Giustizia ma anche libertà di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 febbraio 2022 Nella campagna per il voto sulla separazione delle funzioni fra pm e giudici si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato. Le due seguenti citazioni, tratte da Montesquieu, potrebbero ispirare le scelte di una parte dei cittadini italiani nella prossima campagna referendaria. Scrive Montesquieu: “È però un’esperienza eterna che ogni uomo il quale ha in mano il potere, è portato ad abusarne, procedendo fino a quando non trova dei limiti”. Ne consegue che “bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere”. Frasi che risalgono al Settecento ma che oggi possono aiutarci a capire perché il referendum sulla giustizia simbolicamente più importante - anche se gli effetti pratici si manifesterebbero solo nel lungo periodo - sia quello sulla separazione delle funzioni fra giudici e pubblici ministeri. Separazione delle funzioni, non (ancora) delle carriere. Ma sarebbe comunque un primo, significativo passo in quella direzione. Proviamo a sollevarci al di sopra delle polemiche contingenti. In trent’anni di conflitti fra magistratura e politica gli argomenti usati da una parte e dall’altra sono sempre gli stessi. Molti di noi li conoscono tutti a memoria. Consideriamo piuttosto le “filosofie” che si scontreranno sulla separazione delle funzioni, proviamo a rendere esplicito ciò che altrimenti resterebbe implicito, inespresso. In quella campagna referendaria si confronteranno due visioni antitetiche del ruolo dello Stato in una democrazia. Possiamo chiamarle la concezione paternalista e la concezione liberale. Sgombriamo il campo da un falso problema. Ci saranno, come è inevitabile, molte esagerazioni polemiche da una parte e dall’altra. C’è chi dirà che se passasse la separazione, per la giustizia italiana sarebbe una catastrofe e c’è chi dirà che finalmente avremo, di colpo, un ottimo sistema di giustizia rispettoso delle libertà dei singoli. Niente di tutto questo. All’inizio, e probabilmente per un lungo periodo, non cambierebbe nulla. Né nei comportamenti dei pm né in quelli dei giudici. Proprio perché separare le funzioni non è ancora separare le carriere. Pm e giudici continuerebbero ad essere governati dallo stesso Consiglio superiore della magistratura, a fare parte delle stesse correnti, ad essere rappresentati dallo stesso sindacato, eccetera. Nel lungo periodo, però, qualche cambiamento ci sarebbe. Anche se lentamente, molto lentamente, muterebbero le mentalità. Si modificherebbero, per cominciare, gli atteggiamenti del pubblico, finirebbe la pessima abitudine di chiamare “giudici” i procuratori (con il terribile effetto pratico di scambiare gli atti delle procure per sentenze e tanti saluti, nella consapevolezza generale, alla presunzione di non colpevolezza). Alla fine costume e prassi giudiziarie si adeguerebbero. E forse l’effetto finale sarebbe una vera e propria separazione delle carriere. Ma, appunto, ciò non si realizzerebbe dalla sera alla mattina. Ci vorrebbe tempo, molto tempo. Tuttavia, intorno a questo referendum più che agli altri si giocherà una partita decisiva per il futuro della democrazia italiana. Con questa prova referendaria decideremo se tutelare la libertà del cittadino sia altrettanto importante che assicurare alla giustizia i colpevoli di reati, decideremo in sostanza se ci interessa vivere in una autentica democrazia liberale oppure se, per perseguire altri nobili scopi (colpire la corruzione o la criminalità organizzata o altro) siamo disposti a sacrificare certe garanzie di libertà. Non c’è soltanto la strada scelta dall’Ungheria di Orbán. Ci sono molti e diversi modi per rendere illiberale una democrazia. Gli argomenti usati da coloro che difendono l’unità delle funzioni (e quindi anche delle carriere) sono chiari. Essi dicono che, proprio allo scopo di tutelare meglio il cittadino, occorre che il pubblico ministero partecipi di quella che essi chiamano la “cultura della giurisdizione”, ossia che egli non sia distante, professionalmente e culturalmente, dal giudice. In controluce si scorge una concezione paternalistica dell’amministrazione della giustizia (e quindi anche della democrazia). È il pm che operando senza essere limitato da forti contrappesi, contempera, grazie alla sua cultura e alla sua professionalità, il perseguimento dei reati e la tutela delle libertà costituzionalmente garantite. La concentrazione del potere che si è realizzata a causa dell’unità delle carriere, per i sostenitori di questa tesi, non è affatto un pericolo. La salvaguardia per tutti è data, in sostanza, dalla professionalità del pubblico ministero. La tesi opposta è di chi, d’accordo con Montesquieu, pensa che la libertà sia tutelata quando, e solo quando, a un potere se ne contrappone un altro, quando le prerogative dell’uno sono bilanciate dalle prerogative di un altro, quando “il potere frena il potere”. Se il pubblico ministero è solo l’avvocato dell’accusa con pari peso e dignità rispetto all’avvocato difensore e il giudice è davvero “terzo” non per buona volontà o per gentile concessione ma perché glielo impone l’assetto proprio dell’organizzazione giudiziaria, allora, e solo allora, è sperabile che l’amministrazione della giustizia si avvicini almeno un po’ a un antico ideale, che diventi possibile perseguire i reati senza passare come rulli compressori sulle libertà costituzionalmente garantite. Non è dalla “benevolenza” del pubblico ministero che dobbiamo aspettarci il rispetto di quelle libertà, è da un sistema di “pesi e contrappesi” ben funzionante. Ciò che l’unità delle carriere, come si è potuto constatare in tutti questi anni, non è stata in grado di assicurare. Ci sarà pure una ragione per la quale, con le sole eccezioni di Italia e Francia, la divisione delle carriere sia la regola in tutte le democrazie liberali. Separando le funzioni cominceremmo a incamminarci su quella strada. Magari il Parlamento che, diciamolo, negli ultimi tempi non ha sempre dato brillanti prove di sé, ci sorprenderà. Magari il referendum sulla separazione decadrà perché il Parlamento riuscirà a fare una buona legge ispirata al principio liberale sopra evocato. Forse arriverà un giorno in cui avremo un giudice compiutamente “terzo”, al di sopra dell’accusa e della difesa, grazie alla scomparsa dei legami organizzativi fra giudici e pubblici ministeri. E i pubblici ministeri, a loro volta, dovranno fare i conti con un forte potere controbilanciante. Secondo le regole, sempre faticose e difficili, da cui dipende la tutela delle libertà. Referendum. Il boomerang di Amato, nel metodo e nel merito di Franco Corleone Il Manifesto, 20 febbraio 2022 Se fosse vero l’assunto della Consulta, che l’art. 1 non riguarderebbe la canapa, le decine di migliaia di processi e le incarcerazioni di massa sarebbero state un abuso. La crisi delle Istituzioni pare davvero avviata verso il baratro. La scelta di Giuliano Amato di illustrare in una inusuale conferenza stampa i motivi della bocciatura da parte della Corte Costituzione dei referendum su eutanasia e cannabis, quelli su cui due milioni di persone, uomini e donne consapevoli e tanti giovani, avevano creduto, in un tempo assai breve si rivelerà un boomerang. Per il metodo e per il merito. È davvero stravagante accusare i comitati promotori di avere raccolto le firme su un titolo truffaldino e addirittura di avere sbagliato i quesiti. Il titolo è deciso dalla Cassazione e per quanto riguarda la scelta delle abrogazioni di alcune disposizioni della legge antidroga rivendico la assoluta puntualità del quesito. Andiamo con ordine. Intervenire con lo strumento referendario su un testo complicato come il Dpr 309/90 non è semplice. Va detto per prima cosa che quella legge proibizionista voluta da Bettino Craxi, convinto dalla scelta punitiva degli Stati Uniti segnò il tradimento della tradizione laica e libertaria dei socialisti come Loris Fortuna, è ignobile e rappresenta una vergogna (un vero crimine averla fatta firmare a un giurista come Vassalli). Durante la discussione in Senato molte voci si levarono per condannare una brutta legge e Paolo Volponi ricordando Cesare Beccaria deprecava un furor sanandi che vale ancora oggi rispetto alle paure manifestate paternalisticamente sulle conseguenze del referendum. Nella mia relazione di minoranza ero facile profeta a denunciare le conseguenze nefaste della repressione, che si manifestarono con tragedie individuali e con l’esplosione delle presenze in carcere. Nel 1993 un referendum popolare cancellò le norme manifesto (drogarsi è vietato) e le norme più repressive. Dove era Amato? Certo non la pensava come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli. Nel 2000 io ero sottosegretario alla Giustizia e lavoravo pervicacemente per una riforma di quella legge elaborando testi che purtroppo rimasero nei cassetti. Nel novembre si svolse a Genova la Conferenza nazionale sulle droghe che si caratterizzò per l’intervento memorabile di Umberto Veronesi, ministro della Sanità. Una grande lezione a favore della distinzione fra le sostanze stupefacenti e della smitizzazione dei danni della cannabis che fece indispettire il Presidente del Consiglio Amato che boicottò il confronto non presenziando alla conclusione (Livia Turco ricorda bene quell’affronto!) e definì la relazione di Veronesi come il contributo tecnico di un tecnico. Una delegittimazione che fa il paio con l’insulto, falso, rivolto ai promotori del referendum a ventidue anni di distanza. Ma la bulimia della caccia alle streghe indotta dalla war on drugs si realizzò con l’approvazione truffaldina nel 2006 di un decreto legge noto come legge Fini-Giovanardi che aveva come motto “la droga è droga” equiparando tutte le sostanze in una unica tabella e punendo la detenzione con il carcere da sei a venti anni. Nella raccolta dei Codici la legge antidroga è riportata con il testo della Fini-Giovanardi, cancellata nel 2014 come incostituzionale e solo in nota viene riportato il testo vigente che è quello risuscitato del 1990. La questione è semplice e anche gli assistenti della Consulta possono comprenderlo: il primo comma dell’art. 73 che è il cuore della legge e prevede le sanzioni penali per le violazioni, elenca 17 (sic!) condotte illecite, la prima è la coltivazione che noi cancellavamo per rispondere positivamente alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha stabilito non punibile la coltivazione domestica della cannabis. Punisce con la reclusione da sei a venti anni le violazioni legate alle cosiddette droghe pesanti. Le pene per le violazioni relative alle droghe leggere sono indicate nel comma 4 con la pena da due a sei anni di carcere e sono richiamate le condotte descritte nei commi 1, 2 e 3. Questo è il legame presente nella legge e cancellando la pena detentiva per la cannabis ci si è rifatti alle condotte del comma 1 che riguardano tutte le sostanze. Se fosse vero l’assunto di Amato che l’art. 1 non riguarderebbe la canapa, saremmo di fronte a un fatto enorme: le decine di migliaia di processi e le incarcerazioni di massa sarebbero state un abuso. La sottigliezza gioca davvero scherzi paradossali. Che fare ora? Continuare nel nome di Arnao e di don Gallo la battaglia per il cambiamento come in Uruguay, in Canada e in California. Ma per la democrazia e lo stato di diritto occorre riportare la Corte Costituzionale nell’alveo del rispetto dell’art. 75 della Costituzione con criteri precisi senza straripamenti per l’ammissibilità dei referendum e senza entrare abusivamente nel merito e nella legge di risulta. Sarebbe ora anche di prevedere la dissenting opinion. Chi pensava di ridurci al silenzio, ha fatto male i conti. Referendum. Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti di Francesco Damato Il Dubbio, 20 febbraio 2022 Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che - quasi illuminando l’altra faccia della luna - potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario? Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio. Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica. Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso. Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo - si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello - per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado. Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà. Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di “Mani pulite”, con tutti gli effetti che ne sono derivati, “fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra”, testuale. Bazoli (Pd): “Referendum sopravvalutato, meglio approvare la riforma dell’ordinamento” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 febbraio 2022 Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia e relatore della legge sul suicidio assistito, sui referendum della giustizia spiega che “se proseguiremo in modo rapido all’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, due o anche tre quesiti referendari potrebbero essere assorbiti da essa” e puntualizza che “quello che viene venduto come quesito che mira a ridurre la custodia cautelare in carcere in realtà riguarda tutte le custodie cautelari, non solo quella in carcere”. Onorevole Bazoli, qual è la reazione del Pd ai cinque quesiti su sei riguardanti il funzionamento della giustizia ammessi a referendum dalla Corte costituzionale? Intanto farei una valutazione di natura più generale per dire che trovo largamente sopravvalutato l’impatto e l’importanza di questi quesiti referendari in tema di riforma della giustizia. Credo che se si mette a confronto il loro contenuto con quello delle riforme già approvate o in corso di approvazione, soprattutto sui temi riguardo al rispetto delle garanzie, dei tempi dei processi, della trasparenza dell’azione giudiziaria e delle procure, appaia chiaro che essi vengono affrontati in maniera molto più incisiva dalla riforma del penale e anche da quella del Csm. Bisognerebbe, insomma, fare una valutazione più proporzionata fra i temi dei referendum e tutta la mole di riforme contenuta nelle leggi delega già approvate e in quelle in corso d’approvazione. In concreto, quale giudizio date sui cinque quesiti ritenuti ammissibili dalla Corte? Siamo convinti che se proseguiremo in modo rapido all’approvazione della riforma dell’ordinamento giudiziario, due o anche tre quesiti potrebbero essere assorbiti da essa, in particolare quello sulla presenza degli avvocati nei consigli giudiziari, quello sulla separazione delle funzioni e quello della presentazione delle firme per le liste. In particolare quest’ultimo verrebbe meno a seguito di una riforma del sistema elettorale che vada verso l’impianto maggioritario. Focalizziamoci sulla presenza degli avvocati nei consigli giudiziari. A che punto è il cammino di riforma tale per cui potremmo non arrivare a referendum? La presenza degli avvocati nei consigli giudiziari è una questione su cui anche noi come Pd abbiamo fatto le nostre iniziative, presentando emendamenti alla riforma del Csm. Quindi figuriamoci se non siamo d’accordo. Pare che la ministra Cartabia intenda accogliere la richiesta, attribuendo diritto di voto agli avvocati in quanto esponenti dei consigli dell’ordine su mandato dei rispettivi consigli, nel momento in cui ci sia stata una segnalazione preventiva di qualche manchevolezza da parte di qualche magistrato. Tolti i tre quesiti di cui sopra, rimarrebbero quello sulla legge Severino e quello sulle misure cautelari. Qual è la vostra posizione a riguardo? C’è molta mistificazione e invito a fare chiarezza. Quello che viene venduto come quesito che mira a ridurre la custodia cautelare in carcere in realtà riguarda tutte le custodie cautelari, non solo quella in carcere. Mira invece a eliminare, fra i tre requisiti necessari per imporre una misura cautelare, cioè il pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato, quest’ultimo requisito. In caso di rischio di reiterazione del reato, insomma, non ci sarebbe più alcuna possibilità per un giudice di applicare qualunque misura cautelare, anche quella più lieve come il divieto di espatrio. Quindi voterete contro? Occorre una riflessione, perché i due quesiti colgono certamente alcuni aspetti problematici, l’uno l’eccessivo ricorso alla custodia cautelare, l’altro alcune storture evidenti sulla legge Severino, ma ho forti dubbi che quesiti così radicali siano coerenti con la necessità di intervenire in maniera puntuale su aspetti che sono pur tuttavia problematici e che si mira a risolvere. Se i due quesiti non dovessero essere assorbiti dalla discussione in corso, faremo le nostre valutazioni. Faccio notare che anche sulla Severino c’è già un’iniziativa parlamentare in corso per togliere gli aspetti più discutibili. Vedremo. L’unico quesito sulla giustizia non ammesso a referendum è quello sulla responsabilità civile dei magistrati, che forse è quello più sentito tra la popolazione. Qual è il suo parere? Prendiamo atto della decisione della Corte. Tuttavia debbo dire che in caso di ammissione del quesito sarei stato fermamente contrario, perché non c’è alcun paese europeo che prevede la responsabilità diretta dei magistrati. C’è sempre un filtro, perché la responsabilità civile diretta espone i pm a un’alta possibilità di ricatto ed espone l’esercizio dell’attività giudiziaria a enormi rischi. I referendum sono sempre un grande esercizio di democrazia e quindi era auspicabile un voto anche su questo, ma certamente non condividevo l’obiettivo del quesito in sé perché arrivare alla responsabilità diretta dei magistrati può essere pericoloso. C’è chi parla di Corte politicizzata, dopo il no ai quesiti su cannabis e omicidio del consenziente. Da relatore della legge sul suicidio assistito, cosa ne pensa? Le decisioni della Corte si possono discutere e anche criticare. Ma non mi sento di condividere la lettura per cui la Corte abbia assunto queste decisioni per ragioni di natura più politica che tecnica. Le ragioni tecniche sono state spiegate, si possono condividere o meno ma faccio osservare sommessamente che parliamo della stessa Corte che ha aperto all’aiuto al suicidio. Non si può criticare la Corte quando nega accesso al referendum sull’omicidio del consenziente e poi apprezzarla quando apre al suicidio assistito. Insomma, non mi avventurerei in valutazioni di questa natura sull’omertà della Corte. Dopo la riforma Cartabia servono norme severe anche sul rapporto tra politica e lobby di Davide Mattiello Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2022 La riforma Cartabia è dura con i magistrati che scelgono la politica, bene, ma ora bisogna esserlo altrettanto con i politici che scelgono le lobby, altrimenti sarà fondato il sospetto che sia stata una rivalsa sul potere giudiziario e non un passo avanti per la democrazia. Ricapitolando: tutti d’accordo nell’impedire definitivamente al magistrato che venga eletto o che venga nominato ad incarichi governativi di tornare ad esercitare la funzione giurisdizionale. Una disciplina di rigore che a ben pensare ha l’obiettivo di rassicurare il cittadino sulla imparzialità con la quale viene amministrata una funzione così delicata come quella giurisdizionale. Nessun cittadino cioè deve temere che il giudice possa far pesare la propria sensibilità politica o le proprie ambizioni politiche nell’esercizio della sua funzione. Ed è sicuramente un obiettivo importante per la qualità della democrazia quello di fare in modo che il cittadino possa fidarsi di chi svolge incarichi pubblici. La democrazia è fondata sulla fiducia molto più di quanto si è soliti immaginare. E’ stato detto da diversi commentatori che queste norme della riforma Cartabia aiuteranno la magistratura a ricostruire la propria reputazione sociale, assumendo con ciò che questa sia stata incrinata dai più recenti fatti di cronaca, riassunti nel famigerato “Sistema Palamara”. Ma è proprio a questo punto che bisognerebbe allargare il campo di osservazione: sono sicuri che a essere incrinato sia soltanto il rapporto fiduciario tra magistratura e cittadini e non anche quello tra politici e cittadini? Il Sistema Palamara non aveva tra i propri protagonisti anche politici di primo piano? E più generalmente: se ci si vuole cimentare nello sforzo di moralizzare la sfera pubblica a suon di norme, non sarebbe il caso di guardare anche ad altre situazioni che minano la sua credibilità? Mutatis mutandis, per il politico, che sia parlamentare o governativo, il rapporto che deve essere messo sotto i riflettori è quello con le lobby economico-finanziarie. Secondo l’articolo 67 della Costituzione il parlamentare rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato; mentre chi assume incarichi di Governo giura nelle mani del Presidente della Repubblica fedeltà alla Costituzione. In un caso come nell’altro il bene che si vuole tutelare è ancora una volta la fiducia che il cittadino deve poter riporre nel politico, il quale per quanto interpreti punti di vista legittimamente particolari nell’esercitare il proprio ruolo, mai e poi mai arriverà a fare mercato con esso, accettando di essere il tramite di volontà potenti in cambio di benefici personali, comunque intesi, e mai arriverà a mettere queste volontà al di sopra e contro l’interesse generale, che dovrebbe rappresentare il confine deontologico dell’attività di qualunque politico. Ed è proprio per arginare questo pericolo che sicuramente rischia di minare la reputazione sociale della classe politica: da anni in Italia, con esiti molto altalenanti, si cercano di approvare norme sul conflitto tra interessi e norme sulla trasparenza dei rapporti con le lobby. E’ consegnato alla storia il fallimento del primo tentativo: per esempio il conflitto di interessi tra potere mediatico e potere politico è stato risolto, con-fondendoli senza ritegno. Non migliore il bilancio sul secondo fronte: nel 2017 la Camera dei Deputati ha approvato un regolamento interno che avrebbe dovuto mappare la rete di relazioni tra deputati e lobbisti. Un buco nell’acqua: senza previsione di obblighi e sanzioni, lasciato al buon cuore degli uni e degli altri. Il Senato invece, per evitare di sbagliare, non ha fatto niente(!). A gennaio del 2022 la Camera ha licenziato un testo di legge, che per la prima volta affronta la materia prevedendo che lobbisti e politici debbano tenere una agenda pubblica dei propri incontri e che i politici a fine mandato non possano mettersi a servizio delle medesime lobby con le quali avevano rapporti in precedenza. Questo testo, ora all’attenzione del Senato, è stato fortemente criticato (per esempio da The Good Lobby), perché già annacquato rispetto ai punti di partenza: basti pensare che resterebbero esclusi dal “tracciamento” tutti i rappresentanti sindacali e confindustriali e che il periodo di “raffreddamento” prima di potersi fare assumere da qualcuna di queste lobby sarebbe soltanto di un anno e soltanto per i governativi, zero per i parlamentari. Insomma: nel rapporto tra politica e lobby le porte continuerebbero a girare vorticosamente su perni molto ben oliati. E sia chiaro: tutti i comportamenti a cui si riferisce questa riflessione, quindi tanto il rapporto tra magistratura e politica quanto il rapporto tra politica e lobby, appartengono alla sfera del lecito e discriminano tra opportuno e inopportuno, tra benefico o pericoloso per la qualità democratica. Tutti questi comportamenti cioè prescindono da quelli che per gravità meritano una sanzione penale, configurando il reato di vera e propria corruzione o di traffico di influenze illecite, per dire. Sarebbe dunque importante che Governo e Parlamento, approvando la riforma Cartabia, non perdessero l’occasione di approvare norme altrettanto chiare e severe sul rapporto tra politica e lobby: soltanto così daranno buona prova di voler salvaguardare la qualità della democrazia e non di approfittare delle difficoltà oggettive di un potere dello Stato per ridurne la proiezione repubblicana. La sentenza di Mani Pulite fu nelle urne di Antonio Padellaro Il Fatto Quotidiano, 20 febbraio 2022 Trent’anni dopo c’è il giornalista pentito (Michele Serra) che non rifarebbe più quel titolo (“Pensiero stupendo”, con Craxi dietro le sbarre). C’è il magistrato (Gherardo Colombo) che racconta il proprio disgusto nell’apprendere del leader socialista bersagliato dalle monetine. C’è lo storico (Giovanni Fiandaca) che osserva Mani Pulite e vede “giornalismo tossico e aggressioni allo Stato di diritto”. Trent’anni più tardi, con la scusa di rievocare i trent’anni che furono, si continuano a regolare i conti di sempre. Con i cosiddetti garantisti che accusano i cosiddetti giustizialisti di avere partecipato alla cancellazione di un’intera classe politica, per pura libidine del cappio e della gogna. Ricambiati con la qualifica di protettori dei ladri e dei corrotti. Poi ci sono i conti aperti con se stessi (da rispettare quando sinceri) poiché, trent’anni fa, quei giornalisti, quei magistrati, quegli storici, avevano trent’anni di meno, e col tempo, fatalmente, gli incendiari tendono a riscoprirsi pompieri. Tutto ciò in una sarabanda di rievocazioni e processi postumi, sulla carta e in tv, dove l’Italia e gli italiani di trent’anni fa non compaiono mai, non parlano mai, non pensano mai. Presenze astratte, inconsistenti, tutti assenti ingiustificati, trattati come 60 milioni di figurine finite nello scantinato della Storia. Di questo imbelle popolo bue interessa solo estrapolare le violenze verbali, gli eccessi, le “monetine”, brutte cose signora mia. Ma che le cronache del tempo attribuiranno a una minoranza rumorosa, probabilmente ispirata dall’estremismo missino e da quello leghista. Gente che non risulta arruolata dalla junta dei giudici colonnelli. Si continua ad alimentare la comoda vulgata dei giornali succubi dei pm manettari tralasciando il piccolo particolare del boom della carta stampata, delle edicole prese d’assalto. Non certo dai parenti di Di Pietro, ma dai lettori affamati di notizie e, mi si passi la parolaccia, di giustizia. L’altra fake news propalata da un trentennio è che i poveri partiti della Prima Repubblica siano stati sgozzati dalla magistratura “politicizzata”. Infatti non furono gli elettori a cancellare a furor di popolo quei contenitori di tangenti, ma il pool di Milano che, come è noto, presidiava i seggi con i blindati. Noi, campioni di autoassoluzione di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 20 febbraio 2022 Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite. Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. “Adesso l’Italia cambierà”, dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo??In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite - la risposta giudiziaria a Tangentopoli - non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa. La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci. Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio - classe 1992, coetaneo di Mani Pulite - cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: “Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?”. Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo. Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ‘92: “Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi”. Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’. I manifesti per Cutolo: “L’ultimo tributo al welfare camorrista” di Roberto Saviano Corriere della Sera, 20 febbraio 2022 I manifesti di elogio dell’anima di Raffaele Cutolo apparsi ad Ottaviano, quella che fu la sua città, non devono generale stupore. Perché Raffaele Cutolo, in un pezzo di territorio è percepito come l’ultimo Welfare esistente. E’ stato così: la Camorra è stata l’organizzazione, forse l’ultima a Sud che ha risposto immediatamente alla disoccupazione. Assumendo i giovani, certo mandandoli a morte o inserendoli in percorsi criminali ma ha risposto alla disoccupazione: ha investito sui giovani, nel senso che permetteva alle leve di fare carriera se si impegnavano o se erano dedite alla causa. Paradossale tutto questo ma è quello che è accaduto, a prezzo della vita, dalla distruzione di un territorio. Una associazione che elargiva a chi ne aveva bisogno danaro per sopravvivere, per fronteggiare la miseria, per cui, spessissimo, quando muore un boss c’è una doppia interpretazione. Da una parte la società civile, quella più colta, più impegnata, che ne ricorda la violenza, la sopraffazione, la connivenza, la distruzione, l’avvelenamento del territorio. Dall’altra, una parte di società che si ricorda la presenza che lo Stato non ha, la costanza di essere attenta per proprio conto alle esigenze del territorio. Quindi ha una sua logica il manifesto in elogio dell’anima di Raffaele Cutolo chiamato tra l’altro “ O’ monaco” e non “O’ professore”. “O’ professore” è il soprannome criminale, “O’ monaco” è il soprannome di suo padre, uomo ligissimo, analfabeta zappatore che viveva come un monaco: da qui il suo soprannome “dedito solo alla terra”, a zapparla e a mantenere la famiglia Ma Cutolo fu anche giustizia immediata. Qualcuno dirà: “Iin che senso?”