Morire in carcere con i fornellini a gas: assurdità da evitare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2022 Sniffare gas dai fornellini è un fenomeno diffuso. Può uccidere senza volerlo, diventare un’arma o, se usato consapevolmente, mettere fine alla vita. I soldi ci sono e potrebbero servire per acquistare piastre elettriche a induzione. Siamo giunti a 13 suicidi in meno di due mesi dall’inizio dell’anno. L’ultimo - come ha notiziato la garante del comune di Roma Gabriella Stramaccioni - è avvenuto giovedì scorso al nuovo complesso del carcere romano di Rebibbia. Tra i suicidi, in realtà, uno è ancora da chiarire. Parliamo del detenuto tunisino, 33enne, ritrovato agli inizi di febbraio riverso nel bagno della cella del carcere di Monza. Nel cestino accanto al corpo è stata ritrovata una bomboletta di gas vuota. La procura sta indagando. Resta il fatto che, ancora una volta, i fornellini a gas per cuocere il cibo diventano un’arma contro se stessi o gli altri. Eppure, una soluzione per ovviare al problema c’è. I fondi dovrebbero essere utilizzati non per ampliare ma per mettere in sicurezza gli edifici - Anche con questo governo, i fondi per l’edilizia vengono usati per ampliare i padiglioni. Quindi, aumentare la capacità del sistema penitenziario si tratta, di fatto, di una vecchia opzione e rischia di amplificare alcune criticità in mancanza di una ampia progettualità. I fondi dovrebbero essere, invece, indirizzati per la messa in sicurezza di tutti gli istituti penitenziari che presentano situazioni non a norma. A dirlo da tempo è Stefano Anastasìa, il garante dei detenuti del Lazio e portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Si potrebbero sostituire le bombolette con fornellini a induzione - Tra le varie criticità da risolvere con i fondi, una è proprio quella di sostituire le bombolette con un fornellino elettrico, magari in induzione. Solo così si mettono in sicurezza i detenuti che hanno la necessità - anzi il diritto - di poter cucinare. I soldi per l’edilizia penitenziaria sono importanti, ma andrebbero appunto indirizzati per rendere più moderne e sicure le carceri esistenti. A partire dai servizi igienici, le docce che dovrebbero essere individuali (ricordiamo la pandemia e il contagio diffuso anche per questo motivo), il rifacimento delle cucine e via discorrendo fino ad arrivare anche ai piccoli dettagli, ma non insignificanti come appunto l’utilizzo delle bombolette a gas. I detenuti con problemi di tossicodipendenza inalano il gas dalle bombolette dei fornellini - E sono proprio le bombolette che, in particolar modo per i detenuti con problemi di tossicodipendenza, aiutano a ritrovare un po’ di euforia artificiale attraverso l’inalazione del gas. Un modo per evadere dall’alienazione del carcere, fuggire dall’angoscia delle sbarre. Il gas del fornellino da campeggio non ha un effetto del tutto analogo al protossido di azoto, il gas anestetico utilizzato nelle sale operatorie noto per i suoi effetti esilaranti, ma in carcere pare venga utilizzato come alternativa alle droghe perché, comunque, stordisce. Resta il fatto che i gas, tutti i gas, creano un’ipossia generalizzata. In altre parole, vanno in sofferenza uno dopo l’altro tutti gli organi. Come i gas rilasciati da alcuni tipi di colle e solventi, il metano e il butano mettono ko l’emoglobina, deputata a trasportare ossigeno ai tessuti. All’inizio c’è lo stordimento, il cervello va in carenza di ossigeno, poi subentra l’euforia, ma poi comincia l’intossicazione dell’organismo. E i danni posso essere pesanti. L’intossicazione è multiorgano, può essere irreversibile e quindi portare anche alla morte. Anastasìa: “Sono almeno quindici anni che si discute delle piastre elettriche” - Che fare quindi? Com’è detto la soluzione c’è. Il garante regionale Stefano Anastasìa lo ha ribadito ancora una volta in occasione del recente suicidio avvenuto nel carcere di Regina Coeli. L’uomo di origini afghane si è ammazzato con il gas della bomboletta usata dai detenuti in cucina. “Sono almeno quindici anni che si discute delle piastre elettriche per gli “angoli cottura” delle camere detentive. Invece di costruire nuovi inutili padiglioni, per tenere in carcere autori di reati da niente, non era meglio usare i fondi del Pnrr per l’adeguamento degli istituti esistenti alla normativa di sicurezza e igienico-sanitaria vigente?”, ha chiosato il garante del Lazio. Via libera all’emendamento che riporta i detenuti in udienza di Valentina Stella Il Dubbio, 19 febbraio 2022 Dal 1° aprile 2022 (o comunque dalla cessazione dello stato di emergenza) la partecipazione a tutte le udienze di detenuti e persone in custodia cautelare non dovrà avvenire più tramite videoconferenza o collegamenti da remoto. Anche i reclusi (fatte salve le eccezioni di legge) torneranno dunque a partecipare in presenza alle udienze: è quanto previsto da un emendamento del deputato di Azione Enrico Costa che questa settimana ha ottenuto il voto favorevole della Camera. “È stato approvato nella notte di mercoledì un mio emendamento che prevede di anticipare alla fine dello stato di emergenza, anziché conservare fino al 31 dicembre 2022, l’efficacia di queste disposizioni del tutto contrastanti con i principi del giusto processo”, ci spiega il parlamentare. “Avremmo voluto di più, ovvero far cessare al 31 marzo l’applicazione di tutte le disposizioni adottate nel periodo emergenziale per il processo penale che determinano un detrimento delle garanzie e delle prerogative difensive: la trattazione in camera di consiglio da remoto dei procedimenti penali in Cassazione, senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle altre parti, salvo che il ricorrente richieda espressamente la discussione orale; la possibilità di assumere da remoto le deliberazioni collegiali in camera di consiglio; il procedimento semplificato nel giudizio penale di appello e nei procedimenti di impugnazione dei provvedimenti di applicazione di misure di prevenzione personali, o la possibilità che la decisione sia presa sulla base di un giudizio cartolare, che si svolge in camera di consiglio, a distanza e senza la partecipazione di pm e difensori delle parti”. Purtroppo, prosegue amareggiato Costa, “i pareri del governo su questi temi pagano il fatto di essere scritti dai magistrati ministeriali, attenti più alle esigenze dei loro colleghi che alle garanzie della difesa e ai principi del giusto processo. Hanno introdotto per la fase della pandemia norme che comprimono pesantemente i diritti della difesa, e ora le mantengono a regime. Un utilizzo strumentale dello stato di emergenza come ponte per rendere definitivi meccanismi che eludono il contraddittorio”. Ma non sono finiti qui i problemi, perché Costa ci dice che ad oggi manca ancora la piattaforma per fare domanda per il rimborso delle spese legali per gli assolti. Come vi avevamo già raccontato lo scorso 20 dicembre, la ministra Cartabia, di concerto con il ministro dell’Economia, aveva emanato il decreto che definisce i criteri e le modalità di erogazione del fondo per il rimborso delle spese legali agli imputati assolti. “Il richiedente - ricorda Costa - dovrebbe presentare istanza di accesso al fondo tramite apposita piattaforma telematica accessibile dal sito giustizia. it mediante le credenziali Spid di livello 2. Ma ad oggi non c’è ancora nulla. Questo dimostra che quando una legge approvata dal Parlamento finisce negli ingranaggi ministeriali essa viene depotenziata e rallentata. Tutto ciò frustra anche le aspettative di coloro che dovrebbero vedere tutelati i loro diritti”. C’è ancora un’altra criticità che Costa intende sollevare: “Entro il 31 gennaio il governo avrebbe dovuto depositare alla Camera i dati sulle ingiuste detenzioni pagate nel 2021, ma il termine anche questa volta non è stato rispettato. Negli anni ho fatto una lunga battaglia per avere questi dati, battaglia tradottasi in una legge che obbliga il governo a riferire alle Camere. Purtroppo non c’è un anno in cui il governo rispetti la scadenza. Questo dimostra che non c’è una adeguata sensibilità sul tema da parte degli uffici ministeriali. Da via Arenula scrivono ai vari Tribunali per avere i dati, i quali spesso non rispondono ma non vengono sanzionati. Poi c’è da dire che molto probabilmente anche il ministero dell’Economia non elabora tempestivamente i dati sulle liquidazioni al ministero della Giustizia”. Interpellato infine sullo scenario che si andrà a creare, ora che riforma del Csm e referendum giustizia potrebbero incrociarsi, Costa risponde: “Dobbiamo prima capire quando arriverà in commissione il testo del governo, illustrato in conferenza stampa da Draghi e Cartabia. Sarebbe già dovuto essere depositato mercoledì ma è bloccato dal Mef. Il Parlamento non può rimanere con il piattino in mano aspettando i tempi lunghi della Ragioneria dello Stato. Il pericolo è che non ci sarà tempo per esaminare bene il provvedimento e discutere i sub- emendamenti, con il rischio di dover comprimere il dibattito. Per quanto concerne i referendum, i temi non affrontati dai quesiti potrebbero essere oggetto di emendamento, come la responsabilità diretta dei magistrati”. Minori, Cartabia: “Spetta a noi adulti spezzare un presunto destino di devianza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 febbraio 2022 La ministra in Commissione Infanzia cita il progetto “Liberi di scegliere”. “Di fronte a queste storie siamo tutti interrogati, “siamo tutti coinvolti”. E, di sicuro, “niente affatto assolti”, volendo parafrasare un celebre verso di Fabrizio De Andrè”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia, innanzi alla Commissione parlamentare per l’Infanzia, ha chiosato facendo riferimento sul frequente ricorso alla violenza e alla sopraffazione da parte di troppi minori: talvolta sono usati come manovalanza della criminalità organizzata, a cominciare dalla camorra; talvolta sono protagonisti dell’altrettanto preoccupante fenomeno delle baby gang. La guardasigilli, sul punto, offre una soluzione. O meglio, una via di uscita che è da ritrovarsi attraverso il dialogo tra il mondo della giustizia e quello della formazione, soprattutto scolastica. A tal proposito cita un esempio. “Con il progetto “Liberi di Scegliere” - ha illustrato la ministra della Giustizia - finanziato nell’ambito del Programma Operativo Nazionale “Legalità” 2014- 2020, il Dipartimento, ha avuto la possibilità di attuare in Calabria, Campania e recentemente anche in Sicilia, una strategia innovativa di intervento educativo mirato per ogni singolo ragazzo, per consentire l’elaborazione autonoma di un progetto di vita sganciato dalle dinamiche criminali”. La ministra Cartabia, ci ha tenuto a sottolineare che, chi nasce in un contesto mafioso, non è “ineluttabilmente” condannato ad un’eredità criminale. “Spetta a noi adulti, alla scuola e a tutti gli educatori, spezzare un presunto “destino” di devianza, porgendo ad ogni ragazzo una proposta attraente e percorribile, alternativa alla seduzione della criminalità”, ha ribadito la guardasigilli. Ha ricordato che occuparsi della giustizia minorile, vuole dire occuparsi in fondo di educazione. Educare e rieducare, continuamente. E ha ricordato le parole del cardinale Carlo Maria Martini: “Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non si sarà raccolto”. La ministra ha spiegato che nel recupero dei minori che inciampano in un reato è in gioco la vita di ciascun ragazzo e quella dell’intera polis. “Anzi, l’idea stessa di società futura che vogliamo costruire”, ha sottolineato con forza. Nell’intervento alla commissione Infanzia, la ministra Marta Cartabia ha ribadito che il carcere deve considerarsi davvero l’extrema ratio per i ragazzi che commettono dei crimini, privilegiando invece le misure alternative: percorsi di giustizia riparativa, focus sull’istruzione, la formazione professionale, l’educazione alla cittadinanza attiva. “Crediamoci nei ragazzi - ha detto, con forza, la ministra -. Diamo loro delle proposte alternative al carcere, i giovani autori di reato non sono costretti a rimanere lungo la china di criminalità che hanno intrapreso. Le misure alternative ci dicono che laddove questi giovani sono stati affiancati da adulti che hanno saputo essere adulti al loro fianco, la possibilità di una strada diversa c’ è”. Viene fatto l’esempio emblematico di Daniel Zaccaro, un ragazzo di 29 anni. Oggi ha una laurea in Scienze dell’educazione e ha raccontato la sua storia in un libro, un vero manuale per comprendere il disagio giovanile. Ma prima di diventare un educatore, Daniel si era perso sulla strada del crimine. A soli 17 anni, Daniel ha rapinato una banca. La strada del crimine l’ha portato dietro le sbarre del carcere minorile Beccaria. Sembrava fosse destinato, mentre invece - grazie alla comunità Kairòs di Milano - è riuscito a riprendere in mano le redini del suo destino. La ministra Marta Cartabia, in commissione Infanzia, ha voluto ricordare il suo incontro con Daniel, “che da bullo di periferia, con gravi reati alle spalle, è diventato a sua volta un educatore”. Mai più bambini in carcere! Si approvi la proposta di legge Siani cittadinanzattiva.it, 19 febbraio 2022 “Ieri, in occasione della audizione presso la Commissione Parlamentare per l’Infanzia, la Ministra Cartabia ha richiamato nuovamente l’attenzione sul gravissimo ed irrisolto problema della presenza dei bambini in carcere al seguito delle madri detenute. Per questo chiediamo che si acceleri l’iter di approvazione della proposta di legge Siani, depositata già a fine 2019, evitando così di buttare all’aria tre anni di impegno di parte delle istituzioni e di tutte le associazioni” ad affermarlo Laura Liberto, coordinatrice nazionale Giustizia per i diritti - Cittadinanzattiva, che da tempo è impegnata, insieme all’associazione A Roma insieme Leda Colombini, a richiamare e tenere viva l’attenzione pubblica e delle istituzioni perché si approvino misure efficaci che consentano di mettere fine in via definitiva al fenomeno dell’incarcerazione dell’infanzia. In particolare, la Ministra ha sottolineato che “l’obiettivo ideale deve essere quello di “mai più bambini in carcere”, perché “anche un solo bambino ristretto è di troppo”. “Occorre che tale obiettivo non rappresenti un orizzonte ideale, ma un risultato da ottenere in concreto. Se, infatti, è vero che - grazie all’impegno profuso dallo stesso Ministero, dai Garanti dei detenuti, dalle associazioni, da singoli magistrati nella individuazione di soluzioni ad hoc alternative - il numero dei piccoli detenuti si è sensibilmente ridotto nell’ultimo biennio, è altrettanto vero che occorre lavorare alla costruzione di risposte di sistema perché quel numero può tornare a crescere. In questa prospettiva la proposta di legge Siani “in materia di tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, introducendo significative modifiche normative di natura sostanziale e processuale, rappresenta un passaggio cruciale per superare in via definitiva il fenomeno dell’incarcerazione dei bambini. Per passare dalle parole ai fatti - conclude Liberto - è a questo punto necessario che si riprenda l’esame in Commissione della proposta di legge e si acceleri il relativo iter di approvazione per concluderlo entro la fine della legislatura”. Nella riforma della giustizia serve più meritocrazia di Roger Abravanel Corriere della Sera, 19 febbraio 2022 L’”indipendenza” da noi è sinonimo di “autoreferenzialità” e quindi in realtà è un obiettivo sbagliato. Pochi capiscono a fondo come la assenza di meritocrazia nelle carriere dei magistrati sia una delle cause principali del nostro ritardo economico. Eppure è così non solo perché scoraggia gli investimenti privati, ma anche perché è la principale causa della burocrazia della macchina pubblica: gli impiegati e i dirigenti della PA che bloccano decisioni sono molto più vittime spaventate dalla magistratura che fannulloni. Nel mio saggio Aristocrazia 2.0, la nuova élite per salvare il Paese, ho raccontato come il merito dei singoli magistrati nel giudicare bene e velocemente, che dovrebbe essere alla base delle loro carriere, non è oggi misurabile in modo