Esecuzione penale: e se nella riforma il Dap diventasse autonomo? di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 22 febbraio 2022 Di fronte ai massimi problemi presenti all’orizzonte che vanno dai traballanti equilibri fra Stati fino alle crisi che a cascata trascinano l’economia impoverendo i Paesi, innanzi all’assenza di piani di più lunga gittata riguardanti il rapporto tra energia e sviluppo industriale, scuola e formazione dei giovani, parrebbe fuori luogo ora soffermarsi sui problemi della giustizia italiana, del referendum, della riforma del Csm in discussione o, ancor meno, della nomina del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Eppure, proprio perché siamo in una fase del mondo in cui la cultura sistemica si afferma sempre più, dall’ecologia, alla politica, dall’economia alla scuola, abbiamo finalmente compreso che siamo tutti in connessione e legati più o meno direttamente. Anche i problemi riguardanti la giustizia, in questa logica, non possono essere considerati estranei alla riflessione e al commento, ma legati alla cultura, al diritto, all’economia. Peggio ancora se sono intesi come temi esclusivi per i cosiddetti addetti ai lavori. No, la giustizia, come la democrazia, i diritti umani, la scuola, il funzionamento dello Stato sono questioni che interessano tutti i cittadini e, naturalmente, le categorie professionali più direttamente coinvolte nella qualità del servizio-giustizia: dalla responsabilità della magistratura alla separazione delle carriere, dal processo all’esecuzione penale, fino alla gestione del fattore umano, che con difficoltà sopravvive in stato di detenzione, alle strutture e agli ambienti fisici destinati a quest’ultima condizione. Il fatto che da anni l’esecuzione penale in Italia non funzioni non è una impressione onirica, una favoletta raccontata per fare impressione, ma una realtà drammatica e fallimentare che sperimentiamo ogni volta che veniamo informati del suicidio di detenuti, di pestaggi o di rivolte per protesta per le condizioni inumane in cui si vive in carcere. Loro, i detenuti, ma non meno i poliziotti penitenziari che, entrando nel girone infernale del mal funzionamento del carcere, troppo spesso ne rimangono coinvolti pagando personalmente, con la sofferenza se non anche con la vita, impegnandosi in minoranza di mezzi e numero dentro un lavoro pesantissimo. Certo che paragonare la disfunzionalità delle carceri a una azienda in rovina è cosa ingiusta e impropria. Le aziende dovrebbero fare profitto e non fallire, le carceri dovrebbero tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Costituzione) evitando che si ammazzi. Però, essendo ormai tanti gli anni che il Paese aspetta una risposta che possa risanare l’Universo della detenzione (titolo di un mio libro pubblicato oltre dieci anni fa, in cui tracciavo le stesse problematiche di cui ancora oggi si parla) non vogliamo abituarci a considerare le criticità dell’esecuzione penale come se fosse un fatto fisiologico, stabile, statisticamente normale. Talché si è sospinti a pensare che il permanere dello status quo sia da considerare, invece che un grave occasionale accidente (come si vuol far credere) o una imprevedibile evenienza nella gestione dell’esecuzione penale, ormai un assetto immutabile, non rettificabile perché cosi sta bene mantenerlo e tale dovrà rimanere. Da più parti ho avuto modo di ascoltare e leggere che non sarebbe una eresia il pensare che un riforma strategica dell’esecuzione penale, tesa alla totale rifunzionalizzazione di procedure e strutture diventasse in futuro un autonomo Dipartimento, totalmente sganciato dal ministero della Giustizia, dalle sue logiche correntizie e dalla verticistica gestione troppo spesso legata a una visione della detenzione esclusivamente vissuta come sofferenza e punizione, non come opportunità di recupero e reinserimento sociale. Di conseguenza la trasformazione strutturale del Dipartimento e della sua autonomia consentirebbe anche una diversa attribuzione dei compiti e delle responsabilità, demandando ad altre competenze, più vicine ad una logica gestionale più attrezzata a valori umanitari e procedure tese al recupero del detenuto, profondamente diversa da quella attribuita ad una cultura esclusivamente formata, quando va bene, su basi esclusivamente giurisdizionali e legalistico- securitarie (significativo che, di regola, a capo del Dap siano posti magistrati che hanno ricoperto incarichi importanti presso le Procure). Così come le stesse competenze destinate alla direzione e alla gestione del carcere, in una visione alternativa, dovrebbero essere in grado di interpretare la struttura detentiva come un particolare nuovo organismo sociale, in grado di offrire formazione e capacità lavorativa di servizio al territorio. Una struttura simile somiglierebbe più a una fabbrica o una filiera dove si apprende, si lavora e produce, incentivando così il desiderio di appartenenza e reintegrazione sociale; quest’ultima andrebbe alimentata e favorita da una coerente presenza di altri operatori penitenziari, soprattutto funzionari giudico pedagogici, psicologi e assistenti sociali, formatori professionali e insegnanti, nonché dalle altre pertinenti professionalità. Altro che le elucubrazioni di taluni che si improvvisano esperti, partecipando a convegni e tavoli organizzati, per discutere i colori delle pareti delle celle parlando di architettura e di neuroscienze che non conoscono, mentre le carceri continuano ad essere quel che viene evidenziato dalle cronache. È certo che il compito di sicurezza destinato alla Polizia penitenziaria dovrebbe essere visto e gestito a latere, quando non addirittura fuori della struttura e intervenire solo in presenza di aspetti violenti e criminosi (il che, però, porrebbe un problema di assenza di ogni sua specificità, favorendo la fungibilità con qualunque altro corpo di polizia). Il carcere così ripensato diverrebbe altro da sé, migliorando coloro che vi entrano dando loro una maggiore opportunità di reintegro nella società, eliminando o attenuando di molto la recidiva e la radicalizzazione. In tal caso la dirigenza dipartimentale dovrebbe provenire però da una cultura specializzata della pianificazione e del management, oltre che della effettiva conoscenza della gestione delle risorse umane, supportata da una convinta e maturata esperienza nel settore Human rights. La figura di un giudice o di un pubblico ministero in tal caso sarebbe inefficace, oltre che incomprensibile, per una riforma destinata a trasformare il carcere in un organismo destinato al recupero dell’individuo così come richiesto dalla Costituzione e dalle stesse regole penitenziarie europee. Poche sono le occasioni di un ripensamento strutturale e totale. I referendum e le sollecitazioni del presidente Mattarella potrebbero essere di aiuto proprio oggi, dando alle istituzioni quel coraggio che nelle politiche penitenziarie continua a mancare. *Vicepresidente Cesp Allarme suicidi in carcere, già 13 nel 2022. “Persone ai margini, interroghiamoci tutti” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 22 febbraio 2022 L’ultimo caso a Rebibbia. Il Garante Palma: “Molti avevano pene brevi. No al carcere per reati minori”. Antigone: “Riempire la vita dei detenuti di cose vere”. Mario aveva poco più di 40 anni ed era entrato in carcere a dicembre 2021. Una condanna per direttissima, con fine pena nel 2024, per spaccio di droga. Non un trafficante, non un boss, non una persona con un passato di grossi crimini. La sua era storia di emarginazione, di piccola delinquenza se vogliamo, come tante. Era, perché Mario (nome di fantasia) si è tolto la vita giovedì pomeriggio, nel carcere romano di Rebibbia. La prima a darne notizia è stata la garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che su Facebook ha scritto: “Continua questa strage infinita all’interno degli istituti penitenziari. Un sovraffollamento continuo, mancanza di personale, di educatori, di psicologi, di attività”. Mario è il tredicesimo detenuto che si è tolto la vita all’interno di un carcere dall’inizio dell’anno. Un numero spaventoso, che diventa ancor più raggelante se si pensa che - come ha spiegato ad Huffpost il garante dei detenuti Mauro Palma - ci sono altri due decessi in cella che potrebbero essere classificati di qui a breve come un suicidio. Una tragedia silenziosa, fatta da protagonisti senza volto. Senza nome. Soli, con il loro passato difficile, con il loro presente travagliato, con i loro errori a cui riparare. Stretti in un contesto che ha tolto loro la speranza di un futuro. Fino a portarli a togliersi la vita. Nel 2021 sono stati 61 i detenuti che sono andati via così. Il 2022 è iniziato ancor peggio, con numeri tali da far pensare a un’emergenza. La cui soluzione non è certo dietro l’angolo. Non conosciamo i dettagli della storia di Mario, ma dagli elementi che sono stati raccolti da chi di carcere si occupa tutti i giorni possiamo immaginare che non sia così diversa da quella delle altre persone che, in vari penitenziari d’Italia, si sono tolte la vita in cella. Come Miriam (ancora una volta un nome di fantasia) che di anni ne aveva solo 29 e che ha deciso di morire nel carcere di Messina, subito dopo un interrogatorio. Era in custodia cautelare nell’ambito di un’operazione antidroga. Dopo la sua morte è stato aperto un fascicolo contro ignoti per istigazione al suicidio. Notizie di questo genere sono arrivate nelle ultime settimane da varie regioni in Italia, anche se ci sono penitenziari dove la situazione è particolarmente critica, perché negli ultimi mesi i casi di suicidio sono stati vari. E l’allarme tra gli addetti ai lavori sale. A Monza, ad esempio, tra fine 2021 e inizio 2022 i suicidi sono stati 4. A Pavia 3. “Si tratta, nella maggior parte dei casi - riflette con HuffPost Mauro Palma - di persone ai margini della società, non di quelli che potremmo definire ‘delinquenti incalliti’, che hanno sofferto molto il primo impatto con il carcere”. E questo elemento, osserva il garante dei detenuti, “dovrebbe interrogarci tutti su come viene percepito il carcere all’interno della società”. Se chi è fuori percepisce la detenzione come un marchio indelebile, è il senso delle sue parole, per chi è dentro la reclusione diventa un macigno insopportabile. Un punto di non ritorno. E poco conta se il reato commesso non è dei più gravi, se la condanna è lieve, se il fine pena non è lontano. La reclusione diventa qualcosa che ti allontana dal mondo a tal punto che ti convinci del fatto che il mondo, quando uscirai, non ti vorrà più. E allora, in un momento di particolare sofferenza, decidi di farla finita. E se nessuno si accorge della tua storia diventi solo un numero. Da aggiungere a una lista di cui alla società interessa ben poco. Non è così per chi, invece, osserva la situazione dei penitenziari giorno per giorno. Che chiede interventi per fermare quella che qualcuno inizia a definire ‘strage’, e che propone soluzioni. “La pena già di per sé comporta sofferenza - premette Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - a ciò poi si aggiunge il problema del sovraffollamento: se i detenuti sono tanti e gli operatori sociali, gli psicologi, sono pochi, si corre il rischio che di quella sofferenza davvero non si accorga nessuno. E allora il malessere esplode”. Il Covid ha certamente peggiorato la situazione, perché le attività in carcere sono state ridotte all’osso, i colloqui in presenza interrotti, la solitudine è aumentata. Cosa fare allora? “Il compito dell’amministrazione penitenziaria è aiutare i detenuti a scacciare i pensieri di morte - continua Gonnella - e si può riuscire in questo obiettivo riempiendo la vita di queste persone di cose vere”. Di contatti con la propria famiglia, prima di tutto. Per il presidente di Antigone, tranne nei casi in cui per ragioni di sicurezza dei limiti sono necessari, sarebbe importante intensificare le telefonate con i propri cari per “sentirsi dire una parola di conforto, per alleviare il senso di colpa. O, semplicemente, per chiedere scusa. Come si fa a chiedere scusa se si può telefonare solo una volta a settimana, per dieci minuti?”, si chiede Gonnella. Che conclude: “Più contribuiamo alla qualità della vita durante la permanenza in carcere, più avremo dato un contributo alla prevenzione dei suicidi”. Per Palma bisognerebbe prestare più attenzione ai detenuti che hanno particolari fragilità sociali. “Attualmente cinquemila persone sono in carcere per scontare una pena, intera, di tre anni - precisa - potrebbero accedere alle misure alternative ma non ci riescono. Perché appartengono a fasce deboli e, spesso senza dimora, non hanno un posto dove andare”. E così si trovano in carcere, anche per un reato minore, anche per un tempo breve. E il malessere non fa che aumentare, insieme all’emarginazione”. Cosa fare per queste persone? “In Italia spesso per ogni fatto, anche minimale, si va direttamente in carcere. Bisognerebbe smetterla”, premette il Garante. E poi lancia una proposta: “Servirebbero delle strutture di controllo, diverse dal carcere, per ospitare persone che hanno commesso reati di lieve entità e che vivono una condizione di marginalità. Affinché queste possano scontare la pena in un contesto con una forte presenza di operatori sociali”. Si tratterebbe, immagina Palma, di una sorta di strutture a custodia attenuata. Non comunità, ma neanche carceri. Una via di mezzo, per controllare, sì, ma anche per tendere una mano a chi, pur colpevole, si trova a essere il più debole dei deboli. Perché ciò accada, perché nasca questo tertium genus di strutture però, ci vorrebbe una riforma. E, al momento, non sembra all’orizzonte. Quanto alla prevenzione dei suicidi, interventi mirati al momento non ce ne sono. Da via Arenula, però, assicurano che c’è attenzione e dei provvedimenti potrebbero arrivare nei prossimi mesi. A dicembre ha concluso i suoi lavori la commissione voluta dalla ministra Cartabia e presieduta da Marco Ruotolo. Contiene varie proposte per migliorare, a legislazione invariata, le condizioni dei detenuti. Tra gli interventi che immagina la commissione c’è un più facile accesso alla tecnologia l’incremento dei colloqui, l’adeguamento delle celle e dei bagni - in realtà già previsto dal nuovo regolamento, ma in molti casi mai attuato - e una maggiore attenzione, in collaborazione con il ministro della Salute, al rischio suicidi. La ministra Cartabia si muoverà seguendo queste linee guida. Il Garante Palma giudica positivamente le conclusioni della commissione Ruotolo, ma aggiunge: “Per fare i lavori di adeguamento, previsti peraltro nel regolamento del 2000 che viene definito nuovo nell’ambiente nonostante abbia più di 20 anni, c’è bisogno di spostare i detenuti in altri reparti. Se i numeri dei reclusi sono alti, come si fa? Servirebbe un rallentamento” degli ingressi in carcere. Un rallentamento che, però, c’è stato solo durante i periodi più duri della pandemia. Passata la fase acuta dell’emergenza sanitaria, i penitenziari hanno ricominciato a riempirsi e il sovraffollamento ad aumentare, anche meno velocemente di prima. Quanto al Dap, il dipartimento del ministero della giustizia che amministra le carceri, è in un momento di transizione: l’attuale capo, Dino Petralia, andrà via dal primo marzo e lascerà questo ed altri dossier al suo successore. Il dipartimento, però, si è mosso per fronteggiare i suicidi degli agenti penitenziari. Dall’inizio dell’anno sono stati due, e i sindacati di categoria hanno chiesto maggiore attenzione. La scorsa settimana è stata emanata una circolare con delle linee guida per il sostegno psicologico degli agenti. Include, tra le altre cose, la creazione di un fondo destinato completamente “ad azioni di supporto al possibile disagio generato dallo svolgimento di un lavoro complesso, quanto mai unico nel suo genere”. Per sostenere, in qualche modo, la salute mentale dei detenuti, la strada è più complessa. Perché passa dalla soluzione di altri problemi che, fino ad