Cartabia individuare il successore di Petralia e quindi il compito di scegliere se proseguire nella gestione del sistema penitenziario in un’ottica repressiva o inaugurare, finalmente, una strada votata alla prospettiva rieducativa indicata dalla Costituzione. Ergastolo ostativo, riforma più vicina di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 23 febbraio 2022 La Commissione giustizia della Camera approva un testo condiviso. A due mesi dalla scadenza fissata dalla Consulta, i partiti trovano l’intesa sulla revisione. Fa un passo in avanti la riforma dell’ergastolo ostativo, licenziata ieri dalla commissione Giustizia della Camera dei deputati. “Abbiamo approvato il testo del nuovo articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario”, ha annunciato al termine della seduta il presidente della commissione, Mario Perantoni (M5s), relatore del provvedimento, dicendosi “soddisfatto” per l’“ottimo lavoro” nello scrivere un testo che “nel rispetto dei princìpi costituzionali e della sentenza della Consulta, ribadisce che la lotta alla mafia è una priorità che non può far abbassare la guardia dello Stato”. L’ergastolo ostativo è quel regime detentivo (previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) che esclude il condannato da ogni beneficio (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà). Viene comminato ad autori di reati gravi, come mafia o terrorismo, nel caso in cui il colpevole non collabori con la giustizia o che la sua collaborazione sia impossibile o irrilevante. In tali casi, basati sulla presunzione di pericolosità sociale del detenuto, l’ergastolo diventa effettivamente un “fine pena mai”. L’anno scorso, le Camere sono state sollecitate a riformare la norma da un’ordinanza della Corte costituzionale, che nell’aprile 2021 ha sancito l’incostituzionalità della disciplina perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Carta e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tuttavia, poiché “l’accoglimento immediato delle questioni” avrebbe rischiato “di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”, la Consulta ha dato un anno di tempo al legislatore per modificare la legge, fissando come scadenza il 10 maggio prossimo. Ieri dunque la Camera ha battuto un primo colpo, anche se il percorso non è concluso, perché il testo ora dovrà andare al voto in Aula e poi al Senato. “Con la norma approvata - chiarisce Perantoni - potranno godere dei benefici penitenziari solo quei mafiosi che abbiano realmente provato di aver interrotto qualsiasi contatto con il sodalizio criminale e, dunque, di non rappresentare più alcun pericolo per la società”. Nelle precedenti sedute erano stati approvati emendamenti che fissavano le condizioni per cui i condannati per reati gravi, seppur non “collaboranti”, possono fare richiesta dei benefici di legge. Questi ultimi potranno “essere concessi ai detenuti e agli internati per i delitti ivi previsti, anche in assenza di collaborazione”, a patto che partecipino “al percorso rieducativo”. In più, oltre alla dissociazione dal proprio gruppo criminale, dovranno essere accertati elementi che consentano di escludere “l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. E sarà il giudice di sorveglianza, prima di ammettere il reo ai benefici, a verificare “la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. Benefici anche per chi non collabora se prova di aver reciso definitivamente legami di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2022 Testo approvato in Commissione Giustizia Camera. Per gli ergastolani liberazione condizionale dopo 30 anni. Per la decisione in campo il tribunale di sorveglianza in funzione collegiale. La Commissione Giustizia della Camera ha approvato la riforma dell’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, sollecitata lo scorso maggio dalla Corte costituzionale con una ordinanza che aveva dichiarato parzialmente illegittima la norma. Per il presidente della Commissione Mario Perantoni (M5s) il testo è “un ottimo risultato”. E aggiunge: “Con la norma approvata potranno godere dei benefici penitenziari solo quei mafiosi che abbiano realmente provato di aver interrotto qualsiasi contatto con il sodalizio criminale e, dunque, di non rappresentare più alcun pericolo per la società”. A decidere sarà il Tribunale di sorveglianza in funzione collegiale che dovrà valutare la recisione definitiva dei collegamenti con la criminalità. A fronte di possibili dubbi sarà il condannato a dover fornire elementi di prova contraria. Si attende ora il parere delle altre Commissioni, in particolare Bilancio e Affari costituzionali. Giovedì poi la Commissione Giustizia voterà formalmente il mandato al relatore, che è lo stesso presidente della Commissione Perantoni. Nessuna traccia invece degli emendamenti del governo sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che non sono stati ancora depositati in Commissione. Diversi deputati hanno chiesto alla Presidenza di sollecitare il governo alla presentazione degli emendamenti che dalla scorsa settimana sono all’attenzione della Ragioneria. Tornando alla riforma dell’articolo 4-bis, va ricordato che la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 97 del 2021 ha stabilito la non conformità alla Carta delle norme che individuano nella collaborazione “(...) l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale (...)” per contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena di cui all’articolo 27, terzo comma, della Costituzione. La scelta dell’ordinanza, in luogo della sentenza, fu dovuta al fatto la Corte decise di dare al legislatore un tempo congruo di valutazione e di studio per modificare la norma, senza dunque interventi demolitori, che venne fissato al 10 maggio 2022. Il nuovo testo ora prevede che i benefìci di cui al comma 1, e cioè il lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, possano essere concessi ai detenuti e agli internati per i gravissimi delitti ivi previsti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento. E purché alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso. Nonché permettano di escludere il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Procedura per la concessione dei benefici - Il giudice, prima di decidere sull’istanza, chiede altresì il parere del Pm o, per i delitti indicati dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del Cpp, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Inoltre acquisisce informazioni dalla direzione dell’istituto ove l’istante è detenuto o internato e dispone, anche nei confronti del nucleo familiare, accertamenti patrimoniali e sul tenore di vita. Quando emergono indizi di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e eversiva o con il contesto, o anche solo il pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria. In ogni caso, il giudice deve indicare specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza. Condizioni per la liberazione condizionale - Vengono aumentati i limiti minimi di pena da scontare prima di poter accedere alla liberazione condizionale: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Chi decide sui benefici - Il tribunale di sorveglianza, collegiale, deciderà sul lavoro esterno e sui permessi premio per i condannati per reati di mafia e terrorismo. Il tribunale di sorveglianza è già competente a decidere sulla concessione degli altri tipi di benefici. Ergastolo ostativo, benefici anche ai mafiosi ma dopo aver scontato due terzi della pena di Francesco Grignetti La Stampa, 23 febbraio 2022 In Italia gli ergastolani sono circa milleottocento; di questi, quelli definiti “ostativi”, condannati cioè a morire in carcere, sono più di milleduecento: ultimi casi noti, Provenzano e Riina. Conciliare rigore contro i boss mafiosi e umanità: non è una sfida facile, ma il Parlamento deve per forza riscrivere le regole del carcere ostativo, quello che si applica ai terroristi e mafiosi non pentiti e che però la Corte costituzionale ha bocciato alcuni mesi fa (e il 10 maggio prossimo tornerà sull’argomento, per verificare quel che ha deciso il Legislatore). La commissione Giustizia della Camera ci sta provando; ora è pronto un testo che sarà votato presto dall’Aula. Ovviamente non è facile trovare un nuovo punto di equilibrio tra la necessità di sicurezza, che impone di troncare i legami tra i boss e le cosche, e lo spirito della Costituzione, per la quale la pena deve essere “rieducativa” e non si può mai, in nessun caso, neppure in presenza del peggior assassino, stabilire a priori che dovrà morire in cella. Ma ciò era appunto quel che prevedeva l’articolo 4bis dell’ordinamento carcerario, da non confondere con il 41bis, smantellato dalla Consulta: vietava seccamente che alcune categorie di detenuti potessero beneficiare di sconto di pena, semilibertà, permessi, liberazione condizionale; ci si fondava su una presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto, sottraendo al giudice il potere di valutare caso per caso l’accesso ai benefici penitenziari. Ecco, ora si cambia. E anche i più refrattari all’idea di cancellare l’ergastolo ostativo, come il M5S, pensano che la riforma dell’articolo 4bis sia una cosa buona. “Sono soddisfatto, è un ottimo lavoro. Nel rispetto dei principi costituzionali e della sentenza della Consulta il testo ribadisce che la lotta alla mafia è una priorità che non può far abbassare la guardia dello Stato”, dice Mario Perantoni, grillino, presidente della commissione Giustizia della Camera e relatore del provvedimento. “Con la norma approvata potranno godere dei benefici penitenziari solo quei mafiosi che abbiano realmente provato di aver interrotto qualsiasi contatto con il sodalizio criminale e, dunque, di non rappresentare più alcun pericolo per la società”. Attenzione, non è un fenomeno marginale: in Italia gli ergastolani sono circa milleottocento; di questi, quelli definiti “ostativi”, condannati cioè a morire in carcere, sono più di milleduecento. Ultimi casi noti, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, entrambi morti senza poter beneficiare di alcun permesso. E vediamo in dettaglio che cosa cambierà. I benefìci potranno essere concessi ai detenuti di maggiore pericolosità sociale, non prima che abbiano scontato due terzi della pena se temporanea, e 30 anni se condannati all’ergastolo, “anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter o dell’articolo 323-bis del codice penale”, purché però gli stessi dimostrino di avere pagato i risarcimenti alle vittime, oppure l’assoluta impossibilità di rispettare l’adempimento. Allo stesso tempo, i richiedenti dovranno allegare alla domanda per ottenere i benefici “elementi specifici, diversi e ulteriori” rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, perché siano esclusi collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Un ostacolo insormontabile, finora, era la mancata collaborazione con la giustizia. Spiegavano i magistrati: se il mafioso non collabora, di fatto non ha rotto i ponti con la cultura mafiosa ed è pronto a riprendere il suo posto nel clan. Dice adesso la nuova norma: il detenuto dovrà spiegare le ragioni a sostegno della mancata collaborazione e di una revisione critica della condotta criminosa. Il giudice di sorveglianza accerterà quali siano state le iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa. Prima comunque di decidere sui benefici - e la decisione è ora riservata a un collegio, non a un singolo magistrato di sorveglianza, per evitare condizionamenti o vendette - si dovrà acquisire il parere del pubblico ministero che ha ottenuto la condanna in primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo; le informazioni dalla direzione dell’istituto ove l’ergastolano è detenuto; accertamenti di polizia sulle condizioni reddituali e patrimoniali, il tenore di vita, quali attività economiche eventualmente svolte, da parte dell’interessato, del suo nucleo familiare. “Quando dall’istruttoria svolta emergono indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”. Guardo le carceri e mi chiedo: c’è giustizia nella giustizia? di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 23 febbraio 2022 Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità da parte della società di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Sovraffollate, invivibili, le nostre prigioni sono state travolte dalla pandemia, che ha acuito l’isolamento e le dure condizioni di chi soffre senza speranza di riscatto. Gesù diceva: “Ero in carcere e mi avete visitato”. Ma ai detenuti le visite sono state negate. Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo qui di seguito uno stralcio de “La forza della fragilità”, nuovo saggio di monsignor Vincenzo Paglia, pubblicato da Laterza, disponibile in tutte le librerie fisiche e digitali già dal 17 febbraio. L’archeologo americano Ralph Solecki, dopo aver scoperto in Iraq lo scheletro di un uomo neanderthaliano che mostra segni di gravi disabilità, ritiene che la fragilità sia nel cuore stesso dell’evoluzione. La sua esclusione dal gruppo era sentita già da allora insopportabile: se ne son presi cura. Questa scelta, contraria all’utilità dell’evoluzione semplicemente biologica, spinge ad una riflessione più attenta sulla fragilità come fonte di solidarietà. (…) Tra i capitoli più drammatici dei primi mesi della pandemia in Italia rimangono le rivolte esplose in diverse carceri (terribile, in particolare, quanto successo nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, su cui è in corso un processo per tortura e maltrattamenti da parte di membri dell’amministrazione penitenziaria). Credo che queste rivolte non siano state comprese nel loro significato più profondo. Si è parlato infatti di paura del contagio da coronavirus e di proteste dovute alla sospensione dei colloqui, ma c’è, a mio avviso, dell’altro, qualcosa di più radicale. Lo sappiamo bene: la società è un organismo collegato e quanto accade da un lato si ripercuote su un altro. Le carceri sono la cartina al tornasole dell’effettivo esercizio della giustizia, della “giustizia della giustizia” per usare un bisticcio di parole, ma efficace. Quanto accade nella società civile in generale ha ripercussioni profonde nel mondo carcerario, come ben sanno quanti si occupano professionalmente delle condizioni di vita dei detenuti. Annunciare un’amnistia e non realizzarla provoca sommosse in quel mondo chiuso dove è profonda la risonanza di ogni evento. La paura del contagio da coronavirus esiste nella società civile italiana al punto che tutto il paese è “zona rossa”. E le carceri? Le dimentichiamo? I detenuti stanno lì a ricordare la loro esistenza proprio nei momenti in cui non vorremmo vederli. Gli invisibili diventano visibili in maniera evidente e drammatica. Si può davvero pensare di limitare o cancellare le visite dei parenti senza che una misura del genere provochi conseguenze? In una situazione di privazione della libertà, dove le relazioni umane sono l’unico legame con “di fuori”, si possono cancellare con un tratto di penna in nome della sicurezza e della salute? Possibile che non si pensi alle conseguenze di un isolamento che diventa doppio: carcerati due volte, esclusi dalla società e dalle relazioni con le famiglie? Il Covid-19 ha in realtà fatto emergere le contraddizioni delle carceri italiane a partire dal loro sovraffollamento: la pandemia ha colto gli istituti penitenziari al 130% della loro capienza, 10.200 persone in più. (…) Che fare? La cultura giuridica italiana ha - avrebbe - tutti gli elementi per rispondere se fosse capace di tenere alta l’attenzione sulle carceri. Prendo un solo dato dalla relazione al Parlamento del Garante nazionale delle persone private di libertà del 21 giugno del 2021, il quale rileva l’accentuarsi di una “attenuazione” della cultura che vede proprio nel “graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento”. Già: il reinserimento. Chi se ne preoccupa più? Eppure