obbiettivo. Perciò le loro valutazioni sono quasi tutte “eccellenti” e alla fine l’unico criterio obbiettivo è l’anzianità. Senza meritocrazia le riforme del governo Draghi avranno lo stesso impatto limitato di quelle dei governi che lo hanno preceduto. La vera riforma dovrebbe essere quella del Csm che si discute in questi giorni perché il Csm è l’organo che determina le carriere dei magistrati italiani. Purtroppo la riforma che sta emergendo non creerà i presupposti per il nascere della meritocrazia. Le due principali proposte della riforma hanno l’obiettivo di sempre: rendere la magistratura il più possibile “indipendente dalla politica”. Purtroppo è un obbiettivo sbagliato: “indipendenza” da noi è sinonimo di “autoreferenzialità” e un paragone con altri sistemi giudiziari europei (descritto in dettaglio nel saggio), la rivela la più autoreferenziale d’Europa: le carriere dipendono solo dal sindacato dei magistrati, l’Anm. La prima proposta è quella di impedire le porte girevoli tra magistratura e politica, bloccando il rientro nelle funzioni di magistrato di chi si è candidato e impedendo la candidatura nei collegi elettorali in cui ha prestato servizio per più di un certo periodo. Considero questa riforma del tutto irrilevante perché i giudici e i pm che entrano in politica sono pochissimi, ancora meno quelli che ritornano in magistratura e hanno generalmente molto più impatto sulla politica prima di entrarvi piuttosto che dopo, come Antonio Di Pietro. Né si può pensare alla carriera politica come “premio” a magistrati che piegano la loro attività a interessi di partito. Incerta, mal pagata e molto spesso irrilevante, la carriera politica si prospetta per lo più come un’illusione di potere per magistrati che dopo una carriera dove hanno gestito casi importanti hanno una sorta di delirio di onnipotenza, che quasi sempre tale si rivela. La seconda proposta è quella di riformare la composizione del Csm ritornando a 20 “togati” e 10 “laici” e cambiando i meccanismi elettorali con collegi binominali e esclusione delle “liste”. Anche questa proposta è orientata all’obbiettivo di rendere la magistratura più indipendente dalla politica perché mira a scardinare il meccanismo delle correnti, che ipoteticamente controllano il Csm asservendolo a interessi politici. Ancora una volta è un falso problema perché il vero potere delle correnti e della magistratura è proprio nella sua autoreferenzialità. Inutile dire che composizione e collegi binominali non cambiano nulla. Più di impatto potrebbe essere potenzialmente l’eliminazione delle liste che rende difficile il funzionamento di un’organizzazione di partito come sono di fatto le correnti nel presentare candidati. Difficile ma non impossibile, ma non è questo il punto. Perché se non più eletti dai partiti, come verrebbero scelti i candidati? Grazie al passaparola nei collegi elettorali? O alla notorietà mediatica di alcuni nomi in vista? Un politico fa campagna elettorale ed è un mestiere full time, ma un magistrato non dovrebbe fare altro? Di fatto questo meccanismo dei candidati fai da te, senza liste e senza firme di sostegno, ricorda in parte un altro meccanismo di nomina proposto, quello del sorteggio: una vera lotteria. Queste due proposte sono quelle che attraggono il maggior interesse dei media che da anni gridano al rapporto malsano tra magistratura e politica. Perciò trascurano la terza proposta, quella che tocca un punto cruciale: i criteri e gli obiettivi delle nomine, la cui assenza è la vera causa dei problemi. Tutti in Italia si preoccupano che ci si affidi a criteri sbagliati e inquinati, dalla politica, dalle logiche di potere delle correnti, dalla non-scelta burocratica dell’anzianità. Ma nessuno grida al vero scandalo, ovvero che questi criteri sbagliati non inquinano quelli corretti ma si inseriscono in un vuoto spaventoso in cui nessuno ha la forza o il coraggio di dire in modo autorevole quali sono i criteri e quindi gli obiettivi da raggiungere, cosa è questo famoso “merito”. Nella terza leva della riforma il termine “merito” appare proprio all’inizio della lista dei criteri elencati dalla riforma, ma purtroppo senza un dettaglio sufficiente. Si parla di non ben definite “attitudini” e di utilizzare l’anzianità solo in modo residuale. Si aggiunge poi che la nomina dei magistrati agli incarichi deve essere “tempestiva nell’ordine in cui gli incarichi si rendono vacanti” (leggi non aspettare mesi per nominare un sostituto). Per tutto ciò questa riforma non farà nascere la meritocrazia nel nostro sistema giudiziario. Verte su un falso problema, la esigenza di una maggiore “indipendenza dalla politica” della magistratura, senza affrontare il tema del come ridurre la sua autoreferenzialità facendo nascere una vera meritocrazia nelle carriere. Nel mio saggio ho raccontato come la meritocrazia esiste nei sistemi giudiziari di altri Paesi europei perché questa guida alle carriere dei magistrati viene fatto in parte da un ruolo dell’esecutivo nel Csm, che da noi però è bloccato dalla Costituzione. Nell’attesa di una sua possibile modifica sul tema, la riforma del Csm di questi giorni potrebbe però fare due cose: 1) descrivere molto meglio i criteri di scelta: cosa è “merito”, cosa sono i risultati, come si misurano, che trasparenza dare alle decisioni eccetera. In Germania (dove non esiste il Csm) la valutazione per la selezione dei magistrati è rigorosissima ed è fatta in base a 50 variabili raggruppabili in 4 aree: competenza professionale, competenza personale (intelligenza emozionale), competenza sociale e leadership; 2) restituire più potere di valutazione della gerarchia nei confronti del sindacato — nel corso degli anni da noi il ruolo dei presidenti dei tribunali e delle procure nel valutare i loro magistrati si è ridotto ed è stato completamente sostituito dall’appartenenza alle correnti sindacali. Il presidente Mattarella, nel suo discorso di re-insediamento, ha richiesto chiaramente una seria riforma della magistratura. Per le ragioni espresse in questo articolo appare evidente che il suo appello non è stato ancora accolto. Sondaggio giustizia, sui referendum quorum difficile. Fiducia nei magistrati ai minimi di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 19 febbraio 2022 In tre casi prevalgono i sì, no su Severino e custodia cautelare. Anche nel Movimento 5 Stelle critiche alle toghe. Per una singolare coincidenza, nei giorni in cui ricorrevano i trent’anni dall’avvio di Mani Pulite, l’inchiesta che sconvolse il sistema partitico italiano, il governo Draghi ha approvato la riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario. Ma le coincidenze non finiscono qui: Piercamillo Davigo, uno dei magistrati di punta dell’inchiesta, è stato rinviato a giudizio con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio nel caso dei verbali di Piero Amara, proprio nel giorno del trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio a Mani Pulite; infine, Giuliano Amato, premier all’epoca di Tangentopoli, a fine gennaio è stato eletto presidente della Corte Costituzionale, che in questa settimana è stata chiamata ad esprimersi sull’ammissibilità di diversi referendum, la maggior parte dei quali riguardanti la giustizia. In questi trent’anni il rapporto degli italiani con la giustizia è profondamente cambiato, come pure le opinioni sulla magistratura. Infatti, se negli anni 90 i giudici erano considerati eroi popolari e godevano del consenso di oltre nove cittadini su dieci, oggi solo uno su tre (32%) dichiara di avere fiducia nella magistratura. Si tratta del livello più basso di sempre, basti pensare che nel 2010 il 68% si esprimeva positivamente nei confronti dei giudici e da allora in poi abbiamo registrato un calo continuo. Dunque, la maggioranza assoluta (56%) non ha fiducia nei giudici e i più critici risultano gli elettori del centrodestra: FdI 74%, Lega 65% e FI, insieme alle altre forze minori, 64%. La fiducia prevale solo tra gli elettori del Pd (67%), mentre i pentastellati, presumibilmente a seguito delle vicende che hanno riguardato il Movimento (sospensione dell’elezione di Conte a capo e inchieste su alcuni esponenti), si dividono: 50% non ha fiducia, contro il 44% che dichiara di fidarsi. È un dato sorprendente tenuto conto del fatto che il M5S ha sempre fatto della giustizia un cavallo di battaglia. In realtà, gli atteggiamenti di molti cittadini sono cambiati anche in concomitanza con il tramonto politico di Berlusconi che ha avuto un rapporto conflittuale con i giudici e ciò ha indotto molti elettori a prendere posizione indipendentemente dal merito delle questioni. Oggi il tema non rappresenta più un tabù e la stragrande maggioranza si esprime negativamente nei confronti della giustizia. In particolare, le critiche riguardano i tempi eccessivi dei processi, riconducibili alla farraginosità delle leggi (48%) e alla carenza di organico (40%), alla scarsa professionalità dei giudici alcuni dei quali si sono resi protagonisti di errori giudiziari e sentenze discutibili (27%), nonché ai comportamenti illeciti tra i vertici della magistratura (25%). Non mancano le critiche riguardo al rapporto dei giudici con la politica, in termini di dipendenza (22%) o di protagonismo e rivalsa (19%). Tra i dem le critiche riguardano più i tempi della giustizia, mentre tra gli elettori del centrodestra sono più accentuati le contestazioni del rapporto con la politica. La riforma Cartabia è stata seguita solo dal 28% dell’opinione pubblica, di cui una quota marginale (7%) ha approfondito con attenzione. Cionondimeno, lo stop alle “porte girevoli” previsto dalla riforma, ossia l’impossibilità per i giudici eventualmente eletti a cariche politiche di tornare ad esercitare l’azione penale al termine del loro mandato, incontra un consenso elevato (57%). Anche i referendum promossi dai Radicali e dalla Lega sono stati oggetto di poca attenzione: poco più di uno su tre ha seguito molto (7%) o abbastanza (28%) le notizie al riguardo. Nel merito dei singoli quesiti referendari e della relativa propensione a recarsi ai seggi, la maggioranza assoluta degli italiani dichiara di non avere un’opinione o non avere intenzione di partecipare al referendum. Tra coloro che si esprimono, prevale la propensione a votare sì per i quesiti riguardanti le candidature al Csm (23% contro 11% a favore del no), l’equa valutazione dei magistrati (28% contro 12%), nonché la separazione delle funzioni dei magistrati giudicanti (36% contro 10%). Anche nel caso del quesito respinto dalla Corte costituzionale sulla responsabilità diretta dei magistrati prevalgono i sì (30% a 17%). Viceversa, prevarrebbero i no per i quesiti relativi alla riduzione dei limiti della custodia cautelare (26% contro 17% a favore del sì) e all’abolizione della legge Severino (26% a 20%). Gli orientamenti sui singoli quesiti da parte dei diversi elettorati sono in larga misura coerenti con le posizioni assunte dai partiti che si sono più esposti sui temi della giustizia. Nel complesso la scarsa dimestichezza dei cittadini riguardo alle questioni giuridiche e la minore attrattività dello strumento referendario (non a caso dal 1997 in poi non è stato raggiunto il quorum in occasione di 7 degli 8 referendum indetti) ad oggi inducono a ritenere estremamente difficile il raggiungimento del quorum. In ogni caso, qualora venisse raggiunto e si affermassero i sì, il 42% è del parere che l’esito consentirebbe di migliorare il funzionamento della giustizia, mentre il 33% si mostra scettico. Dunque, lo scenario attuale mostra che alla prevalente sfiducia nei confronti dei partiti e della politica si somma la sfiducia per i magistrati e l’insoddisfazione per l’amministrazione della giustizia. La politica, soprattutto quella più critica nei confronti della magistratura, farebbe bene ad evitare di considerarla una sorta di rivincita del potere legislativo su quello giudiziario. Il nostro sistema democratico si basa sull’equilibrio dei poteri, non sul conflitto tra gli stessi. E l’impopolarità di giudici e politici è una sconfitta per tutti. Custodia cautelare e legge Severino, il Pd verso due no di Carlo Bertini La Stampa, 19 febbraio 2022 Il Pd si sta orientando verso due “no” ai referendum per abolire la legge Severino e la custodia cautelare per la reiterazione dei reati. Enrico Letta e i dirigenti dem (parlamentari delle commissioni Giustizia e membri della segreteria) si stanno confrontando in queste ore in vista della Direzione di lunedì, dove il tema sarà affrontato per poi aprire il dibattito nel partito a tutti i livelli. Se questa indicazione sarà confermata, quando in primavera gli italiani saranno chiamati a votare, potrebbero trovarsi di fronte un inedito schieramento: Pd-5Stelle e Fratelli d’Italia nella stessa trincea per i due principali referendum. Anche se sugli altri tre, Pd e M5s potrebbero essere su diverse posizioni: coinvolgimento degli avvocati nel giudizio dei magistrati, niente firme per le candidature al Csm (per depotenziare le correnti) e separazione delle funzioni requirenti e giudicanti, sono temi che non vedono pregiudizialmente contrari i dem. Convinti però che questi tre quesiti saranno assorbiti dalla riforma Cartabia che si trova all’esame delle Camere. I grillini comunque hanno già fatto sapere di essere contrari a tutti e cinque i referendum sulla giustizia validati dalla Consulta. Invece Meloni si è sganciata dai due referendum su Severino e misure cautelari, suscitando la reazione indispettita di Salvini, “viva la libertà”. Poli scompaginati dunque, campagne referendarie diverse per un appuntamento che la Lega, per evitare un flop di partecipazione, vorrebbe associato alle elezioni amministrative in mille comuni e varie città. Come notano gli analisti del partito di Letta, “la bocciatura dei referendum su cannabis, eutanasia e responsabilità civile dei giudici, toglie appeal alla domenica referendaria e crea un rischio quorum, quindi Salvini rischia di uscirne come il principale sconfitto”. Ma su un nodo sensibile come la Giustizia, i dem non la pensano tutti allo stesso modo. A favore dell’abolizione della Severino e del carcere preventivo, sarebbero pronti a schierarsi l’ex capogruppo Andrea Marcucci e altri senatori, gli stessi che martedì in Aula potrebbero votare a favore di Renzi nel conflitto di attribuzione sul caso Open, sul quale il Pd si è astenuto in Giunta. La posizione prevalente dello stato maggiore invece è stata anticipata dalla capogruppo al Senato, Simona Malpezzi e dalla responsabile giustizia in segreteria, Anna Rossomando. “Con il quesito referendario - ha spiegato Rossomando su II Mattino - si abrogherebbe tutta la normativa Severino, per cui anche i condannati per i reati di mafia con sentenza irrevocabile potrebbero candidarsi ed essere eletti. E non è accettabile”. Detto questo, il Pd vuole andare incontro ai sindaci, che protestano per il fatto che gli amministratori, anche con una condanna di primo grado, vengano sospesi: “Giusta una riflessione: in commissione è stata incardinata una proposta di legge Pd che rivede le sospensioni degli amministratori locali in assenza di una sentenza definitiva, fatti salvi i reati di grave allarme sociale”. Se questa è la linea sulla Severino, sulla custodia cautelare “ci sono eccessi - ammette un membro della segreteria - e che vada rivista e attenuata non c’è dubbio. Ma il quesito vuole abolire la parte che riguarda la reiterazione del reato, mantenendo salva quella che riguarda il rischio di fuga e di inquinamento delle prove. Togliendo la reiterazione del reato, anche uno stalker che minaccia la ex moglie non potrebbe essere più colpito da misure cautelari come il divieto di avvicinamento, il divieto di stare in quella città, fino ai domiciliari e al braccialetto elettronico. Quindi, al di là dell’intenzione nobile dei promotori, ciò non si può consentire”. La fronda garantista del Pd lotta per non affossare i referendum di Giacomo Puletti Il Dubbio, 19 febbraio 2022 L’ex ministra Fedeli: “Non può accadere che il partito abdichi al proprio ruolo o se ne lavi le mani, senza esprimere un’identità molto forte sullo stato di diritto”. Esiste una fronda nel Partito democratico