ora, nessuno ha rimosso. Perché non ne ha avuto cura, o perché pur armato di sensibilità e di buone intenzioni, non ci è ancora riuscito. Caro Davigo, nelle nostre carceri ci sono quasi mille ultrasettantenni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 febbraio 2022 La detenzione domiciliare non è automatica e sono tanti gli anziani reclusi per reati minori. “Avendo compiuto 70 anni, non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia”, ironizza l’ex magistrato Piercamillo Davigo a proposito di una sua eventuale condanna. Augurandoci la sua completa assoluzione, in realtà dipende dai giudici. Non c’è alcun automatismo. Infatti esistono quasi 1000 detenuti (993 nel 2021, secondo dati Dap) che sono reclusi nelle patrie galere nonostante siano ultrasettantenni. Molti di loro, non hanno commesso gravissimi reati. L’ipotesi di detenzione domiciliare non vale per tutti - Il riferimento di Davigo, è l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario, la parte in cui prevede che la pena - se il reato non rientra tra alcune eccezioni - “può” essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni d’età. Ma si tratta di una possibilità e non sempre i giudici la concedono. E infatti non mancano casi di persone che varcano la soglia del carcere, nonostante non si siano macchiati di reati feroci. L’ ipotesi di detenzione domiciliare per gli anziani ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti. Nel 2019 Mattarella concesse la grazia a 3 ultraottantenni - Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, ci sono coloro che i giudici li considerano recidivi, oppure pericolosi socialmente. Ci sono anche casi particolari, come i tre detenuti anziani che nel 2019 hanno ricevuto la grazia dal presidente Mattarella. Pensiamo all’88enne Graziano Vergelli, che era stato condannato a 7 anni e 8 mesi per aver ucciso la moglie malata di Alzheimer. La strangolò con una sciarpa e rimase accanto al cadavere circa un’ora, poi andò a costituirsi dalla polizia dicendo agli agenti “Non ce la faccio più” e spiegando di non reggere a un repentino aggravamento della malattia della moglie. Storia analoga quella di Vitangelo Bini, 89 anni, che doveva scontare una condanna a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie, che era malata di Alzheimer: l’uomo la uccise per non vederla più soffrire. Persone quasi novantenni che sono stati reclusi in carcere. Ma poi c’è il caso come quello della sarda Stefanina Malu, 83 anni, morta dopo una carcerazione per aver custodito droga per conto di qualche banda. Nel 2020, secondo la garante Gabriella Stramaccioni, c’erano almeno 60 ultrasettantenni - Parliamo di anziani che decidono si superare le ristrettezze economiche attraverso la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda la detenzione domiciliare. Solo fra il carcere romano di Rebibbia penale e Nuovo Complesso, almeno secondo quanto denunciato nel 2020 dalla garante Gabriella Stramaccioni, ci sono almeno 60 uomini ultrasettantenni. Si tratta di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti. E il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente un deposito. Davigo al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale - Ma com’è detto, diventa un contenitore di tutti gli anziani che usati dalle organizzazioni criminali, quelle che approfittano del loro disagio economico - pensione sociale che non basta nemmeno per la sopravvivenza - per nascondere la droga. Senza parlare dei reati ostativi, che non riguardano solo quelli mafiosi, dove gli anziani non hanno la possibilità di fare richiesta per la misura alternativa. Ovviamente Davigo, in caso di condanna, può dormire sogni tranquilli. Anche perché la pena massima sulla rivelazione di segreto d’ufficio è di due anni. Al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale come è accaduto con Berlusconi. Ma l’età non c’entra. Come abbiamo visto, i detenuti ultrasettantenni - anche bisognosi di badanti per via della fragilità fisica - non mancano. “Il carcere una tortura durante la pandemia. Ora servono amnistia e indulto” di Pier Paolo Filippi Il Tempo, 22 febbraio 2022 Alla fine Carlo Taormina ha voluto rendere pubblica la notizia che ha tenuto per sé durante l’ultima ospitata a Zona Bianca. Il noto avvocato ha spiegato la situazione con un lungo post su Facebook. “Giro per le carceri almeno due giorni alla settimana per preparare difese di imputati ma anche essere vicino ai detenuti perché credo che il carcere debba essere finalizzato alla restituzione di chi ha sbagliato alla società civile e al lavoro e perché credo chi ha pagato il suo debito con lo stato debba avere tutti i diritti, nessuno escluso, che spettano ad ogni cittadino. Il carcere attende da tempo una radicale riforma che fu avviata dall’ex ministro Orlando e colpevolmente lasciata morire. Anche il ministro Cartabia ha manifestato la volontà di riformare profondamente l’ordinamento penitenziario ma fino ad ora molto poco si è visto”. “Io - sottolinea Taormina - ritengo che il carcere debba essere una misura eccezionale legata esclusivamente ai reati di grande violenza e di alta criminalità organizzata, mentre la regola generale dovrebbe essere la detenzione domiciliare con possibilità di svolgimento di attività lavorativa. Penso che non vi debbano essere esclusioni dalle misure alternative alla detenzione a seconda del titolo del reato perché in esecuzione di pena non deve più contare il reato ma solo la persona che deve essere recuperata. Ritengo infine che il sistema debba prevedere interventi sanzionatori che non passino né per il carcere né per la detenzione domiciliare. Ora però deve essere segnalato un problema urgente alla politica”. L’avvocato arriva al punto della sua proposta: “Nelle carceri si vive l’inferno da quando è scoppiato il Covid che si è coniugato con il drammatico problema del sovraffollamento. Ogni anno di carcere in costanza di pandemia è valso tre anni per condizione umana, sacrifici, umiliazioni e lontananza dagli affetti di mogli, mariti, figli, parenti. Molte cose in questi due anni di pandemia sono cambiate nel sistema giudiziario che oggettivamente hanno comportato la possibilità che un buon livello di efficienza possa essere raggiunto. È venuto il momento di - il suggerimento di Taormina - fare una amnistia e un indulto consistenti per ripagare i detenuti che hanno subito la tortura del carcere in tempo di pandemia. Propongo una amnistia per reati punibili con un massimo di sei anni, con esclusione di alcuni sui quali occorrerà un confronto, ovvero per una pari pena che possa essere applicata previa concessione delle attenuanti generiche. Stesso regime per l’indulto relativamente alla pena in corso di esecuzione e comunque prevista in una sentenza passata in giudicato. Tutti questi benefici - conclude il legale - dovranno obbligatoriamente essere revocati in caso di commissione di un reato dopo la loro applicazione ed anche se ciò accada molto tempo dopo”. “L’economia del futuro è donarsi al prossimo” di Paolo Cignini italiachecambia.org, 22 febbraio 2022 Intervista a Luciana delle Donne (Made in carcere). In occasione dell’Ashoka Changemaker Summit di Torino abbiamo incontrato di nuovo Luciana delle Donne, che ci ha raccontato l’evoluzione, già narrata su questo giornale, di Made in carcere, un brand di manufatti come borse e accessori prodotti da detenute formate e avviate al lavoro. Un progetto che cresce in termini sia di numeri che di ambiti di intervento, che di qualità. Un modello di economia circolare, rigenerativa e attenta al Pianeta, che è il simbolo del Benessere Interno Lordo auspicato dalla sua fondatrice. “Dedico questo grandissimo progetto a mia madre, che non c’è più, ma che ha insegnato a vivere con generosità, con un senso dell’ironia e con una leggerezza che noi figli ci siamo portati dietro e che stiamo trasferendo a tutti quanti. Lei è la mamma di tutto questo progetto e sono felicissima di averla incontrata e di aver vissuto con lei quasi sessant’anni”. Conosciamo da anni Luciana delle Donne: l’abbiamo incontrata di nuovo il 4 dicembre 2021 a Torino, in occasione dell’Ashoka Changemaker Summit. Il suo carattere vulcanico, istrionico e trascinatore è stavolta velato dalla tristezza: da poche settimane la sua mamma non è più tra noi. Ovunque sia, può però essere orgogliosa di sua figlia (che non si perde mai d’animo): il suo progetto Made in carcere, nato nel 2007 per dare una seconda opportunità alle donne detenute, procede a gonfie vele. E grazie al recupero dei tessuti di scarto per produrre i propri capi, si pone sempre più come uno dei progetti simbolo dell’economia circolare che tiene a cuore anche la sostenibilità umana. Dal nostro ultimo incontro risalente al 2017, Made in carcere ha stretto collaborazioni in diverse città italiane, allargando il proprio raggio di azione non solo alle donne, ma anche ai minori e agli uomini: “Oltre a Lecce e a Trani, abbiamo aperto tanti altri laboratori nelle carceri. Oggi siamo a Matera e a Bari, dove produciamo anche biscotti vegani certificati biologici, mentre a Napoli supportiamo l’iniziativa della Pasticceria Di Nisida, che lavora con i minori. Stiamo aprendo nel frattempo anche a Taranto”, ci racconta Luciana. “Stiamo perdendo la capacità di sognare eppure l’Italia è costellata di straordinarie esperienze di cambiamento. Mentre gran parte dei mass media sceglie di non mostrare i cambiamenti in atto, noi scegliamo un’informazione diversa, vera, che aiuti davvero le persone nella propria vita quotidiana. Chiediamo il tuo contributo per cambiare l’immaginario e quindi la realtà”. Oltre ai laboratori all’interno del carcere, il progetto sta investendo creando diverse reti di collaborazioni nei territori che raggiunge: “Grazie a Fondazione Con Il Sud stiamo portando avanti un progetto che coinvolge oltre sette cooperative e sessantacinque detenuti con un contratto di lavoro. Ma oltre questo stiamo sostenendo lo sviluppo di diverse sartorie sociali di periferia: a loro doniamo il tessuto in esubero di cui hanno bisogno e li aiutiamo a crearsi un brand, un’identità, in modo tale che poi possano viaggiare in autonomia. Per questo tipo di progetto siamo attivi a Verona, Grosseto, Lecce, Taranto e Bari. A Catanzaro invece abbiamo donato delle macchine da cucire per attivare una sartoria all’interno del carcere”. Non mancano collaborazioni con l’estero: l’Università della Repubblica Dominicana ha coinvolto Made in carcere in un progetto di formazione, svoltosi on line a causa della pandemia, che ha visto l’organizzazione formare diverse persone e fornire un know-how riguardo l’utilizzo del materiale tessile recuperato: “Questa iniziativa va nella direzione del nostro desiderio di aprire una Social Academy che permetta ad altre realtà di formarsi e di replicare il nostro modello”. Per Luciana vale infatti il detto “vietato non copiare”: “Rendere replicabile il modello di Made in carcere vuol dire che tutti possono fare qualcosa di buon senso come facciamo noi. Noi lavoriamo con un modello semplice: recuperiamo i tessuti, li cataloghiamo, li tagliamo, li cuciamo e poi vendiamo il prodotto. Sono tutti tessuti che, altrimenti, sarebbero finiti al macero, avrebbero contribuito ad emettere ulteriore CO2 in atmosfera, dunque avrebbero inquinato o riempito inutilmente magazzini e depositi. Invece così sono diventati la nostra materia prima”. Altro importante traguardo raggiunto dal progetto, secondo Luciana, è “l’indipendenza” raggiunta dalla sua fondatrice: “Sono molto felice oggi di poter dire che Made in carcere procede al di là della mia persona. Abbiamo infatti delle persone fantastiche che portano avanti l’iniziativa anche senza la mia presenza costante. Sono riuscita a trasferire l’approccio di essere al servizio, con umiltà, e a disposizione degli altri, rispettando la natura e mettendo il pianeta al centro delle nostre scelte: di riflesso tutto questo diventa fonte di benessere anche e soprattutto per le persone”. Un benessere che da sempre, ma soprattutto negli ultimi anni, sembra essere il fulcro dell’azione dell’imprenditrice Changemaker Ashoka: “Penso che ormai i tempi siano maturi per parlare di Benessere Interno Lordo. Le caratteristiche di questo nuovo indicatore? Corrispondono al nostro lavoro! Valori come l’economia rigenerativa, riparativa e trasformativa, oltre che sulla carta producono benessere soprattutto nella vita delle persone”. “Ci abbiamo fatto caso in questi anni guardando le cifre della recidiva tra le centinaia di persone con cui siamo venute e venuti a contatto tramite Made in carcere: sono praticamente nulle”, conclude Luciana. “Le persone che hanno un’opportunità, se questa è piena di senso, rispondono mettendosi in gioco e cambiando loro stesse: valori intangibili che ci fanno capire quanto il donarsi al prossimo sia davvero la nuova forma di economia sana del futuro”. Strasburgo contro l’Italia. “18enne vessato in cella, dove non dovrebbe stare” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 22 febbraio 2022 Cinque giorni di tempo. È l’ultimatum che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha dato all’Italia per rispondere a 5 domande sulla paralisi burocratica che rischia di fare impazzire in carcere, dove pure è dichiarato incompatibile dai giudici a causa del suo deficit mentale aggravato dalla dipendenza dalla cannabis e da un quoziente intellettivo quasi al minimo, un 18enne che nessuna comunità vuole prendere in carico. Senza che alcun giudice abbia il potere di superare i rifiuti di comunità pur dipendenti dalle aziende sanitarie della Regione ente pagante, e con il risultato che intanto in carcere (dove sta restando da 6 mesi) il giovane sia vittima di soprusi sessuali e vessazioni dai compagni di cella che ne sfruttano lo stato mentale. Il giovane soffre infatti dall’età di 12 anni di disturbi mentali certificati, che nel giugno-settembre 2021 sono anche alla base dei maltrattamenti inflitti ai genitori, per i quali appena maggiorenne finisce in carcere a Monza e Lecco. E qui comincia l’incredibile impasse. Ovvio che il gip Paolo Salvatore non possa metterlo ai domiciliari a casa dei genitori perché tornerebbe a maltrattarli, ma nemmeno può tenerlo in carcere perché il suo stato mentale ve lo rende incompatibile: la richiesta del suo avvocato Barbara Manara di arresti domiciliari in un luogo di cura si scontra però con il fatto che nessuna delle già poche comunità contattate dal legale e dai servizi sociali si rende disponibile a prenderlo in carico adducendo i più disparati motivi: perché il giovane non sarebbe abbastanza maturo, o è troppo giovane, o non ha ancora 40 anni, o c’è la lista d’attesa, o persino perché con la Regione ci sono “incomprensioni” sulle rette. Così il neo 18enne (da appena due mesi) resta in carcere, dove il suo deficit mentale lo espone il 22 novembre 2021 a un tentativo di aggressione sessuale ad opera di un detenuto dal quale lo salvano altri detenuti, che però si fanno presto “pagare” il favore pretendendone la sottomissione quotidiana e cioè sfruttando le debolezze mentali del giovane per fame in cella una sorta cli loro “schiavetto”. Quando a fatica il giovane accenna a questi soprusi fra le pieghe di un interrogatorio il 27 novembre 2021, l’avvocato torna a chiedere il collocamento del giovane in arresti domiciliari in comunità: ma anche il secondo gip, Nora Passoni, pur confermando come il pm Chiara di Francesco l’incompatibilità con il carcere e pur condividendo la necessità che gli sia trovata “urgentemente” posto in comunità, scrive di non potere fare altro che rigettare l’istanza perché “il giudice non può superare il diniego di una comunità, né presumere il consenso di un ente che non si sia espresso in tal senso”. Come ultima chance l’avvocato chiede allora, per interrompere una situazione di “trattamenti inumani e degradanti”, una rara misura urgente alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Che il 17 febbraio ha intimato al governo italiano di rispondere entro oggi