Rieducati, ma esclusi di nuovo e la strada è il loro fine pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2022 Escono dal carcere, ma si trovano senza il sostegno delle istituzioni. Reclusi già svantaggiati, escono senza nulla e stigmatizzati perché ex detenuti. Una soluzione, però, c’è. Non di rado, nei pressi delle stazioni metropolitane, trovano rifugio dei senza fissa dimora che sono appena usciti dal carcere. Ritornano ai margini della società, ma con uno stigma maggiore perché sono ex detenuti. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le spalle e si è fuori, nel mondo “libero”, è un argomento complicato, dove risulta facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del “problema dei problemi”, la carcerazione. Il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma in mancanza di punti di riferimento, può rappresentare anche l’inizio di un altro incubo dove la prima alternativa che si ha di fronte, è la strada. Non esistono statistiche sugli ex detenuti senza fissa dimora - Non esistono statistiche dettagliate sul percorso post-carcerario, né un’indagine significativa del comportamento tenuto dai dimessi. I cosiddetti “eventi critici”, suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo: vengono monitorati dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria per la popolazione detenuta, ma che cosa succede poi agli ex detenuti non interessa quasi più a nessuno. Gli eventi critici, sono spesso raccontati dagli ex compagni di cella, oppure i volontari del carcere che avevano creato un legame con i detenuti. Si tratta di suicidi, a volte morti violente, morti per overdose, emarginazione totale con conseguente abuso di alcool e droghe, commissione di nuovi reati, vite ai margini nelle schiere dei senza fissa dimora, tutte situazioni per le quali a volte l’unica soluzione sembra tornare ad accettare di ritornare a delinquere. Un dato è certo. Chi esce senza alcun punto di riferimento, sono quei detenuti che sono “marciti in galera”, senza usufruire l’affidamento in prova dove il detenuto viene costantemente seguito e monitorato dagli assistenti, oppure la semilibertà ex art. 21 dove avviene una graduale preparazione all’impatto con la società esterna. Le misure alternative dimezzano la recidiva - Le misure alternative alla pena, non a caso, dimezzano la recidiva. Quei benefici che però, grazie anche ai mass media, vengono percepiti come lassismo, buonismo, impunità. I detenuti più vulnerabili - come ha da sempre denunciato il Garante nazionale delle persone private della libertà - sono coloro che vivevano già ai margini della società. Un tema che solleva perplessità sull’effettiva capacità del carcere di reinserire e rieducare il soggetto detenuto “homeless” anche al momento dell’uscita dall’istituto penitenziario. La mancanza di un alloggio, in questa fase estremamente delicata, comporta che il soggetto, di fatto abbandonato, percepisca maggiormente l’essere emarginato dalla società. È fondamentale preparare alla vita esterna - Ecco quindi che diviene fondamentale una “preparazione” alla vita esterna nell’ultimo periodo di detenzione e un sostegno, anche economico, volto alla ricerca di un alloggio. Uscendo dal carcere senza alcuna meta a causa di un’inadeguata preparazione alla vita sociale, l’ex detenuto si potrebbe ritrovare con deboli mezzi economici, relazioni sociali mozzate e lo stigma che renderebbe assai ardua la ricerca del lavoro e della casa. La disponibilità di un alloggio assume un’importanza fondamentale non solo nella fase preliminare e successiva alla scarcerazione, ma diventa anche un’importante opportunità per scontare la propria pena al di fuori delle mura carcerarie. Il problema del fine pena che spalanca le porte di nuovo nella strada è di primaria importanza. Roberto Giachetti ha presentato una interrogazione sulla mancata costituzione dei Cas - Ricordiamo che giace da tempo una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della giustizia Marta Catabia che ha come primo firmatario il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, per chiedere contezza della mancata costituzione dei Consigli di aiuto sociale (Cas) che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti, in particolar modo quelli che finiscono di scontare la pena, aiutandoli a risolvere i problemi familiari. Ne parlò l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini durante la trasmissione di Radio Radicale “Radio carcere”. A ottobre scorso, il neopresidente del Tribunale palermitano Antonio Balsamo (il già presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta che acclarò il depistaggio di Via D’Amelio con la sentenza di primo grado del Borsellino Quater) ha costituito il primo Cas d’Italia a Palermo. I Cas esistono sulla carta dal 1975 - Eppure, questo istituto esiste sulla carta fin dal 1975. Nell’interrogazione parlamentare si premette che diversi articoli della legge sull’ordinamento penitenziario, fanno tutti riferimento alla costituzione - presso il capoluogo di ciascun circondario - dei “Consigli di aiuto sociale” ai quali sono affidati una serie di importanti compiti relativi all’assistenza penitenziaria e post - penitenziaria. “Ad avviso dell’interrogante - si legge nell’interrogazione - questi enti, dotati di personalità giuridica e sottoposti alla vigilanza del ministero della giustizia, sono fondamentali per corrispondere al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 e relativo all’inserimento sociale delle persone detenute e per far fronte al soccorso e all’assistenza delle vittime del delitto”. Potrebbe essere fondamentale che lo Stato si prenda in carico questo problema del fine pena. Ma a questo, va aggiunto anche un altro problema al livello locale da risolvere. Nelle più grandi città d’Italia, dove logicamente si concentra il problema, si rendono necessarie strutture ospitanti, quali dormitori, comunità alloggio, centri residenziali, case-famiglia, che accolgano le persone in misura alternativa o che finiscono di scontare la pena. Sui territori la presenza di associazioni ed enti comunali preposti alla gestione di simili strutture si registra in numero assai ridotto rispetto alle reali esigenze. Meno carcere, più misure alternative e più assistenza per le persone vulnerabili. Sono migliaia i detenuti privati del diritto alla misura alternativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 febbraio 2022 Le istanze di misura alternativa vengono rigettate perché i detenuti con una pena totale o residua inferiore a 3 anni non hanno casa e lavoro. Il nostro sistema penitenziario tende a far scontare la pena carceraria anche per reati minori, contribuendo quindi all’idea che il carcere possa e debba essere la soluzione unica e definitiva. Una parte di loro ha un doppio svantaggio. Nonostante ne abbiano il diritto, non posso usufruire della misura alternativa per via delle loro condizioni di marginalità sociale. La possibilità è offerta a coloro che si trovano a dover scontare una pena totale o residua inferiore a 3 anni. Ma tanti di loro non possono per mancanza di casa, lavoro e legami familiari. Viene meno, per loro, la volontà di creare un ponte verso l’esterno al fine di garantire un inserimento sociale a tutti coloro che hanno affrontato il percorso rieducativo. Il Garante nazionale delle persone private della libertà, nell’ultima presentazione della relazione annuale al Parlamento, ha sottolineato la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni. “È un tema - ha relazionato il presidente Mauro Palma - che chiama alla responsabilità anche il territorio perché il carcere da solo non può rispondere ad altre carenze”. Ed è il territorio che non si prende a carico del problema. Emblematico l’esempio di un recente progetto degli “Avvocati di strada”, proprio sul tema dei senza fissa dimora che finiscono in carcere. Fa l’esempio di una persona condannata a 1 anno e 5 mesi, che a seguito delle vicissitudini legate alla precarietà del lavoro, dei rapporti familiari e relazioni che caratterizzano la nostra società, ha perso la casa, magari dopo un mutuo pagato per 10 anni su 20 e che ora vive in strada e quando è fortunato riesce a passare qualche notte in dormitorio e garantirsi una doccia calda. Ecco, questa persona vedrà rigettarsi la domanda di misura alternativa: alla voce “residente” o “domiciliato in” avrà difficoltà. Qualora sia un minimo fortunato e abbia una residenza da dichiarare, sarà sicuramente difficile compilare la voce attività lavorativa svolta, attività di volontariato svolta, percorso di rieducazione svolto. Soprattutto se da solo di fronte a quel modulo. Per il nostro senza dimora si apriranno, quindi, le porte dell’istituto penitenziario, ma soprattutto si apriranno tutte le porte dei rischi che il carcere oggi comporta in Italia. Lavoro ai detenuti. Aiuterebbe ma non c’è di Jacopo Storni Corriere della Sera, 1 febbraio 2022 Solo il 34% dei 54mila reclusi nelle carceri italiane è impegnato in un lavoro. I legami tra mancanza di occupazione, alto tasso di recidiva, problemi di salute. Una ricerca mostra la “forbice” tra dipendenti dell’amministrazione e di altri datori. Se il 50% fosse attivo in aziende produrrebbe un fatturato extra di 900 milioni. Senza lavoro il reinserimento dei detenuti è più difficile e il rischio di recidiva è alto. Eppure soltanto il 34% dei 54mila reclusi italiani è occupato in attività lavorative. Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria valuta: “È una percentuale maggiore dell’immaginabile, ma certamente più bassa del desiderabile: dobbiamo mirare all’en plein con tutti i reclusi impiegati in una professione”. Grazie all’impegno del Terzo settore, in questi anni in vari Istituti sono fioriti esempi virtuosi: in carcere si formano e operano pasticceri, tornitori, sarti, operatori di cali center, impiegati, falegnami. Con un doppio vantaggio: il tasso di recidiva scende, la produttività sale. Fondazione Zancan, Acri e Fondazione Con il Sud, con il patrocinio del Ministero della Giustizia, hanno cercato di misurare proprio l’impatto generato da queste pratiche: la ricerca “L’impatto sociale del lavoro in carcere” ha coinvolto 337 detenuti lavoratori negli istituti penitenziari di Padova, (162), Siracusa (63) e Torino (112): l’88 per cento è impiegato nell’amministrazione penitenziaria, la restante parte in cooperative esterne al mondo del carcere. Dallo studio emerge come il lavoro in carcere non rappresenti soltanto una missione sociale, ma abbia ricadute importanti anche sul piano economico: nel 2019 le cooperative coinvolte nei tre istituti hanno impiegato 210 detenuti, con un fatturato complessivo di circa 7,5 milioni di euro. Mantenendo queste proporzioni, se il 93 per cento dei detenuti in Italia fosse impiegato presso cooperative ciò garantirebbe: benefici diretti per 25mila detenuti in più occupati; opportunità occupazionali per ulteriori 13mila persone non detenute; un maggior fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. Ne sono prova gli istituti dove la produttività corre forte. Tra questi c’è il carcere di Padova, dove circa 150 reclusi sono impiegati tra pasticceria, attività di assemblaggio e cali center sanitario; e poi Siracusa, dove una trentina di detenuti producono dolci; e ancora Torino, dove sono circa 100 i carcerati che producono caffè, lavorano in un panificio e in una serigrafia; e poi Milano Bollate, dove quasi zoo persone lavorano in un call center e in attività di manutenzione. Tra di loro c’è Mario, 54 anni, responsabile del Contact center del carcere di Padova: “La prima notte in carcere mi sembrava di soffocare in un baratro di cemento, oggi grazie all’impiego ho stima di me stesso, ho riacquistato dignità, ho uno stipendio e contribuisco a mantenere la mia famiglia fuori dal carcere”. E poi Gianluca, 48 anni: “In carcere avevo perso quel poco di dignità che avevo, mi sentivo una nullità”. Poi la svolta con il lavoro con la cooperativa Extraliberi: “Sono diventato un serigrafo e ho imparato a stampare magliette, con quei soldi aiutavo i miei anziani genitori, è passato appena più di un anno da quando ho finito di scontare la pena e ho ancora un lavoro, lo stesso lavoro”. Dalla ricerca emerge con forza questo miglioramento nella qualità della vita che porta ad abbattere il tasso di recidiva. “Lavorare aiuta mentalmente e fisicamente, tiene la mente impegnata e previene la depressione”, confermano i ricercatori. Nello specifico: sono “depressi” e “scoraggiati” venti detenuti su cento tra coloro che lavorano per cooperative, 25 su cento tra chi lavora per l’amministrazione penitenziaria, mentre la percentuale sale al 55 per cento tra i detenuti senza impiego. Chi lavora, si evidenzia inoltre nel dossier, sperimenta maggiori consapevolezze sulle proprie capacità e fragilità rispetto a chi non lo fa, oltre a sviluppare un rapporto meno conflittuale conia detenzione. Chi non lavora chiede più rispetto (73 per cento) in confronto a chi è impiegato per l’amministrazione (64 per cento) o nelle cooperative (61). È complessivamente soddisfatto di se stesso il 75 per cento dei reclusi impiegati, ma con una forbice di undici punti percentuali tra i dipendenti dell’amministrazione (70 per cento) e quelli delle cooperative (81). Per l’84 per cento degli intervistati la professione tra le sbarre migliora la vita. Il messaggio alla politica è chiaro: “Serve una riflessione sulla carenza di lavoro in carcere - dice Tiziano Vecchiato, presidente di Fondazione Zancan perché impedire a un detenuto di lavorare è contro la Costituzione. Rivolgo quindi un appello a tutto il mondo imprenditoriale, produttivo, politico e sociale italiano, dal Terzo settore alla Confindustria”. Misure richieste urgentemente tanto più che, come indicato nell’articolo 20 dell’ordinamento penitenziario, “nei penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione dei detenuti al lavoro”. Secondo Francesco Profumo, presidente di Acri, l’Associazione che rappresenta le Fondazioni di origine bancaria, “lo scenario carcerario è molto lontano da quanto immaginato dai padri costituenti della Costituzione italiana”, mentre per Carlo Borgomeo, presidente Fondazione con il Sud, “siamo di fronte a una clamorosa prassi di diritti negati”. Lavorare in carcere giova alla salute dei detenuti e diminuisce la recidiva di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 febbraio 2022 “Abbiamo voluto realizzare uno studio che valutasse i benefici diretti e misurabili nel breve periodo del lavoro durante la detenzione nella prospettiva di dimostrare i vantaggi concreti di un modello organizzativo applicato a una percentuale di detenuti che potrebbe davvero fare la differenza rispetto al sistema attuale”. Così Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Emanuele Zancan - promotrice, insieme alle Fondazioni Compagnia di San Paolo, Con Il Sud e Cariparo - Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo dello studio “Valutare l’impatto sociale del lavoro in carcere” - commenta i risultati di un lavoro durato tre anni e recentemente resi pubblici. La ricerca, che