Gentile Ministra, “un uomo solo al comando” delle carceri non basta di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 17 febbraio 2022 La giustizia penale è “regina” delle trasmissioni televisive e al centro dei programmi politici di tutti gli schieramenti, il carcere molto meno: per questo diventa sempre più importante che chi questa realtà la conosce bene da dentro aiuti a riflettere sul fatto che il processo, la condanna, la galera, il male a cui si risponde con altrettanto male non ci rendono più sicuri né sono in grado di arginare e contrastare il disagio e la sofferenza sociale. Gentile Ministra, vista la complessità dei temi riguardanti le pene, il carcere, le misure di comunità, e l’intenzione, più volte espressa da Lei, di riformare profondamente le carceri e tutto il sistema dell’esecuzione penale, vorremmo con insistenza e pazienza presentare una sintesi delle proposte del Terzo Settore e le riflessioni da cui si sviluppano, a partire dalla consapevolezza che la privazione della libertà in carcere è di per sé una condizione innaturale che produce sofferenza, alienazione, isolamento. Si tratta, quindi, di lavorare per ridurne i danni là dove non se ne può proprio fare a meno. In considerazione del fatto che a breve verrà nominato un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ci permettiamo anche di dire che, in una situazione complessa e disgregata come quella attuale, non basta “un uomo solo al comando”: bisognerebbe davvero avere il coraggio di costituire una task force, con competenze differenziate, organizzative e relative alla sicurezza, pedagogiche per la centralità della rieducazione, e di tutela dei diritti, perché oggi bisogna ripartire da dignità e diritti. Per questi compiti servono persone che abbiano maturato una lunga esperienza che le abbia portate a conoscere a fondo il mondo del carcere, che siano appassionate del proprio lavoro, che credano veramente che le persone detenute possono cambiare e che abbiano una spiccata propensione alla collaborazione e valorizzazione di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nella complessa realtà dell’esecuzione penale. - La nostra proposta principale riguarda la costituzione di un gruppo di lavoro operativo, di cui facciano parte esponenti delle esperienze storiche e significative delle cooperative sociali e del volontariato, che in questi anni si sono distinte per le attività svolte tanto all’interno degli istituti penitenziari quanto nell’area penale esterna. Servono un dialogo e un confronto stabili con i referenti del DAP, proprio per non sprecare le competenze consolidate sul campo, ma per metterle a disposizione dell’Amministrazione e delle altre realtà coinvolte, con cui co-programmare e co-progettare i progetti di reinserimento delle persone detenute. È una sfida che ci sentiamo di affrontare perché ci sono temi, che il Terzo Settore ha portato avanti negli anni, che hanno permesso di costituire un patrimonio di conoscenze, che se non adeguatamente condiviso rischia di andare disperso. Elenchiamo di seguito solo alcuni temi su cui il Terzo Settore lavora da anni e che potrebbero costituire il primo terreno di confronto e condivisione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Ministero della Giustizia. 1. Affrontare la tematica del lavoro in carcere e fuori, valorizzando il patrimonio di esperienza sviluppato dalle cooperative attive nel territorio e capaci di portare all’interno delle carceri attività lavorative, che hanno tutte le caratteristiche del lavoro vero, qualificato, risocializzante. Attività lavorative che vanno modulate insieme a occasioni di istruzione in collegamento con la scuola, di crescita culturale, di cura della mente e del corpo, fondamentali per la responsabilizzazione delle persone detenute. In carcere quindi serve più lavoro “formativo”, servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire con i primi permessi. Ma serve anche mettere a fuoco la funzione, le finalità e il senso dei lavori di pubblica utilità rispetto alla natura e al valore del lavoro retribuito. 2. Co-progettare un piano per una formazione congiunta tra operatori dell’Amministrazione Penitenziaria (agenti di polizia penitenziaria, personale dell’area pedagogica, personale amministrativo), magistratura di sorveglianza, istituzioni quali quella scolastica e sanitaria, e Terzo Settore con il duplice obiettivo, da un lato di promuovere una maggiore conoscenza reciproca utile ad abbattere i pregiudizi, dall’altro di sviluppare le diverse competenze arricchite dalla pluralità degli sguardi. La formazione e la ricerca congiunte sono fondamentali anche per ripensare i percorsi rieducativi individualizzati, basati sulla continuità delle proposte educative, sul confronto con la società esterna, sul graduale reinserimento nella comunità. 3. Sviluppare tutte le iniziative per sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia come le videochiamate e Skype, e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. 4. Mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute: è infatti dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Sono esperienze importanti per promuovere la cultura della mediazione anche nella gestione dei conflitti all’interno delle carceri e avviare su questi temi percorsi innovativi, con il sostegno di mediatori penali professionali, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. 5. Valorizzare l’esperienza dei progetti di confronto con le scuole che hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti in incontri con le persone detenute, sottolineando il ruolo delle narrazioni nei loro percorsi rieducativi. Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. E non meno significativi sono gli incontri con vittime di reati, famigliari delle persone detenute, operatori della Giustizia. 6. Mettere in rete gli Sportelli di Orientamento Giuridico e Segretariato Sociale, di modo che le competenze e le buone prassi su materie complesse come la residenza, le pensioni, i documenti di identità diventino patrimonio di tutti. 7. Porre mano alla questione dell’accoglienza in strutture abitative, senza la quale si rischia di sprecare le opportunità lavorative esterne e la possibilità di usufruire di misure di comunità. 8. Riformare gli art. 17 dell’Ordinamento penitenziario e 118 e 120 del Regolamento, per consentire un reale coinvolgimento del volontariato anche nell’esecuzione penale esterna e rimuovere gli ostacoli legislativi alla sua crescita e alla collaborazione con UEPE/UIEPE. 9. Mettere a disposizione del DAP le risorse del Terzo Settore nell’ambito dell’Informazione e della Comunicazione. Sono tante da questo punto di vista le esperienze concrete, dalla Rassegna Stampa quotidiana di Ristretti Orizzonti, di cui usufruiscono tantissimi operatori della Giustizia, ai seminari di formazione per giornalisti, realizzati in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti in alcune carceri, ai Festival della Comunicazione dal carcere e sul carcere, organizzati dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia con interventi dei massimi esperti in materia. 10. Le tecnologie possono essere anche uno straordinario strumento per promuovere un confronto continuo tra gli istituti penitenziari sull’organizzazione della vita detentiva, che deve diventare un momento stabile di verifica di quello che si può e si deve fare per avviare un cambiamento significativo dell’esecuzione delle pene. Pensare di cambiare alcune norme non basta però, sono le persone che quelle norme le hanno applicate e le dovranno applicare che prima di tutto devono mettere in discussione il loro modo di porsi di fronte alla realtà nella quale vivono e operano, partendo da un’analisi seria dei motivi che in questi anni hanno paralizzato le necessarie riforme, fra i quali quell’assenza di efficaci strumenti di controllo, che ha permesso che un Ordinamento, che ha più di quarant’anni, sia in buona parte ancora disatteso. Siamo certi che sia fondamentale l’esistenza di uno spazio strutturato, in cui i rappresentanti del Terzo Settore possano mettere a frutto decenni di conoscenza sul campo in un confronto continuo con il DAP, coinvolgendo anche nuove rappresentanze delle persone detenute, finalmente elette e non estratte a sorte, proposta questa avanzata da noi da tempo e ora ripresa e sostenuta dalla Commissione per l’innovazione dell’esecuzione penale. Questo permetterebbe finalmente che le sperimentazioni ed innovazioni introdotte in certi istituti abbiano una positiva ricaduta in tutte le realtà detentive, superando finalmente la divisione tra istituti “con vocazione trattamentale” e istituti con pochissime attività, e spesso più di “intrattenimento” che di reale valore rieducativo. Forte è la richiesta che lei, gentile Ministra, metta