che sta cercando di muoversi nemmeno troppo sotto traccia, e continuerà a farlo per tutto il fine settimana, in vista della direzione di lunedì nella quale i vertici del Nazareno spiegheranno la posizione del partito sui cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Corte costituzionale. A dire la verità la linea dem è già piuttosto chiara e si basa sull’assunto che almeno tre dei cinque quesiti, cioè quelli che interessano il funzionamento dell’ordinamento giudiziario, saranno assorbiti dalla riforma della ministra Cartabia approvata pochi giorni fa dal Consiglio dei ministri e ora al vaglio del Parlamento. Ma a molti questa appare come una fuga dalle responsabilità, perché oltre agli altri due quesiti sui quali una posizione dovrà pur essere assunta, il punto decisivo sarà decidere cosa fare nel caso in cui la riforma non dovesse arrivare in tempo o venga emendata in maniera tale da non assorbire le tematiche dei referendum. In quel caso, spiega al Dubbio Valeria Fedeli, senatrice di alto rango nelle gerarchie dem, “quello che non può accadere è che noi come Pd abdichiamo o in qualche modo ce ne laviamo le mani, senza esprimere un’identità molto forte sullo stato di diritto, cioè senza porci quali paladini del garantismo rispetto alle altre forze politiche”. Secondo Fedeli “tutto il partito è d’accordo sul fatto che bisognerebbe operare in Parlamento per rispondere nel merito ai quesiti referendari”, ma nel caso in cui non dovesse trovarsi una quadra “si dovrà scegliere di partecipare e valutare nel merito i singoli punti”. Il ragionamento va ancora oltre, e qui casca l’asino. “Bisogna tuttavia anche tenere conto - conclude Fedeli lanciando una mezza provocazione - del fatto che le riforme che includono i temi dei referendum non sono mai state affrontate in Parlamento, anche con condizioni politiche più favorevoli al centrosinistra, e questo dovrebbe farci riflettere”. A molto più di una riflessione invita Enza Bruno Bossio, deputata dem e membro della commissione Giustizia, che spiega di aver sottoscritto i referendum “perché entrano nel merito delle questioni più spinose che oggi riguardano la giustizia”. Dicendosi “dispiaciuta” dell’inammissibilità del quesito sulla responsabilità diretta dei magistrati, “pur capendo l’obiezione della Corte”, spiega di non comprendere “perché il Pd non dovrebbe essere d’accordo sui cinque quesiti ammessi”. Sia su quelli riguardanti il Csm, riforma Cartabia o meno, sia sugli altri. “Sulla Severino - ragiona la deputata - ho sottoscritto la legge a prima firma Ceccanti che modifica la decadenza di un membro delle istituzioni dopo una condanna in primo grado, visto che il nostro ordinamento prevede tre gradi di giudizio”. Secondo Bruno Bossio poi “l’abuso delle misure cautelari va limitato e il Pd, essendo un partito progressista, non può che essere d’accordo”. Così come sulla separazione delle funzioni, perché “i pm non sono più coloro che indagano rapportandosi alla difesa ma ormai giudicano in nome del popolo” che poi, prosegue, “è il modello di Mani Pulite, che va limitato e l’unico modo per farlo è separare le funzioni tra pm e gip”. Perché allora il Pd è così renitente verso i quesiti appena ammessi dalla Corte? “Perché - conclude l’esponente dem - credo che stia prevalendo un posizionamento miope in vista delle elezioni 2023 nel rapporto coi Cinque Stelle, ma così facendo il Pd fa un doppio errore, sia di merito che di metodo: i posizionamenti che prevalgono sul merito non sono utili né al partito né al paese”. Prova a smorzare i toni Franco Mirabelli, capogruppo dem in commissione Giustizia al Senato, secondo il quale sui tre quesiti toccato anche dalla riforma Cartabia “se si arriverà a referendum credo che voteremo sì, sapendo tuttavia che la strada maestra è far approvare il maxiemendamento del governo”. Ma è sui quesiti riguardanti la legge Severino e le custodie cautelari che la miccia si riaccende, stavolta contro i colleghi di partito pronti a votare a favore. “Escluderei la possibilità del voto favorevole sulla custodia cautelare e sulla Severino, perché gli effetti del sì sarebbero devastanti - chiosa Mirabelli - Riguardo al primo, non si potrebbero più mettere nemmeno i braccialetti agli stalker, dal momento che sarebbero tolte tutte le custodie cautelari, non solo quella in carcere, e questo non è ammissibile; sulla Severino, un conto è dire che non ci può essere alcuna sospensiva per chi è in carica fino a sentenza definitiva, un altro è cancellare la legge con l’ipotesi di lasciare che un mafioso possa candidarsi ed essere eletto in Parlamento o in una giunta comunale o regionale: gli effetti sarebbero pesantissimi”. Per poi rimandare tutto alla direzione di lunedì. “Siamo un partito e in quanto tale da lì uscirà la nostra posizione ufficiale”, conclude. Nel frattempo, però, qualcuno dovrà provare a chiudere una crepa ormai aperta e che dà l’impressione di potersi soltanto allargare. “La separazione delle carriere è un segno di civiltà giuridica” di Alessio Lanzi Il Dubbio, 19 febbraio 2022 Si potrà finalmente chiarire se la popolazione vuole o meno essere giudicata da un giudice indipendente e terzo all’esito di un contraddittorio fra parti che contendono ad armi pari. Dunque, ci sarà il referendum sulla separazione delle funzioni fra magistrati! Finalmente la comunità civile (il cosiddetto “popolo sovrano”) si potrà esprimere sul tema principale alla base del funzionamento della giustizia penale. E dal momento che tutte le disposizioni che riguardano l’amministrazione della giustizia hanno e devono avere come fine ultimo quello di assicurare ai consociati (e solo a loro) un buon prodotto, finalmente proprio loro potranno direttamente decidere su questo tema fondamentale. Così facendo si smuovono le acque e si chiede ai cittadini di essere arbitri del loro futuro. Dico questo perché, allo stato, senza toccare i princìpi e le norme costituzionali, si potrà finalmente chiarire se la popolazione vuole o meno essere giudicata da un giudice indipendente e terzo, all’esito di un contraddittorio fra parti che contendono fra loro liberamente e ad armi pari, e che - anche all’apparenza - godono di pari considerazione da parte di un Giudice. Una tale auspicabile situazione potrà dunque essere immediatamente raggiunta, evitandosi ambigui rapporti di colleganza fra giudice e pm, e ponendosi così le basi per la grande e successiva riforma della “separazione delle carriere”, col corollario della creazione di separati organi di autogoverno (due distinti CSM) fra giudici e pm, da attuarsi con riforma costituzionale. Ma quella attuale, con questo referendum, è la partenza. E non tragga in inganno la circostanza che l’attuale legislazione limita a quattro il passaggio dalle funzioni di pm a quelle di giudice (e viceversa); e che il progetto di riforma del Governo vorrebbe limitare solo a due volte la possibilità di un tale passaggio. Infatti, a parte la circostanza che la normativa sul passaggio di funzioni (d.lgs. 160/2006) è sempre stata sostanzialmente disattesa (fino a quando - solo nel 2019!- si è fatto notare che la previsione normativa richiede l’istituzione di un “previo corso” di qualificazione professionale per gli aspiranti al passaggio), a parte ciò, è chiaro che potendosi - anche solo due volte - passare da una funzione all’altra, si radica sempre più l’opinione di essere parte di un unico corpo, di essere tutti veri e propri colleghi, e così di essere su un livello diverso da quello dell’altra parte, l’avvocato difensore, che la Costituzione invece vuole del tutto paritaria (art. 111, 2° comma). Sul punto certo influisce la derivazione storica e normativa del nostro processo penale, e della nostra magistratura, organizzata secondo le regole e nella cultura del processo inquisitorio. Prova ne sia che anche nell’odierno linguaggio mediatico si usa spesso il termine “giudice” per indicare un “pubblico ministero”; prova ne sia che per giustificare l’attuale situazione si fa sempre ricorso all’ossimoro del p.m. come “parte imparziale”; in realtà vera e propria “contraddizione in termini”, perché - almeno fino a quando il linguaggio convenzionale sarà quello attualmente usato in Italia - la Parte, per definizione, non può essere Imparziale (salvo che non si voglia arrivare alla dignità del “dogma” che, appunto, insegna l’ “uno e trino”). Varie argomentazioni vengono poi costantemente proposte per uscire da questa vera e propria impasse. Fra queste: l’articolo 358 c.p.p., la cultura della giurisdizione, la tesi di un pm che sarebbe così soggetto all’esecutivo. Orbene: che il pm, d’ufficio, svolge e promuove accertamenti a favore dell’indagato, è ipotesi favolistica che, credo, non si è mai realizzata nella realtà (così come, purtroppo, recenti avvenimenti giudiziari stanno a dimostrare); che il pm, se separato dal giudice, perderebbe la cultura delle giurisdizione, è affermazione suggestiva che in realtà non significa alcunchè: la “giurisdizione”, tecnicamente, è infatti propria e appartiene ai soli giudici; non si vede come, e perché, un pm potrebbe, o dovrebbe, ius dicere; quella che in realtà rileva è la cultura della legalità (art. 25 Costituzione), che deve investire tutti i diversi ruoli assegnati alle parti nel processo: la cultura della corretta accusa, della appropriata difesa, della giurisdizione da parte del giudice; tutte manifestazioni accomunate nell’ambito della cultura della legalità espressa dalla Costituzione. Che poi il pm, separato dal giudice, diverrebbe sottoposto all’esecutivo è circostanza che, per essere evitata, basta che non sia preveduta (così come del resto è oggi) da specifiche disposizioni. In realtà la “confusione” tra pm e giudici, al di là dei possibili passaggi da una funzione all’altra, comporta diversi risultati non in linea con le previsioni costituzionali. Pubblici ministeri che “valutano” la professionalità dei giudici; che ne determinano gli incarichi; che ne gestiscono la carriera e via dicendo. Laddove l’altra parte del processo - il difensore - non può certo interferire in tutto ciò; così non consentendosi la realizzazione del giusto processo, art. 111 della Costituzione (e non si fraintenda col fatto che partecipano al CSM anche professori universitari e avvocati; costoro infatti rappresentano, in quel Consiglio, la società civile, e non una categoria di parti processuali, così come invece accade per i pm e i giudici che rappresentano proprio le loro categorie). Va del resto sottolineato che il contesto legislativo e costituzionale è assolutamente orientato alla diversificazione di funzioni: il pm è parte, titolare della doverosa azione penale; non può essere ricusato; opera nella tensione dialettica con la difesa. Il giudice è terzo, imparziale perché non parte, estraneo alla dialettica fra accusa e difesa, sottoposto solo (e solo lui) alla legge (art. 101 Costituzione). Come più di una volta si è detto negli scritti delle Camere Penali: “il giudice collega dell’accusatore è tecnicamente inattendibile per la giurisdizione e, come immagine, non credibile per l’imputato e per la società”. Bene, dunque, la celebrazione di questo referendum che consentirà al “popolo sovrano” di esprimersi su una tale fondamentale questione. All’esito auspicabilmente positivo di un tale referendum, si potrà poi mettere mano, anche solo con normative secondarie, a strutturare l’attuale CSM in modo tale che non vi siano più confusioni procedimentali fra le due categorie, fra loro ben definite e distinte per funzioni. Ciò in attesa - come sopra detto - della necessaria grande riforma della vera e propria separazione delle carriere. “Ma io dico: è l’anticamera della dipendenza del Pm dal potere esecutivo” di Gian Carlo Caselli Il Dubbio, 19 febbraio 2022 Dei sei quesiti referendari sulla giustizia l’unico non ammesso è quello che più appassionava l’opinione pubblica, quello sulla responsabilità civile dei magistrati, che - si dice - non pagano mai a differenza di tutti gli altri cittadini. Questo mantra non basta per cancellare la realtà, che è questa: in base alla normativa vigente a risarcire è lo stato, che poi si rivale sul magistrato con trattenute sullo stipendio; è mera illusione far credere che un salariato dello stato come il magistrato possa davvero risarcire di tasca sua; è allora evidente che all’azione civile diretta e personale si ricorrerebbe non per un effettivo risarcimento, ma con altre finalità: sfogare risentimenti o avversioni, influenzare o intimorire il giudice. Ad approfittarne sarebbero ancora una volta i “galantuomini” ritenuti tali a prescindere, per censo o posizione sociale; quelli che spesso si difendono “dal” prima ancor che “nel” processo. E poi, quando si parla di “errore” del giudice di solito si fa un uso improprio e fuorviante del linguaggio. È la struttura stessa del processo, in quanto articolata su più gradi di giudizio, che può condurre a decisioni contrastanti se non opposte che inducono a parlare di “errori”. Ma se i vari gradi di giudizio fossero destinati semplicemente ad essere fotocopia l’uno dell’altro non avrebbero ragione di esistere. Per cui possiamo serenamente dire che le decisioni contrastanti non sono “errori” fonte di possibili responsabilità, come sostiene la “vulgata” corrente, bensì un effetto fisiologico dell’ordinamento con una pluralità di gradi di giudizio. Quanto agli altri quesiti referendari sulla giustizia, si vedrà cosa ne pensano gli elettori. Poche cose, per ora, da dire: Il quesito sulla separazione delle funzioni, per chi debba esprimersi con un SI o con un NO, è una “provocazione”, posto che consta di circa 1500 (diconsi 1500!) parole che formano un astruso ginepraio di ostica lettura e comprensione persino per gli “specialisti”. In ogni caso, la separazione è quanto meno l’anticamera della dipendenza del Pm dal potere esecutivo. In un modo o nell’altro, è una conseguenza pressoché ineludibile che si verifica ovunque al mondo vi sia una qualche declinazione della separazione. Con la differenza, rispetto agli altri paesi, che l’Italia è più caratterizzata da vicende oscure (corruzione diffusa, collusioni con la mafia, svariate forme di mala- amministrazione) che coinvolgono pezzi della politica, incapace oltretutto di “bonificarsi”. Conviene che proprio “questa” politica possa influire sui pm? Esagerando ma poi mica tanto, non sarebbe un po’ come mettere qualche volpe in un pollaio? Il quesito che limita la custodia cautelare si presta preliminarmente a considerazioni da psicologismo d’accatto, posto che a promuoverlo sono stati uomini politici che operano all’insegna di “legge e ordine” (forse più ordine che legge...). Non si vede come possano manifestare sfrenato entusiasmo per una formulazione che contiene un vulnus pericoloso per la sicurezza dei cittadini. Agli autori di gravi delitti, se non commessi con violenza, la misura della custodia cautelare non sarebbe più applicabile motivandola con il requisito di evitare la reiterazione dei reati. La limitazione beneficia gli autori di reati di grave allarme sociale, ad esempio gli stalking non violenti e i truffatori di anziani. Qualcuno dei sostenitori irriducibili del referendum vorrà per favore spiegare alle donne e agli anziani come stanno le cose? Il quesito sulla incandidabilità mi fa pensare ad una specie di pubblicità ingannevole, perché non colpisce solo la norma relativa agli amministratori locali, ma tutte le cariche elettive (parlamento europeo, camera, senato, regioni, province, comuni, circoscrizioni), con ricadute di carattere generale sui fondamentali meccanismi di “provvista” degli organi democratici e sugli stessi equilibri costituzionali. Sono curioso di leggere come la Consulta ha motivato l’ammissione del quesito... Il quesito sui componenti laici dei Consigli giudiziari (a parte che anche qui per capirlo non basta neppure la laurea in legge) andrebbe pure bene se gli avvocati sospendessero ogni attività professionale - come i laici del Csm - per tutta la durata della consiliatura. Altrimenti si potrebbe innescare un perverso clima di conflittualità e sospetti capace di incidere negativamente sulla serenità delle determinazioni consiliari e dei