ha ottenuto il patrocinio del ministero della Giustizia, ha valutato gli effetti del lavoro in carcere per i reclusi e l’impatto sociale per le famiglie e l’amministrazione, con riferimento a quattro aree: organico-funzionale, cognitivo-comportamentale, socio ambientale e relazionale, valoriale e spirituale. Oltre 300 gli arruolati tra i detenuti di Torino, Padova e Siracusa, un terzo dei quali occupato presso cooperative, un terzo dipendente dell’Amministrazione Penitenziaria (AP) e un terzo inattivo. Per comprendere gli importanti aspetti messi in luce dai risultati, va ricordato che negli istituti penitenziari 2.130 detenuti sono assunti da ditte esterne mentre 15.827 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione (dati Ufficio statistiche Dap report del 30 giugno 2021). Tra questi ultimi, solo 1742 sono impegnati nelle cd “lavorazioni” (falegnamerie, officine, sartorie, tipografie, tessitorie) che offrono una formazione professionalizzante mentre la maggior parte svolge, perlopiù con la modalità della turnazione, attività di tipo domestico (pulizie, facchinaggio, piccola manutenzione). Caratteristiche diverse incidenti sui risultati dello studio che, pur attestando, l’impatto positivo del lavoro in generale sulle aree osservate, rileva benefici più netti per i dipendenti di aziende esterne. Tra i dati più significativi la diminuzione della depressione tra chi lavora (20% per i dipendenti da cooperative e 25% tra chi lavora per l’A.P.) rispetto a chi è inattivo (55%), minore incidenza dell’obesità (7% tra i dipendenti delle cooperative rispetto al 14,4% tra i disoccupati) e aumento dell’autostima A.P. (82,0%) e chi lavora per le cooperative (96,1%). Diverso anche l’atteggiamento nei confronti della pena per chi è attivo: solo il 30,8% dei detenuti non occupato considera giusta la propria condanna, percentuale che sale al 39,8% tra i lavoranti per l’amministrazione penitenziaria e al 41,2% tra gli assunti dalle cooperative. Risultati nel complesso utili a spiegare la riduzione dei rischi di violenza nelle carceri e di recidiva. Il Presidente di Fondazione Zancan ha richiamato l’attenzione, tra le ricadute più estese, su quelle relative al sistema economico. Nel 2019 le cooperative coinvolte nei tre istituti hanno impiegato 210 detenuti e altre 106 persone all’esterno, con un fatturato complessivo di circa 7,5 milioni di euro e un gettito d’IVA di 750.000 euro. “Mantenendo queste proporzioni - aggiunge Tiziano Vecchiato - se il 50% dei detenuti in Italia fosse impiegato presso cooperative (o altri soggetti esterni) vi sarebbero benefici diretti per 25 mila detenuti in più occupati e per ulteriori 13 mila persone non detenute. Si stima un fatturato pari a 900 milioni di euro in più all’anno, con un corrispondente maggiore gettito Iva pari a 90 milioni di euro in più annui. In prospettiva si potrebbe inoltre realizzare un risparmio di 700 milioni di euro all’anno nella spesa pubblica per il carcere, grazie alla riduzione della recidiva”. “La distanza da colmare -conclude - è grande ma non impossibile. Una sfida da raccogliere anche perché la forza dei dati testimonia la doppia redditività, economica e umana, del lavoro così come gestito nel campione analizzato. Un risultato, dunque, che attua nel concreto il dettato costituzionale sulla funzione della pena”. Nessuna riforma risolverà niente se non si coinvolge il no profit di Nicola Boscoletto* Corriere della Sera, 1 febbraio 2022 Questa ricerca può essere considerata “di svolta” per tre motivi. Il primo è l’effetto positivo sui detenuti: per la prima volta qualcuno li ha ascoltati, cercando di capire come stanno e come la loro vita sta cambiando. Proporrei tre parole chiave: accoglienza, ascolto e partecipazione attiva. Lasciamo stare le riforme, o meglio, facciamole e facciamole meglio possibile: ma sappiate che non serviranno a niente se non ci saranno accoglienza, ascolto, partecipazione e coinvolgimento di tutti. Secondo motivo: come immettere democrazia in un sistema scarsamente democratico, che ha un debole per l’omologazione e per il pensiero unico. La commissione sull’innovazione del sistema penitenziario ci invita a “conoscere la realtà dell’esecuzione penale”. Ma questo significa aver condiviso in tutti i suoi passaggi almeno un percorso di inserimento di una persona detenuta, dentro e fuori del carcere con una costanza quasi giornaliera (fisica e non teorica), per avere poi una conoscenza non astratta delle persone detenute, del contesto in cui vivono, delle paure, delle fatiche, degli ostacoli di cui è piena la strada che devono percorrere. In più di trent’anni di frequentazione quotidiana abbiamo imparato che nelle carceri non esiste la libertà di pensiero, di libera espressione: non esiste per noi operatori del Terzo settore, immaginiamoci se esiste per le persone detenute. Questo fa crescere giorno dopo giorno una forte sfiducia verso le istituzioni, spesso percepite come il nemico principale della rieducazione. Conoscere sulla carta le norme e cambiarle non basta: sono le persone a cui quelle norme verranno applicate e le persone che dovrebbero applicarle che devono cambiare. Deve cambiare il loro modo di porsi di fronte alla realtà in cui vivono e operano. Terzo motivo: fare assieme. Molti se ne riempiono la bocca, ma nella pratica non si trova traccia. Il punto fondamentale è la scelta degli ingredienti. Spesso sono gli ingredienti meno nobili, più piccoli, meno costosi, più poveri a fare la differenza, pensate al sale o al lievito o alle uova. Continuare ad ascoltare e far lavorare solo due parti, necessarie ma non sufficienti, e cioè da una parte l’amministrazione penitenziaria / Ministero della Giustizia e dall’altra professori, studiosi, esperti, non è sufficiente. Questa ostinata resistenza a un approccio globale, che aiuti ad andare veramente alla radice dei problemi, non solo non farà fare passi in avanti, ma farà inesorabilmente retrocedere tutto il sistema, demoralizzando così anche quei pochi che sono rimasti a presidiare il fortino in fiamme. Se non si fosse capito, il terzo ingrediente che finora non è stato considerato con piena titolarità e dignità è il Terzo settore, che assieme al secondo è quello che risulta essere più “distaccato” e perciò in grado di essere più oggettivo. Ma tutti e tre i settori hanno un assoluto bisogno l’uno dell’altro per tentare un cambiamento epocale. Si devono mettere a confronto competenze, ma anche “sguardi diversi”, non basta chiamare gli “esperti”, bisogna pensare e lavorare insieme. Speriamo che, come ho visto fare in questi 30 anni, non si facciano le cose e poi si buttano via, o nel migliore dei casi sì lascino nel cassetto. Tante cose buone, concretamente buone, valide anche scientificamente, sono state letteralmente buttate via, come tanti interventi previsti da norme ben precise non sono quasi mai stati attuati. Non sprechiamo altre occasioni. *Presidente Cooperativa sociale Giotto Fate studiare a scuola quella sentenza su 41-bis e avvocati di Aurora Matteucci Il Dubbio, 1 febbraio 2022 Mai come con l’ultima decisione, la Corte costituzionale aveva illuminato il valore supremo della funzione difensiva. Nonostante l’attenzione dei media sia stata in questi giorni assorbita dall’affaire Quirinale, ha destato un’inaspettata attenzione la recente sentenza della Corte costituzionale che ha censurato l’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non garantisce la segretezza delle comunicazioni tra assistito e difensore imponendo il visto di censura della corrispondenza. Inaspettata se non altro perché i principi che la Corte afferma, ad occhi forse troppo ingenui, possono apparire tutto sommato scontati. Eppure, mai come oggi, repetita iuvant. Ci sono voluti diversi anni (venti, per l’esattezza) per affermare l’ovvio. E cioè che “il visto di censura riflette una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. La disciplina che introduce il visto di censura nella corrispondenza del detenuto in regime di 41 bis è stata introdotta nel 2002, il 23 dicembre: non proprio un regalo di Natale. Fu poi successivamente irrigidita nel 2009. Per la verità non si menziona esplicitamente la necessità di un visto di censura nella corrispondenza tra difensore e assistito, vietata peraltro da altra disposizione dell’Ordinamento penitenziario, l’art. 18 ter. Ma, trattandosi di disposizione speciale che espressamente esclude il visto di censura solo per le comunicazioni tra detenuto e membri del Parlamento o con autorità europee e nazionali aventi competenza in materia di giustizia e non tra detenuto e difensore, secondo la Corte costituzionale ben si sarebbe potuto affermare, sulla base della disposizione censurata, che quella corrispondenza fosse oggetto del controllo e della sorveglianza dell’autorità. Quella che doveva essere una norma a statuto eccezionale e temporaneo - il 41 bis- è ben presto diventata il manifesto autocelebrativo di uno Stato dal pugno duro, incapace di affrontare i diritti fondamentali secondo Costituzione. Conosciamo la storia del 41 bis. Molti di noi conservano ancora l’immagine dell’autostrada A 29, in zona Capaci, sventrata da 500 kg di tritolo, gli elicotteri intorno, le auto saltate e divelte in una minutaglia di lamiere. L’inutile corsa in ospedale del magistrato Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Il macabro scenario di uno dei più feroci attacchi al cuore dello Stato. A distanza di 16 giorni dall’attentato, il Governo dichiara guerra alla mafia varando, era l’8 giugno del 1992, il decreto legge che avrebbe irrobustito, in un giro di vite strettissima, il regime carcerario dei boss mafiosi. Vi si introduce la cosiddetta sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario: un 41 bis in versione aggiornata e rinnovata. La conversione in legge non si fece attendere. Era l’8 agosto. Venti giorni prima, il 19 luglio 1992, stessa sorte era toccata a Paolo Borsellino. Della cronaca di quei giorni conserviamo memoria, anche se la storia ha consegnato brandelli di verità, ipocrisie, depistaggi. Il carcere durissimo per i mafiosi doveva risultare, però, una misura eccezionale e temporanea. Era già chiaro allora come questa sospensione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario potesse entrare in rotta di collisione con la Costituzione, in particolare con la finalità rieducativa della pena. Come bene ha detto l’avv. Maria Brucale, in un’intervista resa a Damiano Aliprandi su queste pagine il 22 dicembre del 2017, “l’Ordinamento penitenziario è - coerentemente con l’art. 27 della Costituzione - interamente orientato alla rieducazione del ristretto e a un trattamento intramurario individualizzato, il più possibile rispondente alla personalità del soggetto. Basta soffermarsi su tale aspetto per rendersi conto della vistosa incostituzionalità di un regime che sospende per tempi indefiniti l’accesso del ristretto alla rieducazione. Ci sono persone detenute in regime differenziato fin dal tempo dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario; 25 anni di carcere duro che isola dagli affetti e costringe in ambiti asfittici ogni anelito di vita emotiva e creativa. Si tratta di carcerazioni punitive sottratte per legge alla finalità cui ogni pena deve tendere, la restituzione dell’individuo alla società”. Ma, come spesso accade ed è accaduto per le libertà personali e per i diritti fondamentali, nuove epifanie emergenziali (o dichiarate tali), hanno avuto lo scopo di trasformare l’eccezione in regola. Così, neanche a dirlo, quel 41 bis viene conservato e rimodulato secondo esigenze sempre nuove, elevato a grimaldello sul quale si misura l’attendibilità di una classe politica incapace ormai di relegare la repressione a fenomeno minimo, ancillare, eventuale. Ed arriviamo, a colpi d’emergenza, prima al 2002 e poi al 2009, quando la disposizione viene interpolata e ulteriormente irrigidita nei termini oggi giudicati incostituzionali: non è un caso che l’ultimo provvedimento in senso cronologico, quello del 2009, che ha limitato ulteriormente il diritto di difesa, recasse l’altisonante nome di “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. Vien da chiedersi: in che termini il diritto di difesa genera insicurezza? Quando esattamente è accaduto che “difensore” facesse rima con “fiancheggiatore”? Ha risposto, senza farsi attendere, il direttore de Il Fatto quotidiano in una delle solite invettive contro gli avvocati. Pare che non abbia gradito l’ultima sentenza della Corte costituzionale. “Geniale” - ha scritto - “così i boss mafiosi potranno ordinare omicidi e stragi”. Detto meglio, si serviranno dei loro difensori per consegnare pizzini. Non stupiscono le invettive e gli strali dell’uomo - cui ha fatto eco l’immediata reazione di Ucpi e del Cnf - ma per quanto si sia fatta l’abitudine a questo genere di affermazioni, un pruriginoso senso di indignazione scuote le coscienze dei pochi, ahimè, che ancora credono che il diritto di difesa sia il sacrosanto baluardo di una società democratica, che il suo contrario appartenga a periodi storici che vorremmo relegare in un passato remoto, superato proprio con l’avvento, guarda caso, della Costituzione. Eppure gli avvocati continuano ad essere minacciati non solo in territori dominati da severe dittature o manifeste sospensioni dei diritti umani. Ma una strisciante, indomita, insuperata sensazione di diffidenza di manzoniana memoria (l’Azzeccagarbugli) fa da eco alle parole di Travaglio anche nella democratica Italia. “Come fai a difendere un criminale sapendolo tale?” non è solo una litania da bar, ma un dubbio tra i più resistenti, che inanella a cascata sentimenti di sospetto e diffidenza per una delle funzioni più strategiche per la tenuta democratica del paese. Forme, neppure troppo velate, di minaccia si annidano sui social, vengono scagliate all’indirizzo di chi ha assunto la difesa dei mostri indifendibili: il femminicida, il pedofilo, il terrorista, il mafioso e chi più ne ha più ne metta. In questa era del mainstream manettaro, difendere chi è già stato giudicato indifendibile da una platea male informata di leoni da tastiera non è solo uno spreco di energia, ma il segno tangibile che tra difensore e assistito si suggelli un sodalizio, criminale appunto, al solo scopo di farla fare franca al secondo. È fin troppo ovvio che in questo clima di allarmante impoverimento etico e culturale, il segreto della conversazione tra difensore e difeso, anziché indispensabile declinazione dell’effettività del diritto di difesa, diviene esso stesso cartina di tornasole che tra i due “sodali” possano annidarsi complicità criminali che sfuggono all’occhio vigile dell’autorità. Andrebbe letta nelle scuole, questa sentenza, pubblicata sui quotidiani mediante un’opera di alfabetizzazione ai principi costituzionali. E ripetere, ad alta voce, come si faceva con le poesie che ci facevano imparare a memoria, che il diritto di difesa costituisce “principio supremo” dell’ordinamento costituzionale e comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore “allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti”. D’altra