Le carceri in Italia, un sistema da cui ripartire di Giulia Calvani ultimavoce.it, 21 febbraio 2022 Il carcere dovrebbe essere un luogo di rieducazione, e non di punizione. Spesso, però, i detenuti si trovano in condizioni degradanti che non possono essere tollerate. Il rapporto sulle condizioni delle carceri in Italia, pubblicato dall’associazione Antigone, mostra dei dati allarmanti. Uno dei problemi maggiormente evidenziati è quello del sovraffollamento, che supera il 113%. Infatti, nonostante i posti totali siano 47mila, i detenuti risultano oltre 53mila. Le regioni più colpite sono: Lombardia, con 7.838 detenuti al fronte di una capienza 6.129; e Puglia, con 3.760 detenuti per 2.907 posti. Ciò causa carenza di personale, condizioni igieniche precarie e assistenza sanitaria insufficiente. Anche le strutture delle carceri spesso mancano dei più basilari servizi, rendendo la vita insopportabile. Tra le 67 carceri visitate dall’associazione, il 42% era provvisto di schermature alle finestre che non permettono il passaggio di aria e luce solare. Il 36% non possiede la doccia, il 31% è risultato persino sprovvisto di acqua calda. Un altro dato allarmante è quello del tasso di suicidi. Nel 2020, 61 detenuti che si sono tolti la vita. Nel 2021 sono scesi a 54. Tuttavia, il dato ha ripreso ad accelerare nel 2022. Il 24 gennaio sono stati rilevati otto casi di suicidio, uno ogni tre giorni. Questo dato è legato anche alla pandemia di Covid-19, che ha aggravato le condizioni fisiche e mentali già precarie dei detenuti. Infatti, se la situazione è terribile per i cittadini liberi, lo è ancora di più nelle carceri dove vengono tolti spazi e libertà già compromessi. Società e carceri in Italia - Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, ha denunciato la situazione critica in Italia. C’è necessità di ritrovare un dialogo produttivo attorno al tema della pena detentiva, che sappia rispondere alla particolare difficoltà oggi vissuta negli istituti. Un’altra questione sollevata da Antigone è proprio il dialogo con la società, fondamentale per il recupero del detenuto. Nel dicembre 2021 la Commissione Ruotolo, istituita per innovare il sistema penitenziario, ha richiamato all’attenzione la questione. La pena deve tendere a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto. Per farlo, è necessario attivare un processo di autodeterminazione che possa permettere al singolo di riappropriarsi della vita. Negli ultimi anni le commissioni hanno fatto molti tentativi, che poi si sono scontrati con l’opinione pubblica. Si continua a considerare il carcere la soluzione a tutti i mali, ma tante volte è un generatore di problemi. A questo proposito si è espressa anche la dottoressa Stefania Carnevale, docente di Diritto Penale all’Università di Ferrara. È senza dubbio un limite culturale che dipende da noi più che dalla politica. Purtroppo abbiamo caricato il carcere di tutte le nostre aspettative di sicurezza e redenzione, perché chiudere chi ha sbagliato in scatole separate crea l’illusione di una maggiore sicurezza collettiva. Concentrarsi sul momento della contenzione porta a dimenticare il problema della fine, e del fine, della pena. Affidarsi esclusivamente al carcere, senza passaggi verso il reinserimento in società, comporta grandi controindicazioni per la sicurezza collettiva Il carcere alla base della civiltà. “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, diceva Dostoevskij. La prigione non deve essere un luogo in cui gettare i criminali, ma uno in cui questi possano riprendere in mano le proprie vite. Per questo è importante che i problemi e le difficoltà dei penitenziari in Italia diventino una priorità. E, soprattutto, la popolazione deve imparare a riconoscere che i carcerati non sono scarti della società, ma persone che hanno sbagliato e che hanno il diritto di ricominciare. Le pagelle dei magistrati tra efficienza e indipendenza di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 21 febbraio 2022 Il Consiglio dei ministri ha emendato il disegno di legge dell’ordinamento giudiziario prevedendo i criteri di valutazione dei togati che aspirano a ruoli in cassazione. Lo si deve ai cittadini e lo si deve alle Istituzioni perché queste possano riacquisire la credibilità che necessitano per operare: la riforma del Csm era uno step, per così dire, obbligato, da inserirsi necessariamente nell’ambito dell’ampio quadro riformatore voluto dalla ministra della Giustizia Cartabia. Tutti temi già discussi ampiamente e da tempo. Lo scrivente non a caso, già in sede di discussione di laurea, tanto tempo fa, portava come tesi proprio la divisione delle carriere tra magistratura giudicante ed inquirente, ritenendola un tassello più che mai indispensabile per una corretta gestione della Giustizia. Sia chiaro, sono principi necessari e indispensabili in uno Stato di diritto come il nostro; tuttavia, non si può negare come una simile impermeabilità del Sistema Giustizia sia stato anche principio di fenomeni distorti che, nella palude dell’autoreferenzialità, hanno avuto modo di crescere, proliferare e fermentare sino ad esplodere. Valutazione delle toghe che aspirano ad assumere ruoli presso la Suprema Corte, separazione delle carriere e stop alle cd. “porte girevoli”, che in passato consentivano ai magistrati di passare dalla carriera politica a quella giudiziaria quanto, quando e come volevano: questi i prospettati correttivi che il Consiglio dei ministri ha inteso approvare la scorsa settimana, andando ad emendare il disegno di legge A.C. 2681. All’art. 2, comma 3 del succitato disegno si legge sono infatti stati introdotti quelli che dovrebbero essere i criteri di valutazione dei togati. Potendo compendiare: (i) adozione di criteri che valutino oltre all’anzianità anche il merito e le attitudini; (ii) in ordine alle attitudini andrà considerato anche lo specifico ambito di competenza nel quale il magistrato ha operato (penale, ovvero civile); (iv) introduzione di criteri per la formulazione di un parere, emesso dalla commissione valutante, che possa dirsi oggettivo e, soprattutto, motivato, anche tramite l’utilizzo di giudizi quali “ottimo” o “buono”, che ricordano molto la scuola primaria, e solo il magistrato che viene valutato con il giudizio “ottimo” avrà la possibilità di entrare a far parte della magistratura di legittimità. Tutti criteri auspicabili e da tempo invocati, ma, nel concreto, come verranno fornite tali valutazioni? In maniera oggettiva, statistica, come disposto dalla lett. c) del detto articolo 2, comma 3 A.C. 2681. Oltre a valutare la capacità del magistrato di analizzare in maniera scientifica le norme, si richiede una valutazione che tenga conto degli andamenti statisticamente significativi degli esiti degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio. Quanto detto si traduce nel senso che segue: perché un togato possa accedere agli uffici della Suprema Corte di Cassazione, deve far sì che le sue pronunce non siano state riformate in appello, ovvero cassate, rectius, deve fare in modo che ciò non sia “statisticamente” rilevante al punto da costargli una valutazione negativa. Chi scrive ha apprezzato la soluzione valutativo-statistica suesposta, tanto che ritiene vada estesa a ogni livello, grado e promozione della magistratura. Si comprende che questo sia un terreno alquanto scivoloso e governato da instabili equilibri: da una parte la necessità di mantenere la magistratura libera da vincoli in sede di decisione, dall’altra l’opportunità di responsabilizzare gli Organi giudicanti - ma anche inquirenti qualora facciano esercizio dei loro poteri in maniera eccessivamente persecutoria - infondendo la consapevolezza che gli errori in qualche modo hanno un prezzo, ad esempio impedendo al Giudice di primo grado di ottenere una promozione in Corte d’Appello qualora le sue sentenze siano, statisticamente, ribaltate in secondo grado. L’esperienza storica e consapevolezza maturata dal potere giudiziario e dalla collettività in 76 anni di storia repubblicana, ci impone e consente, tuttavia, oggi, di effettuare una rivalutazione delle forze in gioco. Pertanto, si è appalesata con prepotenza la necessità di tutelare e ristabilire, seppur con tutte le garanzie costituzionalmente orientate del caso, l’indipendenza, terzietà e presunta imparzialità della magistratura, principi talvolta distorti, che hanno finito per alimentare la deresponsabilizzazione degli Organi giudicanti. Questo non può più ritenersi accettato, non alla luce del delicatissimo compito che sono chiamati ad assolvere, ma perché la Giustizia è amministrata in nome del popolo italiano ed il popolo è sovrano. *Avvocato, Direttore Ispeg Giuliano Pisapia: “Serve un’Alta Corte. I magistrati siano giudicati da avvocati e prof” di Alessandro Nidi ilsussidiario.net, 21 febbraio 2022 “Non ci può essere un organismo dove i controllori sono a loro volta i controllati”. Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano oggi europarlamentare, ha concesso un’intervista al quotidiano “Libero”, pubblicata a pagina 12 dell’edizione in edicola oggi, lunedì 21 febbraio 2022. Il primo argomento affrontato è stato legato al giudizio dell’operato delle toghe: “Attualmente sono i magistrati che giudicano i magistrati dal punto di vista dell’avanzamento della carriera e delle sanzioni disciplinari - ha dichiarato Pisapia. È arrivato il momento di istituire un’Alta Corte di Giustizia, un organismo autonomo e indipendente, composto non solo da giudici, ma anche da avvocati e professori universitari. Sarebbe una garanzia sia per la magistratura che peri cittadini; snelliremmo il lavoro del Csm che manterrebbe tutte le altre sue funzioni”. Pisapia ha quindi sottolineato di non capire i timori e le resistenze della magistratura, di cui non si lederebbe affatto l’autonomia, anzi: a suo avviso si porrebbe fine allo strapotere delle correnti, anche perché “non ci può essere un organismo dove i controllori sono a loro volta i controllati. Questo dovrebbe valere per tutti, avvocati e giornalisti compresi. Per questo sono favorevole all’entrata degli avvocati nei consigli giudiziari a giudicare i magistrati. È necessaria, ma deve essere reciproca: anche i magistrati entrino nei nostri organismi. La conditio è che i ruoli siano ricoperti da figure affidabili e di grande esperienza. Per questo sono contrario al sorteggio dei membri del Csm. Preferisco i più bravi ai più fortunati estratti a sorte”. Ancora su “Libero”, Giuliano Pisapia ha parlato del referendum sulla Giustizia, rimarcando in particolare come sia stato cassato quello sulla responsabilità civile delle toghe, già passato nell’87 sulla scia del caso Tortora: “Siamo all’assurdo. I medici e tutte le altre professioni sono responsabili anche economicamente nell’esercizio della loro funzione così devono esserlo i magistrati, in caso di dolo o colpa grave. Certo, il filtro dello Stato è necessario; anche perché solo così si preserva la serenità di giudizio delle toghe. Ma una modifica legislativa è necessaria”. E le porte girevoli tra politica e magistratura? “Si parte dal principio sacrosanto che in linea generale i magistrati eletti in istituzioni politiche non possano rientrare in magistratura. Ci sono due situazioni diverse. In un caso chi ha ricoperto un ruolo politico, eletto o chiamato, non può più tornare in magistratura; diversa è la situazione che chi si è candidato e non è stato eletto. In questo caso l’importante è che non torni in magistratura nei luoghi ove si è candidato”. Infine, sull’abrogazione della legge Severino e sulla custodia cautelare, Giuliano Pisapia ha affermato: “La Severino non è condivisibile nella parte che prevede la decadenza di sindaci o amministratori condannati solo in primo grado, perché contrasta con la presunzione di innocenza. E il problema della custodia cautelare è che spesso se ne fa un uso strumentale”. Cause più brevi del 40%? Obiettivo possibile di Marco Fabri Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2022 Nell’ambito del Pnrr vi è un capitolo importante dedicato alla giustizia. Gli obiettivi (target) da raggiungere riguardano principalmente la diminuzione dell’eccessiva durata dei procedimenti civili e penali e la riduzione del cosiddetto “arretrato Pinto”. Il taglio tempi di civile e penale - L’obiettivo fissato nel Pnrr per misurare la diminuzione della durata dei procedimenti in tutti e tre i gradi di giudizio è l’indicatore prognostico del disposition time. Al 30 giugno 2026 il rapporto (disposition time) fra procedimenti pendenti e procedimenti definiti dal 1° luglio 2025 al 30 giugno 2026, moltiplicato per 365 giorni dovrà essere il 40% in meno rispetto al disposition time rilevato al 31 dicembre 2019 (baseline) per i procedimenti civili, e del 25% per i procedimenti penali. L’arretrato civile “cronico” - L’altro obiettivo da raggiungere è la riduzione dell’arretrato civile, definito in base ai criteri della legge “Pinto” (che regola i risarcimenti per i processi troppo lunghi): si tratta dei procedimenti pendenti da oltre tre anni per i Tribunali e da oltre due anni per le Corti d’appello (mentre non è previsto alcun obiettivo di eliminazione dell’arretrato ultrannuale in Cassazione, pure indennizzato in base alla legge Pinto). Questo obiettivo si deve raggiungere in due fasi. A fine 2024, i Tribunali dovranno aver ridotto del 65% i procedimenti con anzianità superiore ai tre anni, le Corti d’appello del 55% quelli