magistrati destinatari dei pareri. Il quesito che riguarda l’elezione dei componenti togati del Csm vuole abrogare la norma che richiede al candidato di essere presentato da una lista di magistrati (da 25 a 50). Il proposito è giusto e ambizioso, contrastare le nefandezze del correntismo. Ma neppure Alice nel paese delle meraviglie arriverebbe a pensare che basti eliminare questa lista per far scomparire le aggregazioni (siano esse di natura ideale, territoriale o peggio biecamente clientelare) in un corpo elettorale di circa 9.000 persone. Quindi, senza offesa, sembra un po’ di essere alla sagra dei dilettanti. Infine, una notazione scherzosa. Le mie possono apparire parole vane, contraddette come sono dall’adesione ai referendum sulla giustizia di personaggi ciascuno a suo modo molto noti ed influenti. Mi riferisco a Palamara, che la giustizia con il suo nefasto “Sistema” l’ha appunto sistemata mica male. Oppure a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati (in arte “er cecato”), condannati in appello per “mafia capitale” che però non è mafia, che comunque di giustizia dovrebbero intendersene non poco. Per cui, chi sono io per giudicare i quesiti referendari a fronte di cotante adesioni? Ma è - ripeto - soltanto uno scherzo. “Il sorteggio non deve farci paura, sceglie solo i candidati per il Csm” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2022 Mentre gli emendamenti alla riforma del Csm, firmati dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, devono ancora approdare in commissione Giustizia della Camera, c’è un gruppo di magistrati che continua la sua battaglia affinché i candidati al Consiglio passino, come primo step, per un sorteggio “temperato”, che è già stato fatto nello studio di un notaio di Roma. A organizzarlo “AltraProposta2022”, di cui fa parte anche Articolo 101, l’unico gruppo presente nel “parlamentino” dell’Anm a sostenere il sorteggio, mentre tutti gli altri vorrebbero un sistema proporzionale. Tutti d’accordo, o quasi, però, nel bocciare il sistema maggioritario, sia pure bi-nominale e con correttivi proporzionali, proposto dalla ministra. Il sorteggio lo racconta Franca Amadori, consigliera della Corte d’Appello di Roma, presente nello studio del notaio: “In realtà avevamo chiesto all’Anm la saletta della sede centrale di piazza Cavour, e avevamo avuto l’autorizzazione. Ma lo stesso giorno del sorteggio, l’8 febbraio, la giunta Anm l’ha revocata (per la presenza di Radio Radicale, non indicata nella richiesta di permesso, ndr) e così siamo andati dal notaio”. Come avete sorteggiato? Abbiamo caricato sul computer del notaio il file Excel contenente tutti i nominativi dei magistrati eleggibili, 8mila circa, escluso chi aveva espressamente reso noto che non voleva partecipare, dopo di che è stato premuto il tasto “sorteggio”, che in realtà è un comando che si dà alla piattaforma per mettere in ordine casuale i nominativi inseriti. Un altro tasto, poi, ha bloccato il risultato, che è stato cristallizzato in un file a parte, che è tra gli allegati del verbale digitale del notaio. Numero dei sorteggiati? Si parla di multipli di 4: quindi 40 sorteggiati tra i giudici di merito; 16 tra i pubblici ministeri; 8 tra i giudici di legittimità in Cassazione. Tutti per metà effettivi e per metà supplenti. La selezione finale come avviene? Ci saranno le primarie con voto telematico segreto, il più sicuro. E dalle primarie usciranno i candidati da eleggere, il numero sarà sicuramente superiore ai posti da ricoprire, mentre le correnti hanno sempre candidato tanti magistrati quanti sono i posti disponibili, così di fatto sterilizzando la possibilità di scelta da parte degli elettori. Nel 2014 avevate già fatto il sorteggio temperato. Neppure uno fu eletto… La possibilità di farsi conoscere e quindi di essere votati da tanti colleghi in giro per l’Italia fu estremamente limitata, noi non siamo una corrente e non abbiamo un fondo cassa. Ma la cosa importante che vogliamo far capire è che il sorteggio non è, come qualcuno vuol far credere, una sorta di lotteria per cui chiunque venga estratto diventa consigliere del Csm. Rimane sempre l’ineludibile necessità che i candidati vengano votati dagli elettori, dai magistrati e di conseguenza il sorteggio ha un’unica incidenza: rendere indipendenti i candidati da qualunque assetto di potere, così da consentire all’elettorato di selezionare colleghi che mai le correnti avrebbero selezionato. Che modello sarebbe quello delle correnti, secondo lei? È diventato il modello di consigliere che sposta il vero luogo della decisione, non più nel Csm, ma nel ristretto della sua corrente. Il dilemma della Corte mediatica di Amato: Giudici o influencer? di Giulia Merlo Il Domani, 19 febbraio 2022 La conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, per annunciare l’esito sul giudizio di ammissibilità dei referendum ha suscitato opposte reazioni: da una parte chi ha plaudito all’apertura della Consulta; dall’altra chi ha letto nell’iniziativa un protagonismo inatteso dell’istituzione. Il piglio di Amato, che in conferenza stampa ha risposto a tutte le domande non lesinando parole e anche aneddoti personali, è rimasto quello di chi per lunghi anni ha ricoperto incarichi politici. Abile nel gestire la comunicazione - non a caso è il primo presidente della Corte ad avere nel lungo curriculum anche un passato da presidente del Consiglio - ha veicolato non solo le ragioni di merito sulle inammissibilità, ma ha risposto direttamente anche a chi attribuiva alla corte una mancanza di sensibilità nella bocciatura dei quesiti più delicati come quello sull’eutanasia. L’alternativa - come era stato per l’annuncio dell’inammissibilità dell’eutanasia e dell’ammissibilità di quattro quesiti sulla giustizia - era quella di diramare il consueto comunicato stampa in cui è sempre contenuto anche un riassunto delle ragioni essenziali della decisione. Invece, in seno all’intera Corte è maturata la volontà di una precisazione più esaustiva: gli altri giudici hanno chiesto ad Amato di farsi portavoce pubblico, per spiegare le ragioni di scelte controverse. E lui lo ha fatto a modo suo, riprendendo quella che lui stesso ha definito “un’antica tradizione della Corte” e valorizzando quello che ha definito un “dovere della Consulta, anche quando non lo ha esercitato”: spiegare le sue scelte all’opinione pubblica. A rendere eccezionale la conferenza stampa sono stati i quesiti referendari su cui la Corte era chiamata a esprimersi, a cui si è aggiunta però la volontà di Amato di chiarire dettagliatamente come i giudici siano arrivati a determinare l’inammissibilità di alcuni, anticipando le ragioni principali che hanno prodotto la decisione. Cannabis, eutanasia e giustizia sono temi che dividono da mesi il paese, al centro dello scontro politico e culturale: per questo le parole dirette utilizzate da Amato hanno spiazzato chi immaginava che la Consulta si limitasse a dichiarare ammissibili o inammissibili i quesiti, lasciando alle sentenze il compito di spiegare le ragioni giuridiche delle decisioni. Invece Amato ha mostrato che è terminata definitivamente la stagione dei comunicati stampa secchi e burocratici e che la Corte ha raggiunto la consapevolezza di volersi aprire a una comunicazione più articolata. Quanto all’approccio, ogni presidente della Corte adatta su di sé il ruolo che riveste. Amato ha scelto di farlo a suo modo, ma in continuità con i suoi più recenti predecessori, che hanno dato una progressiva spinta di apertura e impegnato la Consulta a una interlocuzione sistematica con i media. Se si dovesse trovare un punto di svolta, potrebbe essere il 2018 con la presidenza di Paolo Grossi. Nella sua relazione di fine anno, è stato lui a parlare espressamente della comunicazione come “una delle funzioni istituzionali della Corte”, che è chiamata a “interpretare il proprio ruolo di garante anche alimentando direttamente la conoscenza del nostro “stare insieme”“. A quel segnale sono seguite le successive iniziative del “viaggio” dei giudici prima nelle scuole e poi nelle carceri, con i presidenti Giorgio Lattanzi, Marta Cartabia, Mario Morelli e poi Giancarlo Coraggio. A questo si è aggiunta anche la scelta di aprire dei canali social - da Twitter a Instagram - da utilizzare come veicolo per raccontare passaggi di vita interna della corte che in passato venivano considerati momenti riservati. L’intento comunicativo è quello di applicare anche alla Consulta il principio della cosiddetta accountability, ovvero il rendere conto delle decisioni prese, davanti alla comunità su cui incidono. Non a caso la parola chiave, ripetuta spesso da Amato nelle sue risposte ai giornalisti, è “spiegare”. Anche a costo di rischiare di diventare bersaglio di polemica politica. Così è stato, proprio mentre la conferenza stampa era in corso, per le durissime parole di uno dei leader dei comitati referendari come Marco Cappato, che ha definito “la conferenza stampa del presidente Amato al cento per cento politica” e che “ha dato giudizi che puntano a minare la reputazione e la credibilità dei comitati promotori”. Conseguenza per certi versi attesa, proprio vista l’onda emotiva intorno ai temi oggetto di referendum e la massiccia mobilitazione per la raccolta firme. Precedente diverso nel contesto - si trattava della conferenza stampa di relazione sull’attività del 2020 - ma simile nella polemica prodotta, è quello che ha riguardato il suo predecessore Giancarlo Coraggio. Alla domanda sul ddl Zan, allora in discussione, il presidente aveva risposto che “non ho studiato il ddl Zan proprio per non essere chiamato a dare un parere concreto sulle norme. Ma sicuramente una qualche normativa è opportuna”. Anche in quel caso, le parole del presidente avevano provocato reazioni politiche e all’interrogativo sull’opportunità del presidente di rispondere alla domanda. Del resto, a scontrarsi sono da sempre due opposte interpretazioni del ruolo pubblico della Consulta: da un lato quella secondo cui i giudici dovrebbero parlare solo attraverso le sentenze per non portare l’istituzione nella polemica politica; dall’altro quella prospettata da Amato, secondo cui la Corte come organo costituzionale abbia il dovere di spiegare e rendere comprensibili all’opinione pubblica le sue decisioni. Questa seconda linea, che oggi è prevalente, risulta tanto più eclatante però alla luce di questa fase di impasse politica, in cui il parlamento è in difficoltà a prendere posizione su temi sensibili - dall’eutanasia alla riforma del carcere ostativo - su cui la Consulta invece è stata chiamata a esprimersi. Referendum, sentenze e politica di Mario Bertolissi Corriere del Veneto, 19 febbraio 2022 Ho alle spalle una lunga esperienza in tema di referendum. Me ne sono occupato più volte, a partire dal lontano 19921993. Dall’evento, che ha messo fine alla cosiddetta Prima Repubblica, stiamo celebrando, con una certa sofferenza, il trentennale della sua dissoluzione. E siamo ancora alle prese con i referendum, l’arma nelle mani del cittadino, concepita dal Costituente come antidoto di carattere eccezionale, destinato a correggere leggi inattuali, se non errate, e a sollecitare dal Parlamento nuove discipline. Soprattutto, a rimediare a sue intollerabili e ingiustificabili inerzie. Martedì 15 ho partecipato ai lavori della Corte costituzionale, in camera di consiglio, sostenendo le ragioni dell’ammissibilità dei sei quesiti, riguardanti la giustizia. Il risultato è noto: ne sono stati ammessi cinque. Nei prossimi giorni, verranno depositate otto sentenze, dalle quali apprenderemo le ragioni del sì e le ragioni del no. Per comprenderne il significato e la portata, è opportuno ricordare prima di allora - quali sono i caratteri del giudizio di ammissibilità, che è del tutto singolare, poiché si distingue nettamente da ogni altro spettante alla Corte. Infatti, non affronta questioni di legittimità costituzionale, né stabilisce a quale potere spetti esercitare una data competenza amministrativa o giurisdizionale. Nella circostanza, deve verificare se l’iniziativa referendaria sia da escludere... In quanto - dispone l’articolo 75, 2° comma, della Costituzione - “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. Nessuna delle richieste presentate è in contrasto con questa norma. Può essere, però, che siano considerate non conformi a Costituzione per altri motivi, che la Corte costituzionale ha individuato, a partire dalla fondamentale e celebre sentenza n. 16/1978, dovuta alla penna e all’ingegno del giudice costituzionale Livio Paladin. Da allora, perché una richiesta referendaria abrogativa sia considerata ammissibile, oltre a non contrastare con l’articolo 75, 2° comma, è indispensabile che non abbia a oggetto una pluralità di domande eterogenee e carenti di una matrice razionalmente unitaria; e che non riguardi leggi a contenuto costituzionalmente vincolato (sono le leggi che dettano l’unica disciplina possibile per concretizzare un disposto costituzionale) oppure leggi costituzionalmente obbligatorie (sono le leggi, il cui venir meno determina un vuoto normativo). Come si vede, l’argomento referendum abrogativo è delicatissimo e di notevole complessità. Inoltre, per quanti sforzi si siano compiuti, non si è riusciti a farne qualcosa di preciso, indiscutibile e risolutivo. Del resto, è la sua natura di atto, che può soltanto abrogare - togliere di mezzo, non creare, ma, appunto, eliminare quel che già esiste - ad impedire il raggiungimento di auspicate certezze. Inoltre, il referendum ha di mira un atto normativo (una legge o un atto avente forza di legge), che è espressione di politicità, dalla quale è contaminato. Da essa è contaminato, pure, il giudizio riservato alla Corte, dalla quale - ha rilevato ancora Livio Paladin - è stato “plasmato (…) mediante decisioni che non di rado hanno assunto caratteristiche altamente creative”. Se, dunque, le decisioni di ammissibilità e inammissibilità sono strutturalmente caratterizzate da ampi margini di apprezzamento, visto che la Costituzione e le leggi attuative non ne hanno precisati i contorni, se non in larga massima, quando ci si trova di fronte alle sentenze, che definiscono i vari giudizi, si tratta di verificare se la Corte è stata coerente, rispetto almeno ai suoi più significativi precedenti, oppure se li ha platealmente disattesi, come talvolta è accaduto. Questo è l’angolo visuale dal quale ci si deve porre, al fine di esercitare il diritto di critica, il quale non deve confondere il giudizio di ammissibilità dei referendum con il giudizio di legittimità costituzionale oppure con le opzioni attinenti il merito, che sono di natura politica. Strettamente politiche. Quanto a quest’ultimo aspetto, la Corte costituzionale, a gennaio 2020, ha dichiarato inammissibile il referendum sulle leggi elettorali di Camera e Senato. Compito della politica è legiferare. Dopo oltre due anni, siamo ancora in attesa, e manca poco alle elezioni. Sottolineare l’esigenza che debba intervenire il Parlamento, piuttosto che i cittadini, pare, a questo punto, un argomento davvero stucchevole. Come combattere la mafia con il diritto di Pietro Cavallotti Il Riformista, 19 febbraio 2022 La settimana prossima, in una conferenza all’Assemblea Regionale Siciliana, a partire dal libro di Nessuno tocchi Caino Quando prevenire è peggio che punire, presenteremo le proposte di legge per porre fine ai torti e ai tormenti dell’Antimafia. Ci arriverò preparato dopo aver letto con molta attenzione un articolo della professoressa Daniela Mainenti su Il Fatto quotidiano. Dopo averlo letto, ho dovuto rileggerlo con più attenzione perché non ci avevo capito niente. La professoressa ha cercato di rassicurarci sulla legittimità delle misure di prevenzione, spiegandoci che le loro origini non risalgono al periodo fascista. Ho tirato un sospiro di sollievo. Ma il sospiro mi si è spezzato nel petto e il sollievo è durato poco perché, subito dopo, ha precisato che la confisca di prevenzione troverebbe il suo antecedente storico niente meno che nel diritto romano! Questo dovrebbe farci stare tranquilli perché ci permetterebbe di constatare “l’interesse degli ordinamenti giuridici verso