parte, “se un avvocato non potesse conferire con il suo cliente e ricevere da lui istruzioni riservate al riparo della sorveglianza da parte dell’autorità, la sua assistenza tecnica perderebbe gran parte della sua utilità, mentre la Convenzione mira a garantire diritti concreti ed effettivi” (Corte europea dei diritti dell’uomo, anche nella sentenza del 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia). Qualche anno fa un pubblico ministero di Torino, Paolo Borgna, scrisse un libro -sulla falsa riga del volume di Piero Calamandrei- che si intitola “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore”. Se solo il dott. Travaglio avesse la pazienza di leggere quelle pagine, avrebbe di che imparare: “Tutti i giorni trattiamo il dolore, la vita, gli affetti degli altri. Spesso ne determiniamo il corso. E lo facciamo quasi senza rendercene conto. Questo è inevitabile e persino salutare: non possiamo farci trascinare nel gorgo delle vicende umane di migliaia di vite che il nostro lavoro ci fa incrociare. L’avvocato - con la sua “professione di carità”, con il suo “tener compagnia a chi si trova a tu per tu con il dolore” - è lì a ricordarci quei destini che noi tocchiamo. È lui il tramite tra le nostre carte e la vita degli altri, è lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevarci da quel peso indicibile”. Perché l’avvocato è, sempre per Borgna, un mediatore sociale (altro che fiancheggiatore!) che contribuisce, al pari del magistrato, all’unitaria funzione di rendere giustizia. “Csm, urgente la riforma. La politica si confronti sull’idea di un’Alta Corte” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 febbraio 2022 Secondo l’onorevole Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, “occorre assolutamente accelerare su tutti i temi che riguardano la giustizia”. Il Capo della Stato Sergio Mattarella, quale Presidente del Csm, “è stato tempestivo e rigoroso nel denunciare, usando parole inusualmente dure, le storture del funzionamento della magistratura e nel sollecitare un profondo rinnovamento anche di natura normativa”. Un messaggio alle Camere, come fece Napolitano? “Ha tutti gli strumenti per pungolarci”. Sui risultati del referendum dell’Anm: “Ne prendiamo atto ma decidiamo in autonomia”. Per qualcuno Mattarella non ha denunciato o agito abbastanza in merito alla crisi di credibilità che ha investito la magistratura, per altri invece ha agito e parlato nei momenti necessari. A me pare, come pure conferma l’articolo che lei ha scritto domenica, che Mattarella sia stato tempestivo e rigoroso nel denunciare, usando parole inusualmente dure, le storture del funzionamento della magistratura e nel sollecitare un profondo rinnovamento anche di natura normativa. Con il suo solito stile e modalità istituzionalmente corrette, Mattarella ha dimostrato di essere molto attento e sensibile alla necessità di una profonda riconquista di credibilità e fiducia dell’ordine giudiziario. Nonostante questi moniti, c’è uno stallo politico. Non è grave il fatto che la politica dal 2019 non abbia raccolto i moniti del Presidente? Ricordiamo che il testo base della riforma del Csm è stato adottato ad aprile 2021... Adesso, superato questo passaggio delicatissimo per la vita politica ed istituzionale del Paese, occorre assolutamente accelerare su tutti i temi che riguardano la giustizia, a partire dalla riforma del penale e civile: bisogna elaborare rapidamente i decreti delegati. Poi occorre mettere mano alle altre due ulteriori riforme, quella del Csm, visto che a luglio ci sarà il rinnovo della consiliatura, e quella dell’ordinamento penitenziario, concludendo il percorso iniziato nella passata legislatura. In ultimo vorremmo, anche se ci rendiamo conto che non sarà facile, che si aprisse una seria discussione per l’introduzione di una Alta Corte, che definisca le questioni disciplinari ed i ricorsi, anche in merito alle promozioni, che riguardano tutte le magistrature, anche quella amministrativa. Un’Alta Corte potrebbe evitare che Mattarella corra al plenum del Csm per limitare i danni, come accaduto con Curzio e Cassano... La sua presenza ha rappresentato una ulteriore legittimazione della scelta del Csm di riconfermare i vertici della Cassazione, a seguito di una decisione del Consiglio di Stato che rischiava di aprire un ennesimo conflitto interno alla magistratura. Questo è un elemento in più che ci fa capire quanto sia opportuno e necessario dare vita ad un’Alta Corte che sottragga la magistratura a questo tipo di conflitto. Tornando allo stallo della politica sulla riforma del Csm, ci sono le condizioni affinché Mattarella possa fare un messaggio alle Camere, come fece l’ex Presidente Napolitano in merito all’emergenza carcere? Penso che il Presidente Mattarella abbia tutti gli strumenti formali ed informali per continuare a pungolare il Governo e il Parlamento a fare in fretta. Lei intravede nei discorsi di Mattarella la sua contrarietà al sorteggio per i Consiglieri del Csm? Il Presidente, essendo molto attento e sensibile, per la sua formazione giuridica e per i ruoli che ha ricoperto in passato, ai principi di natura costituzionale, credo che possa nutrire qualche perplessità sul sistema del sorteggio. Per quanto riguarda il Partito democratico, noi preferiremmo continuare a lavorare su sistemi elettorali diversi dal sorteggio, anche temperato. Quello che ha individuato la ministra Cartabia ci sembra una buona base di partenza, che potrà ricevere degli aggiustamenti anche significativi nel corso della discussione parlamentare, consapevoli comunque che la riforma del sistema elettorale non sia la panacea di tutti i mali, di tutti i vizi della magistratura. Però cominciamo a discuterne alla Camera, altrimenti continuiamo a parlare del nulla: occorre che le proposte della Guardasigilli arrivino rapidamente in Commissione. Immaginando che la riforma della legge elettorale del Csm sia immediatamente applicativa, per tutto il resto si pensa ad una delega. Se non ci facesse in tempo ad esercitarla in questa legislatura, andrebbe tutto perso dopo le elezioni del 2023? No, perché la delega può essere esercitata anche dal Governo successivo. Per farle capire meglio: il Governo gialloverde avrebbe potuto tranquillamente portare a termine la riforma dell’ordinamento penitenziario elaborata dal precedente Esecutivo; non lo fece, o meglio attuò solo una minima parte. Poi invece portò a termine la riforma delle procedure di insolvenza, con legge delega approvata della precedente legislatura. Il referendum indetto dall’Anm la scorsa settimana dice tre cose: poca affluenza che fotografa un distacco dall’attività associativa, inaspettatamente il 42% dei votanti ha detto sì al sorteggio, la proposta Cartabia sul maggioritario esce estremamente indebolita. La politica cosa ne farà di questo quadro? Prendiamo atto di questi risultati: quei 1700 voti a favore del sorteggio segnalano comunque una insoddisfazione dei magistrati rispetto all’attuale sistema e alla proposta di riforma. Dopo di che la politica ha la sua autonomia. Ardita: “Mai la politica scontenterà le toghe potenti” di Angela Stella Il Riformista, 1 febbraio 2022 Il nuovo processo penale? “Sarebbe stato meglio depenalizzare. Il carcere deve essere l’extrema ratio”. Il Consiglio di stato? “Dobbiamo avere lo stesso rispetto che pretendiamo per le nostre decisioni”. Parla il consigliere del Csm. In questa lunga intervista il dottor Sebastiano Ardita, Consigliere togato del Csm, già Direttore dell’Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento del Dap, ci dice molte cose importanti. Innanzitutto boccia la proposta Cartabia del sistema maggioritario per l’elezione dei consiglieri del Csm: “Si aggraverebbe la situazione fino al parossismo”. Oltre a ciò, in questo momento la politica non è in grado di fare nessuna riforma: “Prova ne è l’incapacità di riformare il Csm in modo da scontentare i potentati interni alla magistratura”. E sulla riforma del processo penale aggiunge: “manca una direzione chiara. Sarebbe stato meglio depenalizzare”. Inoltre l’esercizio della giustizia “non deve essere condizionato dai media o dai poteri forti”. Infine sulle carceri: “Aumentare il ricorso alle misure alternative”. Fuori ruolo e valutazioni di professionalità? “Riforme importanti da fare”. Come legge i risultati del referendum indetto dall’Anm? Li leggo nel modo più semplice possibile: più di un quarto degli iscritti alla Anm è a favore dell’attuale sistema di elezione ed a ciò che ne consegue; poco meno di un quarto è apertamente contro il dominio delle correnti e vuole il sorteggio; e la metà è indifferente al problema, altrimenti sarebbe andata a votare. Inoltre solo una minima parte dei votanti vorrebbe un sistema maggioritario che farebbe sparire le opposizioni e consegnerebbe tutti al governo assoluto delle oligarchie dei gruppi. Secondo Lei la politica dovrebbe, e se sì in che modo, tenere conto dell’esito del voto? La politica dovrebbe agire unicamente nell’interesse dei cittadini e dei valori costituzionali. Non c’era bisogno di guardare all’esito del referendum per capire che adottando il sistema maggioritario si aggraverebbe la situazione fino al parossismo. Non mi capacito di come possa essere venuto in mente di proporre il sistema maggioritario con collegi uninominali. A suo parere, che rapporto c’è ora tra la magistratura e la politica? Quest’ultima potrebbe approfittare del momento di debolezza della prima per fare delle riforme sgradite e/o non necessarie? In teoria è possibile. Ma non me la sento di avallare questa tesi per il semplice fatto che il primato della politica in una democrazia si giustifica nell’interesse dei cittadini. Il valore più importante è l’indipendenza dei magistrati che operano sul territorio rispetto alla politica ma non solo, anche rispetto al potere interno. E non mi va di utilizzare come uno slogan il pericolo che la politica cattiva possa incidere sulla giustizia che invece funziona bene. Perché questo slogan è stato utilizzato anche per mantenere in vita il sistema delle correnti. Detto ciò ho l’impressione che la politica in questo momento non sia in grado di fare nessuna riforma. Prova ne è l’incapacità di riformare il Csm in modo da scontentare i potentati interni alla magistratura. A proposito di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, crede anche lei che siamo in un tale ritardo che forse si farà solo in tempo a elaborare una nuova legge elettorale? Credo che siamo in ritardo per tutto. L’Unione Camere Penali chiede due cose principalmente: valutazioni di professionalità, tenendo presente anche gli esiti, e riforma dei fuori-ruolo. Che ne pensa? Penso che siano riforme importanti. In particolare il problema dei fuori ruolo va affrontato in modo radicale. Nelle funzioni non pertinenti alla giustizia andrebbe esclusa la possibilità del fuori ruolo, mentre in altri settori la presenza di magistrati si è rivelata indispensabile. Occorre però essere consapevoli che la cooptazione in ruoli di vertice per nomina politica potrebbe porre gli stessi problemi che pone l’impegno politico in sé. Per questi casi, anziché limitare nel tempo l’utilizzo dei magistrati che in certi settori è indispensabile, si potrebbe consentire loro di optare per rimanere definitivamente nei ranghi dell’amministrazione. Conosciamo la sua sensibilità per la questione carceraria. Dopo quasi vent’anni, nelle carceri ancora si applicano le circolari sul trattamento dei detenuti che aveva scritto, regolamentando per la prima volta il funzionamento delle aree educative delle carceri. La fotografia è quella di un carcere sempre più affollato, aumento dei suicidi, Covid. Alcune strutture, ha detto la Ministra, gridano vendetta. La radicale Rita Bernardini con i suoi scioperi della fame, Giachetti e il Pd propongono soluzioni immediate. Per Lei quale sarebbe la strada per fronteggiare questa emergenza? È un discorso lungo, occorrono più azioni: aumentare il ricorso alle misure alternative; evitare di usare il carcere come contenitore del disagio sociale; depenalizzare facendo della detenzione l’extrema ratio; investire su nuove strutture pensando ad una architettura che si presti al trattamento; ma soprattutto investire sul personale. Un carcere diventa civile se agenti e funzionari lavorano in condizioni civili e godono della piena fiducia dei cittadini e delle istituzioni. Se vengono abbandonati a se stessi, tenderanno a farsi giustizia da sé. Come è accaduto nella deprecabile vicenda di Santa Maria Capua Vetere. Perché ha votato No alla riconferma di Curzio e Cassano? Perché, come ho avuto modo di spiegare, nella motivazione approntata a tempo di record mancavano a mio avviso gli argomenti necessari a colmare le lacune e le contraddizioni rilevate dal Consiglio di Stato. Abbiamo il dovere di rispettare le sentenze nella forma e nella sostanza. Come si risolve la frizione tra Csm e Consiglio di Stato? La proposta di Violante per un’Alta Corte sarebbe proponibile? Non c’è nessuna frizione da risolvere, le questioni si risolvono rispettando le regole previste per l’esercizio del controllo di legalità degli atti. Dobbiamo prestare a questa funzione lo stesso rispetto che pretendiamo per le nostre decisioni. Concorda con chi sostiene che il compromesso politico ha svilito la portata delle riforme appena attuate? Oppure crede che quella del processo penale sia una buona riforma? La riforma del processo penale manca di una direzione chiara, perché non incide né sull’efficacia né sulle garanzie, se non travolgendo a propria volta l’efficacia. Sarebbe stato forse possibile depenalizzare o agire sulle procedure, anziché porre dei tempi massimi di durata dei giudizi, senza porsi il problema delle ragioni per le quali i processi durano tanto. Primi mesi di Cartabia: che giudizio dà del suo operato? Discutiamo di sistemi normativi, non spetta certamente a me giudicare l’operato di un ministro. Nel suo intervento all’inaugurazione dell’Anno giudiziario ha detto: “C’è bisogno di garantismo, ma deve essere un garantismo che parta dal basso, che riguardi i più deboli, che non si presti ad essere utilizzato da chi comanda nella dimensione del crimine mafioso, della grande finanza, o delle responsabilità pubbliche ed istituzionali”. Cosa intendeva? Il garantismo non vale per tutti, sempre, dalla fase processuale a quella di esecuzione della pena? Volevo dire che il richiamo al garantismo - che dovrebbe riguardare tutti - finisce per essere utilizzato solo a difesa dei soggetti più potenti. Ogni giorno migliaia di persone che vivono nel disagio infrangono la legge e per loro non c’è scampo. Se qualcuno dei responsabili della mala amministrazione che ha prodotto quel disagio è chiamato a risponderne si levano gli scudi. Detto ciò il mio richiamo al garantismo riguardava più in generale le fondamenta stesse della esperienza giuridica che ha come scopo l’inclusione e la pace sociale. Era un modo per dire che la giustizia non può essere materia di potere o terreno di scontro. E che il suo scopo non è colpire qualcuno, né