ancora pendenti da oltre due anni. Al 30 giugno 2026 tutti gli uffici di primo e secondo grado dovranno aver ridotto il rispettivo “arretrato Pinto” del 90%, mantenendo un 10% di procedimenti ancora pendenti oltre soglia, procedimenti che la Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej) definisce “buffer” (in realtà viene proposto al 5% o al 10%). Si tratta di una sorta di “zoccolo duro” di pendenze sempre presenti negli uffici giudiziari che per una serie di ragioni peculiari non si riesce normalmente a definire e che pertanto è opportuno non rientrino nell’obiettivo complessivo. Obiettivo su base nazionale - Il raggiungimento degli obiettivi è calcolato su base nazionale e ciò è molto importante perché, come è noto ma mai forse sufficientemente considerato, i dati sulla durata dei procedimenti sono molto diversi da ufficio a ufficio. Concentrando l’analisi sui procedimenti civili, a livello nazionale, al 31 dicembre 2019 (baseline) in base ai dati del ministero il disposition time per i Tribunali era 556 giorni, per le Corti d’appello 654 giorni, per la Corte di cassazione 1.302, per un totale di 2.512 giorni. Peraltro, per la Corte di cassazione si segnala una piccola differenza fra i valori indicati dall’Annuario statistico per il 2019 e il 2020 e quelli pubblicati dalla Direzione generale di statistica, che producono due disposition time leggermente diversi: 1.302 per la Direzione generale, 1.293 se viene considerato il dato dell’Annuario della cassazione. Per le Corti d’appello si segnala una differenza di due giorni (da 654 a 656) dei dati elaborati rispetto a quelli del ministero della Giustizia. Con questi valori, il disposition time al 31 dicembre 2019 sarebbe di 2.505 giorni. Quindi al 30 giugno 2026 il disposition time dei procedimenti civili a livello nazionale per i tre gradi di giudizio dovrà essere pari a 1.500 giorni circa (il 40% in meno dei 2.505 giorni rilevati nel dicembre 2019), mentre il numero di procedimenti ultra-triennali pendenti nei Tribunali non dovrà essere superiore a 33.774 (10% di 337.740) e a 9.837 procedimenti nelle corti di appello (10% di 98.371). Il dettaglio per gli uffici - La circolare del 12 novembre 2021 della Direzione generale di statistica e analisi organizzativa del ministero della giustizia ha poi ulteriormente dettagliato gli obiettivi del disposition time. La circolare specifica che: “L’analisi condotta in ordine alle condizioni di partenza e alla effettiva possibilità di raggiungimento nell’orizzonte di Piano, ha successivamente indotto ad una distribuzione dei target di durata tra uffici di merito e di legittimità”, con una riduzione, sempre per quel che riguarda i procedimenti civili, del 56% rispettivamente per i Tribunali e per le Corti d’appello e del 25% per la Cassazione. Nel mese di febbraio il ministero della Giustizia dovrebbe assegnare gli obiettivi ai singoli uffici giudiziari, ma nel frattempo proviamo a verificare con i dati disponibili se gli obiettivi relativi al disposition time dei procedimenti civili appaiono raggiungibili. Come si vede dal grafico relativo ai Tribunali, il 2020, anno ovviamente particolare per il Covid, ha visto una considerevole diminuzione dei nuovi procedimenti (-21%) e un’altrettanta notevole e simile diminuzione dei procedimenti definiti (-24%). Tendenza che fra l’altro si riscontra frequentemente nelle serie storiche dei dati giudiziari: alla diminuzione o all’aumento dei procedimenti sopravvenuti corrisponde molto spesso un altrettanto decremento o incremento dei procedimenti definiti. Sulla base di questi dati, il disposition time al 30 giugno 2026 dovrebbe quindi passare da 719 giorni del 2020 a 244 giorni (-56% del disposition time del 2019). Il test di fattibilità - Con questi numeri proviamo a fare una semplice simulazione tenendo conto che, seppure da anni si osserva una progressiva diminuzione delle nuove iscrizioni di procedimenti civili, per prudenza e per semplicità, viene mantenuto costante dal 2021 al 2026 il numero di procedimenti sopravvenuti, prendendo come riferimento quelli del 2019. Partendo da queste considerazioni, il grafico a lato mostra come incrementando i procedimenti definiti annualmente dell’8,3%, rispetto ai definiti nel 2019 e con sopravvenuti costanti, si raggiungerebbe l’obiettivo del disposition time fissato a 244 giorni. Una riduzione complessiva a livello nazionale che sembrerebbe tutt’altro che impossibile da raggiungere, e che comunque dovrà essere modulata fra i vari Tribunali italiani per tenere conto dell’enorme variabilità delle prestazioni. Corti d’appello e Cassazione - Una simulazione simile può essere fatta anche per le Corti di appello. Anche in questo caso la diminuzione dei procedimenti iscritti nel 2020 rispetto al 2019 è notevole, oltre il 18%, ancora più alta è la riduzione dei procedimenti definiti che segna un meno 26 per cento. Il grafico relativo propone una simulazione simile a quella già effettuata per i Tribunali. Supponendo che i procedimenti civili iscritti nelle Corti di appello rimangano costanti ai numeri del 2019, l’obiettivo della riduzione del 56% del disposition time a livello nazionale pari a 288 giorni sarebbe raggiunto piuttosto facilmente, addirittura riducendo del 3,9% rispetto al 2019 il numero di procedimenti definiti annualmente. Per la Cassazione, la simulazione proposta con gli stessi criteri già utilizzati in precedenza, quindi supponendo lo stesso numero di procedimenti sopravvenuti nel 2019 anche dal 2021 a giugno 2026, mostra come per raggiungere l’obiettivo fissato dal Pnrr occorra prevedere almeno un incremento annuale dei definiti del 23,8% rispetto al 2019. Un obiettivo, sulla carta, certamente più ambizioso rispetto a quello dei Tribunali e delle Corti d’appello. Una meta raggiungibile - Come indicato, oltre a questi obiettivi dovranno poi essere raggiunti anche quelli relativi al penale e alla riduzione dell’arretrato Pinto dei procedimenti civili, ma come si è mostrato attraverso queste plausibili simulazioni, almeno gli obiettivi relativi alla diminuzione del disposition time nel settore civile sembrano davvero raggiungibili senza sforzi particolarmente significativi. Forse si poteva essere un pochino più ambiziosi, considerando anche l’esercito di assunzioni previste (oltre 21.000), ma se l’obiettivo prioritario era quello di creare le condizioni per incassare i finanziamenti del Pnrr la negoziazione con la Commissione europea, almeno per quanto riguarda la riduzione del disposition time in ambito civile, è stata certamente condotta in modo efficace. Da Mani Pulite al Covid, l’illusione di cambiare di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 21 febbraio 2022 Le vere trasformazioni sono quelle che avvengono dentro di noi, lentamente. I traumi collettivi spesso sembrano renderci migliori, ma è solo apparenza. Scrive un lettore con i piedi saldamente appoggiati sulle nuvole: “A proposito dei due anniversari celebrati in questi giorni, ma Mani pulite non avrebbe dovuto renderci più onesti e la pandemia più altruisti? Di quale altro choc abbiamo ancora bisogno per cominciare a cambiare?”. Sono domande apparentemente ingenue che ci facciamo un po’ tutti, dando risposte che oscillano tra la retorica e il cinismo. Ci piace immaginare la vita come un processo che dall’esterno si muove verso l’interno: succede qualcosa fuori di noi e per conseguenza cambierà necessariamente qualcosa anche dentro. Sarebbe comodo, ed è per questo che continuiamo a illuderci che sia vero. Esiste una fiorente letteratura che associa il trauma collettivo al cambiamento, come se solo uno choc di massa avesse il potere di far rinsavire di colpo una società ingiusta e composta da individui fondamentalmente interessati a sé stessi e al loro piccolo clan. Poi lo choc di massa arriva, la paura e l’euforia si tengono per mano, e in tv e sui giornali escono letterine piene di buoni propositi, finché il tempo si incarica di ricordarci che non è cambiato proprio nulla. E nessuno. Chi infrangeva le regole nel 1992 ha continuato a infrangerle anche in seguito, con qualche piccolo aggiustamento tattico. E chi nel marzo 2020 sognava un mondo più solidale e comunitario (che è cosa ben diversa da comunista), due anni dopo si ritrova ancora più isolato. La delusione per la mancata palingenesi ci fa addirittura pensare che la situazione sia peggiorata: che si rubi più di prima e si sia più soli di prima. Anche questa è una illusione prospettica, alimentata dal morso della nostalgia che restituisce un’immagine edulcorata del passato. La disonestà e l’egoismo fanno parte della natura umana e hanno superato indenni dei traumi ben peggiori, dalle guerre di sterminio ai diluvi universali. E ogni volta si diceva che sarebbe stata quella buona per diventare migliori. Che poi un po’ lo siamo diventati. Bisogna solo intendersi su che cosa significa “migliori”. La peste del Boccaccio ridusse di due terzi la popolazione di Firenze, da centoventi a quarantamila abitanti, ma quella città rimpicciolita fece il Rinascimento. Che però non garbava al Savonarola, il quale tuonava dal pulpito contro i suoi effetti collaterali, la corruzione e il narcisismo. E buttò centinaia di quadri nel falò di piazza della Signoria finché non ci finì dentro anche il suo cadavere, dopo l’impiccagione auspicata da chi non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quel grillo parlante per poter tornare a fare i propri comodi, in nome ovviamente della libertà. Socrate diceva le stesse cose di Savonarola, però con meno prosopopea: non bastano un cambiamento politico o un trauma collettivo per trasformare gli esseri umani. Credo non dipenda solamente dal fatto che ci aspettiamo il cambiamento dall’esterno, ma che ci aspettiamo che faccia effetto principalmente sugli altri, anziché su di noi. Erano i politici che rubavano, mica la società civile, sermoneggiava la mistica del Manipulitismo, i cui aedi continuano a cantarsela anche adesso, sotto altre bandiere. Sarebbe bastato cacciare i politici e mettere la società civile al loro posto: di incanto saremmo diventati rispettosi delle regole e ricolmi di senso dello Stato, che ci aveva fatto senso fino ad allora e, come si è visto, ha continuato a farcene anche dopo. Quanto alla pandemia, chi stonava Vasco Rossi dai balconi e sventolava lenzuoli con la scritta “Tutto andrà bene” (subito storpiata in “Andrà tutto bene”, che era una forma già depotenziata di ottimismo) sotto sotto sperava che a cambiare fossero solo gli altri: i politici, anzitutto, ma anche i vicini, i colleghi e i parenti o, come venivano chiamati allora nelle ordinanze, i congiunti. Al solito, la realtà andava dalla parte opposta. Forse un virus che avesse aggredito i computer ci avrebbe costretto ad alzare gli occhi dagli schermi e ad accorgerci dei corpi. Invece il Covid ha aggredito i corpi e ci ha ammanettato ancora di più agli schermi. Ma neppure la solitudine forzata ci ha davvero peggiorati: erano anni che ci allenavamo a sperimentarla. La verità è che aveva ragione Socrate: i cambiamenti procedono dall’interno verso l’esterno e il fuori cambia solo se prima cambia il dentro, cioè gli occhi con cui lo guardiamo. Quale conclusione trarne, allora? Quella realistica di Montanelli, che da vero conservatore era pessimista sulla natura umana? Beppe Severgnini ha appena ricordato sul Corriere come Indro mettesse in guardia i più giovani dall’illusione che Mani pulite avrebbe purificato l’Italia. L’opposto del disilluso è il sognatore in buona o malafede, il quale pensa che basti un virus, un’inchiesta o un cambio di maggioranza per estirpare i vizi e nobilitare i caratteri. Come diceva Tolstoj, bisogna sempre diffidare delle rivoluzioni sociali perché sono fatte da “uomini che vogliono cambiare il mondo e mai sé stessi”. L’unica soluzione rimane quella: cambiare sé stessi. Vasto programma. Sarebbe già un passo avanti prenderne consapevolezza, senza aspettare il prossimo trauma. Tangentopoli e “Mani pulite” 30 anni dopo: il buco nero dei finanziamenti ai partiti di Giovanni Tizian Il Domani, 21 febbraio 2022 A trent’anni da Tangentopoli una cosa è certa: i re del malaffare sono vivi e lottano insieme a noi, la corruzione è ancora endemica e di sistema, il finanziamento illecito ai partiti è una consuetudine, amplificata dall’abolizione del sostegno pubblico con la legge del 2013 firmata dal governo di Enrico Letta. Una differenza tra ieri e oggi tuttavia c’è. Cittadini, politici, imprenditori e magistrati, al contrario degli anni di Mani pulite, considerano il reato di finanziamento illecito alla stregua del furtarello di una scatola di cioccolatini in un supermercato. Poca roba, insomma. Il 17 febbraio del 1992 l’Italia che aveva assistito all’arresto di Mario Chiesa e all’inizio di Tangentopoli era ancora un paese capace di indignarsi di fronte a fenomeni distorsivi della democrazia e del mercato. “Il finanziamento pubblico è un reato che si prescrive rapidamente e non si possono autorizzare intercettazioni”, è lo sfogo di un importante magistrato che per tutta la vita ha inseguito colletti bianchi del crimine e imprenditori delle tangenti. Non è il solo. “Lo sforzo di dimostrare che la dazione di denaro al partito o alla fondazione è illegale non vale il risultato finale, vanificato il più delle volte da prescrizione incombente e da condanne bassissime che spesso non superano i pochi mesi”, dice un altro procuratore della repubblica, che aggiunge: “Se dalla