le misure patrimoniali”. Che vi fosse interesse a confiscare e a sopraffare gli inermi per sete di potere non lo metto in dubbio. Il problema è che talvolta nella storia millenaria dell’umanità non c’è stato il dovuto rispetto per i diritti umani inviolabili. Mi preoccupano molto le “analogie” con la confisca del diritto romano. C’è chi sostiene che lì la confisca aveva sostanzialmente natura di pena applicata a seguito di certi reati. E già all’epoca si prestava ad abusi perché i beni venivano incamerati dall’imperatore. Lungi da me fare analogie con gli odierni amministratori giudiziari nelle cui mani finiscono le aziende confiscate, le quali costituiscono moderni uffici spesso di collocamento per amici, parenti o persone di fiducia dei giudici che le sequestrano. C’è poi da rabbrividire perché, oltre alla confisca, il diritto romano prevedeva la schiavitù, la pena di morte, la tratta di essere umani e la tortura. Vogliamo riportare in vita anche questi istituti? Noi siamo riusciti a fare peggio degli antichi romani: ci siamo spinti fino a concepire la confisca nei confronti di persone che non hanno commesso alcun reato: gli assolti, quelli che non sono stati mai rinviati a giudizio! Beccaria riteneva la confisca dei beni del condannato una vera e propria barbarie, in aperto contrasto con i principi dell’illuminismo giuridico. Oggi, invece, l’antimafia nostrana ci propone la confisca senza condanna come l’avanguardia del diritto. Qualcosa non torna. Ma ritorniamo a noi. La proposta della senatrice Gabriella Giammanco cerca di riportare il sistema attuale delle misure di prevenzione al dettato originario della Rognoni-La Torre. La scelta è mettere al centro la persona con tutti i suoi valori, per rispettare i principi fondamentali della civiltà giuridica: giusto processo, principio di legalità, presunzione d’innocenza. Poi ancora il “chi sbaglia paga”, mentre chi viene rovinato ingiustamente dallo Stato deve essere risarcito. Insomma - mi rendo conto - cose di poco conto per chi è accecato dalla furia antimafiosa. Si tratta però di cose che, quando non sono rispettate, allontanano l’azione dello Stato dall’obiettivo sacrosanto di contrastare il crimine e distruggono la vita altrettanto sacra degli innocenti. In poche parole: sì alla confisca nei confronti dei mafiosi, no alla confisca nei confronti degli innocenti. Non si può citare Falcone per sabotare ogni tentativo di riforma liberale della legislazione antimafia. Soprattutto se ci si dimentica che, per Falcone, la cultura del sospetto non era l’anticamera della verità ma del komeinismo. Quella cultura del sospetto che permea di sé l’intero sistema delle misure di prevenzione. Ci sono tanti interrogativi di diritto sostanziale e processuale ai quali io, da umile lavoratore, non riesco a dare risposta. Ancora più impegnative sono però le domande alle quali anche la professoressa Mainenti dovrebbe rispondere. È giusto che lo Stato faccia vivere nel terrore e nella disperazione chi non ha fatto niente? Lo chiedo, perché gli effetti delle misure di prevenzione sono proprio questi. E da qui si deve partire per giudicare e correggere un istituto giuridico. Non si può ragionare solo sulle finalità nobilissime che lo dovrebbero giustificare se, per come è strutturato, non è allineato con quelle finalità. Ci vuole tanta forza a sopportare che lo Stato, con leggi barbare, ti toglie il lavoro e lo dà in pasto in qualche caso a parenti di magistrati, avvocati, coadiutori, colletti bianchi senza scrupoli. Il tutto nel nome della “legalità”. L’unica via d’uscita che lo Stato sembrerebbe indicare ai tanti innocenti finiti nel tritacarne della prevenzione è il suicidio. Ma ma forse neanche questo servirebbe perché la persecuzione continuerebbe, anche dopo la morte, con la confisca agli eredi dei beni dei morti, ma sempre per “prevenire” i reati del defunto, qualora dovesse risorgere! Noi abbiamo scelto la vita, la speranza di un cambiamento verso la giustizia giusta. E, con pazienza, cercheremo di portare avanti le nostre idee, per convincere chi, come la professoressa Mainenti, ha un’opinione diversa. Tangentopoli spiegata ai giovani, io proverei così di Stefano Cappellini La Repubblica, 19 febbraio 2022 La cosa più difficile resta spiegare Tangentopoli a un ragazzino o una ragazzina. Cosa dire nello spazio di pochi ma chiari concetti? Bisognerà premettere il giusto, per evitare equivoci: la Prima Repubblica era un sistema basato su una corruzione capillare, diffusa, intollerabile anche perché spesso finalizzata non solo al finanziamento illecito dei partiti, già grave, ma all’arricchimento personale dei politici, certo più odioso, e al mantenimento dell’altissimo tenore di vita di molti di loro. I reati c’erano. I colpevoli, pure. Ma poi bisognerà aggiungere subito: dal punto di vista dell’esercizio della giustizia penale, Tangentopoli è stata una delle più prolungate e viziose sospensioni dello Stato di diritto, una summa di orrori procedurali, violazioni dei diritti di difesa - non la prima, in questo Paese - dopo la quale non si è mai più riusciti a porre un argine alla stortura delle inchieste mediatiche, all’abuso della carcerazione preventiva (si mettevano le persone in galera allo scopo dichiarato di farle confessare), alla sistematica violazione del segreto istruttorio nonché alla teorizzazione di una magistratura come contropotere della politica (usando il consenso racimolato con le inchieste per candidature in politica) e di una presunta superiorità della società civile servita negli anni solo a trasformare la nostra democrazia dei partiti in un cimitero di disaffezione e analfabetismo politico. Tanta brutta roba. Ecco perché è sicuramente da respingere la storiografia degli apologeti, quelli che parlano di rivoluzione interrotta, della grande caccia a corrotti e corruttori che avrebbe salvato il Paese se solo fosse proseguita a oltranza, magari chiudendosi con un bell’esecutivo dei pm (non è un esempio provocatorio, la rivista Micromega fece un numero speciale sul “governo dei pm”, una roba almirantiana, solo con le toghe al posto delle divise, e l’aspetto surreale è che l’idea infiammò gli animi di un pezzo di opinione pubblica di sinistra). “Come predatori abbiamo catturato una selvaggina che non era ancora abbastanza veloce per sfuggirci. Ma finiremo per creare inequivocabilmente una specie di corruttori più abili, più astuti, tra i superstiti scampati ai nostri artigli. A noi, come agli antibiotici, si opporranno ceppi virali sempre più resistenti”. Così diceva nel 1994 Piercamillo Davigo, che ha sempre avuto problemi con il concetto di presunzione di innocenza. Almeno fino a quando, esattamente 30 anni dopo il primo arresto di Mani pulite, il rinviato a giudizio è stato lui. Il finale giusto per spiegare a un adolescente che la realtà è sempre meno manichea di come ama dipingerla il giustizialismo. L’Anm celebra Mani Pulite senza nessun “mea culpa” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 19 febbraio 2022 L’evento si è svolto ieri presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo. Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambioò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l’ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: “Poteri e magistratura prima di Mani pulite”, “Mani pulite la parola ai testimoni”, “Mani pulite un bilancio”. Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. “Prima le indagini non decollavano”, hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una “banale inchiesta giudiziaria” si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta. Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo “la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando”, ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. “Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia”, ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. “Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi”, ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca. Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: “Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale”. Come poi ricordato dall’avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da “poca pena” e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l’appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell’avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa. Santa Maria Capua Vetere. Detenuto muore di Covid, familiari informati dopo alcuni giorni casertace.net, 19 febbraio 2022 È morto nell’ospedale di Santa Maria Capua Vetere, trasformato in Covid center, un uomo di Cellole, da anni detenuto perché responsabile della morte del compagno della sua ex moglie. I familiari dell’uomo, morto pochi giorni fa, sono stati informati solo dopo molti giorni dell’avvenuto decesso. Intanto nelle carceri campane ci sono attualmente 122 casi di contagio da Covid-19. È quanto risulta dall’ultimo report del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il maggior numero di contagi si registra tra i reclusi nel penitenziario di Carinola, che conta 38 positivi. Seguono Avellino e Santa Maria Capua Vetere. Appena dieci i casi di Covid-19 a Poggioreale, che era stato il penitenziario maggiormente interessato dalle varie ondate di contagio. Due dei detenuti di Poggioreale positivi sono stati trasferiti in ospedale. Sette i positivi a Benevento, sei a Secondigliano, quattro a Pozzuoli, due rispettivamente ad Aversa e Salerno. Napoli. Detenuto di 88 anni ridotto a un vegetale. “Nemmeno la moglie morta ha salutato” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 19 febbraio 2022 Il prossimo 5 luglio compirà 88 anni e, nonostante i ripetuti appelli, è ancora in carcere. Carmine Montescuro, detto “Zi Minuzzo”, “è una larva umana”, ha numerose patologie (è diabetico, semicieco) e deambula solo su una sedia a rotella ma da oltre un anno è tornato in cella, nel pieno della seconda ondata covid-19, nell’autunno del 2020, dopo aver violato gli arresti domiciliari perché sorpreso sotto casa a bordo di un’auto. È probabilmente il detenuto più anziano d’Italia e sabato 19 febbraio il garante del comune di Napoli Pietro Ioia e la senatrice del Movimento 5 Stelle Cinzia Leone faranno visita all’88enne nel penitenziario di Secondigliano. Una visita che arriva a pochi giorni dalla morte della moglie del boss della zona di Sant’Erasmo a Napoli. Ma anche l’ultimo saluto alla donna è stato negato a Montescuro che resta in cella, piantonato da un altro detenuto, nonostante non si regga in piedi. “Ha il corpo coperto quasi del tutto da bende, reagisce a malapena e ha bisogno di assistenza continua” sottolinea Ioia che non riesce a spiegarsi perché “a un uomo di 88 anni non vengano concessi gli arresti domiciliari”. La prossima istanza presentata dai legali di Montescuro verrà esaminata entro fine febbraio dal tribunale di Sorveglianza di Napoli che da pochi giorni è presieduto da Patrizia Mirra, la cui nomina è stata deliberata dal plenum del Consiglio superiore della magistratura. Mirra subentra alla presidente facente funzioni Angelica Di Giovanni che nei mesi scorsi ha rigettato le richieste presentate dai legali dell’88enne, ritenuto in pericolo di vita. Il ‘pericoloso’ boss della camorra napoletana è affetto, nell’ordine, da: cardiopatia ischemica cronica, pregresso impianto di Pacemaker, versamenti pericardico in follow-up, sindrome metabolica (diabete mellito tipo II in trattamento con ipoglicemizzanti orali, ipertensione arteriosa, dislipidemia, iperuricemia, aneurisma dell’aorta toraco-addominale in follow up; aneurisma dell’aorta addominale in follow up; aterosclerosi carotidea e polidistrettuale; Broncopneumopatia cronica ostruttiva; ipertrofia prostatica benigna; insufficienza Renale Cronica; cisti renali, incontinenza urinaria, diverticolosi del colon, ipovedente, ipostenia arti inferiori con deambulazione di sedia a rotelle, psoriasi diffusa, ipoacusia bilaterale. A ottobre 2021 un detenuto di 84 anni, Giovanni Marandino, è morto all’ospedale Cardarelli di Napoli. Era recluso nel carcere di Poggioreale nonostante l’età e i noti problemi di salute: era sulla sedia a rotelle, con il catetere, affetto da demenza senile con un principio di Alzheimer e apnee notturne, oltre che cardiopatico e diabetico. Un vegetale insomma. Pochi giorno dopo, Giovanni, detenuto, sempre a Poggioreale di 85 anni, è stato scarcerato dopo quasi due mesi di reclusione. Arrestato insieme ad altre 22 persone il 24 ottobre del 2019, nell’ambito di un blitz della Squadra Mobile di Napoli nella zona di Sant’Erasmo, Zi Minuzzo era stato traferito ai domiciliari dopo tre settimane di carcere a causa delle condizioni di salute precarie. E’ considerato dagli investigatori personaggio di notevole carisma criminale che oltre a svolgere, da almeno vent’anni, il ruolo di mediatore nelle controversie insorte tra le diverse organizzazioni di camorra (clan Mazzarella, clan Rinaldi), dirige anche un proprio gruppo autonomo che agisce seguendo gli schemi comuni delle organizzazioni mafiose, imponendosi sul territorio e controllandone tutte le attività illecite. In tal modo “Zi Minuzzo” era riuscito a mantenere gli equilibri tra le varie associazioni, evitando il sorgere di conflitti, e garantendo, al contempo, il regolare svolgimento delle attività estorsive e la partecipazione di tutti ai profitti illeciti, tanto che alcuni collaboratori di giustizia, in virtù della posizione neutrale assunta, hanno indicato Sant’Erasmo -luogo di operatività del clan Montescuro - come una “piccola Svizzera”. Napoli. Detenuto malato di Aids resta in cella nonostante due perizie e l’ok del giudice di Francesco Gravetti ilmediano.com, 19 febbraio 2022 Nonostante due perizie psichiatriche e un provvedimento di un giudice, lo stesso che lo ha fatto condannare: Antonio Iervolino, 44enne di Poggiomarino, è in carcere a Poggioreale dal dicembre 2020, mentre dovrebbe stare in un letto d’ospedale. L’uomo è malato di Aids ed ha disturbi psichici, in cella rifiuta le medicine e il suo stato di salute è sempre più preoccupante, al punto che ha perso 20 chili da quando è in cella. La storia di Antonio è stata raccontata oggi su Il Mattino. Antonio Iervolino aggredì i genitori per ottenere i soldi per comprare la droga, ma vive in una situazione complicata da molto tempo: da camionista in gamba si è ridotto a tossico e poi si è ammalato, sia di Aids che di un disturbo psicotico conseguenza proprio dell’abuso di cocaina. Quella sera i genitori chiamarono i carabinieri perché esasperati, ma poi furono loro stessi ad attivarsi affinché il suo legale, l’avvocato Angelo Manna, non lo facesse soggiornare a lungo in galera. Quando nel giugno del 2021 fu condannato a tre anni e quattro mesi per tentata estorsione e resistenza a pubblico ufficiale, venne disposta una perizia psichiatrica, firmata dal dottor Luca Bartoli, nella quale si attestò che l’uomo ha “una capacità di intendere e di volere parzialmente scemata”. Nella perizia c’è anche altro: venne descritto lo stato psicotico di Iervolino e le sue difficoltà di salute. Il 14 luglio del 2021, il giudice del tribunale di Torre Annunziata, Maria Ausilia Sabatino emette un’ordinanza che dispone “l’immediato trasferimento del sig. Iervolino presso idoneo reparto di presidio ospedaliero”, accogliendo in questo modo un’istanza dell’avvocato Manna. In quella circostanza fu disposta un’altra perizia psichiatrica, firmata dal dottor Roberto Raffaele Giugliano, che confermò le tesi del suo collega. Dunque, due medici e un giudice dicono la stessa cosa: la cella non è il posto adatto all’uomo di Poggiomarino. Deve andare in ospedale, ovviamente piantonato. Invece Antonio Iervolino da un anno e due mesi sta ancora a Poggioreale. Nel corso di questi mesi l’avvocato Manna ha scritto decine di pec, ma né il Dap (il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), né l’Asl Napoli 1 hanno mai risposto. Milano. Rivolta a San Vittore nel marzo 2020, condannati 4 detenuti Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2022 Quattro condanne fino a 5 anni e 4 mesi di reclusione e cinque assoluzioni. Lo ha deciso ieri pomeriggio la nona sezione del