su quali siano le condizioni di salute del giovane, le cure psichiatriche in carcere, le indagini avviate sulle vessazioni riferite, le protezioni adottate in carcere, e le prospettive a breve di un posto in comunità. Referendum, Letta cestina i quesiti: eppure il ddl Cartabia non li fa cadere di Errico Novi Il Dubbio, 22 febbraio 2022 Dem e 5Stelle continuano a sostenere che la riforma del Csm “assorbe” le proposte abrogative sulle toghe: ma su carriere e avvocati non è così. Si continua a dire che la riforma del Csm brucerà i referendum. Che li renderà inutili. Ma non è così. Potrebbe anzi favorirne una maggiore visibilità, soprattutto se il dibattito fra i partiti attorno al ddl dovesse surriscaldarsi. E in ogni caso, non è affatto vero che l’approvazione definitiva della legge sulla magistratura farebbe decadere tutti e 3 i quesiti sulle toghe. Solo una proposta abrogativa può andare incontro a un simile destino: quella relativa alle firme che un aspirante togato del Csm deve raccogliere fra gli altri magistrati per candidarsi. Innanzitutto, sono “fuori pericolo” i referendum su legge Severino e custodia cautelare. Mentre per il resto, come ha spiegato il costituzionalista Giovanni Guzzetta in una dichiarazione riportata venerdì scorso su queste pagine, solo il quesito sulle firme per i candidati Csm verrebbe revocato, giacché la relativa norma sarebbe cancellata dal testo Cartabia: viceversa, sono “salvi” in ogni caso il referendum sulla separazione delle funzioni e quello sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Motivo semplice e logico: nella riforma del Csm gli ultimi due argomenti sono affrontati con norme delega. Vuol dire che una volta in Gazzetta ufficiale, le regole su carriere e Consigli giudiziari non saranno immediatamente modificate: semplicemente, sarà in vigore un mandato del Parlamento al governo affinché quest’ultimo emani i decreti legislativi. Finché tali provvedimenti attuativi non saranno definitivamente adottati (e ci vorrà qualche mese), l’ordinamento giudiziario resterà, in quei punti, immutato. Perciò la consultazione popolare sui due relativi quesiti promossi da Partito radicale e Lega potrà tranquillamente celebrarsi. Secondo la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, esponente del Movimento 5 Stelle, anche su separazione delle carriere e voto degli avvocati sulle promozioni dei giudici, il ddl Cartabia sarebbe destinato ad “assorbire” i referendum, se non sul piano formale, quanto meno in termini sostanziali. È un punto di vista rispettabile ma non per questo condivisibile. Ed è la stessa tesi accreditata ieri da Enrico Letta alla direzione del Pd. Secondo il segretario dem, vanno dati per certi i No su Severino e custodia cautelare: posizione che Letta ha spiegato di aver condiviso al telefono con Giuseppe Conte, con il quale converge anche sulla tesi secondo cui “per gli altri 3 quesiti c’è il Parlamento”. Macina, Letta e Conte danno però per scontato un automatismo inesistente. In base al testo del maxi-emedamento Cartabia approvato dieci giorni fa in Consiglio dei ministri, le norme relative a separazione delle funzioni e voto dei laici nei Consigli giudiziari non solo sono enunciate sotto forma di delega, ma sono anche formulate in modo non sovrapponibile ai referendum. Persino nella irrealistica ipotesi secondo cui, alla data dei referendum, il governo abbia già emanato i decreti legislativi, il voto sui quesiti si terrebbe comunque. La riforma limita i passaggi da giudice a pm e viceversa, mentre la vittoria del Sì li vieterebbe del tutto. Il ddl Cartabia concede il voto nei Consigli giudiziari ai soli avvocati e in virtù di un procedimento che coinvolge anche gli Ordini forensi, mentre la vittoria del referendum riconoscerebbe il voto a tutti i laici, professori compresi, senza vincolarlo a delibere preliminari delle istituzioni di riferimento. Di più: sempre come fatto notare da Guzzetta, nell’ancora più remota ipotesi in cui le norme della riforma fossero sottratte alla delega e riformulate dal Parlamento in modo da diventare immediatamente efficaci, i due relativi quesiti referendari non verrebbero annullati ma si trasferirebbero sulle nuove formulazioni appena introdotte. “Lo stabilisce la sentenza della Consulta numero 68 del 1978”, ha spiegato il costituzionalista. Non si scappa, insomma: almeno 4 referendum su 5 sono blindati, destinati a non essere “assorbiti” dal ddl Cartabia. Ma il quadro appena descritto, va pure detto, non autorizza certo l’euforia dei referendari. Come ha ben illustrato un articolo di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, al momento il traguardo del quorum è un miraggio. E appunto, proprio la riforma del Csm è, paradossalmente tra i pochi fattori che potrebbero dare un po’ di ossigeno alla consultazione. Se il dibattito politico attorno al ddl si intensificasse, l’opinione pubblica potrebbe essere anche più attratta dalle questioni in gioco. Insomma, è vero il contrario di quanto affermato finora da Letta, Conte, Macina e dalla responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando. Così com’è vera un’altra cosa: al momento, i promotori potrebbero essere aiutati solo da un election day vero, e cioè dall’accorpamento dei referendum con il primo turno delle Amministrative. Ma servirebbe soprattutto una campagna referendaria corale, allargata a tutti i partiti che, tra mille differenze, sono favorevoli al Sì per almeno alcuni dei 5 quesiti. Tanto per intenderci: se è vero che Fratelli d’Italia è per il No su legge Severino e carcere preventivo, un convinto impegno di Giorgia Meloni sulla separazione delle funzioni renderebbe meno impervia la missione dei radicali e di Salvini. Peccato la realtà sia tutt’altra: c’è l’opportunità di un voto popolare su garantismo e magistratura, ma l’atmosfera è da flop. Tre “sì” o tre “forse”, Pd diviso dai referendum di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 febbraio 2022 Letta: no ai quesiti su abolizione della legge Severino e custodia cautelare, atteggiamento positivo verso gli altri ma le riforme vanno fatte in parlamento. Base riformista e Giovani turchi: se ci si arriva bisogna votare a favore. Due no sono sicuri. Il Pd voterà no al referendum che chiede di cancellare la legge Severino e no al referendum che vuole abrogare alcune ipotesi in cui è consentita la custodia cautelare preventiva. Sugli altri tre il dibattito è aperto. Enrico Letta ha detto in direzione che c’è “un atteggiamento positivo” sul referendum che vuole cancellare le firme in appoggio alle candidature dei magistrati al Csm, sul referendum che introduce il voto degli avvocati nei consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità dei magistrati e anche sul referendum che punta a separare nettamente e definitivamente le funzioni di pm e giudici. Questi ultimi referendum trattano “tre materie che stanno dentro la discussione che ci sarà in parlamento - ha detto Letta - e noi pensiamo che le risposte avverranno lì. Non ci vedono contrari, ma è dentro il dibattito parlamentare che noi vogliamo che arrivino le risposte”. Letta concede qualcosa anche sui referendum che ha già deciso di bocciare: contengono anche quelli “elementi positivi” ma “produrrebbero nel complesso danni assai superiori ai miglioramenti”. Il Pd, spiegano al Nazareno, “non entra nelle guerre di certa politica alla magistratura”, anche se soprattutto sul referendum che cancellerebbe la legge Severino c’è una forte pressione dei suoi amministratori locali per votare sì. A loro si rivolge Letta, assicurando “un lavoro esigente in parlamento”. Il riferimento è al fatto che il Pd ha da tempo depositato una proposta di legge per correggere la Severino nel punto in cui prevede la decadenza e l’ineleggibilità degli eletti e degli amministratori locali anche solo dopo una condanna in primo grado (e non, come si vorrebbe fare, dopo una condanna definitiva come i parlamentari nazionali). Dalle parole di Letta, le correnti traggono un sillogismo: se non si riuscirà, con la riforma Cartabia, a evitare i referendum sui quali c’è “un atteggiamento positivo”, allora si voterà sì. Andrea Romano, il portavoce di Base riformista lo dice in direzione. Orfini e i giovani turchi sono sulla stessa linea. La risposta di Letta è interlocutoria: vedremo. “Questo parlamento è stato in grado di fare la riforma del processo penale e del processo civile, di recepire la direttiva sulla presunzione di innocenza, adesso siamo all’ultimo miglio - dice in direzione Walter Verini, relatore alla camera della riforma in questione - cerchiamo di arrivare in fondo, altrimenti valuteremo”. Il capogruppo in prima commissione Stefano Ceccanti, Base riformista, è assai più netto: “Meglio risolvere in parlamento, altrimenti si vota sì”. Il problema è che assai difficilmente i referendum saranno disinnescati, a parte quello sulle firme per le candidature delle toghe che è contenuto nella parte del disegno di legge di immediata applicazione. Separazione delle funzioni (comunque più blanda di quella prevista dal referendum) e voto degli avvocati sono nella parte della delega: la camera dovrebbe modificare la legge e anticiparne l’entrata in vigore per consentire alla Cassazione di dichiarare superati i referendum. Tutto questo se si farà in tempo: ieri sera ancora non erano arrivati in commissione giustizia gli emendamenti annunciati dal governo, undici giorni fa. Referendum, Amato non convince di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 22 febbraio 2022 È un peccato che non sia stato riconosciuto al popolo italiano la possibilità di esprimersi in tema di responsabilità civile dei magistrati, quello stesso popolo per il quale la funzione giurisdizionale (seppure questo termine è, oramai, nello slang comune, soppiantato da quello dominante di “potere giudiziario”) può essere legittimamente esercitata, così come si legge e si proclama solennemente nelle aule di giustizia. La spiegazione che viene, prime cure, fornita dal presidente della Consulta, Giuliano Amato, attraverso i mass-media, francamente non sembra convincente e, anzi, pare capace di rafforzare quel convincimento, progressivo, che sembra stia divenendo dominante nell’opinione pubblica, richiamando i continui moniti dell’indimenticato Marco Pannella, che nel corpo dello Stato si siano ormai insidiati e assediano speciali famiglie di una aristocrazia che non lo fu per nascita, la cui l’azione, la quale produce immediati effetti su tutta la collettività e sulle sue espressioni di funzionamento anche istituzionale, goda di irresponsabilità, mentre per la generalità degli altri “public servant”, che pure svolgano importanti funzioni, tale guarentigia non abbia diritto di cittadinanza. Orbene, il problema non è che quest’ultimi ne siano esclusi, ma che tale condizione, di necessaria rendicontazione di quel che si fa, dovrebbe riguardare tutti i player delle istituzioni pubbliche, nessuno escluso, dal presidente della Repubblica al più umile e prezioso fantaccino, ove ancora ci fosse il servizio di leva. La campagna referendaria, tra l’altro, avrebbe avuto il pregio di consentire lo svilupparsi di una dialettica civile, ove le diverse posizioni, attraverso dibattici pubblici, si sarebbero potute confrontare, favorendo anche una crescita di consapevolezza della cittadinanza sulla delicatezza di un tema che, ove non trattato apertamente e con rigore morale, rischia al contrario di radicalizzare quel sentiment di sfiducia crescente proprio verso la stessa magistratura, la quale non può assolutamente, oggi, vantare una purezza “a prescindere”, né ostentare uno specismo d’intoccabilità, perché essendo anch’essa costituita da donne e uomini con tutti i pregi e i difetti tipici della natura umana, ha bisogno, come ogni altra espressione del vivere organizzato di natura pubblicistica, di continue verifiche, messe a punto, regolamentazioni, impiego di pesi e contrappesi, affinché la Giustizia sia percepita, anche dal più semplice ed dimesso dei cittadini, come “giusta”. In fondo, tutto l’impianto costituzionale sembrerebbe esigerlo, ove si convenga sul primato della legalità che si imporrebbe sulla generalità dei cittadini, nessuno escluso, dando in tal modo senso ad uno Stato che sia per davvero democratico e liberale. Il principio che chi sbaglia debba risponderne, tra l’altro, è talmente così innervato nella storia dell’uomo che il non ammetterlo significa quasi come il voler andare contro natura, talché la spiegazione di questa anomalia, ove non venga percepita chiaramente dalla collettività, rischia di essere tradotta se non in un sottile sopruso, in un vero vulnus democratico in termini di terzietà, trasparenza ed indipendenza, accelerando forme di sfiducia e di malcontento, con riflessi rilevanti persino sulla tenuta di tutte le istituzioni, perché uno è e rimane lo Stato. Pure è vero che, al contrario, potrebbe accelerare quella spinta riformatrice, spesso tacitata da quanti, dopotutto, preferiscono l’ambiguità piuttosto che favorire il diritto alla conoscenza e la crescita civica dell’elettorato, il quale, sulla spinta di una progredente indignazione, troverebbe un maggior ascolto a prescindere; ma proprio per evitare il rischio di una radicalizzazione, quasi da stadio, su tali temi, non avere consentito al popolo di sapere, attraverso un chiaro confronto tra le parti, pro o contro tale giustiziato quesito referendario, risulterà un’occasione perduta di maturità collettiva e di pedagogia istituzionale, col rischio di lasciare sul terreno strascichi di malcontento, soprattutto tra quanti vedano in tanto il venir meno del “principio dei principi” di ogni democrazia che sia tale: quello della effettiva divisione dei poteri e delle relative funzioni, in una visione paritetica d’importanza e non della prevalenza di uno sugli altri. Staremo a vedere. *Penitenziarista, Former dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria, Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma, Componente dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia Giulia Noi diciamo: bravo Amato a fare la conferenza stampa di Renato Mannheimer e Pasquale Pasquino Il Riformista, 22 febbraio 2022 Il confronto coi giornalisti non era solo utile, ma necessario. La lettura delle sentenze della Consulta non è un esercizio agevole per tutti. Il presidente ha fatto bene a spiegarlo ai cittadini. In passato la Corte Costituzionale era criticata per i suoi silenzi, per il suo essere distante e come chiusa in una torre d’avorio. Oggi talvolta lo è stata per il suo prendere la parola. Viene in mente Alessandro Manzoni, il quale nella sua introduzione ai Promessi Sposi scriveva: “Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti”. In realtà, al di là di ogni giudizio di merito sulle scelte della Consulta, non vi è dubbio che il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, abbia fatto bene a convocare una conferenza stampa per spiegare le decisioni relative alla ammissibilità dei referendum. Il confronto coi giornalisti non era solo utile, ma in certa misura necessario. In particolare in un caso come questo, della ammissibilità dei referendum, nel quale è in questione la possibilità per i cittadini di decidere di temi spesso per loro rilevanti, non basta certo un secco comunicato. E, per altro verso, la lettura delle sentenze della Consulta non è un esercizio agevole per tutti. Di conseguenza, spiegare e render conto in pubblico delle decisioni prese diventa quasi un obbligo. Amato si è fermato naturalmente soprattutto sui referendum che la Corte ha considerato inammissibili, rifacendosi ovviamente alle norme che regolano la ammissibilità, come la violazione dei trattati internazionali o errori che la Corte ha ritenuto di individuare nella formulazione del quesito, che, come si sa, i giudici costituzionali non possono comunque correggere, sostituendosi al comitato promotore. I cittadini elettori, il Parlamento con il Governo dinanzi ad esso responsabile e la Corte costituzionale sono i tre