donazione riusciamo a individuare un ritorno in termini di favori, concessioni, appalti, allora cambia l’ipotesi di reato in corruzione e il codice ci offre un ventaglio di strumenti maggiore per indagare”. È un sentimento diffuso nella magistratura, che di fronte a pene da 6 mesi a 4 anni (difficilmente concessa) e una prescrizione che è quasi la norma non impegna mezzi e risorse come nelle indagini per corruzione o associazione per delinquere. Per avere un dato comparativo, il codice penale punisce il furto semplice, per intenderci chi ruba il latte in un negozio, con pene dai 6 mesi ai 3 anni. Del resto sono gli stessi leader di partito a sottovalutare la pericolosità di un reato che condiziona le scelte pubbliche di chi è foraggiato. E comunque al di là del rilievo penali da chi rappresenta le istituzioni ci aspetta maggiore attenzione rispetto alle conseguenze che può avere la donazione di una multinazionale a un politico. La politica, a differenza dalla magistratura, non persegue reati, ma dovrebbe tuttavia essere capace di distinguere tra ciò che è eticamente opportuno e ciò che non lo è: non sarà per forza di cose reato, ma è etico accettare soldi da un’impresa le cui sorti dipendono da decisioni di quel politico? Non sarà illegale, ma è corretto beneficiare di fondi privati riconducibili a imprenditori che aspettano concessioni pubbliche da chi è stato finanziato? “C’è scarsa percezione di come le donazioni dei privati possano condizionare le scelte politiche, e questo è ancor più grave in un momento storico in cui la politica è più debole rispetto al passato e agli anni pre Tangentopoli”, dice Stefano Vaccari, responsabile organizzazione del partito democratico, al cui interno da tempo è in atto un dibattito sulla reintroduzione del finanziamento pubblico. A separare il reato di finanziamento illecito dalla corruzione è una linea sottilissima: è sufficiente dimostrare che alla donazione è corrisposta una contropartita. Lo stesso vale per un altro delitto introdotto qualche anno fa: il traffico di influenze. Anche in quest’ultimo caso tutto può nascere da un finanziamento all’apparenza legale, che però è servito a entrare in ambienti grazie ai quali ottenere commesse e favori che valgono milioni. A trent’anni da Mani pulite, dunque, che cosa è cambiato? È rimasto immutato l’intreccio tra interessi privatistici e partiti che attraggono finanziatori. Immutati sono rimasti i plurimi conflitti di interesse tra chi paga e chi deve decidere. Mutati, invece, sono i metodi di finanziamento ai partiti, camuffato a volte dietro consulenze, pubblicità sui giornali o emittenti di partito, o donazioni ad associazioni e fondazioni solo all’apparenza slegata dai leader. È cambiato anche il rapporto di forza tra politica e imprese: negli anni di Mani pulite la prima dettava le regole, le seconde accettavano e pagavano in silenzio. Oggi è il privato consapevole della fragilità finanziaria dei partiti a primeggiare e sfruttare lo stato di necessita dei partiti. Ci sono storie però che si ripetono. Pressoché identiche. Come nel caso della Lega, i cui tesorieri ai tempi di Mani pulite e ai giorni nostri sono stati indagati e processati per finanziamento illecito. Un po’ di storia - Quando nel 1974 la Camera e il Senato avevano approvato la legge sul finanziamento pubblico ai partiti, nel paese c’era il sentore che qualcosa di enorme stava per accadere. E infatti due anni dopo è lo scandalo Lockheed ad aver svelato le commistioni tra colossi dell’industria privata e gli alti vertici della politica italiana. Le conseguenze sono tali da provocare le dimissioni del presidente della Repubblica Giovanni Leone, bersagliato dalle critiche e dai sospetti nella gestione degli affari militari con l’azienda americana. La legge del 1974 è conosciuta con il nome del due volte segretario della Democrazia cristiana, Flaminio Piccoli. Erano nell’aria gli scandali, gli interpreti di quelle trame da Prima repubblica erano figure equivoche come il banchiere Michele Sindona, che foraggiavano la classe politica e da questa, in particolare dalla Dc, erano favorite. Era dunque questo il clima in cui matura la necessità di liberare la politica dal bisogno del denaro ottenuto dai privati, portatori di interessi particolari o persino criminali. È curioso che la legge sul finanziamento pubblico abbia anticipato di alcuni anni due dei più grandi scandali italiani. In pratica Lockheed e Sindona erano la prima vera manifestazione dei sintomi di una patologia che covava nell’organismo, già diagnosticata ma taciuta pubblicamente da chi rappresentava le istituzioni in quel periodo storico. La legge Piccoli è durata fino al 1993, non sopravvivrà al maremoto giudiziario di Tangentopoli seppure nell’inchiesta Mani pulite il focus non fosse sulle ruberie del denaro pubblico sgorgato dai finanziamenti pubblici, ma la corruzione sistemica tramite bustarelle dei partiti per ottenere favori, concessioni, appalti. Eppure sono state proprio le indagini di Milano del pool di magistrati guidati da Antonio Di Pietro ha scatenare le prime vere pulsioni anti casta: il feticcio dello spreco e di tutti i mali della politica è stato individuato nel finanziamento pubblico, abolito nel 1993 con un referendum proposto dai Radicali di Marco Pannella. Da quel momento il meccanismo di sostegno alla politica è diventato opaco, ipocrita, truffaldino. Perché al posto della legge Piccoli (che non era la migliore norma del mondo) era stato introdotto il rimborso elettorale ai partiti dietro presentazione di rendiconti scarsamente verificati. Il sistema è andato avanti fino al 2010, da lì in poi due nuovi eventi giudiziari hanno riportato indietro nel tempo il dibattito politico: il caso Lusi e il caso Belsito. Il primo tesoriere della Margherita, il secondo della Lega Nord. Implicati in due indagini differenti con al centro i rimborsi elettorali. La vicenda leghista ha avuto conseguenze di cui si parla ancora oggi: la truffa contestata a Belsito e Umberto Bossi, il fondatore del partito, è stata quantificata dai giudici in 49 milioni di euro di rimborsi ottenuti con bilanci falsi. Il tesoretto accumulato va restituito allo stato, hanno stabilito i giudici. Così anche Matteo Salvini, l’attuale segretario, sta pagando per una vicenda che ha ereditato e che ha dovuto gestire arrivando all’accordo con la procura di Genova per la restituzione del malloppo in oltre 70 anni con rate annuali. Lusi e Belsito hanno però riportato in auge l’indignazione anti casta: basta denaro pubblico ai partiti, lo slogan fatto proprio dal Movimento 5 stelle, cavalcato da Matteo Renzi e applicato da Enrico Letta, il cui governo sarà ricordato per aver abolito i finanziamenti pubblici. Dai partiti alle associazioni - La fine delle elargizioni di stato a chi rappresenta i cittadini nelle istituzioni non ha però frenato il malaffare né ha arginato le interferenze dei privati nell’attività parlamentare. Il risultato della demonizzazione del sostegno pubblico è stato aver dato in pasto i partiti agli interessi di multinazionali, aziende, lobbisti e faccendieri vari che operano per conto terzi (anche per paesi esteri). Una politica povera, sempre alla ricerca di soldi per organizzare feste, incontri, convegni, campagne elettorali, non può fare altro che accettare aiuti da chiunque. Il finanziatore privato però non ama il più delle volte comparire. E visto che se pago un partito devo dichiararlo, ecco proliferare centinaia di associazioni e fondazioni collegate ai partiti, ma ufficialmente sconnesse dal movimento politico. Le fondazioni così come le associazioni culturali hanno meno obblighi di trasparenza, a meno che nei board non siano presenti parlamentari. Il paradosso è che la legge del governo Letta ha legittimato ciò che è stato svelato da Tangentopoli: soldi privati ai partiti. Non è un caso che in molti processi di allora non tutti erano accusati di corruzione, cioè di avere intascato la bustarella in cambio di qualcosa, diversi erano gli imputati di finanziamenti illecito. La differenza è che all’epoca cittadini, investigatori, magistrati, consideravano quest’ultimo reato un delitto non secondario, al contrario era ritenuto gravissimo al pari delle mazzette. E il motivo è semplice: lasciare che i soldi di privati indirizzino la vita pubblica equivale ad accettare il fatto di vivere in una democrazia deviata verso gli interessi di pochi, che pagando potevano influenzare le scelte di amministratori, ministri, parlamentari. Dibattito politico - A sinistra c’è un ampio fronte per il ritorno al finanziamento pubblico. Anche all’interno del Partito democratico. Il Movimento 5 stelle dopo gli anni di guerra non è chiaro se abbia rivisto le proprie convinzioni alla luce dei continui casi giudiziari recenti su soldi privati e politica, tra questi quello che riguarda il loro fondatore Beppe Grillo e l’azienda Casaleggio & Associati, quest’ultima non indagata ma ampiamente citata per aver ottenuto svariati milioni di euro da società e multinazionali nel periodo del governo Conte I. A destra c’è Giorgia Meloni, favorevole a reintrodurre il meccanismo, così come Forza Italia. Matteo Salvini non si è mai espresso sulla questione, comprensibile visto che il tesoriere del suo partito è sotto processo a Milano e Roma per aver ottenuto denaro da aziende private tramite un’associazione culturale creata ad hoc, sostengono i pm, per veicolarli al partito. Di certo all’interno del Pd il dibattito sulla reintroduzione del contributo statale è in fase più avanzata. Vaccari spiega che è in atto da tempo un confronto su “come dare attuazione all’articolo 49 della costituzione”. Il principio citato da Vaccari recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Per garantire questo diritto sono necessarie delle risorse. Una parte dei democratici crede sia preferibile ricorrere al denaro pubblico, una critica non troppo velata alla legge con cui il governo Letta (ora segretario Pd) ha archiviato il finanziamento pubblico. Vaccari aggiunge: “Stiamo discutendo all’interno del partito di come riformare il sostengo pubblico, l’obiettivo è garantire maggiore autonomia da interessi economici particolari”. Una delle proposte è per esempio legare i fondi dello stato a obiettivi specifici come accade in Europa: “Per rafforzare la formazione politica, in modo tale da destinare le risorse a finalità precise”. Vaccari e larga parte del Pd sono convinti che l’abolizione del finanziamento pubblico non abbia risolto nulla, anzi. “I partiti sono finiti sotto ricatto”, è il giudizio di Vaccari. L’organizzazione Transparency International ha avviato un monitoraggio costante dei finanziamenti privati alla politica. Dal 2018 al 2020 i partiti hanno ricevuto quasi 70 milioni di euro. Dalle tabelle ufficiali della tesoreria del parlamento possiamo sommare il 2021, arrivando così a circa 100 milioni in tre anni. La maggior parte arriva da parlamentari che versano mensilmente una quota del proprio stipendio al partito. Subito dopo troviamo società di capitali, fondazioni e associazioni varie per un totale di quasi 20 milioni. Un altro dato che emerge è la presenza tra i donatori dei politici di fondazioni a loro collegate. È una sorta di filtro che produce opacità. Difficile, infatti, risalire a chi ha dato i soldi alla fondazione, che a sua volta a versato al partito o al leader. Toti, Renzi e la Lega - Alla data del 21 febbraio 2022 i tesorieri di partito sotto processo per finanziamento illecito sono due: Giulio Centemero, della Lega di Matteo Salvini, e Francesco Bonifazi, contabile del Pd ai tempi di Matteo Renzi e ora in Italia viva. Il primo è due volte imputato, a Roma e a Milano. Nella capitale si deve difendere dall’accusa di avere ricevuto 250mila euro dal costruttore romano Luca Parnasi destinati alla Lega ma fatti passare dall’associazione Più Voci. Nel processo milanese deve rispondere dei soldi di Esselunga che hanno compiuto il medesimo tragitto di quelli di Parnasi. I pm di Milano hanno chiesto 8 mesi di condanna per Centemero e definito la Più Voci un’associazione che “non esiste”. Otto mesi è la stessa condanna ricevuta ai tempi di Mani pulite dall’allora tesoriere Alessandro Patelli, che aveva confessato di avere preso 200 milioni di lire da Montedison. Per questa donazione, che valeva la metà di quella versata da Parnasi tra il 2016 e il 2018, è stato condannato anche Umberto Bossi, leader del partito. E Patelli finì per qualche giorno in carcere subito dopo le rivelazioni del manager di Montedison. Alla Lega di oggi è andata di lusso: nessuna custodia cautelare, Salvini mai indagato e 250mila euro, che secondo le tabelle di conversione Istat equivalgono a circa 363 milioni di vecchie lire nei primi anni Novanta, valore molto più alto rispetto alla stecca Montedison. Bonifazi invece è sotto processo sempre per soldi di Parnasi transitati dalla fondazione Eyu. Per Italia Viva non è l’unico guaio. Da poche settimana i pm di Firenze hanno chiesto il rinvio a giudizio per Renzi, Luca Lotti e Maria Elena Boschi: l’accusa? Ancora finanziamento illecito alla corrente renziana del Pd. Diversi milioni di euro ottenuti attraverso la fondazione Open, che per i pm è stata una vera articolazione di partito, o meglio dei renziani. Ancora in corso è l’indagine della procura di Genova sui denari incassati dalle fondazioni di Giovanni Toti, il presidente della regione Liguria. Come Open, ha incamerato molti milioni da industriali, armatori, costruttori, cliniche private. Tutte società che hanno interessi sul territorio amministrato da Toti e dalle cui decisioni dipendono concessioni che valgono oro. Il nome di Toti non risulta nel gruppo di indagati, la cui identità resta ancora top secret. Ancora una volta l’ipotesi è finanziamento illecito. Cambiano le sigle, i leader, le cifre e le i nomi delle aziende. Ma tutto il resto sembra riportarci a trent’anni fa, al giorno dell’arresto di Mario Chiesa. Perché nulla è cambiato nell’Italia del 2022. Tangentopoli. “Noi pm forse abbiamo fatto errori ma i media hanno creato i mostri” di Francesco Boezi Il Giornale, 21 febbraio 2022 Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite, si chiede il perché delle “domande al plurale” ma è chiaro come quella fase storica italiana abbia avuto per protagonista anche un certo modo d’intendere i rapporti tra giustizia e politica. “Possibile - annota - che abbiamo commesso errori”. E che “cambiare idea”, in fin dei conti, non è ipocrita. Dottor Colombo, lei ha detto che la scena delle monetine su Craxi le fece un effetto negativo. Qualcuno, però, ritiene che sia ipocrita dolersi oggi... “Credo di aver detto e scritto più volte che sono stati tenuti comportamenti scorretti da parte della cittadinanza seppur non riferendomi nello specifico alle monetine. Ma non è questo il punto. Vuole dire che se non l’ho detto allora non potrei dirlo oggi? Credo di averlo detto e scritto, e sicuramente lo pensavo, ma mettiamo che non l’avessi pensato, non potrei aver cambiato idea? È ipocrita cambiare idea?”