Gentile Ministra, “un uomo solo al comando” delle carceri non basta di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2022 La giustizia penale è “regina” delle trasmissioni televisive e al centro dei programmi politici di tutti gli schieramenti, il carcere molto meno: per questo diventa sempre più importante che chi questa realtà la conosce bene da dentro aiuti a riflettere sul fatto che il processo, la condanna, la galera, il male a cui si risponde con altrettanto male non ci rendono più sicuri né sono in grado di arginare e contrastare il disagio e la sofferenza sociale. Gentile Ministra, vista la complessità dei temi riguardanti le pene, il carcere, le misure di comunità, e l’intenzione, più volte espressa da Lei, di riformare profondamente le carceri e tutto il sistema dell’esecuzione penale, vorremmo con insistenza e pazienza presentare una sintesi delle proposte del Terzo Settore e le riflessioni da cui si sviluppano, a partire dalla consapevolezza che la privazione della libertà in carcere è di per sé una condizione innaturale che produce sofferenza, alienazione, isolamento. Si tratta, quindi, di lavorare per ridurne i danni là dove non se ne può proprio fare a meno. In considerazione del fatto che a breve verrà nominato un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ci permettiamo anche di dire che, in una situazione complessa e disgregata come quella attuale, non basta “un uomo solo al comando”: bisognerebbe davvero avere il coraggio di costituire una task force, con competenze differenziate, organizzative e relative alla sicurezza, pedagogiche per la centralità della rieducazione, e di tutela dei diritti, perché oggi bisogna ripartire da dignità e diritti. Per questi compiti servono persone che abbiano maturato una lunga esperienza che le abbia portate a conoscere a fondo il mondo del carcere, che siano appassionate del proprio lavoro, che credano veramente che le persone detenute possono cambiare e che abbiano una spiccata propensione alla collaborazione e valorizzazione di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nella complessa realtà dell’esecuzione penale. - La nostra proposta principale riguarda la costituzione di un gruppo di lavoro operativo, di cui facciano parte esponenti delle esperienze storiche e significative delle cooperative sociali e del volontariato, che in questi anni si sono distinte per le attività svolte tanto all’interno degli istituti penitenziari quanto nell’area penale esterna. Servono un dialogo e un confronto stabili con i referenti del DAP, proprio per non sprecare le competenze consolidate sul campo, ma per metterle a disposizione dell’Amministrazione e delle altre realtà coinvolte, con cui co-programmare e co-progettare i progetti di reinserimento delle persone detenute. È una sfida che ci sentiamo di affrontare perché ci sono temi, che il Terzo Settore ha portato avanti negli anni, che hanno permesso di costituire un patrimonio di conoscenze, che se non adeguatamente condiviso rischia di andare disperso. Elenchiamo di seguito solo alcuni temi su cui il Terzo Settore lavora da anni e che potrebbero costituire il primo terreno di confronto e condivisione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Ministero della Giustizia. 1. Affrontare la tematica del lavoro in carcere e fuori, valorizzando il patrimonio di esperienza sviluppato dalle cooperative attive nel territorio e capaci di portare all’interno delle carceri attività lavorative, che hanno tutte le caratteristiche del lavoro vero, qualificato, risocializzante. Attività lavorative che vanno modulate insieme a occasioni di istruzione in collegamento con la scuola, di crescita culturale, di cura della mente e del corpo, fondamentali per la responsabilizzazione delle persone detenute. In carcere quindi serve più lavoro “formativo”, servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire con i primi permessi. Ma serve anche mettere a fuoco la funzione, le finalità e il senso dei lavori di pubblica utilità rispetto alla natura e al valore del lavoro retribuito. 2. Co-progettare un piano per una formazione congiunta tra operatori dell’Amministrazione Penitenziaria (agenti di polizia penitenziaria, personale dell’area pedagogica, personale amministrativo), magistratura di sorveglianza, istituzioni quali quella scolastica e sanitaria, e Terzo Settore con il duplice obiettivo, da un lato di promuovere una maggiore conoscenza reciproca utile ad abbattere i pregiudizi, dall’altro di sviluppare le diverse competenze arricchite dalla pluralità degli sguardi. La formazione e la ricerca congiunte sono fondamentali anche per ripensare i percorsi rieducativi individualizzati, basati sulla continuità delle proposte educative, sul confronto con la società esterna, sul graduale reinserimento nella comunità. 3. Sviluppare tutte le iniziative per sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia come le videochiamate e Skype, e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. 4. Mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute: è infatti dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Sono esperienze importanti per promuovere la cultura della mediazione anche nella gestione dei conflitti all’interno delle carceri e avviare su questi temi percorsi innovativi, con il sostegno di mediatori penali professionali, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. 5. Valorizzare l’esperienza dei progetti di confronto con le scuole che hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti in incontri con le persone detenute, sottolineando il ruolo delle narrazioni nei loro percorsi rieducativi. Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. E non meno significativi sono gli incontri con vittime di reati, famigliari delle persone detenute, operatori della Giustizia. 6. Mettere in rete gli Sportelli di Orientamento Giuridico e Segretariato Sociale, di modo che le competenze e le buone prassi su materie complesse come la residenza, le pensioni, i documenti di identità diventino patrimonio di tutti. 7. Porre mano alla questione dell’accoglienza in strutture abitative, senza la quale si rischia di sprecare le opportunità lavorative esterne e la possibilità di usufruire di misure di comunità. 8. Riformare gli art. 17 dell’Ordinamento penitenziario e 118 e 120 del Regolamento, per consentire un reale coinvolgimento del volontariato anche nell’esecuzione penale esterna e rimuovere gli ostacoli legislativi alla sua crescita e alla collaborazione con UEPE/UIEPE. 9. Mettere a disposizione del DAP le risorse del Terzo Settore nell’ambito dell’Informazione e della Comunicazione. Sono tante da questo punto di vista le esperienze concrete, dalla Rassegna Stampa quotidiana di Ristretti Orizzonti, di cui usufruiscono tantissimi operatori della Giustizia, ai seminari di formazione per giornalisti, realizzati in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti in alcune carceri, ai Festival della Comunicazione dal carcere e sul carcere, organizzati dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia con interventi dei massimi esperti in materia. 10. Le tecnologie possono essere anche uno straordinario strumento per promuovere un confronto continuo tra gli istituti penitenziari sull’organizzazione della vita detentiva, che deve diventare un momento stabile di verifica di quello che si può e si deve fare per avviare un cambiamento significativo dell’esecuzione delle pene. Pensare di cambiare alcune norme non basta però, sono le persone che quelle norme le hanno applicate e le dovranno applicare che prima di tutto devono mettere in discussione il loro modo di porsi di fronte alla realtà nella quale vivono e operano, partendo da un’analisi seria dei motivi che in questi anni hanno paralizzato le necessarie riforme, fra i quali quell’assenza di efficaci strumenti di controllo, che ha permesso che un Ordinamento, che ha più di quarant’anni, sia in buona parte ancora disatteso. Siamo certi che sia fondamentale l’esistenza di uno spazio strutturato, in cui i rappresentanti del Terzo Settore possano mettere a frutto decenni di conoscenza sul campo in un confronto continuo con il DAP, coinvolgendo anche nuove rappresentanze delle persone detenute, finalmente elette e non estratte a sorte, proposta questa avanzata da noi da tempo e ora ripresa e sostenuta dalla Commissione per l’innovazione dell’esecuzione penale. Questo permetterebbe finalmente che le sperimentazioni ed innovazioni introdotte in certi istituti abbiano una positiva ricaduta in tutte le realtà detentive, superando finalmente la divisione tra istituti “con vocazione trattamentale” e istituti con pochissime attività, e spesso più di “intrattenimento” che di reale valore rieducativo. Forte è la richiesta che lei, gentile Ministra, metta in atto ogni sforzo per migliorare in modo sostanziale la vita detentiva a partire da ciò che può essere fatto immediatamente per via amministrativa (per esempio rendendo estesa in tempi e orari la possibilità di telefonare e/o videochiamare i propri famigliari, anche per chi non lavora e non ha risorse personali). Ma per mettere mano a una riforma delle carceri servirebbe subito un provvedimento urgente di concessione di liberazione anticipata speciale, anche per compensare le enormi difficoltà e sofferenze a cui la popolazione detenuta è stata sottoposta dall’inizio della pandemia. Se si pensasse a una liberazione anticipata speciale, un giorno di libertà restituito per ogni giorno vissuto nel carcere della pandemia, nel carcere dell’assenza di rieducazione, i numeri del sovraffollamento scenderebbero in modo significativo, e se poi si facesse ogni sforzo per accelerare le assunzioni di personale educativo e di direttori, allora si potrebbe davvero cominciare a “rivoluzionare” un sistema, che è immerso in una crisi sempre più profonda. La forza delle nostre proposte discende dal contatto quotidiano che abbiamo con le persone detenute e la loro sofferenza, e non esclude nessuno, neanche i mafiosi, neanche le persone ritenute da quasi tutti, ma non dalla Costituzione, “cattivi per sempre”. La forza discende anche dal desiderio di collaborare a dar loro delle risposte, e da tutta la passione ed il coinvolgimento, che in ciascuno di noi continuano a vivere e a spingerci a mettere a disposizione idee ed energie per cambiare una realtà complessa come quella del carcere. È una sfida quotidiana in cui non c’è niente di scontato e dove le vere soluzioni sono principalmente nelle mani delle persone e della loro capacità di lavorare insieme, moltiplicando così il valore del contributo di ognuno. Cogliamo l’occasione per dare la nostra disponibilità ad approfondire con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il tema del rapporto tra istituzione penitenziaria e Terzo Settore, un tema che può essere davvero importante e innovativo, e a tal fine ci impegniamo a coinvolgere nel dibattito di approfondimento esperti del Terzo Settore di levatura altissima come i professori Stefano Zamagni, Luca Antonini, Giuliano Amato. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Cartabia rilancia: “Anche un solo bambino in cella è troppo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 febbraio 2022 “Quando dentro il carcere ci sono minorenni, le domande si fanno più brucianti e non possono trovare una risposta soddisfacente nella logica “chi sbaglia, paga”“. Così ha esordito la ministra della Giustizia Marta Cartabia nel corso dell’audizione davanti alla Commissione per l’infanzia e l’adolescenza. Ha affrontato anche l’annosa questione dei bambini dietro le sbarre. “I numeri sono bassi, 15 madri e 16 bambini”, ma - ha aggiunto la guardasigilli “lo sforzo di trovare situazioni alternative è prioritario e tante possibilità stanno maturando, perché non ci siano più bambini in carcere. Le difficoltà in questo settore sono più significative e ingombranti di quanto non si possa immaginare”. “Fortunatamente - ha chiarito il ministro - il numero delle madri con figli in carcere in tutta Italia è in forte diminuzione: oggi è quasi un terzo rispetto al 31 dicembre 2019, quando c’erano 44 madri con 48 minori”, ha concluso la ministra. Un confronto, quello della ministra con la commissione, volto alla sfida che la Cartabia stessa definisce “più drammatica e delicata per la giustizia penale: quella della vita dei minorenni, a volte ragazzini o bimbi di tenera età, che incontrano l’esperienza del carcere”. Per quanto riguarda i dati delle detenute con figli, al 16 febbraio risultano in carico 15 madri detenute, con 16 figli in totale al seguito. Di queste madri (5 italiane, 10 straniere), 5 sono ancora imputate. La maggior parte delle madri con figli (9) è ospite dell’Istituto a custodia attenuata per madri (gli Icam previsti dalla legge n. 62 del 2011) a Lauro, in provincia di Avellino. Due madri sono nell’Icam milanese di San Vittore, altre due in quello di Torino, una nell’Icam di Venezia Giudecca, mentre in questo momento non ci sono madri con figli nell’Icam di Cagliari. Un’altra donna con il suo bambino sta invece scontando la sua pena col figlio nella casa circondariale di Reggio Calabria. La ministra Cartabia, in merito all’Icam di Lauro, sottolinea che gli spazi, anche con il contributo dell’Università Federico II di Napoli, sono stati ristrutturati, con la realizzazione di bilocali che simulino il più possibile un ambiente familiare e riducano il trauma di anni trascorsi in una casa di reclusione. I numeri sono esigui rispetto al passato, ma la guardasigilli ha tenuto a ribadire che anche un solo bambino costretto a vivere ristretto è di troppo. In questi mesi, la ministra ha rivelato che si è data da fare per trovare delle soluzioni adeguate ai profili di ciascuna madre detenuta con figli, ciascuna delle quali ha una situazione particolare alle spalle ed esigenze specifiche che talora la può portare addirittura a preferire la detenzione. “Nella ricerca di soluzioni alternative, sono di grande aiuto le risorse che ci vengono offerte generosamente dal terzo settore”, ha sottolineato la guardasigilli. In merito a ciò, ha fatto l’esempio che grazie alla disponibilità della Comunità Giovanni XXIII, il tribunale di sorveglianza di Bologna ha permesso ad una donna di continuare a scontare al di fuori dell’istituto la sua pena, ricongiungendosi con i suoi figli. Resta però un altro dato, che la ministra ha voluto sottolineare. “Non di rado ci sono madri che preferiscono restare all’interno degli istituti di pena. Preferiscono cioè non uscire, o non sono nelle condizioni di uscire, anche se la legge loro consentirebbe di scontare altrove la pena residua, perché vedono nel carcere un rifugio, una protezione”, ha spiegato la guardasigilli. Un dato su cui riflettere molto. La ministra ha anche sottolineato come negli istituti penali per i minorenni fino al dicembre 2021 si sono registrati 815 ingressi. Un “lieve aumento” rispetto all’anno precedente, il commento della guardasigilli, in audizione in Commissione infanzia. Il numero dei minorenni e giovani adulti presi in carico dagli uffici di servizio sociale per i minorenni ha raggiunto, al 31 dicembre 2021, le 20.748 unità - è uno dei dati forniti dalla ministra alla Commissione - ma la netta maggioranza dei minori autori di reato in carico ai servizi minorili è sottoposta a misure che vengono eseguite in area penale esterna. Nei centri di prima accoglienza, nell’anno appena trascorso, gli ingressi sono stati pari a 561. Mentre nelle Comunità, sia ministeriali che soprattutto private, i collocamenti effettuati nell’arco temporale di riferimento sono stati 1.480. Cartabia: mai più bambini in carcere. Ma è allarme per le baby gang di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 18 febbraio 2022 Cala il numero delle mamme detenute che hanno i figli con sé in carcere. Attualmente sono 15, con 16 piccoli. La chiameremo Maria, anche se non è il suo vero nome. Quando stringe a sé il suo bambino, per un attimo dimentica di stare in un carcere. Dura poco però, perché le porte di ferro, le sbarre alle finestre e tutto il resto le rammentano subito, impietosamente, la propria condizione di detenuta-mamma. Sconta la pena nella casa circondariale di Reggio Calabria, “dunque, non in una struttura protetta, come purtroppo talora per varie ragioni succede”, spiega la Guardasigilli Marta Cartabia, ascoltata ieri mattina dalla Commissione parlamentare per l’Infanzia, alla quale ha fornito dati e valutazioni sulla situazione delle detenute insieme alla prole e sulla giustizia minorile. “La nostra meta ideale è: mai più bambini in carcere”, auspica la ministra, convinta che “occuparsi delle detenute madri vuol dire occuparsi dei bambini innocenti che, loro malgrado, sono costretti a conoscere e sperimentare il carcere. Reclusi loro stessi, insieme alle madri”. Cifre in calo. In Italia il numero delle madri con figli in carcere è “in forte diminuzione”, un terzo di quello registrato nel 2019, “quando c’erano 44 madri con 48 minori”. Attualmente si contano “15 madri detenute” (5 italiane, 10 straniere) “con 16 figli in totale al seguito”. Fra loro, “5 sono ancora imputate”, in attesa di un giudizio definitivo. Fra le strutture, quella che ne ospita di più, 9, è l’Istituto a custodia attenuata per madri (Icam) a Lauro, in provincia di Avellino. Un edificio moderno, dove - anche col contributo dell’Università Federico II di Napoli - gli spazi interni sono stati ristrutturati e trasformati in “bilocali” che “simulino il più possibile un ambiente familiare” e aiutino a ridurre “il trauma di anni trascorsi in una casa di reclusione”. Due mamme recluse si trovano nell’Icam milanese di San Vittore; altre due in quello di Torino, una nell’Icam di Venezia Giudecca. Mentre nel quinto istituto italiano a custodia attenuata, a Cagliari, al momento non ci sono madri con figli. La condizione di quelle quindici donne e dei loro bambini sta a cuore alla ministra: “Sento moltissimo il peso della responsabilità per quello che riusciamo o che non riusciamo a fare in quest’ambito”, in cui “le difficoltà sono più significative e ingombranti di quanto si possa immaginare”. Le fa