in atto ogni sforzo per migliorare in modo sostanziale la vita detentiva a partire da ciò che può essere fatto immediatamente per via amministrativa (per esempio rendendo estesa in tempi e orari la possibilità di telefonare e/o videochiamare i propri famigliari, anche per chi non lavora e non ha risorse personali). Ma per mettere mano a una riforma delle carceri servirebbe subito un provvedimento urgente di concessione di liberazione anticipata speciale, anche per compensare le enormi difficoltà e sofferenze a cui la popolazione detenuta è stata sottoposta dall’inizio della pandemia. Se si pensasse a una liberazione anticipata speciale, un giorno di libertà restituito per ogni giorno vissuto nel carcere della pandemia, nel carcere dell’assenza di rieducazione, i numeri del sovraffollamento scenderebbero in modo significativo, e se poi si facesse ogni sforzo per accelerare le assunzioni di personale educativo e di direttori, allora si potrebbe davvero cominciare a “rivoluzionare” un sistema, che è immerso in una crisi sempre più profonda. La forza delle nostre proposte discende dal contatto quotidiano che abbiamo con le persone detenute e la loro sofferenza, e non esclude nessuno, neanche i mafiosi, neanche le persone ritenute da quasi tutti, ma non dalla Costituzione, “cattivi per sempre”. La forza discende anche dal desiderio di collaborare a dar loro delle risposte, e da tutta la passione ed il coinvolgimento, che in ciascuno di noi continuano a vivere e a spingerci a mettere a disposizione idee ed energie per cambiare una realtà complessa come quella del carcere. È una sfida quotidiana in cui non c’è niente di scontato e dove le vere soluzioni sono principalmente nelle mani delle persone e della loro capacità di lavorare insieme, moltiplicando così il valore del contributo di ognuno. Cogliamo l’occasione per dare la nostra disponibilità ad approfondire con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il tema del rapporto tra istituzione penitenziaria e Terzo Settore, un tema che può essere davvero importante e innovativo, e a tal fine ci impegniamo a coinvolgere nel dibattito di approfondimento esperti del Terzo Settore di levatura altissima come i professori Stefano Zamagni, Luca Antonini, Giuliano Amato. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Sì della Commissione alle modifiche sull’ergastolo chieste da via Arenula di Errico Novi Il Dubbio, 17 febbraio 2022 Se s’inceppa il motore della riforma clou, quella sul Csm, procede con passo spedito un’altra legge all’esame di Montecitorio: il testo in materia di ergastolo ostativo. Si tratta del provvedimento con cui va recepita l’indicazione della Consulta (contenuta nell’ordinanza 97 del 2021) sulla liberazione condizionale dei condannati al “fine pena mai” per reati come mafia e terrorismo. In base all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, quella particolare categoria detenuti non può ottenere, nemmeno dopo decenni, il beneficio penitenziario più importante, la liberazione condizionale appunto, a meno che non collabori con la giustizia: ma com’è noto, per la Consulta un simile pregiudizio di pericolosità non può essere assoluto, e va stemperato in una valutazione delle motivazioni soggettive che trattengono il detenuto dall’assumere la veste di “pentito”. Sia il Parlamento ad adottare una disciplina che attui il principio, ha ordinato il giudice delle leggi. Ora, la commissione Giustizia della Camera aveva inizialmente messo a punto un testo base molto duro, ispirato da un sottile anelito di sfida nei confronti della Corte. Ma come riferito ieri dal Dubbio, il ministero della Giustizia ha assunto direttamente l’iniziativa, e ha chiesto al relatore della legge, il 5S Mario Perantoni, di modificare alcuni passaggi, attraverso la riformulazione degli emendamenti già depositati dai partiti. Ieri sera dunque si è iniziato a mettere ai voti le proposte di modifica, ed è arrivata la conferma del via libera concordato fra commissione e via Arenula. Innanzitutto su un punto: l’eliminazione dell’inciso “con assoluta certezza” dalla norma che impone al detenuto di “provare” l’assenza di residui collegamenti col crimine e dei rischi di un loro ripristino. Viene pure rafforzata la possibilità, per il giudice, di distaccarsi dai pareri delle procure Antimafia nel decidere se accogliere l’istanza di liberazione. Fino alle 21 di ieri mancavano conferme sul via libera del governo a una richiesta arrivata da gran parte dei deputati, con esclusione di Italia viva: affidare d’ora in poi le decisioni sulla liberazione degli “ostativi” a un collegio anziché a un giudice di sorveglianza monocratico. Potrebbe servire un supplemento di istruttoria, sul punto. Ma almeno questa legge pare ormai vicina all’approdo in Aula. Il costo di un detenuto? Tre euro bastano per colazione, pranzo e cena di Federica Cravero La Repubblica, 17 febbraio 2022 Le gare d’appalto vengono aggiudicate al massimo ribasso, ma si cerca di cambiare con nuovi bandi. Colazione, pranzo e cena in carcere costano (e valgono) poco più di tre euro. Non a pasto, ma in tutto. Da gara il prezzo del vitto parte da 5,70 euro, ma poiché vince l’appalto chi offre il massimo ribasso, un detenuto si nutre per tutta la giornata con quello che un cittadino libero spende per la colazione al bar. Il paragone con altre forme di ristorazione collettiva è impietoso. In ospedale - prendiamo ad esempio le Molinette - il paziente mangia con 13,5 euro al giorno. Solo il pranzo di un bambino a scuola costa al Comune di Torino 5,72 euro. Un pasto per un adulto in un centro diurno supera i 7 euro. Oltre al problema della qualità, a queste cifre si affaccia anche quello della quantità: e il sovraffollamento incide. Al Lorusso e Cutugno di Torino, per esempio, si mangia in 1400 dove c’è cibo per 1062 detenuti. Chi vuole e ha disponibilità economica può comprare viveri extra - il sopravvitto - ma a un prezzo superiore a quanto costa in un ipermercato o in un discount. Fino a pochi mesi fa la stessa ditta forniva sia il vitto che il sopravvitto ed era stato avanzato il sospetto che ci fosse un interesse ad affamare da una parte i detenuti per poi arricchirsi con gli alimenti venduti a parte. Non solo in Piemonte. Lo aveva denunciato la garante dei detenuti di Roma, Gabriella Stramaccioni, che ha fatto aprire un’inchiesta della magistratura. L’eco di quella denuncia è arrivata al ministero di Giustizia e anche nelle carceri piemontesi qualcosa sta cambiando. Nei mesi scorsi è stato revocato l’appalto e sono state indette nuove gare che per la prima volta impongono una separazione tra chi fornisce il vitto e chi il sopravvitto. In Piemonte qualcosa si era mosso anche prima: nel 2017 il Tar del Piemonte aveva bocciato la vecchia gara che prevedeva una base d’asta di 3,90 euro al giorno, troppo bassa per garantire un buon servizio. Si era passati quindi a 5,70 euro, ma con un ribasso di gara del 43% (tanto è nell’ultimo appalto) si arriva a 3,27 euro. Somma che peraltro pagano i detenuti, con una quota mensile per vitto e alloggio. Ma le cose ora cambieranno ancora. In queste settimane una commissione sta valutando le offerte presentate per le nuove forniture. Si tratta di bandi transitori per il solo 2022, ancora ristretti al gruppo di operatori - Dussmann, Landucci, Sirio, Pietro Guarnieri e Domenico Ventura - che negli ultimi decenni si è spartito i lotti delle carceri italiane. In un secondo momento si allargherà poi la rosa dei candidati anche alle ditte della grande distribuzione, aumentando la concorrenza nella speranza di un servizio migliore. “Mi auguro che le cose possano migliorare con i nuovi appalti - commenta la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo - e che ci sia più attenzione per i cibi, in particolare per coloro che hanno esigenze nutrizionali particolari”. Minori in carcere e criminalità giovanile, Cartabia: “Diamo loro una possibilità” rainews.it, 17 febbraio 2022 I dati forniti all’audizione alla Commissione Infanzia: 20.748 i minori autori di reati, poco più di 800 in carcere. Madri detenute, la ministra: “Il nostro obiettivo è mai più bambini in prigione”. Al 31 dicembre dello scorso anno sono stati quasi 21 mila i minorenni e giovani adulti presi in carico dagli Uffici di Servizio Sociale, 20.748 per la precisione. La maggior parte di loro è stata affidata a realtà esterne alle carceri mentre gli istituti penali veri e propri hanno accolto 815 ragazzi, con un lieve aumento rispetto al 2020. Sempre lo scorso anno sono stati 561 gli ingressi dei giovani nei centri di prima accoglienza. Queste le cifre fornite dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la sua audizione alla commissione Infanzia riguardo all’indagine conoscitiva sull’esecuzione della pena per i detenuti minorenni e