. Lei forse non voleva fare la rivoluzione. L’impressione è che nel pool ci fosse chi voleva farla eccome... “Nessuno di noi voleva fare la rivoluzione. Solo accertare i fatti corruttivi - e le relative responsabilità - che purtroppo erano gravi e molto diffusi. C’era certo una forte richiesta di cambiamento che veniva dalla cittadinanza e che era alimentata dai media, le tv che mettevano in pianta stabile giornalisti davanti al palazzo di giustizia a raccontare le malefatte di chi veniva coinvolto nelle indagini. Che spesso sbattevano il mostro in prima pagina. E forse hanno impropriamente alimentato anche reazioni emotive di rabbia nella cittadinanza”. Perché Mani pulite ha defenestrato soltanto una parte del sistema partitico italiano? “Mani pulite non ha defenestrato nessuno. Ha svolto indagini nei confronti di persone in ordine a reati per i quali esistevano elementi per indagare. Queste persone facevano parte di tutti i partiti ad eccezione di Msi e Dp, se ricordo bene. Se si riferisce all’ex Partito comunista le posso fare l’elenco delle persone per le quali abbiamo chiesto al gip, e ottenuto, l’applicazione della misura cautelare in carcere. Abbiamo chiesto anche il rinvio a giudizio di un esponente di particolare rilievo, che il tribunale poi ha assolto. Non ricordo critiche per quel rinvio a giudizio”. I rapporti tra politica e giustizia sono ancora oggetto di discussione. Oggi sembra spirare un vento garantista... “C’è indubbiamente un vento garantista e ne sono davvero contento. Mi dispiace che riguardi soprattutto alcune categorie (sembrano esclusi i ladri e i piccoli spacciatori). C’è anche un vento negazionista, che non considero funzionale ad una narrazione storica corretta”. La soluzione politica, ai tempi di Mani pulite, sarebbe stata preferibile a quella giudiziaria? “Avevo suggerito l’idea che sarebbe uscito dal processo (e non sarebbe quindi andato in carcere) chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato indebitamente, si fosse allontanato per un periodo di tempo ragionevole dalla vita pubblica. Qualcosa di analogo a quel che ha fatto il Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione, fatti i necessari distinguo circa la drammaticità di quel conflitto. Era il luglio del 1992, il suggerimento non è stato neppure preso in considerazione”. Lei no, ma altri suoi colleghi hanno scelto la via della politica. Che ne pensa delle “porte girevoli”? “Ho da tempo e a più riprese detto di avere una regola: se mi fosse venuto in mente di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura (e quindi non vi sarei mai rientrato) e avrei lasciato passare un periodo consistente, diciamo due o tre anni, dalle dimissioni alla candidatura. Era la mia regola”. Le è capitato di affermare che “il carcere non risolve”. Figurarsi la custodia cautelare... “Se è per quello ho scritto da oltre 10 anni un libro, Il perdono responsabile, in cui dico che il carcere andrebbe abolito. Sono dell’idea che da un’altra parte (che non è il carcere) ci debba stare soltanto chi è pericoloso (e solo per il tempo in cui è pericoloso), e che questa altra parte debba essere un luogo in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano garantiti e tutelati, che si debba smettere di considerare la pena una retribuzione del male commesso, che sia necessario riparare la vittima per il dolore subito e recuperare alla società chi il male lo ha agito. Ancora le regole non sono cambiate. Allora, e facendo il lavoro che facevo, dovevo rispettarle. E condividevo, peraltro, l’idea che il carcere, per quanto non mi piacesse mandarci le persone, fosse educativo, servisse a prevenire. Cosa che tanti lettori condividono e io non più. Anche per questa ragione mi sono dimesso una quindicina di anni fa. La custodia cautelare non è uno strumento punitivo, ma serve appunto ad evitare il pericolo di inquinamento della prova o la commissione di nuovi reati. Cose che pare vadano bene per i ladri d’auto ma non per i colletti bianchi. Possibile che abbiamo commesso errori, siamo esseri umani, ma personalmente ho sempre cercato di evitarli, e credo altrettanto abbiano fatto i miei colleghi”. Siete consapevoli di aver spinto, a distanza di anni, una parte di questo Paese ad allontanarsi in modo deciso dal giustizialismo? “Non capisco perché mi rivolge costantemente le domande al plurale. Le ho già detto che apprezzo il garantismo, che non sia negazionismo, di cui ho cercato di essere interprete nei limiti del possibile anche in Mani pulite (così come nelle indagini sulla P2, sui Fondi neri Iri e così via). Però non mi pare che ci sia in giro tanto garantismo se non per i reati dei colletti bianchi. Non mi pare ci sia tanto di nuovo sotto il sole rispetto a quando era vietato aprire i cassetti del potere. Se mi sbaglio sono molto contento”. Cybercrime, il timore più grande è il furto di identità di Andrea Frollà La Stampa, 21 febbraio 2022 Circa 10 milioni di italiani hanno avuto esperienze di violazioni digitali. Tra i rischi spicca la sottrazione dei dati personali, seguita dalla clonazione delle carte di credito. Generazione Z e Millennials i più colpiti. Lo studio Unipol-Ipsos. Circa 10 milioni di italiani hanno subito nel corso della propria vita delle violazioni digitali, personalmente o ai danni di un membro della propria famiglia. Furti di identità, violazioni della privacy, clonazioni delle carte di credito o ancora atti di cyberbullismo hanno coinvolto finora soprattutto la Generazione Z tra i 16 e i 26 anni e i Millennials tra i 27 e i 40 anni, senza una particolare concentrazione geografica. Eppure, c’è ancora un 30% di cittadini che non si sente affatto esposto ai rischi digitali. È una fotografia ricca di curiosità quella scattata dallo studio sul rischio cyber firmato Changes Unipol ed elaborato da Ipsos in occasione dell’ultima edizione del Safer Internet Day. Il rapporto ha analizzato percezione, rischi, esperienze personali e misure adottate dagli italiani in tema di sicurezza digitale, intervistando un campione nazionale rappresentativo della popolazione di età 16-74 anni e residente nelle principali aree metropolitane. Il primo dato che colpisce è la correlazione tra l’aumento dell’età e il calo delle violazioni: gli attacchi andati a buon fine spiccano infatti nella Generazione Z (32% delle persone tra 16 e 26 anni), seguita dai Millennials (31% delle persone tra i 27 e i 40 anni) e dalla Generazione X (22% delle persone tra i 41 e i 56 anni). Fanalino di coda i Baby Boomers (11% delle persone tra i 57 e i 64 anni). L’assenza di consapevolezza - A livello territoriale, le infrazioni digitali si verificano in maniera uniforme in tutta Italia. A fare la differenza è invece l’utilizzo delle piattaforme online, e in particolare il tempo speso sui social network. Coloro che utilizzano Facebook, Instagram, TikTok e gli altri social network risultano infatti più esposti, con una frequenza di violazioni subite medio-elevata (36%). Più di un italiano su due si sente oggi minacciato da possibili violazioni digitali. In particolare, si sentono maggiormente vulnerabili i Baby Boomers (58%) e gli abitanti delle aree metropolitane del Centro Italia (56%). In generale, il 30% degli Italiani non percepisce invece il rischio informatico come un pericolo, mentre il 17% dei cittadini non è in grado di valutare questo rischio e le relative conseguenze, evidenziando quindi poca consapevolezza e vulnerabilità. Una maggiore sensibilità al rischio digitale è riscontrabile tra chi ha già subito violazioni in passato (64%), tra gli utenti dei social network (59%) e gli esperti digitali (57%). La classifica degli attacchi - Dal punto di vista degli attacchi, tra i rischi percepiti come più gravi spiccano il furto di identità e la clonazione della carta di credito. La classifica vede infatti al vertice proprio il furto di identità (58%), seguito dalla clonazione della carta di credito (53%), dall’utilizzo dei dati personali per altri scopi (40%) e dalla violazione della privacy (39%). All’ultimo posto l’impiego e la diffusione non autorizzati di fotografie personali (25%). Nel dettaglio, il pericolo legato al furto di identità e la minaccia della clonazione della carta di credito sono particolarmente avvertiti dai Baby Boomers, che registrano rispettivamente percentuali del 73% e del 64%. Tra le varie violazioni digitali merita però un approfondimento specifico il cyberbullismo, un fenomeno sociale che si sta sempre più imponendo come tipica manifestazione della criminalità minorile. La piaga del cyberbullismo - I dati di Changes Unipol, elaborati da Ipsos, ne confermano la rilevanza: il 40% degli intervistati valuta il cyberbullismo come un grave rischio, avvertito soprattutto tra le donne (43%) e in egual misura nelle diverse generazioni, dal 41% della Generazione Z al 40% dei Baby Boomers. Al di là del singolo fenomeno, è interessante notare che oltre un italiano su due cerca di proteggersi dal cyber risk con metodi “fai-da-te”. Il 55% degli intervistati cerca di contrastare questo rischio fornendo solo dati personali obbligatori e indispensabili e il 35% ritiene sufficiente non divulgare proprie foto o quelle di minori. Questi comportamenti si accentuano, in particolare, tra i Baby Boomers (64%), che tendono anche a prendere le distanze dai social network, mentre la Generazione Z appare meno prudente in relazione alla pubblicazione di immagini e foto, soprattutto proprie (19%). Ingiusta detenzione, Petrilli: “Mi incateno davanti al Presidente della Repubblica” laquilablog.it, 21 febbraio 2022 Prosegue la protesta dell’ex esponente di Rifondazione per il mancato risarcimento. Giulio Petrilli, portavoce comitato per il risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti, continua a portare avanti la sua battaglia per il risarcimento per ingiusta detenzione, dopo che egli stesso è stato sei anni in carcere prima dell’assoluzione della Cassazione dall’accusa di essere tra gli organizzatori della banda armata Prima Linea. Riceviamo le sue comunicazioni in merito al rifiuto della Corte Costituzionale di accettare il referendum sulla responsabilità’ diretta dei magistrati che hanno commesso errori giudiziari. “martedì’ 22 febbraio dalle ore 12 protesterò davanti la Corte Costituzionale, la Consulta e davanti la Presidenza della Repubblica, per criticare il rifiuto della Corte di accettare il referendum sulla responsabilità’ diretta dei magistrati che hanno commesso errori giudiziari. Mi incatenerò davanti la Consulta e davanti la Presidenza della Repubblica. Non hanno accettato il referendum di Enzo Tortora, dico solo questo per far capire, non devo spiegare nulla. Il primo referendum vinse con una percentuale dell’82% per cento, ma fu svilito con leggi che non lo hanno mai reso effettivo. Tutti in silenzio verso questa grande vergogna. Non hanno mai pagato i magistrati che hanno sbagliato. Nessuno. Per ricordare le battaglie di Marco Pannella e Enzo Tortora mi incatenerò’ davanti la Corte Costituzionale e la Presidenza della Repubblica. Tutti hanno gli strumenti se vogliono per capire. Enzo Tortora nonostante un gravissimo errore giudiziario non fu mai risarcito anzi i magistrati che lo hanno condannato e arrestato in primo grado sono stati tutti promossi. Ma a distanza di anni non cambia nulla. Tutto rimane come prima. Ora la Consulta ha rigettato il referendum più importante, quello della responsabilità’ civile dei giudici. Una sconfitta per tutti i democratici che non deve rimanere sotto silenzio, per questo la mia protesta. Ho vissuto e vivo sulla mia pelle queste ingiustizie ma protesto per affermare un principio che vale per tutti. Chi vuole può venire a solidarizzare e manifestare martedì 22, dalle ore 12, davanti la Presidenza della Repubblica. Nella piazza li. Mi troverete li.” Bologna. Carcere della Dozza senza medico: “Avvisati e non è stato fatto