. Nel ‘81 una bambina, Raffaelina Esposito, scomparve da Ottaviano e la NCO diffuse anche un volantino: era l’epoca delle sigle terroristiche quindi si comunicava con manifesti, rivendicazioni. La Nuova Camorra Organizzata scrisse: “Noi uomini di Cutolo non ammettiamo che si toccano i bambini, liberate la piccola, sennò pagherete”. La bambina non viene liberata, la troveranno in un pozzo 10 giorni dopo, uccisa non stuprata. Partono le indagini, la sua maestra elementare, la maestra di Raffaelina dirà di averla vista l’ultima volta a bordo di una Fiat 127 di color rosso. I magistrati trovano un operaio 37enne, Castiello, che era un dipendente dello zio. Lo interrogano, lui aveva un alibi solido, non aveva elementi di dubbio su questo e lo rilasciano. Qualche giorno dopo viene ucciso e il comunicato è “Giustizia è fatta” firma NCO. Nessuno saprà mai ovviamente se Castiello era coinvolto in questa vicenda. Anzi, secondo la legge Castiello era completamente innocente. La Camorra lo ammazza con l’obiettivo di dare la sensazione di sicurezza, i bambini sono al sicuro, qui non c’è droga, perché l’eroina e la coca si spaccia solo fuori dal territorio controllato, quindi Napoli, Roma, Milano, Stoccolma, ma non Ottaviano non Casal di Principe, non San Cipriano, non Marano. E dall’altro lato i tribunali, le indagini lente che permettono addirittura a un pedofilo di fare una cosa del genere, noi invece interveniamo subito. In verità successe un caso simile poco distante da Ottaviano, anni dopo con due sorelle, due bambine a dimostrazione che in realtà Castiello fu punito solo per far sembrare efficiente la giustizia camorristica. Ecco, quel manifesto ricorda tutto questo: ricorda i soldi dati ai terremotati, ricorda i soldi dati alle famiglie bisognose, ricorda l’affiliazione in massa dei disoccupati. Certo, tutto questo per alimentare il potere camorristico; tutto questo a costo della vita, ma tutto questo faceva sentire una parte del territorio non abbandonato, cosa che invece fa sentire lo Stato, la democrazia. Quei manifesti terribili ci devono ricordare questo: le organizzazioni criminali non vincono solo con le pistole, non vincono solo col ricatto, vincono col consenso, con la presenza e anche con un certo tipo di deformata cura. I limiti alla cognizione del Giudice in sede di riesame di Francesco Giuseppe Vivone e Alberto Crespan Il Sole 24 Ore, 20 febbraio 2022 Nota a margine Cass. Pen., sez. III, sent. 4363/2022. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte torna pronunciarsi sui poteri del Giudice in sede di riesame e, in particolare, sul limite di cognizione derivante dalla necessaria correlazione tra i fatti contestati e quelli posti a fondamento del provvedimento di sequestro probatorio. In particolare, la Corte di Cassazione ribadisce che non è consentito al Giudice del riesame rinvenire un fatto diverso da quello per il quale il decreto di sequestro probatorio è stato adottato poiché spetta unicamente, ed in modo esclusivo, al Pubblico Ministero l’individuazione del fatto per il quale intende procedere. La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Milano confermava il decreto di sequestro probatorio del telefono cellulare dell’indagato, poiché riteneva sussistente il fumus commissi delicti dei reati di cui all’ art. 7 legge 195/1974 (Contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici) e all’ art. 3 D.Lgs. 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici). L’indagato, a mezzo del suo difensore, ricorreva in Cassazione avverso l’ordinanza del locale tribunale articolando tre motivi di doglianza. Con il primo si deduceva il vizio di violazione di legge; a parere della difesa, infatti, la mancanza di motivazione sull’astratta configurabilità di uno dei reati contestati e la specifica impugnazione sul punto avrebbero imposto, quanto meno, un annullamento parziale del decreto. Il Tribunale del Riesame, invece, aveva confermato il provvedimento nonostante la permanenza di dubbi sulla configurabilità del reato di cui al capo c) e, dunque, non accertando se il fumus del reato sussistesse o meno. Con il secondo motivo si deduceva la violazione di legge, in quanto il locale Tribunale del Riesame aveva ritenuto sussistente il fumus del reato sulla scorta di mere presunzioni, fornendo una motivazione solo apparente allo specifico motivo di impugnazione. Di considerevole interesse risulta, infine, il terzo motivo di ricorso; in particolare, il difensore dell’indagato deduceva la violazione di legge derivante dall’emissione del decreto di sequestro probatorio unitamente alla notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p.Innanzitutto, a parere della difesa, rimaneva oscura la finalità probatoria del provvedimento ablatorio in tale fase processuale. In tale contesto, infatti, il materiale investigativo potrebbe andare incontro a mutazioni solo su iniziativa dell’indagato, così come espressamente previsto dal comma 3 dell’art. 415-bis c.p.p. La violazione di legge si estenderebbe, infine, al giudizio del Tribunale del Riesame, il quale avrebbe ritenuto sussistente il fumus del reato ex art. 7 legge 195/1974 sulla base di fatti storici diversi da quelli contestati all’indagato, comportando un’evidente lesione del diritto di difesa garantito ex art. 24 Cost. La Suprema Corte ha ritenuto fondati tutti i motivi di ricorso ricordando, in primo luogo, come la giurisprudenza si dimostri granitica nel ribadire che il decreto di sequestro probatorio di cose costituenti corpo del reato debba essere necessariamente sorretto da un’idonea motivazione; essa, infatti, non si deve limitare ad indicare le disposizioni di legge violate, ma deve comprendere anche l’individuazione della relazione tra la cosa sequestrata ed il delitto ipotizzato (Cass. Pen., Sez. III, n. 3604 del 16/01/2019, Spinelli), posto che, per ritenere sussistente il fumus commissi delicti, il giudice deve verificare la “[…] compatibilità e congruità degli elementi addotti dall’accusa (e della parte privata ove esistenti) con la fattispecie penale oggetto di contestazione […]” (Sez. U., sent. n. 18954 del 31/03/2016, Capasso). La Corte di Cassazione ricorda, inoltre, che il Giudice del riesame, nella valutazione sulla sussistenza dell’astratta configurabilità del reato, pur avendo il potere di confermare il provvedimento applicativo della misura anche per ragioni diverse da quelle poste alla base del provvedimento impugnato, debba necessariamente attenersi ai fatti così come descritti nel provvedimento di sequestro. Il Giudice del riesame trova, dunque, un limite alla sua cognizione nella necessaria correlazione ai fatti posti a fondamento del provvedimento di sequestro probatorio, senza alcuna possibilità di sostituzione o integrazione degli stessi con ipotesi accusatorie formulate sulla base di fatti diversi. Tale facoltà attiene, infatti, al Pubblico Ministero, quale titolare esclusivo del potere di procedere alle modificazioni fattuali della contestazione, tanto nella fase delle indagini preliminari quanto nel corso dell’udienza per il riesame delle misure cautelari. Il Tribunale del Riesame rimane, invece, competente a verificare se il fatto oggetto delle contestazioni provvisorie concretizzi l’astratta configurabilità del reato ascritto, o se il fatto contestato possa essere diversamente riqualificato in altro reato. Facendo applicazione delle suddette motivazioni, la Corte di Cassazione ha annullato l’impugnata ordinanza disponendo il rinvio al Tribunale del Riesame di Milano affinché proceda ad un nuovo giudizio. La Suprema Corte, con la sentenza in commento, si dimostra ossequiosa di quell’interpretazione estensiva dell’art. 521, co. 2 c.p.p. che, stabilendo la necessaria correlazione tra i fatti contestati e i fatti portati al vaglio del giudice, si rende perfettamente applicabile anche al caso di specie. Melfi (Pz). Rivolta in carcere nel 2020: ordinanze di custodia cautelare per 29 detenuti La Repubblica, 20 febbraio 2022 Nel marzo di due anni fa i rivoltosi tennero in ostaggio per nove ore agenti e personale sanitario. Le ordinanze di custodia cautelare si vanno ad aggiungere alle 11 emesse lo scorso settembre. Custodia cautelare in carcere per 29 persone, tutte indiziate di aver preso parte alla rivolta del 9 marzo del 2020 nella Casa circondariale di Melfi, nel contesto dei moti di protesta contro le misure imposte dal dall’amministrazione penitenziaria per il contenimento del Covid-19. Durante la sommossa, medici, infermiri e alcuni agenti del carcere di Melfi furono sequestrati per circa nove ore. L’ordinanza cautelare era stata già eseguita nel mese di settembre 2021 nei confronti di altri undici detenuti che non avevano proposto ricorso per Cassazione. Le altre 29 ordinanze hanno avuto luogo dopo i rigetti delle dichiarazioni di inammissibilità da parte della Cassazione. È stata invece da tempo archiviata, nonostante le numerose testimonianze e incongruenze, l’indagine sul pestaggio di un gruppo di circa 60 detenuti di Melfi da parte degli agenti penitenziari nella notte del 17 marzo 2020 sul modello di quello certificato dai video a Santa Maria Capua a Vetere. Le indagini, coordinate dall’Antimafia di Potenza, hanno permesso, attraverso la ricostruzione di tutte le fasi della protesta, di risalire all’identità di tutti i detenuti di cui si ipotizza il coinvolgimento a vario titolo nella sommossa. Il 9 marzo 2020 fu possibile arrivare alla liberazione degli ostaggi riconducendo i rivoltosi nelle celle ma solo dopo una lunga trattativa durante la quale i fautori della sommossa avevano anche steso un documento di richieste e rivendicazioni. La presenza sul posto di personale specializzato in indagini antimafia della polizia ha permesso, insieme con gli agenti del carcere di Melfi, di arrivare già nel corso della notte all’acquisizione di una serie di elementi indiziari che, dopo ulteriori approfondimenti investigativi, hanno portato a contestare i reati di sequestro di persona e di devastazione. E’ già stata formulata richiesta di rinvio a giudizio. Roma. L’esperienza della scuola in carcere a Rebibbia di Giovanni Cogliandro* L’Osservatore Romano, 20 febbraio 2022 Sono stato molto felice quando all’inizio di questo anno scolastico mi è stato proposto di assumere la direzione dell’Istituto John Von Neumann a Roma. Sono dirigente scolastico da pochi anni e avere l’opportunità di dirigere la più grande istituzione scolastica in carcere d’Italia ha suscitato in me inquietudine e gioia. Inquietudine per la complessità dell’incarico, gioia perché ritengo che, se mi venisse chiesto di costruire un lessico della scuola di oggi, a mio parere la prima parola necessaria da declinarvi e descrivere sarebbe “positività”. La positività dell’essere Scuola si esprime, oggi come ieri, nel voler partecipare alla vita pubblica delle istituzioni scolastiche e nel voler continuare a narrare, a descrivere la propria esperienza di vita scolastica con gioia e curiosità sempre rinnovati, qualunque sia il proprio ruolo, studenti, docenti o presidi. Sono tanti i docenti dell’Istituto Von Neumann, la cui sede principale è ubicata nel quartiere di San Basilio nella periferia est di Roma, sono insegnanti che hanno iniziato a lavorare in decenni diversi, tra la fine degli anni ‘80 del secolo scorso e quest’anno, sono quindi rappresentanti di almeno tre diverse generazioni di scuola. Una caratteristica peculiare di chi entra in carcere come docente è quella che non ne vuole più uscire, sembra una sorta di scherzo ma non è così. Alcuni di loro, tra i quali un noto scrittore, lavorano a Rebibbia da un quarto di secolo, e hanno potuto assistere ai diversi mutamenti che hanno contraddistinto l’evoluzione dei rapporti tra amministrazione penitenziaria e scuola, hanno potuto osservare nel tempo crescere il numero delle realtà che gravitano sul carcere. In questi ultimi anni è cresciuta l’attenzione dell’opinione pubblica e della politica per il complesso mondo del carcere, a seguito di alcuni eventi come il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (del quale mi sono occupato in prima persona quando lavoravo con il ministro della salute), le recenti forti prese di posizione del presidente Mattarella e più di recente alcune belle produzioni cinematografiche merito della sensibilità di alcuni registi, ma il mondo articolato dei nostri Istituti penitenziari rimane lontano nelle sue dinamiche dalla comprensione di chi si trova all’esterno. Avendo modo di insegnare in una Certosa comprendo abbastanza il significato profondo della diversità tra chi vive in reclusione (in questo caso per scelta) e quello di fuori, sullo svilupparsi di una distanza progressiva nel lessico e nello sguardo, il dilatarsi dei tempi e la possibilità di incontrare se stessi a un livello di profondità che fuori non è possibile. Il carcere di Rebibbia è una realtà articolata, una cittadella a se stante, dietro le alte mura che la cingono comprende in realtà quattro diverse istituzioni carcerarie: il Nuovo complesso è il più grande, con più di mille detenuti di tutte le tipologie, dall’alta sicurezza a coloro i quali hanno compiuti reati comuni. Quindi viene il Carcere femminile, che accoglie numerose tipologie di reati, compiuti da fanciulle, madri, persone persino quasi anziane, le storie più diverse di disagio, crimine, lontananza e nostalgia. Quindi proseguendo lungo la via Bartolo Longo si incontra l’ingresso della Casa di reclusione, che accoglie i condannati in via definitiva a pene anche molto lunghe, con reati molto gravi da espiare. Alla fine della via si incontra la Terza Casa, l’Istituzione più innovativa, dedicata alla custodia attenuata di chi ha scelto di partecipare a numerose iniziative formative organizzate dalla direzione. Sin dai primi colloqui che ho avuto con i nostri docenti di Rebibbia mi sono convinto di come anche loro credano fermamente nella necessaria anteriorità dell’ottimismo, nel bisogno di vincere l’isolamento che uccide dentro molti nostri colleghi bruciandone l’entusiasmo e trasformandoli in meri burocrati o funzionari di un apparato. Non dobbiamo lasciare che le circostanze, per quanto drammatiche, spengano la luce che ardeva negli occhi di coloro i quali si sono accostati al mondo della scuola non come a un lavoro qualsiasi, ma come una sorta di laica missione nel mondo