il suo esercizio deve essere condizionato dai media o dai poteri forti. Ecco perché bisogna difendere l’indipendenza dei magistrati, di coloro che rischiano per aver portato alla luce verità scomode sui potenti o per avere avuto il coraggio di assolvere o di scarcerare quando la piazza chiede giustizia sommaria, come nel caso del gip di Verbania. E questo chiaramente senza scendere nel merito giudiziario delle questioni. Un autogoverno sganciato dalla gestione del potere e dal condizionamento delle correnti riuscirebbe meglio in questo scopo. In merito alla recente decisione della Consulta sulla corrispondenza tra detenuti e avvocati, commentando il paragrafo 4.4.2. della decisione, il professor Manes in una intervista a questo giornale ha detto: “Finalmente si riconosce - in tempo di populismo penale, di retorica giustizialista, di discorso becero che addirittura tende a vedere nell’avvocato un sodale del proprio assistito - che l’avvocato prima di difendere cause e persone - prima e più in alto - difende il Diritto”. Concorda? Concordo sul principio, oramai consolidato da anni, che la posta diretta ai difensori non si può aprire. Peccato che la situazione concreta che ha dato luogo alla sentenza non aveva nulla a che vedere col “controllo” della corrispondenza. Nel caso in esame un detenuto aveva consegnato all’amministrazione, chiedendo che venisse recapitato a sue spese, un testo di telegramma che conteneva un messaggio potenzialmente pericoloso. La Corte ha ragionato come se la decisione di trattenerlo fosse conseguenza del controllo della corrispondenza. Ma qui si trattava da parte dell’amministrazione di compiere un adempimento con contenuto giuridico, per conto di un detenuto, che avrebbe potuto avere delle conseguenze pericolose. Dire che l’inoltro avrebbe dovuto avvenire comunque, solo perché il telegramma era diretto ad un difensore, credo provi troppo. Una lezione della società civile di fronte alla violenza dello Stato di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 febbraio 2022 Oltre settecento firme raccolte in due giorni, amici, conoscenti e sconosciuti. E una pagina intera con nomi e cognomi di avvocati. Tutti per lui. Senza timore a mostrarsi, con l’orgoglio di mettersi di fianco all’amico, al vecchio compagno di scuola, al collega magari neanche conosciuto. Di essere con lui mentre giace in un carcere e sta mettendo in gioco il proprio corpo con il digiuno. “Manifestiamo pubblicamente - scrivono in fondo all’appello - e ribadiamo all’avvocato Giancarlo Pittelli gli immutati sentimenti di rispetto, affetto ed amicizia e opponiamo resistenza a ogni uso degli strumenti del diritto che produca come effetto l’isolamento della persona e l’inaridimento delle relazioni sociali ed affettive”. Il punto centrale è tutto qui: Giancarlo Pittelli, costretto allo sciopero della fame dopo due anni di carcere preventivo, è ancora la persona intera di prima? Ha ancora l’integrità fisica e psicologica del brillante avvocato, del politico la cui vita era ricca di relazioni e di stima? E le sue amicizie, i suoi affetti, gli antichi rapporti sono ancora lì con lui, o si sono piano piano diradati per la paura che lui nel corso del tempo sia entrato a fare parte del mondo dei “cattivi”? I promotori dell’iniziativa, vecchi amici e compagni di scuola, persone magari politicamente oggi lontane da lui, non hanno inteso stilare un manifesto contro la magistratura, né una difesa d’ufficio dell’imputato Pittelli. Piuttosto ci stanno mostrando un termometro che misura la temperatura di una società civile come quella della Calabria, lacerata dalla presenza pervasiva della criminalità organizzata, ma anche dalle iniziative altrettanto forti di una magistratura inquirente che affonda la spada piuttosto che curare. Quando il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, al momento del suo insediamento, aveva promesso di “ricostruire la Calabria come un Lego”, chissà quanti cittadini avevano aperto gli animi alla speranza. Poi dall’ottimismo è stato breve il passo verso il dubbio, e poi la paura. Perché la forza dello Stato, per quanto ammantata di legalità, può essere violenta. Violento è il processo, soprattutto se diventa eterno, violento è il carcere, che pare costruito appositamente per diseducare, invece che reinserire. Ricostruire la relazione, ricucire lo strappo. Questo è quel che serve, oggi. In genere -è la teoria della giustizia riparativa tanto cara alla ministra Marta Cartabiala rottura del patto sociale avviene a opera di chi commette il reato, di chi uccide, di chi rapina, di chi violenta. I “cattivi”. E spetta ai “buoni”, lo Stato, una buona amministrazione della giustizia, i buoni funzionari del carcere, aiutare il “cattivo” nel suo percorso che lo porti con animo e storia di vita ormai diversa verso la vittima, con una nuova relazione che giovi a entrambi. Ma come comportarsi quando lo strappo sociale avviene anche a opera di quelli che dovrebbero ricoprire sempre il ruolo dei “buoni”? Quando si usa la giustizia come una spada e non come l’ago e il filo che ricuciono, che riparano e restituiscono la vita anche dove si sta spegnendo? Essere vicini a Giancarlo Pittelli oggi vuol dire prima di tutto rompere il suo isolamento. Dirgli che deve continuare a vivere. Manifestare, e anche protestare, perché non deve esistere una custodia cautelare lunga due anni e neanche il carcere prima del processo. E domandarsi a che cosa servano le prigioni, se non per umiliare l’individuo e mostrare la forza dello Stato. E soprattutto essere in tanti a dire che per lui, e per tutti gli altri, mai, mai, si deve operare la distruzione della reputazione. La difficoltà che all’inizio i suoi vecchi amici e compagni di scuola hanno avuto a rompere l’isolamento che sempre accompagna le iniziative della magistratura, quel dire e anche solo pensare “ma in fondo se l’hanno arrestato qualcosa avrà fatto”, indicano che in Calabria in questo momento c’è qualcosa che non va. Anche gli inquirenti, anche il procuratore Gratteri dovrebbero riflettere su quello che c’è scritto sul manifesto per Giancarlo Pittelli. Perché è molto di più di un gesto di solidarietà nei confronti di una singola persona. È una voce corale che viene dalla società civile che ci dà una lezione esemplare. La gran parte delle persone che hanno firmato non sa niente di processi, né di prove o indizi. Semplicemente si chiede se sia possibile che una persona che ha sempre goduto di stima e apprezzamento debba essere finita in un buco nero di carcere ed esserci rimasta per due anni senza che ancora ci sia stata una sentenza che ci spieghi che cosa ha fatto di male, che reati ha commesso. E perché ci sia questo clima di paura e di sospetto che lo tiene isolato dal suo mondo. Poi, se volessimo parlare delle imputazioni e delle (mancate) prove, noi che il processo lo conosciamo, dovremmo scrivere un altro documento. Per ora ci limitiamo ad accettare con gioia la lezione di questo pezzo di società calabrese, sperando che altrettanto facciano i veri “cattivi”, quelli che indossano la toga dei “buoni”. Cartabia: la nuova giustizia porterà investitori di Moria Longo Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2022 “Uno studio della Banca d’Italia stima che una riduzione del 15% dei tempi della giustizia porterebbe un beneficio in termini di crescita economica pari a mezzo punto percentuale di Pil. Nel Pnrr l’obiettivo è di ridurre i tempi del 40% sul fronte civile e del 25% su quello penale nell’arco di 5 anni: pensate quale spinta ci sarebbe per l’economia italiana”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia parla a una platea di banchieri e investitori, riuniti a Milano dall’Aibe (Associazione italiana banche estere). E risponde alle preoccupazioni che proprio un sondaggio realizzato da Aibe e Censis tra gli investitori internazionali mette in evidenza: alla domanda su cosa scoraggi maggiormente gli investimenti nel nostro Paese, gli intervistati hanno messo al primo posto il carico normativo e burocratico (30,5% delle risposte), al secondo la giustizia (23,7%) e al terzo posto il carico fiscale (15,3%). La riforma della giustizia è insomma decisiva. Lo ribadisce anche Guido Rosa, presidente dell’Aibe, durante il convegno. Ora che l’Italia, con la rielezione di Mattarella, ha confermato la stabilità istituzionale che tanto interessa ai mercati, bisogna dunque continuare a lavorare su questo fronte. “Sulla giustizia civile ci stiamo muovendo su due direttrici - ha spiegato la Ministra. Da un lato bisogna ridurre la domanda che arriva ai Tribunali, favorendo le procedure alternative e conciliative. Dall’altro bisogna tagliare i tempi morti”. Poi aggiunge: “Sul fronte penale le finalità sono le stesse: da un lato favorire le forme alternative che evitino la celebrazione del processo se ci sono i presupposti, dall’altro dare stimoli ai giudici per sbloccare i processi dove si arenano”. Ma questo non basta. Non è sufficiente riformare il processo per rendere efficiente la giustizia. “Il sistema ha bisogno anche di risorse umane, di razionalizzare gli edifici e di un forte impulso verso la digitalizzazione”, osservala ministra. Perché si può riformare quanto vi vuole il processo, ma se poi i fascicoli restano incagliati tra un palazzo e l’altro oppure se mancano i cancellieri, allora i tempi non si stringono. Ecco dunque che la legge di Bilancio investe sempre più risorse nella giustizia: oltre io miliardi l’anno tra il 2022 e il 2024, cifre mai viste prima. Poi si punta sulle assunzioni: a luglio c’è stato un concorso per 320 nuovi magistrati e a dicembre è stato pubblicato il bando per altri 5o0. Inoltre a settembre sono stati assunti 2.700 nuovi cancellieri. Ma ancora non basta. “Tra le inefficienze, una è data dai tempi sprecati per trasferire i fascicoli da un grado di giudizio all’altro - osserva. Non possiamo più permettercelo”. Ecco perché la digitalizzazione della giustizia è considerata prioritaria dalla Ministra. Un altro tema su cui pone l’accento è l’istituzione dell’Ufficio del processo: un luogo dove il giudice lavora insieme a una squadra di giovani giuristi che lo aiutano in vari aspetti del processo. “Stanno per entrare in funzione 8.200 giovani giuristi”. Basterà? La preoccupazione, che emerge dal sondaggio Aibe-Censis, è che l’Italia resti poi impantanata nel lungo tunnel dei decreti attuativi. Ma la Ministra cerca di tranquillizzare i banchieri riuniti al convegno Aibe: sul fronte penale già da fine ottobre sono al lavoro cinque gruppi per preparare i decreti attuativi e sul fronte civile ci sono sette gruppi, che finiranno i lavori il 15 maggio. All’interno del ministero sta inoltre per nascere un dipartimento di informatica e statistica, proprio per monitorare i progressi degli uffici giudiziari. “Non sarà dunque il Ministro a dire se la situazione migliora e quando la giustizia sarà a posto - conclude. Ma potranno vederlo gli investitori direttamente”. La speranza è che anche questo “spread”, quello che separa la giustizia italiana da quella degli altri Paesi, venga chiuso al più presto La tenuità del fatto riconosciuta anche in caso di continuazione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 febbraio 2022 La continuazione tra reati non basta per impedire, da sola, l’applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con una decisione nota per ora solo nella forma dell’informazione provvisoria. La continuazione tra reati non basta per impedire, da sola, l’applicazione della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Lo chiariscono le Sezioni unite penali della Cassazione con una decisione nota per ora solo nella forma dell’informazione provvisoria. Le Sezioni unite osservano che “la pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione può risultare ostativa alla esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto ex articolo 131 bis Codice penale non di per sé, ma soltanto se è ritenuta, in concreto, dal giudice, idonea a integrare una o più delle condizioni previste tassativamente dalla suddetta disposizione per escludere la particolare tenuità dell’offesa o per qualificare il comportamento come abituale”. Si scioglie così una questione che ha visto confrontarsi due orientamenti opposti, entrambi cristallizzati in numerose pronunce delle Sezioni semplici della Corte. Il primo esclude alla radice l’applicabilità della causa di non punibilità (potenziata peraltro dalla riforma Cartabia in corso di elaborazione) nel caso di più reati in esecuzione di un medesimo disegno criminale che, anche se unificati per la determinazione del trattamento sanzionatorio, tuttavia devono essere considerati espressione di un comportamento abituale, di una devianza non occasionale. Elementi che impediscono di riconoscere il beneficio perché a essere assente è quel carattere di occasionalità della condotta criminale che l’articolo 131 bis richiede. L’altro orientamento, alla fine prescelto dalle Sezioni unite, sostiene la compatibilità tra il reato continuato e la speciale tenuità del fatto, valorizzando una pluralità di elementi, come la gravità del reato, la capacità a delinquere, i precedenti penali e giudiziari, la durata temporale della condotta, il numero e la gravità delle norme violate, gli interessi danneggiati e quelli perseguiti dal colpevole, le motivazioni. Il che non esclude naturalmente che, all’esito di un’attenta valutazione, la tenuità possa anche essere esclusa. Serve però una considerazione complessiva di molti elementi della condotta. Significativa, per esempio, la sentenza che, da ultimo (n. 35630 del 2021), ha riconosciuto che la tenuità può essere applicata anche in caso di continuazione e però non ne ha permesso il riconoscimento nei confronti di una pubblica dipendente che, in più occasioni, aveva attestato falsamente la sua presenza in ufficio. In questo caso, infatti, le condotte, pur ripetute con identiche modalità, si erano dispiegate per molti mesi, svelando una volontà criminale tutt’altro che unitaria e circoscritta. Lazio. Oltre che giusto, ridurre la popolazione detenuta è necessario di Stefano Anastasia garantedetenutilazio.it, 1 febbraio 2022 329 detenuti positivi su 5548 sono tanti, più di quanti ce ne siano mai stati nelle carceri del Lazio in questi due anni di pandemia. La importante, diffusa e continuata campagna vaccinale offerta ai detenuti fa sì che la grandissima parte non siano sintomatici, ma resta una criticità importante, soprattutto laddove - come a Regina Coeli - arrivino a coinvolgere quasi un quarto degli ospiti (219 su 890 detenuti). La conseguente chiusura di Regina Coeli agli arresti ha di fatto bloccato l’intero sistema, con effetti anche sui commissariati e le caserme dei Carabinieri, costretti a ospitare per giorni gli arrestati in ambienti inidonei, come ho potuto constatare personalmente nel Commissariato di San Paolo, a Roma. La Direzione regionale della Sanità ha assicurato la massima disponibilità all’Amministrazione penitenziaria nella valutazione di ulteriori misure di sorveglianza sanitaria che rendano più flessibile il sistema, ma che