nulla” bolognatoday.it, 21 febbraio 2022 La denuncia da Fp Cgil e Nursind: “La gestione di qualunque genere di emergenza sanitaria affidata esclusivamente al personale infermieristico”. Carcere della Dozza senza medico “fra il 19 e il 20 febbraio si è ritrovato privo di personale medico per l’intero turno notturno”. Lo fa notare FP CGIL: “Nonostante questa possibilità fosse stata prospettata alla Direzione Sanitaria all’inizio della settimana, nulla è stato fatto” e che i 16 medici in organico sono passati a 4, oltre alle aggressioni al personale infermieristico. “È inaccettabile quanto accaduto: chiediamo la rimozione del coordinatore infermieristico e del medico responsabile presso la struttura, non si possono lasciare gli infermieri in simili situazioni” ha dichiarato Antonella Rodigliano, segretaria territoriale del Nursind - sindacato infermieri - di Bologna “il penitenziario si è infatti ritrovato privo di personale medico per l’intero turno notturno, con la gestione di qualunque genere di emergenza sanitaria affidata esclusivamente al personale infermieristico in forza al carcere”. “Non è possibile ritrovarsi a lavorare in queste condizioni: la probabilità che nella notte fra sabato e domenica non ci fossero medici a disposizione era già stata prospettata da inizio settimana dalla direzione sanitaria, eppure, in tutti questi giorni, non è stato fatto nulla per cercare una soluzione - prosegue Rodigliano. L’unica comunicazione giunta è stata quella che, poche ore prima dell’inizio del turno, avvisava gli infermieri di dover affrontare la nottata da soli. Si tratta di una cosa gravissima”. La situazione all’interno del carcere, denuncia il sindacato, è al limite: i medici in organico sono appena sedici e la carenza di personale è evidente. Mai però si era giunti ad una situazione simile, con la totale assenza di una figura medica all’interno della struttura per un intero turno. Gli atti di autolesionismo da parte dei detenuti e le aggressioni al personale infermieristico sono spesso all’ordine del giorno alla Dozza, rendendo già di per sé complicato il servizio nella struttura. “Non si può continuare così” rimarca quindi Rodigliano “poco prima dell’inizio del turno, gli infermieri in servizio nel carcere sono stati messi al corrente della situazione, senza nessuna possibilità di porvi rimedio o trovare delle altre soluzioni per tempo. Sono state invece fornite indicazioni operative straordinarie, come il potenziamento della continuità assistenziale della guardia medica in condizioni di necessità e la prassi da seguire in caso di nuovi accessi, dando per scontata la disponibilità degli infermieri ad accettare tutto quanto. Chiaramente - conclude - non ci tiriamo mai indietro perché siamo dei professionisti che amano il proprio lavoro e lo fanno sempre con grande passione e serietà - conclude Antonella Rodigliano - ma non possiamo rischiare di ritrovarci di nuovo in una situazione del genere. È il momento che qualcuno si assuma le proprie responsabilità”. Bari. La lotta al virus in carcere, Buonvino: “Ffp2 e screening. Così abbiamo vinto” di Antonella Annese ledicoladelsud.it, 21 febbraio 2022 Nicola Buonvino, direttore dell’unità operativa di Medicina penitenziaria dell’Asl Bari, racconta il lavoro fatto presso l’istituto penitenziario del capoluogo per contenere la variante Omicron. Le ultime settimane sono state difficili, ma dal punto di vista sanitario il risultato raggiunto è evidente... “Abbiamo dovuto rincorrere i positivi per poter monitorare e tracciare l’andamento del contagio. Abbiamo lavorato anche con doppi turni ma alla fine ne siamo usciti”. Ci sono stati altri focolai da inizio pandemia? “No. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria abbiamo registrato al massimo picchi di 20 positivi, ma questa variante ha “rotto gli argini”. L’alto livello di contagiosità è stato un problema difficile da gestire”. Quali sono state le maggiori difficoltà? “Sicuramente il sovraffollamento delle celle, che è un problema nazionale, ma nello specifico ha fatto la differenza la presenza di un gruppo di detenuti no vax che ci ha molto preoccupato a livello sanitario”. Quali protocolli sanitari avete seguito? “Abbiamo istituito tre aree: gialla per il monitoraggio dei detenuti in entrata e in transito, verde per i negativi e rossa per i positivi. Da gennaio ho imposto l’obbligo delle mascherine Ffp2 a tutti visitatori, detenuti, operatori”. Ci sono stati momenti di tensione? “Sì. Gli spazi a disposizione erano limitati, più volte abbiamo dovuto spostate i detenuti dalle loro aree per poter garantire l’isolamento da chi aveva contratto il virus e questo ha creato malumori. Qualcuno ha protestato, ma tutto è sempre stato risolto con il confronto”. Verbania. Presentata la relazione della Garante dei diritti dei detenuti vconews.it, 21 febbraio 2022 “Negli ultimi due anni, con l’emergenza Covid, l’attività? con il carcere di Verbania si e? sviluppata in gran parte online e con progetti importanti realizzati da detenuti”. Presentata nei giorni scorsi la Relazione della Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Verbania, Silvia Magistrini, pubblicata sul sito del Consiglio Regionale del Piemonte, in merito alla situazione nel carcere di Verbania nel 2021. “Negli ultimi due anni, con l’esplosione dell’emergenza pandemica del Covid, l’attività? con il carcere di Verbania si e? sviluppata in gran parte online e/o con progetti importanti realizzati da detenuti sia all’interno della casa circondariale che all’esterno” scrive la Magistrini. Pe quanto riguarda il numero di detenuti della casa circondariale di Verbania i dati al 31 dicembre del 2021 riportano, 53 la capienza dichiarata sul sito (47 la capienza regolamentare), mentre la presenza effettiva era di 68. Tra i progetti realizzati il laboratorio Banda Biscotti per una produzione di biscotti in collegamento con il 700° anniversario della morte di Dante. Il 25 marzo 2021, data simbolica dell’inizio del viaggio dantesco, le prime confezioni di biscotti sono state inviate al Presidente Sergio Mattarella. “Successivamente - racconta la Magistrini - sono stata interpellata da Radio Vaticana (aprile 2021) e ho registrato un’intervista all’interno della rassegna settimanale ‘I Cellanti’ da cui in seguito e? iniziata una collaborazione che ci ha messo in contatto con lo stesso Papa Francesco”. A fine agosto 2021 i biscotti sono stati inviati al Papa accompagnati da ricami e lettera di due persone detenute a Verbania, abilissimi nel ricamo. Ne e? scaturito un invito ad una udienza con il papa che si realizzerà? nella primavera 2022, quando sarà? ultimato il grande stendardo vaticano che da novembre si sta realizzando attraverso il lavoro delle stesse persone, con grande aiuto e collaborazione dell’istituto. “L’invito papale -sottolinea la Garante-ha avuto effetti molto positivi per tutto l’istituto”. È stato poi ultimato e? il vecchio progetto di restauro di un cortile degradato per trasformarne la struttura in area sportiva (campo da calcetto) il cui utilizzo permetterà? sicuramente alle persone detenute di fruire di uno spazio esterno ulteriore. I colloqui settimanali sono stati 90, nel corso del 2021. Si è creata inoltre una collaborazione col Liceo Classico Scientifico Bonaventura Cavalieri “per aprire una corrispondenza uno scambio di comunicazioni tra carcere e citta?”. Prosegue inoltre la collaborazione con il monastero benedettino di Orta San Giulio, in particolare con il laboratorio di ricamo. A settembre presso l’Hotel “Il Chiostro” ad Intra, con Bruno Mellano, garante dei detenuti della Regione Piemonte, in accordo e collaborazione con la Societa? Dante Alighieri, è stata presentata l’esposizione fotografica ed artistica “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, ispirata alle illustrazioni di Gustavo Dore? della Divina Commedia, e in particolare dell’Inferno, realizzate dai detenuti della Casa di Reclusione “San Michele” di Alessandria: Per quanto riguarda la salute nel carcere “qualche problema - spiega Magistrini - si presenta costantemente, sia per patologie pregresse, sia per il disagio psicologico, sia per i contagi da Covid che fortunatamente non sono stati allarmanti”. L’emergenza Covid ha molto condizionato anche la vita quotidiana nelle strutture detentive, con la sospensione per lunghi periodi dei colloqui personali con i familiari e le stesse attività? trattamentali, formative e scolastiche in presenza. “Credo che - conclude Magistrini - tutto sommato, l’annus horribilis non abbia impedito di aprire qualche finestra tra carcere e società? civile, tra persone detenute e persone libere, e mi auguro che il discorso sia solo all’inizio”. Milano. Risse, coltellate e rapine. Ecco le notti delle baby gang di Claudia Guasco Il Messaggero, 21 febbraio 2022 Tra sabato e domenica ci sono stati cinque accoltellamenti con vittime e aggressori tutti giovanissimi, anche minorenni. Nulla fa pensare all’azione di un’unica banda, affermano gli investigatori, e per i tre episodi più gravi chi è entrato in azione si è mosso in branco. Alle 2,40 in Brera un quattordicenne ha chiamato il 112 chiedendo aiuto, spiegando di essere stato rapinato insieme a un amico di un anno più grande da un gruppo di giovani nordafricani. Milano, le notti delle baby gang - Agli agenti delle volanti hanno raccontato che, mentre stavano camminando in strada, sono stati avvicinati da sette, otto ragazzi. Uno di loro ha estratto un teaser e ha minacciato la sua preda: “Dammi le scarpe e le casse”, gli ha intimato. Il quattordicenne per evitare guai peggiori ha consegnato tutto e gli aggressori sono fuggiti. Ma non hanno fatto molta strada perché la polizia, grazie alle descrizioni fornite dalle vittime ha bloccato quattro in fuga poche vie più in là: sono due marocchini di diciannove anni, uno con precedenti, un italiano di diciassette incensurato e un tunisino di sedici con precedenti. Il terzo episodio grave è avvenuto in corso Como, epicentro della vita notturna milanese, attorno alle 4.45 quando un diciannovenne è stato circondato all’uscita dalla discoteca e colpito da coltellate al torace e al braccio destro. Mezz’ora dopo un altro accoltellamento nella stessa zona: un ragazzino di 15 anni è stato circondato da un gruppo di nordafricani che per rapinarlo lo hanno colpito con un fendente a un gluteo. Niente lame ma spray urticante in via De Tocqueville, strada fitta di discoteche e locali, dove ad avere la peggio è stato un ventunenne. Alla stazione Centrale, infine, rissa tra stranieri con un nordafricano di 33 anni colpito da una coltellata. “Dalla mezzanotte di sabato alle 10 di mattina di domenica Areu è dovuta intervenire ben 23 volte per eventi violenti”, traccia il bilancio l’assessore alla Sicurezza della Regione Riccardo De Corato. Non è una novità, nel 2021 i soccorritori a Milano sono intervenuti per 2.412 aggressioni in strada: 307 liti, 210 risse, 128 accoltellamenti e 7 sparatorie. “L’ho detto qualche giorno fa e lo ribadisco oggi: per fronteggiare situazioni sempre più gravi, come quelle ripetutesi anche sabato notte a Milano servono più divise sul territorio”, afferma il governatore lombardo Attilio Fontana. “Chiediamo un dibattito in Parlamento sull’emergenza sicurezza a Milano e purtroppo non solo a Milano. Il ministro e il sindaco fanno tante chiacchiere ma risultati zero”, attacca il leader della Lega Matteo Salvini. Il problema è diffuso. Nel quartiere dei locali a Pavia, sabato sera, un diciannovenne è stato ferito al braccio da un colpo di pistola sparato durante una lite degenerata, a Monza una cinquantina di giovanissimi sono stati identificati dalla polizia mentre bevevano alcolici in una piazza del centro, a Roma controllate e identificate oltre 200 persone durante il pattugliamento notturno dei carabinieri nelle zone di Campo de’ Fiori, Monti e Pigneto. Tanti i minorenni. Milano. Il procuratore capo: “Dopo la pandemia è cresciuta la rabbia degli adolescenti” di Claudia Guasco Il Messaggero, 21 febbraio 2022 Botte, violenze, rapine. Con un’aggravante: sia chi attacca, sia le vittime sono minorenni o al massimo ventenni. Dagli stupri di capodanno in piazza Duomo agli accoltellamenti di sabato, Milano negli ultimi mesi pare buia e sembra spingere i limiti un po’ più in là ogni notte. Sui social circolano i video di regolamenti di conti tra bande, i politici chiedono più forze dell’ordine e parlano di emergenza sicurezza. Chi ha una visione completa e anche storica del fenomeno è Ciro Cascone, da anni capo della Procura dei minori. Che afferma: “I numeri sono in aumento, è vero, ma quel che rilevo è soprattutto un peggioramento qualitativo, perché dopo la pandemia è cresciuta la rabbia degli adolescenti. Una rabbia non gestita”. Cosa sta succedendo ai ragazzi, dottor Cascone? “Faccio una premessa. Questi episodi diffusi di violenza non sono una novità, dobbiamo affrontarli da anni. In città grandi come Milano c’è uno zoccolo duro di devianza giovanile e adolescenziale che si autoalimenta, basti pensare alle bande sudamericane. Quindici anni fa erano un paio, ora si sono moltiplicate tanto chi si identificano con il cap della zona che è il loro territorio. Già negli anni precedenti alla pandemia avevamo un gran lavoro, abbiamo eseguito molte misure cautelari nei confronti di adolescenti, poi la situazione è peggiorata. Non dobbiamo dare tutte le colpe alle misure anti Covid, è ovvio, tuttavia è innegabile che abbiano avuto