della reclusione. Per questo l’altra parola fondamentale di un possibile lessico rinnovato della scuola potrebbe essere Comunità. Essere comunità significa confrontarsi continuamente, condividere scelte critiche e proposte progettuali. La stessa luce negli occhi l’ho vista chiaramente in alcuni detenuti, in particolare un gruppo che al Nuovo complesso chiamo “gli accademici”, nostri ex studenti che hanno scelto di laurearsi, in Giurisprudenza, Economia, Filosofia. Diversi tra loro sono ergastolani, sono persone che probabilmente non termineranno la reclusione se non tra numerosi anni, ciononostante ritengono comunitariamente che la loro esperienza di studenti sia qualcosa da mettere a disposizione degli altri, ritenendosi, come hanno voluto intitolare un loro libro collettivo, “naufraghi in cerca di una stella”. Vado spesso in carcere, cerco di incontrare i detenuti e di parlare con loro, perché ritengo che essere compagni di viaggio per queste persone, scrutare insieme le stelle, migliorare gli ambienti scolastici nella reclusione significa attuare al più alto livello il dettato costituzionale e il nostro compito di docenti. *Vicepresidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma Roma. Allagamenti contro i senzatetto, alla Stazione Termini i poveri fanno paura di Giulio Cavalli Il Riformista, 20 febbraio 2022 Si chiama aporofobia la paura per la povertà e i poveri. Non ci capita di leggerla in giro eppure è uno dei mali di questo tempo se è vero che secondo molti autori la differenza tra aporofobia e razzismo sta nel fatto che ci sono società in cui si accettano immigrati, anche di altre etnie, a patto che questi si trovino in una buona situazione economica e portino fama e ricchezza. L’ultima fermata dell’aporofobia è alla stazione Termini di Roma, dove sotto la tettoia d’ingresso e sul lato che si affaccia su via Marsala ci sono ogni sera circa 300 persone senza fissa dimora che cercano riparo. Nei mesi invernali sono molti di più visto che il calore che esce dalle grate della metropolitana diventa prezioso nei mesi più freddi. Centinaia di volontari ogni sera portano cibo, coperte per un sostegno quotidiano. La storia cambia trama qualche settimana fa quando hanno iniziato a sollevarsi polemiche per la presunta introduzione di nuove regole che vieterebbero ai volontari di portare cibo e ristoro ai senza tetto. Le associazioni hanno spiegato che la situazione non era molto diversa da prima, avendo sempre trovato ostacoli alla propria opera di assistenza, e all’inizio hanno provato a smorzare i toni. Il 21 gennaio sulla vicenda un tweet di Lapo Elkann sollevava la questione: “Ieri sera alle 21 un amico era in stazione Termini a distribuire cibo ai poveri. È stato cacciato mentre dava da mangiare ad una signora italiana. “Sporcano” gli ha detto un addetto alla sicurezza intimando l’arrivo della polizia”, ha scritto Elkann. Da lì hanno cominciato a fioccare testimonianze simili. Secondo diverse voci l’atteggiamento del personale di sicurezza privata che fa capo alla società Grandi Stazioni Rai (che ha in gestione le 15 principali stazioni italiane) si sarebbe inasprito, come quello delle forze dell’ordine. Il 3 febbraio un gruppo di volontari della Casa famiglia Ludovico Pavoni che era entrato all’interno della stazione per portare cibo è stato fermato e identificato. Padre Carlo, uno dei membri dell’associazione, aveva raccontato a Il Post: “Come sempre stavamo distribuendo cibo all’esterno della stazione. Ci sono però alcune persone, meno di dieci, che non vogliono uscire all’esterno, temono di perdere le loro poche cose oppure di non riuscire più a rientrare. Si tratta di casi isolati. I volontari quella sera sono entrati, seguiti da una troupe del Tg3, per poter portare loro un panino ma sono stati fermati dai carabinieri che hanno chiesto i documenti. Sappiamo che esiste questa regola per cui non si può dar da mangiare all’interno della stazione. È una regola piuttosto curiosa, però, in un luogo dove ci sono bar e ristoranti di ogni tipo”. L’assessora alle politiche sociali del comune di Roma, Barbara Funari, è intervenuta spigando che “con il Prefetto stiamo immaginando di trovare altri spazi di accoglienza attorno alla Stazione Termini. Questo sicuramente aiuterebbe per prime le persone che si trovano lì”. Del resto stazione Termini, come tutte le grandi stazioni italiane, si è trasformata in un dorato centro commerciale adibito allo shopping di lusso. Viene fin troppo facile rifugiarsi dietro al bisogno di “decoro” per fermare la catena di solidarietà e ritenere un fastidio le persone più fragili. Una settimana fa un nuovo metodo per allontanare i senza fissa dimora: acqua gelida a ridosso delle vetrate della stazione su piazza dei Cinquecento. A denunciarlo è stato l’avvocato Daniele Leppe: “Se dovessi indicare con un esempio, una foto simbolo, la barbarie raggiunta dall’ideologia del decoro, utilizzerei questa foto, che ritrae l’ingresso della stazione Termini, lato piazza dei Cinquecento, dove la sera passano a pulire il muro e le vetrate che delimitano l’ingresso, con le idropulitrici, bagnando questo lato, e non le altre parti della piazzola, solo per impedire ai senza tetto di dormirci, perché nessuno dormirebbe su un pavimento bagnato con l’umidità notturna che ti entra dentro le ossa”. I volontari dell’associazione Mama Termini, nata dall’esperienza di Termini Tv, raccontano però che la pratica dell’acqua fredda spruzzata per impedire di sistemare i propri giacigli “avviene sistematicamente ogni giorno da novembre”. Il giornalista egiziano Maaty Elsandoubi che da tempo segue ciò che accade in stazione non ha dubbi: “Vogliono che da questa entrata non si vedano i poveri. Neanche io voglio vedere i poveri, ma perché voglio che abbiano una casa almeno, una vita dignitosa. Butti l’acqua e allora spariscono? Questa più che una stazione ormai è un centro commerciale, e deve essere pulito ed elegante, non ci possono mica essere i poveri”, dice. Il tema è sempre lo stesso: Roma ha circa 20mila senza tetto e solo 2.500 posti letto per accoglierli. “Sulla questione del piazzale bagnato - spiega in un’intervista a Redattore Sociale l’assessora Funari - ho segnalato un mese e mezzo fa la vicenda: Ferrovie mi spiega che devono sanificare in continuazione quello spazio. Le denunce sono legittime, anche per capire se si può evitare di pulire proprio in alcuni orari. Ma va anche detto chiaramente che le persone lì non dovrebbero stare lì, per i senza dimora stessi”. I poveri si sa dove non possono stare ma evidentemente la politica non ha il tempo e la voglia di dirci dove dovrebbero andare. Oggi Termini Tv e Mama Termini lanciano una manifestazione alle 17 “ per ricordare e ricordarci che sotto gli stracci ci sono persone, e che #homeless non è una categoria dello spirito, ma una condizione materiale figlia di precise cause. E quando arriveranno quelli delle pulizie per buttare acqua per terra, noi ci saremo”. Sul web è nata anche una petizione per chiedere che “Grandi Stazioni, che gestisce gli spazi commerciali della stazione, provveda a consentire l’accesso e la sosta anche a chi non consuma. Sono infatti recintati gli unici spazi dove ci si poteva sedere, dentro la stazione, e ora, con l’acqua gettata fuori dalla stazione, i senzatetto vengono spinti più lontano, creando veri e propri mini ghetti, a discapito della sicurezza di tutte le persone, non solo dei senzatetto”. L’aporofobia, intanto, cresce. E serve imparare in fretta il significato di questa nuova parola che si ascolta poco quasi niente ma che sembra essere già dappertutto. Torino. “Il carcere e i malati psichici”, magistrati e psichiatri a confronto di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 20 febbraio 2022 Dibattito lunedì per discutere sulla condizione delle persone fragili negli istituti penitenziari. Per rendere l’idea della vastità dell’argomento e di cosa si parla (e si parlerà): nel 2020, visitando 44 istituti penitenziari, l’associazione “Antigone” ha rilevato che il 36,81 per cento dei detenuti è sottoposto a una cura psichiatrica. Anche per questo, del tema se ne parlerà lunedì 21 febbraio, a partire dalle ore 15, nell’aula Magna del palazzo di giustizia di Torino, in un incontro - “Il carcere e i malati psichici” - che sarà l’occasione per discutere della condizione delle persone fragili custodite negli istituti penitenziari. L’appuntamento, organizzato dall’interesse e dalla passione di due magistrati, metterà di fronte psichiatri, operatori del diritto e chi, appunto, studia la situazione degli istituti di pena tentando di tutelare i più deboli. Come Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione “Antigone”, appunto. In menù sono previsti anche gli interventi del professor Franco Freilone, specialista in psichiatria e psicoterapeuta, docente all’università di Torino; del collega Stefano Ferracuti, specialista in neurologia e psicoterapeuta, docente di psicopatologia forense alla Sapienza di Roma; e di Roberto Testi, specialista in medicina legale e direttore del dipartimento prevenzione dell’Asl di Torino. Altro punto di osservazione arriverà dai magistrati: il pubblico ministero Lisa Bergamasco e il giudice della prima sezione penale Immacolata Iadeluca. A moderare il dibattito sarà Giulia Maccari, giudice della terza seziona penale. Di certo, da anni, quello tra carceri e disagio psichico è un intreccio che ha dato origine a una serie infinita di problemi (e di denunce). E di inchieste, come quella Procura di Torino, che sta indagando sul reparto psichiatrico-sanitario del carcere “Lorusso e Cutugno”. Un’indagine nata proprio da una lettera-denuncia dagli operatori di “Antigone”, che avevano visitato la sezione, così descritta: “Un posto vergognoso, un luogo indecente in cui vengono ammassati corpi”. Qualcuno volò sul nido del cuculo - A suo modo, con poetico (e drammatico) riferimento, centra l’argomento anche la foto scelta per la locandina dell’incontro, appesa negli ultimi giorni nelle bacheche del palagiustizia: una sequenza di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, uno dei film che hanno fatto la storia del cinema, e non solo per i cinque premi Oscar. L’accostamento spalanca diverse metafore, a partire dai problemi per girare la stessa pellicola, se già negli anni Cinquanta Kirk Douglas voleva interpretarlo e produrle, tanto da acquistare i diritti del romanzo di Ken Kesey. Non se ne fece nulla: per la Hollywood di quei tempi, il soggetto era giudicato troppo rischioso. La stessa pigrizia, o peggio, che c’è quando si deve parlare, o trattare, l’argomento “carceri e malati psichici”. A produrre il film ci riuscirà un altro Douglas, Michael, coronando il sogno del padre, per la regia di Milos Forman. La trama è nota: Jack Nicholson fa la parte di un pregiudicato che si fa internare in una clinica psichiatrica per sfuggire a guai maggiori; vivace e intelligente, ma ribelle, comincia con il sovvertire tutto. Facendosi nemici medici e infermieri: per lui, finirà ovviamente malissimo. Ma ne vivrà per sempre il potente messaggio, efficacemente e astutamente polemico: per citare il Morandini, “sul potere che emargina i diversi e sul fondo razzistico della psichiatria”. Torino. Al Ricetto l’antico Egitto secondo i detenuti di Fabrizio Corbetta La Stampa, 20 febbraio 2022 A Candelo è visitabile fino al 3 aprile la mostra itinerante “Liberi di imparare” promossa e allestita in collaborazione col Museo Egizio. La storia e le storie assieme. Al Ricetto di Candelo è visitabile fino al 3 aprile la mostra itinerante Liberi di imparare promossa e allestita da Museo Egizio, Direzione Casa circondariale “Lorusso-Cutugno” e Garante dei diritti delle persone private della libertà di Torino. Al gruppo principale si aggiungono di volta in volta, strutture locali come le Pro Loco e i Comuni che in questo caso sono appunto Candelo, Occhieppo Inferiore, e naturalmente il carcere di Biella con l’annessa sezione del Liceo artistico “G. e Q. Sella”. La grande storia dell’antico Egitto raccontato ai reclusi del carcere di Torino da dove sono poi nate le storie dei detenuti che hanno ricevuto dentro le mura della “Lorusso-Cutugno”, il Museo con i suoi studiosi e i suoi ricercatori e da lì è scaturito un laboratorio artistico, scoprendo manualità e talenti inespressi. Storie di tutti i giorni di chi vive per tanti giorni, lo stesso giorno. “Abbiamo iniziato portando il Museo Egizio a chi dentro al museo non ci può andare - spiega Paola Matossi direttrice del Dipartimento di comunicazione della celeberrima struttura torinese - come un istituto di pena, ma parliamo anche di ospedali, case di cura”. Dagli insegnamenti sono nati lavori e manufatti in legno e le riproduzioni, ora esposte a Candelo, delle pitture che ricoprivano le pareti della tomba di Iti e Neferu scoperta a Gebelein, degli unici ritratti funebri del Fayyum o come la bellissima scheggia calcarea òstrakon detto della ballerina. Riprende la Matossi: “I lavori dimostrano come la cultura possa cambiare la vita alle presone, portare conforto e ricchezza interiore. Una di queste persone ci ha detto che al lavoro si dimentica di essere privato della libertà perché dipingendo si sente libero”. Per un altro invece c’è stata la scoperta di una manualità incredibile nel riprodurre geroglifici tanto da aver già copiato lunghi papiri che oggi sono in mano agli egittologi per essere analizzati senza rovinare l’unicità degli originali millenari. Sempre nelle sale del Ricetto esposti anche i lavori della sezione all’interno del carcere di Biella del Liceo Artistico del preside Gianluca Spagnolo e dal docente Giovanni Galuppi, in stretta collaborazione con la Garante dei detenuti per Biella, Sonia Caronni che dice: “L’arte è una scelta per produrre bellezza dove c’è dolore e sofferenza”. Tante le iniziative collaterali, prime fra tutte quella di Occhieppo Inferiore, patria del celebre egittologo Ernesto Schiaparelli, con la conferenza dell’11 marzo sull’archeologo benefattore. Il Museo del Territorio di Biella aprirà a visite guidate alla propria preziosa e ricca sezione egizia. I giovani italiani sono una generazione di inascoltati di Marco Grieco L’Espresso, 20 febbraio 2022 Dalla scuola, al clima, dal fine vita al ddl Zan. I ragazzi si impegnano, chiedono diritti, sicurezza e spazi di partecipazione. Ma trovano manganelli e un palazzo sordo alle istanze dal basso. Eppure non si arrendono. Non c’è più tempo per i giovani italiani: non hanno che