è il vero e reale cuore della problematica, collegato al dovere che ha lo Stato di prendersi carico dei detenuti stessi, persone con percorsi e vissuti certamente difficili. A loro va data certezza nel mantenimento delle relazioni interpersonali e soprattutto speranza. Sì: speranza nel futuro per arginare ansia, depressione, disperazione, sentimenti destinati a sfociare in suicidi e rivolte. L’universo carcerario ci fa rimbalzare - se vogliamo ben vedere - una domanda su chi siamo noi, come società tutta intera. Non posso non citare quel passaggio in cui Gesù spiega ai discepoli come comportarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 35-40). Queste parole ci parlano dell’importanza di quella solidarietà fatta di rapporti umani. Raccontano di un mondo “interconnesso” già all’epoca della Palestina di Gesù. Le frasi del Vangelo proseguono e prolungano una tradizione religiosa, civile, giuridica, umana - pensiamo ai Dieci Comandamenti - in cui è sempre al centro il rapporto di ognuno di noi con Dio e con gli altri, con l’intera società. (…) Le carceri sono la cartina al tornasole della capacità da parte della società di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione: tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti e anche nelle carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Già dall’inizio della Bibbia c’è scritto: “Non è bene che l’uomo sia solo” (Gen 2, 18-24). Trovare e investire risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità e per reinserirli nel mercato del lavoro una volta scontata la pena non sono misure utili “solo” al carcere. Sono misure che dicono quale futuro c’è in programma per tutti noi. (…) È urgente riprendere la vita dopo un trauma; ed è anche difficile, soprattutto se siamo chiamati a vivere in una condizione di rischio pandemico. Abbiamo comunque davanti a noi il compito delicato e necessario di riprendere a vivere. Riconoscere la lezione della fragilità che la pandemia ci ha tragicamente svelato non è la premessa per ripartire, è la ripartenza stessa. Detenuti in attesa di giudizio: 29mila vite sospese di Elena Vigliano triesteallnews.it, 23 febbraio 2022 Alla lentezza della giustizia non si rimedia con il carcere. In primavera si vota sulla giustizia. Fra le proposte referendarie recentemente ritenute ammissibili c’è anche la cancellazione di una parte dell’articolo 274 del Codice penale e l’applicazione a un ambito più ristretto di reati, e solo in presenza di rischio di fuga o inquinamento delle prove, delle misure cautelari, e in particolare della carcerazione preventiva. L’Italia è tra gli Stati con la più alta percentuale di detenuti in attesa di giudizio o e di attesa di condanna definitiva (dati Consiglio d’Europa) e tra gli Stati con maggior sovraffollamento delle carceri. La carcerazione preventiva è un provvedimento di tipo prognostico: ciò significa che il giudice deve ipotizzare, sulla base di elementi di sospetto rafforzato, che un soggetto abbia commesso (o si appresti a commettere) un reato; ma egli deve anche pronosticare quali ulteriori danni (alle indagini e alla sicurezza della collettività) potrebbe costui causare se lasciato libero mentre si indaga sulla (solo ipotizzata) sua colpevolezza e, una volta ritenuta la necessità e la fondatezza di una restrizione della libertà dell’indagato, quale sia la misura giusta e sufficiente di quella restrizione, tra il carcere e un ordine di allontanamento. Per questo motivo la legge fissa regole e condizioni della custodia cautelare: esse richiedono che gli indizi di colpevolezza debbano essere “gravi” e “concreti e attuali”, cioè non congetturali e astratti: “è sospettato di omicidio, ergo deve stare in carcere perché potrebbe ripeterlo”. La custodia cautelare, cioè il carcere preventivo rispetto alla condanna definitiva e spesso rispetto a una qualsiasi condanna anche non definitiva, è una pratica di cui si abusa. Da strumento di emergenza è stato trasformato, nel tempo, in una vera e propria forma anticipatoria della pena. Ciò rappresenta una palese violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, e ha costretto migliaia di donne e uomini accusati di reati minori, addirittura poi assolti, a conoscere l’umiliazione del carcere prima di un processo: in ragione di una possibile “reiterazione del medesimo reato” è la motivazione che viene utilizzata più di frequente per disporre la custodia cautelare senza che questo rischio esista veramente. In base agli ultimi dati pubblicati dal ministero della Giustizia, aggiornati al 31 marzo 2021, i detenuti in Italia sono in totale 56.289 per 50.211 posti disponibili nelle strutture carcerarie. Sul totale dei detenuti, 9.749 sono in attesa di un primo giudizio, e quasi altrettanti (9.641) sono condannati non definitivi. Spesso la custodia cautelare dura mesi o anche anni, e i dati sulle carcerazioni ingiuste aiutano solo in minima parte a comprendere le conseguenze che queste decisioni hanno sulla vita di chi è detenuto senza ragione e su quella delle loro famiglie. Nel 2020 il ministero dell’Economia ha emesso 750 ordinanze di pagamento per risarcire le persone che erano state detenute ingiustamente in carcere: complessivamente, i risarcimenti sono costati 36 milioni e 958 mila euro, mentre nell’anno precedente 43,4 milioni; un dato che mostra con chiarezza come il ricorso alla custodia cautelare in carcere in Italia sia la misura più utilizzata (riguarda il 30,3 per cento delle misure cautelari), nonostante la legge la consideri un provvedimento di extrema ratio. Dal 1992 al 31 dicembre 2020, si sono registrati 29.452 casi: in media, 1015 innocenti in custodia cautelare ogni anno. La lentezza della giustizia non può essere risolta con la carcerazione preventiva. Se i carcerati lavorano, lo Stato guadagna di Luca Cereda vita.it, 23 febbraio 2022 Del lavoro in carcere portato avanti dalle cooperative sociali beneficiano i detenuti, il sistema carcerario e lo Stato. Lo dimostra, numeri alla mano, una ricerca promossa dalla Fondazione Zancan: se il 50 per cento dei detenuti in Italia fosse impiegato presso cooperative - oggi siamo al 4 per cento - le casse statale potrebbero contare di un incremento del gettito Iva di 90 milioni di euro. Il lavoro portato avanti con professionalità in carcere dalle cooperative sociali paga i suoi dividenti. Non agli investitori come nel caso delle grandi aziende, ma è molto meglio così: lavorare in carcere polverizza la recidiva tra i detenuti impiegati - e già lo si sapeva -, ma fa bene a tutti, a chi è dietro le sbarre, al sistema carcerario e allo Stato. E potrebbe andare anche meglio secondo lo studio di Fondazione Zancan che nel titolo riporta in molto chiaro l’obiettivo stesso della ricerca: “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere”. E mette al centro i benefici dell’attività lavorativa nel percorso di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. “Oltre ad azzerare o quasi la recidiva, il lavoro tra le sbarre dona maggiore dignità, previene la depressione e l’ansia tenendo la mente occupata e diminuendo l’uso di farmaci dei detenuti”, spiega Devis Geron, ricercatore di Fondazione Zancan e curatore dello studio portato avanti negli istituti penitenziari italiani di Torino, Padova, Siracusa. Considerando le cooperative che danno lavoro nei tre istituti penitenziari presi in esame dalla ricerca, il fatturato annuo medio è pari a 1 milione di euro per cooperativa. “Parte della ricchezza prodotta si traduce, al netto degli sgravi fiscali e contributivi - prosegue Devis Geron - in contribuzione fiscale a beneficio delle finanze pubbliche, compresa l’Iva, stimabile in oltre 100 mila euro all’anno in media per cooperativa. Inoltre il lavoro in carcere ha un impatto che si estende anche sul lavoro all’esterno del carcere: “I dati del 2019, gli ultimi disponibili prima della pandemia e capaci di catturare una fotografia che integri il sistema-lavoro in carcere in rapporto al mondo dell’impresa sociale esterno, dicono che le cooperative coinvolte all’interno delle carceri analizzate dalla ricerca lavorano in media 210 detenuti per un fatturato complessivo delle cooperative di 7,5 milioni di euro. A Milano Bollate sono quasi 200 persone lavorano in un call center e in attività di manutenzione. Oltre ai detenuti impiegati queste cooperative danno lavoro in media ad altre 106 persone non detenute. La stima della ricerca porta ad un gettito Iva per le casse dello Stato di 750mila euro. Le cooperative coinvolte nello studio impiegano anche mediamente un ex detenuto, ogni 2 detenuti. “La produzione delle cooperative sociali conta su un “indotto” per altre aziende, clienti e fornitori, in media oltre 100 clienti/fornitori per cooperativa”. I benefici quindi non riguardano solo i detenuti, che stando alla ricerca sentono di avere uno scopo, imparano un lavoro e possono essere utili alla famiglia inviando anche soldi a casa, ma sono tangibili anche per l’economia reale. A questo punto lo studio ha provato a mantenere le attuali proporzioni economiche, ipotizzando cosa accadrebbe se il 50 per cento dei detenuti in Italia fosse impiegato presso cooperative - oggi siamo al 4 per cento -. Questa semplice proporzione garantirebbe: benefici diretti a 25mila detenuti in più che sarebbero occupati, sarebbe un’occasione lavorativa anche per ulteriori 13mila persone non detenute. Questo genererebbe un fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. Parlare di carcere e lavoro non è parlare del futuro del sistema penitenziario: significa analizzare il valore reale e l’impatto sociale che il lavoro ha all’interno degli istituti. Perché i grandi cambiamenti anche in questo ambito così spesso immobile e chiuso per antonomasia, possono essere realizzati solo con il coinvolgimento e la partecipazione della società civile, del Terzo settore, dei detenuti e delle istituzioni carcerarie. “Bene proroga misure contro i contagi per detenuti in regime di semilibertà e art. 21” di Chiara Calace agenparl.eu, 23 febbraio 2022 Verini (Pd): “Ora necessari e urgenti altri interventi per le carceri”. “Quasi due anni fa, dopo lo scoppio della pandemia, Governo e Parlamento, con la spinta e il sostegno del Pd, per evitare sovraffollamento nelle carceri con conseguenti rischi altissimi di contagio, stabilirono che i detenuti e le detenute che godevano di regime di semilibertà, uscendo la mattina per lavorare, potessero la sera tornare a dormire in altro domicilio. Ciò per evitare di far rientro in carcere, dopo essere stati tutto il giorno fuori, anche per frenare appunto il contagio da Covid. Questa norma aveva scadenza il 31 marzo 2022. Per questo abbiamo presentato un emendamento al dl Milleproroghe per allungare il termine fino al 31 dicembre di quest’anno. Senza il nostro emendamento queste persone, tra qualche settimana, avrebbero dovuto tornare a dormire in carcere. Tale misura, invece, consente anche ai detenuti in regime di semilibertà di poter proseguire percorsi di recupero per il loro reinserimento nel contesto sociale e va nella direzione di carceri più umane, che mettano al centro non solo la pena ma anche la rieducazione dei detenuti. È un passo significativo rispetto ai molteplici, gravissimi problemi che attanagliano le carceri italiane, per i quali ci aspettiamo ora ulteriori, rapidi interventi (anche con lo strumento del decreto)”. Lo dichiara il deputato del Pd, Walter Verini, membro della commissione Giustizia di Montecitorio, primo firmatario dell’emendamento al dl Milleproroghe che proroga i termini per l’elezione di altro domicilio per i detenuti in regime di semilibertà. Bambini fuori dal carcere: una legge è ferma da 7 mesi in commissione Giustizia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2022 La ministra della giustizia ha ricordato che l’obiettivo ideale è non un solo bambino in carcere. In realtà è concreto: c’è la proposta di Legge Siani, ma l’iter di approvazione si è bloccato a luglio del 2021. “Mai più bambini in carcere!”, ha detto la ministra Marta Cartabia con forza. È stata indubbiamente di grande spessore la scorsa audizione della guardasigilli in commissione infanzia. La volontà è quella di superare “idealmente” l’incarcerazione dei bimbi. In realtà è un obiettivo fattibile e non ideale. Da tre anni giace la proposta di legge Siani che però è rimasta arenata in commissione giustizia. Una proposta che può azzerare per sempre la presenza dei bimbi dietro le sbarre. Un appello alla ministra Cartabia per avere risposte concrete - Se non si accelera l’iter per l’approvazione, c’è il concreto rischio di buttare all’aria tre anni di impegno da parte delle istituzioni e di tutte le associazioni. Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva e A Roma insieme Leda Colombini, da tempo tengono viva l’attenzione pubblica e delle istituzioni affinché si approvino misure efficaci che consentano di mettere fine in via definitiva al fenomeno dell’incarcerazione dell’infanzia. Per questo lanciano un appello alla guardasigilli, chiedendo di lavorare alla costruzione di risposte di sistema perché il numero dei bimbi - nonostante la diminuzione rispetto agli anni precedenti - può tornare a crescere. La proposta di legge di Paolo Siani è rimasta nel limbo - Paolo Siani, pediatra e capogruppo del Pd in commissione Infanzia, è stato sia il primo firmatario di un emendamento alla Legge di Bilancio per la creazione di un Fondo per l’accoglienza delle madri detenute con i propri figli, al di fuori delle strutture carcerarie, sia della proposta di legge che è rimasta nel limbo della commissione Giustizia. Quest’ultima è volta al superamento dei profili problematici della legge 62/2011, la norma che dieci anni fa ha istituito gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) per impedire che bambini varchino la soglia del carcere. La proposta, se venisse approvata, eviterebbe che per le madri si aprano le porte del carcere ma individuerebbe nelle case famiglia protette la soluzione ordinaria. Solo dove sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza il giudice potrà disporre la custodia cautelare in istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Quindi solo come extrema ratio. L’obiettivo è quello di salvaguardare l’integrità psicofisica dei bambini - Se dovesse passare la legge, saranno quindi le case famiglia ad essere privilegiate con l’obbligo del ministero di individuare le strutture adatte. Inoltre, con talune modifiche dell’attuale legge, viene attribuita natura assoluta al divieto di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere per donna incinta o madre di bambini di età non superiore a 6 anni con lei convivente (ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole). Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l’assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione. La legge è ferma in commissione Giustizia da luglio 2021 - Nelle aule di Montecitorio, da diversi mesi, non si parla più della legge Siani. In commissione Giustizia, l’iter è rimasto fermo al 15 luglio del 2021. Ricordiamo che la ministra della giustizia, in particolare, ha sottolineato che “l’obiettivo ideale deve essere quello di mai più bambini in carcere”, perché “anche un solo bambino ristretto è di troppo”. In realtà l’obiettivo non è ideale, ma concreto. Un passo importante è proprio la proposta di legge Siani “in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Solo in questo modo si possono introdurre significative modifiche normative di natura sostanziale e processuale: tutto ciò rappresenterebbe un passaggio cruciale per superare in via definitiva il fenomeno dell’incarcerazione dei bambini. Legge Siani: lo Stato deve finanziare le Case-famiglia per detenuti madri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2022 Con la legge attuale, le case protette sono senza oneri per la finanza pubblica. Per questo motivo ce ne sono soltanto due in Italia. E i bimbi rimangono dietro le sbarre. La legge del 2011, che la proposta Siani è volta a modificare, prevede l’istituzione delle case famiglia protette per le detenute con figli piccoli. Un’alternativa al carcere o all’istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) ritenuta valida da diverse associazioni, tipo “A Roma Insieme”, e non per ultimo dal garante nazionale delle persone private della libertà. Ma, ad oggi, grazie ai diversi sforzi dell’amministrazione locale e gli enti disposti a metterci i soldi, esistono solo due case famiglia: una a Roma e l’altra a Milano. Il problema è che lo Stato, con la legge attuale, non le finanzia. Il ministro della Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture da utilizzare come case famiglia protette. Questo è il punto chiave. La politica ha riconosciuto un ruolo primario agli Icam. Mentre per quest’ultimi è sotto la responsabilità del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (quindi c’è lo stanziamento di fondi), per le case famiglia invece la responsabilità è degli enti locali o privati. Quindi lo Stato non partecipa. La distinzione più importante tra l’Icam e la casa protetta è proprio il fatto che la prima è una forma detentiva a tutti gli effetti, mentre la seconda è una misura alternativa al carcere, destinata maggiormente alle donne che non hanno un luogo dove poter scontare una pena agli arresti domiciliari. Ed è proprio questa caratteristica che “giustifica” la mancanza di fondi statali. La legge Siani che è rimasta nel limbo della commissione giustizia, invece, va a incidere anche su questo. Il comma 2, aggiungendo il nuovo comma 1-bis all’articolo 5 della legge n. 62 del 2011, prevede che alla copertura degli oneri derivanti dalla realizzazione delle case famiglia protette, si provveda a valere sulle disponibilità della cassa delle ammende di cui all’articolo 4 della legge 9 maggio 1932, n. 547. L’ art. 4 della legge 9 maggio 1932, n. 547 prevede l’istituzione, presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, della cassa delle ammende, ente dotato di personalità giuridica. La cassa delle ammende ha, tra i suoi scopi istituzionali, il finanziamento di programmi di reinserimento in favore di detenuti ed internati, programmi di assistenza ai medesimi ed alle loro famiglie e progetti di edilizia penitenziaria finalizzati al miglioramento delle condizioni carcerarie. Ricordiamo, che la legge di bilancio 2021 (commi 322) istituisce, nello stato di previsione del Ministero della giustizia, un apposito fondo, dotato di 1,5 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio (2021-2023), al fine di garantire il finanziamento dell’accoglienza di genitori detenuti con bambini al seguito in case-famiglia protette ai sensi dell’articolo 4 della legge 21 aprile 2011, n. 62, ed in case-alloggio per l’accoglienza residenziale dei nuclei mamma-bambino. Non solo. A questo si aggiunge il comma 1 che incide sulla disciplina dell’individuazione delle case famiglia protette, sostituendo il comma 2 dell’articolo 4 dell’attuale legge con due nuovi commi volti a prevedere: l’obbligo (e non più la facoltà) per il Ministro della giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni volte a individuare le strutture idonee a essere utilizzate come case famiglia protette; rispetto al testo vigente viene meno altresì la clausola di invarianza finanziaria; l’obbligo per i comuni ove siano presenti case famiglie protette di adottare i necessari interventi per consentire il reinserimento sociale delle donne una volta espiata la pena detentiva, avvalendosi a tal fine dei propri servizi sociali. Aiga, nasce l’osservatorio nazionale sulle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 febbraio 2022 Giovani avvocati: visitare i penitenziari la Domenica delle Palme. Nasce l’Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri, per accendere i riflettori in un momento come quello attuale, prossimo all’entrata in vigore di riforme, sulla condizione delle carceri italiane. Lo annunciano il presidente dell’Aiga Francesco Paolo Perchinunno e il responsabile del Dipartimento Penitenziario Francesco Monopoli, in una lettera al ministro della Giustizia e al capo del Dap. Gli avvocati chiedono, come prima “tappa” ufficiale di questo nuovo percorso, la Domenica delle Palme, di poter visitare gli istituti penitenziari con le delegazioni territoriali dell’Osservatorio, per verificare le condizioni delle carceri, per ascoltare dalla viva voce dei detenuti il rispetto dei loro diritti fondamentali, la validità delle iniziative di reinserimento sociale e, all’esito, di stendere un documento delle attività svolte. Già da circa due mesi, sottolinea il presidente Perchinunno, “l’Aiga ha istituito un Dipartimento proprio sull’Ordinamento Penitenziario, che rivolge la propria attenzione ai detenuti e alle problematiche che riguardano le carceri. Solo pochi giorni fa la Cedu ha nuovamente condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea che proibisce i trattamenti inumani e degradanti. Sono dati che non possono non toccare le sensibilità di tutti il tasso, davvero intollerabile, di suicidi nelle carceri, superiore a dieci volte quello riscontrabile nella popolazione e la numerosità, pari a quasi il 40% della popolazione carceraria, di detenuti tossicodipendenti. Sono rimasti nella memoria di tutti - prosegue Perchinunno - le immagini raccapriccianti degli episodi del carcere di Santa Maria Capua Vetere e in quello di Foggia che, purtroppo, sembrano rappresentare il termometro di una situazione ormai fuori controllo”. Proprio per dare ulteriore impulso alle iniziative, su proposta del dipartimento sull’Ordinamento Penitenziario, la giunta nazionale Aiga, il 18 febbraio, ha istituito il nuovo organismo. Da oltre 50 anni Aiga, con circa 10mila giovani avvocati iscritti e 136 sezioni territoriali, oltre alle innumerevoli attività di politica forense, di formazione e socioculturali, ha da sempre mostrato sensibilità e attenzione per le numerose problematiche che affliggono il sistema penale e per le condizioni che sono costretti a subire i detenuti. I giudici: incompatibilità e carriere. Le promozioni del Csm e come le ribalta il Tar di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 23 febbraio 2022 Le promozioni di giudici e pubblici ministeri le fa il Consiglio Superiore della Magistratura, loro organo di autogoverno. Se un candidato escluso non è soddisfatto fa ricorso al Tar e, al grado successivo, al Consiglio di Stato. Entrambi possono annullare la nomina. Succede sempre più spesso. Vediamo qualcuna di queste decisioni. Nel luglio 2020 Pietro Curzio e Angelo Spirito fanno domanda per la carica di primo presidente di Cassazione. Il Csm nomina Pietro Curzio. Da giovanissimo Spirito era stato giudice istruttore al maxiprocesso contro la Nuova Camorra organizzata che portò al più noto errore giudiziario della storia: la condanna di Enzo Tortora, anche se a occuparsene direttamente era stato Giorgio Fontana (che poi lasciò la magistratura). Spirito non ne fu ritenuto responsabile, e non fu perseguito disciplinarmente, ma forse quella vicenda, formalmente inutilizzabile, nella valutazione del Csm ha avuto un peso. Spirito fa ricorso al Tar, che gli dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che invece gli dà ragione e il 14 gennaio scorso annulla la nomina di Pietro Curzio. Motivo: l’anzianità di funzioni da giudice di legittimità di Spirito è di 23 anni, mentre quella di Curzio di 12 anni e mezzo. A questo punto il Csm deve procedere a nuova nomina e, la settimana dopo, alla presenza del presidente Sergio Mattarella, riconferma Curzio. Con nuove motivazioni. Più della durata nelle funzioni di legittimità, che comunque è “superiore a 6 anni”, dice in sintesi la motivazione, va considerata la “massima intensità” dell’esperienza da entrambi svolta in maniera “eccellente”. Requisito che li renderebbe “equivalenti”. In più, valuta il Csm, Curzio ha una maggiore esperienza nell’ufficio spoglio e nella formazione dei magistrati. Spirito ha già presentato il ricorso al Tar denunciando la violazione del giudicato. Le accuse incrociate - È stata annullata anche la nomina a procuratore capo di Roma di Michele Prestipino, preferito dal Csm al pg di Firenze Marcello Viola, perché finito in un intrigo di nomine pilotate. Il secondo era procuratore generale e quindi aveva più titoli del primo che invece era procuratore aggiunto. Il Csm rivota e la spunta il terzo contendente, il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi. La polemica sotterranea tra il Csm e i “cugini” della giustizia amministrativa, pronti ad accogliere i ricorsi e a stoppare nomine di candidati “inadeguati”, continua. Anzi cresce con le accuse incrociate di pretendere dagli altri ciò che non si fa al proprio interno. Del resto le decisioni non comprensibili prese da Tar e Consiglio di Stato non sono poche. La carriera: dove il Csm blocca, il Tar sblocca - Rilevante quella sul giudice Giuseppe De Benedictis. Lui aspirava a diventare presidente aggiunto dei gip di Bari. Il Csm gli aveva tarpato le ali con una valutazione negativa, ricordando un suo arresto nel 2010 per detenzione illegale di armi: vicenda da cui era stato prosciolto nel procedimento penale e in quello disciplinare. Il Tar gliele aveva restituite: visto che lo avevano scagionato non potevano non promuoverlo. Pochi giorni dopo però un nuovo arresto: trovato in casa un arsenale e 60 mila euro nascosti nelle prese elettriche. Secondo gli inquirenti, mazzette per scagionare mafiosi delle famiglie criminali baresi, foggiane e garganiche. Dalla magistratura De Benedictis se n’è andato da solo. Per la “vergogna”. A Vincenzo Montemurro, nel 2017, il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio revoca la delega delle indagini antimafia. Era saltata fuori una censura che gli era stata inflitta dal Csm per violazione del dovere di riservatezza “di primaria importanza” per le indagini antimafia. Si tratta di “prerequisito di qualsiasi magistrato addetto alla procura”, scrive il procuratore, pur attestando serietà, capacità e dedizione del collega. Il Tar respinge le obiezioni e riassegna la delega a Montemurro con la seguente motivazione: l’articolo 102 del codice antimafia chiarisce che “le designazioni avvengono tenuto conto delle specifiche attitudini” descritte dall’articolo 3 della circolare 24930 che “non fa menzione né dei precedenti disciplinari, né delle circostanze che possono mettere in dubbio il riserbo del magistrato”. Ma c’era bisogno di scriverlo? “Lei non sa chi sono io” - Poi c’è Giorgio Alcioni, un giudice di Milano in rotta di collisione con un barista che voleva aprire un bar nel palazzo dove lui abitava. Tenta in tutti i modi di bloccare la pratica. Poi nomina consulente per una perizia Ctu in un suo processo lo stesso perito che doveva dirimere la sua controversia condominiale. Il barista lo denuncia. Brescia apre un’indagine. Al Csm scatta la valutazione negativa, ma il Tar del Lazio l’annulla: ha diritto a fare carriera. Il giudice è stato condannato pochi giorni fa in via definitiva per concussione a due anni e sei mesi. Al pm di Matera Annunziata Cazzetta il Csm dà una valutazione negativa sulla progressione di carriera. Non si era astenuta dal procedimento su un giornalista da lei stessa querelato. Il Consiglio di Stato il 13 febbraio 2019 l’annulla “la motivazione è generica”. Il Csm allora specifica ed enumera tutti i procedimenti in cui la pm era parte in causa e non si era astenuta. Il Consiglio di Stato annulla ancora: il Csm avrebbe dovuto rivalutare l’imparzialità senza considerare elementi nuovi. Chi nomina i giudici amministrativi - L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità. Ai giudici amministrativi si ricorre per essere tutelati nei confronti della pubblica amministrazione, con una pronuncia oggettiva e imparziale. Eppure si registrano impugnazioni e si ascoltano, nelle sedute del plenum trasmesse da qualche mese in diretta su radio Radicale, vicende non proprio lineari. Vediamo un esempio. Il giudice Giuseppe Daniele nel 2019 fa domanda a presidente del Tar Marche. Viene respinta perché la figlia è avvocato amministrativista proprio ad Ancona e potrebbero trovarsi faccia a faccia in giudizio. Lui fa ricorso e nel frattempo viene nominato alla III sezione del Tar del Lazio. A giudicare il suo ricorso è un collega della stessa sede. Gli dà ragione: non c’è incompatibilità, basta l’astensione. Il Consiglio di Stato ribalta la decisione: c’è una “presunzione di assoluta incompatibilità” quando gli uffici giudiziari hanno un’unica sezione, come quello di Ancona, “a tutela non solo della sostanza, ma della semplice apparenza di imparzialità”. Nel 2021 la sede del Tar Marche si rilibera. Giuseppe Daniele ritenta. La figlia nel frattempo ha vinto un concorso come avvocato o funzionario legislativo della Regione Marche e i suoi atti saranno oggetto di giudizio davanti al padre. Allora lei il 15 dicembre si cancella dall’albo della libera professione. È un atto scontato, gli avvocati della Regione hanno un albo speciale al quale lei si potrà iscrivere. Ma tanto basta per far dimenticare al Cpga la potenziale incompatibilità in giudizio: subito il giorno dopo il plenum nomina Daniele presidente. E la “sostanza”? E “l’apparire imparziale”, dove sono finiti? L’equivalente del Csm per i giudici amministrativi è il Cpga (Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa): la condizione di nomina è l’anzianità. Incompatibilità per figli e parenti - La risposta la dà, in diretta radio, il presidente della commissione che si occupa delle nomine, Giampiero Lo Presti: “Mai questo consiglio di presidenza ha valutato ragioni di incompatibilità per coniugi o parenti, dipendenti pubblici soggetti alla giurisdizione amministrativa. Men che mai è stato fatto, e abbiamo ripetuti casi, allo stato anche attuali, di presidenti nominati con parenti, figli, mariti, mogli nell’Avvocatura dello Stato”. E, se non fosse chiaro, aggiunge: “Quindi questa dilatazione, diciamo, del concetto di incompatibilità che oggi ci viene prospettata in relazione ad una situazione non attuale ma ipotetica futura è tale che dovrebbe portarci a ritenere sussistenti incompatibilità per tutti i rapporti con parenti o coniugi dipendenti della pubblica amministrazione o addetti ad uffici legali di avvocature pubbliche e quant’altro”. Tutti sono avvertiti. A partire dal singolo cittadino che dovesse trovarsi di fronte come avvocato o avversario il figlio o il fratello del giudice, magari presidente, sappia che è inutile protestare. Quando il Consiglio di Stato dice no e non motiva - Con qualcuno la severità c’è, più che con altri. Nella seduta del 16 dicembre 2021 si deve nominare il presidente del Tar Piemonte. Viene proposto dalla commissione (all’unanimità) il consigliere Silvestro Maria Russo. Ma il plenum dice: “no”. Motivandolo con ritardi nel deposito delle sentenze, sebbene siano stati recuperati. Nella seduta successiva si deve decidere il presidente della III sezione del Tar Lazio. La commissione è di nuovo favorevole a Russo. Si va al dibattito. Russo, al momento della nomina, ritardi non ne ha più, ma la votazione segreta lo impallina ancora. Senza alcuna motivazione. Al punto che l’allora Presidente del Consiglio di Stato, Patroni Griffi, commenta: “Vorrei sapere cosa scrivete dentro questo diniego. Mi pare un atto suicida”. E lascia l’aula affermando che, per la prima, è stata votata una delibera “immotivabile”. Lo seguono altri consiglieri per cui la seduta termina. Arriva il nuovo Presidente del Consiglio di Stato, Franco Frattini, che affronta il caso proponendo di formulare due proposte motivate, quella favorevole e quella contraria. Il voto rimarrebbe segreto, ma quantomeno accompagnato da una motivazione. Quella motivazione che il giudice amministrativo pretende per le nomine del Csm. Si levano mugugni con la scusa che la “segretezza potrebbe venire meno”. Si attende una risposta. Le