sulla situazione delle detenute madri. Criminalità giovanile - “Chi nasce in un contesto mafioso non è ineluttabilmente destinato a un destino di devianza, va offerta ad ogni ragazzo una proposta alternativa alla seduzione della criminalità, voglio favorire il dialogo tra il mondo della formazione e quello della giustizia” perché “solo una proposta più attrattiva del male può accompagnare un giovane” verso un’alternativa dopo aver “inciampato in un reato”. Così la ministra, che ha ribadito come l’obiettivo sia quello di dare alternative e nuove possibilità ai più giovani che inciampano nel percorso criminale: “Crediamoci nei ragazzi, diamo loro delle possibilità, non è detto siano destinati a seguire una china che hanno preso. La possibilità di una strada diversa c’è”. La prevalenza dei reati commessi dai minori sono quelli contro il patrimonio, 1.007 casi nell’ultimo anno e, in particolare, quelli di furto e rapina. Frequenti anche le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti, 208 casi nel 2021, mentre tra i reati contro la persona prevalgono le lesioni personali volontarie: 177 casi nell’ultimo anno. “Questa fotografia rafforza l’allarme già lanciato da più Corti d’Appello sul frequente ricorso alla violenza e alla sopraffazione da parte di gruppi di minori” che “talvolta sono usati come manovalanza dalla criminalità organizzata”, ha sottolineato la ministra. Madri in carcere - Cartabia ha affrontato anche l’annoso problema delle madri in prigione e dei più piccoli che si trovano con loro dietro alle sbarre affermando che: “La nostra meta ideale è mai più bambini in carcere. Le difficoltà in questo settore sono più significative di quanto si potrebbe immaginare” ha aggiunto la ministra, la quale ha osservato come “la pena inflitta all’adulto ricada anche sul figlio, segnandone il percorso di vita”. Nel dettaglio: a fine 2021 sono 15 le madri detenute, con 16 figli in totale al seguito. Di queste, 5 sono le italiane e 10 le straniere. Rispetto al 2019 il dato è migliorato, quando si registrarono 44 madri con 48 figli nelle carceri. “I numeri sono bassi - ha detto la ministra - anche se sempre importanti, e ciascuno di loro ci interroga”. Attualmente la maggior parte delle madri con figli (9) è ospite dell’Istituto a custodia attenuata per madri, Icam, a Lauro, in provincia di Avellino. Due sono nell’Icam milanese di San Vittore e altre due in quello di Torino, una nell’Icam di Venezia Giudecca. Un’altra donna con il suo bambino sta scontando la sua pena col figlio invece nella Casa circondariale di Reggio Calabria. Cartabia: “La nostra meta ideale è mai più bambini in carcere” today.it, 17 febbraio 2022 Quante sono le madri in carcere con i loro figli? Numeri limitati, ma tema importante: come stanno le cose e quali sono criticità. Varie associazioni che si occupano di carcere domandano di cambiare la legge 62 del 2011. Quante sono le madri dietro le sbarre insieme ai loro figli neonati o comunque in tenera età? “La nostra meta ideale è mai più bambini in carcere”. A dirlo è la ministra della giustizia Marta Catarbia in audizione, a Palazzo San Macuto alla commissione Infanzia, riguardo all’indagine conoscitiva sull’esecuzione della pena per i detenuti minorenni e sulla situazione delle detenute madri. “Le difficoltà in questo settore sono più significative di quanto si potrebbe immaginare” ha aggiunto la ministra osservando che, purtroppo, “la pena inflitta all’adulto ricade anche sul figlio, segnandone il percorso di vita”. “I numeri, fortunatamente, sono bassi, 15 madri e 16 bambini” ma “lo sforzo di trovare situazioni alternative è prioritario e tante possibilità stanno maturando” perchè non ci siano più “bambini in carcere”. Lo ha detto la ministra della giustizia Marta Catarbia in audizione, a Palazzo San Macuto alla commissione Infanzia, riguardo all’indagine conoscitiva sulla situazione delle detenute madri. “Di queste madri 5 sono italiane e 10 straniere, 5 sono ancora imputate. La maggior parte, 9, è ospite ell’istituto a custodia attenuata per madri, Icam, a Lauro in provincia di Avellino” ha spiegato la ministra, “i posti negli Icam ci sono, sono 60”. “Quando si arriva a toccare questo livello della pena che incide sulla vita ancora in formazione accade qualcosa che interroga soprattutto il mondo degli adulti, i protagonisti sono i minorenni ma gli interrogati siamo noi”, ha concluso Cartabia. Va ricordato che quando si parla di figli di detenuti, si fa sempre riferimento ai numeri modesti dei bambini che stanno con le madri in carcere: da sempre poche decine al massimo in tutta Italia. Ma se si affronta davvero la questione, badando non solo ai figli “visibili” perché in carcere, ma anche a quelli “invisibili” che stanno a casa, allora ben altre sono le cifre, e molto più complessi i problemi: la separazione, a volte il trauma per il figlio di assistere all’arresto di uno dei genitori, e poi i colloqui, le telefonate, l’incertezza. Varie associazioni che si occupano di carcere domandano di cambiare la legge 62 del 2011: nata con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Istituti di pena femminili promuovendo sei Istituti a custodia attenuata per madri (Icam), la norma ha finito per raddoppiare la carcerazione dei più piccoli, che possono stare in queste strutture fino a 6 anni d’età, contro i 3 previsti in precedenza. La legge 62 del 2011, riepiloga Osservatorio Diritti, sostituiva alcuni articoli del codice penitenziario e del codice di procedura penale, dedicati alla vita intramuraria delle madri e dei figli. Lo scopo era quello di spingere per gli arresti domiciliari e la creazione di case famiglia protette, dove alloggiare le detenute con figli e vedere il carcere come estrema ratio. Una legge voluta anche da alcune associazioni del terzo settore. Le storture, nonostante le intenzioni positive e ammirevoli, ci sono. Ad esempio non elimina la carcerazione dei bambini, perché si fa un ricorso frequente agli Istituti a custodia attenuata per madri, dimenticando che si tratta comunque di una forma di detenzione. Allungandone di fatto l’età fino a 6 anni d’età. Posti disponibili ci sono, ma le strutture non sono distribuite in modo omogeneo sul territorio: non a caso nell’ultima manovra sono stati approvati 4,5 milioni di euro per costruire altre case-famiglia. In passato, ai tempi del leghista Roberto Castelli ministro della giustizia, si era parlato di una “grazia generalizzata” per le madri detenute che avevano figli fino ai tre anni. Non se ne fece mai nulla. Referendum sulla giustizia, e adesso le riforme (senza fare comizi) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 febbraio 2022 Con la decisione di ammettere i referendum sulla giustizia, la Corte costituzionale ha aperto di fatto una lunga campagna elettorale, da oggi al giorno delle consultazioni, sul tema più contrastato e divisivo all’interno della maggioranza che sostiene il governo. Con il rischio di rendere più accidentato del previsto il percorso delle riforme già in cantiere. A partire da quella dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura appena approdata in Parlamento, dopo un travagliato parto in Consiglio dei ministri. Naturalmente questo rischio non è scontato, né se ne può attribuire la responsabilità alla Corte, chiamata solo a stabilire se i quesiti e la cosiddetta “normativa di risulta” (cioè quello che resta dopo l’eventuale abrogazione delle singole norme sottoposte a referendum) fosse o meno in contrasto con la Costituzione e i suoi principi fondamentali. Il resto - il merito delle questioni e le eventuali ricadute sul piano politico - non è competenza dei quindici giudici che si sono pronunciati. Lo è invece del Parlamento e dei partiti che lo abitano. Perché prima ancora che nelle piazze, è nelle aule legislative che dovrebbero impegnarsi per risolvere i problemi. Ma l’aria che tira e le prime reazioni alle scelte della Corte lasciano intuire altro. Gli slogan di partenza rischiano essi stessi di essere fuorvianti. Con i referendum sarà “il popolo sovrano a fare la riforma che il Parlamento non è riuscito a fare in trent’anni”, esultano promotori e sostenitori. Ma negli ultimi trent’anni i rispettivi partiti sono stati rappresentati alla Camera e al Senato, e per lunghi anni anche al governo; e in ogni caso il “popolo sovrano” potrà solo abrogare singole leggi (o pezzi di legge), non disegnare le riforme che anche la cancellazione delle norme sottoposte a referendum richiederebbe o richiederà. Ad esempio, l’abrogazione dell’incandidabilità o della decadenza automatica dalle cariche elettive per i politici condannati in via definitiva (o anche solo in primo grado per gli amministratori locali) può avere un senso, ma dovrebbe presupporre nuove regole sulla cosiddetta moralizzazione della vita