eco la presidente della commissione parlamentare Licia Ronzulli: “Ci sono ancora troppi bambini senza colpa costretti a crescere dietro le sbarre - afferma -. Minori senza un padre che trascorrono l’infanzia in un contesto opposto a quello in cui ogni bambino dovrebbe crescere”. Giovani autori di reati. Secondo i dati del ministero di via Arenula, alla data del 31 dicembre scorso, erano 20.748 “i minorenni e giovani adulti presi in carico dagli uffici di servizio sociale per minori”, in gran parte sottoposti a misure eseguite in area penale esterna. Alla stessa data, negli istituti penali per minori si sono registrati 815 ingressi, con una crescita rispetto all’anno precedente. Ancora, “nei centri di prima Accoglienza, nel 2021, gli ingressi sono stati pari a 561”, mentre nello stesso periodo “nelle comunità, sia ministeriali che private, i collocamenti sono stati 1.480”. Baby manovali di camorra. Cartabia riferisce di “minori usati come manovalanza della criminalità organizzata, a cominciare dalla camorra”. E poi ci sono adolescenti “talvolta protagonisti dell’altrettanto preoccupante fenomeno delle cosiddette baby gang”. Un allarme che rafforza quelli lanciati da diverse Corti d’Appello durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Furti, rapine e droga. Fra i reati commessi da minori, i più frequenti sono quelli contro il patrimonio (1.007 casi nell’ultimo anno, soprattutto furti e rapine), ma spiccano pure le violazioni delle norme sulle sostanze stupefacenti (208 casi) e le lesioni personali volontarie (177). La “messa alla prova”. La prassi mostra come, per contrastare la devianza minorile, una risposta “altamente efficace” sia rappresentata dall’esperienza della messa alla prova. Dati alla mano, “l’83,55% dei provvedimenti definiti in sede processuale fra il 2007 e il 2020 ha avuto un esito positivo”, fa sapere la ministra, ritenendo che “la migliore strada è sempre quella di mostrare un’alternativa solida, concreta, affidabile rispetto al percorso del crimine”. I fatti mostrano, ammonisce Cartabia, che “chi nasce in un contesto mafioso non è ineluttabilmente condannato a un’eredità criminale”. Spetta, prosegue la Guardasigilli, “a noi adulti, alla scuola e a tutti gli educatori, spezzare un presunto destino di devianza”, offrendo a ogni ragazzo “una proposta alternativa alla seduzione della criminalità” e favorendo sempre più il “dialogo tra il mondo della giustizia e quello della formazione scolastica”. Cosa sono gli Icam? - Si chiamano Icam: sono gli Istituti a custodia attenuata per madri detenute. Sono strutture costituite in via sperimentale nel 2006 per consentire alle donne che devono scontare una pena e che non possono usufruire di alternative alla detenzione in carcere, di tenere con sé i loro figli. L’ordinamento penitenziario italiano prevede che le madri detenute con prole inferiore ai sei anni debbano infatti usufruire di trattamenti alternativi alla detenzione. La lunga strada di una riforma davvero innovativa della detenzione di Oscar La Rosa* Il Dubbio, 18 febbraio 2022 Il lavoro rende liberi? Ogni venerdì. a partire da oggi, ospiteremo questa rubrica che vuole essere un viaggio per far comprendere l’importanza della cosiddetta economia carceraria. Che impatto ha sulla società, oltre a professionalizzare i detenuti e avviarli al lavoro? Paolo Strano e Oscar La Rosa sono i creatori del primo Festival Nazionale dell’Economia Carceraria, tenutasi nel 2018, per promuovere la collaborazione tra cooperative e imprese che investono all’interno delle carceri assumendo persone in esecuzione penale. Da lì, è nato il progetto “Economia carceraria” che riunisce tutte le esperienze attive nella creazione di laboratori e simulatori d’impresa con soggetti posti in reclusione. Per capirne l’importanza, bisogna partire dall’inizio. Molto prima della nascita del carcere secondo la visione illuministica. Oscar La Rosa, tra i fondatori dell’Economia Carceraria, ogni venerdì ci accompagnerà in questo lungo viaggio. Certo, la frase è forte, e nonostante il punto interrogativo il nostro ricordo va alle pagine più buie della nostra storia umana. Eppure sotto molti aspetti è proprio così, l’etica del lavoro ha plasmato la nostra società, attraverso il lavoro sosteniamo la nostra esistenza, definiamo noi stessi, i nostri valori e la percezione degli altri e del mondo che ci circonda. Le prime informazioni che diamo di noi stessi sono nome, cognome e professione. Il lavoro ci consente di occupare una posizione nella società, non importa in quale grado o in quale classe sociale. Il lavoro permette a ognuno di concorrere al progresso materiale e spirituale della società. Nulla, più di questo, emancipa, libera e nobilita l’uomo e difende la sua onorabilità. Quello che fa male nella frase scelta come titolo è stata la bugia racchiusa nei posti che nessuno vorrebbe che mai esistessero. Si varcava un cancello con l’ultima speranza che il lavoro rendesse liberi, invece l’unica libertà veniva donata dalla morte. Negli ultimi anni si è tornati ad accostare il termine “lavoro” in un luogo che per definizione non ammette libertà: il carcere. Sono sempre di più gli studi che promuovono riflessioni sull’importanza del lavoro in carcere e analizzano dati sulle correlazioni tra opportunità di lavoro e recidiva. In molti vedono la possibilità per il detenuto di lavorare come uno strumento concreto per abbattere recidiva e garantire sicurezza sociale. Tanti altri, condannano gli sforzi dello Stato o della società civile a garantire un posto di lavoro per il detenuto in quanto eticamente sbagliato nei confronti di coloro che nonostante le difficoltà economiche non hanno macchiato la propria fedina penale. Altri ancora, guardano al lavoro in carcere come a una forma di sfruttamento del detenuto, il quale deve essere condannato solamente alla privazione della libertà e non a svolgere (obbligatoriamente o su forte raccomandazione al fine di ottenere benefici) un determinato lavoro. Come si può immaginare il tema è complesso ed ogni fenomeno sociale è figlio del tempo in cui si vive. Le parole “lavoro” e “carcere” ultimamente sono tornate ad essere lette insieme ma in verità il loro legame è antico quasi quanto la storia dell’uomo e per intraprendere la strada giusta da percorrere, auspicando una riforma veramente innovativa sulla vita detentiva, è importante conoscere la strada percorsa. Ringrazio la redazione de Il Dubbio per l’ospitalità concessa e sarà mio impegno accompagnarvi in un viaggio che possa offrire vari punti di vista sulla tema del lavoro in carcere. *Founder Economia Carceraria Mafia, carcere e diritti: la legge che ci aspettiamo dal Parlamento di Giuseppe Pignatone La Stampa, 18 febbraio 2022 Con la sentenza depositata il 24 gennaio la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma che prevede, per i detenuti sottoposti al 41 bis, il regime speciale che l’ordinamento penitenziario riserva ai condannati per reati di mafia giudicati particolarmente pericolosi, il controllo sulla corrispondenza indirizzata ai difensori. La disposizione, argomentano i giudici, va abolita perché incide in modo grave e ingiustificato sul diritto di difesa. Osservazione del tutto condivisibile, tanto che la norma ora dichiarata incostituzionale è già di fatto disapplicata dal 2017, su indicazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La Corte riconosce che “non può escludersi in assoluto che ordini e istruzioni possono essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione del difensore” - ma giudica tuttavia inaccettabile “una generale, insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale”. Insomma, è vero, come risulta da indagini e processi anche recenti, che singoli episodi di complicità con i difensori si sono effettivamente verificati (e vanno perseguiti con assoluto rigore), ma essi non giustificano la limitazione generalizzata del diritto di difesa di un’intera categoria di detenuti. Né è possibile, come aggiunge la Corte con una nota di grande rilievo, “gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. Con questa sentenza la Corte continua la sua opera di rivisitazione e di “riduzione”, se così si può dire, delle norme che regolano in modo differenziato il trattamento penitenziario dei detenuti per reati di mafia, come è già avvenuto per alcune modalità di attuazione del regime del 41 bis e per i permessi premio (vedi “Perché dare quei benefici e mafiosi”, su questo giornale, 12 ottobre 2020). Alla base di questo percorso di rivisitazione, che modifica l’orientamento espresso in passato dalla stessa Corte, c’è il giudizio di illegittimità costituzionale della presunzione assoluta, che cioè non ammette prova contraria, della persistenza dei collegamenti tra il detenuto e le organizzazioni criminali e, di conseguenza, della sua immutata pericolosità, ostativa dell’accesso ai benefici. Si tratta di una presunzione che trova solide basi in centinaia di processi per reati di mafia, che hanno dimostrato che non si può uscire dall’organizzazione se non iniziando a collaborare con le Autorità dello Stato. Ma ogni regola, osserva la Corte, ha le sue eccezioni e l’impossibilità di superare questa presunzione non è più accettabile alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza italiana e comunitaria. Evoluzione cui non sono estranee anche la mutata sensibilità sociale e l’attenuata percezione di allarme a trent’anni dalle stragi del 1992/1993. Tutto ciò non significa, come invece sostengono alcuni commentatori, che oggi le mafie, sempre più tese a inserirsi nell’economia legale e ad usare la corruzione piuttosto che la violenza, siano meno pericolose di prima. Violenza e sopraffazione sono infatti nel loro DNA e le indagini svolte in tutta Italia dimostrano che la loro pratica è tuttora diffusa, sia pure con grande attenzione ad evitare gli omicidi e, in generale, i fatti più eclatanti. Per un altro verso è evidente che il rischio maggiore è quello di un ritorno sul territorio dei grandi boss, già condannati all’ergastolo, che abbiano mantenuto i contatti con la loro organizzazione e siano pronti a riprenderne il comando. Di questo rischio si è dimostrata ben consapevole la stessa Consulta con l’ordinanza numero 97 dell’11 maggio 2021 (certamente la più importante in materia) sulla illegittimità costituzionale della disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo, cioè quello che - basandosi proprio sulla presunzione assoluta di pericolosità - ha finora precluso ogni possibilità di liberazione anticipata. La Corte ha infatti lasciato al Parlamento un anno di tempo per porre in essere “gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Il legislatore ha dunque tempo fino all’11 maggio per emanare una nuova legge. Con l’augurio, espresso di recente dal Procuratore Generale presso la Cassazione, Giovanni Salvi, che essa “conservi i principi fondamentali che la Corte stessa ha indicato: la collaborazione resta la strada principale di prova della cesura dei rapporti con l’organizzazione mafiosa e tale prova non può essere limitata alla buona condotta nel carcere, ma estesa alla insussistenza effettiva di quei rapporti e alla impossibilità che possano essere ripristinati”. Una legge seria e rigorosa, quindi, che non tolga la speranza di una vita diversa, ma che eviti di tornare indietro di trent’anni. Referendum giustizia, scontro sull’election day di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 18 febbraio 2022 Dopo la Corte costituzionale. Salvini spinge per l’abbinamento con le amministrative di primavera. Può aiutare a raggiungere il quorum le consultazioni abrogative rimaste in piedi, ma non è una garanzia. Il governo è contrario. E potrebbe spingere per cambiare la riforma Cartabia e far cadere tre quesiti su cinque. Niente di meglio di una campagna elettorale per provare a risollevarsi. Matteo Salvini sente il richiamo della propaganda e prova a buttarsi alle spalle i fallimenti del Quirinale, i problemi nella Lega e la competizione a destra con Giorgia Meloni dalla quale secondo i sondaggi sta uscendo perdente. Non ha titolo per intestarsi la battaglia referendaria: Lega e radicali all’ultimo momento hanno scelto di non depositare le firme raccolte per sostenere i quesiti sulla giustizia, così che mai si saprà se le sottoscrizioni necessarie c’erano o no. Gli unici promotori dei cinque referendum salvati dalla Corte costituzionale sono i consigli regionali a maggioranza di centrodestra che hanno formalmente presentato i referendum (e sostenuto le spese legali). Ma Salvini mercoledì sera si è piazzato davanti alla Corte costituzionale per farsi riprendere dalle telecamere e ieri ha convocato i radicali nel suo studio al senato, dichiarando ufficialmente aperta la campagna per cinque Sì. Con la quale spaccherà la maggioranza. Il primo obiettivo, condiviso con Forza Italia, è quello di ottenere l’election day: far votare i referendum assieme alle amministrative previste nella prossima primavera. Storia vecchia: da anni i sostenitori del Sì - dei più diversi Sì - spingono per abbinare i referendum a qualunque tipo di elezione, in modo da limitare quella che è diventata la prima avversaria dei quesiti abrogativi: l’astensione. I referendum abrogativi prevedono infatti un quorum di validità (il 50% più uno degli elettori) che è ormai un ostacolo impegnativo. Proprio per questo, per non falsare il risultato, non è previsto alcun obbligo di abbinamento dei referendum abrogativi con le elezioni, non nella legge cosiddetta sull’election day, introdotta per far risparmiare un po’ lo stato e i comuni. Ma non c’è neanche un divieto esplicito, anche se l’unico precedente di abbinamento tra amministrative e referendum abrogativo (2009) non è ben augurante perché non servì a raggiungere il quorum. Ciò non ostante è questa la prima battaglia di Salvini e di Forza Italia: ottenere l’election day, ufficialmente in nome del risparmio economico garantito (conteggiato, non si sa come, in 200 milioni. Il primo orientamento del governo - che per decreto dovrà fissare la data dei referendum tra il 15 aprile e il 15 maggio - non è favorevole. Perché Draghi spera di evitare almeno due referendum (forse tre, vedremo) approvando le riforme dell’ordinamento giudiziario. Serve quindi spostare le consultazioni referendarie il più avanti possibile, mentre il voto per le amministrative è in calendario al più tardi il 5 giugno. Anche in quel caso c’è un problema di affluenza, nelle città che tornano al voto il trend è al ribasso da anni (a Genova nel 2017 l’affluenza fu del 48% al primo turno e del 42% al secondo), neanche l’abbinamento dunque può dare garanzie che i referendum aggancino il quorum. Anche perché sulla partecipazione peserà il fatto che la Corte costituzionale ha tolto di mezzo i tre referendum universalmente riconosciuti come i più popolari: eutanasia, cannabis e anche responsabilità civile diretta dei magistrati. Peggio ancora per l’affluenza sarà se il parlamento dovesse riuscire ad approvare la riforma Cartabia. In quel caso la Cassazione dovrà dichiarare decaduti sicuramente due quesiti: quello che prevede il voto degli avvocati nelle valutazioni di professionalità delle toghe (ora prevista negli emendamenti governativi) e quello che abolisce le firme per la presentazione delle candidature al Csm (ora eliminate). Ma è prevedibile che tra le forze di maggioranza, durante la discussione del disegno di legge di riforma, si farà sentire chi spinge per una più netta separazione delle funzioni. Oggi all’interno di una stessa carriera sono possibili quattro cambi tra le funzioni di giudice e di pm mentre per la riforma si dovrebbe scendere a due. C’è già un emendamento di Forza Italia che vuole ridurre il passaggio a uno, a inizio della carriera, qualcosa di molto simile all’obiettivo del referendum. Non è escluso che il Pd possa preferire una soluzione del genere, parlamentare, al rischio di dover affrontare un referendum con il partito spaccato tra sostenitori del No e del Sì. Se andasse così, resterebbero in piedi assai depotenziati solo due quesiti sulla giustizia, che guarda caso proprio i due di fronte ai quali la destra si dividerà, visto che Meloni ha annunciato il No di Fratelli d’Italia alla cancellazione della legge Severino e alla limitazione della custodia cautelare. Due quesiti, peraltro, che metterebbero a rischio l’immagine legge e ordine di Salvini. C’è però un ostacolo rispetto a questa possibile soluzione ed è quello del ritardo del parlamento. Che è rimasto mesi in attesa del governo e anche adesso che gli emendamenti Cartabia sono stati annunciati in conferenza stampa ancora non li ha visti depositati in commissione alla camera. Ieri l’esame del disegno di legge delega su Csm e ordinamento penale è per questo motivo ancora slittato. L’ipotesi che Draghi debba rimangiarsi la promessa di non mettere la fiducia sul provvedimento, almeno in seconda lettura al senato, si fa sempre più concreta. Referendum giustizia, toghe sulle barricate: “A rischio la nostra indipendenza” di Simona Musco Il Dubbio, 18 febbraio 2022 A 24 ore dalla decisione della Consulta di ammettere cinque quesiti referendari sulla giustizia, le toghe si ricompattano e si schierano a difesa dell’ordine giudiziario, vittima, sostengono, di un attacco che mira alla delegittimazione. Attacco all’indipendenza della magistratura, provocazione, dilettantismo. A 24 ore dalla decisione della Consulta di ammettere cinque quesiti referendari sulla giustizia, le toghe si ricompattano e si schierano a difesa dell’ordine giudiziario, vittima, sostengono, di un attacco che mira alla delegittimazione. E questa volta l’appartenenza correntizia non crea divisioni: sulle barricate ci stanno proprio tutti, da destra a sinistra. Un atteggiamento che riporta alla memoria la battaglia intrapresa dalla magistratura contro la riforma costituzionale disegnata da Matteo Renzi, definita “autoritaria”, tanto da mettere a rischio “l’architettura democratica della Repubblica”. Anche all’epoca, a rischio ci sarebbe stata l’indipendenza della magistratura. Secondo Md, che aveva deciso di aderire al “Comitato per