pagelle dei magistrati tra efficienza e indipendenza di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 23 febbraio 2022 Il Consiglio dei Ministri ha emendato il disegno di legge dell’ordinamento giudiziario, prevedendo i criteri di valutazione dei togati che aspirano a ruoli in Cassazione. Lo si deve ai cittadini e lo si deve alle Istituzioni perché queste possano riacquisire la credibilità che necessitano per operare: la riforma del Csm era uno step, per così dire, obbligato, da inserirsi necessariamente nell’ambito dell’ampio quadro riformatore voluto dalla ministra della Giustizia Cartabia. Tutti temi già discussi ampiamente e da tempo. Lo scrivente non a caso, già in sede di discussione di laurea, tanto tempo fa, portava come tesi proprio la divisione delle carriere tra magistratura giudicante ed inquirente, ritenendola un tassello più che mai indispensabile per una corretta gestione della Giustizia. Sia chiaro, sono principi necessari e indispensabili in uno Stato di diritto come il nostro; tuttavia, non si può negare come una simile impermeabilità del Sistema Giustizia sia stato anche principio di fenomeni distorti che, nella palude dell’autoreferenzialità, hanno avuto modo di crescere, proliferare e fermentare sino ad esplodere. Valutazione delle toghe che aspirano ad assumere ruoli presso la Suprema Corte, separazione delle carriere e stop alle cd. “porte girevoli”, che in passato consentivano ai magistrati di passare dalla carriera politica a quella giudiziaria quanto, quando e come volevano: questi i prospettati correttivi che il Consiglio dei ministri ha inteso approvare la scorsa settimana, andando ad emendare il disegno di legge A.C. 2681.All’art. 2, comma 3 del succitato disegno si legge sono infatti stati introdotti quelli che dovrebbero essere i criteri di valutazione dei togati. Potendo compendiare: (i) adozione di criteri che valutino oltre all’anzianità anche il merito e le attitudini; (ii) in ordine alle attitudini andrà considerato anche lo specifico ambito di competenza nel quale il magistrato ha operato (penale, ovvero civile); (iv) introduzione di criteri per la formulazione di un parere, emesso dalla commissione valutante, che possa dirsi oggettivo e, soprattutto, motivato, anche tramite l’utilizzo di giudizi quali “ottimo” o “buono”, che ricordano molto la scuola primaria, e solo il magistrato che viene valutato con il giudizio “ottimo” avrà la possibilità di entrare a far parte della magistratura di legittimità. Tutti criteri auspicabili e da tempo invocati, ma, nel concreto, come verranno fornite tali valutazioni? In maniera oggettiva, statistica, come disposto dalla lett. c) del detto articolo 2, comma 3 A.C. 2681. Oltre a valutare la capacità del magistrato di analizzare in maniera scientifica le norme, si richiede una valutazione che tenga conto degli andamenti statisticamente significativi degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio. Quanto detto si traduce nel senso che segue: perché un togato possa accedere agli uffici della Suprema Corte di Cassazione, deve far sì che le sue pronunce non siano state riformate in appello, ovvero cassate, rectius, deve fare in modo che ciò non sia “statisticamente” rilevante al punto da costargli una valutazione negativa. Chi scrive ha apprezzato la soluzione valutativo-statistica suesposta, tanto che ritiene vada estesa a ogni livello, grado e promozione della magistratura. Si comprende che questo sia un terreno alquanto scivoloso e governato da instabili equilibri: da una parte la necessità di mantenere la magistratura libera da vincoli in sede di decisione, dall’altra l’opportunità di responsabilizzare gli Organi giudicanti - ma anche inquirenti qualora facciano esercizio dei loro poteri in maniera eccessivamente persecutoria - infondendo la consapevolezza che gli errori in qualche modo hanno un prezzo, ad esempio impedendo al Giudice di primo grado di ottenere una promozione in Corte d’Appello qualora le sue sentenze siano, statisticamente, ribaltate in secondo grado. L’esperienza storica e consapevolezza maturata dal potere giudiziario e dalla collettività in 76 anni di storia repubblicana, ci impone e consente, tuttavia, oggi, di effettuare una rivalutazione delle forze in gioco. Pertanto, si è appalesata con prepotenza la necessità di tutelare e ristabilire, seppur con tutte le garanzie costituzionalmente orientate del caso, l’indipendenza, terzietà e presunta imparzialità della magistratura, principi talvolta distorti, che hanno finito per alimentare la deresponsabilizzazione degli Organi giudicanti. Questo non può più ritenersi accettato, non alla luce del delicatissimo compito che sono chiamati ad assolvere, ma perché la Giustizia è amministrata in nome del popolo italiano ed il popolo è sovrano. “Caro Letta, ora cambiamo la Severino per tutelare noi sindaci” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 febbraio 2022 Dopo l’anatema del segretario del Partito Democratico Enrico Letta sui quesiti referendari dedicati alla custodia cautelare e alla Legge Severino (“Farebbero più danni dei pochi cambiamenti positivi che porterebbero”), il coordinamento dei sindaci del Pd e l’Anci prendono posizione. L’obiettivo è comune: modificare quanto prima la legge dell’ex Guardasigilli. “È quanto mai opportuno che il Parlamento agisca subito per superare una legge che ad oggi non garantisce i tre gradi di giudizio”, scrivono i sindaci del Pd coordinati da quello di Pesaro, Matteo Ricci, che al Dubbio aggiunge: “Il garantismo deve valere per tutti, a maggior ragione per gli amministratori che rischiano ogni giorno in prima persona di essere accusati per reati minori. Si verifica spesso che un amministratore condannato in primo grado, ad esempio, per abuso di ufficio o per turbativa d’asta, poi venga assolto in Appello o Cassazione”. Sul fatto che questa posizione possa evidenziare una spaccatura tra il Segretario dem e sindaci del partito, Ricci ci spiega: “No, Letta ha espresso la preoccupazione rispetto ad alcuni reati gravi. Con l’abrogazione totale della legge Severino verrebbe meno infatti la norma che fa decadere personaggi condannati per mafia sia pure in primo grado. E comunque ha ribadito che è un tema che va affrontato in Parlamento. Noi come sindaci lo poniamo da anni e il Segretario lo sa bene, in quanto abbiamo fatto anche diverse iniziative insieme”. Per questo ieri mattina “come sindaci dem abbiamo lanciato un appello ai parlamentari di tutte le forze politiche, in primis il Pd, per modificare nelle prossime settimane in Parlamento la legge Severino, almeno per quel che concerne i reati minori. È un elemento che si scontra con lo stato di diritto e che va affrontato senza indugi e con tempestività”. Abbiamo chiesto al sindaco Ricci se andrà a votare i referendum: “Ancora non lo so, in genere vado sempre a votare. Il punto però è non essere ipocriti: questo referendum - ahimè - dopo purtroppo che la Corte Costituzionale ha bocciato quelli più popolari su cannabis e sul fine vita, quasi certamente non raggiungerà il quorum. Pertanto bisogna lavorare in Parlamento, che rappresenta la strada maestra per ottenere una modifica”. Ma qualora il Parlamento rimanesse imbelle? “I referendum molto probabilmente ci saranno alla fine di giugno - ci dice Ricci - Noi puntiamo a che la norma venga modificata prima di quell’appuntamento. Già in queste ore sono in contatto con alcuni parlamentari del Pd perché è fondamentale che il nostro partito si impegni da subito”. Sul fatto che all’interno del Pd ci siano posizioni favorevoli invece ai referendum - Marcucci, Bettini, Gori ed altri - Ricci conclude: “Il Pd è un partito garantista, su questo non ci sono dubbi. È anche un partito che crede molto nella riforma della giustizia per via parlamentare. I quesiti sulla giustizia rischiano, invece, di divenire un referendum pro o contro la magistratura. Al contrario noi siamo per riformare la giustizia, non per attaccare la magistratura”. Anche l’Anci, con il Presidente Antonio Decaro, fa pressing per superare la norma vigente, che sia per via parlamentare o referendaria: “Da molti anni, e in particolare di nuovo durante l’ultima assemblea generale dell’Anci, i sindaci italiani si sono espressi in maniera univoca sulla necessità di superare l’attuale normativa - si legge in una nota - che in base alla legge Severino prevede una sospensione di diciotto mesi dal mandato amministrativo, seppur in assenza di una condanna definitiva, anche per reati minori e soprattutto per un reato dal profilo incerto come l’abuso d’ufficio. La stragrande maggioranza di queste sospensioni decade alla loro scadenza e l’unica conseguenza che ne deriva è un grave danno per la vita della comunità che rimane senza guida, e per la figura del sindaco, la cui vita politica e personale viene inevitabilmente segnata”. Per questo motivo - ha aggiunto Decaro - “sentiamo l’esigenza, al di là di quale sarà l’esito del referendum ammesso dalla Corte costituzionale e delle legittime posizioni assunte dalle forze politiche, di tornare a ribadire come Anci la necessità che la legge Severino venga modificata. Che sia per scelta degli elettori o per una iniziativa del Parlamento, che abbiamo più volte sollecitato, per noi è importante raggiungere questo obiettivo per dare stabilità e continuità alla vita amministrativa delle nostre comunità”. Intanto ieri alla Camera è stato approvato a larghissima maggioranza (372 sì e 7 no) un ordine del giorno della Lega al Dl Milleproroghe che impegna l’Esecutivo a ‘ prevedere che le elezioni amministrative 2022 e i referendum sulla Giustizia si svolgano in un’unica giornata’. Il governo si era rimesso all’Assemblea. Così ha commentato il capogruppo Lega in commissione Affari costituzionali della Camera, Igor Iezzi: “Ora il ministro Lamorgese rispetti questa decisione”. Ieri vi avevamo però raccontato che l’orientamento sarebbe quello di abbinare i referendum promossi da Lega e Partito Radicale ai ballottaggi delle Amministrative. Giustizia, le riforme impossibili di Enzo Paolini Il Manifesto, 23 febbraio 2022 I referendum servono non solo per il loro esito ma per ciò che esprimono i proponenti in termini di monito per i legislatori, su ciò che non va e su quali risposte dovrebbero dare. Il referendum è istituto di democrazia diretta mai praticato sino agli anni 70 e poi variamente utilizzato, talvolta anche in maniera strumentale, ad esercitare una legittima pressione popolare su un Parlamento sempre più inerme ed incapace di interpretare il (buon) senso comune. Così è per ciò che attiene le proposte referendarie sulla giustizia esaminate dalla Corte Costituzionale. Alcune sono chiare. Sui limiti alla carcerazione preventiva, sulla legge Severino, (cioè sulla decadenza automatica di parlamentari e amministratori locali in caso di condanna), sulla estensione anche agli avvocati della valutazione sulla professionalità dei magistrati, si può agevolmente rispondere affermativamente o negativamente anche applicando canoni di principio. Le altre tre, Csm, separazione delle carriere e responsabilità dei Giudici, si prestano a diverse considerazioni. Il Csm è diventato una sorta di terza Camera con funzioni consultive o interdittive rispetto ad un Parlamento inane, ed ha acquisito un enorme, straripante potere gestendo le nomine dei magistrati dirigenti dei distretti giudiziari strategici, i potentissimi “apicali”, quelli che dispongono sopra e oltre, o contro, la politica. E qui sta il problema: la politica, quella squalificata, delegittimata, arruffona, (nel migliore dei casi) e imbrogliona (nel peggiore) che non governa più nelle aule parlamentari, nel modo disciplinato dalle procedure istituzionali e con le garanzie dei pesi e contrappesi costituzionali, rientra dalla finestra del Csm composto mediante elezioni appaltate a “correnti” alle quali poi rispondono, in tutto e per tutto, gli eletti. Un chiaro corto circuito per la democrazia ma anche, a pensarci bene, per la amministrazione della Giustizia, quella quotidiana che talvolta incontriamo noi cittadini. Esempio: quale giudicante non sarà condizionato nella sua decisione se il Pm del processo che sta affrontando è un capo corrente che può decidere il dove, il quando e il come della vita di quel giudice? Problema di non poco conto che si ripresenta - sotto altre vesti - anche in relazione al secondo quesito: la separazione delle carriere. La commistione non è certezza di parzialità ma non è neanche indice di terzietà. In questo ibrido sta il clima che si vive nei tribunali del Paese e non è un bene per la serenità dei cittadini che vi entrano e per la certezza del diritto o dei diritti che si invocano. La responsabilità dei Magistrati. Il quesito è stato ritenuto inammissibile. E bene ha fatto la Corte Costituzionale perché - a parte la motivazione tecnica (sarebbe un referendum innovativo e non abrogativo) - la disciplina della responsabilità diretta, non può applicarsi ai magistrati se si guarda al bene ed alla tenuta di uno Stato democratico. E ciò per due motivi che spesso sono oscurati dal comprensibilissimo risentimento provocato da palesi ingiustizie o da grossolani, imperdonabili errori. Il primo: non è vero che lo sbaglio del magistrato non è sanzionato. Lo è attraverso il regime delle impugnazioni che possono correggere gli errori di ogni tipo. Così come è possibile anche ottenere dallo Stato i risarcimenti dovuti per i casi di danno economico o al bene della vita (ad esempio l’ingiusta detenzione). La responsabilità non può che essere indiretta perché il magistrato amministra la giustizia non in proprio ma in nome del popolo italiano. Il secondo: chi è che stabilisce se il giudice ha sbagliato? Un altro giudice, ovviamente. Ma anche questo potrebbe sbagliare nel giudicare il primo. E chi giudicherebbe in questo caso? Un altro giudice. E così via. Insomma si innesterebbe una spirale di giudizi tale da minare definitivamente la credibilità, l’efficienza e l’equità del sistema giudiziario. Ovvio che non è in discussione l’ipotesi del dolo o della corruzione, già ampiamente sottoposta alle norme del codice e delle leggi penali applicabili a tutti ed al rispetto delle quali i magistrati non sono affatto sottratti. Sbagliano, certo. Ma non possono essere mai, in nessun caso - salvo per fatti costituenti reato - esposti alla sindacabilità del loro operato da altri che non sia il giudice della impugnazione. Per questi motivi - però - occorre che il Csm sia impermeabile da influenze politiche e che le carriere di giudice e pm siano separate. Si può fare con i referendum? Gli aspetti da considerare sono talmente tanti che nessuno può essere certo di averli tutti ben presenti nel seggio referendario. Quel che è certo è che i referendum servono, come sempre, non solo per il loro esito, ma per ciò che intendono esprimere i proponenti in termini di monito per i legislatori, per dir loro le cose che non vanno e sulle quali dovrebbero dare risposte. In questo caso la forte, pressante richiesta di una seria riforma della Giustizia. Organica e non occasionale e fatta da demagoghi o sotto la spinta di suggestioni. Che però - ed è qui la considerazione finale - non può che passare per una nuova legge elettorale in senso proporzionale puro. Solo un parlamento autorevole e di veri “eletti” può mettere mano a questa materia incandescente senza bruciarsi o ritrarre la mano. Il Parlamento attuale è fatto da nominati che la possono solo alzare, la mano. A comando. Attenti, il referendum è un’estrema occasione per ricucire lo strappo fra cittadini e giustizia di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 23 febbraio 2022 Ci sono temi sui quali - comunque la si pensi - occorre prendere posizione. Temi, a volte, delicati e complessi sui quali il Parlamento, per varie ragioni, fatica a decidere. Questa è la ragione per la quale la nostra Costituzione (enfaticamente definita “la più bella del mondo”, anche da chi oggi ne critica la concreta