effetto”. Educazione, tempo libero, tutto spazzato via… “Lo scenario va letto e interpretato nel suo complesso: l’epidemia ha cancellato occasioni di socialità, di vita ordinaria a cominciare dalla scuola, che è uno dei freni per i ragazzi. E poi niente più sport. né oratorio e associazionismo. Nemmeno assembramenti, proprio dove oggi i ragazzi scatenano la loro violenza. Molti giovani hanno accumulato rabbia, una frustrazione che non riescono a esprimere. L’assenza di scolarità incide, già a quell’età si è abituati a riflettere poco e così se la fase del pensiero resta molto limitata c’è solo l’azione. Oggi cominciamo davvero a toccare con mano gli effetti sociali delle limitazioni imposte dalla pandemia”. I casi sono in crescita? “Cambiano i numeri, ma soprattutto le modalità. C’è molta più aggressività. più rabbia incontrollabile. In questo momento navighiamo a vista, i fenomeni stanno aumentando, la curva è in progressione e non siamo ancora arrivati al picco. Dall’inizio di quest’anno assistiamo all’incremento di episodi di violenza di vario tipo, messi a segno da bande e banducole, e non dobbiamo trascurare che in tutto questo una parte importante l’hanno í sociale l’effetto emulazione. Dalle forze dell’ordine e dall’autorità giudiziaria i ragazzi devono avere segnali immediati, una risposta delle istituzioni, ma abbiamo il carcere minori le pieno e non sappiamo più dove mandarli. Quando fermiamo i responsabili di aggressioni con rapine chiediamo misure cautelari, servono interventi immediati o si innesca un’escalation A questo punto però servono risposte sociali, dobbiamo modulare risposte su più fronti per affrontare il fenomeno”. Mentre le vostre risorse scarseggiano… “La giustizia minorile è stata sempre un po’ relegata a Cenerentola, basti pensare che noi non siamo informatizzati, lavoriamo solo con la carta. Durante la pandemia abbiamo aperto autonomamente la posta elettronica certificata per raccogliere documenti, che al momento è l’unica forma di automatizzazione. Riceviamo ogni giorno centinaia di segnalazioni, ma venerdì ii sistema, che supporta solo un certo numero di allegati, si è inceppato. Il Pnrr deve favorire i giovani, eppure la giustizia minorile è esclusa. Ecco, possiamo fare i discorsi più elevati, ma ciò che resta è la realtà. A Milano siamo alle prese con l’aumento di casi di devianza e la Procura dei minori non viene potenziata”. Prato. Il 1992 raccontato ai giovani. Trent’anni dopo La Nazione, 21 febbraio 2022 La rassegna a cura del Comune tra mostre, incontri e teatro. Una maxi installazione in piazza delle Carceri e a Officina le splendide foto in bianco e nero di Tony Gentile. Sono passati trent’anni dal 1992, l’anno che con la fine dei partiti della Prima Repubblica e con la stagione delle stragi di Mafia, molto più di altri ha cambiato il volto e la storia recente del nostro Paese. Per raccontarlo e farlo meglio conoscere il Comune in collaborazione con i giovani under 35 del progetto Officina delle Voci ha organizzato una serie di incontri, spettacoli, talk e mostre a ingresso libero. La rassegna dal titolo Novantadue prenderà il via sabato 5 marzo alle 11 in piazza delle Carceri con l’inaugurazione dell’opera “La Spirale della Vita” di Gianfranco Meggiato. L’opera è composta da 1400 sacchi di juta, ogni sacco è dedicato a una vittima innocente di mafi. Al centro della struttura la scultura “Il mio Pensiero Libero”, un bilanciato equilibrio metallico che si sviluppa verticalmente per quattro metri. L’installazione resterà in piazza fino al 24 marzo, il giorno in cui la rassegna terminerà. Ma ecco nel dettaglio tutto il programma. Sabato 5 marzo alle 11.30 è previsto un talk nella sala conferenze del Museo di Palazzo Pretorio con l’artista Meggiato; alle 17 nel salone consiliare del Comune un incontro con don Andrea Bigalli, giornalista, critico cinematografico e referente regionale di Libera. Domenica 6 marzo alle 17 apertura della mostra “La Guerra - una storia siciliana” del fotografo e fotoreporter Tony Gentile negli spazi di Officina Giovani in presenza dell’artista. Il reportage di Tony Gentile si compone di varie trame: le forze dell’ordine e della magistratura (con la celebre fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino); le vittime immortalate sotto bianchi teli o evocate nelle macerie di esplosioni; le manifestazioni contro la mafia, ma anche il quotidiano dei bambini che giocano o di un matrimonio. Nei giorni successivi Tony Gentile racconterà la sua mostra ai giovani delle scuole medie e superiori. La mostra resterà visitabile gratuitamente a Officina fino al 24 marzo, il 7, 8 e 9 marzo sarà possibile partecipare a visite-incontro con il fotografo. Info e prenotazioni staff@officinagiovani.it. Sempre il 6 marzo a Officina alle 18 andrà in scena lo spettacolo Omertà di e con Ivan Di Noia, regia di Romina Ranzato. Parlerà di quattro vite: Giovanni Falcone, Tommaso Buscetta, Michele Greco e Totò Riina. Al termine incontro con Angelo Corbo, superstite della strage di Capaci. Il 17 marzo alle 18.30 sarà la volta di Political Bar, lezione di storia tenuta da Matteo Albanese, docente di storia dei partiti e dei movimenti politici all’università di Padova, all’interno del Cargo - bar del Pecci. Ingresso gratuito su prenotazione tramite Eventbrite. Infine, sabato 19 marzo alle 17 in salone consiliare incontro con ospiti i segretari pratesi del 1992 di Pci, Dc e Psi. Cuneo. Le memorie dal sottosuolo di un “parroco” del carcere di Massimiliano Cavallo laguida.it, 21 febbraio 2022 Don Marco Pozza venerdì 25 febbraio al Cinema Teatro Don Bosco di Cuneo. Dopo la serata con gli sportivi, Fefé De Giorgi, Mauririzio Damilano e Aldo Baudino si tiene a Cuneo al Cinema Teatro Don Bosco un altro incontro speciale. Venerdì 25 febbraio arriva don Marco Pozza che racconterà la sua esperienza come cappellano (o meglio, come parroco, come dirà lui stesso) del carcere di Padova. La serata alle ore 21 ha un titolo che dice tanto “Memorie dal sottosuolo”. Il carcere è una delle realtà più difficili da avvicinare alla parola “sogno”, se non al concetto di sogno come fuga da una quotidianità opprimente. Don Bosco stesso, nel primo periodo della sua esperienza torinese, tentò di avvicinarsi a questa realtà, con il desiderio di portare conforto e luce ai giovani rinchiusi negli istituti di correzione. Ma ne ricavò una pena immensa e la convinzione che doveva agire prima del carcere, adoperarsi per eliminare le situazioni di povertà, bisogno e ignoranza che, allora come ora, spesso conducono le persone a gesti disperati. E allora perché partire dall’esperienza di chi il carcere lo vive tutti i giorni, per vocazione e per lavoro? Don Pozza parte dallo spunto che il carcere ci può offrire sul significato della caduta, dell’errore, del peccato e, soprattutto, della speranza di rinascita che è insita nella visione antropologica e teologica del Vangelo, che parla di un Padre Buono, pronto ad accogliere, senza negare la responsabilità, ma trasformando il desiderio di ritorno in vera rinascita. In Resurrezione. Il gennaio Salesiano 2022 è reso possibile anche grazie al sostegno degli sponsor, in particolare Olimac e La Guida. Per la serata del 25 febbraio il prezzo del biglietto d’ingresso è di 3 euro. È possibile prenotare il posto inviando una mail prenotazionidonbosco.cuneo@gmail.com con nome, numero di telefono e quantità di biglietti desiderati. Il Papa e il diritto al perdono di Enzo Bianchi La Repubblica, 21 febbraio 2022 Esiste un diritto al perdono? Ci facciamo questa domanda perché dopo l’intervista a Papa Francesco si è accesa una vivace discussione. Il Papa, pur consapevole di poter scandalizzare qualcuno, ha dichiarato di voler affermare una verità: “La possibilità di essere perdonati è un diritto umano, e tutti e ciascuno di noi se chiede perdono ha il diritto di ricevere il perdono”. Parole come pietre, e subito alcuni cattolici si sono ridestati dal loro letargo per rimproverare al Papa di aver assunto una posizione in contraddizione con la verità cattolica. Ma anche altri non conservatori si sono detti in disaccordo, negando che ci sia un dovere di perdonare e un diritto a ricevere il perdono essendo per-donum, cioè iper-dono, sempre una grazia mai meritata. Certamente il Papa in un’intervista non poteva dilungarsi, ma credo che le sue affermazioni meritino un approfondimento. Tra le parole di Gesù di scandalose ce ne sono molte, ma lo sono soprattutto quelle riguardanti l’amore per il nemico e il perdono per il male ricevuto. Nella nostra esperienza umana prima o poi conosciamo chi ci fa del male, chi ci fa soffrire, chi procura o infligge la morte, chi arriva a comportarsi da aguzzino verso gli altri. Quando il male ci raggiunge, chi ne risulta vittima non può automaticamente perdonare, né mutare il suo dolore in amore del nemico. Se si apre un cammino verso il perdono esso è lungo, lento e faticoso, con avanzamenti e regressioni, perché il perdono non è un’acquisizione definitiva. Gesù di Nazaret ha vissuto personalmente il perdono verso i nemici e ha chiesto ai suoi seguaci di seguirlo radicalmente in questo suo atteggiamento che non ricorre alla vendetta, ma cerca vie di misericordia e di perdono. È però significativo che Gesù non abbia voluto essere protagonista di tale perdono, ma lo abbia chiesto a Dio: “Perdona loro perché non sanno quel che fanno!”, e non ha detto: “Io perdono!”. Papa Francesco, parlando di un “diritto al perdono” quando viene richiesto non fa che ripetere l’insegnamento di Gesù: la certezza che Dio perdona sempre a chi gli chiede perdono, perché il perdono non si merita, si riceve su richiesta come un dono, ma può essere un diritto del figlio che lo chiede al padre che sa fare grazia e far vincere la misericordia sulla giustizia. Lo annunciavano già i profeti d’Israele: il perdono è un atto anticipato di Dio rispetto al pentimento di chi ha peccato. Questo significa che per i cristiani ricevere il perdono è un diritto, se lo chiedono a Dio, e che anche gli uomini e le donne, credenti e no, in un cammino di profonda umanizzazione possono percepire come un diritto il perdono quando è invocato da chi ha fatto loro del male. Perché solo il perdono redime, rialza chi ha compiuto un delitto, spezza la catena dell’odio e della vendetta, rigenera la relazione tra vittima e colpevole. Le scandalose parole di Francesco sul “diritto al perdono” sono profezia e urgenza anche per ogni cammino di umanizzazione. Fine vita. 150 “ostacoli” alla Camera: gli emendamenti frenano la legge di Giovanna Casadio La Repubblica, 21 febbraio 2022 Dopo lo stop della Consulta al referendum, i relatori del provvedimento provano a forzare la situazione. Superato il primo scoglio, la legge sul suicidio assistito ne ha oltre 150 ancora da affrontare. Tante sono le proposte di modifica, gli emendamenti, che rendono incerta la navigazione parlamentare del fine vita, nonostante la spinta che viene proprio dalla bocciatura da parte della Consulta del referendum sull’eutanasia. Non sarà questa la settimana cruciale, perché prima a Montecitorio ci sono da votare due decreti. I relatori della legge, il dem Alfredo Bazoli e il grillino Nicola Provenza ritengono però che entro i primi giorni di marzo sarà approvata in aula. “Ottimista? Lo sono cautamente. L’emendamento che voleva sopprimere tutto il testo, giovedì scorso è stato rispedito al mittente con una maggioranza ampia - 262 a 126 - benché con voto segreto e con molte assenze nelle file del centrodestra”, calcola Bazoli. Che è un cattolico democratico e avverte un solo grande rischio all’orizzonte: che gli otto articoli sul suicidio assistito siano strattonati e stravolti e si perda il punto di equilibrio raggiunto. La destra, con Fratelli d’Italia e Lega in testa, denuncia “la deriva eutanasica”. La sinistra e i radicali, promotori del referendum sull’eutanasia, giudicano la legge del tutto insufficiente e discriminatoria nei confronti dei malati terminali. Ma c’è una sentenza della Corte costituzionale del 2019 - dopo il caso di Marco Cappato che fu processato, e poi assolto, per avere aiutato DjFabo a morire - che ha fatto da corrimano al testo ora alla Camera. Riccardo Magi, tra i promotori del referendum, è convinto che alcuni punti vadano assolutamente cambiati: “Da cancellare il requisito in base al quale il suicidio assistito è possibile solo se si è attaccati a trattamenti sanitari di sostegno vitale. E i malati oncologici terminali? Si compie una discriminazione intollerabile”. Da +Europa-Azione perciò sono stati presentati emendamenti che riguardano l’omicidio del consenziente, quindi l’eutanasia, ma difficilmente saranno ammessi. Emma Bonino accusa: “Ho vissuto come un potente schiaffone immeritato l’inammissibilità della Consulta ai referendum su eutanasia e cannabis. Come in un flash, ho rivisto Welby, Coscioni, le loro famiglie”. Per la destra e per una parte del mondo cattolico, al contrario, il testo va reso più restrittivo, perché “non c’è un diritto alla morte”. Da cassare quindi il riferimento alla “condizione clinica irreversibile”, che allargherebbe le maglie rispetto a “patologia irreversibile”, raccomandato dalla Consulta. È l’articolo 3 a scontentare sia il leghista Roberto Turri che Magi, da fronti opposti. Critici anche gli ex grillini ora in “Alternativa”. Se il Pd ne fa una sua battaglia, anche i 5Stelle sono a favore. Divisi i renziani tra chi, come Lisa Noja e Lucia Annibali, sostengono il