pubblica, che non sono contemplate nel quesito referendario e spetterebbe al legislatore dettare. Non ai giudici né ad altri. Si ha però l’impressione che, dopo l’eventuale cancellazione di quella parte della legge Severino, non sia facile trovare un accordo nemmeno tra i partiti schierati per il “sì” all’abrogazione. Stessa cosa per il referendum che limita la carcerazione preventiva per il rischio di reiterazione del reato alle accuse più gravi, legate al crimine organizzato o che contemplino l’uso della violenza o delle armi: restano esclusi i reati contro la pubblica amministrazione (dalla corruzione in giù) e altre situazioni che destano periodici allarmi sociali. La sola cancellazione non farà che limitare gli arresti, e non è affatto detto che tra le file degli stessi promotori che oggi esultano per il “via libera” concesso dalla Corte non si troverà chi domani, davanti a un reato commesso da un indagato o magari condannato in primo grado a piede libero, non griderà allo scandalo. Ancora più complicato rischia di diventare il già rarefatto rapporto tra politica e magistratura. Perché è prevedibile che nell’imminente campagna referendaria le toghe si chiuderanno a riccio a sostegno del “no”, senza trovare troppe sponde tra i partiti. Col risultato di isolarsi e acuire le tensioni con il potere esecutivo e legislativo. Il referendum più significativo, su questo versante, è quello che mira a una pressoché definitiva separazione delle funzioni tra giudici e pubblici ministeri, di fatto già quasi ottenuta con le barriere frapposte negli ultimi anni ai passaggi tra l’una e l’altra. Nelle intenzioni dei promotori la vittoria del “sì” è l’anticamera della separazione delle carriere, per la quale sarebbe però necessaria una modifica costituzionale su cui i partiti non sono affatto concordi. Tra i commenti di ieri, il più gettonato era l’auspicio che la consultazione popolare funzioni da “stimolo” per il Parlamento. Se così fosse ci sarebbe di che rallegrarsi. Ma a parte la bizzarria della necessità di stimoli esterni per fare ciò che si ritiene necessario, è difficile immaginare che intorno a questioni sulle quali si dividono quasi ogni giorno le forze politiche marcino improvvisamente nella stessa direzione. È più facile organizzare comizi, che approvare riforme. Referendum, ecco perché la Corte Costituzionale non ha cercato il pelo nell’uovo di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 17 febbraio 2022 Potranno essere candidati ed eletti anche condannati definitivi per mafia. I pm rischiano di avvicinarsi alla cultura di polizia più che a quella del giudice. La Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibili quattro quesiti - tralasciando il quinto, sui consigli giudiziari, tema affrontato più efficacemente nella riforma Cartabia - così indicati nel Comunicato stampa: 1) Abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità; 2) Limitazione delle misure cautelari; 3) Separazione delle funzioni dei magistrati; 4) Eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm. La sintesi del Comunicato chiarisce agli elettori, che non siano giuristi, l’oggetto dei referendum. Si nota subito che nella decisione della Corte per i quesiti sulla giustizia ha trovato piena applicazione il criterio di “non ricercare il pelo nell’uovo” indicato dal Presidente Amato. Il quesito, ora chiamato “Abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità”, di solito è stato presentato come eliminazione della “legge Severino” ed in particolare della disposizione sulla sospensione degli amministratori locali a seguito anche soltanto di una condanna non definitiva per determinati reati. Una disciplina particolarmente rigorosa, forse fin troppo. Ma il quesito abroga l’intero Testo unico delle disposizioni in materia di partecipazione alle elezioni per il Parlamento europeo, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica nonché alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali. L’approvazione del referendum avrà come conseguenza che potranno essere candidati ed eletti a tutte queste funzioni anche condannati definitivi per terrorismo, mafia, corruzione e altri gravi reati a pena scontata. La proposta di abrogazione dell’intero Testo Unico non consente all’elettore di operare alcun distinguo come è ben chiarito dalla sintesi del Comunicato stampa della Corte. Che tutti i promotori si siano convertiti ad una totale fiducia nella funzione rieducativa della pena? Quesito definito come “Limitazione delle misure cautelari”. La esigenza che la custodia cautelare e le altre misure restrittive della libertà personale siano limitati ai casi di stretta necessità è largamente sentita e lo scorso anno è stata oggetto di un “pressante invito” da parte del Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi. La noma attuale, art. 274 c.p.p., pone come presupposti per l’adozione di misure cautelari il pericolo di inquinamento delle prove, il pericolo di fuga o il pericolo di reiterazione di gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o, con alcune restrizioni, il pericolo di reiterazione di altri reati della stessa indole. Con l’abrogazione di quest’ultima disposizione se non vi è rischio di inquinamento della prova (come nel caso di arresto in flagranza) o di pericolo di fuga nei confronti di imputati potenziali autori seriali di reati di corruzione, bancarotta, truffe in danno di anziani, altri reati contro il patrimonio, purché non commessi con violenza, non potranno adottate misure cautelari. Capiterà che l’imputato arrestato in flagranza, magari con in tasca un appunto con la programmazione degli obbiettivi successivi, sarà condannato per direttissima e immediatamente scarcerato. Facile immaginare gli attacchi al lassismo della magistratura magari da parte di taluno dei promotori del referendum. “Separazione delle funzioni dei magistrati”: qui la sintesi del Comunicato della Corte è essenziale. Il quesito, che coinvolge cinque leggi, all’analisi degli strumenti di Word risulta di 1.067 parole per 7.330 battute. Un tecnico del diritto che volesse controllare scrupolosamente tutti i passaggi impiegherebbe qualche decina di minuti. Gli effetti pratici dell’accoglimento del quesito sarebbero modestissimi poiché già oggi i passaggi tra le funzioni di giudice e pm (e viceversa) a seguito dei limiti introdotti nel tempo sono molto rari, ma il messaggio simbolico è forte. Come è stato più volte detto da sostenitori della separazione si vuole il pm “avvocato della polizia”, all’americana. A parte il rischio che si imbocchi una china che riporti questo pm sotto la direzione dell’esecutivo, non si comprende proprio questa infatuazione per il sistema americano. Chi non si limiti ai ricordi di Perry Mason, avvocato difensore sempre vittorioso a fronte di procuratori inetti dovrebbe conoscere i gravi limiti alle garanzie di difesa di un pm, appunto “avvocato della polizia”, teso a perseguire fermamente la condanna dell’imputato che gli è stato presentato dalla polizia, in un regime di discrezionalità dell’azione penale e con possibilità di patteggiare non solo la pena, ma addirittura il reato da contestare. Quale garanzia per i diritti di difesa sarebbe abbandonare la figura di pm tenuto ad agire come “parte imparziale” e a ricercare anche gli elementi di prova a favore dell’accusato? E meglio avere un pm vicino alla “cultura di polizia” piuttosto che alla “cultura del giudice? Per ora è solo separazione drastica delle funzioni, che comunque mal si concilia con l’impianto costituzionale di un’unica carriera. Ed infine “Eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm.”