il no” al referendum, la riforma avrebbero ridotto i componenti di nomina parlamentare di Consulta e Csm a “espressione della sola maggioranza, qualunque essa sia”, determinando con ciò una “pericolosa involuzione” dell’assetto democratico del paese. Nulla di nuovo sotto al sole, dunque. Anche oggi a preoccupare è il passo in avanti della politica, che si libererebbe da un lato di uno dei gioghi più pesanti, la legge Severino, aumentando dall’altro il proprio potere sui magistrati. A lanciare la sfida, ieri, è stato Armando Spataro, ex procuratore di Torino, secondo cui è il momento di porre fine a “questa persecuzione dei pm come unici responsabili dei mali della giustizia”. Un’affermazione, la sua, che è anche un appello agli ex colleghi e alla società civile, ai quali chiede “un forte impegno a favore del “no” alla loro approvazione in modo particolare sulla separazione delle carriere”. A condividere la sua posizione anche l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, che al Dubbio spiega le ragioni del suo no. A partire dal quesito sulla separazione delle funzioni, definito “una “provocazione”“, data la sua complessità, 1500 parole che rappresentano “un astruso ginepraio di ostica lettura e comprensione persino per gli “specialisti”“. Ma al netto della difficoltà interpretativa, separare le funzioni “è quanto meno l’anticamera della dipendenza del pm dal potere esecutivo”. Una politica, quella italiana, macchiata “da vicende oscure” più che altrove, insomma: un po’ come mettere “la volpe dentro al pollaio”. Ma a rischio ci sarebbe anche la sicurezza: se passasse il referendum sulle misure cautelari, con l’esclusione dai requisiti del pericolo di reiterazione del reato, gli autori di gravi delitti, come gli stalker e i truffatori di anziani, sarebbero liberi di circolare. L’abrogazione della legge Severino, sostiene, rappresenta una “pubblicità ingannevole”, con ricadute pesanti sugli organi democratici. E poco importa se è stato un altro magistrato - Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia - a dire che quella legge, nata per “ragioni di demagogia politica”, confligge con la Costituzione, “che stabilisce la presunzione di innocenza, dato che è applicabile anche alle sentenze che non sono passate in giudicato”. Caselli non risparmia nemmeno il quesito sulle candidature “libere” al Csm, ovvero senza più l’obbligo di raccogliere le firme, con lo scopo di eliminare il correntismo. Una proposta ambiziosa, non fosse che rappresenta “la sagra dei dilettanti”: insomma, non è certo questo il modo per eliminare le correnti, sostiene l’ex procuratore, che apre uno spiraglio al diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari, purché gli stessi si sospendano dall’attività professionale, per evitare “conflitti” e “sospetti”. Un punto di vista diverso quello di Paolo Borgna, ex procuratore reggente a Torino, secondo cui “i magistrati hanno bisogno di essere valutati da altri. Trovo che sia un modo di evitare che la loro sacrosanta indipendenza, che è sempre da difendere, si trasformi in separatezza dalla società”. L’unico sospiro di sollievo, per le toghe, è l’inammissibilità del quesito sulla responsabilità diretta, definito dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, una sorta di “intimidazione”. Un concetto che ieri è stato ribadito dal segretario del sindacato delle toghe, Salvatore Casciaro, che a Radio 24 ha spiegato come “la responsabilità indiretta”, comune a tutti i Paesi europei, rappresenti una sufficiente “tutela del cittadino”. Chiedere il risarcimento direttamente al magistrato sarebbe invece una potenziale intimidazione: eliminare il “diaframma” rappresentato dallo Stato potrebbe determinare “situazioni di condizionamento del giudice”. Così come limitare il passaggio tra le funzioni - che riguarda attualmente solo il 3 per cento dei magistrati e che secondo Santalucia avvicina il pm al modello del giudice e non a quello del poliziotto - rischierebbe di impoverire la cultura della giurisdizione: l’osmosi, infatti, sarebbe “una fonte di arricchimento per il pubblico ministero, che partecipa in questo modo, anche a garanzia dei cittadini, alla cultura della giurisdizione”. Alcuni temi, inoltre, dovrebbero essere affrontati dalla politica, ha spiegato Casciaro, con “un’assunzione diretta di responsabilità nell’azione riformatrice”. Più o meno la stessa posizione di Angelo Piraino, segretario nazionale di Magistratura Indipendente, secondo cui il “fondamentale” strumento referendario ha comunque “dei limiti invalicabili, perché consente solo di abolire delle norme, non di riscriverle”. Compito, quest’ultimo, che spetta al Parlamento, “che è chiamato a dare delle risposte a quei cittadini, e sono tanti, che hanno firmato a sostegno dei quesiti dichiarati inammissibili”. Bene il dibattito, affinché i cittadini possano scegliere in maniera completa e compiuta, ma “è fondamentale - sostiene - comprendere che da alcune di queste scelte dipende l’indipendenza della magistratura, che non è un privilegio, ma una garanzia per tutti. Ogni cittadino ha il diritto a che il suo processo si svolga davanti a un magistrato che non sia soggetto a pressioni o condizionamenti, sia esterni che interni”. Per Mariarosaria Savaglio, segretaria nazionale di Unicost, i quesiti giudicati ammissibili pongono “una serie di problemi che impattano sulla coerenza dell’ordinamento giuridico”. A partire da quello sulle misure cautelari, che fa sorgere un problema “di tutela della collettività poiché, escludendo le esigenze cautelari di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio, tra l’altro, non solo in ordine alla custodia cautelare in carcere, ma per tutte le misure cautelari, si lascerebbero privi di tutela i cittadini vittime di reati che destano grave allarme sociale, pur non essendo commessi con armi e violenza”. No anche al diritto di voto degli avvocati sulla valutazione dei magistrati, dati i problemi di “terzietà e imparzialità del magistrato rispetto a soggetti che continuano a svolgere la professione, con il rischio di creare disparità di trattamento rispetto alle parti processuali, anche private, come ad esempio nel giudizio civile”. E non serve porre ulteriori limiti alla separazione delle funzioni, già oggi sufficienti, secondo Savaglio. “Separare in maniera ancora più netta le funzioni e depotenziare il principio di unicità della giurisdizione - conclude - costituirebbe solamente una diminuzione delle garanzie per il cittadino, poiché il pm è il primo filtro circa la fondatezza delle notizie di reato, non avendo alcun interesse a conseguire un risultato”. Insomma, la politica è avvertita. Referendum giustizia, la campagna pro o contro Salvini può essere un boomerang di Daniela Mainenti* Il Fatto Quotidiano, 18 febbraio 2022 Commentare a caldo la decisione della Corte costituzionale rischia di rappresentare una valutazione non governata dalla dovuta riflessione, purtuttavia la presa d’atto della decisione di ammettere alcuni dei sette referendum proposti dal Partito Radicale e dai consigli regionali guidati dal centrodestra, su iniziativa della Lega, necessariamente proietta il ragionamento alla fase successiva. Si tratta, questa, di un’ulteriore iniziativa referendaria promossa dalle assemblee legislative regionali, nel giro di pochi anni, caratterizzata da uno spirito di opposizione politica, investendo temi che si connotano per un tasso di politicità estremamente elevato. Infatti, è interessante osservare come i quesiti, rilevanti dal punto di vista politico e istituzionale come quelli ammessi, siano stati promossi dai Consigli regionali, e non attraverso la raccolta delle firme dei cittadini da parte dei comitati referendari. Questi, infatti, un tempo attori protagonisti nella materia elettorale, sono oggi in una fase di quiescenza seppure, come contraltare, la raccolta di firme abbia raggiunto un significativo successo sul fronte proprio dei quesiti dichiarati non ammissibili dalla Consulta. Tale uso del referendum abrogativo da parte delle Regioni mai era stato sperimentato prima. Si tratta di una dinamica appena accennata, il cui sviluppo è tutto da analizzare soprattutto con riferimento ai riflessi sul rapporto tra Stato e Regioni, che dispongono di un’arma assai potente. Cosa accadrebbe, ad esempio, se la prescrizione penale o altre contestate norme divenissero oggetto di una iniziativa referendaria delle Regioni? Si tratta di fenomeni in divenire il cui approdo non è ancora noto, ma che in futuro potrebbero colorare l’iniziativa referendaria regionale di sfumature inedite. D’altra parte, non è un caso che la palpabile delusione dei comitati promotori dei referendum su eutanasia e cannabis evidenziano, in buona sostanza, la tenuta della legge di risulta. I giudici costituzionali dovevano infatti pronunciarsi sull’approvazione di una eventuale legge, detta appunto “di risulta”, prevista dal nostro ordinamento. Sarebbe stato certamente auspicabile che, anche alla luce delle dichiarazioni avanzate dal presidente della Corte costituzionale sui social, il Collegio operasse a maglie larghe. Le maglie invece, purtroppo, sono state ben strette mostrando, ancora una volta, dalle stanze del potere, una scarsa fiducia nella democrazia mentre, al contrario, bisognerebbe comprendere che l’ammissione di tali referendum avrebbe rappresentato una chance affinché il Parlamento, finalmente, si mettesse a lavorare. Poiché però si trattava di temi che creano popolarità o impopolarità, come tutti i temi in cui c’è sostanza non si affrontano mai. Chiarite quindi le ragioni esclusivamente politiche che hanno originato i referendum ammessi dalla Corte, probabilmente una eccessiva avversione al futuro dibattito, nel senso di una campagna referendaria prevalentemente pro o contro Salvini, anche giocando sull’astensione, rischierebbe di rappresentare un boomerang per coloro vi si avventurassero. È chiaro che non votare per l’eutanasia rende più facile il mancato raggiungimento del quorum per cui, forse, a voler pensar male, pur nella difficoltà di voler interpretare i criteri che hanno governato le decisioni dei giudici costituzionali, potrebbe essere possibile vi sia stata, anche, una spinta, da parte di costoro, realisticamente diplomatica. Certo, è vero, molta parte della opinione pubblica non vede l’ora di andare nella cabina elettorale per usare la punta della matita contro la magistratura, ma l’aver escluso proprio i due referendum per i quali i giovani sono più sensibili vuol dire prevedere che tutti quelli al di sotto dei quarant’anni non andranno a votare, essendo i restanti quesiti sulla magistratura troppo tecnici e riferiti ad uno sparuto numero di persone. Ma, al netto di un’analisi di dettaglio dei quesiti dichiarati ammissibili, per i quali, anche in questa testata, sono state pubblicate acute dissertazioni, probabilmente quello sulla separazione delle carriere dei magistrati potrebbe rappresentare il quesito con il maggiore appeal. Prendendo a prestito il concetto oggi di moda delle “porte girevoli” potrebbe essere giunta l’ora di eliminare quella che viene vista come una eccessiva contiguità tra le funzioni requirenti e giudicanti, separando radicalmente le carriere a partire dal concorso di accesso. Non vorrei, ancora una volta, richiamare l’esperienza giuridica del diritto romano dove era financo vietato l’ingresso nella casa del giudice che doveva pronunciarsi, ma il quesito in oggetto tenderebbe a risolvere proprio questa eccessiva “promiscuitas”, rappresentando una netta spinta in avanti verso un rito processuale che, già oggi, tende ad essere formalmente sempre più accusatorio, nel senso inteso dal legislatore riformista del 1988, ossia un rito sempre più caratterizzato dalla pura dialettica delle parti. Ma, a ben riflettere, una così acuta semplificazione referendaria verso un pubblico ministero sempre meno magistrato, anzi per nulla, e sempre più avvocato dello Stato portatore dell’accusa; un pubblico ministero, cioè, che non scenda più sul “parquet de doléances” per limitare i poteri del sovrano e tutelare i diritti dei più deboli, senza accompagnare, contestualmente una radicale riforma della polizia giudiziaria, da una parte, e delle indagini difensive, dall’altra, sarebbe davvero quello che vogliamo? *Professore Straordinario in Diritto Processuale Penale Comparato Coppi: “Non abrogherei la Severino e non separerei le funzioni. Csm, decida il Parlamento” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 febbraio 2022 Il professore emerito: vogliamo che qualcuno passi la vita ad accusare? La legge Severino, che col voto del Parlamento ha fatto decadere Silvio Berlusconi potrebbe essere abolita professor Coppi. Che ne pensa? “Sa che non l’ho letta?”. È sull’ineleggibilità dei politici condannati. Lei lo sa benissimo... “Fermo restando che il referendum è un istituto attraverso cui si manifesta la volontà popolare, penso che quella legge risponda a un sentimento diffuso”. Ovvero? “Che non si possa aspirare a determinate cariche pubbliche avendo ricevuto condanne almeno per alcuni reati”. Quali? “Quelli contro la pubblica amministrazione, contro lo Stato o di riprovazione sociale come quelli sessuali. Per reati bagatellari o colposi, come l’omicidio stradale, sarei più di manica larga”. Dovrebbe scattare solo dopo condanne definitive? “Direi di sì come regola, anche se per ragioni di opportunità chi è accusato di determinati reati dovrebbe astenersi o fare di tutto per una piena riabilitazione nel più breve tempo possibile”. E come? “Per ragioni importanti si può richiedere l’urgenza che consente di accelerare. Il giudice presumibilmente, se un politico lo chiede, dà parere favorevole alla rapidità”. Lo dice proprio lei? “Io l’ho sempre sostenuto. E siccome nessuno vuole avere un magistrato o un politico mascalzone bisogna accelerare al massimo. Anche se hai la febbre, a meno che non sia 45°, vai lo stesso in udienza”. E il suo cliente, Silvio Berlusconi? (Sorride ndr) “Lo difendo proprio in modo da evitare che si creino le condizioni della ineleggibilità”. Sulla separazione delle funzioni che ne pensa? “A parte il fatto che quando potremo permetterci il lusso di discuterne vorrà dire che tutti i problemi della giustizia sono stati risolti. Ma poi vogliamo davvero che qualcuno passi la vita ad accusare?”. Lei no. Perché? “Creeremmo degli automi. Lo scambio di esperienze aiuta a interpretare il singolo ruolo. Ho conosciuto magistrati che da giudici istruttori, sono diventati pm e poi giudici, interpretando benissimo i vari ruoli. Ci penserei”. Ma il referendum ci sarà. “Il referendum è un po’ tranchant. Invece c’è molto da riflettere su regole per i passaggi e altro. Io ci rifletterei”. Si voterà sull’elezione del Csm. Come la vorrebbe? “Finché del Csm faranno parte i magistrati, anche estratti a sorte, si riproporranno giochi, giochetti e giochini. Ma sono problemi complessi e delicati. Deve occuparsene il Parlamento”. Se ne sta occupando. “Speriamo faccia prima del referendum”. Questo governo ha accelerato sulle riforme della giustizia. Vede una svolta? “Io sto tutti i giorni in Tribunale a Roma e vedo arrivare in Cassazione processi che sono durati 15 anni. Ieri ho discusso un omicidio del ‘96. E questa lentezza è legata a questioni che sarebbe lungo spiegare ma che non mi sembra abbiamo ancora soluzione”. Come si risolvono? “Sedendosi a un tavolo, in pochi o non si combina niente, affrontando uno a uno i problemi. Le soluzioni, alla luce dell’esperienza, ci sono”. Ad esempio? “L’udienza preliminare è completamente fallita. Si perdono due anni, tanto vale abolirla. Come pure: restituire al giudice la conoscenza degli atti farebbe risparmiare tempo. Si potrebbe recuperare qualcosa dal vecchio codice. Non tutto quello che c’era è fascista. Sentite noi “pratici”. Non state a pensare alla separazione delle carriere”. Riforma Csm, Cartabia al Parlamento: “Sulla giustizia si segua l’agenda di Mattarella” di Liana Milella e Conchita Sannino La Repubblica, 18 febbraio 2022 In ritardo l’approdo in aula del testo uscito dal Cdm che rischia il corto circuito con i quesiti referendari. Lega e FI insistono sulla separazione delle carriere. Ore concitate di attesa alla Camera sulla riforma del Csm. Il testo della proposta Cartabia, uscito venerdì scorso dal Consiglio dei ministri, non è ancora arrivato dalla Ragioneria generale dello Stato. Lo si attendeva ieri in Commissione Giustizia, ma il presidente Mario Perantoni aveva fatto sapere che “l’organizzazione dei lavori” su quella riforma era “rimandata in attesa del deposito” del maxi emendamento, e questo scatena polemiche. Mentre il centrodestra, “gasato” dal via libera della Consulta ai 5 referendum radical-leghisti, è già al lavoro per tradurli in altrettanti emendamenti destinati a spaccare la maggioranza. E a mettere in difficoltà la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Che, di fronte a giorni che si preannunciano caldi, ripete: “Ora è il tempo del Parlamento: è quella la sede per le riflessioni e il confronto che tutti sollecitano”. Senza la fiducia, che Draghi ha garantito non ci sarà, la riforma rischia? Cartabia torna a Mattarella e all’applauso corale dopo il discorso d’insediamento, lungo e insistito sulla giustizia. E dice: “Le forze politiche dovranno essere coerenti con quel battimani”. E le proteste, come quelle di Enrico Costa di Azione, per il testo Cartabia che non arriva? Chi lavora con la Guardasigilli ricorda che è stata proprio lei, durante il Consiglio dei ministri, a chiedere al Mef una coerente accelerazione: una “bollinatura” celere per sbloccare al più presto l’iter parlamentare. Ma le ore di attesa scatenano sospetti e dietrologie. “Siamo fermi dall’inizio di giugno - dice Costa - aspettando che il governo presenti le sue modifiche e mi auguro che adesso, quando finalmente arriveranno, non ci venga chiesto di strozzare la discussione perché ci sono i referendum”. Se il Pd è convinto, come dicono Anna Rossomando, Walter Verini e Alfredo Bazoli, che almeno tre dei cinque referendum siano “superati” dalla proposta Cartabia, il centrodestra sta affilando i coltelli. “La