testo sul fine vita, e chi invece lo ritiene rischioso. Tanto che Italia Viva darà libertà di voto. Come probabilmente Forza Italia. I giallo-rossi alla Camera hanno la maggioranza, ma sarà poi in Senato la battaglia: Palazzo Madama è il porto delle nebbie dei diritti, il ddl Zan insegna. Fine vita. Il Parlamento trovi subito un punto di equilibrio, chi soffre non può aspettare di Enrico Letta La Repubblica, 21 febbraio 2022 Una politica fuori dal tempo, un Parlamento lontano dalla società. Nella rappresentazione della crisi dei partiti sempre più spesso, agli argomenti abusati dell’antipolitica, si accompagna una critica più fondata di scarso ancoraggio alla realtà. In effetti, tutto intorno cambia e si trasforma. La modernità fatica a entrare nell’agenda del legislatore e nell’inerzia i vuoti normativi si accumulano. È quanto sta avvenendo sul fine vita, su cui i partiti hanno la responsabilità di agire al più presto. Perché tanta impellenza? Perché c’è una pressione dall’alto, cioè la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 dopo il caso Cappato-Dj Fabo sul cosiddetto “suicidio assistito”. Ma anche perché c’è, e rimarrà forte, una spinta dal basso, specie dopo la bocciatura, da parte di quella stessa Corte, del quesito sull’eutanasia sostenuto da oltre un milione di cittadini. È vero: sono questioni non completamente sovrapponibili, ma entrambe investono il confine tra la vita e la morte; interrogano e mobilitano. Quanto a lungo vogliamo mortificare le aspettative di una società che sui diritti civili dimostra spesso di essere più matura ed esigente della propria classe dirigente? Si è detto: “Ora spetta al Parlamento”. È così, compete alla politica scegliere e io ritengo che ci siano le condizioni per farlo con equilibrio e con la massima condivisione possibile. L’importante è che si sgombri il confronto da ogni polarizzazione tossica. Siamo chiamati a deliberare sull’autodeterminazione della persona e sulla sofferenza intima dell’essere umano in quanto tale. Esiste qualcosa di più universale? Credo di no. Con la stessa convinzione penso che nessuno - a destra o a sinistra, tra i laici o i cattolici - possa onestamente dirsi immune dal dubbio e non avvertire sulle proprie spalle il dovere di intervenire su un bisogno così urgente e lacerante. Un peso su cui, nello stesso mondo cattolico, anche voci autorevoli come quella di “Civiltà Cattolica”, si sono espresse, leggendo il fenomeno nella sua corretta angolatura storica. Se ne discute in tutte le democrazie avanzate. Lo fanno i Parlamenti, lo fanno, come in Germania o in Austria, i supremi organi giurisdizionali. Ovunque, a toccare le coscienze, in parallelo con l’evoluzione della sensibilità collettiva sul tema, è l’impatto dei progressi della scienza medica sulla vita e anche sulla morte dei cittadini. La tecnologia allunga l’esistenza sì, ma nello stesso tempo determina un aumento esponenziale, inipotizzabile anche solo venti o trent’anni fa, di persone in condizioni drammatiche. Quanto in là può spingersi il limite? E come conciliare la tutela del diritto alla vita con quello, altrettanto dirimente, a una morte dignitosa? Sono dilemmi etici e politici. E l’unico modo per scioglierli, senza sconfinare indebitamente fuori dall’ambito circoscritto dell’intervento statuale, è muoversi dentro il perimetro delimitato dalla Costituzione e dalle indicazioni della Consulta. È su questa base che si fonda la proposta di legge sulla morte medicalmente assistita promossa da Alfredo Bazoli e Nicola Provenza. Le condizioni per la depenalizzazione del reato di aiuto al suicidio sono molto stringenti: la presenza di una malattia irreversibile e di sofferenze intollerabili, l’accertamento dei trattamenti di sostegno vitale, l’esperienza provata di un percorso di terapia del dolore e cure palliative. E poi un prerequisito non negoziabile: il libero arbitrio. Vale a dire la capacità del malato, verificata oltre ogni dubbio, di assumere una scelta libera e consapevole. Tutto questo a tutela dei più fragili e vulnerabili, delle persone sole o anziane, di chi per le ragioni più disparate può essere condizionato dalle pressioni di soggetti terzi e non disinteressati. È una proposta equilibrata, suscettibile di miglioramenti. Una legge perfettibile che prova, con la gradualità necessitata dalla complessità della materia, a colmare quel vuoto normativo, come già è avvenuto con il testamento biologico o con la sedazione palliativa profonda. Tutte conquiste ottenute grazie alla spinta di opinione pubblica e movimenti, a partire da quello radicale, e che oggi sono diffusamente accettate come virtuose. A dimostrazione che il diritto non è immobile e che le leggi migliori sono quelle che sanno sapientemente conformarsi all’evoluzione della società e dei suoi bisogni. La proposta non deve essere una bandiera di parte. Dopo due anni di emergenza sanitaria, dopo che la malattia ha permeato ogni aspetto della nostra quotidianità e del dibattito pubblico, dopo oltre 150 mila vittime e tanto dolore e incertezza, il Paese ha bisogno di tutto fuorché di uno scontro di civiltà sulla vita e la morte. E se l’iniziativa, arricchita dal dialogo e dal contributo costruttivo di tutti i partiti, riesce ad alleviare un po’ di quel dolore e a portare meno incertezza, tutti insieme avremmo concorso a ricucire uno strappo profondo con l’opinione pubblica. E a rafforzare la dignità del Parlamento e di chi vi siede, in rappresentanza della sovranità della nazione. Ci sono obiezioni, molte legittime. Per alcuni, i contrari al referendum, è troppo; per altri, i promotori, è troppo poco. Ne sono consapevole. Ma l’esclusione da parte della Corte del quesito obbliga ad un’unica via, quella parlamentare. E in un Parlamento come quello attuale, senza una chiara maggioranza politica, non può che trovarsi un punto di equilibrio tra posizioni diverse. Altrimenti, oltre alle polemiche, a continuare saranno solo le sofferenze, insieme alla perdita di credibilità della politica tutta. Noi non ci rassegniamo e non ci rassegneremo mai a questo scenario. Perché prima di tutto vengono le persone. Coi loro drammi e il loro dolore”. Scuola, sei riforme necessarie di Andrea Gavosto* La Repubblica, 21 febbraio 2022 Se non andranno in porto, sarà impossibile recuperare i ritardi di apprendimenti che penalizzano gli studenti italiani rispetto ai coetanei europei. Recupero che appare tanto più necessario, alla luce delle perdite che la pandemia e troppi mesi di lezioni a singhiozzo hanno causato a ragazze e ragazzi, mettendone a rischio il futuro. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione straordinaria di miglioramento della scuola italiana: non solo per gli ingenti investimenti previsti, soprattutto in edilizia, asili e scuola dell’infanzia, ma anche attraverso le sei riforme che il governo si è impegnato a realizzare: reclutamento e formazione dei docenti, carriera, orientamento, riorganizzazione del sistema scolastico, istituti tecnici e professionali e Istituti tecnici superiori. Queste riforme sono essenziali per due ragioni. La prima è che, se non andranno in porto, sarà impossibile recuperare quei ritardi di apprendimenti che penalizzano gli studenti italiani rispetto ai loro coetanei europei. Recupero che oggi appare tanto più necessario e difficile, alla luce delle gravi ulteriori perdite che la pandemia e troppi mesi di scuola a singhiozzo hanno causato a ragazze e ragazzi, mettendone a rischio il futuro. Ricordo un solo dato: nel 2021 uno su due è arrivato all’esame di maturità senza un livello sufficiente di competenze. La seconda ragione è che la realizzazione delle riforme è condizione perché siano erogate le prossime tranche di finanziamento: se non si faranno, potremo dire addio alle risorse che l’Unione Europea sta raccogliendo sui mercati per noi, con conseguenze facilmente immaginabili. Purtroppo, dei contenuti del riordino della scuola si sa molto poco, a cominciare dai nuovi meccanismi di formazione iniziale e assunzione dei docenti delle scuole secondarie, che il ministro Bianchi ha annunciato per giugno. Si tratta della “madre” di tutte le riforme: la qualità dell’insegnamento dipende infatti da come i docenti sono formati e selezionati. Oggi, dopo il disastroso intervento del ministro Bussetti nel 2019, l’unico requisito richiesto ai futuri insegnanti è la laurea magistrale più 24 miseri crediti universitari in materie psicopedagogiche. La conseguenza - lo dicono loro stessi nelle indagini internazionali - è che i nostri docenti conoscono la disciplina, ma spesso non sanno insegnarla, privi come sono di preparazione didattica: teorica, ma soprattutto pratica. Quali i nodi su cui è urgente accelerare? A mio avviso, il momento dell’abilitazione all’insegnamento, a seguito di una verifica severa delle capacità professionali, deve essere distinto da quello dell’assunzione. Che l’abilitazione definisca un diritto all’assunzione, al netto dei bisogni delle scuole - com’è avvenuto in questi anni - è un’anomalia da superare. La domanda più importante, tuttavia, riguarda quale formazione vogliamo che ricevano i professori. Se la si penserà nel segno di una maggiore qualità didattica - ad esempio affiancando frequenti tirocini in aula allo studio delle metodologie - anche la scelta di un nuovo sistema di reclutamento diventerà più facile. Per il momento, però, è emersa solo l’intenzione di ampliare i crediti formativi a 60, equivalenti a un anno di università, ma si ignora se avverrà nell’ambito di una laurea abilitante o di un master, se l’accesso sarà a numero chiuso, come si valuteranno le competenze a fine del percorso, ecc. I convitati di pietra della riforma sono le università: oggi, come dimostra il caso degli insegnanti di sostegno, non sembrano in grado di formare, soprattutto dal punto di vista pratico, un numero di docenti adeguato alle esigenze dei territori e delle diverse materie. Né hanno grandi incentivi a farlo. Il rapporto fra scuola e università nella formazione iniziale deve dunque cambiare: ma non è il solo. Per attrarre i migliori laureati nella scuola, occorre intervenire anche sugli altri tasselli previsti dal Pnrr, a partire dalle carriere, dalla formazione in servizio e da un livello retributivo adeguato. *Direttore della Fondazione Agnelli La generazione consapevole di Stefania Auci La Stampa, 21 febbraio 2022 Guardando i ragazzi dell’età dei miei figli e quelli che trovo a scuola, mi rendo conto che sono molto più solidi di quanto noi adulti possiamo immaginare: mi sembrano, soprattutto, più responsabili, attenti e consapevoli di quello che ci circonda, di come s’evolve il nostro presente, e di cosa il futuro li interpella a fare. Si sono caricati da soli un senso di responsabilità che per noi è del tutto sconosciuto, o forse semplicemente smarrito. Noi che eravamo ragazzi negli anni Novanta, abbiamo sperimentato l’abbandono e il disamore per la politica e per tutto quello che aveva a che fare con l’impegno sociale: siamo il precipitato negativo di quella grande, opaca stagione che è stata Mani Pulite: il disamore, il disgusto per la cosa pubblica e la cosa politica, che veniva vista come fonte di ogni male, oggi ci pesa particolarmente addosso, ed è evidente soltanto adesso quanto ci ha formati e condizionati. Invece, questi ragazzi hanno uno spirito completamente diverso, è come se alle loro spalle non ci fossimo stati noi: non hanno ereditato le nostre ombre, i nostri scetticismi, le nostre disillusioni. Mi ritrovo molto nelle parole di Nicola Lagioia su questo giornale, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione che i giovani hanno ai temi sociali, che li toccano più da vicino di quanto siamo in grado di renderci conto. Non dimentico il modo appassionato in cui hanno partecipato alle proteste contro il respingimento del decreto legge Zan e, più in generale, la grande attenzione che stanno dimostrando da molto tempo per il clima, la sostenibilità della nostra esistenza su questo pianeta - fronti sui quali noi adulti abbiamo fatto e continuiamo a fare ben poco. I ragazzi li vediamo legati ai social network, attaccati alla conoscenza e all’interscambio legati esclusivamente a internet, ma dovremmo mettere da parte questo che è ormai un pregiudizio mal invecchiato e non più confortato dalla realtà. La nostra non è che spocchia: anzi, è cecità. Dovremmo invece ammettere che ci troviamo davanti a una generazione che, se pure non si impegna sul fronte politico nelle sezioni dei partiti, ha trovato altri luoghi di scambio: online, i ragazzi organizzano manifestazioni di piazza e dimostrano così di essere consapevoli dei loro diritti e di voler lottare per difenderli. Quali diritti? Anche questo è interessante: hanno a cuore lo stare bene per se stessi e poi insieme agli altri. Difendono il singolo perché il singolo è la manifestazione della collettività, dell’altro. Lo fanno oggi, dopo il periodo di grandi chiusure che c’è stato: non era affatto scontato. Sappiamo quanto hanno sofferto, eppure la risposta che arriva dalle piazze è quella di una generazione che non si è arresa, o annichilita o spenta. È una risposta di enorme vitalità, che dovrebbe farci rallegrare e gioire perché segnala non soltanto che la pandemia e il lockdown hanno acceso un moto di riappropriazione della propria vita, ma pure che questi ragazzi stanno prendendosi il loro posto nello scenario del mondo: stanno scegliendo le battaglie da combattere e il modo in cui