attuazione) prevede l’istituto del referendum abrogativo (art. 75 Cost.). Si tratta di uno dei tre strumenti, insieme alla petizione (art. 50 Cost.) e al disegno di legge di iniziativa popolare (art. 71 Cost.), con i quali è garantita la partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del Paese. Come è noto, però, la via per l’indizione del referendum è accidentata e piena di ostacoli: occorre individuare un quesito; raccogliere le firme di cinquecentomila elettori o la richiesta di cinque Consigli regionali; passare il vaglio di conformità alla legge da parte della Cassazione; superare il filtro di ammissibilità da parte della Corte costituzionale. E non finisce qui: infatti, la convocazione del referendum può essere revocata, se prima del voto le richieste referendarie sono recepite nell’ordinamento attraverso appositi interventi legislativi. Ma c’è un altro rischio, assai concreto, che può frustrare il ricorso al referendum. Infatti, come specifica l’articolo 75 della Costituzione, perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto, e inoltre che sia raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Ora, la Corte costituzionale - sugli otto referendum sottoposti al suo giudizio di ammissibilità - ha “bocciato” quelli sull’eutanasia e sulla cannabis, nonché quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, mentre ha ammesso quelli sulla limitazione di cambi di funzioni tra giudici e pm, sull’abrogazione della legge Severino, sul contenimento del ricorso alla custodia cautelare, sulla necessità di raccogliere firme per candidarsi al Csm, sulla possibilità di consentire il voto degli avvocati nelle valutazioni di professionalità dei magistrati. Per parafrasare una frase utilizzata più volte da Giulio Andreotti “a pensare male si commette peccato, ma spesso si indovina”: è singolare che la Corte costituzionale, dalla margherita dei temi referendari, abbia eliminato i petali più noti all’opinione pubblica, rinvigorendo le speranze di chi ora tifa per il non raggiungimento del quorum. Infatti, scampato il pericolo che i tre referendum apparentemente dotati di maggiore appeal nell’opinione pubblica potessero trascinare il quorum anche per quelli poi effettivamente ammessi dalla Corte costituzionale, ora si iniziano a levare le voci dei benaltristi (“per cambiare la giustizia ci vorrebbe ben altro…”), dei laudatori della supremazia del Parlamento (“le riforme organiche le deve predisporre il legislatore”; peccato sia stato sinora del tutto assente), dei critici della democrazia diretta (“il popolo non comprende questioni complesse”: in un mondo capovolto, tesi sostenuta da chi avrebbe persino voluto superare il Parlamento, ritenuto istituzione ottocentesca), dei difensori delle pubbliche casse (“il referendum costa…”; come se l’inefficienza della giustizia italiana non costasse variati punti di Pil ogni anno). E persino le voci degli amanti del mare e, comunque, delle vacanze. E invece, guardando al bicchiere mezzo pieno, i quesiti ammessi sono anch’essi di straordinaria importanza, perché potrebbero contribuire a cambiare il volto di una giustizia che tutti riconoscono essere lontana dai cittadini. Quei cittadini messi al centro delle forti parole del Presidente Mattarella nel discorso per il suo secondo insediamento, nel quale - tra l’altro - ha invocato un “profondo processo riformatore”, ha sottolineato le “pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini”, ha ammonito che “indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza”. Per non fare, allora, i sepolcri imbiancati, occorre favorire il voto popolare e, in tal senso, mi sembra opportuno il ricorso all’election day, accorpando il voto referendario a quello per le amministrative. Ovviamente, nella prima data utile, considerando che le amministrative dovrebbero tenersi tra il 15 aprile e il 15 giugno. In tal modo, peraltro, si risparmierebbero dai 200 ai 400 milioni (a seconda delle stime). Un voto libero e consapevole val bene una ritardata gita al mare. E riavvicinerebbe i cittadini a quella giustizia che deve essere amministrata “in nome del popolo” (art. 101 Cost.). Perché, per concludere con le applauditissime parole del Presidente Mattarella alle Camere riunite, “i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”. E così oggi, purtroppo, non è. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo, già Componente del Csm Riforma Csm, il testo annunciato dal governo alla Camera non si vede ancora di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2022 La Commissione Giustizia: “Senza non possiamo andare avanti”. La “latitanza” degli emendamenti del governo, iniziata con la seduta del 16 febbraio, è proseguita anche in quelle del 17 e del 22. Il presidente Perantoni (M5S): “La Commissione è ferma, non appena arriveranno saremo in grado di programmare i lavori”. Il tempo però non è infinito, perché la riforma dovrebbe intervenire sul sistema elettorale dei membri togati del Csm in tempo per le prossime elezioni dell’organo di palazzo dei Marescialli, previste a luglio. Dieci giorni fa sono stati stati presentati in conferenza stampa dal premier Mario Draghi e dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Ma alla Commissione Giustizia della Camera, dove dovrebbero essere discussi, gli emendamenti del governo alla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario non li ha ancora visti nessuno. L’inizio dell’esame era stato fissato per la seduta del 16 febbraio, ma il testo - riferivano dal ministero - era bloccato in Ragioneria generale dello Stato per la bollinatura. “Senza conoscerne bene il contenuto è prematuro decidere se occorre svolgere un ciclo di audizioni e fissare il temine per i subemendamenti (cioè le proposte di modifica parlamentare al testo del governo, ndr)”, spiegava il presidente della Commissione Mario Perantoni (M5S). “Ad oggi”, attaccava Enrico Costa di Azione, “la conoscenza dei parlamentari sul testo delle proposte del Governo è limitata alle parole che il premier e la ministra hanno pronunciato in conferenza stampa. Nessun testo, nessun dettaglio. Un modo di procedere a singhiozzo, fatto di consultazioni informali, testi in continua evoluzione, discussioni senza i documenti. Un modo di procedere poco serio che lascia il Parlamento in umiliante attesa di decisioni prese altrove”. La “latitanza” del testo però è proseguita anche nelle sedute successive, quella del 17 e quella del 22 febbraio. In quest’ultima occasione uno dei due relatori del testo, Walter Verini (Pd), ha chiesto a Perantoni se ci fossero notizie sulla presentazione degli emendamenti - a quanto pare ancora fermi in Ragioneria - mentre altri deputati hanno incoraggiato il presidente a sollecitarli. “La Commissione è ferma in attesa dei testi del governo: non appena arriveranno saremo in grado di programmare i lavori”, ha ribadito lui una volta terminata la seduta. Il tempo però non è infinito, perché la riforma dovrebbe intervenire sul sistema elettorale dei membri togati del Csm in tempo per le prossime elezioni dell’organo di palazzo dei Marescialli, previste a luglio. Un’urgenza sottolineata più anche dal capo dello Stato Sergio Mattarella, da ultimo anche nel discorso alle Camere durante la cerimonia di reinsediamento. Il testo base a firma dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, peraltro, era stato approvato ad aprile 2021, mentre il 3 giugno erano stati depositati gli emendamenti parlamentari (più di quattrocento). Il Parlamento, quindi, è rimasto ingessato per otto mesi in attesa dell’iniziativa del governo, e lo stallo non si è ancora sbloccato. Inoltre, sui contenuti approvati all’unanimità dal Consiglio dei ministri l’accordo dei partiti non è affatto blindato: Forza Italia, Lega e Movimento 5 Stelle insistono per un sistema elettorale basato sul sorteggio dei candidati, mentre il Pd vorrebbe ridimensionare la norma sulle “porte girevoli” che vieta il ritorno alle funzioni giudiziarie per i magistrati che assumono incarichi elettivi o di governo nazionale o locale. In conferenza stampa Draghi ha detto di non voler porre la fiducia sul testo, ma è probabile che i tempi strettissimi alla fine la imporranno come scelta obbligata. Minori allontanati da casa per forza, le questioni etiche di Grazia Zuffa Il Manifesto, 23 febbraio 2022 Da tempo si registrano casi di cronaca che riguardano minori allontanati contro la loro volontà dalla casa e dal genitore con cui vivevano, per decisione di tribunali nelle cause di separazione fra coniugi: per trasferirli nella casa dell’altro genitore in alcuni casi; in altri, in una comunità, con restrizioni di rapporto col genitore da cui sono stati allontanati, che possono giungere fino al divieto di contatto per molto tempo. Lo sconcerto nasce sia per la gravità dell’intervento coatto sulla vita del bambino, sia per il ricorso imponente alla forza con cui è a volte eseguito: con utilizzo delle forze dell’ordine, ambulanza, vigili del fuoco, abbattimento di porte, immobilizzazione del minore. Questi fatti possono essere analizzati da diversi punti di vista, non ultimo quello della differenza di genere poiché nella stragrande maggioranza di questi casi i bambini sono allontanati dalla madre. Entrano anche in gioco la violenza di genere e la (scarsa) considerazione da parte dei giudici della violenza in famiglia: col risultato che in nome del principio di “bigenitorialità” e dei “diritti di padre” del coniuge maltrattante si ignorano i contorni reali della sua relazione coi figli, non si dà peso alle paure dei bambini, si chiudono gli occhi sui rischi che i piccoli possono correre. Il caso del bambino di Varese ucciso dal padre la notte di Capodanno parla da sé. Scelgo però di partire dal punto di vista del minore che subisce queste decisioni, per una riflessione di carattere etico, trattandosi di soggetti vulnerabili, il cui benessere è sotto la responsabilità - e il potere - di altri. Come la legge giustamente prevede, il minore può essere tolto dalla famiglia anche contro la sua volontà e in nome del suo “superiore interesse”, ma solo di fronte a fatti eccezionalmente gravi, come maltrattamenti o dimostrazioni di trascuratezza da parte dei genitori. Ma i casi cui ci riferiamo di trasferimento forzato non sono motivati da comportamenti accertati a danno del minore, bensì da interpretazioni circa la dinamica relazionale fra il bambino e i due genitori in via di separazione. Sulla base di costrutti psicologici senza alcuna fondatezza scientifica, le eventuali difficoltà e resistenze del bambino al rapporto con uno dei genitori - in genere il padre - sono ricondotte alla cosiddetta sindrome di “alienazione parentale”, che si presume indotta dalla “madre malevola”, manipolatrice e “ostativa” (al rapporto del bambino col padre). Si attua così la patologizzazione del sentire del minore, che lo ammutolisce del tutto come soggetto. Con una serie di conseguenze: se la sua parola è pregiudizialmente invalidata, decade il diritto di essere ascoltato, e, insieme, il dovere delle autorità di indagare sugli eventi traumatici che possono dar conto delle sue paure. Il bambino è “malato” e al tempo stesso “colpevole” (insieme alla madre) di non adeguarsi alla “norma bi-genitoriale”. Con ogni evidenza, questa idea è parente degli assunti e delle relative pratiche punitive della psichiatria dello scorso secolo, utilizzate per correggere “gli anormali”, per dirla con Foucault. In altri termini, l’annichilimento del pensiero e dei sentimenti del minore, in una parola della sua soggettività, è congruente con lo smodato ricorso alla forza nell’esecuzione dei provvedimenti; ma anche con lo smodato esercizio di potere nel comprimere la libertà personale del minore, quale si manifesta nel costringere un bambino a separarsi dagli affetti più cari e a lasciare il suo ambiente di vita. Nascono da qui inquietanti interrogativi etici: come è possibile ridurre il bambino/bambina a oggetti da trasferire forzosamente al fine di favorire una relazione altrettanto forzosa con un genitore? Come non rendersi conto che la responsabilità nei confronti dei minori richiama la limitazione del potere su di loro, non il contrario? Decadimento psichico del detenuto anziano, sì alla detenzione domiciliare umanitaria di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 febbraio 2022 Se va negata la sospensione della pena detentiva. Il grave decadimento psichico inarrestabile del detenuto anziano, anche se pericoloso, può consentire l’ammissione al beneficio. Il giudice di sorveglianza non può respingere l’istanza di sospensione della pena detentiva chiesta a norma della disposizione dell’articolo 147 del Codice penale senza vagliare la possibilità di concedere la detenzione domiciliare cosiddetta “umanitaria” che prevede l’ordinamento penitenziario. Questo l’insegnamento della sentenza n. 6300/2022 della Cassazione sul caso del rigetto dell’istanza di sospensione per motivi di salute ritenuti compatibili con la reclusione se il carcere risulta comunque degradante per il detenuto che abbia manifestato anche un grave stato delle proprie condizioni mentali. L’infermità rilevante - L’istanza di sospensione che sia stata promossa per “grave infermità fisica” a norma dell’articolo 147 Cp obbliga il giudice a valutare se - al di là dell’accertata compatibilità del carcere con la malattia e le possibilità di cura - ricorra una “grave infermità psichica” per cui lo stato detentivo compromette la dignità della persona. Si tratta cioè della possibilità di concedere, in alternativa alla sospensione della pena, la detenzione domiciliare “umanitaria” prevista dall’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario per incompatibilità personali col regime carcerario, quando queste determinano nei fatti un trattamento disumano. E su tale beneficio, relativo all’espiazione della pena che sia divenuta degradante e non utile in alcun modo alla funzione rieducativa, la Consulta nel 2019 ha valorizzato lo stato di “grave infermità psichica” facendo venir meno i limiti quantitativi di pena residua previsti dalla norma penitenziaria ai fini del riconoscimento della detenzione domiciliare umanitaria. Tale esame “alternativo” è del tutto mancato nella decisione di diniego ora annullata, che si era appiattita sulla relazione sanitaria relativa ad alcune patologie in atto, mancando di tenere in considerazione lo stato mentale di una persona aspirante suicida e in pieno decadimento psichico (nel caso concreto anche legato all’età) non recuperabile. La pericolosità - La Corte di cassazione dopo aver dettato al giudice del rinvio l’estensione del giusto perimetro valutativo sull’incompatibilità tra carcere e stato di salute, affronta l’ostacolo alla concessione della sospensione della pena rappresentato dal rischio di commissione di nuovi delitti derivante dalla pericolosità del soggetto recluso. Dice la Cassazione che se il giudice ritenga sussistente lo stato di grave infermità del detenuto pericoloso e condannato a decine di anni di carcere può superare l’ostacolo previsto all’ultimo comma della norma penale se appura che la detenzione domiciliare concessa in alternativa alla sospensione della pena è sufficiente a neutralizzare la pericolosità (magari residua) del soggetto, scongiurando il rischio di commissione di nuovi delitti. Pozzuoli (Na). Morta in carcere, il legale: “Dubbi su psicofarmaci somministrati” anteprima24.it, 23 febbraio 2022 Per la madre e i fratelli di Isabella P., detenuta affetta da problemi psichiatrici, cardiaci e polmonari, morta nel febbraio 2021 nel carcere femminile di Pozzuoli, il decesso potrebbe essere riconducibile alla somministrazione di dosi eccessive di psicofarmaci, sconsigliati per chi soffre di patologie come le sue. Per questo motivo gli avvocati Mike Lubrano e Alfredo Cursio, legali della famiglia, hanno presentato un’istanza di opposizione alla richiesta di archiviazione che era stata formulata dalla Procura di