. Quesito di per sé semplice, chiaro, ma del tutto inutile al fine che si proclama di voler perseguire: favorire la candidatura al Csm di indipendenti non sostenuti da alcuna aggregazione di magistrati. Oggi sono richieste venticinque firme di presentazione, che non potrebbero mai creare problema a chi pensi di candidarsi con qualche chance di successi ad una elezione che richiede non meno di cinquecento voti per conquistare un seggio. Elezione del consiglio direttivo di una bocciofila, elezione del parlamento nazionale o di un ente locale, elezione dei componenti togati del Csm: in qualunque situazione un gruppo di persone si trovi a dover eleggere un numero ristretto di persone si creano al momento o entrano in gioco preesistenti aggregazioni, che si adoperano per sostenere i candidati che ritengono più vicini alle loro idee sulla gestione di quell’organo e più adatti a ricoprire il ruolo. L’abolizione delle firme di presentazione è irrilevante. Dalla legge Severino alle carriere dei magistrati, ecco su cosa voteremo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 febbraio 2022 I referendum sulla giustizia: su cosa vertono i quattro quesiti ritenuti ammissibili dalla Corte Costituzionale su cui dovranno esprimersi i cittadini alle urne. La decisione della Corte costituzionale non abolisce nessuna delle leggi sulle quali è stata dichiarata l’ammissibilità dei referendum, ma ha dato il “via libera” al voto dei cittadini sulla loro eventuale abrogazione. Saranno gli elettori a decidere se è meglio cancellare o mantenere la decadenza e l’incandidabilità per i parlamentari e gli amministratori locali condannati, uno dei presupposti per la carcerazione preventiva, i criteri per tenere distinte le funzioni di pubblico ministero da quelle di giudice e la soglia minima di sostenitori per i candidati al Consiglio superiore della magistratura. La legge Severino - La norma che si vuole abrogare, contenuta nei decreti attuati della cosiddetta “legge Severino” approvata nel 2012 ai tempi del governo Monti, riguarda l’impossibilità per i parlamentari di mantenere il proprio ruolo dopo una condanna definitiva. In base a questa regola, nel 2013 Silvio Berlusconi decadde dalla carica di senatore, all’indomani della pena confermata dalla Cassazione per frode fiscale. La stessa legge prevede che i presidenti di Regione, i sindaci e gli assessori debbano abbandonare il loro incarico anche dopo una condanna di primo grado o di appello, senza aspettare il verdetto definitivo. Presupposti per gli arresti - Con l’intento di limitare un presunto abuso della carcerazione preventiva, i promotori chiedono l’abolizione parziale della possibilità di arrestare una persona indagata per impedire che commetta reati della stessa specie di quelli per i quali è finito sotto accusa. Attualmente si può finire agli arresti domiciliari o in prigione, prima di una sentenza, se il pericolo di reiterazione riguarda reati per i quali è prevista una pena massima di almeno quattro o cinque anni, oltre che per il finanziamento illecito dei partiti. Il referendum propone di cancellare questa possibilità. Con la conseguenza che, al di fuori del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove che sono gli altri due presupposti per la custodia cautelare, nella fase delle indagini un inquisito potrà essere arrestato solo per reati che prevedono l’uso della violenza o delle armi, oppure legati alla criminalità organizzata e all’eversione. Separazione delle funzioni dei magistrati - Attualmente i magistrati fanno parte di un unico ordine giudiziario, divisi solo tra la funzione pubblici ministeri o giudici. Nel corso degli anni il passaggio da un ruolo all’altro è stato reso sempre più complicato e s’è molto diradato, perché bisogna cambiare la regione dove si esercita e perché sono ammessi al massimo quattro passaggi nel corso della carriera. Già la legge di riforma presentata la scorsa settimana dalla ministra Cartabia restringe ulteriormente le possibilità di cambiare funzione, riducendola a due nell’arco della vita lavorativa, ma con le norme che si intendono abrogare (contenute in varie leggi, tanto che il quesito referendario è lunghissimo e quasi incomprensibile, componendosi di oltre 2.000 parole) questa scelta si limiterà a una, da fare all’inizio della carriera. Candidature del Csm - Attualmente per prestare una candidatura al Consiglio superiore della magistratura occorre raccogliere almeno 25 firme a sostegno del magistrato che intende presentarsi per essere eletto nell’organo di autogoverno. I promotori del referendum vogliono cancellare questa soglia minima, intendendo così favorire le candidature di chiunque, senza l’appoggio necessario di qualcuno. Ma a parte l’esiguità delle firme da raccogliere, ciò che potrebbe rendere superfluo il quesito è la riforma della legge elettorale per la componente togata del Csm proposta dal governo, che il Parlamento dovrebbe approvare prima dell’appuntamento referendario se si vuole che il prossimo Csm (per il quale si dovrebbe votare in estate) venga scelto con regole nuove. Come ha più volte auspicato il capo dello Stato, che lo presiede, e - a parole - tutti i partiti. Giustizia, corsa in Parlamento per evitare i tre referendum sul Csm di Serenella Mattera e Giovanna Vitale La Repubblica, 17 febbraio 2022 Draghi ha escluso la fiducia sulla riforma, nel centrosinistra però molti ritengono che sarà inevitabile. Pd e 5S vogliono l’approvazione entro fine maggio. Il no di Meloni all’abolizione della Severino e della custodia cautelare divide il centrodestra e il quorum a rischio depotenzia i quesiti. “Vittoria!” twitta Matteo Salvini quando, a metà pomeriggio, la Consulta notifica l’ammissibilità dei primi quattro quesiti sulla giustizia, poi saliti a cinque, promossi (anche) dalla Lega. Dal suo punto di vista, il capo dei lumbàrd ha ragione a esultare: tre delle proposte di referendum avallate dalla Corte Costituzionale - separazione delle funzioni tra giudice e pm, candidature per il Csm, voto degli avvocati sulla valutazione dei magistrati - impattano sulla riforma dell’ordinamento giudiziario appena licenziato in Consiglio dei ministri, che Carroccio e Forza Italia hanno già annunciato di voler modificare in Parlamento. Mentre le altre due - abrogazione della legge Severino e stretta delle misure cautelari - sono comunque destinate, in caso di successo nelle urne, a imprimere quella svolta ipergarantista che i berlusconiani inseguono da trent’anni. Anche a dispetto di Fratelli d’Italia, che non ne vuol proprio sentir parlare. Una linea, quella di Giorgia Meloni, che Salvini liquida così: “Non ho tempo per polemiche, sui referendum può nascere un centrodestra garantista”. Chiara la strategia. Scardinare, usando l’arma referendaria, l’impianto disegnato dalla guardasigilli Marta Cartabia, difeso invece a spada tratta dal tandem Pd-M5S. Deciso sì ad apportare dei correttivi, ma solo “per migliorarlo, non certo per stravolgerlo”. Convinti, i giallorossi, che si possa arrivare al traguardo prima della consultazione. “Noi vogliamo approvare la riforma dell’ordinamento giudiziario in tempo per applicare la nuova normativa per l’elezione del Csm, quindi entro fine maggio”, suggerisce la tabella di marcia Mario Perantoni, presidente grillino della commissione Giustizia di Montecitorio. “E i tempi coinciderebbero con quelli necessari per evitare i tre quesiti che riguardano questa materia”. I cui “contenuti”, fa sponda il dem Walter Verini, “potranno venire “assorbiti” nella riforma” che le Camere licenzieranno nei prossimi tre mesi. La ragione per la quale, specie dopo la bocciatura del quesito più insidioso, relativo alla responsabilità civile dei magistrati, i referendum risultano depotenziati. A forte rischio quorum, oltretutto, vista la complessità della materia e l’esclusione dei quesiti più popolari su eutanasia e cannabis. “Ma dove va Salvini? Farà un buco nell’acqua”, prevede perfido un autorevole deputato 5S. Il governo sceglie di non intervenire nel merito dei referendum. Tuttavia a nessuno sfugge, neppure a Palazzo Chigi, che il verdetto della Consulta potrebbe avere l’effetto involontario di complicare l’iter parlamentare di una riforma cruciale per centrare gli obbiettivi del Pnrr. La campagna referendaria, sommata a quella per le amministrative, rischia infatti acuire la distanza fra le forze di maggioranza. Mario Draghi ha garantito alle Camere libertà di esprimersi e per ora non ha mutato linea: niente tentativi di imporre la fiducia. Ma proprio chi, specie dalle fila del centrosinistra, ha già cominciato a lavorare al testo sul quale far convergere l’intera maggioranza, comincia a pensare che alla fine la fiducia potrebbe diventare inevitabile. L’unico modo per scongiurare lo stallo e portare a casa il risultato. Una preoccupazione più che fondata. Se la riforma Cartabia non verrà cambiata secondo i suoi desiderata - se non sarà cioè introdotto il sorteggio “temperato” per l’elezione dei componenti del Csm né separate con nettezza le carriere dei magistrati - Salvini ha tutta l’intenzione di rallentarne l’iter. Lo ha fatto intendere in serata, festeggiando insieme all’avvocata Giulia Bongiorno, il via libera della Consulta: “Oggi è una giornata bellissima non tanto per la Lega ma per la democrazia perché dopo 30 anni saranno gli italiani in primavera a poter scegliere e votare la prima grande unica riforma della giustizia. I partiti con oggi hanno esaurito il loro compito, ora la parola al popolo”. Sa di poter contare su numeri importanti, il senatore padano. Dalla sua non ha solo Forza Italia - pronta a rivendicare i quesiti referendari come “storiche battaglie” contro “l’uso politico della giustizia” - ma anche i renziani. “Dare la parola agli italiani è la miglior soluzione”, certifica il presidente di Iv Ettore Rosato. “Ho firmato con convinzione i referendum, buon voto a tutti”, rilancia il capogruppo in Senato Davide Faraone. I giallorossi però restano