siano compatibili con il principale interesse della tutela della salute dei detenuti. Ciò detto, la palla torna alla giustizia e alla stretta necessità dell’adozione di misure cautelari in carcere o della esecuzione delle pene in forma detentiva. In carcere continuiamo a incontrare persone anziane che restano o vi fanno ingresso per pochi mesi, detenuti con lunghe pene e ottimi percorsi detentivi che non riescono a uscirne, e corriamo pure il rischio che i semiliberi in licenza straordinaria da quasi due anni siano costretti a tornare a dormire in carcere al termine dello stato di emergenza, in spregio a ogni principio di ragionevolezza e di progressività del trattamento penitenziario. In attesa di un ristoro che riconosca ai detenuti la maggior sofferenza patita in questi anni (un giorno di liberazione anticipata speciale per ogni giorno di detenzione in pandemia, abbiamo proposto come Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà), è ancora tempo di misure ordinarie o straordinarie per ridurre la popolazione detenuta, come il legislatore non seppe fare all’inizio della pandemia, bilanciato però (almeno allora) dagli operatori della giustizia e della sicurezza, che limitarono al minimo gli ingressi in carcere e ne facilitarono al massimo le uscite. Se non si riducono i numeri del carcere, non si potranno attuare neanche le misure di innovazione del sistema penitenziario prospettate dalla commissione ministeriale presieduta dal professor Ruotolo. Dentro la pandemia e dopo la pandemia, la questione è sempre questa: crediamo veramente al carcere come extrema ratio o lo consideriamo l’ultima riserva di un welfare in disarmo, destinato a custodire la marginalità sociale che non trova più spazio e accoglienza nelle nostre città e nei nostri quartieri? Piemonte. Covid in carcere: serve dialogo tra istituzioni penitenziarie e sanitarie di Matteo Chiarenza riforma.it, 1 febbraio 2022 Il Garante dei diritti dei detenuti in audizione alle Commissioni sanità e giustizia. Mentre l’epidemia da Coronavirus comincia a dare i primi segni di indebolimento, continua comunque a rappresentare un problema per determinati luoghi, date le particolari condizioni. Tra questi ci sono sicuramente gli istituti penitenziari, dove le carenze strutturali e la mancanza di un dialogo efficace tra istituzioni carcerarie e comparto sanitario rendono difficile il contenimento dei contagi. Proprio la settimana scorsa il garante regionale dei diritti dei detenuti della regione Piemonte Bruno Mellano è stato audito dalle commissioni giustizia e sanità del consiglio regionale, e ha esposto le problematiche principali e fornito i numeri del fenomeno: nelle carceri piemontesi, a fronte di una popolazione di oltre 4000 detenute e detenuti, oltre mille risultavano contagiati. Nella maggioranza dei casi, fortunatamente, si trattava di asintomatici, mentre si è registrato un decesso nell’istituto di Ivrea: si tratta di un uomo ultrasettantenne che aveva rifiutato di sottoporsi a vaccinazione. Si tratta di cifre che comunque evidenziano una volta in più la necessità di una connessione più stretta e collaborativa tra il comparto penitenziario e quello sanitario, in capo alla regione. “Abbiamo sempre ricordato come le carceri rappresentino un luogo chiuso ma non per questo sicuro - spiega Mellano. Qui le dinamiche della vita di comunità unite a un endemico sovraffollamento portano inevitabilmente allo scoppio di focolai. Durante le audizioni nelle due commissioni interessate, abbiamo ancora una volta sottolineato come la risposta al problema risieda nel rapporto tra le amministrazioni carceraria e sanitaria, che devono arrivare a fornire un servizio di assistenza, presa in carico e cura della persona”. La pandemia non ha fatto che evidenziare drammaticamente i problemi delle carceri che vedono nell’aspetto sanitario uno dei fattori più critici, dato dalle carenze strutturali e infrastrutturali che impediscono una gestione efficace della salute dei detenuti, per la quale sarebbe necessario, tra le altre cose, l’impiego di tecnologie oggi disponibili ma ancora assenti nella realtà degli istituti penitenziari. “La pandemia ha fatto fare grandi passi in avanti, pur tra incertezze e difficoltà, a tutti i settori nel campo della sanità - sottolinea Mellano. Le carceri sono state escluse da questo progresso anche a causa delle difficoltà strutturali come le reti telematiche. A oggi, negli istituti penitenziari, non abbiamo una cartella clinica informatizzata, non abbiamo un vero servizio di radiologia a domicilio, né una telemedicina che permetterebbe, soprattutto in un luogo come il carcere, di avere un servizio diverso dalla semplice attesa di poter spostare in ospedale o in struttura dedicata i detenuti per fare visite specialistiche che, date le tecnologie esistenti, sarebbe possibile fare a domicilio”. Salerno. Suicidio di Giovanni Cirillo, dirigenti del carcere sotto inchiesta per falso di Nicola Sorrentino Il Mattino, 1 febbraio 2022 Avrebbero disposto la “grandissima sorveglianza” solo dopo la sua morte, non prima. Con l’ipotesi di reato di falso, sono indagati due dirigenti del carcere di Salerno-Fuorni. Sullo sfondo c’è la morte, avvenuta tramite suicidio, di Giovanni Cirillo, in arte Johnny, giovane rapper somalo di Scafati, di 23 anni. La precedente ipotesi di reato di istigazione al suicidio è stata archiviata. Il ragazzo si tolse la vita, secondo indagini, senza essere indotto da nessuno. Tuttavia, è sui controlli nei suoi riguardi che c’è, ora, un’altra indagine condotta dalla Procura di Salerno. La morte del ragazzo fu scoperta a luglio 2020. La nuova inchiesta riguarda le disposizioni nei confronti del detenuto, quella di “grandissima sorveglianza”, in ragione di alcuni segnali d’allarme che il ragazzo aveva fatto percepire. Secondo l’ipotesi accusatoria, quella disposizione sarebbe stata messa nera su bianco solo dopo la morte, non prima. A chiedere verità sulla morte del ragazzo era stata la famiglia, assistita dall’avvocato Roberto Acanfora. Le prime indagini dopo il suicidio, come atto dovuto, erano partite con una prima ipotesi di istigazione al suicidio, smentita dai fatti e priva di riscontri. La famiglia aveva però chiesto chiarezza su tutto, anche sulle condizioni del ragazzo, tra richieste di accesso agli atti e approfondimenti di vario tipo. Il giovane era detenuto per una serie di evasioni dagli arresti domiciliari, a loro volta collegate ad una rapina commessa qualche mese prima. Cirillo, di origini somale, era stato arrestato per una rapina ai danni di una farmacia, poi scarcerato e messo ai domiciliari. A questo erano seguite diverse violazioni, fino al nuovo trasferimento in carcere. Secondo gli elementi raccolti dalla famiglia, successive alla morte, il giovane avrebbe chiesto più volte aiuto durante la reclusione. Questo almeno quanto sostenuto attraverso il proprio legale. Per la rapina fu condannato a quattro anni di carcere, al termine del giudizio abbreviato. Il 26 luglio 2020 si tolse la vita in carcere, nella sezione riservata ai detenuti per reati comuni. Il suo corpo fu trovato dai compagni di cella. La rapina che aveva commesso in farmacia gli aveva fruttato un bottino di 700 euro. Fu arrestato in via Nazionale, dopo un’indagine dei carabinieri, che lo riconobbero dai vestiti e dalla pistola compatibile con quella ripresa in video, che si rivelò poi essere una replica. Quattro erano state le evasioni dai domiciliari, quando fu scarcerato una prima volta. Nel corso della detenzione avrebbe mostrato segnali di allarme per le sue condizioni, anche dopo colloqui con lo psicologo. Le indagini sul suicidio furono affidate alla Squadra Mobile. Roma. Detenuto ritrovato morto nel carcere di Regina Coeli montiprenestini.info, 1 febbraio 2022 Avrebbe compiuto domani 42 anni l’uomo originario di Gallicano nel Lazio (Rm) trovato morto nel carcere di Regina Coeli. Una notizia che ha sconvolto amici e conoscenti di questo ragazzo ben voluto da tutti. Secondo una primissima ricostruzione, il giovane non si sarebbe svegliato dal sonno. Probabile un malore, ma sarà l’autopsia ad accertare le cause del decesso. Sui social sono centinaia i messaggi di cordoglio e vicinanza alla famiglia, per una morte assurda. Un anno nero per le carceri - Nel solo 2020, l’anno della pandemia fuori controllo, il ministero della Giustizia ha contato e dichiarato 154 decessi di persone sotto la custodia dello Stato. Nel 2021 il ministero di Giustizia non fornisce per ora informazioni in rete (pubblicherà statistiche aggregate l’anno prossimo). Dal 1992 al 2020 il totale dei decessi in carcere per cause note (o presunte tali) supera abbondantemente quota 4.000, senza contare poliziotti penitenziari e altri operatori: 1.514 i ristretti suicidi e 2.623 i reclusi stroncati da malanni e problemi di salute, più un numero imprecisato di vittime di uccisioni o omissioni. Numeri che forse non hanno alcun significato, ma che accendono un riflettore sulla condizione delle nostre strutture penitenziarie. Milano. “Vediamo oltre”, il progetto dei Lions per visite oculistiche ai detenuti di Bollate tgcom24.mediaset.it, 1 febbraio 2022 Grazie al Lions Club Milano Host, i detenuti del carcere hanno potuto beneficiare di screening gratuiti della vista e ricevere occhiali di recupero. I detenuti del carcere di Bollate hanno potuto beneficiare di screening gratuiti della vista e ricevere occhiali grazie al progetto “Vediamo Oltre” lanciato dal Lions Club Milano Host. L’iniziativa, che è solo al primo di una serie di appuntamenti, conta già 60 screening effettuati in una sola giornata e 40 occhiali omaggiati dalla “raccolta occhiali usati Lions”. L’obiettivo mira a effettuare screening preventivi in tutti i reparti del carcere, dove sarà possibile. Il progetto “Vediamo oltre” è nato durante un incontro tra Raffaella Guidotti e Davide Franzetti, oggi referente del progetto stesso, entrambi soci del Lions Club Milano Host che, insieme a una squadra composta tra l’altro da una oculista e una ortottista, si sono concentrati nello svolgimento di questo servizio. La struttura di Bollate, fin da subito, grazie all’attenzione del direttore Leggieri e del direttore dell’area educativa Bezzi, ha dimostrato collaborazione, entusiasmo e apertura all’attività. Gli screening visivi, eseguiti con personale qualificato hanno avuto lo scopo di effettuare primi controlli visivi con macchinari professionali a disposizione, grazie a una partnership con Luneau Technology, azienda di primaria importanza nella strumentazione medica. La compilazione di un documento da inserire nella cartella sanitaria e, in virtù della partnership con la “raccolta occhiali usati Lions” di Chivasso, la consegna ai detenuti di occhiali da lettura recuperati (sterilizzati e in ottime condizioni) si sono accompagnate alle visite. Tutto è stato svolto nel rispetto del distanziamento sanitario e in completa sicurezza sia dei soci che degli intervenuti. Veniva infatti richiesto il green pass e fornita una nuova mascherina FFP2 a ogni persona che desiderava sottoporsi al controllo sanitario. Ragusa. La Pastorale carceraria accanto alle persone detenute di Mario Cascone insiemeragusa.it, 1 febbraio 2022 La Diocesi ha un ufficio per la Pastorale carceraria. Lo ha istituito il vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, dandone comunicazione sabato scorso durante l’incontro di preghiera “…l’avete fatto a me” che si è tenuto nella chiesa di Maria Ausiliatrice a Ragusa. A dirigerlo sarà don Carmelo Mollica che da dodici anni è il cappellano della casa circondariale di Ragusa. Sarà affiancato da una equipe composta da Filippo Dicara, Maria Criscione, Salvatore Cabibbo, Carmela Criscione, Concetta Gulino, Maria Concetta Vaccaro e suor Graziella Viscosi. Con l’istituzione dell’ufficio diocesano, la Chiesa ragusana intende rafforzare la sua presenza al fianco dei detenuti. Il vescovo ha invitato tutti i fedeli a sostenere con la preghiera e nella carità il nuovo ufficio. Don Carmelo Mollica ha accolto la comunicazione “con il cuore pieno di gioia” e con la consapevolezza che “il recluso non è escluso agli occhi di Dio”, evidenziando come “la vicinanza e non il giudizio deve essere il dovere di ogni cristiano”. La pastorale carceraria è un servizio ecclesiale che tende a coinvolgere la comunità cristiana in un percorso di attenzione verso la realtà del carcere e delle altre forme (affidamenti presso strutture, arresti domiciliari, messa alla prova, permessi, ecc.) del variegato mondo della detenzione, per sentirla come parte integrante del cammino della Chiesa diocesana. Ma mira anche a far sentire il detenuto inserito pienamente nella famiglia della Chiesa locale. Il soggetto della pastorale carceraria, come di ogni pastorale, è la comunità cristiana tutta, sotto la guida del suo pastore. Non può quindi essere delegata alla sola persona del cappellano o a qualche gruppo e associazione di volontariato, ma deve nascere dalla comunità e coinvolgere la comunità stessa nelle sue diverse espressioni, dentro e fuori le mura del carcere. La Chiesa è sempre stata molto impegnata nel mondo del carcere e lo è ancora attraverso la presenza dei cappellani, ma anche con qualche gruppo di volontariato, suore e associazioni. Questo impegno, ancora limitato ai soli addetti ai lavori non è però certamente sufficiente a far fronte alle richieste e alle esigenze. Il carcere non è un’isola, anzi, rappresenta quella realtà di Chiesa che soffre a causa del male, del peccato, e lì dove un membro soffre tutto il corpo soffre. Il cristiano e le nostre comunità sono chiamati a guardare a questa realtà con occhi diversi da chi giudica con il metro della giustizia umana, ma con occhi di misericordia: l’annuncio misericordioso di Cristo non può precludere nessuna categoria di persone. Ciò non significa assolutamente addolcire il male o cercare di giustificarlo, ma andare alle radici, per scoprire dove ha origine, dov’è la fonte della malattia di cui spesso il condannato rappresenta solo il sintomo. La Chiesa di Ragusa, su indicazione del proprio Vescovo, ha istituito tale servizio per far sentire a quanti vivono forme di detenzione, la presenza della Chiesa locale. Pur avendo una sola struttura detentiva con una piccola comunità sul territorio diocesano (circa 240 persone), il Servizio di Pastorale Carceraria diocesano si offre come vicinanza spirituale ai detenuti reclusi nelle strutture detentive del territorio, con la presenza di un nostro sacerdote come cappellano e di alcuni volontari che vi operano all’interno, oltre ad un gruppo di persone (sacerdoti e laici) che vanno ad occuparsi di aree di sofferenza riguardanti non solo coloro che sono reclusi, ma soprattutto, un sostegno morale (e materiale) alle famiglie e - laddove è consentito - a coloro che sono sottoposti a pene restrittive nelle diverse modalità previste dalla legislazione italiana. È necessario che le famiglie non perdano la propria identità, mantengano i contatti e vincano i pregiudizi sociali. Madri, padri, mogli, mariti, figlie e figli del detenuto pagano a loro volta un