l’oggi per plasmare quel domani sempre più sfumato nei palazzi di governo. Quando, lo scorso 15 febbraio, a tre anni dalla storica assoluzione di Marco Cappato che rischiava dodici anni di carcere per aver accompagnato il tetraplegico Fabiano Antoniani a morire in Svizzera, la stessa Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia legale, con Cappato e Mina Welby a esser delusi c’erano anche loro. Centinaia di giovani, visti come bug nel circuito politico, che nell’estate italiana galvanizzata dalle Olimpiadi hanno reso possibile il miracolo della partecipazione attiva sotto il solleone, raccogliendo un milione e 200mila firme referendarie per depenalizzare l’omicidio del consenziente punito dall’articolo 579 del codice penale con la reclusione. Ora che la palla dovrà scorrere lungo un iter parlamentare di oltre 200 emendamenti, il timore che le loro istanze si consumeranno in un nulla di fatto o con un beffardo applauso come quello che scandì l’affossamento del ddl Zan lo scorso ottobre a Palazzo Madama, è tangibile per loro, insofferenti come crisalidi ingabbiate nel bozzolo duro della politica. Eppure, tanto il referendum sull’eutanasia, quanto quello che mira a derubricare il reato di coltivazione della cannabis, stanno mostrando un modo nuovo di partecipazione dal basso, non più dettato dal bipolarismo destra/sinistra, ma da assi cartesiani mobili che delineano una politica per macro-temi. Fra le nuove generazioni, infatti, il pensiero politico gemma nello spazio virtuale dei social per fiorire nelle piazze, come dimostrano gli Stati Generai della scuola pubblica, nati dopo settimane di occupazione studentesca per ripensare in modo corale l’intero mondo della scuola. I giovani, che pretendono una società del mutuo rispetto fra minoranze e parità di genere, si considerano europei, annoverano nel loro percorso di studi almeno una parentesi all’estero, rivendicano i diritti come struttura portante della società e riconoscono al web il merito di aver favorito l’osmosi con altre culture, anche grazie alle serie tv straniere. I luoghi della formazione assumono per loro la forma di laboratori di un pensiero nuovo, adatto a una società più inclusiva e attenta alle declinazioni della diversità. Questo giustifica una certa insofferenza verso quelle strutture di potere che, dietro la retorica dell’eccellenza, trasformano le scuole e le università in diplomifici a detrimento del finanziamento pubblico e dei servizi, come denunciavano la scorsa estate i diplomati della Scuola Normale superiore di Pisa. Gli studi di etica all’università La Sapienza di Roma, per esempio, hanno spinto Antonia Faustini, di 23 anni, a coordinare nei mesi scorsi la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia legale nella natia Calabria: “Avevo 18 anni quando seguii la vicenda di Fabiano Antoniani, Dj Fabo. Allora, seppure interessati al fine vita, ci sentivamo soli nel nostro agire politico. Con l’associazione Luca Coscioni, invece, ho scoperto cosa significa impegnarsi per gli altri e non decidere per loro”, ha detto lo scorso settembre. Tornata in Calabria per avviare la raccolta firme, ha ammesso stupore per la grande partecipazione locale: oltre 200 banchetti installati in più di 50 città in una regione che, secondo la narrazione politica, resta una terra di nessuno: “Invece ho visto una grande voglia di fare, dagli anziani ai giovanissimi. Io ho una sorella 18enne, molti suoi coetanei vedono queste iniziative come una forma di partecipazione politica. A Soverato, in provincia di Catanzaro, una ragazza si è presentata alle 23 e ha aspettato con noi la mezzanotte per poter firmare da maggiorenne”. I giovanissimi affrontano questioni come il fine vita di petto, con grande consapevolezza, ma anche disillusione verso la politica tradizionale. Lo dimostra l’azione contro la crisi climatica, il terreno di scontro dove il divario generazionale riflette due visioni opposte del mondo: “Non esiste una crisi climatica separata dalla società in cui viviamo, quindi è necessario affrontare anche le ingiustizie che ne sono alla base, come l’idea che alcune persone valgano meno di altri”, spiega Laura Vallaro di Fridays for future Italia, la costola nazionale del movimento nato nel 2008 dalle proteste pacifiche della teenager svedese Greta Thunberg. Per loro le dichiarazioni formali della politica non bastano, come dimostra lo scetticismo a seguito dell’inserimento della tutela dell’ambiente nella Costituzione Italiana lo scorso 8 febbraio: “Molti lo hanno definito un evento storico, ma non possiamo illuderci che una crisi si risolva facendo questi piccoli passi, quando stiamo andando verso un mondo più caldo di quasi 3 gradi, che fa soffrire e morire le persone”, ammette. Il movimento dei giovani per il clima, che ha superato gli anni severi della pandemia, dimostra la sinergia tra la divulgazione virtuale e l’attivismo di piazza. In campo scolastico, le nuove generazioni aspirano a riappropriarsi di nuovi spazi di aggregazione. Luca Biscuola è maggiorenne da appena un anno e nell’ottobre 2020 è stato tra i promotori delle manifestazioni davanti a Palazzo Lombardia per chiedere la sospensione della didattica a distanza: “Tutto è nato per far fronte a un’esigenza nostra che, in un primo momento, non trovava risposte fra gli esponenti politici”. Perché è lì, nelle classi dove l’emergenza pandemica minaccia l’idea stessa di società embrionale, che Luca e tanti altri studenti desideravano rientrare al più presto, parallelamente alle aperture concesse agli esercenti: “Più che una mancanza di ascolto da parte politica, nei mesi scorsi abbiamo lamentato una mancanza di dialogo”, spiega, facendosi portavoce ideale di tanti giovani che oggi si sentono posti dal governo a metà strada, in una zona grigia che può essere loro fatale, come lo è stata per Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci, entrambi morti durante l’alternanza scuola-lavoro. Oggi una realtà attiva come la Rete degli studenti medi presenta alla politica il conto salato della negligenza istituzionale. È nato così “Come stai?”, l’ultimo progetto con cui l’Unione degli universitari e Rete degli studenti medi s’impegnano a presentare una proposta di legge per la creazione di sportelli di assistenza psicologica pubblica nelle scuole e negli atenei: “I nostri diritti non sono materia di serie B”, puntualizza Luca, che ammette come spesso su temi che riguardano anche i quesiti referendari sia finora mancata un’adeguata informazione sui canali media statali. Da qui, l’importanza dell’attivismo sui social: “La raccolta firme per i referendum, per esempio, è stata un successo grazie alla campagna di comunicazione sul web, non di certo grazie all’informazione pubblica”, puntualizza. È dello stesso avviso Federica Valcauda, 27 anni e una laurea in scienze politiche, da tempo in trincea nella battaglia per la depenalizzazione della coltivazione della cannabis per uso personale in una paese Ue che è secondo solo alla Repubblica Ceca per quanto riguarda il suo consumo tra i giovani di 15 e 16 anni (dati European school survey project on alcohol and other drugs, 2019): “Nelle nuove generazioni c’è una grande volontà di cambiare le cose, ma non viene dato adeguato ascolto perché i partiti preferiscono la ricerca veloce del consenso da cui trarre beneficio per sé”, dice. Così a chi chiede di cambiare non resta che l’impegno attraverso gli strumenti di democrazia digitale, come ha dimostrato il successo della campagna referendaria: “Nel referendum sulla cannabis, le firme sono state raccolte in una settimana e con una modalità del tutto nuova, attraverso lo Spid. È la dimostrazione che, quando i temi toccati sono reali e sensibili, le persone si attivano e c’è una grande voglia di informarsi”. Federica e tanti altri promotori della raccolta firme sgombrano il campo da quella che definiscono contro-informazione: “Se si guardano i dati di consumo della cannabis in Canada, si nota che, dalla sua legalizzazione a oggi, la popolazione giovanile ne consuma meno. Non c’è, quindi alcuna minaccia, come sostiene la retorica proibizionista. Per giunta, non viene sottolineato che c’è una portata sociale ed economica dell’opposizione alla cannabis legale, come il sovraffollamento delle carceri e i costi della giustizia per reati riguardanti il possesso di droghe leggere. Eppure, oggi i partiti non sono in grado di raccogliere le nostre istanze, perché non ascoltano. Perciò dopo questa battaglia sarà importante continuare a lottare e sgravarsi da una politica che non esiste. È il momento del riscatto”. Anche il dibattito recentemente apertosi sul nucleare svela il ruolo dei giovani nel calmierare la diffidenza delle generazioni precedenti che, sulla scia del disastro nella centrale di Chernobyl, hanno approvato lo smantellamento delle centrali italiane con il referendum abrogativo nel 1987. Luiza Munteanu ha 28 anni e si occupa della divulgazione della conoscenza sull’energia atomica attraverso la pagina social “L’avvocato dell’atomo”, la più seguita in Italia sul tema: “È uno spazio nato da un’idea di Luca Romano, laureato in Fisica teorica, durante il primo lockdown, perché solo con la conoscenza si fugano i dubbi e le paure irrazionali. Il bacino di utenti è molto ampio: su Instagram il range d’età va dai giovanissimi ai millennial, su TikTok è preponderante la GenZ. Tra chi ci scrive ci sono giovani e non-esperti, spesso studenti, entusiasti di quello che scoprono. I ragazzi sono curiosi, ci riferiscono che aprono dibattiti a scuola e nelle assemblee d’istituto. Quando non sei bombardato da pregiudizi sul tema, anche due post possono bastare per mettere in dubbio un’idea preconcetta”. Sul nucleare i giovani stanno dimostrando, a differenza dei loro genitori, di volersi informare senza pregiudizi. Per Luiza è fondamentale, se si vuole avanzare una nuova proposta di legge sull’energia atomica in Italia: “La prospettiva di un referendum in Italia avrebbe senso solo con un consenso di maggioranza dal basso. Non ci si può affidare esclusivamente ai partiti, il nucleare non dovrebbe essere una questione partitica, perché riguarda tutti. Un rischio regolatorio, invece, graverebbe sulle spese dei cittadini. Quello che noi facciamo è informare per ampliare una base elettorale propositiva sul tema. Solo in un secondo momento si può fare richiesta alla politica”. Se si temono nuovi stalli parlamentari, la politica ha, invece, mostrato di perdere un punto di contatto coi giovani sull’inclusività. Per Matteo Di Maio, 27 anni, esperto di comunicazione politica e responsabile del tavolo tematico sui diritti Lgbt di +Europa, “il dibattito sul ddl Zan è l’esempio più plastico della distanza tra noi e i partiti. Oggi un partito che cerca il consenso delle nuove generazioni non può non avere proposte come il matrimonio egualitario nel suo programma. I diritti Lgbt non sono più appannaggio di una parte politica, anzi stride l’assenza di questi temi tra partiti divergenti da frange conservatrici”, spiega. Dopo la laurea in giurisprudenza, Matteo si è occupato dei diritti nel sex work: “In Italia non è illegale prostituirsi, ma spesso ci si trova dinanzi a regolamenti di amministratori locali o disposizioni che penalizzano chi si sente libero di farlo. Per questo, c’impegniamo a offrire supporto legale a chi ne ha bisogno”. Matteo, che è attivista da dieci anni, ammette che molto è cambiato negli anni: “Oggi si fanno strada due generazioni calate in un contesto culturale completamente diverso. Un elettorato giovane dà per scontato alcune battaglie. Che molti partiti ancora non lo riconoscano, svela la distanza siderale tra noi e loro, anche tra coloro che amano presentarsi come progressisti”. Il futuro senza bellezza che ci aspetta di Enzo Scandurra Il Manifesto, 20 febbraio 2022 Il processo di imbarbarimento politico ha trasformato in una poltiglia incolore quanto di buono e di bellezza era emerso durante la pandemia. La sciagurata e cinica profezia thatcheriana rischia di avverarsi: forse un altro mondo non è davvero possibile, o, almeno, tutto rema in esso perché non si realizzi. Può sembrare una riflessione disfattista, antipolitica, eppure basta posare lo sguardo su ciò che ci circonda: quello che vediamo sono solo le macerie di ciò che invece sognavamo. Dalla pandemia si poteva uscire migliori, con il Pnrr ci sarebbe stata la possibilità di ri-allinearci con la natura, dalla disastrosa esperienza della didattica a distanza avremmo dovuto avere la conferma che la scuola non è solo un insieme di nozioni impartite dall’alto, ma un sistema di relazioni complesso dove il contatto fisico, il guardarsi negli occhi, è inseparabile dall’atto di apprendere. Invece manganellate a chi protesta, a chi quel sistema, fatto a immagine di una grande azienda privata, vuole cambiarlo. Il rincaro delle bollette energetiche ha fatto sentire l’urgenza di disporre di fonti di energia alternativa. A tutto questo si è aggiunto il rombo dei tamburi di guerra, come se la parentesi che ci separa dai due conflitti mondiali fosse stata troppo lunga e fosse venuto il momento di interromperla. Questo nel solo mondo privilegiato dell’Occidente, perché se si allunga lo sguardo oltre, il paesaggio è quello dell’orlo dell’abisso: guerre, fame, carestie, desertificazione, alluvioni, bambini che muiono per fame. Perché facciamo soffrire i bambini? Si chiedeva il Papa, intervistato da Fazio, senza saper rispondere. Solo due anni fa, quando la pandemia costringeva le persone a stare in casa, si celebrò quel rito collettivo, durante il quale tutti si affacciarono alle finestre e ai balconi delle loro case per cantare insieme la voglia di una rinascita. Quella gioiosa manifestazione di solidarietà di specie durò solo un breve arco di tempo e i nostri governanti nulla fecero per raccogliere quella invocazione; sarebbe stato ricordato come l’ultimo attimo di bellezza civile. Da allora il teatrino della politica, ha continuato a svolgersi indisturbato producendo assuefazioni, sconforto, disillusioni e morte delle sia pur tiepide speranze che per un momento si erano riaccese. Il processo di imbarbarimento politico ha trasformato in una poltiglia incolore quanto di buono e di bellezza era emerso durante la pandemia. L’approvazione europea di gas fossile e uranio nella tassonomia delle energie “sostenibili”, rappresenta, da ultimo, la resa incondizionata al destino di una prossima catastrofe climatica. In questa dostoevskiana e impari lotta tra Bene e