compatti. “I quesiti sono disfunzionali e peggiorativi per il sistema giustizia”, chiude Giuseppe Conte. “Lo strumento referendario è prezioso, ma in questo momento il luogo primario in cui intervenire è il Parlamento”, fa eco il Nazareno. Con il pd Alfredo Bazoli a esprimere perplessità pure sull’abrogazione tout court della Severino e delle misure cautelari. Segno che di dar voce al popolo se ne parlerà un’altra volta. Non parte la riforma del Csm, subito “sorpassata” dai quesiti referendari di Errico Novi Il Dubbio, 17 febbraio 2022 Anziché aggrapparsi alla legge delega sui magistrati per depotenziare la campagna referendaria di Salvini, Forza Italia ribadisce il sostegno alla consultazione popolare. Va bene, a volte la storia dispone le tessere del puzzle con un’intelligenza che sembra escludere la pura casualità. Ma era davvero difficile immaginare una così suggestiva sovrapposizione dei referendum alla riforma del Csm. Nel giorno fatale del via libera a 5 dei 6 quesiti “giudiziari” di radicali e Lega, la consultazione popolare toglie del tutto la scena al ddl. Che proprio ieri avrebbe dovuto riaccendere i motori in commissione, ma che invece si avvita in un’altra falsa partenza: il maxi emendamento Cartabia, approvato venerdì scorso in Consiglio dei ministri, non è stato trasmesso a Montecitorio. Nessun giallo, a quanto pare: si tratta di un pit stop imposto dalla Ragioneria dello Stato per via di coperture su aspetti marginali. Secondo fonti parlamentari, il ritardo nella tradizionale “bollinatura” sarebbe legato alle norme sui corsi preparatori alla carriera da magistrato e ai relativi costi da finanziare. In ogni caso ieri l’ufficio di presidenza della commissione Giustizia di Montecitorio ha dovuto prendere atto che l’agognato testo governativo ancora non c’è, e ha rimandato ogni decisione sul calendario dei lavori. Resta dunque, a livello simbolico, il sorpasso nettissimo della consultazione popolare sulla riforma. Pesa soprattutto il dato ufficiale sulla separazione delle funzioni tra giudice e pm: gli italiani saranno chiamati a esprimersi sulla questione direttamente con il loro voto. E anche se l’attuale testo sul Csm entrasse in vigore in anticipo sulla data della consultazione popolare, difficilmente potrà produrre la revoca del quesito sulle funzioni, visto che il testo Cartabia lascia aperte due “finestre” per il cambio, e lo stesso emendamento proposto da Forza Italia potrebbe ridurre i passaggi a uno soltanto, non vietarli del tutto come invece avverrebbe con la vittoria del Sì. Fino a venerdì scorso, fino all’ok corral in Consiglio dei ministri sullo stop alle porte girevoli, il ddl in materia di ordinamento giudiziario aveva una duplice identità. Una superficie di norme dall’impatto politico- mediatico forte, a cominciare appunto dal divieto di rientro per i magistrati cooptati dalla politica, e un sottostante impianto di ingegneria normativa meno accessibile ai profani, ma pure importante per il rinnovamento della magistratura. Da ieri, la scena cambia. Non che l’impalcatura sull’ordinamento giudiziario possa essere del tutto inghiottita dal vortice dei referendum, questo no. Ma è chiaro che ora, assai più di prima, la partita si fa politica. Da una parte la lega, che ruba la scena alla riforma con la campagna sui propri quesiti. Dall’altra i partiti, innanzitutto di centrodestra, che cercheranno di erodere con le proposte di modifica al ddl sul Csm almeno parte del protagonismo di Salvini. Anche se a dirla tutta, proprio il maggiore concorrente interno del Carroccio, Forza Italia, ieri ha inviato, sul referendum, segnali simpatizzanti. Il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin ha subito assicurato che i berlusconiani sosterranno i quesiti ammessi. Renato Schifani ha accolto la decisione della Corte costituzionale come una “notizia positiva”. Anzi, ha fatto notare come proprio la “separazione delle carriere” sia “una battaglia storica di Forza Italia: solo con la divisione tra magistratura giudicante e inquirente si potranno definire i contorni della terzietà e dell’indipendenza dei giudici”. Come pesa pure il fatto che una figura chiave, sulla giustizia, sia per gli azzurri sia per il governo, Francesco Paolo Sisto, torni ad assicurare che “consultazione e riforma sono percorsi diversi e non alternativi”. In teoria, la pronuncia di Palazzo della Consulta potrebbe innescare anche un altro effetto: un’accelerazione sull’iter della riforma. Che contiene, tra l’altro, norme in grado di “assorbire” 2 dei 5 quesiti referendari sulla giustizia: il voto degli avvocati sulle promozioni dei magistrati e l’eliminazione delle firme a sostegno delle toghe che corrono per un “seggio” al Csm. Solo nel secondo caso, in realtà, un’approvazione fulminea del ddl potrebbe portare a una revoca del corrispondente quesito. Ma in teoria, alcune forze potrebbero trovare una particolare motivazione proprio nella concorrenza dei referendum leghisti. Solo che ora il vento tira in tutt’altra direzione. Anche un’altra prima linea del dibattito sulla giustizia, il deputato di Azione Enrico Costa, spiega che il suo partito “deciderà nelle sedi opportune la posizione da assumere sui referendum”, ma già prende atto che “il Parlamento ha assunto, con particolare riferimento alle materie oggetto dei quesiti in ambito giustizia, una posizione timida e conservativa”. Insomma, già si assiste a un trasferimento di energie dalla riforma alla consultazione popolare. E la falsa partenza sofferta dal ddl nel giorno dell’exploit referendario non fa che confermare questa impressione. Cantone lancia l’allarme sul referendum: “Senza la legge Severino i mafiosi nelle istituzioni” di Liana Milella La Repubblica, 17 febbraio 2022 Parla il procuratore di Perugia, ex capo Anac: “Mi auguro che i cittadini, se adeguatamente informati, non intendano tornare indietro su una norma di civiltà”. “Se fosse cancellato il decreto Severino sull’incandidabilità e decadenza dei condannati, le conseguenze sarebbero gravissime perché potremmo trovarci di fronte a persone riconosciute colpevoli di reati di mafia che potrebbe restare tranquillamente ai loro posti nelle istituzioni”. È massimo l’allarme del procuratore di Perugia Raffaele Cantone che, dieci anni fa, fu tra i consulenti del governo per la stesura della legge Severino. Il magistrato non nasconde tutta la sua preoccupazione, pur riconoscendo la piena liceità del referendum. Per un caso, giusto quest’anno cade il decennale della legge Severino del 2012, ma qui Cantone ferma subito il discorso: “Un momento. Chiariamoci bene. Premesso che il referendum dev’essere celebrato e che io non mi fascerei la testa prima del voto dei cittadini perché sono convinto che, se bene informati, potranno esprimersi in modo giusto, voglio chiarire innanzitutto che questo quesito riguarda solo una piccola parte, seppur molto importante, della legge anticorruzione, e cioè quella contenuta nel decreto sull’incandidabilità. Ma tutte le altre norme sulla corruzione non vengono toccate”. Sì, gli chiediamo, ma non le pare che voler cancellare proprio le regole sull’impossibilità di candidarsi per chi ha una condanna sia grave? “È un segnale oggettivamente pericoloso - replica Cantone - soprattutto perché nessuno spiega con chiarezza quali sarebbero gli effetti deleteri che si produrrebbero con la vittoria del sì. Con l’abrogazione del decreto verrebbe meno una serie di norme adottate anche durante le stragi mafiose. Come quella di far decadere personaggi condannati per 416bis sia pure in primo grado”. Secondo Cantone “rischieremmo di tornare indietro di molti anni”. Da ex pm che a Napoli ha indagato sul clan dei Casalesi e che, da ex presidente dell’Anac, ha lottato contro la corruzione per sei anni, Cantone è in allarme: “È passata l’idea che il decreto Severino mandi a casa solo i sindaci condannati in primo grado per abuso d’ufficio, magari poi assolti in Appello. E quindi il referendum è stato pubblicizzato come lo strumento per evitare danni agli amministratori condannati per fatti di lieve entità. Invece, se il decreto viene cancellato, ci saranno conseguenze gravissime per chi ha subito condanne come quelle di mafia”. Cantone ha contribuito a scrivere il decreto, e sa di cosa parla: “La legge Severino è un testo unico e quindi mette assieme tutte le norme sulla non candidabilità previste negli anni precedenti, anche le leggi antimafia. Quindi, se cade la Severino, cadono anche quelle norme”. Il referendum andava ammesso? Cantone si limita a dire che “siamo di fronte al classico quesito abrogativo, e quindi tecnicamente la decisione è ineccepibile perché cancella tutta la legge”. Ma, insiste, “vedo conseguenze gravissime e devastanti, e mi auguro che nel dibattito che ci sarà prima del voto si spieghi con chiarezza quali