prezzo molto alto, quello della perdita di un caro e spesso della stigmatizzazione da parte delle società. Un considerevole numero di famiglie è coinvolto in problemi connessi alla detenzione. Per queste persone le comunità cristiane sono chiamate a svolgere un delicato compito di ascolto e di accoglienza non solo dei bisogni di povertà materiali che sorgono con la carcerazione di un famigliare, ma pure a porre gesti di vicinanza che combattano contro l’esclusione sociale e religiosa dei figli e dei partner. In questo, il Servizio di Pastorale Carceraria della Diocesi di Ragusa, attraverso anche il supporto di altri organi diocesani (parrocchie e centri ascolto) si propone di offrire strumenti utili quali: una struttura dedicata ai detenuti e alle loro famiglie; sensibilizzazione delle comunità locali e parrocchiali; contatti telefonici e personali fatti dagli operatori pastorali del carcere, dove è legittimamente consentito; la comunicazione alla parrocchia della presenza di una persona in carcere per sostegno alla famiglia, previa autorizzazione del detenuto; raccolta di beni di prima necessità per i detenuti bisognosi; percorsi di catechesi di annuncio e iniziazione cristiana; momenti comunitari di preghiera e di sostegno; centri ascolto solo per questa problematica; contatti con rappresentanti del mondo del lavoro. Il vescovo che già per ben due volte - il 15 settembre scorso e il giorno dell’Epifania - ha incontrato i detenuti, salutando con piacere l’iniziativa lanciata da alcuni gruppi per testimoniare vicinanza alle persone recluse nella preghiera e con atti di solidarietà concreta, ha evidenziato come la nostra Chiesa intenda “farsi carico della rinascita nello spirito e nella vita” dei fratelli che hanno sbagliato e per questo si trovano a espiare la loro pena. “Per ognuno di loro - ha detto il vescovo - c’è un orizzonte nuovo che può aprirsi, un orizzonte che nasce dalla possibilità di redenzione e passa anche attraverso la nostra solidarietà, il nostro affetto, la nostra preghiera”. Lo scorso 15 settembre, monsignor La Placa aveva voluto incontrare i detenuti e il personale che opera all’interno del penitenziario. Il vescovo aveva benedetto i presenti e, dopo aver visitato una ad una tutte le celle. “Il carcere - aveva detto in quella occasione - non diventi mai un’obitorio della speranza ma piuttosto una “grande sala parto” nella quale, vite segnate dalla sofferenza e dall’esperienza del male, possano rinascere a vita nuova”. Quella visita ha segnato non solo monsignor La Placa ma anche i detenuti. “È stata - ricorda oggi don Carmelo Mollica - un vero momento di grazia. I detenuti non avevano mai visto un vescovo entrare nella loro stanza a soffermarsi a parlare con loro. È stata per tutti una grande emozione”. Il vescovo, accogliendo un invito del cappellano, ha poi deciso di celebrare con i detenuti l’Epifania rinnovando le parole di speranza e di incoraggiamento che tanto avevano colpito poche settimane prima le persone recluse e il personale. Trento. La rieducazione oggi: ripensare la finalità della pena di Antonia Menghini ed Elena Mattevi webmagazine.unitn.it, 1 febbraio 2022 Un convegno sul sistema carcerario, il dettato costituzionale e le iniziative di riforma. L’articolo 27 della nostra Costituzione prevede che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Proprio il principio rieducativo è stato il tema centrale del convegno “La rieducazione oggi. Dal dettato costituzionale alla realtà del sistema penale”, che si è svolto in modalità mista presso la Facoltà di Giurisprudenza il 21 e 22 gennaio scorsi. In queste due giornate si è cercato di riflettere sulla realtà della pena. Per molto tempo, alla finalità rieducativa della pena è stato attribuito un ruolo marginale, relegato al momento dell’esecuzione. Pian piano si è imposta una lettura diversa che le ha riconosciuto un’assoluta centralità nel momento punitivo. Come ha stabilito la sentenza 313/1990 della Corte Costituzionale, la rieducazione è infatti una delle qualità essenziali della sanzione penale, che “l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Il verbo ‘tendere’, presente nel dettato costituzionale, rappresenta solo “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”. Questo implica necessariamente la centralità del consenso del condannato nel percorso rieducativo. La rieducazione è un’opportunità che l’Amministrazione penitenziaria dovrebbe offrire al condannato operando in sinergia con le istituzioni territoriali: purtroppo è proprio qui che la distanza tra il dettato costituzionale e la realtà del sistema penale si fa smisurata. Se ci riferiamo in particolare al carcere, infatti, è indispensabile prendere atto di una situazione, già compromessa da anni di riforme mancate, che la pandemia ha soltanto reso più drammatica. È davvero impossibile pensare a percorsi di rieducazione in strutture inadeguate, incapaci di assicurare condizioni minime di vivibilità, perché sovraffollate o fatiscenti o solo perché prive di personale idoneo, come quelle che conosciamo spesso in Italia. Non si possono aiutare i detenuti a progettare qualcosa di utile per il proprio futuro se mancano opportunità di lavoro e di formazione professionale. Per quanto precaria e insufficiente, questa realtà non è fortunatamente immutabile: ci sono state e ci sono delle iniziative di riforma che possono fare ben sperare. Una Commissione, presieduta dal professor Marco Ruotolo, istituita dalla ministra Cartabia nel settembre 2021 ha lavorato da ottobre a dicembre per predisporre soluzioni concrete per l’innovazione del sistema penitenziario in modo da migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari. L’intenzione è quella di intervenire sulla normativa primaria e sul regolamento penitenziario del 2000, per incidere su molti aspetti della quotidianità penitenziaria. I temi toccati spaziano dalla salute al lavoro, all’impiego delle tecnologie, vista la necessità di far uscire il mondo del carcere dall’analfabetismo informatico anche solo per permettere l’uso del pc per motivi di studio o per le videochiamate con i propri famigliari. Decisamente significativo, per esempio, appare il quadro tracciato dalla Commissione Ruotolo in materia di lavoro. Dai dati statistici emerge infatti come negli istituti penitenziari (al 31 dicembre 2020), su un totale di 53.364 detenuti, solo 17.937 sono impiegati in attività lavorative (33,61%), di cui 15.746 alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e 2.191 alle dipendenze di datori di lavoro esterni all’Amministrazione. Quanto lavorano, in concreto, questi detenuti? In media l’attività lavorativa pro capite non supera gli 85 giorni lavorativi annui. Pochissimo. Le soluzioni proposte dalla Commissione Ruotolo non si sono ancora tradotte in realtà normativa; di riforma già in atto si può invece parlare per la legge n. 134 del 2021, la cosiddetta Riforma Cartabia, che contiene alcune norme immediatamente precettive ? come quelle sulla prescrizione ? e un’ampia delega in materia processuale, oltre a una delega più circoscritta che riguarda il sistema sanzionatorio e la giustizia riparativa, tutte in fase di attuazione. Questa riforma si propone di rivitalizzare le sanzioni sostitutive, recuperando in fase di cognizione alcune misure alternative che di regola si applicano dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Per la prima volta, verrebbe quindi introdotta nel nostro ordinamento una disciplina organica della giustizia riparativa. Il disegno di queste riforme è cresciuto sulla consapevolezza che è ormai necessario intervenire per modificare una situazione di fatto non più accettabile. Un rischio concreto quando si toccano questi argomenti è tuttavia quello della retorica, che tende ad annunciare i risultati prima di averli conseguiti: in assenza delle necessarie risorse economiche e personali, anche queste riforme potrebbero essere destinate a fallire. Alternanza scuola-lavoro: i manganelli non fermano gli studenti, la protesta continua di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 1 febbraio 2022 Il caso. Già da venerdì a Torino il movimento che dice “No” all’alternanza scuola lavoro torna a manifestare, e si annunciano già altre proteste in tutto il paese. Sinistra Italiana ha presentato un’interrogazione parlamentare dove chiede alla ministra dell’Interno Lamorgese le ragioni delle bastonate al movimento del 23 e del 28 gennaio. Dopo le manganellate di venerdì 28 gennaio agli studenti di a Torino, Milano e Napoli che, dopo la morte durante uno stage di Lorenzo Parelli, chiedevano l’abolizione dell’alternanza scuola-lavoro (P.C.t.o.) ieri il governo ha confermato che nulla cambierà. il contestato obbligo dell’alternanza scuola lavoro sarà uno degli oggetti dell’esame di maturità di quest’anno. Stando alle indiscrezioni circolate ieri sera sarà oggetto di un colloquio insieme all’educazione civica. Le cariche della polizia contro gli studenti sono diventate, tardivamente, un caso per la politica ipnotizzata nei giorni che hanno portato alla rielezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. Enrico Letta (Pd) ha detto domenica scorsa in Tv che “sulla questione di ordine pubblico chiediamo che siano date risposte, questa è una vicenda abbastanza grave”. “Che il Pd si lavi la faccia pubblicamente ci rincuora ben poco - ha commentato una studentessa torinese - è proprio il Partito Democratico ad avere introdotto l’alternanza all’interno delle scuole e ora si meraviglia e si indigna di fronte alla violenza utilizzata per far tacere chi si rivolta contro questa”. Le richieste di Letta, probabilmente alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, ieri sono diventate oggetto di un’interrogazione parlamentare di Sinistra Italiana, primo firmatario Nicola Fratoianni. A Lamorgese sarà chiesto di individuare i responsabili ad ogni livello della catena di comando nella pessima gestione nelle piazze”. Né Lamorgese, né altri esponenti del governo Draghi hanno “avvertito la necessità, come sarebbe stato auspicabile, di scusarsi nei confronti degli studenti e delle studentesse vittime” dei pestaggi, sostiene Sinistra Italiana. Venerdì 4 febbraio a Torino si tornerà a manifestare contro l’alternanza scuola-lavoro. Si replicheranno le scene viste in questi giorni? Nel resto del paese, a cominciare da Roma, sono previste assemblee cittadine e nuove mobilitazioni. Nella capitale ci sono state le manganellate al Pantheon il 23 gennaio, mentre si registrano episodi di repressione da parte di dirigenti dopo una prima ondata di occupazioni durante l’autunno. La gestione contestata delle piazze risponde ai criteri anticovid, stabiliti dal governo, che rischiano di negare il diritto costituzionale a manifestare. Questa pratica era stata contestata dalla Cgil per un caso di divieto di manifestare nel centro di Bologna nei mesi scorsi. Ieri Maurizio Landini (Cgil) ha detto che “bisogna distinguere sull’alternanza. Siamo di fronte a volte a strumenti come state e tirocini che mascherano un sistema di sfruttamento. Queste forme vanno cancellate”. E se invece, per cominciare, si ridiscutesse l’impianto della scuola neoliberale. Migranti. Cinque anni dall’accordo Italia-Libia-Ue di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 1 febbraio 2022 82.000 persone bloccate in mare e rinchiuse nell’inferno delle carceri libiche. Lo ricorda e lo denuncia Amnesty International dopo il primo lustro del memorandum d’intesa. “Le condizioni di vita spaventose per bambini, donne e uomini che emigrano e richiedono asilo”. L’Italia e l’Unione Europea devono smettere di collaborare con la Libia nel far tornare i migranti e i richiedenti asilo nell’inferno delle carceri libiche. Lo riafferma senza mezzi termini oggi Amnesty International, alla vigilia del quinto anniversario degli accordi di cooperazione finalizzati al blocco e all’arresto dei migranti e dei rifugiati durante la traversata del Mediterraneo. Negli ultimi cinque anni sono state oltre 82.000 le persone intercettate in mare e riportate in Libia: uomini, donne e bambini andati incontro alla detenzione arbitraria, alla tortura, a trattamenti crudeli, inumani e degradanti, agli stupri e alle violenze sessuali, ai lavori forzati e alle uccisioni illegali. Le testimonianze agghiaccianti. “Ci chiudevano in una stanza, ci spogliavano di tutto e picchiavano con un tubo di plastica”. Lo racconta Saif, un minorenne non accompagnato arrivato nel nostro Paese a maggio 2021 e accolto oggi da Oxfam, dopo un viaggio dal Bangladesh durato 2 anni. E riferisce come in Libia sia stata la polizia di frontiera a sequestrargli il passaporto facendolo comunque entrare nel Paese. “A pochi giorni dall’arrivo, dopo avermi tenuto nel garage di una casa, dove erano rinchiuse altre decine di migranti, mi hanno portato a Tripoli nel bagagliaio di una macchina per 37 ore con un po’ di pane e acqua”, ricorda ancora Saif. I trafficanti hanno poi preteso altri soldi alla famiglia per la restituzione del passaporto, mentre il ragazzo ha dovuto lavorare in un cantiere edile. Dopo due settimane, un altro gruppo armato lo ha rapito chiedendo un nuovo riscatto. Le telefonate alla famiglia che se non rispondeva, erano botte. “I miei carcerieri mi costringevano a telefonare a casa e se non riuscivo a parlare con nessuno mi picchiavano”. A costo di un ennesimo sacrificio, la famiglia riuscirà a pagare il riscatto e Saif potrà raggiungere l’Italia solo dopo due tentativi falliti e nuove richieste di denaro, anche da parte della polizia libica: “Al mio secondo tentativo, la Guardia Costiera libica ha bloccato il gommone a 14 ore dalla partenza - racconta ancora Saif - ci hanno portato in una prigione dove stavamo in 56 in una stanza con la luce sempre accesa. In una settimana ci hanno portato da mangiare solo 2 volte. Mi hanno rinchiuso in una stanza, rubato le poche cose di valore che avevo, preso a schiaffi e picchiato con un tubo di plastica”. Per pagarsi la fuga verso l’Italia, costata 1.000 dollari, Saif ha lavorato per tre mesi in una fabbrica di cuscini. Il governo libico favorisce violenze e impunità. Il Governo di unità nazionale della Libia continua a favorire queste violenze e a rafforzare l’impunità: ne è un esempio la recente nomina alla guida del Dipartimento per il contrasto dell’immigrazione illegale di Mohamed al-Khoja, che in precedenza controllava il centro di detenzione di Tariq al-Sikka, al cui interno erano state documentate diffuse violenze. “La cooperazione con le autorità libiche - dice Matteo de Bellis, ricercatore di Amnesty International su migrazione e asilo - fa sì che persone disperate siano intrappolate in condizioni di un orrore inimmaginabile. Negli ultimi cinque anni, Italia, Malta e Unione Europea hanno contribuito alla cattura in mare di decine di migliaia di donne, uomini e bambini, finiti in gran parte in centri di detenzione agghiaccianti, dove la tortura è all’ordine del giorno. Innumerevoli altre persone sono state vittime di sparizione forzata”. “E’ il momento di dire basta”. “È davvero giunto il momento di porre fine a questo