Napoli e che domani sarà sottoposta al vaglio del GIP. Isabella è deceduta lo scorso febbraio 2021 mentre era detenuta nel carcere di Pozzuoli, dove stava scontando un cumulo di pene per reati di piccolo conto. Secondo gli avvocati Lubrano e Cursio, Isabella era una detenuta “difficile”: si azzuffava con le altre compagne di cella e creava parecchi problemi anche agli agenti di polizia penitenziaria, anche perché, affetta da una grave patologia psichiatrica: un disturbo borderline della personalità con schizofrenia paranoide. Nonostante ciò, secondo le informazioni acquisite, i sanitari dell’infermeria del carcere si sarebbero attenuti a non somministrare i farmaci salvavita utili alla patologia polmonare al semplice rifiutato della detenuta. “Dagli atti di indagine relativi al decesso - spiegano i legali - è emerso che Isabella, secondo quanto accertato da un medico legale nominato dal Tribunale, avrebbe potuto trovare migliori cure, utili per tutte le patologie di cui soffriva, solo in strutture specializzate come le Rems”. “Nonostante ciò - dicono ancora i legali - per oltre 5 mesi la donna è rimasta in carcere, senza ricevere le cure adeguate e finendo col trovarvi la morte. Infatti, prima di morire a causa dell’aggravarsi di una pregressa patologia polmonare, più volte è stata accompagnata con urgenza al pronto soccorso di Pozzuoli perché ‘in stato soporoso’ determinato da intossicazione di benzodiazepine”. Santa Maria Capua Vetere. Da mesi in carcere con il tumore, Antonio sarà curato in ospedale di Rossella Grasso Il Riformista, 23 febbraio 2022 “Mesi per trovare una soluzione, è inaccettabile. Finalmente Antonio uscirà dal carcere per essere curato in una struttura sanitaria adeguata alla sua salute”. Con questo annuncio Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta annuncia il lieto fine di quello che per un detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere era diventato un vero e proprio calvario. Antonio M. 53enne originario dei Quartieri Spagnoli, già da 10 anni in carcere, due anni fa aveva scoperto di avere un tumore. La situazione della sua salute, con il passare dei mesi, stava peggiorando. Era stato anche dichiarato incompatibile con il regime carcerario per problemi gravi di salute. “Se ne stava nell’infermeria centrale, con due sacche di urina appese all’addome in buste per la spesa. Una situazione veramente drammatica”, racconta Emanuela Belcuore. A questo si aggiunge la pericolosità per un paziente fragile come Antonio di vivere in carcere durante la pandemia che a Santa Maria Capua Vetere si è fatta sentire in più momenti con numerosi contagi. Il carcere per Antonio rischiava di diventare la sua tomba. “L’area sanitaria per mesi ha cercato una struttura sanitaria che potesse accoglierlo senza successo - continua la garante - Io non ho la bacchetta magica ma insieme alla mia collaboratrice, Patrizia Sannino, abbiamo individuato una struttura in 20 giorni. Questo vuol dire che a volte basta impegnarsi per riuscire”. Per un detenuto con le patologie di Antonio il tempo è fondamentale. Antonio era davvero molto sofferente. La sua famiglia lo ha abbandonato al suo destino. Ma in carcere ha incontrato la garante Belcuore e la criminologa Patrizia Sannino che, insieme al magistrato Marco Puglia, lo hanno aiutato e hanno trovato la sistemazione che per lui è più idonea. “Per noi è stata una grande soddisfazione - ha detto Belcuore - aver contribuito a dare la libertà a un uomo che sta veramente male e che in carcere non poteva proprio stare. È uscito dal carcere con le buste per l’urina appese alle buste della spesa. Un vero strazio. Ora potrà trascorrere il resto della sua vita tra persone che lo curano adeguatamente”. Ad Antonio mancano ancora 10 anni di carcere che adesso può continuare a scontare ma curato e in un ambiente idoneo alla sua situazione. “Aveva difficoltà a camminare e a fare tutto - conclude Belcuore. Gli davano pure l’orario di chiusura in cella come per gli altri. Ma che senso aveva? Il 24 sarà il compleanno di Antonio. Nella struttura sanitaria dove è stato trasferito già gli hanno preparato una torta. Sono molto felice”. Catanzaro. L’ateneo “entra” in carcere, lezioni in presenza per i detenuti di Antonella Scalzi Gazzetta del Sud, 23 febbraio 2022 Ogni mercoledì e giovedì le lezioni di Sociologia della devianza e Sociologia della sopravvivenza si terranno al Caridi. Due insegnamenti universitari da gestire interamente in presenza dal carcere. L’approccio accademico già consolidato tra l’ateneo “Magna Græcia” e il penitenziario “Ugo Caridi” del capoluogo di regione da oggi si rafforza, cambia pelle e ribalta il banco portando in carcere lezioni che gli studenti non detenuti continueranno invece a seguire da casa per come già previsto dalle norme anti-Covid ancora vigenti. A fare da apripista a una svolta determinata anche dalla situazione pandemica gli insegnamenti di Sociologia giuridica e della devianza e Sociologia della sopravvivenza, l’uno afferente al corso di laurea in Giurisprudenza e l’altro a quello in Sociologia. Sedici gli studenti coinvolti negli studi universitari in carcere che ogni mercoledì e ogni giovedì seguiranno in aula insegnamenti che tutti gli altri studenti dell’ateneo Magna Græcia seguiranno invece in diretta streaming. Cosenza. “Amore sbarrato”. Il lavoro teatrale che coinvolge i detenuti quicosenza.it, 23 febbraio 2022 Il progetto dell’attore ed autore teatrale cosentino Adolfo Adamo. Un lavoro artistico che coinvolge i detenuti del carcere Sergio Cosmai di Cosenza, pensato ed ideato dall’attore ed autore teatrale cosentino, Adolfo Adamo, e giunto alla sua quarta edizione. Un lavoro iniziato nel 2015 e che adesso riprende dopo la pausa forzata a causa della pandemia. L’obiettivo del progetto è dare la possibilità al detenuto di sapere che ci può essere e che esiste ancora una occasione di potere evolversi e vedersi reinserito nella società una volta espiata la pena. “Siamo in una fase di riscaldamento e preparazione per gli ospiti della casa circondariale ad affrontare l’esperienza del teatro, quindi anche quella catartica che ci da la possibilità di capire dentro e fuori noi stessi - ha detto Rendano. Il teatro è importante proprio per questo. Li dove c’è culture non si delinque. Spetta a me capirli, aspettare i loro tempi e motivarli. Il teatro è una macchina perfetta che ti porta a capire tante situazioni che spesso ignoravi”. Il film sulle donne contro la ‘ndrangheta ci ricorda che “non meritiamo tanta bellezza” di Ennio Stamile* Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2022 L’attore Mario Russo, in una delle scene più toccanti del film “Una femmina”, regia di Francesco Costabile, pronuncia una frase che mi porto dentro: “Non meritiamo tanta bellezza”. Da qualche giorno il film è presente nelle sale cinematografiche, ho avuto la fortuna di poterlo vedere durante la prima uscita a Cosenza assieme al regista, attori e co-produttori. Ispirato al libro di Lirio Abbate “Fimmine ribelli. Come le donne salveranno il Paese dalla ‘ndrangheta”, questo film ha saputo sintetizzare nella storia interpretata dalla protagonista Lina Siciliano - bravissima al suo debutto cinematografico - la vita di tante donne calabresi. Alcune di esse proprio perché ribelli sono state travolte da una violenza inaudita, davvero disumana, messa in atto da cosiddetti uomini d’onore senza scrupoli che pensano che il loro “codice” li abiliti ad oggettivizzare tutto e tutti. Strumentalizzare soprattutto le donne, fino a quando servono ai loro deplorevoli scopi. È capitato a tante di loro: Rossella Casini di cui oggi ricordiamo il compleanno a distanza di 41 anni da quel barbaro omicidio, stuprata, fatta a pezzi e gettata in pasto ai pesci nella tonnara di Palmi. Nello sguardo serio e penetrante dell’attrice protagonista, ho potuto rivedere le vite spezzate, oltre che di Maria Concetta Cacciola, di Tita Buccafusca, Maria Chindamo, Angela Costantino, Annunziata Pesce, Lea Garofalo. Pezzi di storie che compongono un universo complesso, quello ‘ndranghetista, difficile da comprendere perché mentre sa restare ancorato al territorio e a vecchie regole fondate su rituali arcaici - le cui solide fondamenta sono omertà, onore e sangue - contestualmente sa adattarsi al mondo che cambia infiltrando l’economia - non solo in Italia, ma anche in molti Paesi europei ed extra-europei - di denaro sporco attraverso diversi strumenti: corruzione, prestanome, investimenti finanziari, attività commerciali di ogni genere. Le donne ricordate sopra che hanno voluto distaccarsi da questo ambiente segnato da odi, faide, violenze e menzogne di ogni genere, pur di salvaguardare i propri tornaconti hanno dovuto sopportare che le loro abitazioni si trasformassero in celle infernali e asfissianti. Una violenza psicologica e fisica inaudita! È importante raccontare queste storie non solo attraverso i libri ma anche con l’arte del teatro e del cinema, perché ci svelano un mondo fatto di violenza, certo, ma anche di tanto coraggio. Sono profondamente grato al regista di origini calabresi, perché attraverso la frase ricordata sopra mi ha dato conferma di un un’idea che da tempo ho maturato: molti abitanti di questa splendida terra non meritano di vivere immersi in tanta bellezza. Lo ripeto spesso ai tanti giovani che incontro: gli ‘ndranghetisti, assieme ai collusi e corrotti di ieri e di oggi, sono stupratori del bello! Il film ci racconta la bellezza del coraggio che sorge dall’amore profondo, viscerale, come solo una donna, una madre, sa provare. Che vince la paura dell’orco di turno, sempre pronto a sbranarti con la sua logica della sopraffazione. Sono certo che “la bellezza salverà il mondo”, come scriveva il genio intramontano e intramontabile di Dostoevskij. Peppino Impastato diceva che essa ci salverà da tre mali endemici della nostra società: 1. dalla rassegnazione. Noi calabresi ci esprimiamo spesso con una frase in dialetto che ne è la perfetta sintesi: “chi ci putimu fa”. Rassegnati al triste destino di vedere calpestare e stuprare questa terra, impedirle di esprimere le sue enormi risorse da uomini senza scrupoli perché senza cuore. Pensare che non si possa fare nulla, non si possa agire per cambiare le cose, significa rinunciare a combattere, vivere nell’indifferenza che come ci ricordava A. Gramsci “opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza”; 2. dalla paura. Lo scrittore australiano Gregory David Roberts scrive che essa è “l’emozione più difficile da gestire. Il dolore si piange, la rabbia si urla, ma la paura si aggrappa silenziosamente al cuore”. Ci impedisce quindi di amare, di sognare una terra e un mondo diversi; 3. dall’omertà. Il silenzio, a volte vile e ingiustificato di molti, ha contribuito ad erigere “la statua invisibile dell’omertà” che, soprattutto alle nostre latitudini campeggia indisturbata. Invisibile, certo, ma potente, capace di impedire che il percorso della verità “del diritto e della giustizia scorra come un fiume possente” (M. L. King). Grazie anche al coraggio di tante donne che scelgono di entrare nel progetto “Liberi di scegliere”, questa immobile, potente e invisibile statua dell’omertà è stata infiltrata e presto, sono certo, crollerà, facendo emerge ancora di più la melma degli intrecci politico-masso-mafiosi. Infine, ancora un pensiero grato al regista e ai co-produttori che hanno voluto con coraggio che questa storia abitasse le sale cinematografiche. L’arte, in tutte le sue espressioni, come manifestazione del bello, del vero e del buono, con il loro misterioso intreccio (convertuntur) è un continuo stimolo a rialzarci dalle nostre miserie. *Referente regionale Libera Calabria I diritti inviolabili e la decisione della Consulta di Filippo Vari* L’Opinione, 23 febbraio 2022 La Corte costituzionale, questa settimana, ha reso noto, con un comunicato stampa, di aver dichiarato inammissibile la richiesta di un referendum per abrogare l’articolo 579 del Codice penale. Si tratta della norma che punisce, con la reclusione da 6 a 15 anni, l’omicidio del consenziente, con una sanzione meno grave rispetto a quella prevista per l’omicidio comune, punito con la reclusione non inferiore a 21 anni. L’obiettivo dei promotori, tra cui realtà del mondo dei radicali, era d’introdurre in Italia l’eutanasia, eliminando la punizione dell’omicidio del consenziente, salve le ipotesi di un minore, di una persona “inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica” o la cui richiesta fosse stata determinata da “violenza, minaccia suggestione” o “inganno”. La Corte costituzionale avrebbe potuto dichiarare inammissibile la richiesta referendaria in quanto non solo abrogativa, secondo quanto previsto dall’articolo 75 della Costituzione, ma in realtà propositiva. La Consulta ha, invece, deciso l’inammissibilità poiché abrogando l’articolo 579 del codice penale “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. La decisione della Corte suggerisce alcune considerazioni. Anzitutto va ribadito, come più volte sottolineato dalla stessa Consulta, che il diritto alla vita è il primo e più importante dei diritti inviolabili, in quanto presupposto per il godimento di tutte le altre posizioni giuridiche. I diritti inviolabili, come magistralmente ricordato da Baldassare, presentano “i caratteri della indisponibilità, della inalienabilità, della intrasmissibilità, della irrinunciabilità e della imprescrittibilità”: per ciò che qui interessa, essi sono caratterizzati dall’impossibilità per il titolare di disporne, “autoprivandosi” definitivamente del loro godimento. Questa elementare considerazione era chiara fino a qualche anno fa. Oggi, tuttavia, essa è sottoposta a forti tensioni, alcune delle quali avallate anche dalla stessa giurisprudenza costituzionale, come nel caso DJ Fabo/Cappato. In esso il giudice delle leggi è giunto a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale, norma che punisce l’assistenza al suicidio, nell’ipotesi di “persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. La seconda considerazione prende spunto dalla conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, immediatamente successiva alle decisioni della Corte sulle richieste di referendum sottoposte al giudizio d’ammissibilità. Il presidente si è detto ferito dalle critiche ricevute per una presunta insensibilità della Corte alle ragioni dei sofferenti che avrebbero richiesto l’eutanasia. Queste affermazioni dimostrano, al contrario, l’importanza dell’impegno dei sostenitori delle ragioni del diritto alla vita sul piano sociale e culturale. Infatti, sui maggiori quotidiani nazionali la decisione della Corte è stata accolta negativamente, dando ampio spazio a quella che, nel magistero dei Pontefici degli ultimi 50 anni, viene qualificata come cultura della morte o cultura dello scarto. In opposizione a questa spinta, le associazioni che invece ritengono inviolabile il diritto alla vita - e, tra esse, quelle cattoliche - hanno un ruolo fondamentale nel promuovere con le opere, la testimonianza e la presenza nel dibattito pubblico le ragioni della vita per ribadire che, come ha ricordato recentemente Papa Francesco, quest’ultima “è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata”. *Ordinario di Diritto costituzionale - Università Europea di Roma Eutanasia, cosa ci insegna Daniela di Luigi Manconi La Repubblica, 23 febbraio 2022 Con una patologia oncologica incurabile, voleva “morire” in Italia. Oltre agli aspetti giuridici e politici, dobbiamo considerare la sofferenza delle persone. Per sottrarre la riflessione sulla mancata ammissibilità del referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia alle dispute tra giureconsulti e al conflitto politico-ideologico, un modo c’è. Ed è quello di guardare l’aspra materialità delle cose e della sofferenza dei pazienti. Consideriamo, a esempio, la storia di Daniela, alla quale, nel 2020, all’età di 37 anni, viene diagnosticata una patologia