saranno gli effetti”. E quali prevede? “Rivedremmo soggetti condannati per mafia e per corruzione che potranno svolgere funzioni pubbliche, come il presidente di una Regione. Una decadenza da senatore come quella di Silvio Berlusconi non sarà più possibile. Non solo. C’è di più. Tutti i condannati definitivi per i quali non è stata prevista anche l’interdizione dai pubblici uffici potranno candidarsi ed essere eletti, anche per reati gravi, come l’evasione fiscale”. E con la Severino questo non era possibile? “Certo che no, quel decreto li bloccava tutti, se sarà cancellato avranno via libera”. Cantone conclude con un’amara considerazione: “L’articolo 54 della Costituzione parla di dignità e onore per chi riveste cariche pubbliche, ma senza la Severino quelle parole non avranno più senso. Mi auguro solo che i cittadini, se adeguatamente informati, non intendano tornare indietro su una norma di civiltà”. I pm restano intoccabili, ma ora inizia la battaglia di Angela Stella Il Riformista, 17 febbraio 2022 La Corte Costituzionale, dopo aver dichiarato inammissibile martedì il quesito sull’omicidio del consenziente, ieri ha reso note le decisioni sugli altri sette quesiti. Nel primissimo pomeriggio, attraverso un comunicato stampa, è stato reso noto che quelli su Legge Severino, abuso della custodia cautelare, separazione delle funzioni dei magistrati e eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del Csm sono stati ritenuti ammissibili “perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario”. Durante la conferenza stampa convocata alle 18 presso la sede della Consulta, il Presidente Giuliano Amato ha comunicato l’esito degli altri referendum: inammissibili quello sulla cannabis e anche quello sulla responsabilità diretta dei magistrati in quanto “essendo fondamentalmente sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, l’introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo”, anzi “innovativo”. Ha superato il vaglio invece quello sul diritto di voto dei laici - avvocati e professori - nei Consigli giudiziari. Ora bisognerà vedere come si intreccerà la campagna referendaria di Lega e Partito Radicale sui referendum giustizia con la discussione alla Camera della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura e dell’ordinamento giudiziario, considerando che tre quesiti riguardano proprio l’imminente riforma. Esultano la Lega che ha promosso i referendum con i Radicali, Forza Italia, Italia viva, Azione. Amareggiato e coda tra le gambe il mondo 5 Stelle poiché i quesiti ammessi smontano molte delle “conquiste” giustizialiste dell’era Bonafede (già ammaccata per la riforma del processo penale e della prescrizione). Tiepido il Pd. Della “grande” stagione referendaria in cui finalmente “si dà la parola al popolo” restano cinque quesiti su otto. Potrebbe essere la riscossa del popolo rispetto all’inerzia del Parlamento che non legifera. Ma rischia di essere un gigantesco flop. Col sapore amaro delle occasioni sprecate. I tre quesiti più popolari, infatti uso della cannabis, fine vita e responsabilità diretta dei magistrati - sono stati giudicati inammissibili. I cittadini non si potranno esprimere su queste tre questioni nonostante i milioni di firme raccolte. Sono quelli che avrebbero fatto anche da traino a quelli, certamente meno popolari della giustizia. E siccome i referendum sono validi solo se raggiungono il quorum della metà più uno degli aventi diritto, ieri sera fuori dalla Corte da dove si poteva godere un bellissimo tramonto su Roma era voce corrente e prevalente tra il presidio dei Radicali che dei quesiti sono stati il motore e l’anima, che “finirà tutto in un buco nell’acqua”. Ne è quasi certo il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, che nella discussione generale ha rappresentato il quesito sulla cannabis. “Prendiamo atto - ha detto - che i tre referendum più popolari sui temi che più avrebbero interessato l’opinione pubblica sono stati dichiarati inammissibili, per cui complessivamente la vicenda referendaria, che comunque è da salutare come un fatto positivo, assume decisamente un peso marginale”. Vedremo cosa succederà. Non è chiaro perché la Lega ieri sera abbia iniziato a festeggiare presunte vittorie. “Ammessi cinque quesiti su sei (per la Lega contano solo quelli sulla giustizia), abbiamo vinto, anche se certo sarebbe stato preferibile il cappotto” ha detto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli. L’ammissione dei referendum di iniziativa popolare corrispondono sempre al fallimento del Parlamento che non fa quello che dovrebbe, ascoltare quello che chiedono i cittadini e dare a queste richieste forma di legge. Detto questo, tra i cinque quesiti ammessi, ben tre possono trovare risposta nella riforma Cartabia da ieri all’attenzione della Commissione Giustizia della Camera. E così, alla fine, potrebbe arrivarne al verdetto delle urne solo un paio. Quello sulla riforma della custodia cautelare dove il quesito, ammesso, chiede che il rischio di reiterazione del reato venga tolto dai motivi che giustificano il carcere preventivo (sono tre: pericolo di fuga; inquinamento delle prove; reiterazione del reato). Il secondo quesito che potrà arrivare alle urne è quello che chiede di “abrogare” la Legge Severino a cui da tempo amministratori e parlamentari chiedono di poter fare un tagliando di revisione nella parte che riguarda l’incandidabilità. La norma dell’allora ministro della Giustizia costringe alle dimissioni coatte da ogni incarico pubblico gli amministratori anche se condannati solo in primo grado, è il caso di molti sindaci e assessori che poi magari vengono assolti in Cassazione. Il tutto con una disparità di trattamento evidente rispetto ai parlamentari che devono anche loro dimettersi ma solo con sentenza definitiva. Fatte queste premesse, non c’è dubbio che i referendum sulla giustizia piombano sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Assai meno del previsto, se fossero stati ammessi anche i tre più popolari, sulle dinamiche parlamentari e su quelle della sfilacciata maggioranza. Non abbastanza però da impensierire la navigazione e l’azione del governo. Il sì della Corte Costituzionale a cinque dei sei quesiti promossi da Lega e Partito Radicale, apre una concorrenza tra Parlamento e voto popolare, una concorrenza che qualcuno giudica positivamente. Esultano la Lega che ha promosso i referendum con i Radicali, Forza Italia, Italia viva, Azione. Amareggiato e coda tra le gambe il mondo 5 Stelle poiché i quesiti ammessi smontano molte delle “conquiste” giustizialiste dell’era Bonafede (già ammaccata per la riforma del processo penale e della prescrizione). Tiepido il Pd che non ha mai fatto mistero di non gradire l’uso dei referendum popolari per dirimere i nodi della giustizia che possono essere sciolti solo in Parlamento. Fratelli d’Italia ha annunciato che non sosterrà i due quesiti non assorbiti dalla riforma e che sono i più complessi (custodia cautelare e legge Severino). La riforma del Csm è ferma in Commissione Giustizia della Camera da novembre, in attesa degli emendamenti del governo. Dopo il passaggio in Consiglio dei ministri, e la decisiva spinta di Mario Draghi, Palazzo Chigi li ha ieri inviati alla Ragioneria generale dello Stato per la “bollinatura” (la valutazione del costo economico). Momenti di attesa, dunque, a Montecitorio. Diceva ieri il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni (M5s): “Quando saranno depositati ci sarà un breve ciclo di audizioni e verrà fissato il termine per presentare il sub-emendamenti dei gruppi”. Il voto inizierà quindi ai primi di marzo, obbligando a una corsa contro il tempo Camera e Senato, visto che le nuove regole dovrebbero valere per il rinnovo del Csm a luglio. Proprio l’obbligo per il Parlamento di approvare la riforma entro maggio rende meno dirompenti tre dei cinque referendum targati Lega e Partito Radicale, perché riguardano norme che dovranno essere assorbite dalla riforma stessa. I tre quesiti riguardano le firme per presentare le candidature all’elezione del Csm, la presenza degli avvocati nei Consigli giudiziari che valutano i magistrati e la separazione delle funzioni dei magistrati. Al di là di questo Salvini può esultare tanto che parla di “vittoria”. Sulla stessa linea Forza Italia, con Pierantonio Zanettin, Renato Schifani e il sottosegretario Francesco Paolo Sisto che sottolinea che “la democrazia diretta (cioè i referendum, ndr) non è mai contro quella rappresentativa”. Anche Coraggio Italia, Italia Viva e Azione, con Enrico Costa, insistono sul pungolo al Parlamento dei referendum. Detta più semplice, il fatto che siano stati ammessi costringe il Parlamento ad emendare l’attuale testo in modo tale da evitare il ricorso alle urne. Più complesso il dibattito