Male, tra bellezza e squallore, prevale indubbiamente il secondo termine, quasi a dimostrazione del pensiero di Hobbes che l’uomo è violento e predatore e, dunque, causa primaria della propria infausta sorte. Questa bruttezza ci viene ogni giorno restituita e rappresentata dai telegiornali televisivi come l’unico spettacolo “degno” di essere raccontato: Renzi contro la magistratura, il minuetto Salvini Meloni, le gesta del Cavaliere, il narcisismo dei politici, la manomissione della memoria collettiva e, a seguire, i femminicidi consumati da uomini ancora convinti del loro potere sulle donne, gli stupri di gruppo, e ora, da ultimo, i venti di guerra agitati dalle potenze mondiali per motivi che nessuno di noi conosce o capisce. Semmai scoppierà un terzo conflitto mondiale, ci dovremmo chiedere dove eravamo quel giorno che tutto è iniziato e che cosa abbiamo fatto perché non accadesse. Perché anche il grande movimento della pace che alcuni anni fu definito come “la quarta potenza mondiale”, si è troppo rapidamente sciolto. Analogo discorso vale per gli equilibri della biosfera minacciati e danneggiati irreversibilmente dalla nostra aggressività e voracità. Eppure c’è ancora bellezza che resiste in questo mondo: comunità virtuose che si ostinano a contrastare il degrado, giovani che scendono in piazza a contestare le scelte fatte dal “palazzo”, insegnanti e medici che si prodigano per combattere i virus dell’odio e la sempre più diffusa cultura antiscientifica, associazioni di volontariato, gli appelli inascoltati del Papa e perfino il sorriso dolce del Nobel Giorgio Parisi mentre spiega i fenomeni complessi. La bellezza si è ritirata da questo mondo e nessuno pare più disposto a cercarla e a riesumarla: quella bellezza civile che si manifesta nella solidarietà di specie e nella convivenza con altre forme di vita: animali, piante, fiumi, montagne e tutto quanto che fa parte del meraviglioso mondo della creazione. I progetti di legge di legge sulla cannabis ci sono. Ma nessuno vuole discuterli di Rita Rapisardi Il Domani, 20 febbraio 2022 Dopo la bocciatura del referendum per la legalizzazione l’unica via è quella del Parlamento, dove però ci sono da anni progetti di legge completamente ignorati. I delicati equilibri politici e l’immobilismo del Pd. “La disperazione fra i pazienti è stata altissima. La politica sembra sempre dire: “Vi ascoltiamo, ma poi non cambiamo nulla”“. A portare la voce delle migliaia di persone che avrebbero bisogno della cannabis terapeutica è Marta Lispi, presidente del Cannabis Service, un’associazione che offre informazioni e mette in contatto le persone con i dottori e le farmacie su tutto il territorio nazionale, una delle numerose realtà che cerca di aiutare i pazienti in Italia. Il 16 febbraio poteva essere una giornata storica: con l’ammissione del referendum sulla cannabis e una sua eventuale vittoria, si sarebbe potuto aggirare in parte il problema della mancanza di una terapia a base di cannabis. Motivo per cui i pazienti oggi sono costretti ad arrangiarsi a spese proprie e molti, non volendo finanziare il narcotraffico, si coltivano le piantine in casa. “La maggior parte dei nostri tesserati è coinvolta in processi penali. L’assoluzione ormai è scontata, ma questo non è vivere sereni. Lo slogan dice “autoproduzione unica soluzione”, ma non è così, anche con l’autoproduzione i pazienti non possono sopperire alle mancanze di medicinali”, dice Lispi. Molti di questi sono seguiti da Meglio Legale, che si è occupata, tra gli altri, di Walter De Benedetti e di Cristian Filippo, 24enne calabrese affetto da fibromialgia e senza terapia, che ha vissuto due mesi ai domiciliari per aver coltivato una pianta nel box doccia. Le speranze di migliaia di pazienti si sono spente con le parole del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, che ha dichiarato l’inammissibilità del quesito. Dunque non si voterà. Eppure mentre la società civile sembra pronta, lo dicono le firme raccolte in pochi giorni, la politica resta ancora a guardare. Ma ora è l’unica che può realmente cambiare le cose: lo auspica la Consulta, che ha invitato l’avvio di un percorso parlamentare. Con lei anche i servizi e chi si occupa di droghe. Le conclusioni della Conferenza nazionale sulle droghe dello scorso novembre sono state chiare: guardare alle leggi e ai progetti di legge già pronti e sostenere quelli. In quell’occasione il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva esplicitamente citato il ddl a prima firma di Riccardo Magi e la Cassazione, con le decine di pronunce sul tema, spinge per una revisione del Testo unico sulle droghe vecchio ormai di trent’anni. Una storia mai nata - La storia della politica con la cannabis in realtà non è mai iniziata. Negli anni si sono accumulati ventiquattro testi di legge, depositati e mai discussi. Il silenzio è stata la risposta anche alle iniziative popolari. La politica è riuscita, anzi, ad andare in senso opposto, se si pensa agli esiti del referendum del 1993, che aveva abrogato le norme che prevedevano sanzioni penali per i consumatori, e alla nascita della Fini-Giovanardi, una legge repressiva, poi ritenuta anticostituzionale, che ha sovraffollato le carceri e portato l’Italia a una condanna da parte della Cedu, la Corte europea per i diritti umani. E se anche il presidente della Repubblica auspica un risveglio del parlamento, la realtà, almeno per quanto riguarda la cannabis, è molto più amara. I disegni di legge che hanno attirato maggiore attenzione sono due, i più recenti sono quelli a firma Perantoni e Magi. Entrambi bloccati in commissione Giustizia della Camera, rischiano di rimanerci un bel po’ e finire nel dimenticatoio quando l’attenzione su questo tema inizierà a scemare. “Vogliamo ripartire con l’iter: sono stati presentati gli emendamenti da Lega e Fratelli d’Italia, sono circa duecento, non un numero altissimo”, dice Riccardo Magi, deputato di +Europa, primo firmatario di un testo presentato a fine 2019, pochi giorni prima della sentenza della Cassazione dove si esplicitava che la coltivazione domestica di minime dimensioni non ha rilevanza penale. “Noi vorremmo la totale depenalizzazione perché ad oggi molti hanno la vita rovinata per pochi grammi”, aggiunge Magi, che ha presentato una proposta anche per modificare la lieve entità: “In sette casi su dieci per fatti di lieve entità si finisce in carcere comunque, è quindi una fattispecie che non cambia la realtà carceraria italiana”. Pene per lo spaccio - Sulla base del testo Magi, il deputato Mario Perantoni del Movimento 5 stelle ha presentato un ddl, precisando nel numero di quattro piantine la coltivazione domestica, ma aumentando le pene: reclusione da sei a dieci anni per i reati connessi a traffico, spaccio e detenzione ai fini di spaccio della cannabis. “Al momento i tempi sono stretti, stiamo lavorando a varie riforme che come la cannabis necessitano grande tempo, per questo motivo il percorso del ddl ha subito un rallentamento, ma vista la bocciatura della Consulta riprenderemo quanto prima”, dice Perantoni. Il deputato è convinto dell’efficacia della sua proposta che, insieme alla depenalizzazione per uso personale, completerebbe il quadro: “Attualmente è come andare un giro con una bottiglia di vino, impedendo la coltivazione della vite. Se posso detenere cannabis è logico che mi rivolgerò al mercato nero e questo vogliamo impedirlo”. Il testo base è stato votato a settembre 2021 con i voti del M5s e del Pd, mentre hanno detto no FdI, Lega e FI (con il voto in dissenso di Elio Vito), astenuta invece Italia viva. Ed è proprio su queste fragili alleanze che si gioca il futuro della cannabis in Italia, vista la composizione parlamentare che non permette una forte maggioranza a nessun gruppo. Dando per assunto il voto favorevole di M5s e Pd - pur con le solite ritrosie - servono Italia viva e gran parte del gruppo misto. Pd immobile - “È evidente che la strada è quella del parlamento ormai, ma è un tema ancora tabù per la maggior parte delle forze politiche, anche le cosiddette forze progressiste balbettano su questi temi”, dice Magi. Il pensiero corre al Partito democratico che in questi mesi di discussione sul referendum sulla cannabis non si è posizionato in alcun modo. Gli elettori democratici - la cui base è largamente favorevole alle istanze che il referendum portava - da tempo chiedono al segretario Enrico Letta un appoggio, ma la poca simpatia del leader del Pd per queste tematiche è nota. Il suo predecessore Nicola Zingaretti aveva apertamente dichiarato: “Non sono mai stato a favore della legalizzazione della cannabis”. E se Letta non si muove, ed è difficile credere lo faccia ora proprio che la discussione si è fermata, l’interno del partito non è certo in fermento: “Il Pd non ha mai una posizione e nel migliore dei casi era contraria”, dice la deputata del Pd Giuditta Pini. “Non c’è mai stato un dibattito, un confronto su questi argomenti, e anche il tavolo che si è creato nelle ultime settimane temo si fermi con lo stop al referendum”. Eppure i democratici potrebbero trovare terreno comune nella lotta alla mafia e alla criminalità, ma finora nessun accenno. Dopo il no ai referendum siamo pronti a disobbedire???????????????????????????????????. E ad affrontare nuovi processi e condanne di Marco Cappato L’Espresso, 20 febbraio 2022 La sentenza della Corte ha impedito al popolo di votare su eutanasia e cannabis. Ma la nostra battaglia non si ferma qui. Il popolo italiano non potrà decidere se legalizzare l’eutanasia. Il Parlamento italiano non vuole discutere se legalizzare l’eutanasia. In quattro Paesi europei l’eutanasia è invece legale, e nessuno di loro è tornato indietro, né le loro Corti Costituzionali ritengono siano lesi diritti fondamentali o principi costituzionali. Il blocco delle strade istituzionali per introdurre in Italia ciò che è già legge in importanti democrazie impone ora di proseguire per altre vie la battaglia per il diritto alla libertà di scelta fino alla fine della vita. Certamente, la cancellazione dello strumento referendario da parte della Corte Costituzionale renderà il cammino più lungo e tortuoso, e per molte persone ciò significherà un carico aggiuntivo di sofferenza e violenza. Ma andiamo avanti. Come Associazione Luca Coscioni non lasceremo nulla di intentato, dalle disobbedienze civili ai ricorsi giudiziari, “dal corpo delle persone al cuore della politica”. Saranno proprio le persone che quotidianamente si rivolgono a noi a decidere le forme e i tempi di questa nuova fase. Personalmente sono pronto, con Mina Welby, ad affrontare nuovi processi ed eventuali condanne. Ci rivolgeremo anche alle forze politiche e parlamentari, in questi anni particolarmente assenti o impotenti. Non siamo “antipolitici” né “antipartitici”, ed anzi ritenevamo che la campagna referendaria avrebbe potuto rappresentare un’occasione per riconnettere le istituzioni alla società italiana, comunque la si pensi nel merito. Enrico Letta, Giuseppe Conte e tanti altri hanno subito dichiarato che ora, dopo la bocciatura del referendum, ci vuole una legge. Purtroppo però il testo in discussione in Parlamento, a prima firma Pd e M5s, non solo non introduce nuovi diritti rispetto alla sentenza “DJ Fabo - Cappato” della Consulta di tre anni fa, ma addirittura aggiunge criteri restrittivi limitando il campo di applicazione ai malati con prognosi infausta (né Fabo, né “Mario” - persona tetraplegica che nelle Marche ha ottenuto dopo 18 mesi il via libera al suicidio assistito - sono in quelle condizioni di prognosi infausta. Se la legge non sarà migliorata, fa notare Filomena Gallo, finirà per essere controproducente per i diritti di chi soffre. Comunque andrà a finire in Parlamento - e ci sono concrete possibilità di un esito simile a quello del ddl Zan - i contraccolpi più gravi della decisione di inammissibilità del referendum si faranno sentire sulla credibilità delle istituzioni più che sulla questione del fine vita. Da più parti si sente dire che siamo di fronte a una “crisi di sistema”, ma nessuno è in grado di spiegare come si possa uscire dalla crisi senza coinvolgere i cittadini, magari affidando le soluzioni agli stessi protagonisti partitici che in quella crisi ci hanno sprofondato. Considerati i limiti del nostro sistema politico-istituzionale, è necessario allargare lo sguardo a una dimensione internazionale. Partendo dal contesto europeo, è indispensabile fare di nuovo ricorso agli strumenti della partecipazione civica. Il prossimo appuntamento è fissato per l’11 e 12 marzo a Varsavia, nel cuore dell’Europa proibizionista e nazionalista, per il Congresso fondativo del Movimento paneuropeo “Eumans”, per aprire un fronte europeo di iniziative per la libertà delle scelte di fine vita (es. un testamento biologico europeo) e per l’abrogazione delle norme proibizioniste sulla cannabis a livello europeo. Sono grato a chi ha dato forza finora alla campagna “Eutanasia legale”, inclusi quel milione e 240.000 cittadini che hanno sottoscritto i referendum e i tanti che ci hanno sostenuto, anche tra quei partiti i cui “capi” hanno invece ignorato finora la proposta referendaria. A loro, e a tutti i cittadini diciamo che la lotta per essere “liberi fino alla fine”, iniziata con Piergiorgio Welby 15 anni fa, prosegue. L’epidemia dell’odio: nell’ultimo anno 1.379 aggressioni razziste e omofobiche di Simone Alliva L’Espresso, 20 febbraio 2022 Pugni, calci, insulti. Gli episodi sono in forte aumento rispetto al 2020 e a farla da padrone sono le violenze fisiche. “C’è rassegnazione, quasi sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace” segnala l’Unar. Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta. Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: “Guarda se sto negro de merda m’ha rubato er cellulare, mo lo pisto”. Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: “Brutto negro”. Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente. Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, Mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento. La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze. La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: “negro di merda”, “marocchino di merda”, “clandestino”, “vattene”, “ritorna da dove sei venuto”. Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”. Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l’Organizzazione sionista mondiale, e dell’Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l’anno più antisemita dell’ultimo decennio. Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni. Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente. È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore. “I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche” spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. “Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente”. Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. “Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini - spiega Loukarelis - Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere”. Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: “I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere”. L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce. Zan: “La legge contro l’omotransfobia è urgente. Il palazzo stia al passo del Paese” di Daniela Preziosi Il Domani, 20 febbraio 2022 Il prossimo 12 marzo a Milano la prima di cinque Agorà sull’omofobia, con Beppe Sala, Elly Schlein, Selvaggia Lucarelli, Enrico Letta. La legge riparte dal basso. Dal 27 aprile il parlamento potrà ricominciare a discuterne. Parla Alessandro Zan, primo firmatario del testo abbattuto: “Dopo il voto per il Colle la destra è divisa, qualcuno si sentirà più libero di votare. Lavoreremo per migliorare il testo, ma la Carta dovrà essere rispettata”. Onorevole Alessandro Zan, e ora? Il prossimo 27 aprile scadranno i sei mesi di “stop” alla sua legge contro l’omotransfobia, dopo la bocciatura del senato, lo scorso 27 ottobre. Ci riproverete, oppure per questa legislatura il discorso è chiuso? Faccio una premessa. Negli ultimi mesi è emersa tutta l’arretratezza del Paese in tema di diritti e parimenti l’enorme difficoltà di evolvere su questi temi: mi riferisco ovviamente allo stop del ddl Zan e alla bocciatura dei referendum su eutanasia e cannabis. Non spetta di certo alla politica commentare le decisioni della Corte Costituzionale. Ma devo dire che resta il forte rammarico di aver perso anche questa occasione di progresso su temi tanto importanti e tanto sentiti dalle persone, che toccano il dolore e l’intimità di tanti e di tante famiglie. Tuttavia la politica non può in nessun caso scaricare le sue responsabilità sulle decisioni della Corte, né su qualsiasi altro organo della giustizia. Dunque no, non ho gettato la spugna perché è un mio dovere, come politico e legislatore, continuare questa battaglia. Per il Partito Democratico l’approvazione di una legge contro i crimini d’odio resta una priorità. Dopo l’immagine avvilente dell’esultanza per la bocciatura della legge, ne ha riparlato con qualche collega? Qualcuno ci ha ripensato? Dopo quell’orribile applauso al Senato che ha fatto il giro del mondo e che ha fatto vergognare l’Italia, probabilmente qualche senatore si è pentito e vergognato di aver votato contro, nascondendosi dietro il voto segreto. Ma oggi siamo in un’altra fase. Il quadro politico, in particolare quello parlamentare, è molto cambiato dopo l’elezione del presidente della Repubblica. Il piano della destra di eleggere una personalità propria come nuovo capo dello Stato, piano che aveva compattato quel fronte contro il ddl Zan, è fallito rovinosamente. Si è aperta una fase nuova, soprattutto in Parlamento. Vogliamo arrivare al 27 aprile, quando scadrà l’embargo del Senato, con le idee chiare e forti di una nuova proposta condivisa, sia nella società civile, sia tra le forze politiche. La Lega continua a citare la legge Zan come l’antonomasia di un testo invotabile... Salvini ha una vera ossessione contro il ddl, e mi dispiace per lui. Nei giorni delle elezioni del Colle, in una conferenza stampa, ha ripetuto che siccome eravamo stati “due anni” a discutere della legge Zan potevamo aspettare qualche giorno per trovare un capo dello stato. Ma ripeto, sulla bocciatura della legge c’era un convitato di pietra ed era proprio l’allora futura elezione del Colle. Le destre volevano ricompattarsi, ed hanno fallito. Anzi, il centrodestra ora è diviso. Diviso, ma sempre contrario.. Al senato la presidente di Forza Italia Anna Maria Bernini, che è una donna molto sensibile al tema dei diritti, ha usato parole molto dure. Spero che Forza Italia ora torni almeno alla libertà di voto che ha lasciato alla camera, che consentirebbe a molti senatori di sentirsi più liberi di votare secondo coscienza. La delusione nel movimento Lgbt+ si è sentita forte. Si rischia uno scollamento fra paese e parlamento? Lo scollamento c’è già stato, e le decine di migliaia di persone scese in piazza in tutta Italia dopo l’applauso delle destre lo hanno dimostrato. Dopo la grande stagione dei diritti degli anni 70 questo Paese è rimasto sostanzialmente fermo, in particolare per un immobilismo del Parlamento che si trascina da decenni, non solo in questa legislatura. Intanto la società reale è cambiata, si è evoluta. Il nostro compito di legislatori è riconoscerla e garantire tutele che sono previste dalla Costituzione e che devono essere declinate nell’ordinamento giuridico. Dobbiamo avere la consapevolezza che le battaglie di civiltà non si vincono nelle aule dei tribunali o attraverso decisioni della Corte, ma con la lotta politica, fino alle Camere. Zan, per la sua legge i numeri in parlamento non ci sono. Ci potrebbero essere i numeri per una legge contro l’omofobia, ma diversa dal ddl Zan? Proprio per questo stiamo lanciando cinque grandi Agorà in tutta Italia, aperte a chiunque voglia partecipare: vogliamo tradurre quel grande movimento di piazza in una concreta elaborazione politica da portare in Senato, in modo democratico e orizzontale, dal basso, ma avendo sempre ben presente i numeri di questo Parlamento e il percorso fatto finora. La società civile che manifestava dopo il voto in Senato diceva “Non ci arrendiamo: dalle piazze al Parlamento”. E proprio questo sarà il nome di questa campagna. La prima Agorà sarà sabato 12 marzo a Milano, e ci saranno tante persone, sia del mondo politico, sia della società civile che hanno sostenuto il ddl Zan e che sono convinte della necessità di una legge contro i crimini d’odio. Come Beppe Sala, Elly Schlein, Selvaggia Lucarelli, Enrico Letta e molti altri. L’obiettivo è coagulare le energie progressiste della società per cercare di cogliere l’ultima opportunità in questa legislatura, per dare al Paese una legge efficace e moderna. Una legge finalmente di respiro europeo. Il movimento ha investito, in qualche caso forse travolto il Pd? Non penso che il Pd sia stato né investito, né travolto, anzi. Sono convinto che sia stata apprezzata la nostra volontà di andare fino in fondo in questa battaglia, senza cedere alle sirene di un compromesso che avrebbe di fatto svuotato la legge, rendendola inutile, sia sul piano penale, sia sul piano formativo e culturale. Le giovani generazioni si stanno riavvicinando al Pd anche grazie a questa nostra posizione finalmente chiara e limpida sui diritti. Il segretario Enrico Letta ha il grande merito di non aver mai avuto incertezze su questo. Ci sono stati mesi di incomunicabilità con alcuni settori del femminismo. Crede che si potrà riallacciare qualche filo spezzato, qualche dialogo? Le Agorà serviranno anche a questo, a comunicare e a intrecciare rapporti. Come dicevo, sono luoghi di dialogo aperto. Però dobbiamo essere chiari: il movimento femminista italiano ha da sempre e con convinzione sostenuto il ddl Zan, anzi senza quel contributo questa battaglia non sarebbe nemmeno nata. C’è stata, è vero, una frangia minoritaria del femminismo radicale che ha remato contro questa battaglia chiedendo di eliminare dal testo “l’identità di genere”. Ma bisogna essere chiari: in ben due sentenze della Corte Costituzionale viene sancita come diritto inviolabile della persona. Toglierla avrebbe trasformato il testo in una legge incostituzionale e lesiva della dignità delle persone trans. Resta il punto. Non potrà riproporre il suo testo, né avrebbe senso. Ne proporrà un altro? Il testo bloccato dal Senato era un punto di equilibrio alto, ottenuto con enorme fatica e già approvato a larga maggioranza dalla Camera. Avremmo potuto accettare piccole modifiche, ma non di certo lo stravolgimento del testo voluto dai sovranisti, soprattutto con il ricatto della tagliola in atto. La destra non voleva in nessun modo una legge e quell’applauso retrogrado e liberatorio lo ha chiaramente dimostrato. In queste settimane valuteremo se l’approccio di qualcuno è cambiato. Intanto noi iniziamo questo grande percorso di partecipazione delle Agorà, che si concluderà nella prima metà di maggio, quando il ddl Zan sarà “riabilitato” e potrà essere nuovamente discusso. Vedremo dove ci porterà e se per quel momento alcune forze politiche, che si dicono europeiste e liberali, saranno pronte a un vero dialogo per approvare finalmente una buona legge. Rinuncerete a qualcosa, magari alla definizione di identità di genere? Sulle definizioni si può sempre lavorare per migliorarle. Ma sull’idea di togliere l’identità di genere dal testo, discriminando le persone transgender, non ci troveranno mai d’accordo. Ora, come nello scorso ottobre, non potremmo mai accettare che la dignità di qualcuno venga calpestata proprio da una legge contro le discriminazioni. Sarebbe una crudeltà inaudita. Ma anche una violazione della nostra Carta Costituzionale. Anonimizzare i dati non è più sufficiente per difendere la privacy delle persone di Carlo Lavalle La Repubblica, 20 febbraio 2022 Come si comunica con cellulare e app può consentire all’intelligenza artificiale l’identificazione di una persona nonostante l’anonimizzazione dei dati, secondo i ricercatori dell’Imperial College London. Le misure sulla privacy che servono a preservare l’anonimato degli utenti degli smartphone non sono più adeguate all’era digitale. A dimostrare le lacune della normativa e dei sistemi attuali è uno studio condotto dall’Imperial College London, sotto la guida di Yves-Alexandre de Montjoye, pubblicato sulla rivista Nature Communication. Dalla ricerca emerge la possibilità di identificare la singola persona, avendo a disposizione solo poche informazioni relative all’attività di interazione di un utente tramite l’uso del cellulare o di un’app di messaggistica come WhatsApp, nonostante le procedure di anonimizzazione. Una quantità crescente di dati dell’attività online vengono monitorati e collezionati da varie aziende e social network per gestire i loro servizi o per scopi di ricerca. I dati che registrano le interazioni degli utenti - sottolineano i ricercatori - potrebbero contenere informazioni sensibili sui singoli soggetti. Sono in grado di rivelare con chi parliamo e chi incontriamo, l’ora precisa e il tempo trascorso al telefono. Utilizzando queste informazioni si possono peraltro inferire aspetti demografici e di ricchezza all’individuo, tratti della personalità e propensioni di consumo e di spesa. I dati personali (come nome, cognome, immagini o codice fiscale, indirizzo IP e targa di un veicolo) che permettono l’identificazione diretta e indiretta sono oggetto di particolare protezione in base alla normativa Ue (Gdpr), interpretata in modo estensivo. Tuttavia, i dati di interazione possono essere condivisi o venduti a terze parti senza il consenso degli utenti, a patto che siano anonimi. Le tecniche di anonimizzazione, che portano a escludere l’applicazione dei principi Gdpr, posti a difesa della privacy individuale, non sempre costituiscono però, secondo gli autori della ricerca, una barriera in grado di impedire l’individuazione di un utente. A riprova di ciò, lo studio dell’Imperial College London esaminando un dataset di dati di interazione di oltre 40mila utenti e sottoponendolo all’analisi di un modello di rete neurale artificiale si dimostra la possibilità di risalire all’identità di una persona sulla base del suo comportamento. Con un solo contatto diretto il soggetto è individuabile il 15 per cento delle volte ma includendo anche i primi contatti della rete primaria si raggiunge una percentuale del 52 per cento. Lo schema di comportamento profilato dall’intelligenza artificiale rimane stabile nel tempo tanto che il 24 per cento delle persone resta ancora identificabile dopo diversi mesi. I dati di interazione, anche se anonimi - spiega Stefano Marrone ricercatore in Sistemi per l’Elaborazione delle Informazioni presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II che ha contribuito allo studio - possono essere riassociabili alla persona. Con particolare riguardo al criterio della linkability che consente di distinguere se le informazioni relative a un individuo (item of interest) siano correlate. Nuovi attacchi di profilazione, pertanto, vanno tenuti in debita considerazione se si vuole rafforzare la strategia di protezione dei dati a sostegno della privacy individuale aggiornandola alle sfide della società digitale in continua evoluzione. Libia. Thomas e gli schiavi di Bengasi: “O paghiamo o finiamo nel nulla” di Paolo Lambruschi Avvenire, 20 febbraio 2022 Sono schiavi da sette mesi a Bengasi, sulla costa libica, dopo essere fuggiti dall’inferno del Tigrai. E ora rischiano l’espulsione nel deserto, destinati a sparire verso chissà quale destino come migliaia di altri fantasmi nati nell’Africa subsahariana e imprigionati nei centri di detenzione. È l’ennesima odissea vissuta da una ventina di profughi eritrei, tra i quali cinque ragazze e cinque sedicenni in un lager, stavolta in Cirenaica, il Ganfouda detention center, controllato dalle milizie e ufficialmente sotto l’egida del Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione clandestina del ministero degli Interni libico. A Bengasi i migranti sono spesso vittima di sequestri e arresti arbitrari da parte dei gruppi armati e trascorrono anni in cella prima di prendere la rotta del Mediterraneo centrale. Il gruppo di giovani prigionieri è l’avanguardia dei flussi in arrivo, secondo gli esperti, dal Corno d’Africa devastato da siccità e conflitti. “Siamo rinchiusi da luglio a Bengasi in questa prigione insieme a tanti altri africani. Siamo divisi per nazionalità - racconta concitato al telefono Thomas, nome di fantasia - le guardie libiche ci usano come schiavi. Di giorno ci portano a lavorare nei campi senza pagarci un soldo”. Thomas, vent’anni, spiega anche perché hanno deciso di tentare l’ingresso in Europa dalla rotta che dal Sudan porta in Libia, dove i migranti senza permesso sono considerati clandestini e finiscono in prigioni spesso pagate dall’Ue. “Non avevamo scelta. Eravamo rifugiati in un campo profughi dell’Unhcr nel Tigrai, a Hitsats, quando nel novembre 2020 è scoppiata la guerra tra forze tigrine e l’esercito etiope alleato con quello eritreo. La zona è stata invasa dagli eritrei. Ci siamo trovati davanti i soldati del paese dove siamo nati e dal quale siamo fuggiti per non servire il regime e fare il servizio militare a vita. Il campo è stato distrutto, molte persone sono state uccise o deportate, chi ha potuto è fuggito. In Tigrai la popolazione è sempre stata amichevole con noi. Ma le cose sono cambiate con la guerra, le truppe e la popolazione stessa ci davano la caccia perché i militari eritrei hanno ucciso i civili e stuprato le donne e volevano vendicarsi senza fare distinzioni”. 