organi essenziali di uno stato di diritto. Il dialogo fra di essi è necessario ad un buon funzionamento del sistema. Che la Corte spieghi e dialoghi è un bene per tutti e, tanto per cominciare, per la Corte stessa, che ha l’obbligo di motivare le sue decisioni e in certi casi addirittura di spiegarle rispondendo alle domande che le vengono poste, come accade appunto nel corso di una conferenza stampa. I contropoteri non possono essere intesi come semplici poteri di veto, ma anche e talvolta soprattutto come segmenti di un potere diviso in vista non della paralisi decisionale, ma di un migliore governo della società. Quando la Corte blocca, sulla base delle norme che ne organizzano il funzionamento, il diritto dei cittadini di modificare per via di abrogazione leggi in vigore o parte delle medesime, è in certa misura doveroso che l’organo guardiano della costituzione ne renda ragione, con un linguaggio il più possibile accessibile al cittadino elettore. Così accade già da qualche anno nel caso del Conseil constitutionnel francese che regolarmente pubblica, oltre alle decisioni, un commento delle medesime facilmente accessibile anche a chi non abbia fatto studi di diritto. Amato ha spiegato anche come il collegio giudicante abbia proceduto per giungere alla decisione. Senza un voto, ma attraverso una discussione che ha prodotto un consenso fra i giudici. La Corte costituzionale italiana non è un micro-parlamentino di quindici membri. È un organo collegiale di esperti del diritto che non sono elettoralmente responsabili dinanzi ai cittadini. E che, nominati per un singolo mandato sulla base delle loro competenze e non di un programma politico di parte, non possono essere rieletti. Dire come si fa talvolta che si tratta di un organo politico è affermazione confusa. Perché non distingue il fatto che le sue decisioni hanno necessariamente un impatto più o meno importante sulla vita della polis (la società) dal senso, invece, in cui si usa l’aggettivo “politico” per fare riferimento alle posizioni di una parte della vita politica, quale è un partito o anche un gruppo di interessi. La Corte è super partes non perché i suoi membri siano esseri pensanti senza opinioni, ma perché il collegio è composto da persone con parzialità moderate che devono trovare insieme, attraverso lo scambio di argomenti e non la ricerca del consenso popolare (come è giusto che accada per i partiti), risposte alle domande che vengono loro poste alla luce dei principi della costituzione, delle decisioni precedenti e degli orientamenti della società. Non per il bene dei suoi membri ma per quello del viver comune. Referendum, i magistrati non vanno giudicati così di Elisa Pazé* Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2022 Fra i referendum sulla giustizia uno si distingue per il quesito estremamente tecnico e settoriale: volete che a valutare la professionalità dei magistrati siano anche gli avvocati e i professori universitari che fanno parte dei consigli giudiziari? Siccome la stragrande maggioranza dei cittadini non ha la più pallida idea di cosa siano i consigli giudiziari, per cogliere la portata della modifica che si vorrebbe apportare è bene ricapitolare i termini della questione. I consigli giudiziari, organi territoriali costituiti in ogni distretto di Corte d’appello, e il consiglio direttivo della Corte di cassazione, hanno il compito di formulare, sull’organizzazione interna degli uffici e sulla progressione in carriera dei magistrati, dei pareri che vengono trasmessi al Consiglio superiore della magistratura che poi decide. Essi sono composti da magistrati eletti dai loro colleghi, a cui si aggiungono quali membri di diritto il Presidente e il Procuratore generale della Corte di appello (o della Corte di cassazione) e, a partire dal 2006, un esiguo numero di avvocati e professori universitari, ai quali però non è riconosciuto il diritto di intervenire sulle valutazioni di professionalità di giudici e pubblici ministeri. Secondo la proposta referendaria, a esprimere il parere sui magistrati dovrebbero essere anche gli avvocati e i docenti universitari che siedono nei consigli giudiziari e nel consiglio direttivo della Cassazione. In questo modo - si sostiene - le valutazioni saranno più complete e attendibili e potranno essere censurati coloro che lavorano male o hanno atteggiamenti non consoni al loro ruolo. Posto che è dubbio che i componenti esterni dei consigli giudiziari abbiano finora dato un apporto significativo in tema di organizzazione e funzionalità degli uffici, non pare che la modifica introdurrebbe alcun miglioramento nelle verifiche periodiche sulla professionalità dei magistrati. Gli avvocati e i professori universitari che sono membri dei consigli giudiziari e del consiglio direttivo infatti rappresentano solo se stessi, poiché non sono selezionati tramite elezioni ma vengono nominati, rispettivamente, dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei Consigli dell’ordine distrettuali e dal Consiglio universitario nazionale su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza. Siccome ogni avvocato nel corso della sua vita professionale ha occasione di rapportarsi solo con alcuni magistrati, e anche di questi conosce solo un frammento dell’attività, è difficile immaginare su quali basi gli avvocati e, ancor più, i docenti universitari (che peraltro spesso fanno anche gli avvocati), esprimerebbero un giudizio avveduto su ogni giudice e pubblico ministero. Quali saranno i parametri con cui un avvocato civilista vaglierà l’operato di un giudice di sorveglianza, che concede e revoca misure alternative al carcere? O con cui un professore di Procedura penale valuterà un giudice che si occupa di testamenti? Ma anche se gli avvocati e i docenti universitari dei consigli giudiziari venissero diversamente selezionati, o se fosse istituzionalizzata una sorta di preconsultazione della classe forense o dei professori di giurisprudenza per attingere informazioni, c’è il rischio che ad essere elogiati siano non i magistrati più preparati e laboriosi ma quelli maggiormente sensibili alle istanze difensive: i giudici civili supini alle prospettazioni delle parti, i giudici penali che assolvono spesso e volentieri, i pubblici ministeri disponibili a patteggiare pene irrisorie pur di liberarsi di un procedimento. È vero che anche i magistrati che nei consigli valutano i loro colleghi possono esprimere pareri distorti, dettati da solidarietà corporativa o finalizzati a precostituire carriere dirigenziali, ma hanno a loro disposizione un patrimonio conoscitivo assai più attendibile per formulare giudizi: i giudici operano anche in composizione collegiale; i giudici penali ascoltano i pubblici ministeri parlare in aula e leggono i loro provvedimenti, così come viceversa; i giudici d’appello esaminano le sentenze dei giudici di primo grado. Il sistema è certamente perfettibile, ma la strada perseguita con il referendum non è quella giusta. *Sostituto procuratore della Repubblica a Torino Sui referendum allarmismi e disinformazione: il corpo elettorale merita più rispetto di Giovanni Guzzetta Il Dubbio, 22 febbraio 2022 Ci si può dividere e ci si dividerà, legittimamente, su cosa sia meglio per il buon funzionamento della giustizia, ma, prima di ciò, il rispetto che si deve al corpo elettorale impone innanzitutto di adempiere a un dovere di corretta informazione e di onestà intellettuale sull’oggetto dei referendum. Purtroppo non è quello che sembra accadere. È un male antico. La disinformazione, e soprattutto la “disinformazione di qualità”, quella cioè diffusa dagli esperti o dagli addetti ai lavori, è un vizio che si ripresenta ad ogni tornata. Insieme alla furbizia un po’ pavida di invitare all’astensione coloro che, nel merito, sarebbero contrari ai quesiti. Una furbizia, perché così facendo gli oppositori sfruttano l’astensionismo fisiologico degli elettori che comunque non votano (e sono indifferenti ai contenuti) per realizzare l’obiettivo di impedire che si raggiunga il quorum. Ma torniamo alla disinformazione di qualità. Essa si manifesta in due modi. Il primo lo chiamerò “benaltrista”. Le sue manifestazioni sono note: “La materia è troppo complessa perché sia decisa dal popolo, l’intervento spetta al Parlamento” oppure “il quesito non affronta i veri problemi”. Insomma ci vorrebbe “ben altro” o nel metodo (Parlamento anziché referendum) o nel merito (perché il referendum non cambierebbe nulla). In questo caso la disinformazione di qualità si veste della saggezza paternalistica, così in voga in molta parte della classe dirigente del Paese: “Cari cittadini, fidatevi, vi spieghiamo noi quello che è giusto per voi”. L’altra manifestazione della disinformazione di qualità riguarda invece più da vicino le questioni di sostanza. Qui l’argomentazione non è “benaltrista”, ma “allarmista”: utilizza argomenti ad effetto, la cui attendibilità è accresciuta dall’autorevolezza di chi li formula, per mettere in guardia contro rischi, effetti inaccettabili, scenari minacciosi. Questa disinformazione di qualità supera se stessa nell’esaltazione dell’artifizio comunicativo. Perché la coerenza tra le premesse (i quesiti) e le conseguenze paventate è logicamente viziata o addirittura errata. Prendiamo, ad esempio, il referendum sul voto dei cosiddetti “non togati” nei consigli che valutano la professionalità dei magistrati. L’argomento allarmista si fonda sull’idea che coinvolgere esterni alla magistratura inquini gravemente l’indipendenza di questa, lasciandola alla mercé di giudizi “interessati” di avvocati e professori, offuscati dai pregiudizi o magari dal desiderio di vendetta verso qualche giudice che ha dato loro torto in giudizio. Discorso apparentemente ineccepibile, una logica schiacciante. Peccato che nell’argomentazione vengano trascurati alcuni aspetti piuttosto rilevanti. Innanzitutto non si capisce perché il pregiudizio (negativo) di qualche avvocato o professore dovrebbe preoccupare di più del pregiudizio (positivo) di qualche magistrato che valuta la professionalità di altri colleghi. Se i disinformatori di qualità volessero essere coerenti dovrebbero raccontare tutta la storia. E dire cioè che il rischio di “inquinamento” del giudizio c’è - per ragioni opposte - sia che a “valutare” sia un magistrato che se sia un non magistrato. Come se ne esce? Se ne esce ragionando, come fecero i costituenti (il secondo punto che i disinformatori omettono di ricordare). Di fronte al doppio rischio, da un lato, di una chiusura oligarchica dei giudici e, dall’altro, di un condizionamento degli “esterni”, i costituenti scelsero un modello “misto”: far partecipare gli uni e gli altri alle decisioni. È il modello del Consiglio superiore della magistratura, il quale, peraltro, è l’organo che, in ultima istanza, delibera le valutazioni dei magistrati. Se ciò è vero i disinformatori di qualità dovrebbero spiegare per quale motivo ciò che la Costituzione ha previsto per l’organo più importante dell’amministrazione della magistratura, non dovrebbe valere per i consigli giudiziari. Un altro esempio: la separazione delle carriere. Anche qui la disinformazione di qualità si esprime ai massimi livelli. Oltre al solito argomento “benaltrista” (non è la separazione che risolve i problemi), che, come il prezzemolo, sta sempre bene, c’è l’argomento allarmista: “La separazione disancora i pubblici ministeri dalla cultura della giurisdizione, li rende sostanzialmente dei poliziotti e dunque (passaggio cruciale) di fatto li riconduce nella sfera di influenza del potere esecutivo che è quello che si occupa della politica criminale”. Ancora una volta siamo di fronte ad una serie di salti logici e premesse indimostrate. Primo: ma perché l’osmosi tra pm e giudici dovrebbe operare solo (beneficamente) a favore di una cultura garantista dei pm e non potrebbe, al contrario, funzionare per inquinare di germi “polizieschi” gli organi giudicanti? E se gli organi giudicanti sono così “immuni” dai condizionamenti, perché si dovrebbe temere un pubblico ministero che, facendo male il proprio mestiere, si trasformi in un “pericoloso” e “manettaro” poliziotto in doppiopetto? Sarà poi così vero che tutto il resto del mondo sbaglia a separare le funzioni, e persino le carriere, e noi invece abbiamo realizzato la giustizia in terra? Ecco, i disinformatori di qualità dovrebbero forse lasciarci il beneficio del dubbio e non propalare ex cathedra verità tutte da dimostrare. Anche perché, e qui c’è la seconda disinformazione di qualità, il fantasma della sottoposizione del pm all’esecutivo non potrebbe comunque prodursi, anche se il referendum fosse approvato. Lo impedisce la Costituzione italiana che impone alla legge di garantire, comunque, l’indipendenza del pubblico ministero (art. 108), che affida a questo (e non all’esecutivo) la disponibilità diretta della polizia giudiziaria (art. 109) e che prescrive l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112). L’argomento allarmista, dunque, è privo di qualsiasi fondamento e confonde l’eventuale risultato del referendum con conseguenze che, a tutto concedere, riguardano un dibattito politico sulla riforma della Costituzione. Aggiungo, incidentalmente, avvalendomi sempre della saggezza dei costituenti, che il tema della definizione della politica criminale e delle priorità nel perseguimento dei reati non coincide affatto con quello dell’ipotetico asservimento del pubblico ministero al potere esecutivo. Basti ricordare come, senza alcuna tentazione autoritaria, Piero Calamandrei, alla Costituente, propose addirittura la creazione di un “Procuratore generale commissario della giustizia”, scelto dai “Procuratori generali della Corte d’appello o di Cassazione”, e “nominato dal Presidente della Repubblica su designazione della Camera”, che potesse prendere parte alle sedute del Consiglio dei Ministri e rispondesse “di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura” fino a potere essere addirittura sfiduciato da queste. Chissà cosa direbbero i disinformatori di qualità di una simile, “eversiva”, proposta. Forse, per prima cosa, che Calamandrei era un avvocato. Toghe “girevoli”: la stretta è un colpo alla giustizia show di Alberto Cisterna Il Riformista, 22 febbraio 2022 I magistrati che si candidano sono pochi, ma lo stop al rientro non è inutile. Suggerisce che non serve coltivare l’idea di guadagnare consenso mediatico con indagini pirotecniche per poi spenderlo nell’agone politico. C’è un punto del pacchetto Cartabia che può contare su un percorso tutto sommato tranquillo in Parlamento e questo è quello che rende più stringente il divieto delle cosiddette porte girevoli. La regola è chiara: chi si candida o viene eletto non potrà più rientrare nella giurisdizione attiva. Praticamente appenderà al chiodo la toga e andrà, a occhio e croce, a sbrigare pratiche amministrative al ministero della Giustizia. Sia chiaro mica un dito in un occhio: ci sono toghe che implorano di finire in un qualunque ministero per occuparsi - a stipendio intatto se non aumentato - di pratiche amministrative. Pur di sfuggire al tormento delle aule e alla fatica del lavoro giudiziario, ci sono file di aspiranti al cosiddetto “fuori ruolo” che farebbero di tutto per farsi distaccare nei più sperduti uffici dell’amministrazione pubblica. Quasi quasi conviene candidarsi, pur senza alcuna speranza, e così tirarsi fuori dall’impiccio delle sentenze o dei turni di procura della Repubblica. Naturalmente è una piccola provocazione, ma solo per capire che non è mica che la politica sta con il “gatto a nove code” in mano a frustare le toghe; male che vada per qualcuno finisce meglio. Poi ci sono le questioni ideologiche, le ricadute ordinamentali, l’articolo 51 della Costituzione che prevede che chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto a conservare il proprio posto di lavoro, per carità tutta roba meritevole della massima considerazione, ma insomma la garanzia dello stipendio invariato saprà mitigare anche il più lancinante