separazione delle carriere? La chiediamo da quando è nata Forza Italia - dice il coordinatore di Fi Antonio Tajani -. Non si può fare? Allora si faccia la separazione delle funzioni”. Tant’è che il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin la sta già preparando, “scelta definitiva dopo i primi 4-5 anni, poi non si passa più da giudice a pm e viceversa”. Non basta. Zanettin lavora anche al sorteggio come sistema di voto per il Csm. Considera fuori, invece, la responsabilità civile. La responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno va oltre: non solo il sorteggio, non solo la netta separazione delle funzioni. La Lega punta anche alla stretta sulla responsabilità civile che superi quella indiretta di oggi. E su questo è d’accordo Costa, favorevole anche al sorteggio. Sono le proposte che piacciono alla Meloni. In commissione Giustizia l’asse Lega, Forza Italia, Azione, FdI, nonché i renziani, mette in minoranza Pd e il M5S, e manda la riforma del Csm verso un destino incerto. Tutto questo mentre sulle “porte girevoli” ecco la nuova sfida di Catello Maresca, l’ex pm che ha perso la sfida a sindaco di Napoli. Nuova competizione, e nuova lista per il magistrato che nello stesso tempo è già consigliere comunale del centrodestra e giudice della Corte di Appello di Campobasso. “Mai più casi Maresca”, ha già detto Cartabia. Ma lui, in queste ore, promuove una lista, col suo nome nel simbolo, per il rinnovo della Città Metropolitana di Napoli battezzata “Giustizia e Legalità”. Per raccogliere le firme lo hanno aiutato anche big di Fi come Paolo Russo e fedelissimi di Aldo Patriciello, l’europarlamentare azzurro a capo di un importante impero di cliniche in Molise. Contraddizioni e rischi sull’immagine della magistratura? Le norme non lo vietano. Maresca, interpellato da Repubblica, non intende rilasciare dichiarazioni. Fiammetta Borsellino: “Provo rabbia contro certi magistrati...” di Costantino Visconti Giornale di Sicilia, 18 febbraio 2022 A trent’anni dalla strage in cui fu ucciso suo padre, in una conversazione con l’editorialista del Giornale di Sicilia Costantino Visconti, la figlia del giudice fa un’analisi dei depistaggi e del clima nel quale Paolo Borsellino portava avanti la sua battaglia contro la mafia. Ci avviciniamo al trentennale della strage di via D’Amelio. Sarai nostra compagna di viaggio nei Corsi di Scienze politiche e delle Relazioni internazionali dell’Università di Palermo in un percorso ricostruttivo, guidato dai nostri professori di storia, che abbiamo chiamato appunto “Officina 92/22” e che si snoderà durante l’intero anno accademico con diversi appuntamenti. Che ne dici di cominciare ad avviare la riflessione, partendo dalla questione più rovente, forse: dopo tutto questo tempo non abbiamo ancora una verità giudiziaria sul quel che accadde, se non la prova che vi furono depistaggi. Da questo punto di vista, sei una vittima della mafia che ti ha ucciso il padre ma anche della giustizia penale che non ha saputo e talora voluto accertare tutte le responsabilità per quella strage. Sono passati trent’anni, ma i primi quindici o venti anni sono stati caratterizzati da incredibili anomalie sia dal punto di vista delle indagini, sia dal punto di vista dei processi che ne sono scaturiti. La cosa veramente sconfortante è che i vari depistaggi che hanno impedito di giungere a un qualche risultato sono in buona parte dovuti a uomini delle forze dell’ordine e degli stessi vertici della magistratura. Non solo errori su errori da parte degli inquirenti, ma pure una precisa volontà di allontanarci dalla verità da parte di molti. E anche chi avrebbe dovuto rimanere vigile e intervenire per evitare che le cose andassero come sono andate, è rimasto inerte. Si tratta di anomalie lampanti, che erano evidenti a tutti, e tuttavia solo di recente cristallizzate dalla sentenza del processo Borsellino quater. Il più grande depistaggio della storia repubblicana, così lo hanno definito i giudici di Caltanissetta... Un depistaggio grossolano, anche. Addirittura la sentenza afferma chiaramente che il pentito ha dichiarato il falso perché è stato indotto da coloro che lo gestivano, che si sono resi autori di una serie di forzature. Poi ci sono stati molti filoni di indagine incomprensibilmente trascurati. Si è sprecato molto tempo nel seguire piste investigative improbabili o mal impostate (ad esempio il processo della cd Trattativa arenatosi in appello), a scapito di altre verosimilmente più promettenti. Oggi, a distanza di tanti anni, la possibilità di raggiungere risultati apprezzabili è assai compromessa. Da questo punto di vista possiamo dire che l’obiettivo del depistaggio è stato raggiunto. E non è un problema che riguarda solo la mia famiglia, che anzi ha trovato gli strumenti per andare avanti. È un problema del Paese tutto, che in qualche modo deve essere affrontato per costruire con fiducia l’avvenire nostro e dei nostri figli soprattutto. Ecco, quel che mi colpisce è che nel tuo percorso personale di elaborazione non sei mai rimasta intrappolata nelle doverose recriminazioni sul passato, ma tendi sempre a volgere lo sguardo verso il futuro... Penso che questo derivi dagli insegnamenti che ho ricevuto in famiglia. L’esempio di mio padre, più che altro. Anche nei momenti più bui, quelli in cui il pericolo lo toccavamo con mano, non abbiamo mai perduto passione per le cose belle della vita. Questo non significa che non ci pesasse l’incombere costante del pericolo. E tuttavia mio padre non ha mai posto dei limiti alla libertà di noi figli di muoverci liberamente, di uscire e di vivere le nostre esperienze. Eppure lo vedevo che era molto in pensiero per noi. La notte quando ci ritiravamo ci aspettava sveglio consumando centinaia di sigarette! Basti pensare che il 19 luglio ero addirittura in Thailandia con amici di famiglia e quel viaggio fu proprio un compromesso raggiunto con papà. Io in realtà volevo andare in Africa, in una missione, insieme a un gruppo di volontariato con cui ero in contatto. Mio padre quella volta mi chiese di cambiare meta e quasi scherzando disse: “Fiammetta, se mi ammazzano come ti raggiungono laggiù?”. La tua determinazione a non lasciarti sopraffare dagli eventi ti ha portato non solo a trasformare il dolore in impegno civile, ma a compiere un percorso non comune: tu sei andata in carcere a incontrare gli assassini di tuo padre e guardarli negli occhi... È una decisione che ho preso parlandone prima con i miei fratelli. Sono stati due incontri. La prima volta ho incontrato sia Filippo che Giuseppe, nella stessa giornata. La seconda volta solo Filippo. Parli dei Graviano. È la seconda volta che ascolto da te questo racconto e li hai sempre chiamati per nome. Devo dire che la cosa mi impressiona parecchio... Sento che bisogna avere rispetto sempre per le persone, nonostante tutto quello che ci divide e ci separa. Non posso riferire in poche frasi il contenuto del nostro colloquio, che d’altronde è impossibile da riassumere. Però è una scelta che rivendichi. Ti ha aiutato? Sì. Ne sono uscita certamente fortificata. Il confronto con quelle due persone, così diverse da me, che hanno inciso così profondamente nella mia vita mi ha fatto crescere. Chissà se l’incontro è servito anche a loro, ma in qualche modo sono convinta di sì. Poi come lo sapranno elaborare non lo so. Sia a loro che a me hanno ucciso il padre. Loro sono cresciuti in un determinato contesto e hanno perpetuato vendetta e violenza. Io, figlia di un magistrato, ho seguito una strada opposta. Beninteso, ciò non li assolve dalle loro terribili colpe. Ma in ogni caso penso che bisogna smettere di porre la questione in termini di “perdono” o di “vendetta”. Io preferisco parlare di percorsi di cambiamento che mi possano avvicinare a una persona che mi ha fatto del male. Il confronto può anche essere doloroso, ma è anche la strada verso la riconciliazione interiore. Convivere con pulsioni di vendetta provocati dal delitto è una cosa pesantissima. Del resto è ciò che ha portato i Graviano e tutti gli altri come loro ad uccidere. Si entra in una spirale che genera sempre violenza, odio e vendetta. Una spirale tossica. Né perdono, né vendetta, quindi, nei confronti dei mafiosi. E neanche rabbia? La rabbia in realtà è un sentimento che ho provato e continuo a provare non nei confronti dei mafiosi, piuttosto nei confronti di chi mafioso non è ma non ha fatto il proprio dovere. Dal mafioso il male te lo aspetti. Non dovresti aspettartelo da chi è chiamato ad amministrare la giustizia. Mi fa male pensare che mio padre abbia potuto definire il suo luogo di lavoro, quello in cui passava la gran parte delle sue giornate, come un covo di vipere. Mi fa male anche pensare che mio padre dovesse difendersi anche dai suoi stessi colleghi. E mi fa male prendere atto che nei tanti anni trascorsi dopo la strage di via D’Amelio, molti che avrebbero dovuto indagare o capire che era in corso un depistaggio diabolico invece sembravano voltarsi dall’altra parte, forse impauriti dal pericolo che un accertamento a tutto tondo avrebbe messo in discussione quantomeno la linearità di molti magistrati. Sei severa, oltre che arrabbiata... Forse, ma è anche sotto gli occhi di tutti che troppo spesso parte della magistratura ha abbandonato il tanto osannato “Metodo Falcone e Borsellino”. Io non ho mai visto mio padre scrivere o promuovere libri su attività giudiziarie in corso. L’uomo che ho conosciuto io lavorava in silenzio e quando capitava non mancava di aiutare gli uomini della scorta a cambiare la ruota della macchina blindata che si era forata in autostrada. Io conservo quest’esempio. Mio padre ha rilasciato pochissime interviste e solo quando non ne poteva fare a meno. Piuttosto, dedicava molto tempo all’incontro dei giovani. Ci teneva. L’esempio era anche quello di Rocco Chinnici: come non ricordare i suoi interventi sulla droga! E poi mio padre guardava l’uomo prima del criminale: questa secondo me è stata anche la chiave del suo successo investigativo e professionale. Ma torniamo alla questione mafiosa. La Corte costituzionale ha chiesto al parlamento di rivedere il regime del carcere duro e di prendere in considerazione la possibilità di concedere alcuni benefici anche ai mafiosi non collaboranti. Secondo alcuni questo costituirebbe un cedimento pericoloso... A me è capitato di frequentare anche alcune carceri italiane per partecipare ad alcuni incontri con i detenuti. Mi rendo conto che non possiamo non porci il problema del senso della detenzione, specie in un sistema carcerario come il nostro, così pieno di problemi. Riesce davvero il carcere a provocare un cambiamento nelle persone? Se rispondiamo negativamente il carcere è una sconfitta. Questo vale anche per il 41 bis. Anche rispetto alle persone che più mi hanno fatto male come i Graviano, io non mi sento più appagata se loro restano segregati in una cella, ma se si accende una miccia di cambiamento. Attenzione: non necessariamente questa deve condurre a una collaborazione. A me interessa che si produca un mutamento profondo nelle persone. Per il resto, a me mio padre non lo restituirà mai nessuno. Un ricordo privato. Cosa hai ereditato da tuo padre? Ho sempre condiviso con lui la passione della lettura. Che lettore era Borsellino? Mio padre era un lettore onnivoro. Leggeva di tutto. Soprattutto era appassionato di letteratura tedesca. Kafka lo catturava. Poi i grandi polizieschi. Ho ereditato la sua grande collezione di Simenon. E i siciliani, non ultimo Sciascia, che era per lui un punto di riferimento. Vuoi consigliare un libro ai nostri lettori? Un libro che sto leggendo adesso, molto intenso: “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara. Mani Pulite, a Milano due indagati su tre non risultarono colpevoli di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 febbraio 2022 La macchina organizzativa di Mani Pulite fu così vorace che oggi non esistono dati certi su quelle inchieste. Di 700 casi non si sa più nulla. Ma quanti sono stati i soggetti effettivamente coinvolti nell’inchiesta Mani pulite? Anche se i giornali hanno provato in questi giorni a dare dei numeri, è molto difficile avere un dato esatto in quanto l’inchiesta, partita dalla Procura di Milano, aveva interessato un po’ tutta Italia con gli stralci di numerose posizioni. Non essendo poi stato celebrato alcun “maxi processo” alla corruzione, ma tanti diversi dibattimenti, la ricerca statistica si complica ancora di più. All’epoca il ministero della Giustizia non aveva una raccolta dei dati, come avviene invece oggi: non esistendo infrastrutture informatiche, le ricerche potevano essere effettuate solo in maniera cartolare, partendo dalle iscrizioni nelle cancellerie. Non ultimo, va considerato come nel 1992 fosse entrato in vigore da poco l’attuale codice di procedura penale, che modificava in radice il rito, archiviando il modello inquisitorio in favore di quello accusatorio. Erano stati previsti istituti del tutto nuovi. Si pensi, ad esempio, ai riti abbreviati e, fra questi, al patteggiamento, che da iniziale accordo fra le parti è successivamente stato equiparato ad una condanna a tutti gli effetti. E solo a Milano i patteggiamenti per reati contro la pubblica amministrazione e l’illecito finanziamento dei partiti erano stati oltre 500. Fra questi molti che, pur innocenti, avevano solo voglia di uscire quanto prima dal gorgo giudiziario. Comunque, considerando le sentenze di condanna, di proscioglimento (anche per intervenuta prescrizione) e quindi i patteggiamenti, Mani pulite ha interessato circa 4.250 soggetti. Impossibile indicare per ognuno di costoro i reati contestati, anche perché ogni singolo soggetto poteva essere destinatario di diverse contestazioni, e in momenti successivi. Ed è impossibile calcolare i termini di custodia cautelare, a cui molti furono sottoposti e che venne usata come strumento di pressione per agevolare confessioni e chiamate in correità, così come puree non c’è modo di calcolare la media delle pene erogate. Soffermandosi sugli “stralci” effettuati ad altri uffici giudiziari, il Corriere della Sera ha riportato nei giorni scorsi un dato enorme: 700 persone vennero indagate, e se del caso sottoposte a misure cautelari, dalla Procura di Milano senza averne competenza. Del destino di queste 700 persone non si è mai avuto contezza. Sempre il Corriere ipotizza che le loro posizioni processuali siano finite in prescrizione. La Procura di Milano, comunque, al termine delle indagini, aveva chiesto il giudizio per 3.200 persone. Tolti i 500 patteggiamenti, i 480 prosciolti già in udienza preliminare, i colpevoli al termine del processo furono 1.300. In pratica meno di un terzo dei soggetti inizialmente iscritti nel registro degli indagati. L’unico dato certo in questo conteggio delle manette sono, purtroppo, i suicidi, 31, e i parlamentari coinvolti, 81. Di questi, gli assolti furono ben 61. A parte, dunque, i grandi nomi, di politici di livello nazionale o di famosi imprenditori, Mani pulite fra il 1992- 1994 colpì a pioggia, senza guardare molto per il sottile, notevolmente agevolati dal clamore mediatico. Omicidio di Matteo Tenni: il gip archivia l’indagine di Luigi Manconi La Repubblica, 18 febbraio 2022 La Procura della Repubblica di Rovereto aveva aperto un’indagine per omicidio preterintenzionale a carico del carabiniere che ha esploso il colpo. In una casa che si trova lungo la strada che porta ad Ala, una frazione di Pilcante, in provincia di Trento, abitavano Matteo Tenni, di 44 anni, e sua madre Annamaria Cavagna, di oltre 80. Già a vent’anni Tenni rivelava qualche sofferenza: poi, la scoperta di un disturbo psichico e, di conseguenza, l’isolamento e una tendenziale condizione di marginalità. Il 9 aprile del 2020 la vita di Tenni si interrompe sul selciato del vialetto che porta alla propria casa. Accade dopo essere fuggito davanti a una macchina dei carabinieri che gli intimavano l’alt. L’uomo, inseguito, si dirige verso la sua abitazione, dove viene raggiunto dai militari, che entrano nella proprietà superando il cancello di ingresso. Qui la tragedia: Tenni impugna una accetta e si muove verso l’auto, dalla quale - secondo la testimonianza della madre - i carabinieri si erano già allontanati, e contro la quale assesta due o tre colpi. Nel frattempo è arrivata un’altra auto dei carabinieri e uno dei militari esplode un colpo che raggiunge Tenni all’arteria femorale, provocando una lacerazione e il conseguente decesso. La Procura della Repubblica di Rovereto apre un’indagine per omicidio preterintenzionale a carico del carabiniere che ha esploso il colpo: poi, dopo alcuni mesi, la richiesta di archiviazione. Qualche giorno fa il Gip accoglie la richiesta e decide di chiudere definitivamente il caso. Ciò che, purtroppo, viene archiviata insieme all’indagine, è la straziante situazione di tante persone, che rivelano una fragilità psichica più o meno acuta e per i quali i servizi psichiatrici territoriali sembrano incapaci di offrire assistenza, cure adeguate e tutela. Ed è assai lungo l’elenco di quanti - in una evidente e grave condizione di vulnerabilità - hanno trovato la morte per mano di coloro che avevano il dovere istituzionale di proteggerli. Penso, per citarne alcuni, a Mauro Guerra, morto a Carmignano di Sant’Urbano il 29 luglio del 2015 e ad Andrea Soldi, morto a Torino il 5 agosto dello stesso anno. A causa di interventi finalizzati ad applicare il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), che pure, nel caso del primo, nessuno aveva disposto. E ancora una volta si pone l’enorme problema della formazione degli operatori di polizia, troppo spesso incapaci di interpretare il proprio compito come un servizio al cittadino, di cui garantire diritti e prerogative. Si leggano le trascrizioni delle conversazioni tra i carabinieri che inseguivano Tenni: “Dovevo sparargli, dovevo sparagli prima”; “Matteo sei un matto. Schiantati, schiantati”; “Cazzone fermati”. Certo, la concitazione, l’ansia e, magari, la paura. Ma sembrano parole e sentimenti dettati dall’idea che quel cittadino, per il solo fatto che fugge e che è “matto”, è un nemico. Toscana. Il disastro delle carceri di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 18 febbraio 2022 È sovraffollato un penitenziario su tre, infermerie senza sanitari. E mancano 397 agenti. Un carcere su tre in Toscana è sovraffollato, nessuna certezza di avere un medico a disposizione per tutto il giorno e mancano 397 agenti penitenziari: è la fotografia scattata da un report del senatore pistoiese Patrizio La Pietra (FdI) che nei mesi scorsi ha fatto un viaggio nei 14 istituti toscani. Il cappellano di Sollicciano: “Non solo lager libici, ci sono centri tortura vicino alle nostre case”. Nel carcere di Arezzo di notte ci sono solo tre agenti della polizia penitenziaria per trenta detenuti. Anche nel carcere di Lucca di notte ci sono solo tre agenti in servizio, ma qui i detenuti sono circa cento. Mancano almeno 397 agenti penitenziari in tutta la regione rispetto alla pianta organica e una struttura su tre è sovraffollata. I tremila detenuti in Toscana sono per il 65% stranieri, ma nelle 14 strutture non esistono mediatori culturali. A Sollicciano 200 detenuti su 500 avrebbero bisogno di assistenza psichiatrica, che è scarsa e manchevole. Anche le infermerie sono tutte inadeguate, in alcune delle carceri toscane non c’è la certezza di un medico a disposizione per tutto il giorno. Non esiste un istituto in tutta la Toscana dove il personale infermieristico copra le 24 ore, né uno in cui la video-sorveglianza funzioni regolarmente: mancano le telecamere o scarseggiano gli agenti che possono sorvegliarle fisicamente. Fotografie sfocate di quelle città invisibili dentro le nostre città che sono le carceri, ignorate se non quando il disagio al loro interno diventa tragedia, suicidi, violenza, rivolte. Gli istituti penitenziari non vanno sui social network e nemmeno in televisione, i detenuti spesso esistono solo come entità numeriche, un destino che li accomuna a coloro che dovrebbero sorvegliarli o prendersene cura e che ne condividono il disagio. Le sentenze internazionali contro l’Italia che decretano la violazione dei diritti dei detenuti “per trattamento inumano e degradante” sono lì a dimostrare l’ovvio. Un argomento oscuro e senza interventi risolutivi da decenni: a fronte del sovraffollamento delle carceri di Livorno e Sollicciano continuano a convivere le cattedrali nel deserto degli istituti di Empoli e Pescia, in stato d’abbandono. Oltre al disastro descritto dai dati del ministero della Giustizia, il senatore pistoiese Paritorio”. trizio La Pietra (FdI), nei mesi scorsi, ha compiuto un viaggio nelle 14 carceri della Toscana. Il suo report è stato presentato nei giorni scorsi in Parlamento. “L’ho fatto per raccogliere una sfida lanciata dal ministro Marta Cartabia - spiega La Pietra - che contestava come noi rappresentanti delle istituzioni non conoscessimo davvero i problemi dei penitenziari sul ter. La sfida è divenuta un dossier, che porta a conclusioni scontate ma per questo ancora più desolanti: “Le strutture toscane sono vecchie e inadatte. Il sistema si regge sulle persone che fanno questo lavoro con abnegazione contro tutto e tutti, senza che ci siano le condizioni per rieducare i detenuti come la Costituzione richiederebbe”. Alcuni comandanti sono costretti a gestire più di un istituto, quello di Livorno deve occuparsi anche di Volterra e quello di Grosseto è comandante anche per Massa Marittima. I carichi di lavoro sono eccessivi, soprattutto quelli notturni. I turni degli agenti sono regolati su soli tre quadranti, la media di straordinario va dalle 25 alle 35 ore, col paradosso che queste ore vengono pagate meno delle ordinarie. C’ è una “cronica mancanza di ufficiali e sottufficiali”, una “disomogeneità dei ruoli non giustificabile”, una “gestione schizofrenica e senza logica” scrive La Pietra. Il patrimonio edilizio sarebbe poi “inadatto alle funzioni”: le carceri sono situate in complessi storici come conventi e fortezze, ma anche le strutture recenti “non corrispondono a nessuno standard qualità”. A Pisa le scale per raggiungere le sezioni non sono agibili, a San Gimignano non c’è allacciamento ad acquedotti e alla rete del gas, si va avanti con le cisterne con tutte le interruzioni e i disagi che si possono apprezzare solo raggiungendo gli istituti. Corridoi lunghissimi con sezioni curvilinee a Sollicciano, con “agenti abbandonati a loro stessi” che non hanno angoli di visione. I sistemi videosorveglianza sono pochi e coprono solo le zone comuni. “A Lucca gli agenti non hanno una stanza in cui rifugiarsi, oltre a non esserci la possibilità di avere un agente che dalla regia guarda cosa riprendono le telecamere girano”. In nessun carcere toscano funziona il sistema anti scavalcamento delle mura. Toscana. “Manca anche la dignità, ma è troppo impopolare spendere per i detenuti” di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 18 febbraio 2022 “Non ci sono le condizioni igieniche e umane per la dignità di queste persone”. Sono 29 anni che Gabriele Terranova entra regolarmente nelle carceri toscane. All’inizio solo come avvocato difensore. Negli ultimi anni anche come componente dell’Osservatorio Carcere delle Camere Penali. “È vero, mancano gli agenti. Ma non solo quelli. A mancare drasticamente è l’assistenza psicologica e psichiatrica, c’è un riconosciuto abuso di farmaci. Mancano gli educatori, i mediatori culturali, gli assistenti sociali. La pena - spiega Terranova - non può essere uguale per tutti: è nell’articolo uno dell’ordinamento penitenziario. Ma questo principio, qui, è impossibile da applicare”. Secondo l’avvocato poche carceri in Toscana “somigliano a isole felici, mentre altri sono l’inferno”. Ad esempio “il Gozzini di Firenze, detto Solliccianino, è una struttura a custodia attenuata che pare avere misure di detenzione decenti. Anche Volterra - spiega Terranova - è considerato un istituto che funziona, perché c’è lavoro per tutti i detenuti e si volgono molte attività culturali collaterali”. Poi c’è l’inferno. “Sollicciano. È un carcere che svolge funzione di casa circondariale, dove ci sono soprattutto detenuti in attesa di giudizio, con un ricambio frequente. Più dell’80% sono stranieri indigenti, con le problematiche che ne derivano, a partire dalla mancanza di igiene: penso alle detenute che devono attendere gli assorbenti dalla Caritas. E poi ci sono molti, non so dire quanti, che muoiono sniffando gas e sono catalogati come suicidi”. Non si tratta dunque di suicidi? “Non credo. Con la loro dotazione economica - spiega l’avvocato - i detenuti comprano la bomboletta da campeggio e al posto di cucinare la inalano per sballarsi, non per uccidersi”. Cosa si può fare? “Quattro anni fa chiesi alla direttrice del carcere di Sollicciano perché non venissero sostituite le bombolette da campeggio con i fornellini elettrici. Mi rispose che sarebbe stato dispendioso, perché l’energia era in quel caso carico dell’amministrazione”. Assieme a quello di Livorno, il carcere del capoluogo sembra esser quello più difficile. “Era stato concepito come un istituto in cui nelle sezioni si doveva solo dormire, mentre nei 4 ettari di aree che sono stati poi abbandonati, si sarebbe dovuta svolgere la giornata dei detenuti. Chi esce dalle celle, ora, deve stare nei corridoi. I materassi delle celle sono pieni di cimici, hanno provato a toglierle con una disinfestazione ma non ci sono riusciti nonostante siano stati spesi 50 mila euro”. Il punto è che servirebbero investimenti, ma “quando c’è da spendere soldi non è popolare farlo per la condizione dei reclusi”. Un esempio: “Ho chiesto alle amministrazioni locali d’investire in alloggi per detenuti che avrebbero diritto a star fuori dal carcere ma non hanno domicilio. Mi hanno risposto che si poteva provare a farlo - conclude Terranova - a condizione di non dire che sarebbe stato a favore dei detenuti”. Emilia Romagna. Il Garante: “La mia sfida per i detenuti: vicinanza, ascolto e visite frequenti” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 18 febbraio 2022 “Porterò con me la perseveranza, perché ci sono problemi che in questo ambito richiedono anche anni per essere risolti”. È il parmigiano Roberto Cavalieri il nuovo Garante regionale delle persone sottoposte a misure limitative o restrittive della libertà personale. Succede a Marcello Marighelli. Eletto dall’Assemblea legislativa con 43 voti, resterà in carica per cinque anni. Porterà la sua esperienza di Garante comunale per i diritti dei detenuti a Parma, una realtà carceraria in cui è presente il regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro. Le chiediamo una breve presentazione, per conoscerla meglio... “Ho 56 anni e nella vita di tutti i giorni sono un insegnante di scuola superiore. Ho iniziato molto giovane a insegnare e le mie discipline sono scientifiche. Nel corso della mia vita, però, ho fatto tante attività e la più significativa e importante l’ho realizzata nell’ambito delle carceri. Nel 1993, quasi trent’anni fa, ho avuto un primo incarico di coordinatore di attività formative per i detenuti. Si trattava dei primi corsi professionalizzanti prodromici agli inserimenti all’esterno dei reclusi. Poi negli anni mi sono occupato di diversi progetti nel penitenziario, progetti che andavano dal miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti fino alle consulenze nell’ambito del welfare e delle politiche penali. Il Comune di Parma, nel 2014, ha istituito la figura del Garante dei detenuti, incarico che ho ricoperto fino alla nomina regionale. Dal 2000, per circa 7 anni, mi sono occupato di politiche penitenziarie in Africa per una ONG italiana. Eseguivo il monitoraggio dei progetti in penitenziari di paesi in cui c’erano conflitti armati: Burundi, Rwanda, Repubblica Democratica del Congo e Sierra Leone. In altri contesti ho sempre seguito le politiche regionali nell’ambito della formazione e lavoro e del welfare. Ho collaborato con diversi direttori ed educatori di carcere, esperienza che mi ha permesso di conoscere a fondo le regole di gestione dei reclusi e i diritti dei detenuti”. Quali saranno i suoi primi obiettivi del mandato? “Ho già avuto modo di conoscere la struttura organizzativa che gestisce l’Ufficio del Garante dei detenuti e, anche in questa occasione, apprezzare la coerenza e la serietà della nostra Regione. Questo mi ha messo subito a mio agio e credo avremo modo di realizzare cose importanti. Per prima cosa non voglio disperdere il patrimonio fin qui realizzato dalla struttura e ho chiesto quindi al Garante uscente, Marcello Marighelli, e all’attuale Garante di Bologna, Antonio Ianniello, di collaborare con me su temi molto importanti e di stretta attinenza con l’istituzione che mi ha nominato, la Regione. Mi riferisco alla formazione-lavoro, alla cultura, al welfare e alla sanità: la sfida è quella di dare accesso anche ai detenuti alle medesime opportunità dei liberi cittadini. Poi ho in programma di incontrare tutti i soggetti che a qualunque titolo frequentano il carcere, in quanto ritengo fondamentale avere un flusso comunicativo continuativo con tutti. Poi ci sono le visite ai penitenziari e agli altri luoghi in cui sono presenti persone che vivono misure limitative della loro libertà. Si tratta di un sistema molto complesso e, pertanto, anche la comunicazione sia all’interno della Regione sia all’esterno sarà molto importante”. Rispetto al suo precedente incarico di Garante a Parma, che cosa vorrebbe riproporre nella nuova esperienza regionale? “A Parma ho sempre avuto ottimi rapporti con la direzione, il comando e tutti gli operatori penitenziari. Nella parte finale del mio mandato comunale la locale Procura mi ha coinvolto in un lavoro congiunto su esposti e denunce provenienti dai detenuti. Quindi sicuramente il piano delle buone relazioni sarà importante. Poi c’è la vicinanza e l’ascolto ai detenuti, le visite frequenti ai luoghi di reclusione. Infine, porterò con me la perseveranza perché ci sono problemi che in questo ambito richiedono anche anni per essere risolti”. Firenze. “Non solo i lager libici, ci sono centri di tortura vicini alle nostre case” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 18 febbraio 2022 Il cappellano Don Vincenzo Russo: “Faccio appello al Papa che sarà a Firenze: in carcere si uccide la vita che è sacra, in carcere ogni giorno Dio muore quando si nega la speranza”. “A Sollicciano non ci sono cento città come quelle rappresentate dai sindaci del Mediterraneo, ma ci sono 44 origini diverse, praticamente tutti i popoli delle coste di quello stesso mare: albanesi, calabresi, marocchini, siciliani, tunisini, pugliesi, slavi, napoletani, toscani, algerini. Il Mediterraneo è anche dentro il carcere, non è un lager come quelli libici, ma sicuramente è un inferno quotidiano, gelido d’inverno e torrido d’estate, carico di energia che esplode in temporali di violenza e in tempeste di rabbia. Gridiamo giustamente allo scandalo per i centri di detenzione libici, ma non ci accorgiamo che a due passi dalle nostre case ci sono luoghi che, pur con tutte le dovute distinzioni, sono teatri di tortura”. Alla vigilia del convegno dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo, dalla voce di don Vincenzo Russo, cappellano del penitenziario di Sollicciano, arriva un accorato appello a considerare il carcere come parte integrante della discussione che si terrà nei prossimi giorni in città. Un appello rivolto anche a Papa Francesco, che sarà a Firenze il 27 febbraio: “In carcere si uccide la vita che è sacra, in carcere ogni giorno Dio muore quando si nega la speranza e l’umanità è annullata”. Ecco perché “questo mondo rinchiuso nelle sbarre ha bisogno estremo di quella speranza e di quella luce portata dal Santo Padre, siamo nella periferia della città ma vorremmo essere al centro del dibattito perché quasi sempre i detenuti sono reclusi fisicamente ma anche moralmente, lontani dall’opinione pubblica e dalla politica, costituiscono un argomento impopolare che non crea consenso, e questo contribuisce a farli sentire scarti della società, quando invece molti di loro si sentono vittime che vogliono provare a redimersi dal male che hanno commesso”. Un luogo, quello del carcere in generale e in particolare del penitenziario di Sollicciano - definito anche dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia tra i peggiori d’Italia dopo una sua recente visita -, dove secondo don Russo “permane una precarietà perenne di cui siamo tutti artefici se conserviamo disinteresse per la questione, una precarietà esistenziale che affonda l’etica della nostra civiltà e chiama in causa una responsabilità morale da parte dello Stato”. Il sacerdote di Sollicciano chiama in causa la Costituzione, dove all’articolo 27 si dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ebbene, aggiunge don Russo, “vivendo il carcere ogni giorno osservo coi miei occhi che la volontà dei padri costituenti viene ripetutamente tradita”, visto che “il carcere fiorentino non offre quasi mai un percorso rieducativo, ma alimenta una storia fatta di disagio e degrado, dove i detenuti entrano perché sono caduti ma poi rimangono a terra perdendo la capacità di rialzarsi”. Monza. Morte di un detenuto: “Indaga la Procura” di Sarah Valtolina Il Cittadino, 18 febbraio 2022 Non sarebbe stato un suicidio la causa della morte di un detenuto nel carcere di Monza. La direttrice conferma: “È in corso un’indagine della Procura che ha disposto accertamenti”. Sull’ultimo decesso accaduto nei giorni scorsi all’interno del carcere di Monza sono ancora in corso le indagini disposte dalla Procura, ma pare si possa escludere la volontà suicidaria. A confermarlo è la direttrice dell’istituto di via Sanquirico, Maria Pitaniello. “È in corso un’indagine della Procura che ha disposto accertamenti. Ci aspettiamo anche una visita ispettiva per far luce su quanto accaduto. Subito dopo il decesso, come accade sempre anche in presenza di casi meno funesti, è stata convocata l’equipe multidisciplinare per analizzare tutti i dettagli. In questo caso specifico pare si possa escludere la volontà suicidaria”, ha spiegato. Pare invece che sia stato un gesto volontario il decesso che si è verificato lo scorso gennaio, sempre all’interno della casa circondariale. In entrambi i casi si trattava di detenuti che avevano mostrato segni di sofferenza e disagio psichico e che erano in carico al reparto di osservazione psichiatrica che è attivo all’interno della struttura. “Negli ultimi mesi è notevolmente aumentato anche il numero di detenuti giovani e stranieri che arrivano qui dopo un vissuto personale devastante. In questo contesto il supporto psicologico diventa fondamentale. Anche per gli stessi operatori”, continua la direttrice. In questo contesto già critico il Covid-19 con tutte le restrizioni che ha comportato ha ulteriormente esasperato e amplificato tensioni e aggressività, sia tra i detenuti sia con il personale. “Quando i regolamenti ci hanno imposto di chiudere alcune attività abbiamo assistito a un’impennata di richieste di colloqui personali, una richiesta di attenzioni che però gli operatori in servizio non potevano affrontare in tempi brevi. I detenuti attualmente sono 560. Tutti hanno mostrato evidenti segnali di difficoltà e fatica, che in alcuni casi si sono tramutati in atti di autolesionismo o tentativi di incendio all’interno della camera detentiva se non aperta aggressività verso gli agenti e gli operatori. Non sono mai mancati però i colloqui ed è sempre stata garantita grande attenzione da parte del personale”. Da lunedì 21 febbraio anche il carcere comincerà ad avviarsi verso una ritrovata normalità. Verranno gradualmente riprese tutte quelle attività che erano state sospese a causa del forte incremento dei contagi (dal 1 dicembre del 2021 a oggi si sono registrati 250 casi di detenuti positivi). Riattivate le attività sportive, culturali, le lezioni scolastiche in presenza, i laboratori musicali. Padova. Omicron, cluster in carcere con 130 contagi di Elena Livieri Il Mattino di Padova, 18 febbraio 2022 Un centinaio i detenuti positivi a cui si aggiunge una parte del personale. I casi sono tutti asintomatici