oncologica incurabile con prognosi infausta breve. Nel febbraio del 2021 Daniela decide di contattare l’Associazione Luca Coscioni per avere informazioni su come accedere al suicidio assistito in Italia o in Svizzera. Chiede alle Asl di Roma e di Foggia (dove ha la residenza) di essere sottoposta a visita, così che i medici possano valutare se il suo caso rientri fra quelli indicati dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 2019: quelli, cioè, che consentono il ricorso al suicidio medicalmente assistito. Nel frattempo, anche se la Svizzera le aveva riconosciuto l’accesso al suicidio assistito, Daniela insiste per poter “morire in Italia”. Dopo settanta giorni arriva la comunicazione da parte dell’Asl di Roma che, senza averla visitata, valuta che “la signora non riceve attualmente trattamenti di sostegno vitale tramite macchinari, bensì è sottoposta a chemioterapia e terapie del dolore”. Dunque, secondo la Asl, non sussisterebbe “una delle condizioni essenziali, così come richiesto nella sentenza della Corte Costituzionale, che possano rendere attuabile una ipotesi di suicidio medico assistito”. Il che dimostra come la citata sentenza della Consulta, che pure ha costituito un passo avanti, rappresenti un limite insuperabile all’esercizio di quel diritto all’autodeterminazione sul quale deve fondarsi qualsiasi ragionamento in materia di fine vita. Ed è un limite fortemente discriminatorio, perché escludendo persone che pure soffrono dolori lancinanti, ma che non dipendono da macchine e altri presidi sanitari, le condannano a uno stato di sofferenza non lenibile e a un’agonia prolungata. Ed è lo stesso limite che presenta il disegno di legge in discussione alla Camera dei Deputati, come esito del confronto all’interno della Commissione Giustizia. Eppure, come ricorda Filomena Gallo, segretario della Luca Coscioni, il criterio del presidio sanitario è già stato superato dalla sentenza del processo a Mina Welby e Marco Cappato per il suicidio assistito di Davide Trentini. Infatti, il 28 aprile del 2021, gli imputati sono stati assolti dalla Corte D’Assise di Genova perché il concetto di “trattamento di sostegno vitale” non significa automaticamente “macchina” a cui il paziente è legato, ma può essere anche altro, come un trattamento farmacologico. Infine, tramite la difesa dell’Associazione Luca Coscioni, Daniela presenta presso il Tribunale di Roma un ricorso d’urgenza ex art. 700 del codice civile per chiedere che sia ordinato all’Asl competente di effettuare la verifica delle condizioni di salute. L’udienza è fissata per il 22 giugno del 2021. Daniela muore diciassette giorni prima, il 5 giugno del 2021. Come sempre, il tempo nelle cose umane è determinante. E, in questa circostanza, accompagna crudelmente l’ignavia di chi non sa assumersi le proprie responsabilità. Gli studenti fanno bene a protestare. Le Regioni devono riformare l’alternanza scuola-lavoro di Luigi Gallo* Il Fatto Quotidiano, 23 febbraio 2022 I giovani cittadini che oggi frequentano la scuola italiana, devono avere tutti gli strumenti per poter cambiare la società costruita dalle precedenti generazioni, perché non basta più adeguarsi al modello di lavoro, economico e sociale ereditato. L’attuale modello economico produce da 30 anni un aumento delle disuguaglianze e da oltre 50 un processo di devastazioni ambientali che minacciano la sopravvivenza della specie umana. Per questo la scuola deve fornire un contributo critico sullo sviluppo economico, sui percorsi di cittadinanza che devono cambiare il quadro del mondo del lavoro e delle imprese, rendendo gli studenti protagonisti del loro percorso di formazione. Il M5S ha mantenuto la promessa di smantellare e riformare l’alternanza scuola lavoro, sostituita con la prima legge di bilancio nel 2018 dai “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”, con nuove linee guida, con una riduzione del monte ore a 90 ore nel triennio finale per i licei, 150 per gli istituti tecnici e 210 per gli istituti professionali. Inoltre, anche quest’anno I PCTO, così come le prove Invalsi, non saranno requisito d’accesso per la maturità 2022, sulla strada tracciata negli anni scorsi. Tuttavia gli episodi drammatici di Lorenzo Parelli di 18 anni, deceduto il 21 gennaio in un incidente presso una fabbrica siderurgica e ricordato dal Presidente Mattarella nel suo discorso di insediamento, così come quello che ha coinvolto Giuseppe Lenoci, 16 anni, morto in un incidente stradale mentre era in stage in provincia di Ancona, pongono l’attenzione sulla formazione professionale di competenza regionale e le loro regole sui tirocini, sugli stage e sulla sicurezza. E’ giusta la richiesta tanti studenti che nelle piazze italiane chiedono alle regioni una riforma sull’alternanza scuola-lavoro regionale. Per troppo tempo i problemi e le inefficienze della società sono state scaricate sulla scuola e sui ragazzi. Da tempo il settore industriale, produttivo ed economico del nostro paese ha abbandonato o depotenziato le scuole di formazione industriali che in passato, dalla Olivetti alla Fiat, hanno dato un grande contributo al Paese. Il settore produttivo deve ritornare a investire in formazione e sicurezza, senza puntare il dito su scuola e università che sono principali custodi di un sapere di base e generale e di un sapere critico che deve essere ulteriormente potenziato e lo sforzo deve essere indirizzato a colmare l’enorme deficit sulle competenze di base, non solo tra i ragazzi ma anche tra gli adulti. Va invece varata una piattaforma di formazione/lavoro per il mondo degli adulti, calibrata sulle esigenze di sviluppo territoriale in ambito nazionale e internazionale, individuando spazi e tempi dedicati alla formazione degli adulti dove il sistema scolastico può intervenire a supporto con l’utilizzo delle sedi scolastiche nel pomeriggio, mentre il Ministero del Lavoro può investire sulla creazione di una piattaforma digitale nazionale per la formazione che si integri al lavoro promosso dall’ex ministra Nunzia Catalfo sul Fondo Nuove Competenze. Le politiche di formazione del lavoro nazionali e regionali, le politiche di ricollocamento, nonché quelle strutturate per il reddito di cittadinanza, possono contare su tante risorse europee e del PNRR, permettendo ai percettori di reddito di poter accedere alla formazione professionale e di essere supportati nell’acquisizione di titoli scolastici e universitari, perché il numero basso di diplomati e laureati resta un’emergenza del Paese. Delegare tutti i problemi alla scuola e all’università e puntare il dito è uno sport diffuso in questo Paese e sarebbe il caso che si chiedesse piuttosto nei consessi europei di uscire dai vincoli di bilancio per permettere investimenti su spesa corrente, con l’aumento del personale per ridurre le classi pollaio e l’aumento degli stipendi nel mondo della scuola. Solo così il personale scolastico riuscirà a buttarsi alle spalle la condizione di cenerentola delle professioni nel nostro Paese. *Deputato M5S, già presidente Commissione Cultura Ius soli alla bolognese, solo la Lega vota contro di Niccolò Zancan La Stampa, 23 febbraio 2022 La notizia è che il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, sindaco del Pd, ha fatto una cosa di sinistra. Ha voluto e istituito con un voto in consiglio comunale la cittadinanza onoraria per 11 mila bambini di origini straniere che vivono nella sua città. Non solo per i bambini nati a Bologna da genitori immigrati, ma anche per quei bambini nati altrove che abbiano completato un ciclo di studi in Italia. Insomma, uno Ius Soli allargato a tutti. Il primo provvedimento del genere, seppur simbolico. Quello Ius Soli che il Pd nazionale non è mai riuscito a portare avanti in Parlamento. E nota bene: a Bologna hanno votato a favore tutti i partiti, non solo quelli della coalizione di centrosinistra. Contraria la Lega, astenuti i consiglieri di Fratelli d’Italia assenti alla votazione. “Per noi è una grande notizia” dice la signora Shaza Makhoul, 38 anni, siriana. Alle cinque di pomeriggio sta tornando a casa con le figlie appena uscite da scuola. Abita al “Salus Space”, un’ex clinica di periferia riconvertita in residenza. Un posto dove si può sentire il profumo di tutte le cucine del mondo, ma dove i bambini giocano insieme in italiano. “Siamo siriani, e siamo cristiani. Abbiamo dovuto lasciare Aleppo nel luglio del 2016, in piena guerra. Abbiamo deciso di fuggire quando ci siamo trovati una minaccia di morte sulla nostra auto, dove avevamo lasciato un rosario”. La signora Makhoul racconta del viaggio a piedi e poi in gommone fatto dal marito Habib Samra, 40 anni. Dell’attesa in Turchia e dell’approdo fortunoso su un’isola greca. “Quando mio marito è riuscito a arrivare in Italia, ha potuto chiedere il ricongiungimento famigliare. Così siamo partite noi tre, e adesso siamo qui”. Dopo due anni a Rimini, sono a Bologna. Hanno aperto un ristorante. Le figlie hanno fatto tutte le elementari in Italia. “All’inizio non è stato facile. Una volta la più grande è tornata a casa in lacrime. Una compagna di scuola le aveva urlato contro degli insulti tremendi, diceva che lei era venuta a Bologna per rubarle il cibo e la vita. Non è stato sempre facile, ma adesso siamo finalmente in pace con tutti”. Una vita in pace. Una vita come tante altre. “Le nostre figlie vanno agli scout, fanno catechismo, frequentano il corso disegno. Abbiamo festeggiato anche la befana, anche se non è una nostra tradizione. Io sento profondamente che questo è il nostro Paese, lavoriamo qui, abbiamo gli amici qui, vogliamo restare in Italia”. È alle figlie di Shaza Makhoul e di Habib Samra che si rivolge il progetto del Comune di Bologna, a loro e tutti gli altri figli del palazzo Salus. Bambini etiopi e senegalesi, ragazzini del Mali e del Bangladesh. Per tutti i minorenni con origini straniere della città ci sarà una cerimonia, il 20 di novembre di ogni anno, in concomitanza con la Giornata internazionale dei diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza. L’idea è trasformare quel giorno in una festa della cittadinanza. È vero: non avranno la carta d’identità, ma “un kit” sui diritti e sui doveri di nuovi cittadini. È una decisione simbolica, ma il sindaco spera di condividerla con altri comuni, per tornare così a porre la questione dello Ius Soli al centro del dibattito politico italiano. Fino a produrre un cambiamento. La Lega, a Bologna, si dice sicura del contrario: “È un’idea che a livello nazionale non passerà mai”. Siid Negash, capogruppo della Lista Lepore, è l’autore dell’ordine del giorno che ha portato alla decisione: “Non è un provvedimento soltanto simbolico. Burocraticamente questi ragazzi non avranno la cittadinanza, ma dalla nostra città saranno finalmente riconosciuti. Prima erano invisibili, ora non lo sono più. E mentre tutti parlano dei giovani in giro nelle città italiane, noi a quei giovani diciamo che sono importanti. Vogliamo dire a loro: avrete tutte le opportunità. Voi, figli di genitori di origini straniere, come tutti gli altri ragazzi. La cerimonia sarà aperta. In modo che tutti possano capire. Quanto conta l’attesa, quanto è grande la felicità di essere visti. E tutti potranno giurare sulla Costituzione, che è la bibbia del nostro Paese”. L’avvocato della Corte di giustizia Ue: possibile fermare le navi Ong, ma manca normativa di Giansandro Merli Il Manifesto, 23 febbraio 2022 Il parere è importante ma non vincola i giudici. Nei prossimi mesi la sentenza sul futuro dei soccorsi in mare. Sul tavolo della Corte di giustizia dell’Unione Europea c’è un procedimento che deciderà il futuro dei soccorsi ai migranti nel Mediterraneo centrale. Oppone Sea-Watch al ministero delle Infrastrutture italiano e alle capitanerie di porto di Palermo e Porto Empedocle. Se il giudice darà ragione alla Ong sarà più difficile per la Guardia costiera disporre i fermi amministrativi che tra maggio 2020 e agosto 2021 hanno tenuto in porto per lunghi periodi tutte le navi umanitarie. In caso contrario i blocchi potrebbero tornare a essere routine. Le conclusioni dell’avvocato generale Athanasios Rantos, pubblicate ieri, spostano la bilancia verso la seconda ipotesi, sebbene non siano di natura vincolante. Tutto nasce dai fermi subiti dalle navi Sea-Watch 3 e 4 nell’estate 2020. L’Ong li ha impugnati davanti al Tar, che ha chiesto alla Corte Ue di interpretare alcuni punti della direttiva europea 2009/16/Ce. È la norma che disciplina i Port state control (Psc), cioè le ispezioni degli Stati di approdo da cui dipendono i blocchi. Il giudice europeo è chiamato a rispondere a cinque questioni “pregiudiziali”, stabilendo i principi che orienteranno quello nazionale. Riguardano: ambito di applicazione della norma, frequenza e intensità dei controlli, fondamento dei fermi. Su quattro punti Rantos ha espresso parere contrario alla linea della Ong e alla lettura suggerita dal Tar siciliano nel procedimento di rinvio. Primo: è legittimo sottoporre le Sea-Watch ai Psc perché questi possono riguardare anche navi con attività non commerciali, a eccezione di imbarcazioni di Stato o da diporto. Secondo: il “trasporto sistematico” di un numero di persone superiore a quello previsto dalla certificazione può giustificare un’ispezione supplementare. Terzo e quarto: i Psc “dettagliati” possono non limitarsi al controllo dei requisiti formali, ma valutare la conformità della nave alle norme internazionali su sicurezza marittima, protezione dell’ambiente e lavoro. Il conflitto ha origine dalle differenze tra certificati di classe rilasciati dalle autorità di bandiera, in questo caso la Germania, e attività effettivamente svolte dalle navi umanitarie. Secondo le convenzioni internazionali il dovere superiore di adempiere al soccorso e proteggere la vita umana in mare permette di derogare ad alcune delle norme che le autorità italiane ritengono violate. Per la Guardia costiera, infatti, queste eccezioni non valgono quando i soccorsi sono realizzati in maniera sistematica. Il problema di fondo è che non esiste una classe navale specifica per le Ong. Queste sono intervenute nel Mediterraneo centrale nel 2014, dopo la fine della missione Mare Nostrum. Il diritto internazionale, o quello dei paesi membri, non ha recepito la novità. Anche perché riguarda un numero contenuto di imbarcazioni: al momento 11. È questo il punto, il quinto, su cui le conclusioni dell’avvocato generale si allontanano dalla prassi della Guardia costiera. Secondo Rantos lo Stato di approdo è tenuto a indicare “sulla base di quale normativa debbano essere determinati i requisiti o le prescrizioni la cui violazione è rilevata e quali correzioni o rettifiche siano richieste per garantire il rispetto di tale normativa”. È il principio della certezza del diritto, che in questa vicenda è finito spesso sott’acqua. In diversi procedimenti contro le Ong è emerso che normative in materia non ne esistono. Né in Italia, né in Europa. Tanto meno in Germania o negli altri stati di bandiera. Alcune novità sono state introdotte da poco con due circolari del Comando generale delle capitanerie di porto: definiscono criteri stringenti per le navi adibite al “salvataggio” (categoria che non corrisponde del tutto a quella di “soccorso”). La giurisdizione è sulle imbarcazioni italiane, ma si potrebbe configurare un nuovo standard a cui quelle straniere risulterebbero inferiori. A questo punto potrebbero ricominciare i blocchi o si arriverebbe a definire le caratteristiche da soddisfare per evitarli. Ammesso che queste siano sostenibili e possano valere senza regole europee. Ma qui siamo nel campo delle ipotesi. Di certo c’è che la palla passa ai giudici: in un paio di mesi dovranno prendere una decisione da cui dipenderà la vita di migliaia di persone. I destini d’Europa e la pace dei vivi di Donatella Di Cesare La Stampa, 23 febbraio 2022 Ci si chiede dove siano finiti i pacifisti, perché mai tacciano, quando ormai a decidere sembra siano