Tribunale di Milano, nel processo a carico di nove detenuti imputati per le rivolte nel carcere milanese di San Vittore avvenute a marzo 2020, nel pieno della pandemia di Covid. Le accuse sono sequestro di persona, devastazioni, lesioni personali e rapina. Sono state parzialmente accolte così le richieste della pm Paola Pirotta, che aveva chiesto condanne per tutti gli imputati fino a 5 anni e 4 mesi, concedendo le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate. I detenuti avrebbero anche rinchiuso tre agenti della polizia penitenziaria, sottraendo loro chiavi e trasmittenti. Rovigo. Riparte il “Tavolo del carcere” rovigoindiretta.it, 19 febbraio 2022 Lo annunciano garante e assessore, con obiettivo reinserimento detenuti in società post pena. La mancanza di una “testa” stabile sta creando problemi al carcere di Rovigo. A Palazzo Nodari si è fatto il punto sulla situazione del carcere di Rovigo che, di fatto, è difficile a causa di una mancanza di un direttore a pianta stabile. Come sottolineato da Guido Pietropoli, garante provinciale dei diritti dei detenuti del carcere di Rovigo, da novembre 2020 ad oggi sono stati quattro i direttori avvicendatisi al timone, un aspetto che mette in difficoltà la progettazione a lungo termine anche per quanto riguarda l’assistenza tramite associazioni del territorio. “È una situazione particolare con un’alternanza veloce di direttori che va a condizionare anche il personale e i detenuti - sottolinea l’assessore ai Servizi Sociali Mirella Zambello - Saremo impegnati con le associazioni, nei prossimi mesi attiveremo anche con finanziamenti della Fondazione Cariparo, iniziative interne ed esterne destinate a favorire il reinserimento sociale e lavorativo e diminuire così le recidive. Saranno a disposizione 50 mila euro. Un’azione significativa stiamo portando avanti inoltre, con il Garante che ha segnalato uno degli elementi di criticità, l’avvicendamento troppo veloce e frequente dei direttori della casa circondariale”. E su questo tema Guido Pietropoli, ha scritto al Garante regionale, il quale ha risposto riconoscendo l’urgenza di dare stabilità con la nomina dei direttori, agli istituti assegnando le sedi vacanti ed ancor oggi coperte da reggenti, evidenziando però che si tratta di un problema organizzativo nei vertici. I futuri concorsi non saranno risolutivi ed auspicando che i vertici del Dipartimento si attivino per individuare le forze e le procedure più efficaci per assicurare una presenza minima delle figure apicali in tempi brevi. Nella giornata del 22 febbraio ci sarà il tavolo di coordinamento “Grave marginalità e carcere”, per pianificare azioni per il carcere di Rovigo oltre al futuro carcere minorile che, da Treviso, verrà trasferito nella nostra città. Crotone. “Volontari per le misure di comunità”, corso di formazione csvcrotone.it, 19 febbraio 2022 Hanno partecipato in 45 ai primi tre incontri del corso “Volontari per le misure di comunità” promosso dall’associazione “I Giovani della Carità” ad Isola Capo Rizzuto (Crotone) nell’ambito dell’omonimo progetto Seac (Coordinamento enti ed associazioni di volontariato penitenziario) sostenuto dalla Fondazione Con il Sud. Il progetto nasce per favorire il reinserimento sociale dei detenuti che devono scontare una pena prevista dalle misure di comunità e che, in alternativa al carcere, possono svolgere lavori di pubblica utilità o attività di volontariato. L’iniziativa coinvolge, nel Sud Italia, cinque associazioni tra cui “I Giovani della Carità” e prevede la formazione dei volontari, il rafforzamento della rete tra le associazioni di volontariato penitenziario e la sensibilizzazione della società all’accoglienza delle persone in esecuzione penale esterna. Un’idea diffusa nell’opinione pubblica è che una società è tanto più sicura quanto più siano chiusi in carcere gli autori di reato. In realtà il tasso di recidiva delle persone che scontano una pena detentiva è enormemente più alto di quello relativo a persone sottoposte a sanzioni non detentive. Solo il 19% dei condannati in esecuzione penale esterna commette nuovi reati, una volta estinta la pena, a fronte del 70% dei detenuti. Il corso vuole offrire ai partecipanti tutte le nozioni necessarie per affiancarsi, come volontari, agli operatori preposti alla gestione della misura al fine di facilitare l’inclusione sociale dei detenuti. L’obiettivo finale è quello di creare una rete per l’attuazione delle misure di comunità con tutti le istituzioni operanti in ambito penitenziario e aumentare la diffusione delle misure alternative contribuendo alla loro efficacia. L’associazione “I Giovani della Carità”, nata nel 2011 su iniziativa del presidente Luigi Ventura, si occupa di accogliere minori, giovani adulti ed adulti destinatari di misure alternative alla detenzione. Ha siglato un protocollo d’intesa con l’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Crotone e con l’Ufficio di servizio sociale minori del Centro per la giustizia minorile della Calabria e Basilicata di Catanzaro. In associazione operano 30 volontari di cui otto prendono parte al corso. I prossimi appuntamenti del primo ciclo formativo sono previsti il 30 gennaio e il 6 febbraio, alle 15.30, nella sede dell’associazione in via Le Castella, n. 18, ad Isola Capo Rizzuto e vedranno gli interventi di rappresentanti delle istituzioni penitenziarie, avvocati e magistrati di sorveglianza. Palermo. Progetto del Centro Pio La Torre, scuole e carceri collegate in videoconferenza palermotoday.it, 19 febbraio 2022 La presenza delle mafie non è problema irrisolvibile per uno Stato che vuole fare lo Stato fino in fondo, ma occorre liberarsi di una serie di luoghi comuni: non è vero che le mafie sono sempre esistite e che sono un fenomeno tipico delle aree arretrate”. Lo ha detto il professore Isaia Sales, docente Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, intervenendo alla quarta videoconferenza del progetto educativo antimafia organizzata dal Centro Studi Pio La Torre. A discutere, oltre a Sales, dell’”Evoluzione delle mafie nel XXI secolo dopo la fase stragista del Novecento” sono stati: Salvatore Lupo, docente Università di Palermo, Alberto Vannucci, docente dell’Università di Pisa e la vicepresidente del centro, Rita Barbera, che ha moderato l’incontro. “Oggi - dice Sales - abbiamo più di 180 clan al Centro e al Nord del Paese. La Lombardia è la quinta regione per numero di omicidi mafiosi e se guardiamo all’indice di presenza mafiosa - dato da rilevatori come arresti, confische, scioglimento dei consigli comunali - nelle prime 36 province italiane ce ne sono ben 10 del Centro-Nord. Ciò dimostra come sia un altro luogo comune considerare le mafie come dei pesci fuor d’acqua fuori dai loro territori. Le mafie sono state in grado di sopravvivere ad ogni regime politico e hanno mantenuto una loro forza sia quando lo Stato ne ha garantito loro una forma di impunità, sia quando lo Stato ha mostrato il suo volto repressivo. Mostrano una straordinaria capacità di adattamento ai tempi e si sono sempre mosse attorno alla predazione della ricchezza”. Oltre 600 i collegamenti registrati oggi dalla piattaforma tra scuole e istituti penitenziari che, come ha ricordato la vicepresidente Barbera, “in questo momento sono alle prese con un’impennata di contagi da Covid- 19 e che seguono in streaming le videoconferenze del progetto educativo”. Dalle stragi alla collusione, dalle strategie di adattamento alla diffusione capillare nel territorio e nell’economia, dal contrasto al senso della pena: questi i temi al centro delle domande degli studenti pervenute nel corso della videoconferenza. “Le mafie non sono intrinsecamente forti - ha detto Salvatore Lupo - sono potenti in quanto le istituzioni, i governi e i popoli non le contrastano, perché ci sono complici, distratti o perché non sembrano un grande pericolo”. “C’è poi un principio di civiltà giuridica a cui tengo molto - ha aggiunto Lupo - La politica e la magistratura sono chiamati a difendere i diritti di tutti, compresi i criminali. Ognuno deve pagare per quello che fa, ma le pene devono essere decenti. Chi va in prigione deve comunque essere trattato con decenza e civiltà e tutto questo deve essere distinto dal nostro impegno politico e civile, perché non siamo noi a dover dire chi è innocente o colpevole. Trovo sbagliato protestare se qualcuno viene condannato a una pena più lieve, non è questa la cittadinanza consapevole. Questa è una cittadinanza intossicata da odio e faziosità. La forza della collettività sta nel contrastare questi fenomeni così pericolosi alla luce dei principi della civiltà giuridica. I reduci delle organizzazioni mafiose hanno bisogno di incontrarsi in un mondo che non li faccia ricadere nei disvalori mafiosi. Per far questo il carcere deve essere un luogo di vita decente, deve rieducare e non estremizzare l’esclusione e l’inimicizia tra le persone e le istituzioni: occorre stare attenti quando si applicano meccanismi di carcerazione particolarmente afflittiva perché in qualche caso possono sembrare necessari, ma trasportati al di là dei loro limiti anche temporali rischiano di essere contraddittori con la finalità della rieducazione”. “I cambiamenti delle mafie sono dettati da due condizioni: la necessità di adeguarsi alla repressione degli organi di sicurezza e le opportunità che si presentano davanti a loro - ha poi aggiunto Sales - Affermare che le mafie sono sempre esistite vuol dire che sono invincibili, invece la loro sconfitta o il loro ridimensionamento è alla nostra portata, alla portata di un mondo politico, economico e istituzionale serio. Se non ci siamo riusciti finora non è perché le mafie sono state troppo forti, ma perché la risposta non è stata adeguata”. “Le organizzazioni mafiose sono come i serpenti che cambiano pelle per adattarsi - ha detto Alberto Vannucci, docente dell’Università di Pisa - la Legge Rognoni - La Torre nasce da una risposta seria e rigorosa dello Stato”. Il professore ha poi ricostruito le strategie utilizzate dalla criminalità organizzata facendo riferimento all’inchiesta Mani pulite, avviata 30 anni fa: “Il 1992 è stato anche l’anno dell’omicidio di Salvo Lima. Come ricordava il giudice Paolo Borsellino, ‘Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo’. La storia delle relazioni tra politica e mafia è la storia di due poteri nei quali ha sostanzialmente prevalso la logica del mettersi d’accordo - ha aggiunto Vannucci - Con Mani Pulite c’è stata la rottura di un equilibrio che per decenni si era consolidato grazie a micro-patti che hanno legato amministratori pubblici, mafiosi e componenti della burocrazia. Dopo la rottura di questo patto si è creato un nuovo equilibrio che in qualche caso ha rivelato degli attriti nei termini negoziali. Oggi le mafie fanno meno ricorso all’intimidazione e più alla corruzione”. Il docente ha poi letto come esempio plastico un estratto di un’ordinanza di custodia cautelare che ha riguardato un assessore regionale intenzionato a incrementare il proprio consenso elettorale e “utilizzato dalle cosche come risorsa per consolidare il proprio potere sul territorio. A 30 anni da Mani Pulite è successo nel 2012, in Lombardia: ecco i nuovi termini di un accordo di natura simbiotica tra attori politici e mafiosi”. Napoli. La città e la Chiesa che non chiudono i conti con il passato di Antonio Mattone Il Mattino, 19 febbraio 2022 A un anno dalla sua morte, ricompare ad Ottaviano il fantasma di Raffaele Cutolo. Manifesti a lutto e una messa in suffragio. Il tutto per ricordare “l’anima benedetta” del boss scomparso il 17 febbraio nel carcere di Parma. La funzione religiosa che non si poté tenere per i suoi funerali perché vietata dalla Prefettura, è stata invece celebrata per il suo anniversario di morte nella chiesa di San Francesco di Paola. La malavita, dopo aver osannato i suoi capi carismatici in vita, ha sempre cercato di venerarli una volta defunti. Ricordiamo le solenni esequie a Roma del capoclan Vittorio Casamonica nell’agosto del 2015, accompagnato dalla banda musicale che intonava il celebre motivo del Padrino e sei cavalli neri che trainavano la bara in una carrozza antica. Qui la cerimonia è stata più sobria, ma non per questo meno vuota di significato. Certo una messa non si nega a nessuno, nemmeno a uno dei più grandi criminali della storia repubblicana italiana. Ma era opportuno che si celebrasse in una delle strade principali del paese, in un orario di punta, con tanto di manifesto pubblico ad annunciarla? In questo modo Ottaviano non riesce mai ad affrancarsi dal personaggio Cutolo, cioè da colui che l’ha resa celebre nell’accezione più negativa. Del resto, il rapporto della famiglia Cutolo con la Chiesa è stato spesso caratterizzato sia dalla vicinanza della loro abitazione con il convento di San Michele a cui era molto devota, sia dal tentativo, non sempre riuscito, di strumentalizzare la vita religiosa degli ottavianesi. Il capofamiglia era un bracciante che venne soprannominato “il monaco” perché lavorava la terra nei pressi del monastero. Qui il piccolo Raffaele talvolta ci andava per servire messa come chierichetto. E quando venne il momento di sostituire il vecchio parroco, il vescovo pensò bene di inviarvi un giovane prete di Nola, nipote di un francescano che aveva fatto tanto bene e che trovò il portone del tempio sbarrato con delle assi di legno inchiodate. Si disse che era stata proprio Rosetta che voleva in quel posto don Peppino Romano, suo prete prediletto, ucciso poi in un agguato la domenica mattina del 5 gennaio 1986, mentre si recava in chiesa per dire messa. Nel paese si racconta anche che la sorella del boss, per ingraziarsi un sacerdote di un’altra parrocchia, gli fece dono di un costoso quanto orrendo ambone, che però non venne mai collocato nel tempio. Quando ho incontrato Raffaele Cutolo nel carcere di Parma il 19 luglio del 2019, ad un certo punto gli chiesi se si fosse pentito e se tornando indietro avesse rifatto la stessa vita. La sua risposta fu un inoppugnabile richiamo alla sua coscienza. “È vero, ho fatto tanto male, ma il mio pentimento è davanti a Dio”, mi disse. Un terreno intimo e privato dove ritenni inopportuno entrare. A maggior ragione, con la stessa discrezione andava celebrata la sua memoria. Un criminale così spietato, che ha ordinato centinaia di omicidi non poteva essere ricordato pubblicamente. Come sono stati vietati i funerali pubblici, così andava impedita ogni commemorazione. Mi torna in mente il dolore della moglie di Giuseppe Salvia, la ferita mai sanata di un distacco violento e incomprensibile. Un racconto duro e toccante che ho ascoltato dalle parole della moglie del vicedirettore del carcere di Poggioreale ucciso su ordine del boss. Così come penso alla sofferenza mai consolata della mamma di Simonetta Lamberti, la piccola che perse la vita nell’attentato al padre magistrato. Bisogna avere rispetto di queste e di altre vittime prima di tutto. Lascia perplessi il fatto che se da una parte nel paese si cerca di costruire modelli culturali alternativi a quelli della camorra e si vuole dimenticare un personaggio ormai logoro e ingombrante, dall’altra se ne consente la commemorazione proprio nella chiesa attigua al municipio. Un interrogativo che devono porsi gli ottavianesi ma anche tutti coloro che sperano e lavorano affinché si cancelli da questo territorio una macchia che sembra ancora indelebile. Castelfranco Emilia. I detenuti e le sfogline, il film sui tortellini premiato in Canada di Elena Pelloni Gazzetta di Modena, 19 febbraio 2022 Ha vinto il premio come miglior regia in assoluto al Toronto International Woman Film Festival, il film il “Sapore del riscatto”, cortometraggio interamente dedicato all’inclusione e al pieno reinserimento di detenuti o ex detenuti della Casa di reclusione di Castelfranco. La regia e la sceneggiatura sono di Ginevra Barboni che per la realizzazione del corto, pensato e voluto dal Comune di Castelfranco, si è avvalsa della collaborazione di attori quali Salvatore Striano, Valentina Pastore, Davide Scafa e della produzione esecutiva di Chiara Trerè. Tra i protagonisti, compaiono anche le maestre sfogline della