dei dolori per l’abbandono dello scranno togato. Certamente ha ragione chi sostiene che il problema praticamente non esiste, o meglio non esiste più. Il numero delle toghe che scendono in politica sta nel palmo d’una mano e la volatilità di molte formazioni partitiche scoraggia quello che, un tempo, era la vera e propria adesione a una “chiesa” che preservava e tutelava nel tempo i propri adepti. Per capirsi, non è che i magistrati stiano proprio a sgomitare per una candidatura in tempi così burrascosi. La navigazione politica avviene di questi tempi in un mare periglioso, per cui molto meglio entrare ai piani alti della pubblica amministrazione dove potersi sempre riciclare nella fumosa categoria dei “tecnici in prestito” oggi in grande spolvero. E, quindi, una battaglia inutile, la solita norma manifesto? Non del tutto. Ha ragione chi dice che il divieto delle porte girevoli punta a tracciare una linea di demarcazione tra la politica e la magistratura e dar sostegno all’idea che non si può essere uomini e donne di parte per poi tornare a vestire il laticlavio della terzietà. Certo è anche vero che il 99,9% degli affari di giustizia non ha alcuna contaminazione politica o con la politica, ma meglio evitare, ci può stare. Poi c’è un segnale meno evidente, ma non meno importante, mandato alle toghe. È inutile coltivare ancora l’idea di guadagnare consenso mediatico con indagini tanto pirotecniche quanto fallimentari per, poi, spendere il capitale di immagine lucrato nell’agone politico. È successo, eccome se è successo, e le scorie di questo immane danno alla magistratura italiana non sono state ancora del tutto smaltite. Anzi proprio il trentennale di Mani pulite avrebbe dovuto offrire l’occasione per ricostruire con coraggio e lucidità il corso di alcune carriere e individuare le contaminazioni che sono state consumate tra populismo giudiziario e politica. Contaminazioni in gran parte venute meno, ma che ancora mostrano rigurgiti in talk show e dibattiti all’insegna dei nostalgici del cappio. Se il Parlamento saprà dare anche regole certe alle carriere dei magistrati e all’assegnazione degli incarichi, allora una stagione di scorribande mediatiche sarà veramente all’epilogo e la giustizia potrebbe trovare la luce di una rinata credibilità. Le derive giustizialiste del populismo di Marco Gervasoni Il Giornale, 22 febbraio 2022 Sarebbe miope considerare patrimonio di un partito la campagna referendaria sulla giustizia. Non sono i referendum della Lega e neanche del centrodestra: sono un’occasione unica per rendere il nostro paese un po’ meno anormale. Una giustizia equilibrata preme a tutti, anche ai cittadini di sinistra: si tratta insomma di una questione che supera le divisioni partitiche, o almeno dovrebbe. Ribadito questo, ha ragione Salvini quando afferma che i referendum sono anche una via per fornire una nuova identità al centrodestra. È una questione che riguarda il passato del paese da un lato e il futuro dei moderati che, ricordiamolo, sono pur sempre, e da sempre, la maggioranza degli italiani. Per quanto riguarda il passato, la vittoria referendaria consentirebbe di chiudere con un passato che non passa, con una sorta di dopoguerra: laddove il conflitto fu Mani pulite, cioè la distruzione di un sistema politico a cui sono seguiti, a parte brevi parentesi, anni di caos. La Seconda Repubblica, poiché nata sui patiboli di una “falsa rivoluzione”, come la chiamava Bettino Craxi, come tutti i regimi nati da un atto violento, non poteva che essere instabile. Se Mani pulite intendeva ridurre il livello di corruzione politica, in realtà i decenni successivi ne hanno visto un aumento. Segno che la corruzione non poteva e non può essere eliminata solo sottomettendo la politica alla magistratura, come è avvenuto con l’eliminazione dell’immunità parlamentare e soprattutto con la legge Severino. Il problema della politica e dei partiti è che faticano a reclutare classe dirigente all’altezza: e su questo la cappa giustizialista non solo non ha posto rimedio, ma ha peggiorato la situazione. La battaglia referendaria riguarda però anche il futuro del centrodestra. Se esso continuerà a esistere, o sarà garantista o non sarà. Sarebbe una sorta di “ritorno al futuro”, perché questo era il centrodestra quando Berlusconi ne era il leader. Poi è stato investito da un’ondata populista che ne ha ridotto il profilo liberale e garantista. Il populismo è infatti giustizialista per sua natura: del resto, uno dei padri del populismo era Peron e il movimento peronista si chiamava “giustizialismo” non per caso (anche se non riguardava solo la magistratura). Abbandonare il giustizialismo e recuperare un garantismo liberale totale vuol dire al tempo stesso liberarsi del populismo. Che è una sorta di sostanza stupefacente: droga i consensi, i sondaggi, i like, magari anche i voti reali, ma poi disintegra la cultura di governo: le vicende dei 5 stelle e in parte della Lega dovrebbero ammaestrare. Chi vuole un centrodestra in grado invece di governare un paese occidentale, non potrà quindi che sostenere i referendum: e sostenerli tutti. Gratteri insiste: “Pittelli deve tornare in carcere” di Simona Musco Il Dubbio, 22 febbraio 2022 La procura di Catanzaro si oppone alla decisione del Tribunale di mandare ai domiciliari l’ex parlamentare, inguaiato da una lettera alla ministra Carfagna. Non c’è pace per Giancarlo Pittelli, l’ex deputato di Forza Italia a processo per concorso esterno e tornato ai domiciliari lo scorso 9 febbraio, dopo aver trascorso (altri) due mesi in carcere. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e i sostituti Antonio De Bernardo, Annamaria Frustaci e Andrea Mancuso hanno infatti impugnato la decisione del Tribunale di Vibo, nella convinzione che ci siano elementi tali da giustificare il carcere. A darne notizia, ieri, è stato Umberto Boccolo, portavoce del “Comitato per Pittelli”, che si sta ricostituendo sotto forma di “Osservatorio sull’uso politico e mediatico della giustizia”. Secondo la Dda, il provvedimento delle giudici che hanno firmato la scarcerazione non sarebbe adeguatamente motivato e ignorerebbe completamente gli elementi che aggravano ulteriormente la posizione del penalista. Lo stesso sarebbe stato emesso, inoltre, senza attendere il tempo utile per valutare il parere del pm. Pittelli, imputato nel processo Rinascita-Scott, era finito nuovamente in carcere a dicembre dopo aver scritto una lettera indirizzata alla ministra per il Sud Mara Carfagna, alla quale chiedeva aiuto definendosi vittima di accuse “folli”. Una lettera che costituiva, però, una violazione delle restrizioni imposte dal giudice che gli aveva accordato precedentemente i domiciliari. Il Tribunale di Vibo, pochi giorni fa, aveva optato per un alleviamento della misura, sottolineando che “il tempo trascorso dal momento della riapplicazione della massima misura custodiale nonché il complessivo comportamento dell’imputato possono far esprimere, allo stato, un giudizio prognostico favorevole di resipiscenza del Pittelli in punto di futuro rispetto delle prescrizioni sullo stesso gravanti”. Ma non secondo i magistrati antimafia, secondo cui a fondamento di quella decisione vi sarebbe una “motivazione soltanto apparente” e nessun elemento di novità “per giustificare il mutamento della valutazione del quadro delle esigenze cautelari”. L’unico nuovo elemento sarebbe il tempo trascorso in carcere, ovvero due mesi. Una soluzione “in contrasto con il costante orientamento espresso dalla Suprema Corte”, afferma la Dda, che cita più pronunce della Cassazione, tutte orientate ad evidenziare che il tempo, da solo, “è elemento insuscettibile” a giustificare la sostituzione della misura, “necessitando di ulteriori elementi che portino a ritenere che le esigenze cautelari siano scemate”. A motivare l’esigenza di una misura più restrittiva, per la procura di Catanzaro, non sarebbe solo la lettera inviata alla ministra Carfagna, ma diverse vicende che coinvolgono Pittelli, a partire dall’ordinanza di custodia cautelare disposta ad ottobre 2021 dal gip di Reggio Calabria, nell’ambito dell’inchiesta “Mala Pigna”, che lo vede indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, con riferimento alla cosca Piromalli. Ma non solo: il 5 novembre 2021 è stata depositata un’informativa del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Catanzaro che documenta condotte che “integrano il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione” in danno della Regione Calabria, alla quale Pittelli deve restituire oltre un milione di euro. Condotte risalenti al 2018 e che sarebbero finalizzate a sottrarre alla stessa “la possibilità di rivalersi su un terreno” che rappresenta l’unico bene sul quale avrebbe potuto esercitare l’azione restitutoria, “per soddisfare l’ingente debito scaturito da un finanziamento pubblico” per la realizzazione di villaggio turistico rimasto solo sulla carta. Per Pittelli, inoltre, la procura di Milano (che ha poi trasmesso gli atti a Roma) ha chiesto a maggio 2021 il rinvio a giudizio nell’ambito di un’inchiesta sulla Diamond Private Investment S.p.a., con l’accusa di aver riciclato il denaro frutto delle truffe aggravate per le quali è a processo l’amministratore delegato Maurizio Sacchi, “attraverso la percezione di ingenti finanziamenti, versati dalla Magifin immobiliare di Sacchi sul conto della stessa Sarusi Srl, società riconducibile al Pittelli e costituita ad hoc nel 2018”. L’ultimo capitolo della vicenda è, dunque, la lettera a Carfagna, poi inviata dall’Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Palazzo Chigi alla Questura di Catanzaro. Lettera il cui mittente risultava essere la moglie di Pittelli, ma scritta dall’ex parlamentare, che indicava il numero della moglie quale contatto per essere raggiunto telefonicamente, ricordando alla ministra le tutele garantite dall’articolo 68. “È evidente - afferma la Dda - che, al di là della formale violazione delle prescrizioni, dalla missiva si evince la circostanza che il Pittelli abbia intrattenuto altri contatti non autorizzati ed utilizzi il nominativo della consorte quale mittente di missive ovvero l’utenza telefonica alla stessa in uso per instaurare contatti all’esterno non autorizzati, il che aveva chiaramente destato allarme circa l’idoneità della misura degli arresti domiciliari a fronteggiare le esigenze cautelari, ben al di là della specifica vicenda della lettera”. Alle contestazioni della procura si aggiunge inoltre quella relativa alla velocità con la quale il Tribunale ha deciso sull’istanza della difesa, presentata il 7 e accolta il 9 febbraio, “senza nemmeno attendere l’intero decorso dei “due giorni successivi” previsti ex art. 299 c.p.p, affinché l’Ufficio del pubblico ministero esprima il suo parere. Parere che, qualora fosse stato atteso, avrebbe consentito al Tribunale di Vibo Valentia di valutare anche” gli elementi sopra evidenziati. “Siamo pronti a questa nuova battaglia - ha dichiarato al Dubbio Guido Contestabile, difensore di Pittelli assieme al collega Salvatore Staiano -, affatto sbigottiti dalla scelta della procura, nella consapevolezza che un innocente in attesa di giudizio non può e non deve finire in carcere”. La decisione sulle sorti del penalista arriverà il 22 marzo, giorno in cui, afferma il “Comitato per Pittelli”, “il giudice dell’appello dirà se questa richiesta grottesca è da accogliere o piuttosto da respingere come atto di manifesta irragionevolezza e di sfida al buon senso e ai sentimenti di umanità più elementari - si legge in una nota. Con atti del genere la giustizia mostra il suo volto più truce e più distante dai sentimenti delle persone comuni, le quali mantengono chiara in mente la distinzione fra un giusto processo (in un regime di democrazia) e una catena di rabbiosi atti persecutori. La nostra mobilitazione e la nostra solidarietà sono oggi più che mai necessarie! Per far sì che umanità e buon senso non siano definitivamente travolti”. Poliziotti e carabinieri vanno a scuola da Gabriella Nobile: “Lezioni di antirazzismo” di Marta Ghezzi Corriere della Sera, 22 febbraio 2022 L’idea dell’imprenditrice dopo gli attacchi contro il figlio adottivo. Dialogo tra agenti e giovani stranieri per superare paure e pregiudizi reciproci. Sì del Viminale al primo corso di “uguaglianza” per le forze dell’ordine. La relazione è stata inviata alla ministra Luciana Lamorgese a fine 2021. La risposta è stata immediata, “siamo disponibili a fare diventare il corso una pratica a livello nazionale”. Gabriella Nobile è troppo determinata per fingere di aver provato stupore, di essersi meravigliata di quelle parole. Probabilmente pensava a tempi più lunghi, ma è certo che ci credeva molto e si augurava che il suo progetto pilota di un corso antirazzismo per le forze dell’ordine, forse il primo del genere in tutta Europa, diventasse strutturato. “Se vedi quello che ho visto io, ragazzi in lacrime e poliziotti che le trattengono a stento, e alla fine un bell’abbraccio collettivo - dice - capisci che è la strada giusta e non vuoi più fermarti”. In quella relazione c’era il resoconto del corso sperimentale, tenutosi a Milano a novembre, con venti poliziotti e carabinieri (età intorno ai 25 anni) e venti coetanei (appena un filo più giovani) di pelle nera. “Ambiente neutro e presenza di facilitatori”, racconta: “Così il dialogo è decollato e sono venute allo scoperto paure, esperienze, opinioni”. E pregiudizi. Da una parte e dall’altra. I più classici, “la polizia non difende i neri” e “la polizia dai neri riceve sputi e calci”. E i più tremendi, da una parte “le donne di colore sono tutte prostitute e gli uomini spacciatori”, dall’altra “le divise sono i nemici da odiare”. Gabriella Nobile è diventata “la mamma bianca che difende i figli neri” dopo un post (garbato ma durissimo nei contenuti), pubblicato nel 2018 sul suo profilo Fb, a seguito di una serie di episodi di razzismo verso il figlio, allora tredicenne: Fabien è nato in Congo ed è stato adottato quando aveva un anno e mezzo, la sorella Amelie, cinque anni in meno, di origine etiope, è arrivata in famiglia a undici mesi. “Era febbraio, eravamo alla soglia del voto, la questione migranti e sbarchi infuocava la politica, mai Fabien era stato insultato con quell’asprezza”, ricorda. Del post dice che “pensavo lo avrebbero letto i soliti amici e basta”. Invece diventò subito virale, provocando uno tsunami mediatico. Matteo Salvini, chiamato in causa, replicò “non allontanerò mai dei bambini dall’Italia”. Intanto iniziarono ad arrivare all’imprenditrice centinaia di mail. A scriverle erano madri. “Le leggevo di notte, piangendo. È scattato qualcosa, mi sono sentita investita della responsabilità di fare rete”. Così ha fondato il movimento “Mamme per la pelle”, che dal Nord al Sud lotta per una cultura antirazzista e oggi ha referenti in ogni regione. E contemporaneamente ha scritto un libro, I miei figli spiegati a un razzista (Feltrinelli). “Dietro a questo attivismo - precisa - c’è un’unica missione: decostruire il razzismo. L’atto violento fa rumore ma sono le micro aggressioni quotidiane a ferire e fare danni, i gesti e le parole offensive. In una società bianco-centrica la paura della pelle scura è atavica, l’hai dentro e non te ne rendi conto, è il razzismo inconsapevole, sono stati i figli ad aprirmi gli occhi”. “Facciamolo” - L’idea del corso è nata durante la stesura del nuovo libro, pubblicato lo scorso autunno, Coprimi le spalle (Chiarelettere) - la prefazione è di Gherardo Colombo - dove ha raccolto decine di storie di discriminazione che fanno emergere il rapporto delicato dei neri italiani con le forze dell’ordine. “Un’idea folle, giovani poliziotti e giovani di pelle nera che si incontrano e parlano. Ho chiamato Colombo per un parere. Lui ha detto, facciamolo. Siamo andati a Roma a incontrare la ministra Lamorgese, abbiamo coinvolto esperti come Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli. A novembre è andata in onda la prova generale, ora lavoriamo a un format nazionale”. Campania. Ciambriello: nel 2021 ci sono stati 7 suicidi nelle carceri di Antonio Carlino cronachedellacampania.it, 22 febbraio 2022 “L’anno scorso nella nostra regione 7 suicidi, 159 tentativi. Non c’è stata una strage per il pronto intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Il primo suicidio in Campania, un 27enne a Salerno, più altri due detenuti deceduti, uno nel carcere di Poggioreale ed uno nel carcere di Salerno”. Così si è espresso il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, invitato a Mattina Live, su Canale 8, per discutere in generale sul pianeta carcere tra luci e ombre al tempo del Covid. “In questi ultimi 10 anni una sola volta a Benevento si è suicidato un ragazzo malato di mente condannato all’ergastolo. Non si suicidano coloro che devono scontare 10-20 anni, ma coloro che devono uscire dopo un anno, due anni. C’è un protocollo sul sistema suicidario, ma una persona viene arrestata e portata in carcere. Il primo giorno incontra il medico, lo psicologo e un educatore. Successivamente queste figure socio-sanitarie le vede con il binocolo. Se non hai un front Office con psicologi, assistenti sociali, educatori, ma solo con l’agente di polizia penitenziaria, con chi parli?”, aggiunge il Garante. “In Italia vi sono 54000 detenuti, 6702 solo in Campania di cui 310 donne, 887 stranieri e 153 detenuti in semilibertà. Preme sottolineare che solo nel carcere di Poggioreale sono presenti 2229 detenuti. Inoltre un’altra questione fondamentale è la mancanza di personale penitenziario: dovrebbero esserci 400 educatori in tutta Italia, ma - dice ancora Ciambriello - ne sono presenti la metà. Fortunatamente per quanto concerne gli psicologi, in questa settimana, il provveditorato campano d’intesa con il ministero ha fatto entrare a Poggioreale 15 psicologi e 5 a Secondigliano”. La soluzione per il Garante resta “investire nella prevenzione” e “creare luoghi alternativi al carcere” e “ripartire dai minori, adolescenti a metà, per cambiare il volto di una città”. L’appello del Garante dei diritti carcerari, considerando che 173000 ragazzi a Napoli hanno meno di 18 anni”. “Che facciamo per loro, per asili nido, per l’evasione scolastica, attività sportive pubbliche, sostegno relazionale?”