o con pochi sintomi L’onda lunga di Omicron ha infranto la barriera del carcere: a un mese dal picco “fuori”, il Covid è arrivato in questi giorni all’interno della casa circondariale di Padova. Cento i detenuti positivi, a cui si aggiungono anche una trentina di casi fra il personale. Anche qui il fattore vaccini sta facendo la differenza rispetto alle precedenti ondate: tutti i contagi, infatti, sono asintomatici o pauci sintomatici. Il quadro è in veloce evoluzione, condizionata dall’elevata contagiosità di Omicron: ogni giorno c’è chi si negativizza e chi si positivizza. L’aspettativa di Felice Alfonso Nava, direttore dell’Unità di Sanità penitenziaria dell’Usl 6 Euganea, è che i numeri possano aumentare ancora ma che proprio grazie alla vaccinazione di oltre l’80% dei detenuti la situazione rimanga sotto controllo. Il cluster interessa il carcere Due Palazzi mentre rimane Covid free la casa circondariale. “La quarta ondata della pandemia in carcere è arrivata un mese dopo il picco sul territorio” rileva Nava, “come è accaduto per le precedenti. Per altro quello di Padova era rimasto l’unico istituto penitenziario del Veneto in cui Omicron non era ancora arrivata: fino a pochi giorni fa eravamo rimasti immuni mentre altre realtà avevano già dovuto fare i conti con i contagi. I positivi fra i detenuti sono cento su un totale di 580 presenze, ma il dato varia quotidianamente con un saldo più o meno pari fra chi si negativizza e chi si positivizza”. Ai detenuti vanno aggiunti i casi del personale, circa una trentina, ma questi ultimi non ricadono nelle competenze dell’Unità diretta dal dottor Nava. Cento contagi, nessuna situazione grave: “Registriamo per lo più contagi asintomatici o pauci sintomatici” conferma Nava, “senza situazioni cliniche che possano destare preoccupazione. L’anno scorso senza vaccini - qui abbiamo iniziato la campagna di immunizzazione ad aprile - la situazione era molto diversa, decisamente più pesante e ci sono state anche due vittime. Vista l’alta contagiosità di Omicron credo che i contagi possano anche aumentare ma la situazione dovrebbe rimanere sotto controllo”. Il problema che grava sulla gestione del cluster di Covid in carcere è il sovraffollamento: “L’impegno è massimo sul fronte del monitoraggio, con screening, triage e isolamento nel pieno rispetto delle linee guida regionali” rileva Nava, “ma dobbiamo fare i conti con limiti strutturali e di spazi che rappresentano oggettivamente un elemento di grande criticità. Il caso zero non è stato individuato, è evidente che i contatti con l’esterno non mancano, con 300 agenti, e altre centinaia di operatori, insegnanti e volontari. Inoltre ci sono i detenuti lavoratori. Del resto non siamo una Guantánamo, i contatti con l’esterno ci sono. L’importante è aver verificato anche qui che la copertura vaccinale permette di affrontare con un impatto molto diverso questa ondata”. Ferrara. Tortura in cella, il medico racconta: “Era come una maschera di sangue” di Cristina Rufini Il Resto del Carlino, 18 febbraio 2022 Ieri, al processo per la presunta aggressione di un detenuto, c’è stata la deposizione della professionista “L’ho visto poco più tardi, aveva anche le manette”. Dopo un’ora la segnalazione alla comandante. La presunta aggressione sarebbe avvenuta nel carcere di via Arginone, il 30 settembre del 2017. “Quando l’ho visto sono rimasta scioccata, aveva il volto coperto di sangue”. Con queste parole ieri il medico di turno in carcere quel 30 settembre del 2017 ha raccontato la scena che si è trovata di fronte quando si è affacciata dalla finestrella della cella per il giro di controllo dei detenuti. Erano le 9.04 di quel trenta settembre. Il racconto del medico, in servizio all’Ausl e destinata al carcere di via Arginone, ha continuato il suo racconto davanti al Tribunale (in composizione collegiale: presidente Piera Tassoni e i giudici Alessandra Martinelli e Andrea Migliorelli) rispondendo alle domande del pubblico ministero Isabella Cavallari e degli avvocati difensori degli imputati, Alberto Bova e Denis Lovison. “Dopo averlo notato in quelle condizioni - ha continuato il medico - ho continuato il giro con gli altri detenuti e poi sono tornata nella sala infermeria, per capire che cosa fare”. Lo stato d’animo “intimorito” come la stessa medico ha riferito in aula, era dettato dalla situazione che aveva trovato in quella cella. “Peraltro il detenuto (Antonio Colopi, ndr) era anche ammanettato, condizione che non è possibile in cella - ha proseguito la professionista - dopo un’ora circa ho avvertito la comandante della Polizia penitenziaria, Annalisa Gadaleta”. Alla richiesta dell’avvocato Bova che assiste i due agenti imputati, Geremia Casullo e Massimo Vertuani, del motivo per cui abbia atteso così tanto tempo visto che era rimasta scioccata dalle condizioni del detenuto. “Sinceramente ero intimorita dalla situazione - ha spiegato il medico - e comunque nonostante la maschera di sangue al volto, mi sono resa conto che non era necessario un intervento d’urgenza. E dovevo pensare un attimo a che cosa fare. Poi ho avvertito la comandante”. “Non ricordo se l’infermiera era presente in infermeria quando sono tornata lì, dopo la visita in carcere”. Napoli. Detenuto in sciopero della fame, da mesi aspetta un referto medico di Viviana Lanza Il Riformista, 18 febbraio 2022 Da sabato scorso Davide G., 32 anni, calabrese e una condanna a dieci anni da scontare, è in sciopero della fame nel carcere di Secondigliano. Una protesta, la sua, disperata considerate le condizioni di salute in cui versa: perde peso vistosamente per problemi intestinali che appaiono sempre più gravi al punto da spingere la direzione del carcere a sottoporlo a un esame istologico in ospedale. Il problema è che l’esito di questo esame non arriva, ormai l’attesa sfiora i due mesi e Davide continua a stare male. “Non è tollerabile che si debba attendere tanto per ottenere l’esito degli esami istologici - afferma l’avvocato Raffaele Minieri, difensore del detenuto -. Di fatto in questo modo ci viene preclusa la stessa possibilità di avanzare richieste per tutelare al meglio il diritto alla salute del detenuto. Con la famiglia stiamo valutando anche di adire le giurisdizioni sovranazionali, perché non possiamo permettere una tale plateale violazione dei diritti umani. Troppi sono i detenuti che muoiono aspettando cure da Stato civile. Non permetteremo che questa storia sia uguale alle altre e, se è necessario, chiederemo che l’Italia venga sanzionata dalla Cedu”. In questo caso l’Europa si troverebbe ancora una volta ad occuparsi di questioni legate ai metodi e ai tempi con i quali in carcere sono valutati diritti fondamentali come quello alla salute, questioni per le quali il nostro Paese è stato già più volte sanzionato. “Il detenuto ha iniziato lo sciopero della fame perché vuole conoscere quali sono le sue effettive condizioni di salute - spiega Pietro Ioia, garante cittadino dei detenuti -. La disperazione in cui si trova lo ha portato a una protesta che può essere tragica considerate le sue condizioni. Il carcere si è attivato tempestivamente e più volte per sollecitare l’acquisizione del referto, ma così viene impedito anche ai medici della struttura di poter avviare le cure e i protocolli necessari per evitare conseguenze gravissime. Il detenuto vuole solo essere curato, il carcere vorrebbe farlo, ma di fatto non si riesce. Il problema della sanità in carcere - conclude Ioia - è sempre più allarmante e paradossale”. Milano. Stop a San Vittore, è scontro politico di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 18 febbraio 2022 L’assessore Riva: non è un carcere vivibile, meglio utilizzarlo come spazio per i giovani e la cultura. Il Pd: no al trasloco. Sì al trasferimento del carcere di San Vittore. L’assessore comunale allo Sport e ai Giovani Martina Riva lancia il sasso nello stagno in un’intervista al Foglio (“San Vittore? Io sarei molto molto favorevole a ripensarlo nell’interesse dei detenuti. Andrebbe ripensato e anche spostato”), provoca le reazioni negative di una parte del Pd milanese, ma tiene il punto. La Riva, infatti, al Giorno spiega nei dettagli la sua posizione: “San Vittore così com’è non è un carcere vivibile, non è un luogo che può effettivamente ospitare in modo dignitoso la popolazione detenuta, che è da decenni superiore ai posti letto disponibili. È chiaro che sul sovraffollamento delle carceri dovrebbe intervenire il Parlamento, ma nel frattempo penso che Milano abbia il dovere di cercare una soluzione almeno per il caso concreto. Tra l’altro ricordiamo che San Vittore ospita per la maggior parte detenuti in attesa di giudizio, quindi presunti innocenti: la soluzione attuale è del tutto incompatibile con i diritti umani e rischi di privare i detenuti di ogni speranza, dell’energia che invece sarebbe necessaria per poter ricominciare”. Non solo. L’assessore con un background politica nei Radicali e un’esperienza diretta come volontaria nelle carceri di Opera e Bollate ha un’idea anche su come potrebbe essere riutilizzato San Vittore una volta svuotato dai detenuti: “A Milano esiste un enorme problema di carenza di spazi: non sono sufficienti gli spazi per i giovani, per lo sport, per il mondo della cultura, per le biblioteche. Spostare San Vittore consentirebbe di restituire dignità ai detenuti e allo stesso tempo restituirebbe alla città un potenziale teatro di iniziative di valore. Parliamo sempre della necessità di nuovi spazi di aggregazione: da qualche parte bisognerà pur cominciare”. Prato. La lezione dei detenuti ai ragazzi: “Prima dei diritti ci sono i doveri” La Nazione, 18 febbraio 2022 Pasquale e Josè a dialogo con gli studenti del liceo Copernico: “Proviamo. ad essere di aiuto” “Questa esperienza ci ha insegnato ad assumerci le nostre responsabilità. Sappiamo di aver sbagliato e giustamente stiamo pagando le conseguenze dei reati che abbiamo commesso. Vogliamo aiutare i giovani a comprendere che hanno sì dei diritti, ma anche dei doveri”. Parole sincere, che vengono dal cuore. Pasquale e José, detenuti a fine pena della Dogaia, si sono aperti davanti agli studenti del liceo Copernico, in occasione di un incontro avvenuto in modalità online nella mattinata di ieri. Incontro organizzato dalla Polizia Municipale, che ha coinvolto pure il Comune. Le classi si sono collegate dalle proprie aule. I due reclusi, invece, dai rispettivi reparti: Pasquale da quello di semilibertà, José da quello di media sicurezza. I due detenuti hanno modi diversi di vivere il carcere, il primo autorizzato a uscire nel weekend per svolgere l’attività di volontariato. Un impegno, assieme al lavoro che entrambi quotidianamente portano avanti, che dimostra la volontà di reinserirsi nella società e di costruirsi un futuro. José da quando è finito in carcere, 11 anni fa, ha perfino cominciato a studiare. “È il momento più bello che ricordi. Ogni mattina mi sveglio alle 4 per studiare: frequento i corsi di Storia Moderna all’Università di Firenze”, ha spiegato il detenuto di origini sudamericane. “Quando sono arrivato in Italia, il Paese mi ha accolto a braccia aperte. In un periodo di disagio, però, non ho saputo reagire in modo positivo e ho commesso un reato, causando sofferenza alla mia famiglia. Adesso chiedo solo una nuova opportunità”. Emozionata anche la testimonianza di Pasquale. “Purtroppo mi sono addentrato in terreni pericolosi. Il momento più doloroso? Quando mio padre è venuto a mancare non l’ho potuto salutare per l’ultima volta. Intendo rifarmi una vita: lavoro otto ore al giorno e mi sono rimesso in gioco, cercando di essere d’aiuto agli altri”. Palermo. “E adesso la palla passa a me”, la presentazione del libro alle Paoline palermotoday.it, 18 febbraio 2022 La Libreria Paoline di Palermo, in collaborazione con l’Arcidiocesi di Palermo, organizza per giovedì 11 gennaio, ore 18, presso la Sala Alberione della libreria, la presentazione del libro “E adesso la palla passa a me”. All’incontro intervengono Giuseppe Notarstefano, Direttore Ufficio Diocesano Pastorale Sociale e del Lavoro della Diocesi di Palermo. Domenico Anastasi, Responsabile Progetto carceri Azione Cattolica di Palermo. Lorenzo Messina, Comunità di Sant’Egidio di Palermo. Rita Barbera, Direttrice carcere Ucciardone. Corrado Lorefice Arcivescovo di Palermo. Consuelo Lupo, attrice. Introduce e coordina, Fernanda Di Monte, giornalista. Sarà presente l’Autore, Antonio Mattone. Il titolo del libro “E adesso la palla passa a me” è la frase scritta da un detenuto in una lettera inviata all’autore. “Quando uscirò dal carcere la palla passa a me, come mi hai detto tante volte tu”. Antonio Mattone, che ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale voluti dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel libro racconta 10 anni di esperienza vissuti come volontario all’interno del carcere di Poggioreale e di altri penitenziari italiani, attraverso gli editoriali pubblicati su Il Mattino. Gli articoli trattano dei problemi e delle vicende di cui tanto si è parlato in questi anni. Sovraffollamento, sicurezza della società, violenza, salute, diritti negati, volontariato. Un viaggio dove alla fine un dato sembra inconfutabile: umanizzare il carcere farà bene a chi è detenuto come a chi non lo è. Antonio Mattone è nato e vive a Napoli. Fin da giovane è impegnato nella Comunità di Sant’Egidio dove ha incontrato i bambini e gli anziani dei quartieri di Scampia, della Sanità e del Centro Storico. Dal 2006, visita ogni settimana i detenuti del carcere di Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, e di altri penitenziari italiani. Ha partecipato come esperto agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale. Editorialista de “Il Mattino” sui temi sociali e del carcere, è direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro della diocesi di Napoli. Rieti. Al Rems concluso il progetto “Lo sport entra nelle carceri” rietilife.com, 18 febbraio 2022 Si è concluso il ciclo di appuntamenti di “Lo Sport entra nelle carceri”, il progetto che rientra nel protocollo d’intesa “Coni & Regione, compagni di sport”, che ha coinvolto i pazienti della Rems di Rieti (Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). La struttura residenziale è dedicata all’accoglienza di persone affette da disturbi mentali e sottoposte a Misura di Sicurezza, che portano avanti il loro percorso di detenzione all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi personalizzati. Tra le varie iniziative di trattamento è stato avviato un efficace progetto sportivo, fortemente voluto dal Presidente del CONI Lazio Riccardo Viola e reso possibile grazie all’impegno della Dott.ssa Carla Romano e della Delegata CONI Rieti Emanuela Perilli. Il progetto ha previsto l’inserimento di attività sportive settimanali finalizzate al recupero psicofisico, al miglioramento della funzionalità muscolo-articolare, dell’efficienza cardiovascolare e della propriocettività. Tutto ciò è stato possibile grazie all’utilizzo di materiale sportivo e piccoli attrezzi, quali ad esempio Fitball, manubri e tavole propriocettive messi a disposizione dal Comitato Regionale CONI Lazio. Il Progetto ha avuto inizio nel mese ottobre grazie al prezioso contributo del tecnico Alessandro Bianchetti, dottore in Scienze Motorie, che ha efficacemente organizzato le lezioni stabilendo un ottimo rapporto con i pazienti e con tutto lo staff della struttura. La REMS di Rieti, diretta dal Dott. Massimiliano Bustini - Dirigente Medico Psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale della ASL di Rieti, e coordinata nelle attività riabilitative dalla Dott.ssa Daniela Gioia, Dirigente Medico Psichiatra Referente, è stata teatro di un magnifico spettacolo di sport e valori. Lo sport come strumento di rinascita, oltre a garantire un miglioramento funzionale, permette il recupero di tutti quei valori fondamentali per la vita quali l’inclusione, l’integrazione ed il rispetto delle regole, dimensioni centrali per garantire percorsi di cura integrati e concretamente efficaci. Referendum. Il paradosso dei quesiti più “popolari” bocciati dalla Corte costituzionale di Paolo Delgado Il Dubbio, 18 febbraio 2022 Eutanasia, cannabis e responsabilità civile dei magistrati sono temi su cui la maggioranza della popolazione ha un’opinione. Ma nessuno potrà esprimerla. L’imperizia di chi ha scritto i quesiti sicuramente ha pesato, i margini di ambiguità nella migliore delle ipotesi, gli strafalcioni secchi nella peggiore, hanno contribuito in misura essenziale all’affossamento dei referendum più sentiti dal popolo votante. La disposizione della Consulta ci ha probabilmente messo del suo, quanto meno ha spinto i giudici costituzionali a tenere gli occhi sbarrati più che socchiusi. Le polemiche sono nell’ordine delle cose: prevedibili quanto inevitabili. Ma la conclusione non cambia di una virgola: quasi certamente la sentenza della Consulta ha affossato non tre referendum ma l’intero pacchetto, dal momento che senza i tre referendum avvertiti come i principali raggiungere il quorum sarà quasi impossibile, e ha portato a una conclusione paradossale: i cittadini non si esprimeranno dove sarebbe logico che lo facessero e potranno invece dire la loro in campi nei quali la stragrande maggioranza di loro si muove senza mappe né bussole. I referendum ammessi non sono affatto secondari. Basti ricordare che la separazione delle carriere (in questo caso delle funzioni) in magistratura è argomento sul quale le forze politiche si scontrano da almeno trent’anni. Alla loro oggettiva rilevanza non corrisponde però il riconoscimento della stessa da parte degli elettori. Non solo perché si tratta di questioni che solo in casi circoscritti toccano direttamente la loro vita, la loro esperienza o la consapevolezza di potersi trovare un giorno a contatto diretto con situazioni come quelle sulle quali miravano a intervenire i quesiti bocciati. Questo elemento c’è e inevitabilmente ha un peso enorme ma incide anche più a fondo il fatto che i requesiti inammissibili, soprattutto quelli sulla cannabis e sull’eutanasia ma in una certa misura anche