San Nicola e dal territorio hanno collaborato proprio l’associazione Maestre Sfogline, ForModena ad Arci Solidarietà. “Sono molto felice ed onorata di questo premio arrivato dal Toronto International Woman Film Festival - commenta Ginevra Barboni - È un riconoscimento che non va soltanto a me ma al lavoro e alla professionalità di tutto il cast e di tutta la troupe - e aggiunge - Desidero con tutto il cuore ringraziare prima di tutto l’organizzatrice Chiara Trerè, il direttore della fotografia Aniello Grieco e Salvatore Striano, che ha messo tanta parte di sé, della sua sensibilità, della sua intelligenza e della sua professionalità a servizio di questo lavoro. Ringrazio il Comune per la fiducia accordatami nell’affidarmi questo progetto, la Regione e l’associazione nazionale delle adorabili sfogline”. Anche il sindaco Giovanni Gargano ha espresso grande soddisfazione per il riconoscimento ottenuto da Toronto: “Non avevo dubbi sul grande talento di Ginevra e quella appena arrivata da Oltreoceano è una bella conferma di quello che pensiamo di lei, regista di rara bravura e sensibilità artistica - afferma - Questo è un progetto a cui, insieme alla direzione della Casa circondariale e alle realtà associative del territorio, dalla San Nicola all’associazione Maestre Sfogline, da ForModena ad Arci Solidarietà, teniamo veramente tanto e sono felice di poter condividere con chi ha creduto in questa idea che si caratterizza per la sua profondità e per la forte valenza sociale e culturale. Non dobbiamo mai arretrare nella riflessione sulla tematica che fa da pilastro a questo progetto perché il reinserimento di ex detenuti è una concreta e prioritaria politica di sicurezza integrata”. “La scuola forma coscienze non nuovi lavoratori precari” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 19 febbraio 2022 Il quarto atto del movimento studentesco contro l’alternanza con il lavoro e il suo mondo: “Non si può morire di scuola”. Nuova giornata di protesta in 40 città in tutto il paese. Tensioni a Torino alla sede di Confindustria. A Palermo occupato il provveditorato: “Le nostre vite valgono più del vostro profitto”. A Genova: “In questo sistema di sfruttamento nel peggiore dei casi si muore, nel migliore si è precari a vita”. “Vogliamo un altro modello di scuola”. Alla scoperta di un nuovo movimento: “Lo stiamo ricostruendo. Pensiamo che più siamo, prima riusciamo a risolvere i problemi”. Anche ieri il lavoro ha ucciso tre persone: un pescatore, un operaio e un camionista. Per il quarto venerdì consecutivo un determinato movimento studentesco è tornato in piazza ieri in una quarantina di città da Nord a Sud, da Torino a Milano da Roma a Bari o Palermo, per chiedere l’abolizione dei “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento” (l’”alternanza scuola lavoro”, ndr.) e ricordare Giuseppe Lenoci e Lorenzo Parelli, i due studenti morti a distanza di tre settimane mentre svolgevano progetti di stage in formazione lavoro. Questo movimento è in gestazione già dall’ottobre-novembre 2021, quando ci sono stati importanti cortei e, a Roma sono stati occupate 50 scuole. E oggi ha portato altre occupazioni a Torino e provincia (oltre 40) e a Milano. Come in ogni movimento anche in questo si forma un’intelligenza collettiva che alimenta intenzioni comuni. “Ci sentiamo appartenenti ad un movimento - ha detto uno studente di Torino - Lo stiamo ricostruendo. Pensiamo che più siamo, prima riusciamo a risolvere i problemi”. Per comprendere il significato di questo movimento prendiamo un’affermazione fatta ieri dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi: “I Pcto non sono avviamento al lavoro ma orientamento alla vita. Lavoriamo per accompagnare i ragazzi a conoscere il contesto in cui operano, e questo deve avvenire nel massimo della sicurezza” ha detto. Ciò che oggi gli studenti contestano è i significati di “orientamento” e di “vita” alla quale dovrebbero essere “accompagnati”. È uno scontro di natura etico-politica, dunque. “Se nel peggiore dei casi si muore, e nel migliore si rimane precari a vita”, il significato dei “Pcto” indicato da Bianchi assume un significato inquietante. E non solo per gli studenti di Genova che hanno fatto questa analisi. Bianchi però ha ragione quando dice che i “Pcto”, obbligatori per il triennio delle superiori e condizione per accedere alla maturità, non è “un avviamento al lavoro”. Infatti è una forma di disciplinamento dello studente in quanto manodopera che dovrebbe farsi concava e convessa e adeguarsi a un’idea astratta di mercato del lavoro. Per questa ragione ieri abbiamo letto su cartelli, e striscioni, slogan dal sapore antico: “Contro la scuola dei padroni”. Con queste e altre formule si intende criticare la subalternità dell’istruzione ai valori dell’impresa. Questo sistema non va bene, vogliono un “altro modello di scuola”, opposto a quello dell’”aziendalizzazione della scuola pubblica” che “sappia educarci al pensiero critico e non alla riproduzione continua di nozioni”. “La scuola deve formare coscienze, non lavoratori precari”. È il problema che questo governo, non diversamente da altri, non sembra volere considerare. E come potrebbe: la mentalità di chi lo dirige, e della classe dirigente di cui è l’espressione, è nata negli anni del realismo capitalista. Gli studenti, invece, appartengono alla seconda (o terza) generazione che inizia a comprendere le conseguenze di essere considerati “capitale umano” e, in più, destinati allo “sfruttamento”. “Le nostre vite valgono più del vostro profitto” hanno detto gli studenti palermitani che hanno occupato simbolicamente il provveditorato regionale. L’esigenza di un ripensamento strutturale anche della formazione al lavoro sembra essere, fino ad ora, meno sviluppata. In realtà questo movimento la considera parte integrante dell’”alternanza scuola-lavoro”, un’espressione intesa come la parte per il tutto. è a questo che si riferiscono quando chiedono “sicurezza” per non “morire di scuola”. Ma è questo il problema enorme: la sicurezza manca anche nel mercato del lavoro dove muoiono tre persone al giorno, in media. Comunque il governo ha annunciato un doppio tavolo: con le regioni e tra il ministero dell’Istruzione e del lavoro. Agli studenti è sembrata una risposta a dir poco debole rispetto a quanto è avvenuto. E rischia di ripetersi. Una riforma della formazione professionale era stata annunciata nei mesi scorsi per i 4.324 istituti tecnici e professionali perlopiù orientata ancora di più verso le imprese, in vista degli investimenti del “Pnrr”. Su 9 miliardi di euro, 1,5 andranno agli Istituti tecnici superiori dove si sostiene ci sia un tasso medio di occupazione a un anno dal titolo che in alcuni territori arriva al 90%. Ma così si rischia di discriminare territori dove non ci sono imprese integrabili in un sistema ispirato alla “formazione duale”. È un’altra critica emersa durante il corteo di Roma. A Torino ieri c’è stato un episodio fortemente mediatizzato: un’azione alla sede di Confindustria, avvenuto durante il corteo con oltre 4 mila persone, è stata trasformata in un caso. Separati da una cancellata semichiusa, si osserva in un video di Local team di sei minuti, un gruppo ha cercato di entrare mentre dall’altra parte c’era un drappello di carabinieri. La ministra dell’interno Lamorgese ha dato solidarietà a sette, tra carabinieri e un poliziotto, rimasti feriti nella colluttazione. “Si rischia - ha detto - di far passare in secondo piano le legittime aspettative degli studenti portate in piazza”. “Azioni che rendono vane le nostre idee e i nostri buoni propositi” ha detto un rappresentante della locale consulta degli studenti. “La violenza che gli studenti hanno visto in queste settimane è stata quella della repressione, di 40 teste spaccate e feriti in piazza Arbarello il 28 gennaio - è stato replicato - Il dato politico più importante è che gli studenti contestano la Confindustria. È successo ovunque, non solo a Torino”. Considerati i toni delle reazioni registrate ieri le polemiche continueranno. Mentre gli studenti protestavano contro un sistema scuola-lavoro che ha iniziato a provocare morti anche tra i loro coetanei in Italia la strage dei lavoratori è continuata. Poche ore prima dell’inizio dei cortei, un camionista genovese di 49 anni è morto in Svizzera mentre lavorava. L’uomo, Fabio Luccherino, dipendente della Varani Trasporti e delegato della Filt Cgil di Genova, è rimasto schiacciato da una cassa che si è sganciata da un muletto durante le operazioni di scarico della merce. L’incidente è avvenuto nella cittadina svizzera di Inwil nel Cantone Lucerna. “Ogni volta che succede, ormai troppo spesso, ci sembra di consumare un inutile rito quando diciamo che non si deve più morire sul lavoro e bisogna investire in sicurezza per evitarlo. Ma vogliamo continuare a farlo, anche se ci sembra di urlare al vento, visto che la strage continua. Basta morti sul lavoro!” ha detto Marco Gallo della Filt Cgil. All’alba a Monasterace, in provincia di Reggio Calabria. Un pescatore e titolare di un peschereccio, Kamel Kaffaf, di 57 anni, di origini tunisine da vent’anni viveva a Roccella Ionica. È morto all’alba di ieri in un incidente sul lavoro avvenuto al largo di Punta Stilo. L’uomo è deceduto per le gravi ferite riportate dopo essere stato risucchiato, rimanendo poi incastrato, dai cavi di acciaio di un verricello, uno strumento utilizzato per issare le pesanti reti a bordo delle imbarcazioni da pesca. Ore 13,30 a Cervia, provincia di Ravenna. Un operaio originario di Comacchio, ieri non era ancora noto il suo nome, è morto a causa della rottura del braccio di una gru usata per potare gli alberi di via Capua, a pochi passi dal centro della città. L’incidente è avvenuto alle 13.30. Aveva 44 anni ed è stato ammazzato dal collasso del suo mezzo di lavoro. Le indagini sono in corso per accertare l’accaduto e le responsabilità. Suicidio assistito: il Vaticano può dire addio a certi valori non negoziabili? di Riccardo Cristiano* Il Fatto Quotidiano, 19 febbraio 2022 Quando in Argentina cominciava a diffondersi l’idea di proporre una ratifica dei matrimoni omosessuali, l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, suggerì ai suoi di giocare in attacco, non di rimessa. Ad una riunione della Conferenza Episcopale Argentina, che presiedeva, fece presente che gli omosessuali avevano il diritto a fruire di tutti i benefici di legge che derivano dalle unioni civili. Questo avrebbe tutelato un diritto e offerto alla Chiesa di difendere il matrimonio, che è tra un uomo e una donna. I confratelli nell’episcopato di Jorge Mario Bergoglio non ritennero di starlo a sentire, respinsero la sua idea e in Argentina si votò la legge che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Oggi che è vescovo di Roma, Jorge Mario Bergoglio, papa Francesco, ritiene che giocare in difesa sia sempre un errore. Lasciare aggravarsi i problemi senza offrire soluzioni ragionevoli alle emergenze apre la strada a nettezze che finiscono per prevalere. Così è difficile ritenere che Francesco condivida l’idea diffusa in molti ambienti cattolici che la decisione della Corte Costituzionale di ritenere non ammissibile il referendum sul suicidio assistito sia, dal punto di vista ecclesiale, un vantaggio che fa tirare un sospiro di sollievo. Il problema rimane, e volendo si potrebbe solo ritenere che si è guadagnato del tempo. Ma non siamo davanti a un valore non negoziabile, la difesa della vita, dal concepimento alla morte naturale? E già, è certamente così. Ma i tempi cambiano e oggi si dà il caso che ci siano malattie e terapie che possono bloccare un essere umano per anni, senza speranza alcuna, solo atroci sofferenze, o incoscienza. E non basta dire no all’accanimento terapeutico per risolvere il problema. Quando sussiste il vero accanimento terapeutico, quale caso certamente lo è? La società vede casi limite, ma casi concreti, di persone in carne e ossa. E si interroga. La Chiesa no? Resta chiusa nella sua torre eburnea di difesa senza se e senza ma? Questa Chiesa sarebbe una Chiesa chiusa, non una Chiesa in uscita, come quella di cui parla Francesco. La Chiesa in uscita riconosce la società, non si ritiene una società perfetta la cui legge è indiscutibile. In definitiva la Chiesa in uscita rifiuta il non expedit. Che cos’è? Come sempre Wikipedia ci aiuta a trovare una definizione semplice di cose un po’ complesse: “Non expedit è una disposizione della Santa Sede con la quale si dichiarò inaccettabile che i cattolici italiani partecipassero alle elezioni politiche del Regno d’Italia e, per estensione, alla vita politica nazionale italiana, sebbene tale divieto non fosse esteso alle elezioni amministrative”. La Chiesa riteneva lo Stato italiano un usurpatore. Poi Benedetto XV consentì ai cattolici di aderire al Partito Popolare di don Sturzo. Oggi non c’è più il partito dei cattolici, ma i cattolici in tanti partiti. Proponendo l’idea dei principi non negoziabili il Vaticano ha di fatto detto ai cattolici che loro sono nella società, vivono in essa, ma fino a un certo punto. La società cattolica, cioè la Chiesa, ha dei limiti invalicabili in certi e indiscutibili principi. La difesa della vita è uno di questi. Ma a forza di parlare di difesa della vita dal concepimento alla morte naturale la Chiesa ha dato l’idea di difendere la vita del non nato e del moribondo, tutto il resto della difesa della vita è risultato affidabile alla libera negoziazione tra le parti. Questa idea salta con Francesco. La Chiesa dovrebbe far capire che vuole difendere la vita sui barconi come nelle borgate, dei moribondi come di chi non trova lavoro. Ma senza imporre una legge che rende obbligatorio la piena occupazione, o l’accoglienza di tutti. Vale anche per il suicidio assistito? I fatti della vita e della morte sono così grandi e profondi che la Chiesa deve occuparsene. E così la rivista dei gesuiti, La Civiltà Cattolica, le cui bozze vengono preventivamente dalla Segreteria di Stato, ha pubblicato un articolo fondamentale nel quale si parla di legge imperfetta. La legge imperfetta è quella legge che non recepisce il nostro punto di vista, non impone ciò che vorremmo. Ma consente di risolvere un problema dai più volti in modo imperfetto. Se tu vedi come essenziale la tutela del diritto di un individuo a dire che non vuol più soffrire senza speranza di poter guarire, io vedo come essenziale la non estensione di questo principio a chi viva un momento di crisi psicologica, o di depressione. Se una legge, come quella in discussione alla Camera sul suicidio assistito, riuscisse a contemperare queste due priorità diverse avremmo fatto una legge per tutti imperfetta, ma affrontato un problema guardando in avanti, non indietro. E’ la cultura del male minore? No! E’ la cultura del bene maggiore. Ma soprattutto è la cultura dell’expedit, non del non expedit. In questa cultura approvando una legge che consente l’assistenza al suicidio in casi clinicamente definiti il Papa si riserverebbe di poter dire, come ha fatto pochi giorni fa, che la sua visione è quella di accompagnare alla morte, non di darla. Un altro potrà dire che la sua visione è quella di non negarla, di certo a chi la scienza dice che non avrà più il modo di apprezzarne il sapore, i colori, i suoni, la consistenza. La perfezione non è di questo mondo, l’imperfezione è un bene maggiore se contiene gli opposti estremismi in un’ottica di incontro, non di imposizione. *Vaticanista di Reset, rivista per il dialogo Immigrazione, luci spente a San Siro: “Noi, nuovi italiani ma sempre indesiderati” di Karima Moual La Repubblica, 19 febbraio 2022 Risse, sparatorie, spaccio, degrado, disagio. A suon di rap. Concentrato in un agglomerato di palazzine popolari che formano il quadrilatero di San Siro, Milano. Soltanto il 10 aprile di un anno fa i riflettori si sono accesi sul quartiere, con le immagini della guerriglia tra forze dell’ordine e trecento ragazzi tra i 16 e i 20 anni, soprattutto di origine straniera. Si erano radunati in strada - nonostante le direttive anti Covid - per girare il video del rapper Neima Ezza, arrestato un mese fa. Certo, San Siro non è nuovo a fatti di cronaca, ma mai prima era andata in onda un’immagine così potente, conflittuale e incendiaria di una realtà di vite ai margini che sta crescendo al nostro fianco e che rischia di sfuggirci di mano. Non siamo la Francia con le sue banlieue, si diceva un po’ di tempo fa, sollevati. Ma è ancora vero? Per capirlo bisogna attraversare Milano, dalla Stazione centrale verso San Siro. E lì scoprire un quartiere diviso a metà. Il quadrilatero dei blocchi di case popolari abitate da tanti immigrati, da una parte. E, appena più a nord, la San Siro borghese delle villette dai giardini ben curati. Due mondi vicinissimi che non si incrociano, mai. “Qui sto tra la mia gente, siamo tutti immigrati”. Immigrati? Ma tu sei italiana, dico a Chaima, 18 anni appena compiuti, nata a Milano da genitori tunisini. “Sì, certo, parlo italiano, sono nata qui, ma la verità è che non mi fanno sentire italiana. Quando sono per strada con mia madre che porta il velo, o quando cerco lavoro e mi chiedono dove abito, alla parola San Siro alzano il sopracciglio: ‘Anche tu fai parte di quella mandria?’