approccio vergognoso, che mostra un totale disprezzo per la vita e la dignità delle persone, e di dedicarsi invece ad attività di soccorso che assicurino lo sbarco delle persone in un luogo sicuro che, come ribadito solo pochi giorni fa dal segretario generale delle Nazioni Unite, non può essere la Libia”, ha aggiunto de Bellis. L’assistenza dell’Unione Europea ai guardacoste libici è iniziata nel 2016, così come gli intercettamenti in mare. La cooperazione è poi aumentata considerevolmente con l’adozione di un Memorandum d’intesa bilaterale, firmato da Italia e Libia il 2 febbraio 2017, e con l’adozione della Dichiarazione di Malta, sottoscritta dai leader dell’Unione europea a La Valletta il giorno dopo. La fornitura di motovedette. Questi accordi costituiscono la base di una costante cooperazione che affida il pattugliamento del Mediterraneo centrale ai guardacoste libici, attraverso la fornitura di motovedette, di un centro di coordinamento marittimo e di attività di formazione. Gli accordi sono stati seguiti dall’istituzione della zona SAR libica, un’ampia area marittima in cui i guardacoste libici sono responsabili del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso. Queste azioni, in grandissima parte realizzate dall’Italia e finanziate dall’Unione Europea, hanno da allora consentito alle autorità libiche di riportare sulla terraferma persone intercettate in mare, nonostante sia illegale riportare persone in un luogo nel quale rischiano di subire gravi violazioni dei diritti umani. In Libia i migranti e i rifugiati, sia dentro che fuori dai centri di detenzione, subiscono sistematicamente una serie di violazioni dei loro diritti, del tutto impunite, da parte di milizie, gruppi armati e forze di sicurezza. Dietro le sbarre del centro di Ain Zara. Il 10 gennaio 2022 milizie e forze di sicurezza hanno sparato contro i migranti e i rifugiati che erano accampati di fronte a un centro di assistenza dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, a Tripoli. Le centinaia di persone lì arrestate si trovano ora nel centro di detenzione di Ain Zara, nella capitale libica, in condizioni insalubri e di sovraffollamento, sottoposte a violenze e private di quantità adeguate di cibo e acqua. I migranti e i rifugiati manifestavano fuori dal centro dall’ottobre 2021 per chiedere protezione, dopo un precedente raid delle milizie e delle forze di sicurezza al termine del quale migliaia di persone erano state arrestate e molte altre erano rimaste senza un alloggio. “Sospendere ogni forma di cooperazione”. “L’Italia e l’Unione Europea devono cessare di contribuire a queste violenze atroci e iniziare ad assicurare che le persone che rischiano di annegare nel Mediterraneo siano prontamente soccorse e trattate umanamente”, ha commentato de Bellis. “L’Unione Europea e i suoi stati membri devono sospendere ogni forma di cooperazione che contribuisca a trattenere migranti e rifugiati in Libia e a far subire loro violazioni dei diritti umani. Chiediamo, al contrario, che si dedichino all’apertura di percorsi legali urgentemente necessari per le migliaia di persone intrappolate in Libia e che hanno bisogno di protezione internazionale”, ha concluso de Bellis. Un accordo che si rinnoverà automaticamente nel 2023. Il Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia scadrà nel febbraio 2023 ma sarà rinnovato automaticamente per altri tre anni se le autorità italiane non lo annulleranno entro il 2 novembre 2022. Amnesty International Italia continua a sollecitare il governo a sospendere e non rinnovare l’accordo, oltre che a chiedere al parlamento di avviare le opportune iniziative nei confronti del governo. L’organizzazione per i diritti umani ha anche pubblicato sul sito amnesty.it una petizione a sostegno dell’interruzione della cooperazione con la Libia. Solo nel 2021 catturate 32.425 in mare. Nel 2021 i guardacoste libici, col sostegno di Italia e Unione europea, hanno catturato in mare 32.425 rifugiati e migranti e li hanno riportati in Libia: di gran lunga il più alto numero finora registrato, tre volte superiore a quello dell’anno precedente. Sempre durante il 2021, 1553 persone sono morte o sono scomparse in mare nel Mediterraneo centrale. In un rapporto del 17 gennaio 2022 il segretario generale delle Nazioni Unite si è dichiarato “gravemente preoccupato” per le continue violazioni dei diritti umani contro i migranti e i rifugiati in Libia, tra cui violenze sessuali, traffico di esseri umani ed espulsioni collettive. E si insiste nel dire: “La libia non è un porto sicuro”. Il rapporto ha ribadito che “la Libia non è un porto sicuro per lo sbarco di migranti e rifugiati” e ha ribadito la richiesta agli stati membri coinvolti di “rivedere le politiche che favoriscono gli intercettamenti in mare e il ritorno dei migranti e dei rifugiati in Libia”. Il rapporto ha anche confermato che i guardacoste libici continuano a operare con modalità che pongono in grave pericolo le vite e la salute dei migranti e dei rifugiati che cercano di attraversare il mar Mediterraneo. Pur riconoscendo tali limiti, un rapporto interno del comandante dell’operazione navale dell’Unione europea “Eunavfor Med Irini”, reso pubblico dall’Associated Press il 25 gennaio 2022, ha confermato il proseguimento dei programmi di rafforzamento dell’operatività dei guardacoste libici. Migranti. Oxfam: il memorandum italo-libico è l’”inferno” di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 febbraio 2022 Nei 5 anni dell’accordo 8mila morti, 80mila intercettazioni e un sistema di abusi e violenze. Avrebbe dovuto fermare partenze e naufragi, ha favorito il business dei trafficanti. Domani saranno trascorsi cinque anni dal memorandum siglato il 2 febbraio 2017 dagli allora primi ministri Paolo Gentiloni, per l’Italia, e Fayez al-Sarraji, per il governo di riconciliazione nazionale libico. Nelle ragioni ufficiali avrebbe dovuto fermare partenze e morti in mare. Nella realtà ha alimentato violazioni dei diritti, detenzioni arbitrarie, vittime innocenti e lucrosi business sulla pelle dei migranti. A tirare le somme è Oxfam che dal 2017 stima 8mila morti in quel tratto di mare e 80mila intercettazioni della “guardia costiera libica”. Di queste oltre la metà sono avvenute mentre al Viminale sedeva Luciana Lamorgese: 46.700, con una media mensile di 1.668 (che nel 2021 è salita a 2.602). Quando ministro dell’Interno era Matteo Salvini sono stati catturati 13.600 migranti, 969 al mese. Con Minniti 19.700, media mensile 1.234 (elaborazione dati del ricercatore Ispi Matteo Villa). Negli ultimi cinque anni gli sbarchi in Italia sono stati 255mila. 80mila arrivi in più non avrebbero cambiato le sorti del paese. Le intercettazioni hanno invece cambiato la vita a ognuna delle persone coinvolte e poi reinserite nel circuito di violenze e abusi dei centri. In Libia 27 strutture detentive ufficiali coesistono con prigioni “clandestine” di cui si sa poco e nulla. Secondo Oxfam nel 2021 si sono perse le tracce di 20mila migranti riportati a terra: la loro presenza non risulta nei centri governativi. “Dalla firma dell’accordo l’Italia ha speso 962 milioni di euro per bloccare i flussi migratori e finanziare le missioni navali italiane ed europee”, afferma Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam Italia. Oltre 32 milioni sono andati alla “guardia costiera” accusata da agenzie Onu e Ong di metodi brutali contro i migranti e collusioni con i trafficanti. Il 22 gennaio scorso il presidente della Corte d’Appello di Palermo ha inaugurato l’anno giudiziario menzionando una “regia centralizzata e verticistica riconducibile anche ad appartenenti alle istituzioni libiche” che governa i gruppi criminali dediti a immigrazione clandestina e tratta. Intanto la questione dei diritti umani è stata completamente evasa. A novembre 2019, nel dibattito sul primo rinnovo dell’accordo che ha durata triennale, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio dichiarò l’intenzione di migliorare il memorandum “con particolare attenzione ai centri e alle condizioni dei migranti”. Dell’annunciata convocazione a tale scopo della commissione congiunta italo-libica, prevista dall’art. 3, non si è saputo nulla. Sappiamo invece che sono aumentati i migranti reclusi, decuplicati tra gennaio e ottobre 2021, e le violenze nei centri e per le strade, come il rastrellamento di 5mila rifugiati nell’ottobre scorso a Tripoli. “Omicidi, schiavitù, torture, reclusione formano parte di un sistematico e diffuso attacco diretto contro questa popolazione [migrante, ndr], a sostegno di una politica statale”, sostiene il rapporto della missione di inchiesta indipendente dell’Onu (Ffm). Che l’”inferno libico” non sia un effetto collaterale, ma il prodotto diretto degli accordi anti-migranti vogliono dimostrarlo due dossier contro Italia ed Unione Europea presentati alla Corte penale internazionale dell’Aja dall’avvocato Omer Shatz nel 2019 e da un pool di associazioni di giuristi due settimane fa (UpRights, Olanda; Adala for all, Francia; StraLi, Italia). Lo sostiene anche Asgi che domani pubblicherà un lungo documento firmato da 100 realtà - tra cui Emergency, Fondazione migrantes, Caritas, Un ponte per, Uil - per chiedere la revoca del memorandum. Questo, si legge nel testo, “sta nei fatti agevolando la strutturazione di modelli di sfruttamento e riduzione in schiavitù all’interno dei quali sono perpetrate in maniera sistematica violenze tali da costituire crimini contro l’umanità”. Migranti. “Non c’è spazio per dormire, mancano cibo e acqua. Viviamo nella paura” di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 febbraio 2022 Nel centro di detenzione libico di Ain Zara, a Tripoli. Mahayadien è un rifugiato sudanese arrestato a Tripoli durante la protesta all’Unhcr. Mahayadien, nome di fantasia per proteggerne la vera identità, è un ragazzo di 24 anni nato in Darfur, nell’ovest del Sudan. Quando nel 2003 è scoppiata la guerra ha cercato riparo con la sua famiglia in Ciad. Aveva cinque anni e da allora è un rifugiato. Risponde al telefono dal centro di detenzione libico di Ain Zara, dove è recluso con centinaia di persone dal 10 gennaio scorso. Com’è la situazione dentro? La prigione non è grande e siamo in troppi. Nello stanzone dove mi trovo io siamo almeno 300. Viviamo uno sull’altro. Abbiamo difficoltà a dormire, non c’è spazio. Soffriamo per il cibo e l’acqua, che scarseggiano. Ci danno un pezzo di pane verso le 11 di mattina e poi un po’ di pasta, sempre e solo pasta, a pranzo e cena. Come sono le guardie del centro? Colpiscono i rifugiati senza motivo, con dei bastoni, soprattutto di notte. Ci fanno vivere nella paura. Qualche giorno fa ci hanno detto che saremmo potuti uscire. Alcune persone hanno provato a farlo. Ma poi ci hanno chiamato per dire che sono state rinchiuse in un altro centro, di cui non sanno il nome, dove la situazione è ancora peggiore. Sono costretti a lavorare tutto il giorno, ovviamente gratis. Ci sono anche donne e bambini? Sì, ma in un’altra parte della prigione. Siamo separati. Come fai ad avere il cellulare? A qualcuno è stato tolto, qualcun altro è riuscito a nasconderlo. Altri ancora si sono rifiutati di consegnarlo, hanno chiesto che gli fosse lasciato almeno quello. Quando sei stato arrestato? Il 10 gennaio, davanti alla sede dell’Unhcr. Eravamo accampati là da ottobre per rivendicare i nostri diritti e perché dopo il raid di Gargaresh non avevamo più un posto dove andare. Quando sono arrivati i militari a sgomberarci ci hanno dato 10 minuti per prendere le nostre cose. Avevano pistole e bastoni. Un ragazzo è stato sparato [ferito non è morto, ndr], era proprio davanti a me. Vivevi nel quartiere di Gargaresh? Sì, a Tripoli. Poi il primo ottobre è stato invaso dai militari. Sono stato arrestato e portato al centro di Al Mabani. Lì ho visto cose orribili. Persone uccise. Violenza continua. Dopo circa una settimana siamo riusciti a fuggire e siamo andati davanti all’Unhcr. Quando sei arrivato in Libia? Nel 2020, dopo tanti anni da profugo in Ciad. All’arrivo avevo trovato un lavoro, so fare i conti. Ma qui la vita è difficile. Anche fuori dalle prigioni, per strada. Gli africani non sono considerati esseri umani. Hai provato ad attraversare il mare? No, ho troppa paura. È troppo pericoloso. Tante persone sono morte. E poi quando ci provi ti catturano e ti portano indietro, nei centri. Finisci nelle mani dei trafficanti. Cannabis light “al sicuro” di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 1 febbraio 2022 “Il decreto interministeriale per le piante officinali richiama soltanto le regole in vigore, non può modificarle”. Parla Filippo Gallinella, presidente della commissione Agricoltura. “Ho proposto più soluzioni aggiuntive, come quella di poterla vendere come “prodotto da collezione” o “prodotto da inalazione”. Ma i miei emendamenti non sono stati accettati”. Il 12 gennaio la Conferenza Stato Regioni ha adottato un Decreto interministeriale in materia di piante officinali. La decisione ha sollevato reazioni contrastanti. Pazienti e una (buona) parte delle imprese hanno lamentato la mancanza di chiarezza del testo, paventando un ritorno al passato e seri problemi per produttori e rivenditori della cosiddetta cannabis light, ovvero infiorescenze a basso contenuto di Thc. Il Presidente della Commissione Agricoltura della Camera Filippo Gallinella, del Movimento 5 Stelle, è invece tra quelli che ritengono che non cambierà nulla per la cannabis light. “Permettetemi, innanzitutto, di chiarire - ci ha risposto - che il termine “cannabis light” è un’invenzione commerciale che ha creato solo confusione. La Legge 242/2016 disciplina la coltivazione da parte degli agricoltori della Cannabis Sativa L. dove “L” sta per Linneo, il nome di chi ha classificato il genere botanico. Essa reca “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa” specificano nel dettaglio cosa deve fare l’agricoltore e indicano quali sono le varietà ammesse alla coltivazione, chiarendo che queste coltivazioni non rientrano nell’ambito di applicazione del Testo unico sugli stupefacenti 309/1990. Pertanto, un decreto ministeriale, norma di rango inferiore ad una legge, non può far altro che richiamare le regole in vigore”. Eppure, il Decreto rimanda tout court foglie ed infiorescenze al Dpr 309/90, anche se rispettano i limiti di Thc della legge 242/16. Quindi secondo lei una volta tagliata la pianta è normata da diverse leggi a seconda delle sue parti? La legge del 2016 - per norma e non secondo me - permette all’agricoltore, solo all’agricoltore, di coltivare specifiche varietà per finalità elencate all’articolo 2 della stessa: alimenti e cosmetici; semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; materiale destinato alla pratica del sovescio; materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; attività didattiche e di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; coltivazioni destinate al florovivaismo. Se non si è agricoltori, per coltivare la canapa, indipendentemente dalla specie botanica, ci si rifà ad un’altra norma, ovvero al Dpr 309/90, secondo