quello sula responsabilità civile dei giudici, attengono a scelte di ordine etico mentre gli altri quesiti rinviano a opzioni tecniche. Nonostante la retorica referendaria è in realtà molto discutibile l’affidamento agli umori dell’elettorato di decisioni che presuppongono un grado elevato di competenze tecniche, mentre non lo è affatto il ricorso alla consultazione dell’intera platea elettorale quando sono in ballo scelte etiche che, per la loro stessa natura, non richiedono un sapere specifico ma riguardano direttamente la coscienza e le convinzioni di ciascuno. La sentenza capovolge la logica, e che lo faccia in nome di qualche ‘ritaglio’ discutibile non rende l’esito meno paradossale: l’elettorato può esprimersi su temi che non conosce o conosce solo superficialmente, distanti dalla propria esperienza quotidiana mentre non può farlo sugli argomenti sui quali sarebbe invece naturale che avesse l’ultima parola e che quindi sente come molto più reali e urgenti. L’eccezione è il referendum sulla legge Severino che, sia pure per motivi di non nobilissima lega, cioè in forza di una spinta anti- politica e giustizialista che si è indebolita ma non esaurita coinvolge molto più degli altri gli elettori. Ma è difficile che, da solo, riesca a trascinare alle urne il 50 per cento degli elettori e per questo l’eliminazione dei quesiti considerati a torto o a ragione ‘ principali’ finirà probabilmente per affossare anche gli altri per mancato raggiungimento del numero legale. I referendum, anche così ‘depotenziati’ avranno una serie di riflessi sul quadro politico e sull’attività legislativa, Incideranno, probabilmente frenandolo, sull’iter della Severino, potrebbero creare tensioni tra 5S e governo e sono già l’ennesimo atto della lunghissima faida tra gli alleati di centrodestra, con Giorgia Meloni impegnata a conquistare il voto ex grillino schierandosi contro i quesiti più ‘ antigiustizialisti’ sostenuti dall’alleato. Il Parlamento avrebbe tutte le possibilità di sanare la situazione intervenendo con le sue leggi ma non è stato in grado di farlo sinora e non si vede perché dovrebbe riuscirci adesso. Ma, trattandosi di referendum, il tema centrale riguarda la normativa obsoleta su un istituto che si può tenere o sacrificare. Ma se si decide di tenerlo deve anche essere messo in grado di funzionare. Proprio il caso del referendum sulla cannabis lo dimostra: i promotori sono stati costretti allo slalom bersagliato dalla Consulta per non incorrere nel divieto di quesiti propositivi. I quali quesiti propositivi, però, sono effettivamente uno strumento da maneggiare con la delicatezza riservata agli esplosivi. Rivedere le regole referendarie non è affatto compito facile e tuttavia se il l’istituto referendario deve continuare a esistere è anche un compito indispensabile. Eutanasia e cannabis, Cappato va allo scontro con Amato: “Il suo giudizio è politico” di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2022 Marco Cappato replica alle parole di Giuliano Amato su eutanasia e cannabis. “O c’è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c’è un attacco in malafede al comitato promotore”. Si alza lo scontro tra la Corte Costituzionale e i comitati promotori dei referendum Eutanasia Legale e Cannabis, ritenuti inammissibili. “Se i giudizi di inammissibilità sono stati dati sulla base di un errore materiale metteremo in discussione la validità di quel giudizio. Ma dovremo valutare i margini, forse strettissimi per una contestazione formale”: è quanto ipotizzato ieri dal tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, intervenuto durante una conferenza stampa convocata proprio dai due comitati. L’incontro con i giornalisti, ha spiegato sempre Cappato, si è reso necessario per contrastare quanto affermato dal Presidente della Consulta durante l’altra conferenza stampa di mercoledì sera. “Ascoltare la conferenza stampa del presidente Amato - ha esordito il leader radicale - ci ha dato la certezza di elementi di valutazione politica, perché si è trattato di una conferenza stampa politica”. In particolare, ha sottolineato Cappato, “ “I giudizi” emersi durante la conferenza stampa di Amato minano agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità dei comitati promotori, a cui è stata attribuita l’incapacità tecnica di scrivere dei quesiti referendari ed anche l’accusa di avere preso in giro milioni di persone firmatarie ed elettori”. Proprio in merito alla presunta incapacità tecnica, l’ex europarlamentare ha sottolineato: “Sorvolando su giuristi e costituzionalisti che si sono espressi favorevolmente sulla ammissibilità dei quesiti su cannabis ed eutanasia, il giudizio nella Corte non è stato unanime, quindi possiamo dire che anche giudici costituzionali hanno ritenuto che questi referendum fossero ammissibili. Allora trattare con tanto disprezzo i comitati promotori è un’accusa critica rivolta non a Marco Cappato ma ai giudici della Corte ed alcuni massimi costituzionalisti italiani”. Infine su quanto detto da Amato in conferenza stampa rispondendo ad una nostra domanda (“Io sono assai meno politico di lui”) Cappato ha replicato: “Non ho da dare una risposta personale ad Amato, ma dire che nel quesito si parlava di eutanasia e non di omicidio del consenziente contiene una manipolazione della realtà. Il quesito è come stabilito dalla Corte di Cassazione sull’omicidio del consenziente. Se Amato non gradisce i termini della nostra propaganda politica non ha nulla a che vedere con l’ammissibilità, gli elettori non sono bambini e giudicano sulla base del contenuto del referendum”. Quindi, in conclusione, “o c’è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c’è un attacco in malafede al comitato promotore. Scelga il presidente della Corte quale delle due possibilità”. Respinto alla Camera il blitz di Forza Italia e Lega contro la legge sul fine vita di Valentina Stella Il Dubbio, 18 febbraio 2022 Dopo la bocciatura del quesito sull’eutanasia, si prova a recepire almeno la sentenza costituzionale del 2019. C’era grande attesa ieri alla Camera, dove sono arrivati in serata gli emendamenti alla legge sul fine vita. Dopo la bocciatura, da parte della Corte costituzionale, del quesito referendario sull’omicidio del consenziente, alle 19: 30 sono approdati nell’Aula di Montecitorio gli emendamenti del centrodestra soppressivi dell’articolo 1, con i quali sarebbe venuto a cadere l’intero testo unificato delle proposte di legge “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”. I due emendamenti avevano come primo firmatario Pagano per la Lega e Zanettin per Forza Italia. I relatori (Alfredo Bazoli e Nicola Provenza) hanno espresso parere contrario su tutte le proposte di modifica riferite all’articolo 1 relativo alle “Finalità”, mentre il governo si è rimesso alla volontà dell’aula. In giornata era trapelata l’ipotesi che Forza Italia e Lega potessero chiedere il voto segreto, notizia poi smentita. Invece a farlo sono stati quelli di Fratelli d’Italia. Poco dopo le 20, gli emendamenti sono stati respinti con 262 contrari, 126 favorevoli, un astenuto. Non è andato a segno dunque il tentativo, compiuto dai partiti di centrodestra presenti in maggioranza, di mettere in discussione l’intero percorso della legge. Ha tenuto il resto dell’alleanza di governo, in cui si sono distinti Pd e Leu, risultati i gruppi con la maggiore percentuale di presenti in Aula. Durante il dibattito proprio Pierantonio Zanettin aveva detto: “La legge sull’eutanasia l’abbiamo già votata nel 2017 e si chiama legge sul biotestamento. Quello che trattiamo qui è l’omicidio del consenziente. È un omicidio...”. A favore dell’emendamento soppressivo anche Maurizio Lupi, leader di Noi per l’Italia: “Chi stabilisce il valore della vita di una persona?”. A seguire la diretta dei lavori, è sembrato emergere un certo disinteresse da parte di alcuni parlamentari. Un continuo e fastidioso brusio ha più volte indotto la vicepresidente della Camera Maria Edera Spadonia a richiamare all’ordine. A commentare l’avvio del voto in Aula degli emendamenti al testo sul fine vita è Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera e deputato M5S: “Un segnale positivo da parte dell’Aula che spero venga accolto positivamente da quel vasto pezzo di società che si è sentito deluso per la non ammissione del quesito referendario. Gli emendamenti soppressivi, i più insidiosi, sono stati respinti dalla maggioranza che sostiene il provvedimento, spero si vada avanti così”. Nella mattinata erano state diverse le dichiarazioni dei leader politici sul tema del fine vita. Sul suicidio assistito, Matteo Salvini ha detto: “Io sto con le parole del Santo Padre: per me la vita è vita, quindi voteremo di conseguenza. Se ci fosse stato il referendum avrei fatto campagna per il no”. Parole che il leader della Lega ha pronunciato in conferenza stampa a Montecitorio. Sul fronte opposto, il Pd, con il segretario Enrico Letta, aveva chiesto di procedere in Aula: “Oggi (ieri, ndr) arriva in Aula il testo sul suicidio assistito. Copre il vuoto normativo che sta generando tante situazioni drammatiche. Il testo consente di recuperare tutte le indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale del 2019. È un dovere legiferare in questo campo”. Di diverso parere Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che, nella conferenza stampa convocata dai comitati promotori dei referendum eutanasia legale e cannabis per replicare al presidente della Corte costituzionale Amato, aveva detto: “Il testo base in discussione alla Camera è peggiorativo perché restringe ciò che già è legale, ossia le possibilità di accesso al suicidio assistito a determinate condizioni”. Per il Movimento 5 Stelle ha parlato anche Giuseppe Conte: “Il testo sul fine vita è molto equilibrato, perché abbraccia anche il rafforzamento delle cure palliative e introduce dei percorsi di verifica con i comitati etici, che sono garantisti sugli interventi costituzionalmente presidiati. La comunità nazionale è più avanti della politica e la politica deve fare un passo avanti per non rimanere indietro”. Stesso pensiero espresso due giorni fa dal presidente della Camera Roberto Fico: “Bisogna andare fino in fondo, perché il Parlamento ha il dovere morale e politico di approvare una legge che il Paese attende”. Secondo il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, “il centrodestra da molto tempo fa muro su ogni questione etica, anche oggi (ieri, ndr) il primo emendamento che l’Aula dovrà affrontare sul fine vita difatti è soppressivo. Questo dimostra quanto sia in ritardo la politica italiana sui temi etici e quanto sia in contrasto con la vita reale dei cittadini, e con le attese di coloro che avevano firmato i referendum su cannabis ed eutanasia”. La mobilitazione degli studenti non si ferma di Davide Maria De Luca Il Domani, 18 febbraio 2022 Gli studenti oggi tornano in piazza per protestare contro l’alternanza scuola lavoro e quella che definiscono “scuola-azienda” e contro la seconda prova all’esame di maturità, da poco reintrodotta dal ministero. Manifestazioni e cortei sono stati convocati da collettivi e organizzazioni della sinistra studentesca, come il Fronte della gioventù comunista e La Lupa, il nuovo movimento romano molto attivo nel corso delle ultime manifestazioni. Cortei sono previsti in oltre 40 città, da Arezzo a Vicenza. “Chiediamo l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro, una maggiore attenzione ai problemi psicologici dei ragazzi, un passo indietro sulla maturità per cui sono stati reintrodotti gli scritti nonostante, a causa del Covid e della dad, non siamo stati preparati a sufficienza”, dice Mattia Maurizi, studente del liceo Darwin e membro del coordinamento della Lupa. Le manifestazioni erano già state fissate in precedenza, ma hanno ricevuto nuovo impulso questa settimana, dopo la morte di Giuseppe Lenoci, studente 16enne di un corso di formazione regionale delle Marche, deceduto in un incidente sul lavoro in provincia di Ancona lunedì 14. Lenoci è il secondo ragazzo a morire mentre si trovava in stage o in un altro corso di formazione. Poche settimane fa, Lorenzo Parelli, studente 18enne, era deceduto durante l’ultimo giorno di stage, schiacciato da una trave caduta nell’azienda dove lavorava. Dopo la morte di Parelli, migliaia di studenti erano scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro l’alternanza scuola lavoro e, più in generale, contro un’istituzione che, accusano, si è trasformata in una “scuola-azienda”, dove gli interessi economici hanno la meglio sulla qualità della formazione. Dopo l’incidente che ha causato la morte di Lenoci, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi aveva promesso cambiamenti nel rapporto tra scuola ed esperienze lavorative. “Sia l’alternanza scuola-lavoro che la formazione professionale sono importanti, ma con le regioni bisogna rivederli per mettere al centro il progetto educativo, non può essere un surrogato del lavoro”, aveva detto Bianchi. Un tavolo con regioni e ministero del Lavoro è stato convocato in settimana, me il timore che eventuali provvedimenti non riusciranno ad essere approvati è molto forte. La maturità - L’altra richiesta degli studenti è quella di cancellare la seconda prova all’esame di maturità, che consiste di solito in un elaborato scritto, ma che nelle scuole professionali può anche essere un esame pratico. La seconda prova è stata recentemente ripristinata dal ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, dopo essere stata sospesa nel 2020 e nel 2021 e sostituita con un elaborato scritto, realizzato sotto la guida dei docenti. La modifica era stata introdotta per andare incontro alle difficoltà degli studenti che, tra dad e quarantene, raramente hanno potuto completare i programmi ordinari e prepararsi così alla seconda prova. Il ritorno della seconda prova fa parte del “progressivo ritorno alla normalità che stiamo realizzando”, ha detto il ministro Bianchi. Ma secondo gli studenti, il 2021 non è stato un anno normale. Moltissime ore sono state perse per la didattica a distanza, le assenze degli stessi studenti o dei loro professori. Per gli studenti degli istituti tecnici la situazione rischia di essere ancora peggiore. “Io studio tra le altre cose come funziona un tornio. Ancora non ne ho mai visto uno e non so come farò se dovesse uscire all’esame”, aveva detto Massimo Felici, studente del liceo Faraday di Ostia durante una delle manifestazioni a Roma dei giorni scorsi. Gli studenti non sono soli in questa richiesta. All’inizio del mese, l’Associazione nazionale presidi aveva chiesto al ministro di “ripensarci”. La richiesta è arrivata anche dai genitori. Il Coordinamento dei presidenti del Consiglio di istituto di Roma e del Lazio, in cui siedono i genitori degli studenti eletti in ciascuna scuola superiore, ha definito la seconda prova una “ingiusta maturità”. Le prime proteste degli studenti dopo la morte di Lorenzo Parelli erano state accolte con durezza dalle forze dell’ordine, che in diverse città hanno caricato gli studenti, ferendo decine di manifestanti, alcuni in modo grave. La ministra dell’Interno Luciana Lamorgese ha incolpato dei disordini gruppi di “infiltrati” tra gli studenti, un’accusa respinta dalle organizzazioni studentesche. Secondo Maurizi, Lamorgese dovrebbe ritirare la sua dichiarazione. Altre manifestazioni si sono svolte a febbraio in un clima teso, ma senza che si verificassero incidenti. Lamorgese ha detto questa settimana di non essere preoccupata per i cortei di domani. “Non ho grande preoccupazione per le manifestazioni di venerdì e ritengo che i giovani debbano esprimere le loro idee - ha detto la ministra giovedì - Ho fatto fare ai miei uffici una circolare proprio perché ci sia una maggiore attenzione al dialogo con i ragazzi e con gli organizzatori”. Le parole della ministra rievocano quelle del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento, pochi giorni dopo gli scontri tra polizia e manifestanti, aveva parlato del dovere di “ascoltare la voce degli studenti”. Secondo diverse organizzazioni studentesche, però, negli incontri convocati dalle questure in questi giorni la richiesta è quasi sempre stata quella di ridurre i percorsi, spostarli o adottare altri limiti alle manifestazioni. L’urlo degli studenti in 40 città: “Non si può morire di scuola” di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 febbraio 2022 La protesta. “Quanto sangue deve ancora versarsi? Perché nel peggiore dei casi muore, nel migliore si rimane precari a vita”. Dopo le morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci nuovo venerdì di manifestazioni studentesche in tutta Italia per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro (i percorsi per le competenze trasversali, “Pcto”), contro l’insicurezza e la precarietà nella formazione professionale e la seconda prova scritta alla maturità. Nella capitale gli Stati generali della scuola, tre giorni per ripensare l’istruzione Due tragiche morti, quelle dei giovanissimi Lorenzo Parelli (18 anni) e Giuseppe Lenoci (16 anni) hanno portato gli studenti genovesi - oggi saranno in piazza insieme ai coetanei in una quarantina di città - a formulare una domanda che toglie il fiato: “Quanto sangue deve ancora versarsi? Perché nel peggiore dei casi muore, nel migliore si rimane precari a vita poco importa che si muoia in alternanza scuola lavoro o in un corso di formazione professionale, si muore sempre all’interno di un sistema di sfruttamento di classe”. A questo si aggiunge una grande incertezza: “Ancora non sappiamo su cosa verterà la maturità”, dicono a Torino e provincia dove sono occupate 40 scuole. La seconda prova scelta dal ministro dell’Istruzione Bianchi è contestata. Il relativo silenzio mediatico che ha accompagnato la notizia della morte di Giuseppe Lenoci, avvenuta a tre settimane da quella di Lorenzo Parelli, potrebbe essere il sintomo di un adattamento alla tragedia, la stessa che pesa davanti alle morti sul lavoro: tre in media al giorno. Vittime di un sistema che non si vuole fermare né cambiare. Da Torino a Roma, da Milano a Bologna e Napoli, da