. Questi numeri sono rilevanti analizzando anche il numero di minori ristretti negli IPM: nell’istituto penale di Nisida ci sono 39 ragazzi, nell’IMP di Airola 25 ragazzi. In tutta Italia 328 ragazzi in 17 carceri. “C’è la visione carcero-centrica da quando sei piccolo. Il carcere è diventato una discarica sociale per la politica. La politica non si occupa di carcere, - conclude - pensa al consenso delle persone. Dovrebbe al senso della propria presenza. La soluzione potrebbe essere decreto svuota carceri, più figure sociali, la qualità della pena, tutela della salute, misure alternative al carcere”. Milano. Degrado e aggressioni: la vita nelle carceri cittadine redattoresociale.it, 22 febbraio 2022 La relazione di metà mandato del Garante dei detenuti Francesco Maisto. Piove nelle celle, nelle infermerie. A Opera detenuti allettati vengono assistiti dai compagni di cella in attesa di una visita specialistica. Concentrazione di reclusi con problemi psichiatrici: “San Vittore è diventato un manicomio”. “La pandemia ha gettato un potente faro di luce sulle questioni del sistema penitenziario lasciate in sospeso per tanto tempo: degrado delle strutture, sovraffollamento, debolezza del servizio sanitario”. Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano, traccia un quadro preoccupante delle condizioni in cui versano le carceri della città: San Vittore, Opera e Bollate. Se ora la situazione dei contagi è sotto controllo, con numeri molto bassi tra i detenuti (20 positivi a Bollate, 31 a San Vittore e 2 a Opera), rimane la gravità della qualità di vita di chi è recluso e di chi ci lavora (agenti e personale amministrativo). Intervenendo alla seduta della sottocommissione carceri del Consiglio comunale per presentare la sua relazione di metà mandato, Maisto sottolinea come “ci sia un crescendo di aggressioni al personale”: dal 2015 ad oggi il 2020 è stato l’anno peggiore, ma con una situazione preoccupante anche nel 2021. Tensioni causate da sovraffollamento, concentrazione di detenuti con problemi psichiatrici e carenza di assistenza sanitaria. In Lombardia ci sono 672 detenuti con problemi psichiatrici e 208 con disturbi del comportamento. E a Milano la situazione è analoga. “San Vittore, nonostante gli sforzi della direzione e del personale, sembra ormai un manicomio più che un carcere” commenta amaramente il Garante. Basti pensare che alcune celle da tre sono state adibite a un solo posto letto per isolare i detenuti aggressivi anche verso i compagni di cella. San Vittore tra l’altro ha 928 detenuti su una capienza di 800 posti letto. Anche nel carcere di Opera c’è un problema di mancanza di assistenza sanitaria (affidata all’azienda ospedaliera Santi Carlo e Paolo): ci vogliono mesi di attese per visite specialistiche e ci sono stati casi di detenuti allettati assistiti dai compagni di cella. Ci sono poi infiltrazioni di acqua nelle celle, nell’infermeria, che è dotata anche laboratori medici ma sotto utilizzati per mancanza di personale. A Bollate i detenuti sono circa 1164 su 906 posti previsti. Bollate ha una situazione migliore, con più detenuti che hanno possibilità di lavorare, “ma la pandemia ha comunque cambiato questo carcere, che rimane tuttavia un esempio a livello nazionale”. Pistoia. Teatro-carcere con il progetto “Semi di rinascita” La Nazione, 22 febbraio 2022 Dalla naturale magia del teatro scaturiscono emozioni liberatorie, stati d’animo tanto più necessari quando il vivere quotidiano sia obbligato a confrontarsi con limitazioni, difficoltà, dolore. Per offrire prospettive alternative ai detenuti, Biribà APS-Teatro di natura ha lavorato al progetto “Semi di rinascita”: iniziato nel 2017 al carcere di Pistoia col sostegno di Caript, cui nel 2021 si è aggiunta la Regione Toscana, è un progetto ancora in corso, replicato avendo raggiunto gli obiettivi previsti. Un risultato che ha consolidato l’esperienza facendola proseguire negli anni. Al momento “Semi di rinascita” ha coinvolto complessivamente circa 50 uomini, di ogni età, detenuti al carcere pistoiese, che hanno lavorato accompagnati da Jacopo Belli, Elena Vannucci, Linda Salvadori, Vera Biagioni e Paolo Giordano di Biribà APS-Teatro di natura (si tratta di formatori qualificati a condurre i gruppi teatrali) e dal personale in forze alla casa circondariale. Si è trattato di un lavoro tanto intenso quanto stimolante, che ha portato a completare ben tre spettacoli, e a metterne in lavorazione un quarto: “Semi di rinascita 4.0”, per il quale è previsto l’allestimento in piazza, dove gli attori dal vivo saranno accompagnati da filmati realizzati in carcere, con la finalità di sensibilizzare la cittadinanza dimostrando che la reclusione non può essere mera punizione, bensì occasione di crescita, che passando dal “sacro fuoco” del teatro trova le motivazioni al “riscatto purificatorio”. Sul calendario degli spettacoli di strada vi terremo certamente aggiornati: intanto si sa che da maggio a giugno saranno coinvolte le vie di Agliana, ma toccherà presto anche Montale. Per gli aggiornamenti www.teatronaturabiriba.it. Prato. Canto libero, il musicista egiziano Ramy e lo spettacolo per Regeni di Caterina Ruggi d’Aragona Corriere Fiorentino, 22 febbraio 2022 Un concerto-spettacolo sui tanti Regeni del mondo. Sull’Egitto e sulle sue relazioni con l’Italia. Per chiedersi “cosa significa Stato. Cosa significa giustizia. Cosa significa potere...”. “Cosa significa responsabilità, umanità, forza”. Parte da questi interrogativi Giulio meets Ramy/ Ramy meets Giulio, il nuovo spettacolo di Babilonia Teatri, prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, che debutta in prima assoluta al Fabbricone domani (ore 20.45; repliche fino a domenica alle 16.30). “Già nel 2018 Massimiliano Civica ci invitò a presentare un progetto. Nacque l’idea di uno spettacolo che ci aiutasse a capire perché fosse così complicato ottenere verità e giustizia su Giulio Regeni”. Enrico Castellani, cofondatore (assieme a Valeria Raimondi) della compagnia veronese che ha vinto due Premi Ubu e un Leone d’Argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia, spiega la lunga gestazione dello spettacolo concepito in origine per il teatro Magnolfi di Prato. “Quella bomboniera strideva troppo con la vicenda di Regeni e con la figura di Ramy. Fortunatamente abbiamo avuto la possibilità di spostarci al Fabbricone, spazio ampio che permette al racconto e alle canzoni di respirare, amplificando le immagini proiettate”, spiega Castellani, quasi incredulo per il debutto di Giulio meets Ramy/ Ramy meets Giulio slittato, a causa della pandemia, da maggio 2020 a febbraio 2021. “Un anno fa siamo stati a Prato per le prove; ma non siamo riusciti ad andare in scena”, dice. La sua è l’impazienza di chi ha bisobiamo gno di confrontarsi su una verità non detta, accendendo negli spettatori una luce investigativa e catartica. “Il teatro è sempre — sottolinea — politico, perché deve occuparsi della polis. Come appunto la vicenda di Giulio Regeni, sulla quale sentivamo il peso di interessi strategico-economici che non permettevano alle indagini di procedere. Ci siamo resi conto che lo sguardo dall’Italia aveva ignorato la realtà attuale dell’Egitto, dove ci sono tra i 60 mila e i 100mila detenuti politici. Abbbiamo sentito la necessità di farla raccontare da chi ci è cresciuto e ne è stato segnato: il cantante Ramy Essam, noto come la voce della rivoluzione. Era in piazza Tahrir durante la prima Primavera araba che portò alla destituzione di Mubarak. Da allora non ha smesso di cantare contro tutte le dittature che si sono succedute. Per questo dal 2014 vive in esilio tra Svezia e Finlandia, con un mandato di cattura per terrorismo. Ma è un cantante”. Sul palcoscenico Ramy racconta di aver smesso di eseguire una delle sue canzoni che è costata il carcere a sette persone, tra cui un videomaker. Una denuncia poetica. Come tutte le opere della compagnia Babilonia, legata a doppio filo alla Toscana. Per Pinocchio, per il quale hanno avuto il Leone d’Argento, ha utilizzato la storia di Collodi per raccontare vite che hanno subito una trasformazione e sono state stigmatizzate dalla società. “E il mondo si chiuse fuori - Un racconto dal carcere” cittanuova.it, 22 febbraio 2022 Un romanzo corale, nato nell’Istituto Circondariale di Marassi, quello in uscita il prossimo 24 febbraio. “E il mondo si chiuse fuori” è una storia di vita immaginata ma possibile, credibile e nello stesso tempo fantasiosa, intenzionalmente oltre le righe quel tanto da consentire il superamento di una realtà purtroppo scomoda - quella della vita in carcere - che almeno sulla carta può essere ridefinita nero su bianco lasciando che le parole scorrano ed esprimano intensità d’animo sovente negate. Il desiderio di dar vita a una “creatura comune” si è manifestato fin dall’inizio del corso di scrittura creativa avviato nel 2016 nell’Istituto Circondariale di Marassi (e proseguito presso quello di Saluzzo), ideato con metodi innovativi anche dagli stessi partecipanti, e l’entusiasmo scaturito da questi primi tentativi, la voglia di stare insieme, di mettersi in gioco, di confrontarsi e impegnarsi sono sfociati in quello che solitamente nessun formatore osa neppure sognare: l’invenzione e la realizzazione di una narrazione collettiva. È nata così una “storia criminale” - con personaggi che si ispirano al vissuto reale dei vari autori - che parla di carcere, di azioni illegali, di voglia di emergere, di vizi, di denaro, di prepotenze e di violenze, ma anche di ricerca di sé, di significati altri, di affetti perduti, di prese di coscienza e, dalla prima all’ultima pagina, di amicizia, di rispetto, di desiderio di aiutarsi e di voglia di ricominciare insieme. Il volume è curato da Grazia Paletta, insegnante di italiano L2 presso il Cpia Centro Ponente di Genova. Responsabile della redazione “Ristretti Orizzonti Genova Marassi”, ha curato come formatrice volontaria diversi corsi di scrittura creativa nelle carceri di Marassi e Voghera. Ha già curato altre raccolte di scritti di detenuti: Sono Giovanni e cammino sotto il sole (Loquendo, 2013) e La nuova generazione (Rayuela, 2015). La prefazione del volume è firmata da Maria Milano d’Aragona, Provveditrice Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto, già Direttrice dell’Istituto Circondariale di Marassi a Genova. Vinceremo mai contro la guerra? di Alberto Leiss Il Manifesto, 22 febbraio 2022 La disgraziata passione per la guerra può tornare prima che si finisca davvero per ripudiarla (verbo scritto nella nostra Costituzione e sostanzialmente tradito). La scelta per l’Ucraina assume un valore generale importantissimo. Lo spettacolo a cui assistiamo intorno all’Ucraina e soprattutto al suo interno induce a un tremendo sconforto. Intanto non ci si può fidare dei due principali autori del dramma. Comprereste un’auto usata (o un cavallo usato) da Putin? E chi si fida degli americani, dopo che un loro Capo di stato maggiore - che sembrava persino una persona seria - sventolò prove false davanti all’Assemblea dell’Onu per giustificare la devastante aggressione contro l’Iraq di Saddam? Ma ciò che (mi) fa stare più male è la condizione di chi vive in Ucraina, in particolare nelle zone cosiddette russofone, ma non solo. Molti apprezzano la democrazia che da qualche anno vive a Kiev. È vero che i leader di governo cambiano in base al voto, ma un popolo costretto, dagli uni e dagli altri, a partecipare a “esercitazioni militari” con fucili di legno nei parchi dove dovrebbero giocare i bambini, non credo possa essere felice. E poi c’è la tristezza infinita di quegli autobus carichi di donne e bambini che vengono sfollati dalle città del Donbass perché la logica e la pratica della guerra sembra ineluttabilmente doversene impadronire. Una comprensibile precauzione, o una nuova mostruosa strumentalizzazione? Smettiamo di interrogarci se la guerra ci sarà o non ci sarà. La guerra c’è già, e sta già producendo i suoi effetti angosciosi nelle menti di chi la subisce, e forse anche nelle nostre menti: non esistono “distanze di sicurezza” dal fronte. È sempre stato così, e lo è tanto più nell’era delle “intelligenze artificiali” che manovrano comunicazione e informazione (indirizzate dai comandi militari). Solo questo Papa lo dice con chiarezza, e con nettezza la rifiuta. Ma non faccio la solita lamentela contro “i politici” in tutt’altre faccende affaccendati. Ci sono da qualche parte altri “politici” meno noti che preparano manifestazioni pubbliche per sabato prossimo, 26 febbraio. E che ne discutono (per esempio sul sito Peacelink.it). C’è chi, come lo storico Yuval Noah Harari, è intervenuto per dire che ci sono anche motivi per essere un poco ottimisti. Un suo articolo è tradotto sull’ultimo numero di Internazionale: “In Ucraina è in gioco la storia dell’umanità”. Il “declino della guerra”, almeno dal ‘45 ai nostri giorni, è qualcosa di percepibile anche statisticamente. Vediamo il paesaggio di morti, dispersi, profughi e migranti in fuga a causa delle guerre, ma oggi - a quanto sembra - fanno molte più vittime gli incidenti stradali, le malattie, i suicidi. Soprattutto è cambiata, scrive lo storico israeliano che pure ha ben presente il dramma dei territori in cui vive, la mentalità delle persone, e persino di chi governa. Una volta le spese militari erano la voce principale dei bilanci delle nazioni. Oggi arrivano in media al 6,5 per cento, molto meno di quanto si spende per la sanità, la scuola e l’assistenza sociale. E ci sembra già uno spreco assurdo e criminale. Avrei qualche dubbio. Ma lo ha anche Harari: conclude dicendo che se il cambiamento è prerogativa umana tra le più costanti, i mutamenti elaborati dagli umani sono anche reversibili. La disgraziata