quanto previsto dall’art. 17 perché nelle tabelle che vengono richiamate vi è la canapa. Ma l’articolo 26 del Dpr 309/90 esclude espressamente dalle sue previsioni la pianta di canapa (non solo stelo, radici e semi) per produzione di fibre e altri usi industriali consentiti dalla normativa dell’Unione europea... Quell’articolo esclude dal divieto di coltivazione la canapa ad uso industriale. La 242/2016 - che, lo ricordo, semplifica le regole solo per gli agricoltori - recepisce la norma precedente e ne amplia e specifica la portata. Non vi è, pertanto, alcuna contrapposizione. C’è anche la sentenza della Corte di Giustizia europea sul caso Kanavape del 2020, che afferma che la commercializzazione di beni contenenti Cbd prodotti legalmente in uno Stato membro dell’Ue non può essere proibita all’interno del mercato comune… La sentenza parla della commercializzazione e non della produzione, che sono due aspetti differenti. Il Decreto ministeriale fa un mero elenco delle piante officinali, ricordando che per l’estrazione di principi attivi da canapa sativa, in quanto pianta officinale, si deve seguire l’iter autorizzativo previsto dal Dpr 309/90. Con l’occasione vorrei ricordare che, ad oggi, il Cbd naturale è stato registrato all’Ema come farmaco e lo si trova in commercio nel Sativex e nell’Epidiolex. Presso Efsa, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, ci sono 5 dossier per quanto concerne, invece, il Cbd come alimento. Il M5S è stato tradizionalmente a favore della legalizzazione tout court della cannabis. Per lei non sarebbe stato meglio se nel decreto, dopo “foglie e infiorescenze”, si fosse specificato “al di sopra dei limiti previsti dalla 242/16 e della normativa europea di riferimento”, in modo da evitare dubbi che non giovano a nessuno dei soggetti coinvolti nella filiera della cannabis? Con un Decreto ministeriale non si può modificare una legge, indipendentemente dai desiderata. Oggi un agricoltore può coltivare canapa sativa con le finalità precedentemente elencate. Se si vuole fare altro, si devono seguire le relative norme già esistenti, come il Dpr o il Regolamento Novel Food. In conclusione, io ho proposto più soluzioni aggiuntive, come quella di poterla vendere come “prodotto da collezione” o venderla come “prodotto da inalazione”. Ad oggi, però, le mie proposte emendative non hanno raccolto l’approvazione della maggioranza parlamentare e non sono divenute norma. Patrick Zaki: “Sogno l’Italia ma continuerò a lottare per i diritti in Egitto” di Francesca Caferri La Repubblica, 1 febbraio 2022 Oggi a Mansoura l’udienza decisiva per lo studente egiziano liberato a dicembre dopo 2 anni di cella: “Voglio finire il master a Bologna ma non scappo dal mio Paese”. Il Cairo. Patrick Zaki non sta fermo un attimo. Il suo destino è appeso a un filo e il filo è in mano al giudice del tribunale di Mansoura che nelle prossime ore dovrà decidere se chiudere il suo caso, rinviarlo ancora oppure - nulla è escluso - farlo ritornare in quella cella dove ha trascorso 22 degli ultimi 24 mesi, da quando nel febbraio 2020 fu arrestato all’aeroporto del Cairo di ritorno da Bologna, dove studiava. Lo incontriamo nella sede dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), l’Ong con la quale collabora e che in questi mesi è stata in prima fila nella sua difesa. La prima cosa che tutti vorrebbero sapere è come stai e come hai passato questi due mesi di libertà... “Sto bene. Ma non sono due mesi: 52 giorni, più o meno. In cella ho imparato che i giorni di libertà vanno goduti a uno a uno. Comunque, devo confessare che le ultime settimane non sono state facili: ho dovuto imparare di nuovo a vivere, a usare la tecnologia, a stare con le persone. Da quando sono stato rilasciato la mia missione è stata tornare a far parte della società: non posso dire che non sia successo nulla, perché quella del carcere è stata un’esperienza lunga e difficile ma sto cercando di elaborare e di andare avanti con la mia vita”. Una vita un po’ diversa da quella di prima: praticamente non c’è stata una settimana senza che si parlasse di te in Italia. Te ne sei reso conto? “Certo. Sono stato sommerso da un’ondata di amore e di supporto. Anche da parte di persone che non conosco. Ho ricevuto mille o forse 10mila inviti a cena. E nel mio frigo sono appena arrivati tortellini dall’Italia. Tutto questo affetto, mi ha reso felice”. In questi mesi non hai mai smesso di far sentire la tua voce riguardo ai diritti umani. Non hai avuto paura? Il tuo caso è ancora aperto… “Io non credo di essere una persona particolarmente coraggiosa ma quando uno sceglie di lavorare sui diritti umani in Egitto sa a cosa va incontro. Sa che non è un gioco e che può passare dei momenti molto duri. Sono determinato ad andare avanti: voglio lavorare perché le persone del mio Paese e del mondo arabo possano godere di maggiore libertà”. Cosa significa questo in termini di futuro? Quali sono i tuoi piani? “Il più immediato è tornare a Bologna, il prima possibile e rimanere lì per un periodo lungo. Spero di essere con i miei colleghi per l’inizio del prossimo semestre, che è fra pochi giorni. Cosa succederà dopo non lo so: so che continuerò a lavorare sui diritti umani”. In Egitto o in Italia o dove? “Non lascerò l’Egitto per sempre. Il mio lavoro riguarda l’Egitto. Non voglio scappare. Io partirò quando si potrà ma la mia famiglia resterà qui: verrà a trovarmi certo, ma questo è il mio Paese. Non lo abbandono”. C’è la possibilità che il giudice ti ordini di tornare in cella: sei pronto? “Sono pronto per ogni possibilità. Mi sono allenato per mesi. A ogni udienza di quei 22 mesi mi sono presentato sapendo che poteva non essere risolutiva, che rischiavo di rimanere in cella. Non mi sono mai illuso. Certo, ogni volta in cui ho capito che dovevo tornare dentro è stato difficile: ogni momento, ogni ora, non solo ogni giorno e ogni settimana in prigione è dura e lascia una cicatrice profonda”. Quando ci siamo incontrati dopo l’uscita dal carcere mi hai detto che in cella leggevi molto e che questo ti ha aiutato. Elena Ferrante dalle colonne di Repubblica ha detto che non poteva neanche immaginare come ti sentissi, ma che era felice che i suoi libri ti avessero aiutato. Ora cosa leggi? “Leggere le parole di Elena Ferrante è stata un’emozione immensa. Quindi, prima di tutto: grazie per questo. In questi giorni sto leggendo il libro di Alaa Abdel Fatah (il più famoso dissidente egiziano, in carcere dal 2019 dopo aver già scontato diversi anni di prigione per la sua dissidenza pacifica anni): è un maestro per me e per la tutta la mia generazione. Ho chiesto a tutti quelli che mi seguono in Italia di leggere il suo libro per capire che questa non è una storia che riguarda solo me. Gli devo molto”. Parliamo di attivismo: una delle principali accuse contro di te è un articolo che hai scritto nel 2019 sulla situazione dei copti. Quando lo scrivevi hai avuto la sensazione di toccare un argomento potenzialmente rischioso? “Quell’articolo descrive cose riportate su tutti i media vicini allo Stato. Era un’analisi, nulla di compromettente. Volevo sottolineare che c’era qualcosa di negativo che stava accadendo e che occorreva risolverlo. Niente di più”. E allora chiudiamo con una cosa di cui certamente puoi parlare. Mondiali di calcio 2022: Italia o Egitto? (ride…) “Prima di tutto bisogna arrivarci. E poi posso solo sperare che non si arrivi a uno scontro diretto, perché non sarebbe una cosa bella. Tutti e due va bene? Uno dei piani per il 2022 è andarli a vedere dal vivo, i Mondiali di calcio. Sarebbe una cosa bellissima, mi sto già organizzando. Posso aggiungere una cosa?”. Certo che puoi… “Vorrei dire grazie. Lo so che l’ho già detto, ma ci tengo a ripeterlo: grazie all’università di Bologna, alla professoressa Monticelli, alle persone che non mi conoscono e mi hanno appoggiato, grazie ai diplomatici italiani qui al Cairo. E vorrei dire grazie a David Sassoli, per tutto quello che ha fatto per me. Gli sono davvero grato e vorrei che la sua famiglia lo sapesse Yemen. La guerra non è finita: ancora attacchi e decine di morti. E gli Usa ci guadagnano di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2022 Nonostante i mezzi d’informazione non ne parlino quasi più e osservatori e analisti parlino di un conflitto prossimo alla conclusione, la guerra iniziata nel marzo 2015 nello Yemen non è affatto terminata. Il 17 gennaio un attacco del gruppo armato huthi ha colpito una struttura petrolifera di Abu Dhabi, negli Emirati arabi uniti, causando tre vittime civili. Sei giorni dopo un altro missile ha colpito il sud dell’Arabia Saudita, ferendo due civili. La reazione della coalizione guidata dall’Arabia Saudita è stata spietata, con la consueta pioggia di missili che hanno colpito la capitale yemenita Sana’a e altre zone dello Yemen distruggendo infrastrutture, danneggiando servizi e facendo decine di vittime. Il 20 gennaio il porto di Hudaydah è stato ripetutamente colpito da attacchi aerei che hanno causato numerosi morti, tra cui tre bambini. Uno ha centrato la sede delle telecomunicazioni, provocando il completo black-out dei servizi Internet per quattro giorni. L’attacco più sanguinoso è stato portato a termine tra i due attacchi degli huthi, il 21 gennaio, contro un centro di detenzione a Sa’adah, nello Yemen settentrionale. Ha causato almeno 80 morti e 200 feriti. La bomba a guida laser usata nell’attacco era stata prodotta dall’azienda statunitense Raytheon: esattamente il modello GBU-12 del peso di 500 libbre. Per l’ennesima volta, dunque, armi statunitensi sono state utilizzate dalla coalizione a guida saudita per compiere crimini di guerra. Una GBU-12 era stata usata dall’aviazione saudita il 28 giugno 2019 contro un palazzo nella zona di Ta’iz: erano morti sei civili, tra cui tre bambini. Da anni, le autorità statunitensi sanno perfettamente che le loro armi inviate agli stati del Golfo membri della coalizione anti-huthi vengono usate per compiere attacchi illegali contro la popolazione yemenita. Eppure, lo scorso settembre, al momento dell’approvazione del bilancio annuale della difesa Usa, l’emendamento che chiedeva la fine del sostegno alle operazioni offensive e agli attacchi aerei dell’Arabia Saudita nello Yemen è improvvisamente scomparso. Il presidente degli Usa Joe Biden ha ben presto abbandonato gli impegni presi all’inizio del suo mandato: porre fine al sostegno alle operazioni offensive nello Yemen, compresa la cessazione della vendita delle armi, rendere i diritti umani un elemento centrale della politica estera e assicurare che i responsabili delle violazioni dei diritti umani sarebbero stati chiamati a rispondere delle loro malefatte. Dal novembre 2021 l’amministrazione Biden ha approvato la vendita all’Arabia Saudita di missili (sempre della Raytheon) per un valore di 560 milioni di dollari, ha confermato l’impegno a vendere aerei da combattimento, bombe e altre munizioni agli Emirati arabi uniti per un valore di 23 miliardi di dollari e ha assegnato alle aziende statunitensi contratti per il valore di 28 milioni di dollari per la manutenzione degli aerei da combattimento sauditi. Il tutto non solo in violazione del diritto internazionale ma anche della stessa normativa statunitense: il Foreign Assistance Act e le Leahy Laws vietano la vendita di armi e le forniture di aiuti militari a stati che violano gravemente i diritti umani. Stando così le cose, è difficile immaginare quando la guerra dello Yemen possa terminare. *Portavoce di Amnesty International Italia Liberia. Sovraffollamento e cibo carente, il dramma delle carceri di Andrea Spinelli Barrile africarivista.it, 1 febbraio 2022 La già drammatica situazione delle carceri liberiane, sovraffollate e inadeguate per quanto riguarda la tutela dei diritti dei detenuti, si è aggravata oltremodo nel mese di gennaio a causa di una grave crisi alimentare. Secondo i quotidiani liberiani infatti l’amministrazione carceraria si è trovata costretta a dichiarare “piene” e non più disponibili a ospitare altri detenuti almeno due strutture su 15, ma dappertutto ai detenuti è stato interrotto il vitto per qualche giorno perché era finito il cibo. La mancanza di rifornimenti ha colpito tutte le strutture carcerarie liberiane e solo l’intervento del filantropo Upjit Singh Sachdeva detto Jeety e di un ente di beneficienza locale è stato possibile sopperire alle carenze alimentari. Anche se i problemi a monte, sovraffollamento e mancanza di fondi, restano nella loro interezza: il carcere di Monrovia ospita 1400 detenuti a fronte di soli 400 posti disponibili e nonostante le pareti esterne della struttura siano state dipinte di fresco da poco, forse per indurre l’occhio del passante a pensare che le condizioni siano simili all’interno, la situazione dei detenuti resta critica. “Il governo ci dà da mangiare un piatto” di riso “ogni giorno, una volta al giorno” riportano i media citando un detenuto durante un incontro con la stampa durante la cerimonia di apertura di un nuovo centro per le visite, diventato un’occasione di sfogo. La situazione non è solo insostenibile per i detenuti: il responsabile del carcere di Monrovia Varney Lake ha ammesso che il sovraffollamento, da solo, rappresenta una “grave violazione dei diritti umani”, denunciando al quotidiano Frontpage Africa la carenza di fondi e di strutture ben manutenute. Il direttore nazionale delle carceri, Sainleseh Kwaidah, ha confermato che la mancanza di cibo per i detenuti è una delle tante sfide che la giustizia liberiana deve affrontare. I fondi, in realtà, ci sarebbero ma il governo è lento nel rilasciarli: secondo Kwaidah i fondi attesi per settembre sono arrivati solo dopo Natale e di conseguenza le varie sovrintendenze carcerarie sono state costrette a prendere denaro in prestito per sfamare i detenuti. Un altro problema delle carceri, che si aggiunge alle strutture fatiscenti, al sovraffollamento, alla carenza di fondi e cibo, è la mancanza di strutture mediche e di materiale per le guardie carcerarie, a partire dalle divise: l’ultimo lotto di forniture di uniformi risale a 10 anni fa e fu donato dalle Nazioni Unite. Allo stesso modo le amministrazioni penitenziarie lamentano la carenza di mezzi e di carburante per il trasferimento dei detenuti: “Accompagniamo i prigionieri di molte delle nostre prigioni sui kek-keh” (le moto a tre ruote) ha detto alla Bbc Kwaidah, spiegando che i veicoli lasciati dalle Nazioni unite più di sei anni fa sono, in buona parte, guasti. Il ministro della Giustizia Frank Musa Dean, responsabile del sistema penale, ha detto alla Bbc che il governo è consapevole dell’entità dei problemi delle carceri, evidenziati tra l’altro in un recente audit ufficiale, ma non ha ancora trovato una soluzione a breve termine, confidando nell’assegnazione di ulteriori risorse da parte del Parlamento. Nel 2011 il governo aveva annunciato un piano decennale per riformare le carceri ma, 11 anni dopo, il piano non è mai stato completato e la situazione è peggiore rispetto a quando fu varato, con la popolazione carceraria più che raddoppiata.