120 giovani, che abbiamo potuto raggiungere grazie all’Ong Gandhi Charity, decidono di imboccare l’unica via di fuga possibile, quella del Sudan. Nove mesi fa sono riusciti a passare il fiume Tecazzè, confine dove i migranti di notte rischiano di venire divorati dai coccodrilli. “Siamo arrivati a Khartoum, la capitale sudanese - prosegue Thomas - e ci siamo rivolti ai trafficanti per raggiungere la costa della Libia e quindi l’Europa via Mediterraneo”. Ma una volta a Bengasi i soldi per proseguire sono terminati. I trafficanti eritrei li hanno venduti ai miliziani libici, i quali li hanno imprigionati. “Le cinque ragazze che hanno viaggiato con noi sono state rinchiuse in una stanza buia dove vengono abusate sistematicamente dai carcerieri - prosegue Thomas. I libici ci hanno lasciato un cellulare per chiamare le famiglie e chiedere i riscatti. Ci picchiano e torturano in continuazione”. Non importa che siano stati registrati in Etiopia dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Sono clandestini da trattare come schiavi finché non trovano i soldi per pagarsi la libertà. O venire espulsi nel Sahara per far spazio ad altri se non pagano. “Abbiamo chiesto di incontrare l’Unhcr, è venuta una donna che diceva di lavorare per loro. Non si è più fatta viva”. Thomas lancia un appello: “Siamo allo stremo, ammassati in 15 in una cella piccola in condizioni igieniche disastrose. Alcuni di noi hanno malattie respiratorie e la scabbia, il cibo è scarso, beviamo acqua sporca. Chiediamo all’Unhcr di portarci nei campi in Niger o in Ruanda. Vogliamo vivere”. Giustizia per i bambini dell’Africa di Giorgio Parisi La Repubblica, 20 febbraio 2022 Pubblichiamo l’appello firmato da Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica nel 2021, e da altri 47 Premi Nobel. Qui la versione in inglese. Noi, i Nobel e i Leaders for Children di tutto il mondo, ci siamo riuniti per chiedere che i leader mondiali rendano giustizia ai bambini dell’Africa. La libertà rimane fuori portata per milioni di bambini africani, anche quando il mondo è più ricco che mai. L’umanità sta perdendo la sua bussola morale. Nel giugno 2021, l’Ilo e l’Unicef hanno annunciato il primo scioccante aumento del numero di bambini lavoratori nel mondo in due decenni, durante i primi quattro anni degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (2016-2019). Anche prima dell’inizio della pandemia, quando il mondo è diventato più ricco di 10 trilioni di dollari, il numero di bambini lavoratori nel mondo è salito a una cifra spaventosa: 160 milioni di bambini, oltre la metà dei quali (cioè 86 milioni) sono nell’Africa sub-sahariana. Questa è la conseguenza della discriminazione razziale e sistematica contro l’Africa. Lo sfruttamento storico e sistematico dell’Africa è in parte da biasimare, ma le ingiustizie e le discriminazioni perpetrate dalla nostra generazione stanno rubando la vita e il futuro ad altri milioni di bambini. Con l’avvento del Covid 19, queste diseguaglianze hanno assunto nuove dimensioni e stanno aumentando a un ritmo rapido, anche attraverso la palese e vergognosa manifestazione sotto forma di apartheid vaccinale. Il peso di queste diseguaglianze, purtroppo, è sostenuto in modo sproporzionato dai bambini più poveri ed emarginati. Inoltre, politiche e programmi sottofinanziati, sottoattuati o applicati in modo selettivo significano che gruppi già vulnerabili come le minoranze etniche e religiose, le comunità rurali e agricole, le bambine e i bambini in movimento hanno molte più probabilità di trovarsi in condizioni di estrema povertà e lavoro minorile. Tutto ciò è aggravato dalla corruzione e dai conflitti che hanno un effetto devastante sui diritti dei bambini. La situazione è aggravata dal fatto che l’Africa ha la copertura di protezione sociale più bassa del mondo, e le funzioni meno coperte includono l’accesso all’istruzione, le indennità di malattia, le indennità per i bambini e la famiglia, la protezione dalla disoccupazione e le indennità pensionistiche. I Paesi africani sono tra i più ricchi di risorse del mondo, eppure non ricevono i profitti che gli spettano a causa di un sistema fiscale globale discriminatorio. Durante la pandemia di Covid, il mondo aveva un nemico comune come mai prima, ma invece di unire l’umanità con la nostra risposta, abbiamo aiutato in modo sproporzionato le imprese e le persone nei Paesi più ricchi e lasciato i più vulnerabili a cavarsela da soli. Sappiamo che solo lo 0,13% dei 12 trilioni di dollari rilasciati come soccorso Covid a livello globale è stato destinato al finanziamento multilaterale dei Paesi a basso reddito. Il resto è stato in gran parte utilizzato per salvare le grandi imprese. I diritti speciali di prelievo del Fmi hanno dato 2.000 dollari per bambino europeo e 60 dollari per bambino africano. La continua e istituzionalizzata sottomissione dell’Africa da parte della comunità internazionale è spaventosa e deve finire. L’Africa sta andando verso la sua prima recessione economica in 25 anni, come risultato della pandemia. Questo, insieme alla mancanza di accesso ai vaccini, significa che gli adulti perdono il lavoro e le famiglie sono spinte in una povertà ancora più grave, costringendo i bambini a sostituirsi come lavoratori sfruttati e schiavizzati. L’incommensurabile sofferenza dei nostri bambini è destinata ad aumentare ulteriormente, e non possiamo più permetterci di guardare dall’altra parte. La buona notizia è che c’è una soluzione potente e provata, la protezione sociale diretta per i bambini. Sappiamo che funziona, come dimostrano gli esempi di Bolsa Familia in Brasile, i pasti a metà giornata in India e i trasferimenti di denaro in Ghana e Uganda. I sistemi di protezione sociale universale, come i programmi pensionistici in Kenya e Tanzania, e i piani di protezione sociale possono sostenere e rafforzare le famiglie. Le misure di protezione sociale di emergenza per aiutare le famiglie più povere durante la pandemia di Covid 19 hanno funzionato dove sono state messe in atto. La protezione sociale elimina la povertà estrema e la diseguaglianza che spinge milioni di persone al lavoro minorile. È stata utilizzata per decenni e nei Paesi più ricchi è la più grande voce di spesa del governo. Solo una piccola frazione, cioè meno di 53 miliardi di dollari, spesa annualmente nei Paesi più poveri, estenderebbe la protezione sociale a tutti i bambini e alle donne incinte nei Paesi a basso reddito e ridurrebbe sostanzialmente la povertà estrema. La globalizzazione della protezione sociale è un’idea storica il cui tempo è arrivato. I bambini dell’Africa sono i nostri figli. È nostro obbligo morale individuale e collettivo proteggerli. Per porre fine al lavoro minorile in Africa, facciamo appello al coraggio, alla compassione e all’umanità di tutti i leader mondiali per: 1. garantire benefici diretti per ogni bambino in Africa dando priorità ai bilanci nazionali e ai programmi mirati, mentre la comunità internazionale soddisfa le sue responsabilità di aiuto attraverso il finanziamento incentrato sull’infanzia dell’Acceleratore globale del Segretario generale dell’Onu su lavoro e protezione sociale; 2. ottenere un’equa rappresentanza dei Paesi africani nel processo decisionale globale, porre fine alla discriminazione nei diritti speciali di prelievo; 3. cancellare tutto il debito dei Paesi a basso e medio-basso reddito in Africa, chiedere conto ai dirigenti o alle imprese corrotte, ed eliminare l’apartheid dei vaccini attraverso la rinuncia temporanea ai diritti di proprietà intellettuale e di accesso alle materie prime per contrastare le vulnerabilità indotte dal Covid in Africa e nel mondo. Chiediamo inoltre ai leader africani di dare ai giovani la possibilità di farsi avanti e rivendicare la loro voce. Essi sono le voci più potenti per il cambiamento e gli architetti del futuro dell’Africa. Insieme a una società civile forte e a un governo di sostegno, i giovani possono essere i padroni del destino dell’Africa. L’Agenda 2030 sta andando verso un fallimento imminente se non poniamo fine al lavoro minorile in Africa. Stiamo, ancora una volta, venendo meno alle promesse fatte ai nostri figli. Finché i bambini africani lavorano nei campi, nelle miniere, nei negozi e nelle case, non sono a scuola. Sono costretti a lavorare al posto di milioni di lavori per adulti, prolungando così cicli intergenerazionali di povertà e diseguaglianza. L’Africa è uno specchio per il mondo. La realizzazione dei diritti di una ragazza in un Paese dell’Africa subsahariana, che viene sfruttata e abusata e a cui viene negato il diritto di sognare, sarà la vera valutazione dei nostri sforzi per realizzare la promessa di non lasciare nessuno indietro. Lei è la nostra bambina. Finché ogni bambino in Africa non è libero, nessuno di noi è libero. Noi, Laureati e Leader per l’Infanzia, stiamo con i bambini, i giovani, i cittadini e i leader dell’Africa per lottare per la nostra visione e responsabilità condivisa di dare ad ogni bambino in Africa un’infanzia libera, sicura, sana ed educata. È tempo di giustizia per tutti i bambini dell’Africa. È tempo di stare con l’Africa. Se la diplomazia russa parla come don Vito Corleone di Anna Zafesova La Stampa, 20 febbraio 2022 “Noi vogliamo fare tutto in modo onesto. Non vorrei ricorrere al gergo, ma abbiamo un codice, se un ragazzo dice una cosa, il ragazzo poi la fa. E i “codici” vanno osservati anche a livello internazionale”. Questa frase di Sergey Lavrov, riferita all’accordo sulle garanzie di sicurezza che Mosca chiede agli Usa, è passata quasi inosservata nei media internazionali, anche perché tradotta suona abbastanza scontata. La versione originale invece ha fatto esplodere i social russi. Perché il ministro degli Esteri russo - descritto dai suoi ammiratori come asso della diplomazia e fine intellettuale che scrive poesie - ha fatto ricorso al gergo della mala. Un linguaggio che ogni russo capisce, tra film cult sulla “mafia russa” e l’esperienza del Gulag che ha fatto conoscere a milioni di persone la subcultura criminale. Per dire “ragazzo” Lavrov usa il termine “pazan”, che oggi ha un significato simile a “picciotto”, un giovanotto che fa parte di una gang, e che si atteggia di conseguenza a un “duro”. Il “pazan” segue i “ponyatia”, i codici della criminalità che regolano i comportamenti e le relazioni tra le bande e i loro singoli componenti. Infatti Lavrov contesta accordi scritti e verbali che secondo lui i leader occidentali hanno violato, e pretende un accordo vincolato ai “codici”, quando un “ragazzo” risponde con la vita della parola data. Un discorso illuminante, soprattutto per chi si osserva la trasformazione di quel tempio del rigore che era ministero degli Esteri russo in un’antenna della propaganda. Il ministro Lavrov ha mostrato più volte di saper padroneggiare anche il lessico inglese, usando la mitica F-word contro un collega londinese (senza parlare di quella volta che ha borbottato in russo “Imbecilli, porca tr...” a una conferenza con i sauditi). Qui però non si tratta né di una gaffe, né di aver perso le staffe: questo è uno stile, brevettato da Vladimir Putin ancora esordiente con il celebre “ammazzeremo i terroristi nel cesso”. La recente filastrocca sullo stupro “piace o non piace, sopporta, bella mia”, diretta all’Ucraina, è soltanto l’episodio più recente dell’eloquio tipico del leader russo. La padronanza del linguaggio della mafia potrebbe essere anche un espediente populista, se non fosse che descrive sempre più spesso anche un comportamento da “pazan”. I fucili e cannoni dei 160 mila soldati russi che stanno circondando in questo momento l’Ucraina ne sono una illustrazione molto chiara: un negoziato si fa con la pistola sul tavolo. La buona volontà, il dialogo, la ricerca di interessi comuni e il compromesso non sono le qualità che fanno un “duro”, nella sua cultura machista l’uomo non deve chiedere mai, e cedere ai compromessi è il destino dei deboli e degli sconfitti. Molti osservatori occidentali, e ucraini, sospettano che il Cremlino stia bluffando, perché non riescono a prendere sul serio le minacce di una guerra, così sproporzionate alle rimostranze russe, così assurde nel 2022 proprio in una zona dell’Europa tra le più martoriate dalle guerre e dai totalitarismi. Ma nei film di mafia chi estrae la pistola deve essere pronto a usarla, e l’Europa comincia a temerlo: Ursula von der Leyen dice alla conferenza di Monaco che l’Ue dovrebbe rinunciare definitivamente al gas russo, “perché non possiamo dipendere da un fornitore che minaccia una guerra nel nostro continente”. La politica del “pazan” infatti spesso ottiene risultati opposti a quelli desiderati: i sostenitori dell’adesione alla Nato in Ucraina sono saliti al 62%, dopo essere rimasti per anni ben sotto al 50%. Anche la storicamente neutrale Finlandia ci sta facendo ora un pensiero, e il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg ieri commentava che, in caso di invasione dell’Ucraina, “invece di avere meno Nato la Russia otterrà più Nato ai suoi confini”. Ma il potere del “duro” esclude il “soft power”, più che amato vuole essere temuto e rispettato (l’”uvazhenie”, il rispetto, è un’altra parola chiave dei “codici” della mala). È per questo che il Cremlino ha schiacciato ogni dissenso, e continua a fraintendere la democrazia per debolezza. È per questo che Putin rifiuta di incontrare Volodymyr Zelensky: significherebbe riconoscerlo come pari, invece che un picciotto degli americani, per cui pretende di negoziare solo con Joe Biden, “il capo”. È una logica che una democrazia fa molta fatica a capire, proseguendo con Mosca quel “dialogo del muto con il sordo”, per usare un’altra battuta fresca dal repertorio di Lavrov.