già granate, bombe e proiettili. Forse però bisognerebbe chiedersi dove sarebbero quelli favorevoli alla guerra, che l’assecondano e la propiziano. Nei più grandi Paesi europei sarà forse una minoranza. Il punto è che l’opinione pubblica è letteralmente attonita, frastornata, ancora incapace di reagire. Stiamo risalendo la china della pandemia, che oltretutto non è ancora finita, e anziché poter guardare con qualche speranza al futuro ci risvegliamo dopo due anni di incubo con una guerra nel cuore dell’Europa. Per di più una guerra combattuta con le nuove armi dell’intelligence e dell’informazione, ma per il resto tradizionale, anzi tradizionalissima. Donne, anziani e bambini in fuga dalle loro case, carri armati che avanzano, riserve di sacche di sangue pronte all’uso, dato che le vittime vengono calcolate già in migliaia. Ci sentiamo proiettati nel passato più tetro, quello anzitutto della guerra dei Balcani. Come se non fossero bastati quei massacri, il genocidio di Srebrenica. E questo dovrebbe avvenire di nuovo in Europa? Già provata dalla pandemia? In questi giorni abbiamo sentito quasi solo il parere degli “esperti”, che ormai occupano lo spazio pubblico. E in questo caso sono in particolare gli strateghi di geopolitica che spiegano con dovizia di particolari quali sono le cause e le mosse, in un fronte e nell’altro. Ma ora più che mai abbiamo invece bisogno di politica e di una visione che sappia indicare una via d’uscita dal pantano bellico. Se siamo sbigottiti di fronte a una tale escalation, da non riuscire ancora a reagire, è perché in molti hanno confidato nelle capacità diplomatiche, soprattutto europee, di trovare un accordo. Non ci basta chi si limita a tuonare contro Putin - che certo è un autocrate - demonizzando la Russia. E per farlo più agevolmente tira in ballo vecchi scenari sovietici. Come se dall’altra parte non esistessero gravi responsabilità. Finora la voce politica che si è levata è quella di Romano Prodi. Il rischio in Italia, dove in genere si parla quasi solo dei fatti di casa, e poco dell’estero, è che la gente semplicemente non capisca. Chi spiegherà a quanti dovranno pagare il rincaro delle bollette, o magari subire conseguenze ancora più devastanti dalla crisi energetica, che l’Ucraina deve entrare a tutti i costi nella Nato? E le sanzioni alla Russia non si tradurranno in punizioni per noi? Proprio all’inizio di questo nuovo secolo il filosofo Jürgen Habermas parlava di “Occidente diviso” attribuendo a questa espressione un valore positivo - e in nessun modo negativo, come si suole fare oggi. All’indomani della guerra in Iraq, di cui paghiamo ancora gli effetti, Habermas sottolineava la frattura tra una politica americana che seguiva i propri interessi per un verso violando la legalità internazionale, addirittura i principi giuridici fondamentali, per l’altro ignorando del tutto i tradizionali alleati europei.A proposito di quest’ultimo punto basti pensare all’ignominiosa fuga dall’Afghanistan, avvenuta come se la Nato non esistesse. A quell’unilateralismo americano Habermas contrapponeva il progetto cosmopolitico che, malgrado le guerre devastanti e, anzi, proprio sulla base delle esperienze belliche, ha sempre animato l’Europa. Noi proveniamo da qui, siamo eredi di Kant e del suo grande monito sulla pace perpetua. Perché se si lascia che la guerra anche solo si insinui tra i popoli europei, allora ci sarà la pace eterna dei cimiteri, non la pace dei vivi in grado di trovare un accordo. Ma siamo eredi anche di quel pensiero critico che ci ha insegnato che lo Stato nazionale con i suoi confini rigidi, che respinge e discrimina i migranti, è un grande problema per l’Europa. Lo vediamo oggi in Ucraina. Perché dove popoli e lingue si mescolano, la nazione diventa una forzatura e una fonte di conflitti. Ciò è emerso anche in altri scenari. Prima di parlare di “sovranità” e di “integrità territoriale”, come si fa in queste ore, bisognerebbe parlare di popoli ed esseri umani. Per questo serve il federalismo. Per questo l’Unione europea avrebbe dovuto essere da tempo una forma politica sovranazionale in grado proprio perciò di prevenire situazioni di crisi come quella attuale. Chi oggi è pacifista è anche europeista e pensa che l’Europa, questo Occidente antico e altro, debba essere protagonista e intervenire immediatamente per evitare ancora eccidi. Storia e fake news: la verità è la prima vittima di ogni guerra di Massimo Nava Corriere della Sera, 23 febbraio 2022 Da Elena di Troia in poi sono sempre stati utilizzati falsi pretesti per giustificare attacchi, invasioni, bombardamenti. Le menzogne sovietiche e poi russe. Gli interessi dei Paesi occidentali. “In guerra la prima vittima è la verità”. Dai tempi di Eschilo, la constatazione è stata reiterata da scrittori, politici e giornalisti al fronte per denunciare l’infernale miscela di propaganda e false reciproche accuse di cui si nutre un conflitto, con l’intenzione ovvia - come si vede in questi giorni in Ucraina - di condizionarne le sorti. Ma l’”uccisione” della verità comincia a ben vedere prima della guerra, serve da secoli a preparare il terreno delle ostilità e a giustificarne più o meno nobili ragioni, che si tratti di riportare a casa Elena di Troia o di recuperare un territorio o di soccorrere un popolo oppresso. Da settimane, gli Stati Uniti diffondono report “segreti” sulla probabile invasione dell’Ucraina. Qualche riserva sarebbe stata legittima, se si ricordano le notizie sulle “armi di distruzione di massa” in possesso di Saddam Hussein, rivelatesi false, per stessa ammissione degli americani, a suo tempo argomento formidabile per giustificare l’intervento in Irak. Ma il riconoscimento, da parte di Mosca, delle regioni separatiste e il conseguente sconfinamento militare a “protezione” dei cittadini filo-russi ci dice quanto le accuse americane siano tanto vicine a una realtà che Putin continua a dissimulare con il vecchio leit motiv dell’”aiuto fraterno”. La storia non viene in soccorso della credibilità di Putin. Dall’Abkhazia alla Crimea, e ieri nel Donbass, è un susseguirsi di azioni unilaterali e “aiuti fraterni” che ricordano altri “aiuti fraterni” orchestrati da Mosca in passato, teorizzati per difendere la propria sfera d’influenza, al pari di Washington che inviava aiuti “fraterni” al Vietnam del Sud e ai mujaheddin in Afghanistan. È vero, la Russia di Putin non è l’Urss di Breznev, ma sindrome d’accerchiamento (ieri Napoleone e Hitler, oggi la Nato) e ambizioni imperiali sembrano impresse nel Dna di una geopolitica. Trentatré anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Est dell’Europa è ancora una minaccia o un ideale, a seconda dei punti di vista. Breznev teorizzò che l’autonomia di Paesi e partiti “fratelli” aveva il suo limite nella non messa in discussione di patti militari e principi del socialismo. Fu così che nel novembre del 1956 l’Armata Rossa fu “invitata” in Ungheria per sostenere un governo “legittimo” minacciato da una rivolta “sostenuta dall’imperialismo”. La storia dell’aiuto “fraterno” fu riprodotta in fotocopia nell’agosto del 1968 in Cecoslovacchia e un esito simile fu evitato nel 1981 in Polonia, ma “grazie” al colpo di Stato del generale Jaruzelski. In mezzo, ci fu un’altra invasione “fraterna”, nel dicembre del 1979, per deporre il presidente afghano Amin, che peraltro aveva instaurato un regime comunista. L’intervento “fraterno” che avrebbe cambiato la Storia non fu attivato nella Germania dell’Est per la decisione di Gorbaciov che, di fatto, accelerò il crollo del regime di Honecker e dette il via libera alla riunificazione tedesca. In quel contesto, il leader sovietico accettò lo smantellamento dell’Armata Rossa e l’ingresso di tutta la nuova Germania nella Nato, salvo pretendere che la Nato non si sarebbe mai avvicinata alle frontiere russe. Un impegno non scritto nel marmo, comunque disatteso. Da allora, la Nato ha coltivato ambizioni di allargamento a Est e di intervento in vari angoli del mondo con motivazioni non proprio in sintonia con i principi dell’Alleanza: dal Kosovo alla Libia, dall’Iraq all’Afghanistan, con risultati giudicati già dalla cronaca, prima che dalla storia. Quanto alle fake news preventive, diversi governi europei - al pari di americani e russi - non si sono fatti mancare nulla. In Bosnia, croati e serbi si dissero minacciati dalla maggioranza bosniaca-musulmana e così giustificarono interventi armati, secessionismo e massacri. La Francia del presidente Sarkozy promosse il bombardamento della Libia e l’eliminazione del dittatore Gheddafi, nella presunzione di sventare il massacro di un popolo e instaurare un regime democratico, ma con un occhio agli interessi della Total. La Serbia di Milosevic fu bombardata dalla Nato e l’intervento fu approvato dai governi italiano e tedesco. Le motivazioni furono politiche, più che giuridiche: la repressione in atto contro gli albanesi del Kosovo (definita genocidio) e la tesi che la Serbia rappresentasse una “minaccia” per l’Europa. Milosevic, per evitare le bombe, avrebbe dovuto concedere l’indipendenza della provincia secessionista e aprirsi alla Nato. E il Kosovo divenne un formidabile pretesto, nelle mani di Putin, per l’”indipendenza” della Crimea filorussa. All’indomani della caduta del Muro di Berlino, lo storico americano Francis Fukuyama teorizzò “la fine della storia”, immaginando un mondo pacifico grazie appunto alla fine della guerra fredda. Più che una fake news si rivelò una tragica illusione. Oggi, come ieri, il conflitto fra sovranità statuale e autodeterminazione dei popoli, condizionato da sfere di influenza e micidiale propaganda, resta drammaticamente d’attualità e in buona sostanza insolubile, salvo rimpiangere stabilità da guerra fredda e regimi. Almeno fino a quando l’aggettivo “fraterno” cesserà di essere un pretesto o una bugia. Ucraina. L’Unione europea si prepara a far fronte a un’ondata di profughi di Carlo Lania Il Manifesto, 23 febbraio 2022 La Romania: “Ponti ad accoglierne 500 mila”. Pronto un piano in caso di invasione. Varsavia chiede ai sindaci edifici per l’accoglienza. Le cifre ballano: si va da qualche decina di migliaia al milione - e anche più - di profughi. Se la Russia invaderà davvero l’Ucraina, l’Unione europea si aspetta di dover far fronte a una fuga in massa di uomini, donne e bambini bisognosi di assistenza. Tutto dipende da quanto a fondo Putin vorrà spingere i suoi carri armati in territorio ucraino ma, giusto per fare qualche cifra, solo considerando i civili che vivono nelle regioni orientali del Paese si parla di due milioni di persone, la maggior parte delle quali anziane. “L’Ue è pronta a mobilitare importanti aiuti umanitari e assistenza in caso di interventi di emergenza”, ha assicurato qualche giorno fa il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas, secondo il quale “tra i 20 mila e più di un milione di rifugiati potrebbero tentare di entrare in Europa”. “Dobbiamo prepararci al peggio”, gli ha fatto eco il premier polacco Mateusz Morawiecki che però questa volta, contrariamente a quanto succede da anni con i migranti che arrivano dal Mediterraneo o con i disperati bloccati da mesi al confine con la Bielorussia, assicura che la Polonia non chiuderà le sue porte ai profughi. La crisi ucraina rischia di far impallidire quella del 2015, quando un milione di siriani risalì i Balcani cercando rifugio nel vecchio continente. Secondo alcuni analisti statunitensi Putin punterebbe anche sui profughi per mettere in difficoltà l’Europa, nella speranza che un’eventuale ondata di migranti finirebbe con alimentare le divisioni tra gli Stati. Inevitabilmente il pensiero va a quanto accaduto la scorsa estate, quando Alexander Lukashenko ha ammassato migliaia di afghani e iracheni al confine tra Bielorussia e Polonia. Vere o false che siano le previsioni americane, almeno per il momento l’effetto “divisivo” sembra però essere sventato. A Bruxelles da giorni si sta limando un piano che oltre agli aiuti umanitari e alla proroga dell’esenzione dal visto per i cittadini ucraini anche in caso di guerra, prevede l’utilizzo della nuova Agenzia europea per l’asilo e, in caso di necessità, l’invio delle guardie di frontiera di Frontex che dovrebbero fornire assistenza ai profughi. La mobilitazione è ovviamente più alta in tutti i Paesi che dividono un confine con Kiev. In Romania il ministro dell’Interno Lucien Bode ha garantito l’allestimento di campi profughi con un preavviso di sole 24 ore affermando che il Paese è disposto ad accogliere 500 mila profughi. “Siamo pronti a offrire sostegno ai migranti, se necessario. È un dovere umanitario”, ha aggiunto il ministro della Difesa Vasile Dincu. La Slovacchia si è detta pronta a riconoscere lo status di rifugiato a tutti gli ucraini. Meno chiara la posizione dell’Ungheria. Ieri il ministro della Difesa Tibor Benko ha annunciato l’invio di unità militari al confine con l’Ucraina “per prevenire eventuali incursioni armate” e perché “anche i militari devono prepararsi a gestire l’arrivo dei rifugiati e ad occuparsi di altri compiti umanitari”. Ma è sulla Polonia che si concentrata maggiormente l’attenzione. Il Paese ospita già più di un milione di ucraini fuggiti durante la guerra del 2014 dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia e oggi molti di loro sono impiegati nell’edilizia oppure lavorano come autisti di taxi o commessi nei negozi. Inoltre in almeno cinque scuole gli studenti possono seguire le materie oltre che in polacco anche in ucraino. Il governo ha annunciato l’istituzione di un gruppo di lavoro che dovrà aiutare quanti arriveranno a accedere alle infrastrutture di base, ai mezzi di trasporto, alle scuole e all’assistenza sanitaria. Ma è anche stato chiesto ai sindaci di tutto il Paese di reperire edifici da adibire a centri di prima accoglienza dei profughi. Uno sforzo enorme, che potrebbe però non essere sufficiente se davvero a fuggire saranno milioni di persone. “Ovviamente la Polonia accoglierà il maggior numero di rifugiati, ma non saremo in grado di accogliere tutti”, ha già avvertito un portavoce del presidente Andrzej Duda. Civili in fuga, infine, si registrano anche nel Donbass. Il ministero per la Gestione delle emergenze dell’autoproclamata repubblica separatista di Donetsk ha detto ieri di prevedere, nel caso di un ulteriore peggioramento della situazione militare, l’evacuazione in Russia di 700 mila persone. 90 mila sono quelle che invece sono state già evacuate. Filippine. Senatrice in carcere da cinque anni per una rappresaglia politica di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 febbraio 2022 Il 24 febbraio saranno trascorsi cinque anni dall’arresto della senatrice Leila Norma Eulalia Josefa Magistrado de Lima, una delle prime figure politiche prese di mira, già nel 2016, dal presidente uscente delle Filippine, Rodrigo Duterte. La senatrice de Lima è tuttora vittima di un attacco politico. Nella sua carica di presidente della commissione Giustizia e diritti umani del Senato, chiese che venissero aperte indagini sulle esecuzioni extragiudiziali commesse nell’ambito della “guerra alla droga” proclamata da Duterte: un bagno di sangue di migliaia di vittime, su cui ora sta indagando il Tribunale penale internazionale. La risposta del ministero della Giustizia fu immediata, ma non nel senso desiderato dalla senatrice de Lima che venne infatti accusata di tre distinti reati di droga. Il 17 febbraio 2021 una delle tre accuse è stata ritirata ma restano in piedi le altre due. Questi cinque anni sono stati segnati da tutta una serie di ritardi - testimoni improvvisamente impossibilitati a deporre, sostituzione dei magistrati titolari delle indagini - con l’obiettivo di tenere la senatrice de Lima in carcere e fuori dalla vita politica. Amnesty International ha chiesto ai candidati alle elezioni presidenziali di maggio di impegnarsi pubblicamente, una volta in carica, a ordinare la scarcerazione della senatrice de Lima.