combatterle. E lo stanno facendo insieme, impegnandosi in prima persona. Per me, è un gesto di grandissima intelligenza e maturità. Hanno dimostrato di avere a cuore gli interessi della collettività: sono stati i primi a vaccinarsi con più rapidità rispetto a tanti adulti che continuano a nicchiare parlando di fantomatici complotti. Forse per un meccanismo di opposizione e sottrazione, si stanno rilevando migliori di quello che noi siamo: non dobbiamo permetterci di giudicarli. Non dovremmo pensare nemmeno lontanamente di tarpare le ali dei loro desideri e anzi dovremmo imparare da loro, con molta serietà. Gli insegnanti, da quello che vedo, sono ancora attoniti: credo sia perché hanno bisogno di rientrare nei ranghi di un determinato tipo di didattica e, più in generale, di un determinato tipo di quotidianità. Molti altri, per fortuna un numero sempre crescente di colleghi, si stanno rendendo conto che questi ragazzi stanno avendo uno scatto di orgoglio, attivato da quel senso di responsabilità e coscienza che mancava da tanto nei giovani e che la scuola si è sempre ripromessa di infondere. Alcuni accolgono questo ennesimo stravolgimento con scetticismo, altri con autentica fiducia. È un atteggiamento estremamente variegato però utile: serve a far capire che, finalmente, si può sfatare la credenza che ha segnato gli ultimi trent’anni, in base alla quale i ragazzi sono poco interessati e poco coinvolti dalla cosa pubblica, probabilmente perché la cosa pubblica li ha disamorati. Tutto smentito. E con che potenza. Una cosa su cui mi preme ancora insistere è che le battaglie che portano i ragazzi nelle piazze, proprio a ridosso dei nostri mugugni (ricordate quando li accusavamo di condurre proteste seduti sul divano dai loro smartphone?), non hanno un’egida politica: hanno a che fare con il benessere collettivo e del singolo; il benessere personale che passa attraverso il riconoscimento sessuale; il benessere collettivo che passa attraverso il riconoscimento e la valorizzazione di tutto ciò che ha che fare con la sostenibilità; l’accoglienza quindi anche l’integrazione: valori trasversali che non si sposano e non si legano con nessuna lotta partitica. Se sia rivoluzione non lo so, ma di certo è uno spettacolo magnifico e sì, anche una grande lezione. La crisi in Ucraina e il fronte dell’Est di Ezio Mauro La Repubblica, 21 febbraio 2022 L’Occidente riscopre la sua frontiera orientale e la vede armata, minacciosa, ostile. La Russia (con un’eco che arriva fino in Cina) parla ai nuovi sovrani delle democrature, ma anche ai despoti democratici dell’Europa di mezzo, respingendo per tutti la religione civile occidentale, trasformata in regole a Bruxelles. Dopo che sembrava bandito dal secolo nuovo, come se non riuscisse ad attraversarne la soglia, l’Est ritorna a segnare la nostra vita, contendendoci lo spazio e il tempo in una disputa infinita che si rinnova. Nell’età dell’immateriale e del globale, quando tutto è ubiquo e contemporaneo, l’Occidente riscopre all’improvviso la sua frontiera orientale e la vede armata, minacciosa, ostile. Fondato per tutta l’epoca della Guerra fredda sulla pietra e sul filo spinato del Muro di Berlino, il concetto geopolitico di Est pareva incapace di sopravvivere alla caduta di quella barriera armata e alla distruzione di quel punto simbolico da cui cominciava la divisione del mondo. Devitalizzato politicamente, svuotato di una soggettività sovrana, neutralizzato nella sua dimensione imperiale, ciò che restava della raffigurazione storica dell’Est veniva restituito alla funzione tecnica di punto cardinale, orizzonte dove sorge la luce del sole, per illuminare avanzando l’Occidente egemone: il cui sistema di credenze - la democrazia - aveva infine vinto, sconfiggendo i due totalitarismi nati nel cuore dell’Europa. Storia e geografia si sono invece ribellate insieme, rivendicando un ruolo per l’Est e riportandolo al centro della scena. E l’incarnazione dell’altra parte del mondo ancora una volta è la Russia, il “nemico ereditario” dell’Europa di cui è parte, il principio antagonista che porta in sé la sfida perpetua di una maestà concorrente, il pretendente imperiale che riemerge. Dunque non era la sovrastruttura bolscevica e leninista il fondamento dell’alterità di Mosca rispetto all’Ovest, ma l’autoscienza della Russia affondata nei secoli, il suo carattere nazionale perpetuamente dilatato oltre i suoi confini, umiliato e renitente quando il nuovo disegno del mondo lo spingeva a rientrarci. Sembrava impossibile che dopo il collasso del gigante sovietico il Cremlino riuscisse in così breve tempo a ricostruire una tecnica del potere capace di riconquistare il rango perduto. E soprattutto a riarmare una struttura ideologica in grado di concepire e legittimare una pretesa di autorità sovranazionale, anche sotto forma di arbitrio e sopruso. Si può comprendere tutto questo solo se si accetta l’idea che Putin ha riportato la Russia a incarnare nuovamente la dimensione alternativa dell’Est, indipendentemente dal suo mandato politico e dalla sua dimensione territoriale. È uno spirito, un’ambizione, anzi un’obiezione concorrente all’Occidente, a cui la Russia rilancia la sfida a nome dell’Est. Come all’inizio della Guerra fredda, dove la geografia diventava politica, anzi si tramutava in ideologia, tanto che quando Jurij Gagarin il 12 aprile 1961 portò la supremazia sovietica nello spazio volando come primo uomo nel cosmo, il Cremlino lanciò un segnale preciso al mondo battezzando la navicella che aveva compiuto un’orbita terrestre con il nome “Vostok”: Oriente. Non c’è dunque soltanto un’ossessione difensiva di sicurezza nella pretesa di Putin di ricreare intorno alla Russia un’area d’influenza che tenga a distanza i missili e gli uomini della Nato. C’è l’inseguimento della dimensione imperiale su cui in realtà si regge il patto autoritario tra ogni Capo del Cremlino e il suo popolo, perennemente orfano e pretendente di quell’aura di potere sovrano allargato: o per estensione territoriale, o per egemonia politica, o per preminenza culturale, o addirittura per destino della storia. Quel mandato che diventa missione assegnata dalla Russia a se stessa, rispondendo nel caso dell’Ucraina a una vocazione naturale e a un vincolo metafisico che Putin non ha avuto esitazione a definire “spirituale”. Tocca così a Putin, dopo 21 anni di esercizio del potere, cercare la soluzione alla “più grande tragedia geopolitica del ventesimo secolo”, come ha definito la dissoluzione dell’Urss. Quell’impero, costruito nel fuoco della rivoluzione e consolidato nel ferro della guerra, non si può certo ricostruire nell’epoca attuale. Ma si può richiamare la sua maestà e recuperare la sua funzione, proiettando fino ad oggi l’orgoglio della superpotenza, prima che scoprisse di avere i piedi d’argilla. Quest’opera, che tecnicamente è una vera e propria restaurazione, negli ultimi anni è stata avviata fuori dalla dimensione spaziale e territoriale, cercando nell’anima della Russia le ragioni di una diversità insopprimibile e le energie eterne per rilanciare la sfida, nel rifiuto dell’antica maledizione per cui i popoli slavi hanno sulla terra un posto più ampio che nella storia. Poi è arrivato il momento della pretesa territoriale e della messa in discussione dei confini. Tre anni fa era stato proprio Putin a denunciare la tabula rasa di regole condivise e accettate dopo il periodo della Guerra fredda, quando “c’erano almeno alcuni criteri che tutti i membri della comunità internazionale seguivano o tentavano di seguire”. Oggi è lui che approfitta di quel vuoto e della mancanza di un disegno del mondo condiviso, anche tra avversari: se manca un canone di controllo dell’ordine mondiale, allora tutto può tornare in revoca, ogni punto è mobile e provvisorio, compresi i confini, e l’unica egemonia è quella della forza. Un ridisegno del mondo non può tuttavia avvenire soltanto per mano degli eserciti. Il nuovo ordine ha bisogno di una nuova gerarchia di valori. E Putin ha cominciato nel 2019 a corrodere il principio democratico, unico metro di misura superstite dopo la fine della distorsione ideologica del Novecento, sostenendo che “la cosiddetta idea liberale è obsoleta, è entrata in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, ha esaurito il suo scopo. Per milioni di persone - ha aggiunto - i valori della tradizione sono più stabili e più importanti di questa concezione liberale che sta morendo”. È un attacco alla democrazia e allo Stato di diritto denunciati come pure creazioni occidentali, respinti come principi universali. Ed è anche una rivendicazione di pari legittimità per la pratica autoritaria, una patente autoconcessa di libero dispotismo. L’Est trova qui il nuovo e ultimo fondamento della sua differenza che si fa alterità, ancora una volta: lo schema concettuale e morale con cui l’Occidente vincitore è entrato nel nuovo secolo viene ribaltato e rifiutato, i suoi dividendi politici non sono automatici ma illegittimi, la sua ragione storica è debole perché le società democratiche sono palesemente in crisi e il neo-autoritarismo è un’alternativa di semplificazione e di forza. La Russia dunque (con un’eco che arriva fino in Cina) parla ai nuovi sovrani delle democrature, ma anche ai despoti democratici dell’Europa di mezzo, respingendo per tutti la religione civile occidentale, trasformata in regole a Bruxelles. E negando che il bene e il male, oggi - a partire dalla pressione russa sulla frontiera ucraina - si possano separare e misurare con i parametri dell’Ovest. Poi sarà la realpolitik del momento a decidere l’esito di questa pressione militare e politica: la guerra o un accordo per un nuovo sistema di garanzie. Ma quel che conta, oggi, è che un confine è già stato spostato, culturale, concettuale, morale nel senso politico del termine, approfittando della dispersione identitaria dell’Occidente davanti all’Est che ritorna. Tutto il resto Putin lo giocherà sul crinale sottile tra il cinismo e l’azzardo. D’altra parte ha ricordato una volta l’insegnamento di un proverbio russo: “Chi non si prende rischi, non beve champagne”. Congo. Chiuse le indagini sulla morte di Luca Attanasio: “I rapitori volevano 50mila dollari” di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 21 febbraio 2022 Per la procura di Roma si è trattato di un rapimento a scopo di estorsione finito male. “Volevano 50mila dollari altrimenti ci avrebbero portato nella foresta. Ma noi quei soldi non ce l’avevamo”. Se un movente si cercava, nell’assurda morte del nostro ambasciatore in Congo, Luca Attanasio, e del carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci - uccisi un anno fa, il 22 febbraio, lungo la strada tra Goma e Rustshuru, mentre tornavano dalla visita a un villaggio organizzata dal Pam, l’agenzia alimentare dell’Onu - la procura di Roma lo ha trovato: 50mila dollari, un rapimento a scopo di estorsione finito male. Se invece si cerca una spiegazione - a leggere gli atti della chiusura indagini che vedono indagati due dirigenti del Pam - quella invece va trovata nella lunga catena di errori ed omissioni, sette individuati dalla stessa Onu, che hanno lasciato il nostro ambasciatore e il carabiniere senza l’adeguata sicurezza. Anche perché, come ammette lo stesso Rocco Leone, il dirigente del Pam indagato a Roma, le carte non erano in regola. “Il nome dell’ambasciatore - dice - non era nei documenti di viaggio”. Se ci fosse stato, le modalità di sicurezza sarebbero state diverse: utilizzare per esempio quella macchina blindata rimasta in garage. “Il viaggio - racconta al procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco e ai carabinieri del Ros, Mansour Rwagaza Luguru, l’altro funzionario Pam indagato - stava procedendo bene. Quando siamo arrivati a Kibumba, in una località che si chiama Trois Antenne, sono usciti bruscamente dalla foresta sei soggetti: 4 armati di Ak-47 e 2 di machete. Uno di questi ha puntato l’arma e l’altro ha sparato. Gli assalitori ci hanno intimati di consegnare i soldi e così facendo ci avrebbero lasciati. Gli ho risposto che non ne avevamo, che noi eravamo quelli che distribuiscono il cibo alle popolazioni. Volevano 50mila dollari altrimenti ci avrebbero portati via nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto”. Il congolese raggiunge il veicolo su cui viaggiava l’ambasciatore e Leone. “Ho spiegato a Rocco che era una rapina. Siamo scesi e siamo stati oggetto di una perquisizione. Dopodiché ci hanno detto di avanzare nella foresta. Quando abbiamo cominciato il percorso, gli assalitori si sono agitati: la popolazione era accorsa e aveva cominciato a gridare e venire verso di noi. Ci chiedevano di correre veloci, la foresta era difficile da penetrare e correre. Siamo caduti spesso. Ci spingevano per andare sempre più veloci e sparavano in aria perché la popolazione urlava (...) A circa 2 chilometri ho sentito degli spari diversi dall’Ak 47 (...) Gli assalitori hanno cominciato a rispondere al fuoco (...) Erano totalmente nel panico perché hanno capito che era l’esercito (...) Poi c’è stato un minuto di silenzio ed è successo il peggio (...) Il Carabiniere si è alzato e ha provato a sollevare l’ambasciatore dalla cintura”, come a fargli da protezione. “Ho visto che gli assalitori sparavano contro la guardia del corpo e l’Ambasciatore, hanno tirato quattro colpi contro di loro”. Iacovacci è morto sul colpo. Attanasio qualche ora dopo, mentre lo portavano in ospedale.