passione per la guerra può tornare prima che si finisca davvero per ripudiarla (verbo scritto nella nostra Costituzione e sostanzialmente tradito). La scelta per l’Ucraina assume un valore generale importantissimo. Manifestiamo sabato. Ma soprattutto pensiamo a che cos’è la guerra. Io la credo indissolubilmente legata al retaggio di una concezione maschile della forza e della violenza. Qualcosa che non ha più molto credito. Ma che non potrà essere definitivamente vinta senza riconoscerla fino in fondo nel lato oscuro dei nostri cervelli e dei nostri cuori. Il pacifismo non si ferma mai di Francesco Vignarca* La Stampa, 22 febbraio 2022 Il 25 aprile 2014 oltre tredicimila persone, nell’Arena di Verona, hanno detto che oggi la Nonviolenza è la nuova resistenza e il disarmo la nuova liberazione. Da partì il lavoro per arrivare alla Rete italiana Pace e Disarmo, con oltre 60 organizzazioni impegnate ogni giorno per una “pace positiva”. Come la Legge di iniziativa popolare per la difesa civile non armata e nonviolenta: oltre 50 mila firme e una proposta di cui aspettiamo la discussione in Parlamento. O come i 45 mila volti italiani per la campagna Control Arms capace di ottenere un Trattato internazionale sul commercio di armi (prima non esistevano regole). O ancora il Trattato di proibizione delle armi nucleari (entrato in vigore a gennaio 2021) voluto dalla nostra campagna Ican, poi Premio Nobel per la Pace 2017. Esempi che dimostrano come la domanda provocatoria “dove sono i pacifisti?” trovi risposta soprattutto nello sguardo poco attento di chi la pone. Sono stati i pacifisti a preannunciare l’insensatezza dell’intervento militare in Afghanistan (poca invece l’autocritica di chi lo ha voluto) e che la guerra in Libia e Siria avrebbe solo ingigantito una catastrofe. Siamo noi a portare trasparenza sull’export di armi italiane, flusso in continua crescita soprattutto verso le zone “calde” del globo con la benedizione di governi di ogni colore. E grazie a noi nel 2021 (per la prima volta) sono state revocate alcune licenze di vendita verso contesti di conflitto, bloccando così oltre 12.500 bombe che non potranno più uccidere in Yemen. È stata fermata la guerra? No, ma si è contribuito per quanto in nostro potere - mentre troppi giustificano tutto pensando al profitto di pochi - a renderla meno cruenta per i civili yemeniti. Anche sulla crisi Ucraina abbiamo subito sollecitato il governo (cioè chi può intervenire in concreto) rilanciando le richieste dei pacifisti ucraini, coinvolti direttamente e capaci di indicare strade di pacificazione. L’elenco (parziale) dei passi realizzati chiarisce come negli ultimi due decenni il movimento per Pace, Disarmo e Nonviolenza sia maturato negli strumenti con cui cerca di raggiungere i propri obiettivi. Don Tonino Bello ce lo diceva chiaramente: “Dobbiamo impegnarci in scelte di percorso, in tabelle di marcia: non possiamo parlare di pace indicando le tappe ultime e saltando le intermedie!”. Una costruzione seria ed efficace della Pace deve nutrirsi di concrete proposte quotidiane, per trasformare con metodi nonviolenti il sistema politico ed economico verso una pace positiva e pienezza di diritti per tutti. Da qui le nostre incessanti richieste di riduzione sistemica delle spese militari (oggi rafforzate dai 60 Premi Nobel della iniziativa Global peace dividend) mentre tutti i governi recenti le hanno aumentate, nemmeno accogliendo la proposta di una moratoria annuale sull’acquisto di nuove armi (oltre 8 miliardi per l’Italia). Davvero il problema è il numero manifestazioni (strumenti comunque utili, se c’è percorso chiaro di richieste)? Per risolvere le crisi serve una politica attenta alle persone (come chiede il disarmo umanitario) e non agli equilibri di potere o ad episodiche foto in piazza. Una politica realmente allineata ad una Costituzione figlia del rifiuto della guerra e abbastanza “intelligente” da capire la convenienza anche economica del disarmo e della Pace. E qualche granello in più di onestà intellettuale da parte di chi continua a domandarsi dove siano i pacifisti solo all’approssimarsi di una guerra ignorando gli sforzi di chi, come chiedeva Alex Langer, sta cercando di “continuare in ciò che è giusto”. *Rete Italiana Pace e Disarmo Patologie irreversibili e medici obiettori. Lo scontro sul fine vita di Giovanna Casadio La Repubblica, 22 febbraio 2022 L’approvazione della legge alla Camera, dopo l’inammissibilità del referendum sull’abrogazione dell’art 579, è prevista per l’inizio di marzo. Ma l’esito è incerto. Letta, segretario del Pd: “Aiutiamo chi soffre, cerchiamo di arrivare a un’intesa del testo”. Attesa da decenni, la legge sul suicidio assistito è al giro di boa. Un primo passo l’ha fatto: è stato infatti sventato il rischio, giovedì scorso, che l’aula di Montecitorio con voto segreto sopprimesse proprio la “mission” della proposta, ovvero la “facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile, di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita”. A fare da cavallo di Troia affinché la legge venisse eliminata, è stato un emendamento della destra, che è però stato bocciato con una maggioranza ampissima. Ma ora viene il bello. Circa 150 gli altri scogli da superare, tanti sono infatti gli emendamenti, cioè le proposte di modifica. L’approvazione alla Camera è prevista all’inizio di marzo. Tuttavia l’esito è incerto. Nonostante l’appello di Enrico Letta, il segretario del Pd, sulle pagine di Repubblica, affinché sia data presto risposta a chi soffre, ribadito anche durante la direzione del Pd “Cerchiamo di arrivare a una intesa su questo testo. È l’unica strada per fare qualcosa di concreto per le persone che soffrono”, lo scontro tra la destra e la sinistra, tra laici e cattolici, non si placa. Contro la Lega, Fratelli d’Italia, i centristi, Forza Italia, anche se divisa. A favore i 5Stelle. Italia Viva darà libertà di voto. Per Emma Bonino, la storica leader radicale, e per l’Associazione Luca Coscioni (che ha proposto il referendum sull’eutanasia bocciato dalla Corte Costituzionale), la legge in aula è inadeguata e discriminatoria. Riccardo Magi, di +Europa, parla di una cattiva legge così com’è formulata. L’input della Consulta - Una sentenza del 2019 della Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di colmare il vuoto normativo, dopo essersi pronunciata sul caso di Marco Cappato, processato e poi assolto per avere aiutato Dj Fabo a morire. In otto articoli la legge sana il ritardo e l’incapacità della politica italiana di affrontare il fine vita. Conflitti, lacerazioni, la memoria delle dolorosissime vicende di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro, oltre che di Dj Fabo, e oggi la scelta di Mario, l’uomo tetraplegico che ha chiesto e ottenuto dal Tribunale di porre fine alla propria sofferenza, tutto questo approda in Parlamento. Ma cosa dice il testo. Chi può farne richiesta - Sono posti una serie di paletti. Dai relatori, il dem Alfredo Bazoli e il grillino Nicola Provenza sono state accolte alcune richieste della destra, nella speranza di una condivisione che evitasse alla legge sul fine vita, il naufragio del ddl Zan contro l’omofobia. Può chiedere il suicidio assistito il paziente maggiorenne, in grado di intendere di volere, che sia stato già coinvolto in un percorso di cure palliative e le abbia rifiutate. Deve essere affetto da una patologia irreversibile e da prognosi infausta, che cagioni sofferenze fisiche e psicologiche assolutamente intollerabili. Inoltre - ed è uno dei punti che la sinistra e i radicali contestano - il paziente deve essere tenuto in vita da trattamenti sanitari di sostegno vitale, la cui interruzione provocherebbe il decesso del paziente. La richiesta - Deve essere indirizzata dal medico di medicina generale o dal medico che ha in cura il paziente. Spetterà poi al comitato di valutazione clinica dare il via libera. Obiezione di coscienza - I medici e in genere il personale sanitario possono sollevare l’obiezione di coscienza. Però gli ospedali pubblici sono tenuti in ogni caso ad assicurare che sia possibile esercitare il diritto al suicidio assistito. Spetta alle Regioni il controllo. Non c’è reato per il medico - Espressamente riconosciuta l’esclusione della punibilità per i medici e il personale sanitario. Quindi gli articoli del codice penale 580 (Istigazione o aiuto al suicidio) e 593 (omissione di soccorso) non si applicano ai sanitari che chiamati al suicidio assistito. Sanatoria retroattiva per i condannati - Non è punibile chi sia stato condannato, anche con sentenza passata in giudicato, per aver agevolato in qualsiasi modo la morte volontaria medicalmente assistita di una persona prima dell’entrata in vigore della legge. La differenza con l’eutanasia - Non si parla qui dell’articolo 579 del codice penale che riguarda l’omicidio del consenziente, l’eutanasia, su cui sono state raccolte un milione e 200 firme mila per il referendum abrogativo, bocciato una settimana fa dalla Consulta. Sì allo Ius Soli, 11mila ragazzi diventeranno cittadini bolognesi di Silvia Bignami Corriere della Sera, 22 febbraio 2022 Sì alla modifica dello Statuto comunale, solo la Lega vota no alla cittadinanza onoraria. Il sindaco Lepore: “Ora le altre città seguano il nostro esempio”. Ius Soli a oltranza. Per essere solo una battaglia simbolica, si combatte molto a Palazzo d’Accursio per l’odg che modifica lo statuto comunale e rende cittadini bolognesi anche 11mila ragazzi che attualmente non possono essere cittadini italiani. Matteo Lepore aveva promesso lo Ius soli in campagna elettorale e presenta il documento che sancisce la svolta insieme a tutti i capigruppo di maggioranza. Nel pomeriggio in aula guadagna la non partecipazione al voto di Forza Italia e della lista civica Bologna Ci Piace, legata a Fabio Battistini. Solo Lega e Fdi restano sul no, fino al colpo di scena a notte, quando il partito di Giorgia Meloni decide di non partecipare al voto, per protesta per l’interruzione dell’analisi dei 100 odg presentati per fare ostruzionismo. Finisce così con 26 sì, 8 non votanti, e 3 contrari, il solo gruppo della Lega. L’odg sullo Ius Soli passa, con la speranza espressa dal sindaco che Bologna possa fare da apripista al resto d’Italia. “Mi auguro molte altre città ci seguano e che lo stesso faccia il Parlamento italiano. È urgente più che mai”, aveva spiegato il sindaco in mattinata, presentando il documento nella sala Anziani del Comune. Per avere la cittadinanza basterà essere giovani stranieri residenti a Bologna - oggi sono 11.623 - e aver svolto un ciclo di istruzione sotto le Torri. I ragazzi che saranno cittadini di Bologna prima ancora che diventare cittadini italiani, diventeranno inoltre tutti cittadini onorari, e avranno una festa per celebrare l’evento: il 20 novembre, giornata internazionale dei diritti all’infanzia e all’adolescenza, quando i ragazzi riceveranno l’atto dalle mani del sindaco, davanti a compagni di scuola, agli insegnanti e alle loro famiglie. Verranno istituite anche altre cerimonie pubbliche, per tutti coloro che acquisiranno la cittadinanza italiana, dove il sindaco o un suo delegato consegneranno in dono una copia dello statuto comunale e un “kit di Cittadinanza”. Infine, verrà attivata una rete con altri Comuni per sollecitare il Parlamento ad approvare quanto prima una nuova legge sulla cittadinanza italiana. “Abbiamo i numeri per approvare lo Ius soli come centrosinistra, ma proponiamo questo testo a tutta la città” ha detto Lepore in conferenza stampa, mentre ad ascoltarlo spuntano anche diversi esponenti dell’opposizione. L’invito non viene però raccolto da nessuno. “Questo odg non cambia nulla. È solo simbolico, e quando la Lega andrà al governo lo Ius soli non vedrà mai la luce” dice il leghista Marco di Benedetto. Annuncia 100 odg contrari Stefano Cavedagna, di Fratelli d’Italia, subito gelato da Lepore: “Cento odg? Non è un modo per discutere, ma per non dire nulla”. Proprio per protesta sulla mancata discussione degli odg il partito di Meloni decide alla fine di non partecipare al voto, come Fi e la lista Bologna Ci Piace. Vota no solo la Lega. Il sindaco porta così a casa la sua “giornata storica”, come la descrive durante il suo saluto allo Iaad, l’Università del Design di via Barozzi, dove si apre questa settimana il Design workshop chiamato a elaborare il progetto di un evento pubblico (il Diversity Media Awards del 24 maggio), dove tutti possano sentirsi inclusi, a prescindere dalle origini, dal colore della pelle, dall’orientamento sessuale. Accanto a Lepore, davanti a studenti e creativi italiani e stranieri, anche la vicesindaca Emily Clancy, che chiama i designer a immaginare una città dove costruire, ciascuno, la propria identità. L’Europa, i migranti e i diritti dimenticati di Paolo Valentino Corriere della Sera, 22 febbraio 2022 Duro richiamo dell’Alto commissario dell’Onu per i Rifugiati Filippo Grandi: “Quello che avviene alle frontiere europee è legalmente e moralmente inaccettabile”. Filippo Grandi è uno che non perde mai la pazienza. L’Alto commissario dell’Onu per i Rifugiati sa che deve misurarsi con i drammi dei dannati della Terra, senza rompere il dialogo né con i governi che li costringono a fuggire né con quelli che dovrebbero accoglierli. Una soglia grave è quindi stata varcata se Grandi sente il bisogno di richiamare l’Europa ai suoi principi: “Siamo profondamente preoccupati dal crescente numero di incidenti violenti e violazione dei diritti umani contro rifugiati e migranti registrati in diverse frontiere europee”, dice l’Alto commissario in una dichiarazione dai toni duri e pieni di sdegno. I governi europei hanno un problema. Mentre difendono giustamente il rispetto della sovranità e dell’integrità dell’Ucraina violate da Putin, criticandone anche le pratiche repressive interne, alcuni di loro non esitano a calpestarne di fondamentali come il diritto all’asilo e il diritto alla vita. Che sia la frontiera tra Grecia e Turchia, Spagna e Marocco, Polonia e Bielorussia, o ancora quelle interne tra Slovenia e Croazia o Bulgaria e Ungheria, respingimenti brutali, intimidazioni, “pratiche orribili” come quella di gettarli in mare e rimpatri forzati verso Paesi dove impazzano guerre civili o dominano dittature spietate, si moltiplicano nei confronti di migliaia di disperati in fuga da guerre e persecuzioni. “Quello che avviene alle frontiere europee è legalmente e moralmente inaccettabile”, dice Grandi, secondo cui sarebbe invece possibile “gestire le frontiere e affrontare i problemi di sicurezza, applicando politiche eque, umane ed efficienti verso i richiedenti asilo”. Finanziare generosamente l’Unhcr, come fanno i Paesi europei, “non può sostituire le responsabilità degli Stati a ricevere e proteggere i rifugiati sul loro territorio”. Anche perché l’Europa fa scuola: il modo in cui sceglie di comportarsi verso i profughi “sarà un precedente nel mondo”. Congo. Un anno senza verità per l’ambasciatore Attanasio di Matteo Giusti Il Manifesto, 22 febbraio 2022 Il 22 febbraio 2021 l’agguato nel Kivu del Nord in cui morirono anche il carabiniere Iacovacci e l’autista Milambo. Le indagini della Procura di Roma sulle misure di sicurezza omesse e gli interrogatori pieni di punti oscuri dei due funzionari del World Food Programme indagati. È passato un anno da quella mattina del 22 febbraio del 2021 quando su una strada della remota provincia del Kivu del Nord nella Repubblica democratica del Congo venivano assassinati l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. I tre viaggiavano su un convoglio del World Food Programme (Wfp) senza scorta armata, né auto blindata, quando un gruppo di sei assalitori ha bloccato le due auto ferendo a morte i nostri connazionali e l’autista dell’agenzia onusiana. In questo lungo anno la Procura di Roma è l’unica che abbia seriamente continuato le indagini, mentre il World Food Programme si è limitato a raccogliere la documentazione da consegnare ai magistrati romani. La magistratura