“. Sorride, ma è un riso amaro quello di Chaima, occhi dolci, fisico minuto, sufficiente a tenere dentro tutta la sua rabbia. “Tra poco però avrò la cittadinanza, così almeno agli italiani che mi dicono: ‘Straniera!’, gli sbatto la cittadinanza italiana in faccia”. Baby sitter, colf, badante. “Penso sempre alla mamma e a quanto si deve sbattere spaccandosi la schiena per portare 20 euro nella casa al buio perché la corrente è stata staccata per morosità. Io in questo quartiere almeno ho imparato a crescere in fretta. I nostri rapper? Raccontano quello che sentiamo dentro. E poi, sai che ti dico?, sono orgogliosa di essere araba”. Osservo gli spazi angusti del bilocale dove vivono in cinque. Mounia, la mamma, 42 anni, versa il tè alla menta ed è preoccupata per i tre figli, soprattutto per il maschio di 17. “Sai quante volte lo hanno perquisito e fermato perché lo hanno scambiato per uno spacciatore? Solo perché ha la faccia da straniero. Come possono sentirsi italiani questi ragazzi? Chi sta qui da venti o trent’anni si ritrova nello stesso calderone di chi è appena arrivato”. È come se il processo di inserimento e integrazione si fosse azzerato. Negli ultimi anni sono aumentate le famiglie straniere nei palazzi popolari. Gli italiani man mano se ne sono andati via. Sono rimasti soprattutto gli anziani, come Maria Grazia. “Non ci riesco e forse non m’interessa neanche socializzare con gli stranieri - confessa nell’androne del palazzo in cui vive - Da vent’anni sono circondata soprattutto da immigrati e dai loro rumori, dalla sporcizia e dal degrado”. I profumi dei piatti ricchi di spezie che escono dalle cucine per Maria Grazia sono una puzza insopportabile. “Una volta una vicina mi ha regalato un dolce, ci ho messo una settimana per digerirlo, chissà che ci mettono dentro” racconta. “Non ho niente contro gli stranieri - aggiunge - ma hanno usi e costumi lontani e diversi dai nostri”. Punto. “Il quartiere è peggiorato perché ci sono troppo stranieri, sono arrivati in tanti, in troppi e tutti qui. E ognuno fa quello che gli pare”. Sembra di sentire parlare Matteo Salvini. Invece sono le parole di Mounia. che descrive un conflitto e un disagio più ampi. Come in questi anni la cattiva politica sull’integrazione abbia poi relegato ai margini anche la parte che si è maggiormente integrata, costruendo più fronti di contrasto. “Io stessa ho paura a rientrare di casa la sera: gli sguardi non sono più rassicuranti”, confessa Mounia. Come si è arrivati a questo? Scendendo verso piazzale Selinunte, nel cuore del quadrilatero, c’è un parchetto. E un mercatino abusivo dove si vende mercanzia di vario genere, soprattutto oggetti usati o rubati, come i telefonini. Hashem è appena uscito dalla preghiera del venerdì in moschea. “Io sto bene qui, ho tutto - racconta - Parenti, cugini e amici”. Chi sono gli amici? “Soprattutto egiziani”. E con gli italiani? Ci pensa: “Sì, certo, ho amici anche italiani ma se devo scegliere, meglio frequentare i miei fratelli arabi”. Dall’altra parte della piazza gli sguardi sono insistenti, alcuni di sfida. Si percepisce dai capannelli nei vari angoli, dai dialoghi a bassa voce e dal via vai, che in molti hanno qualcosa da nascondere. Le auto della polizia perlustrano la zona. L’odore dell’hashish è penetrante. Bastano pochi metri per incrociare Islam. Vestito firmato, felpa bianca, cappuccio in testa e cappellino con la scritta Italia. Ha vent’anni, in mano uno spinello. È disinvolto e ha voglia di parlare. “Sono appena uscito dal carcere. Ero in autobus, qualche parola di troppo, spintoni, polizia, questura e una notte in cella”. Islam è arrivato dall’Egitto attraverso la Libia, su un barcone. Direzione Sicilia. Sono passati sette mesi da quando è sbarcato. “L’Egitto ormai è andato a puttane”, dice. Ma lui, come tanti a Milano, dorme per la strada o nelle cantine occupate. “Pensavamo di venire qui e svoltare, invece era meglio forse restare nel nostro Paese”. Islam si è già pentito. “In alcuni casi uno si trova a fare cose illegali per sopravvivere - interviene Mohamed - C’è chi spaccia, sono in tanti a farlo”. Islam e Mohamed proseguono il loro giro con altri amici che li raggiungono. Tutti giovani, tutti maschi. Le piccole finestre delle cantine che danno sul marciapiede sono ancora buie, ma tra poche ore prenderanno vita per nascondere un mondo parallelo che scorre sotterraneo senza mai toccarci. Si sentono in lontananza i passi e le voci. I bambini appena usciti da scuola e quelli sulle altalene che strillano di gioia spinti dalle madri velate. Due anziani che si tengono con il bastone. Musica rom in fondo a un androne. Minorenni incappucciati sopra un motorino che si atteggiano a gangster. Rap nelle cuffie di un pezzo con accento milanese ma dove si canta di Casablanca e di banlieue. I dialetti arabi si mischiano e per un momento si perde la cognizione dello spazio e del tempo. Dove siamo? Benvenuti nel luogo dove tutti sono stranieri a casa propria. Ucraina. Le famiglie di Kiev: “Non sappiamo a chi credere, a Donetsk si vive nel terrore” di Monica Perosino La Stampa, 19 febbraio 2022 Attaccati al telefono per avere notizie dalla zona del fronte: “Caricano le donne sui pullman e proibiscono ai ragazzi di andarsene”. Quando non sai più a chi credere, o a cosa credere, è allora che inizi ad avere davvero paura. “I russi ci dicono che dobbiamo scappare, gli ucraini che non dobbiamo. Ma poi dove dovremmo andare, dove potremmo mai andare noi?”. Baba Masha, 65 anni, urla al telefono per farsi sentire oltre le sirene che rimbombano nelle strade di Donetsk. Il figlio Vladimir, che lavora a Kiev, l’ha chiamata un minuto dopo l’ordine d’evacuazione. Masha sente la musica che arriva via telefono da Podil, sono due busker che suonano Hey Jude dei Beatles: “Sei a un concerto?”, gli chiede e poi aggiunge: “Io non me ne vado, non lascio la mia casa, ma ora ho paura”. Il primo a ordinare a tutte le donne, i bambini e gli anziani di andarsene dal Donbass è stato il leader dell’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk (Dpr), seguito a ruota da quello di Lughansk (Lpr). Entrambi hanno denunciato il rischio di un attacco delle forze ucraine. Denis Pusylin si è levato la giacca scura e le sue solite cravatte dai colori sgargianti e ha indossato una camicia militare nuova di pacca. Quando si dice calarsi nella parte. Il capo della Dpr, comandante supremo delle forze armate, nonché dal 2021 membro di Russia Unita, ha parlato per 2 minuti e 17 secondi poco sul suo canale Telegram: “Il presidente ucraino Zelensky ordinerà presto ai militari di passare all’offensiva. Abbiamo organizzato da oggi una evacuazione di massa della popolazione verso la Federazione Russa”. Per sostanziare la “salvezza” Putin avrebbe offerto 10 mila rubli (114 euro), vitto e alloggio a chi lascerà il Donbass. “La popolazione verrà accolta in strutture nella regione di Rostov come concordato con le autorità russe. Gli sfollati riceveranno tutto ciò di cui hanno bisogno” ha concluso Pušylin. Peccato che, a quanto pare, sia il suo video messaggio, sia quello del collega Pasichnik, dalle analisi dei metadati di Current Time, siano stati registrati già il 16 febbraio (data, non a caso, dell’offensiva anticipata dall’Intelligence Usa). L’escalation in questa guerra di nervi è proseguita con “un’autobomba scoppiata vicino al palazzo del governo” di Dontesk, una “false flag operation”, un’operazione condotta in modo da far ricadere la responsabilità su altri, progettata per alimentare le tensioni nell’area secondo i funzionari ucraini. Per scaldare ulteriormente l’atmosfera il capo della Lpr ha poi fatto appello “a tutti gli uomini” pronti ad imbracciare le armi perché difendano l’entità separatista ucraina, mentre quello di Donetsk ha direttamente “vietato l’evacuazione a tutti gli uomini dai 18 ai 55 anni”. “Nel pomeriggio si è presentato un poliziotto distrettuale a casa mia - racconta Anna, 58 anni, parrucchiera di Donetsk -. Mi ha consigliato di andarmene, che gli autobus erano già pronti, che chi poteva se ne stava già andando, e che se fossimo rimasti sarebbe stato molto pericoloso”. Anna dice di averlo rassicurato, poi di essere corsa alla finestra per guardare in strada: “Niente, non ho visto nessun ingorgo, né gente che scappava, né scene di panico. Tutto normale come al solito”. Lei, come la sua vicina, non ha nessuna intenzione di scappare: “Ho paura più dei ladri che delle bombe. E poi chi mi dice che questi autobus non siano un bersaglio? Che non ne facciano saltare in aria uno per poi darsi la colpa l’un con l’altro?”. Ma, evidentemente, non tutti hanno deciso di restare. Mentre le accuse di violazioni della tregua rimbalzano da Kiev a Mosca e ritorno, nelle regioni separatiste si sarebbero viste file di pullman caricare donne, bambini, anziani verso la vicina regione russa di Rostov. Nel frattempo, soldati russi e bielorussi hanno continuato le esercitazioni congiunte, che si concluderanno domani. Oggi però la Russia comincerà le esercitazioni nucleari su larga scala per testare i suoi missili balistici e da crociera. Le manovre saranno supervisionate dallo stesso Putin. Il Cremlino ha assicurato che si tratta di manovre programmate da tempo, svolte ogni anno, ma l’ultima volta che furono anticipate a febbraio (rispetto al consueto periodo autunnale) fu poco prima che la Russia invadesse la Crimea nel 2014. Medio Oriente. Il ritorno di Isis e Al-Qaeda di Stefano Pontecorvo La Repubblica, 19 febbraio 2022 Mentre l’attenzione mondiale è rivolta all’Ucraina e alle ricadute della pandemia, quella di buona parte della comunità d’intelligence resta concentrata sull’Afghanistan e sugli sviluppi nel Paese. Sotto osservazione sono i gruppi terroristici che sembrano aver trovato nuova vita nell’Emirato, Isis e Al-Qaeda in testa. La valutazione data dal Dipartimento della Difesa americano e riecheggiata dall’Onu (significativamente, da funzionari russi e cinesi dell’Organizzazione) è di una rivitalizzazione dell’Isis che, nei sei mesi dalla uscita occidentale dal Paese, ha raddoppiato i propri aderenti arrivando a circa quattromila terroristi, mentre più sfumato nei numeri ma altrettanto significativo è il rafforzamento di Al-Qaeda. Entrambe approfittano della relativa debolezza del movimento talebano non in grado di controllare il territorio afghano nonostante il notevole sforzo che esso sta mettendo nel ricostruire una parvenza di esercito e di polizia. Le situazioni in cui si trovano le due organizzazioni terroristiche sono peraltro radicalmente diverse. Al-Qaeda ha legami organici con i talebani, specie con gli Haqqani (i talebani dell’Est) che ne facilitano l’esistenza in cambio dell’assicurazione che il gruppo terrà un basso profilo nel Paese, mentre Isis è in una guerra cruenta con i nuovi padroni di Kabul essendosi stabilito in pianta stabile in alcune regioni orientali dell’Afghanistan. Isis ed Al-Qaeda sono per ora impegnate a rafforzarsi e riorganizzarsi al meglio, sfruttando la relativa libertà di manovra offerta dalle deteriorate condizioni interne ed attingendo al notevole serbatoio di giovani afghani marginalizzati, in costante crescita data la mancanza di prospettive economiche. Fonti interne all’Afghanistan confermano che le file dell’Isis si stanno gonfiando anche grazie agli ex appartenenti alle forze di sicurezza afghane (con le ex-forze speciali in prima linea) ai quali i talebani, nonostante le smentite quotidiane, stanno dando la caccia. Senza possibilità di lasciare il Paese né protezione di altro tipo Isis sembra essere l’approdo più sicuro per un numero crescente di ex militari e di ex funzionari dell’intelligence afghana, braccati e senza stipendio da mesi. Si tratta di gente che, tra l’altro, ci conosce bene per essere stata addestrata da noi, spesso all’estero, ed avrebbe quindi un’arma in più nelle conoscenze acquisite sul funzionamento del sistema occidentale. Nessuno si illude che la riorganizzazione in atto, favorita da disponibilità finanziarie derivanti da attività criminali e da accresciute donazioni esterne, sia fine a sé stessa; anzi, una volta rafforzate, Isis ed Al-Qaeda rivolgeranno l’attenzione ad obiettivi occidentali in giro per il mondo, nessun bersaglio escluso. Forse non nelle prossime settimane, ma la minaccia è seria e prossima. Nel frattempo, si muove anche il fronte politico e militare interno, con qualche notevole rientro a Kabul di esponenti del vecchio regime, tra cui un paio di personalità particolarmente vicine all’ex presidente Ghani il quale, si dice, vorrebbe farsi passare la nostalgia e la depressione di cui sembra soffrire lasciando la sua attuale dimora a Dubai per tornare a Kabul. Talebani permettendo naturalmente. Nonostante le voci che circolano nella capitale afghana, non mi sembra una ipotesi verosimile. A tener banco è comunque il giovane Massoud, figlio del “Leone del Panshjir”, il quale il 10 gennaio ha incontrato a Teheran, assieme al settantaseienne signore della guerra tagiko Ismail Khan ed altri transfughi afghani il ministro degli Esteri dell’Emirato talebano Mullah Muttaqi. La riconciliazione nazionale è uno degli obiettivi tattici, ma apparentemente poco sentiti, della dirigenza talebana che non sembra disposta a pagarne il prezzo sotto forma di un governo realmente inclusivo. A sei mesi dalla presa di Kabul l’emiro talebano, Akhunzada, non è mai apparso in pubblico, segno di perduranti frizioni all’interno della composita dirigenza talebana non ancora in grado di prendere decisioni unitarie su questioni fondamentali come quella di un governo che apra a non-talebani. Massoud e gli altri non pashtun non si fidano, e fanno bene visti i precedenti. E fanno bene anche i talebani a preoccuparsi di Massoud e dei suoi, che con il loro Fronte Nazionale della Resistenza, formato poche settimane dopo la caduta di Kabul, minaccia di avviare una “offensiva di primavera” per riprendersi una parte del Panshjir, dando del filo da torcere ai talebani che si ritroverebbero presi in mezzo tra Isis da un lato e Fronte Nazionale dall’altro. Girano sui social media afghani filmati che mostrano combattenti panshjiri ben armati ed equipaggiati, anch’essi rafforzati da militari delle ex forze regolari che si erano uniti al Fronte all’indomani della caduta di Kabul. Nulla di tutto ciò rischia di far cadere militarmente l’emirato, ma insuccessi anche parziali intaccherebbero la solidità e la percezione pubblica di un movimento già in oggettiva difficoltà per la situazione economica nella quale si trova il Paese ed il diffuso malcontento di una popolazione tenuta a freno dal timore di rappresaglie. Le prossime settimane ci diranno se il Fronte è pronto ad intraprendere una significativa offensiva militare anti-talebana come sostengono alcuni dei suoi aderenti. Accanto alla crisi umanitaria che ha colpito il Paese e al dibattito sulle restrizioni imposte alla popolazione femminile, molto altro si muove in Afghanistan. Ciò che sta avvenendo era largamente prevedibile e previsto. Percepire il lontano Afghanistan attraverso il solo prisma umanitario e sociale sarebbe un altro errore.