Sassari a Fano gli studenti non ci stanno. Non vogliono morire di lavoro, e tanto meno di studio. Oggi lo ripeteranno. Il rischio è che sia un urlo nel deserto di un paese che sembra adattarsi a tutto, anche all’intollerabile. Il Fronte della Gioventù Comunista ieri ha fatto un blitz al ministero dell’università. “Nelle università e nelle scuole: non siamo schiavi delle imprese!” si è letto su uno striscione. “Lorenzo e Giuseppe - sostengono - sono stati uccisi dalla stessa logica di integrazione tra formazione e imprese che orienta sempre di più anche la didattica universitaria”. Gli studenti non sono soli. I sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil oggi hanno fatto sapere che parteciperanno alla manifestazione di Torino dove le scuole occupate sono diventate 40 dopo lo scandalo della repressione. La prossima settimana terranno manifestazioni contro le morti sul lavoro. E per scuola. L’Unione sindacale di base (Usb) ha chiamato lo sciopero nella scuola e chiede l’introduzione del “reato di omicidio sul luogo di lavoro”. Ieri alla Camera il neonato gruppo parlamentare Manifesta (4 deputate ex Cinque stelle Suriano, Sarli, Ehm e Benedetti con Rifondazione Comunista e Potere al Popolo) hanno partecipato a un’altra conferenza stampa con il movimento della Lupa dopo quella dell’altro ieri davanti al ministero dell’Istruzione. A quest’ultima ha partecipato anche il movimento dei disoccupati napoletani “7 novembre” inseriti (tra gli altri) dalla ministra dell’interno Lamorgese tra gli “infiltrati”, una retorica che divide il movimento studentesco in “buoni” e “cattivi”. Tentativo respinto mentre crescono le richieste di dimissioni di Lamorgese dopo l’inconcludente informativa tenuta al Senato sulle manganellate del 23 e 28 gennaio. “Non cadete nelle provocazioni, domani cercheranno di provocarvi ma voi siate ineccepibili - ha detto il cantante J-Ax che ieri ha incontrato a Torino gli studenti dell’Istituto Regina Margherita occupato - Ho un figlio piccolo e sono qui per ringraziarvi perché grazie a voi e alle vostre lotte ho la speranza per un futuro migliore per le prossime generazioni”. “La nostra è una grande critica al sistema scolastico italiano” Se ne parla nelle scuole occupate a Torino e Milano. E da oggi, fino a domenica, anche agli “Stati generali della scuola” a Roma. Primo appuntamento stasera dalle 18,30 allo Snodo in via del Mandrione 63. Migranti. Il business della vergogna di Stefano Galieni Internazionale, 18 febbraio 2022 Dalla Gran Bretagna alla Serbia, dalla Spagna alla Grecia. Un team di ricercatori europei ha analizzato le condizioni di vita nei centri per il rimpatrio dei migranti durante la pandemia nei Paesi dell’Ue e non solo. “Sono strutture da abolire, servono solo come spauracchio”. La Commissaria europea per i diritti umani, Dunja Mijatovié, all’esplodere della pandemia aveva chiesto ai governi degli Stati membri di sospendere il trattenimento nei centri per il rimpatrio presenti, a vario titolo, nei 27 Paesi dell’Unione. Le motivazioni della raccomandazione erano dettate dal fatto che la chiusura delle frontiere avrebbe impedito di effettuare i rimpatri e che i problemi di ordine sanitario si sarebbero acuiti. Richieste che non sono state mai rispettate. Un punto di osservazione sulle condizioni dei migranti ora ce lo offre il volume, da pochi giorni in libreria edito da Seb 27, dal titolo Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa ai tempi della sindemia, curato da Francesca Esposito, Emilio Caja e Giacomo Mattiello. Il testo, a cui hanno collaborato ricercatrici e ricercatori in ambiti multidisciplinari e provenienti da diversi Paesi, ha il gran pregio di offrire una panoramica, per quanto non esaustiva (non tutti i 27 Stati sono trattati nel volume che però considera anche Paesi extra Ue) su quanto è accaduto nel sistema di internamento per persone la cui presenza è considerata illegale, soprattutto negli ultimi due anni. Gli autori non mancano di spiegare in sintesi come funzionino nel Paese in esame, tali strutture - che hanno elementi in comune e altri caratteristici legate ai contesti - e i loro punti di vista, come di osservazione, diversi, non impediscono ad ognuna/o di indicare un approccio radicalmente abolizionista come unica soluzione praticabile. Ne parliamo con Francesca Esposito, lecturer presso la Scuola di scienze sociali all’università di Westminster a Londra e direttrice associata di Border criminologies, (una piattaforma interattiva sulla detenzione) realizzata all’Università di Oxford. Il suo punto di vista di ricercatrice e attivista - ha lavorato molto soprattutto in merito alla detenzione delle donne migranti - ha il pregio di contenere i dati inequivocabili delle analisi quantitative e qualitative e lo sguardo mai lontano dall’indignazione verso un sistema che considera ingiusto e criminale. “Premetto che invece di “pandemia” abbiamo scelto di usare il termine “sindemia”, utilizzato da Merrill Singer quando si affrontava l’emergenza Aids. Sindemia perché è impossibile non considerare insieme la crisi sanitaria e i suoi aspetti sociali. Le disparità sociali non solo influiscono nel poter o meno evitare il contagio, ma si sono acuite, creando un numero enorme di nuovi poveri e marginali - afferma Esposito. Ed entrando nel tema che affrontiamo nel libro, non possiamo che confermare il fatto che il sistema di trattenimento non si è bloccato. Anzi, si è nel frattempo riorganizzato”. La curatrice del libro fa alcuni esempi: “In Italia non c’è stata una misura ufficiale per scarcerare chi è nei Cpr; solo provvedimenti, indicazioni, misure vaghe da adottare e soprattutto tardive. Si è creata quella che Stefano Anastasia (fra i fondatori di Antigone, ora Garante dei detenuti nel Lazio, ndr) definisce una “deistituzionalizzazione larvata”. In alcuni centri il sistema Cpr “non è più andato a cercarsi clienti” e si è contratto. Si è continuato a rinchiudere chi proveniva dai penitenziari e i marginali senza fissa dimora. In Spagna, come scrive Ana Ballestros Pena, c’è stata la “breve estate dell’abolizione dei Cie”, iniziata il 6 maggio 2020 e terminata il 23 settembre. Un provvedimento, all’estero idealizzato, con cui si sono chiusi quelli che in Spagna sono ancora Cie ma che si è tradotto in una contemporanea diminuzione delle libertà in tutte le altre strutture per migranti. E la crisi si è sentita soprattutto nelle enclave di Ceuta e Melilla, dove c’è stato sovraffollamento. Ora si è tornati alla normalità. In Svezia e Danimarca tutto è continuato come se nulla fosse”. Quello che è stato evidente con la sindemia è che l’Europa non ha un sistema coordinato e non attua direttrici comuni, che pure esistono. Ogni Paese ha agito per conto proprio al punto che, come è accaduto per le carceri, anche i centri sono rimasti nell’ombra, attraversati dalla paura del contagio. Molti migranti hanno raccontato di essersi sentiti abbandonati e dimenticati, ultimi fra gli ultimi. Secondo Francesca Esposito hanno prevalso quelle che vengono definite “gerarchie di meritevolezza” e valoriali, che hanno permesso ad alcuni di uscire e ad altri no. “Nel Regno Unito ad esempio, come in Italia, state presto liberate le donne - del resto sono trattenute in numero minore - mentre chi è uscito dal carcere è rimasto dentro i centri. In Gran Bretagna si è verificata una concomitanza di eventi che ha portato ad una transizione epocale, come illustra Mary Bosworth. Si sono sovrapposte la Brexit, la sindemia e l’aumento dei tentativi di ingresso dalla Manica. Chi arrivava dalla Francia non poteva essere rispedito indietro perché il Regolamento Dublino vale solo per i Paesi Ue”. La crisi sanitaria non è riuscita nemmeno a portare ad un minimo di consapevolezza sul fallimento del sistema dei centri per il rimpatrio. Se infatti in Italia negli anni passati non si è mai superata la soglia del 50% di rimpatri di persone che vi erano trattenute, nel resto d’Europa, si ricorda nel volume, raramente si è raggiunto il 60%. Il tutto riferito, ricordiamo, al rapporto fra persone trattenute e numero di “irregolarmente presenti” nel territorio ovunque infinitesimale. Il punto di vista di chi ha curato e scritto il volume però parte da un assunto diverso: “Io sono convinta che la reale funzione del trattenimento sia quella di spettacolarizzarlo. C’è chi dice che la stessa cosa avvenga per il carcere ma almeno in caso di reati, si parte da un’indagine e da un processo in cui dovrebbe prevalere la presunzione di innocenza - continua Francesca Esposito. Verissimo che anche in tale contesto prevale la discrezionalità di chi giudica, ma con chi è immigrato l’onere della prova, cioè del diritto a restare libero, spetta solo a chi è rinchiuso. In quanto stranieri, si è illegali a prescindere, e prevale un approccio repressivo che ad esempio è plateale come pretesto per trattenere i rom. Con loro ci si avvale della legge sull’immigrazione per svolgere operazioni di repressione punitiva. Questo serve a chi comanda per dare sfoggio dell’esercizio del potere, di poter operare un controllo simbolico del territorio, di esibire l’orientamento politico. Con i centri si convalida lo spauracchio populista dell’invasione da cui difendersi. Più che l’effetto di deterrenza verso i migranti (con il messaggio “rischiate di finire qui”) i centri sono un messaggio rivolto agli autoctoni che si sentono rassicurati al punto da far passare in secondo piano i costi umani ed economici di queste strutture. Il controllo reale è effimero, ma mostra uno strumento potente per riaffermare la white imagine community, l’immagine di una comunità bianca che domina. Che siano anche uno strumento per fare business è solo un “guadagno collaterale”. Nel volume si parla molto della situazione in Grecia, mentre dalla Germania giungono soprattutto storie personali e di Svezia e Danimarca si demolisce l’immaginario di Paesi attenti ai diritti umani - evidentemente non riguardano coloro che sono considerati illegali. E significativo è il caso della Serbia di cui poco si parla: “Lì si è un contesto particolare - riprende Esposito - perché ufficialmente nel Paese esiste un solo piccolo centro nei pressi di Belgrado. Ma la Serbia sembra essere un unico centro di detenzione, con le persone a cui la libertà è spesso limitata e che funziona come un sistema di dighe che si aprono e si chiudono. I migranti devono restare poco nel Paese, quindi, periodicamente li si lascia circolare verso gli altri Stati dei Balcani che sono nell’Ue. La Serbia è un Paese di esternalizzazione delle frontiere ma che attende di entrare nell’Unione e che quindi, nel fermare o lasciar passare le persone, deve tenere conto delle proprie prospettive europee”. Ma intanto già si agisce in una condizione di post-sindemia. Nel volume, a proposito dello scenario internazionale, si considera molto i nuovi accordi firmati a marzo e maggio 2020 fra Italia e Tunisia, che facilitano i rimpatri. “In Italia non solo è partita una svolta efficientista - conclude Esposito ma con Tunisi si è creato un sistema di porte girevoli. I migranti arrivano, vengono chiusi nelle navi quarantena, passano nei Cpr e poi vengono rimpatriati rapidamente. Nel frattempo sono riprese dappertutto sommosse e rivolte, per tali ragioni, riprendiamo il punto di vista di Ruth Gilmore, secondo cui il tema dell’abolizione del sistema dei Centri e del regime delle frontiere deve diventare centrale. A nostro avviso non basta tutelare i più vulnerabili e chiedere, solo per loro, libertà. Si tratta di un sistema di cui possiamo fare a meno. Le risorse spese per bloccare le persone e chiudere le frontiere vanno spese per migliorare la vita di tutte e tutti, non per procurare morte”. Ucraina. La via diplomatica si fa più tortuosa di Stefano Stefanini La Stampa, 18 febbraio 2022 La schiarita sui cieli ucraini è durata poco. Non faceva i conti con la rigidità degli inverni russi. Pur ben messo in scena dal Cremlino il ventilato cambio di direzione dei giorni scorsi, dalla minaccia di guerra al negoziato, richiedeva due cose, entrambe non avvenute: un qualche allentamento della morsa militare intorno all’Ucraina; l’ingaggio della Russia nel dialogo diplomatico offerto da Usa e da Nato - uscendo dalla conversazione fra “un muto e un sordo” di cui Sergei Lavrov aveva irriso l’omologa britannica Liz Truss. Sul terreno, del preannunciato ritiro di truppe russe non c’è traccia; semmai il contrario. In diplomazia, Mosca ha alzato i toni del confronto, Quel che è peggio li ha allargati ad una rivalità con Stati Uniti e Occidente che era sepolta sotto le macerie della guerra fredda. La crisi ucraina l’ha riportata a galla. Kiev è involontario ostaggio di questa sfida russa a Usa, Nato e Ue. Che devono tenervi testa senza sacrificare l’Ucraina, senza guerra e senza cadere in una riedizione di un confronto Est-Ovest che oggi porterebbe solo acqua alla Cina. La leva principale dell’Occidente sono le sanzioni. Ne hanno parlato ieri i leader Ue. Sono un deterrente il cui scopo - come l’arma nucleare - è di non essere usate. Ma devono essere pronte all’uso. Come ha osservato il Presidente del Consiglio è questa la forza dell’Ue nei confronti della Russia. Mario Draghi ha poi toccato l’altra fondamentale difesa di cui hanno bisogno l’Italia e l’Europa: la resilienza contro attacchi informatici, interferenze nella politica e manipolazioni dell’informazione che hanno raggiunto, ha detto, un livello allarmante. Chiarissimo. Il segnale più negativo di ieri non è il mancato ritiro di truppe. Sarebbe comunque stato simbolico. Preoccupa molto di più la risposta alle proposte americane e Nato. Nella sostanza è quanto ci si aspettava: un “assolutamente non basta” condito da interesse per negoziati sul controllo armamenti, a partire dai missili nucleari a medio raggio (Inf). Fin qui tutto nella norma. Come premessa al dialogo, che la Russia ribadisce di volere, la risposta ha però due grosse tare. Primo, la minaccia di misure “tecnico-militari’ nel caso le garanzie di sicurezza richieste dalla Russia non siano accettate. Questo significa che, al di là dello scacchiere ucraino, Mosca è pronta a mettersi di traverso sulla sicurezza europea e, presumibilmente, in altre aree, come sta facendo in Libia e in Mali. Secondo, la risposta russa è stata immediatamente resa di pubblico dominio. Quella americana non lo era. Così facendo Mosca dimostra di voler mettere in scena un negoziato non di volerlo fare. Un negoziato serio, specie su temi complessi come quello del controllo armamenti, non si fa a colpi di dichiarazioni. Si fa scambiandosi proposte, anche divergenti, poi sedendosi a un tavolo. Riservatamente. Infine, ciliegina sulla torta servita ieri dal Cremlino, l’espulsione del numero due dell’ambasciata americana a Mosca, Bart Gorman. Un calcio nello stinco appena prima di entrare in campo? Per quanto importante sia l’Ucraina per la Russia, e per Vladimir Putin in particolare, il vero oggetto del contendere sono le ben più profonde rimostranze russe sugli equilibri stabilitisi in Europa dopo il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’Urss - che, vale la pena ricordarlo, fu suicidio autoinflitto. Putin ha praticamente già incassato il non ingresso di Kiev nella Nato. Non si accontenta. Ha il merito di dirlo apertamente. Per l’Occidente il problema diventa adesso di trovare un punto di caduta che stabilizzi il confronto, eviti lo scontro militare e getti le basi di una sicurezza europea “indivisibile” per tutti, per la Russia come per l’Ucraina. La via per una soluzione diplomatica, auspicata ieri dal Ministro Di Maio in visita a Mosca, esiste ma è un sentiero stretto e tortuoso - e, da ieri, di nuovo in salita. No al mandato d’arresto per il torturatore cileno di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 18 febbraio 2022 La Cassazione respinge la richiesta della Procura di Firenze. E lui resta in Germania. No al mandato di arresto europeo per Reinardh Doring Falkenberg. Non sarà l’Italia a estradare in Cile il torturatore del regime di Pinochet condannato per crimini contro l’umanità. La Corte di Cassazione ha respinto la richiesta della Procura generale di Firenze, dichiarando il ricorso inammissibile. La motivazione non è stata ancora depositata, ma i giudici della Suprema Corte hanno confermato l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Firenze aveva negato, nel dicembre scorso, la misura cautelare in carcere per il tedesco di Gronau. Falkenberg, classe 1946, fu uno dei leader della “Colonia Dignità”, borgo sulle Ande, che da rifugio per nazisti in fuga dalla Germania dopo la seconda guerra mondiale divenne, negli anni 70, centro di detenzione per gli oppositori al regime militare. Su di lui pende una condanna a 5 anni per il sequestro di tre cittadini cileni, di cui si persero le tracce dopo un periodo di reclusione nella famigerata Colonia. E nonostante una sentenza, nel 2019 la Germania ha negato l’estradizione di Falkenberg verso il Cile per mancanza di prove. La decisione della Cassazione ora segna l’ultimo capitolo giudiziario di una dolorosa vicenda per le famiglie di Elizabeth Rekas, Antonio Ormoachea e del fotografo italo cileno Juan Maino sostenitore di Salvador Allende, che da anni gridano giustizia. Falkenberg era arrivato il 22 settembre a Forte dei Marmi con un pullman di pensionati tedeschi, quando la polizia lo fermò. Nel 2005, abbandonò il Cile mentre era ancora sotto processo e per 16 anni gli diedero la caccia. Quando pensava di essere sfuggito alla giustizia, incappò in un controllo e risultò ricercato dall’Interpol. Per lui scattarono le manette. La Corte d’appello convalidò l’arresto in carcere. Poi gli stessi giudici, accolsero la richiesta del difensore e per motivi di salute sostituirono il carcere con l’obbligo di presentazione alla Questura di Lucca. La misura, per legge, avrebbe perso efficacia il 22 novembre se non fosse arrivata la richiesta di estradizione. L’istanza arrivò in Corte d’appello il 19 novembre, ma nessuno lesse la mail fino al 22. Quando il tedesco era stato rimesso in libertà dalla questura di Lucca “inopinatamente”, secondo la Corte d’appello.