militare congolese all’inizio ha incolpato i miliziani del Fronte di liberazione del Ruanda sostenendo la tesi del tentativo di rapimento finito male. Poi sono finiti in manette sei dei presunti assalitori. Leggendo i verbali degli interrogatori dei due personaggi chiave, Mansour Rwagaza e Rocco Leone, sono tanti i dubbi che saltano all’occhio. Mansour Rwagaza è il responsabile della sicurezza del Wfp per il Kivu, mentre Rocco Leone è direttore aggiunto del Wfp in Congo. Entrambi sono accusati di “omesse cautele” per il mancato rispetto dei protocolli di sicurezza, “comportamento che ha portato come conseguenza alla morte” di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Dai loro racconti si risalirebbe a una ricostruzione articolata con tanto di trattativa economica, con la richiesta quantificata da Rwagaza in 50 mila dollari per lasciare andare tutti. Situazione abbastanza incredibile, perché ammesso che una tale cifra potesse essere in possesso dei componenti del convoglio, i banditi se ne sarebbero potuti impossessare con la forza. Qui la storia diventa romanzesca, con Rocco Leone che cade a terra e si ritrova davanti un uomo con un mitra puntato, poi viene lasciato andare via illeso e riesce a rifugiarsi nelle case vicine insieme agli abitanti locali, che per Leone sono tutti nascosti per la paura, mentre Rwagaza li descrive all’inseguimento degli assalitori. Anche le versioni sulla morte dell’autista divergono sensibilmente perché il responsabile della sicurezza del Wfp dice che quando iniziano a sparare gli assalitori non guardano a chi stanno sparando e anche Rwagaza risulta ferito a un dito. Leone invece racconta che proprio Rwagaza gli ha raccontato che Mustapha Milambo sarebbe stato ucciso mentre si trovava ancora sull’auto. Sempre secondo Rwagaza, Attanasio, Iacovacci e gli altri prigionieri avrebbero percorso circa 2 km prima di essere uccisi, dopo l’arrivo dell’esercito e delle guardie del Parco Virunga. Una distanza enorme considerando la boscaglia, la fila di persone quasi trascinate e la popolazione che li inseguiva. Colpisce inoltre la testimonianza del responsabile contabile dell’ambasciata d’Italia a Kinshasa, Saro Castellana che riferisce di una riunione dei capi missione dell’Ue dove lo avrebbero avvertito di un’allerta terrorismo in Kivu. Un’allerta, sempre secondo Castellana, riferita all’ambasciatore che ne sarebbe rimasto stupito, ma che comunque avrebbe approfondito con il console Alfredo Russo, e che sembra ritornare nella richiesta del carabiniere di aumentare la sicurezza e dove Leone e Rwagaza avrebbero mentito rassicurando Vittorio Iacovacci. Tante, troppe incongruenze in una storia in cui si fatica ancora a trovare il bandolo della matassa. Turchia. Osman Kavala è stato assolto, ma dovrà restare in cella di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 22 febbraio 2022 Pugno durissimo contro il “filantropo” del movimento di Gezi Park fu accusato dal regime di voler sovvertire l’ordine costituzionale. Di anno in anno Osman Kavala rimane in carcere. Nonostante le pressioni internazionali infatti il filantropo turco non vedrà aprirsi le porte della prigione nella quale è rinchiuso dal 2017, lo ha deciso ieri per l’ennesima volta un tribunale di Istanbul che in questo modo trasgredisce anche la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che già aveva indicato il 2 febbraio come data del rilascio definitivo. Kavala è stato arrestato nell’ottobre di cinque anni fa accusato di essere l’ispiratore nonché il finanziatore di quella che è ricordata come la rivolta di Gezi park. Il movimento nacque nel 2013 nella capitale turca per poi estendersi a tutto il paese, fu l’ultimo sussulto democratico, represso duramente e nel sangue, contro il regime di Erdogan che da allora ha regnato incontrastato sulla Turchia. Nel 2020 Kavala è stato assolto da quelle accuse ma la sentenza è stata ribaltata l’anno seguente. Il caso è divenuto dunque un mostro giuridico in quanto i fatti di Gezi park sono stati associati al tentativo di colpo di stato, poi fallito, contro Erdogan nel 2016. Il capo di accusa: voler sovvertire l’ordine costituzionale. Il filantropo è così finito sotto processo insieme ad altre 51 persone, molte delle quali rilasciate, che hanno affrontato il giudizio per tre casi separati ma inseriti in uno stesso procedimento giudiziario. Quindi nonostante l’assoluzione Kavala è rimasto lo stesso in carcere ma con l’accusa di spionaggio, una decisione che sembra essere stata costruita proprio per aggirare la sentenza della Cedu. All’inizio di questo mese, il Consiglio d’Europa ha reso noto che il suo comitato ha deferito il caso di Kavala proprio alla Corte europea dei diritti dell’uomo per determinare se la Turchia non avesse rispettato il suo obbligo di attuare la precedente sentenza di assoluzione il che comporta il rilascio immediato. Pressioni che con tutta evidenza non hanno scalfito le decisioni della magistratura turca la quale è diretta espressione del potere politico, il presidente Erdogan infatti ha fatto del caso Kavala un’arma contro le istituzioni europee dichiarando che la Turchia non rispetterà il Consiglio d’Europa se quest’ultima continuerà a tenere sotto esame i tribunali turchi. I rapporti tra la Turchia e la Corte di Strasburgo sono tesissimi da tempo, prova ne è la minaccia dell’ottobre scorso quando le autorità di Ankara hanno paventato l’espulsione degli ambasciatori di 10 paesi, tra cui Stati Uniti, Germania e Francia, i quali si erano espressi proprio in merito alla detenzione di Kavala. Uno scontro che si è riverberato anche sul piano economico quando la lira turca è precipitata ai minimi storici per poi riprendersi solo alla fine del 2021. Lo scorso gennaio sempre la Cedu ha condannato la Turchia per l’arresto e la carcerazione del giornalista Deniz Yücel, il corrispondente per il quotidiano tedesco Die Welt imprigionato nel 2017 e nel 2018 per poi essere espulso e far ritorno in Germania. La sua colpa fu quella di aver coperto, in maniera non gradita al regime, le informazioni del golpe del 2016. Nel maggio 2019, la Corte costituzionale turca stabilì che il corrispondente turco- tedesco aveva subito una violazione del suo diritto alla libertà e alla sicurezza. Nel 2020 però è arrivata un’altra doccia fredda, un tribunale di Istanbul infatti ha condannato Yücel in contumacia a due anni, nove mesi e 22 giorni di carcere per ‘ propaganda terroristica’. Come nel caso Kavala infatti venne introdotto un altro reato, per i giudici infatti il corrispondente si era avvicinato al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), considerato un gruppo ‘ terrorista’ da Ankara ma anche dai suoi alleati occidentali. Fu un processo a dir poco pretestuoso che scatenò tensioni diplomatiche tra Turchia e Germania. Troppi dunque i precedenti nel corso degli anni per non far agire seppure lentamente la Cedu. Per l’organo giudiziario del Consiglio d’Europa ‘ infliggere una misura che comporti una privazione della libertà (...) produce inevitabilmente un effetto deterrente sulla libertà di espressione intimidendo la società civile e mettendo a tacere le voci dissenzienti’. Il Kuwait cancella il reato di “imitazione del sesso opposto”. Ora liberate Maha al-Mutairi! di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2022 Il 16 febbraio è arrivata una gran bella notizia per le organizzazioni per i diritti umani e soprattutto per la comunità transgender del Kuwait. La Corte costituzionale ha annullato l’articolo 198 del codice penale, che prevedeva il reato di “imitazione del sesso opposto”, in quanto in contrasto con l’articolo 30 della Costituzione che garantisce la libertà personale. La norma era in vigore dal 2007, quando un emendamento all’articolo 198 aveva criminalizzato i “comportamenti indecenti in pubblico” e “l’imitazione del sesso opposto”, punibili con una pena fino a un anno di carcere e una multa. La Corte costituzionale aveva accolto il ricorso sull’articolo 198 alla fine del 2021, anche a seguito del clamore suscitato dalla vicenda di Maha al-Mutairi, una transgender condannata il 3 ottobre a due anni di carcere ai sensi della Legge sulle telecomunicazioni e della norma ora abrogata. Il 5 giugno 2020 Maha al-Mutairi aveva pubblicato un video su Snapchat in cui accusava agenti di polizia di averla picchiata e stuprata durante un precedente periodo di detenzione, nel 2019, proprio per “imitazione del sesso opposto”. È attualmente detenuta nella sezione maschile della prigione centrale di al-Kuwait City. Amnesty International continua a chiedere la sua scarcerazione. *Portavoce di Amnesty International Italia Umiliate e offese della Cina rurale di Sabrina Ardizzoni Il Manifesto, 22 febbraio 2022 Il ritrovamento di una donna prigioniera nelle campagne di Fengxian ha riacceso il dibattito sul guaimai: il traffico a scopo matrimoniale, fenomeno al contempo antico e frutto di una modernità deviata. Cancellate la parola “madre” dalla lingua cinese! Così si intitola la poesia che Yang Lian, poeta molto noto nel panorama letterario cinese contemporaneo, ha inciso a forma di X sul viso di una donna. Si tratta della protagonista di un caso tragico che sta infiammando la società cinese. Tra i festeggiamenti del Capodanno cinese e le gioie e i dolori delle Olimpiadi invernali, il 29 gennaio scorso, nella campagna della provincia del Jiangsu, a Fengxian, nella contea di Xuzhou, una donna è stata ritrovata rinchiusa nel ripostiglio di una casa di campagna, poco vestita, senza denti, scalza, tenuta a terra legata con una catena di metallo al collo. Sulla sua identità è in corso un dibattito acceso, che si svolge su due piani: le autorità conducono indagini coi loro mezzi, il minjian, la società civile, dal basso, con i suoi: quelli della stampa, dei social, dei mini-video, dei commenti postati e poi cancellati, ri-postati trasformati in immagini senza testo. Nel frattempo la donna, che ha perso la parola e il senno, è stata trasferita in un ospedale psichiatrico. Non sa dire il suo nome. Dice solo una frase: “Questo mondo non mi vuole”. Viene chiamata “la madre di otto figli”, oppure l’”incantenata di Fengxian”. Già, perché lei ha avuto otto figli con il marito, tale signor Dong, che avrebbe sposato più di venti anni fa. Il figlio maggiore è nato nel 1998, il minore nel 2020. Il signor Dong da qualche tempo aveva acquisito una certa popolarità in rete, dove era conosciuto con il nickname “padre di otto figli”. Il 7 febbraio a mezzanotte un comunicato ufficiale delle autorità locali ha reso pubblico il risultato delle indagini. Si tratterebbe di una “post 80s” (baling hou), secondo l’uso cinese di classificare le persone a seconda del decennio di nascita. Secondo questo comunicato, la donna sarebbe proveniente dallo Yunnan, una regione meridionale caratterizzata dalla compresenza di etnie di minoranza, e ampie sacche di povertà. Le viene anche attribuito un nome e una identità: Xiao Meihua. Un nome che non convince quasi nessuno: Xiao significa “piccolo” e non è un cognome, e anche Meihua suona un po’ “artefatto”. Meihua sarebbe arrivata nel Jiangsu nel 1998 a seguito di una tale signora Sang, con la promessa di una cura a una malattia che la portava a perdere i denti. Da allora di lei si sono perse le tracce. E anche della signora Sang. Il marito sostiene di averla “trovata” vagare per strada e di averla portata a casa per aiutarla. Un secondo comunicato dice che si tratterebbe di Li Ying, una giovane donna la cui scomparsa venne denunciata dai genitori negli anni novanta. La madre, rimasta vedova nel 2016, ha chiesto il certificato di morte della figlia per questioni di successione. Da questa testimonianza è emersa anche una foto. Alcuni locali, inoltre, sostengono che si tratti di una giovane di un villaggio poco distante, rapita e abusata dai tre uomini della famiglia Dong: padre e due fratelli. Nella Cina che compie enormi sforzi tecnologici per il controllo delle identità dei singoli, questo caso lascia intravvedere delle falle non da poco. E le indagini sul Dna aiutano solo in parte. Tante, troppe sono le voci intorno a questa donna. Intanto i cinesi, sia in Cina, sia all’estero, si interrogano, e manifestano rabbia. Anche se le autorità non l’hanno confermato, la maggioranza è concorde nel classificare questo come un caso di traffico di donne a scopo matrimoniale, un fenomeno che in Cina è conosciuto come guaimai, letteralmente “vendita tramite raggiro”. Tali rapimenti erano molto diffusi negli anni Novanta e Duemila, ma non sono del tutto spariti anche oggi, in barba alla tecnologia e al controllo capillare. Questo caso è la conseguenza di atti criminali avvenuti molto tempo fa. L’usanza del guaimai è stata denunciata in un film, Blind Mountain, autoprodotto da Li Yang, un regista che negli anni 2000 ha voluto parlare del traffico di donne a scopo matrimoniale; un fenomeno che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, non era stato sufficientemente oggetto della dovuta attenzione. In quegli anni, il governo aveva incoraggiato in merito alcune ricerche sociologiche, indagini a tutti i livelli, ed erano stati prodotti film e serie televisive, per poi però riportare le proprie stesse produzioni dietro a una cortina di inspiegabile silenzio. Negli ultimi anni il guaimai è stato anche oggetto di ricerche da parte di osservatori internazionali. Save the Children ha condotto una ricerca dal 2004 al 2008 in 5 province cinesi, raccogliendo numerose testimonianze di donne comprate a scopo matrimoniale e di persone a loro intorno. Pratiche antiche e crudeli rivolte all’oppressione del femminile sono state vietate dai diversi governi che si sono succeduti sul territorio cinese nel ventesimo secolo: la fasciatura dei piedi delle bambine era proibita nella Repubblica; il matrimonio combinato tra sconosciuti, la poligamia, l’induzione al suicidio furono vietati dapprima nei governi degli stati a ispirazione sovietica fondati dai comunisti e poi a Yan’an; in seguito, con la salita al potere del Partito Comunista Cinese, le proibizioni sono state estese a tutto il paese con la prima legislazione famigliare del 1950 della Repubblica popolare cinese. Ad eccezione della fasciatura dei piedi, molte di queste pratiche antiche tendono a fare capolino e riprendere vita, spuntando tra i fiori della rinascita della cultura tradizionale, strumento sociale comodo per il governo, piacevole per la popolazione. Negli ultimi quarant’anni anni che hanno fatto seguito alle riforme di Deng Xiaoping, le campagne hanno visto delle trasformazioni epocali. Lo spopolamento e il trasferimento di contadini nelle crescenti aree urbane, l’abbandono dei campi, la loro cementificazione e lo sfruttamento del territorio: questo processo di modernizzazione sfrenata ha dato spazio a una questione complessa, quello delle donne delle campagne, che sono strumentalizzate due volte: per il mantenimento economico della comunità famigliare (sono le prime ad emigrare), e per il proseguimento della linea di discendenza, come imposto dalla morale tradizionale, in linea con gli insegnamenti di Confucio e del culto degli antenati. La retorica della figura tradizionale di “buona moglie e buona madre”, secondo cui la donna assume valore a fianco di un marito da servire e riverire e a cui regalare estesa figliolanza, possibilmente maschile, viene molto messa in discussione nelle città, da giovani donne che realizzano i loro sogni di indipendenza e di emancipazione. Ma nelle campagne la condizione delle donne è a forte rischio di subalternità sociale e di genere, di invisibilità, di cancellazione di identità. Qui non si può parlare di “ritorno” alle tradizioni”. Il fenomeno delle donne rapite a scopo matrimoniale non è una recrudescenza di antiche tradizioni, ma il prodotto di una modernità deviata. E il fenomeno delle donne rapite a scopo matrimoniale, come si legge in numerosi post nella rete cinese, non si può ignorare, perché “se lo ignoriamo oggi, domani potrebbe toccare anche le nostre figlie”.