sugli altri due quesiti non assorbibili dalla riforma del Csm: l’abrogazione della Legge Severino e nuovi limiti alla custodia cautelare. Su questi potrebbe scricchiolare la maggioranza e soprattutto il centrodestra. Fdi ha annunciato che non li sosterrà mettendo sul tavolo un elemento in più di divisione nella coalizione già in forte tensione. Potrebbe essere il Pd a togliere le castagne dal fuoco. Questa contrapposizione infatti si potrebbe risolverebbe con la ricetta di Stefano Ceccanti: il Parlamento può modificare queste due leggi cambiandole ed evitando dei “buchi normativi” pericolosi per il contrasto alla corruzione. Vuoti che il Pd, ha detto Alfredo Bazoli, giudica “sbagliati”. Sulla stessa linea i 5 Stelle per cui la legge Severino è un totem intoccabile. Il punto è quando e come fare queste modifiche: il tempo è poco (i referendum dovrebbe tenersi tra maggio e giugno). I temi sono talmente divisivi che si fatica ad immaginare una sintesi utile ad evitare le urne. Così, se alla fine i due referendum verranno celebrati, Salvini avrà un problema in più in casa e altri scossoni sia nella maggioranza che nel centrodestra. “Voglio proprio vedere come farà Salvini a gestire questi referendum” diceva ieri sera Vittorio Ferraresi, ex sottosegretario alla Giustizia ai tempi di Bonafede. Anche perché alla fine potrebbe essere tutta fatica inutile: senza il quorum i quesiti e le relative modifiche cadranno nel nulla. Non c’è dubbio poi che aver tolto di mezzo fine vita, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati - giudicati inammissibili dalla Corte - eviterà ai cittadini di votare a al Parlamento di scannarsi su temi da sempre a rischio di far saltare maggioranze e governi. E su cui invece, anche ieri sera in una inedita quanto utilissima conferenza stampa, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato ha inviato nuovamente il Parlamento ad esprimersi. E a farlo in fretta perché si tratta di temi molto sentiti dai cittadini. Lui, la Corte, non lo hanno potuto fare perché i quesiti erano scritti male e fuorvianti. E nel dire queste parole si è percepita tutta l’amarezza dell’uomo che si è dovuto fermare di fronte alle regole imposte dalla Costituzione di cui è il supremo custode. I trent’anni di mediatizzazione del processo penale di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 17 febbraio 2022 La prassi delle relazioni incestuose tra stampa e magistratura, sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata, con conseguenze negative. Ecco il processo che manca al circo mediatico-giudiziario. Una premessa sembra scontata. A trent’anni ormai di distanza, dovremmo essere a maggior ragione capaci di guardare a Mani pulite con un atteggiamento mentale egualmente lontano dalla esaltazione celebrativa e dalla critica demolitrice preconcetta. Quella che è stata definita una “rivoluzione giudiziaria” non è stata una impresa giurisdizionale non solo straordinaria, ma anche così esemplare da additare a modello di riferimento meritevole di essere replicato, e non è stata neppure il risultato di un golpe o di una congiura ad opera di “poteri forti” o di settori politici in combutta con parte della magistratura. E’ stata piuttosto una impresa complessa per la molteplicità dei fattori anche di natura extragiudiziaria che la hanno influenzata, e altresì non priva di aspetti ambivalenti e persino paradossali. Insomma, l’esperienza complessiva di Mani pulite presenta sia luci che ombre; e la valutazione circa la rispettiva prevalenza delle une o delle altre finisce con l’essere, inevitabilmente, condizionata dalla soggettiva angolazione prospettica e dall’orientamento politico di chi la effettua. Proprio in considerazione della sua variegata complessità, Mani pulite non può essere analizzata con le sole lenti del giurista. Non secondario rilevo assumono, infatti, profili di rilevanza sia storiografica, sia economica, socio-criminologica, politologica e financo psicologica. Ne deriva che anche uno studioso di diritto penale che sia interessato a rivisitare Mani pulite nell’insieme delle sue peculiarità caratterizzanti, non può fare a meno di toccare o lambire territori disciplinari che trascendono la sua stretta competenza. Cominciando dal generale contesto storico-politico, è noto che la situazione italiana dei primi anni Novanta dello scorso secolo era caratterizzata dall’esistenza di un sistema partitico già in grave crisi di legittimazione e di funzionamento e dalla ricerca di nuovi equilibri che però faticavano a manifestarsi. A determinare questa obiettiva condizione di incertezza e confusa transizione concorreva una pluralità di fattori di natura sia interna, sia internazionale (ci si riferisce per un verso all’effetto politicamente destabilizzante prodotto dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della “guerra fredda” e, per altro verso, alle ricadute della globalizzazione e dei rigidi paletti economico-finanziari imposti dal Trattato di Maastricht) che la storiografia ha messo in evidenza sia pure con approcci ricostruttivi variamente articolati. Ma vi è una tendenziale convergenza di vedute, tra gli storici, nel riconnettere le cause della grave crisi di sistema dei primi del Novanta a fattori politico-economici di debolezza e di stallo nello sviluppo risalenti agli anni Settanta e Ottanta, e progressivamente aggravatisi. Tra questi fattori, la storiografia contemporanea inserisce la risalente presenza di fenomeni corruttivi, l’emersione di alcune precedenti Tangentopoli e la sempre più insistita, negli anni successivi, tematizzazione della “questione morale”, impugnata come arma di battaglia da parte del Pci (poi Pds) e di forze politiche anche di destra (come il Msi), nonché di nuovi movimenti intenzionati a combattere i partiti di governo sempre più delegittimati. Ma in questa denuncia della corruzione diffusa e nella lotta contro il degrado morale non erano soltanto impegnati alcuni partiti e movimenti: svolgevano un’azione di supporto anche settori (specie di orientamento progressista) del mondo intellettuale, del giornalismo scritto e parlato ed esponenti della parte della magistratura politicamente più impegnata (come Magistratura democratica), che però finivano così con l’accreditare una lettura orientata in senso forse troppo schematicamente moralistico di una crisi generale dovuta invece a un insieme complesso di cause eterogenee strettamente intrecciate. Ancorché questa complessità multicausale dovesse mettere in guardia dall’attribuire all’azione giudiziaria un ruolo decisivo nel promuovere il rinnovamento politico e la moralizzazione del paese, il Pci divenuto Pds e le altre forze interessate a rimpiazzare - secondo una retorica allora in voga - il governo dei corrotti col “governo degli onesti” fornirono un pieno sostegno a Mani pulite confidando, per calcolo anche opportunistico, che l’attività repressiva potesse favorire quell’auspicato rinnovamento che non si era capaci di promuovere per via politica. E questo ampio appoggio non venne meno neppure di fronte all’emergere, all’interno dello stesso orizzonte politico di sinistra, di dubbi e riserve sulla legittimità o correttezza di certe modalità operative del pool milanese, o di preoccupazioni sul possibile sconfinamento della giurisdizione penale dai suoi limiti istituzionali di competenza, essendo infine prevalsa - peraltro anche in ampi settori del mondo giornalistico e del ceto intellettuale - la convinzione che “il fine giustifica i mezzi”: cioè che l’obiettivo di risanare la vita politica rendesse tollerabile una guerra giudiziaria difficilmente compatibile con i principi del garantismo penale. Ma la cultura garantista, in Italia, non è mai stata dominante fuori dai recinti della dottrina giuridica in particolare accademica. E’ pur vero, d’altra parte, che non tutte le voci allora disposte a giustificare - per radicalismo etico-politico o machiavellico calcolo - certi eccessi e straripamenti giudiziari come costi da sopportare in vista dell’auspicato rinnovamento, hanno ribadito questo stesso punto di vista ormai a vent’anni o più di distanza: piuttosto, è andata aumentando la presa d’atto che è stato sbagliato confidare troppo nella funzione salvifica della magistratura, imprudente assecondare il giustizialismo popolare e miope non prevedere che gli effetti di un terremoto giudiziario sull’evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi. Comunque la si giudichi oggi, è storiograficamente pressoché pacifico che l’impresa di Mani pulite ha dato un contributo decisivo alla uscita di scena dei partiti sino a quel momento al governo del paese. Ma questo contributo è stato con-causale, dal momento che nella catena eziologica di questa scomparsa bisogna tenere conto della presenza di altre concause: tra queste, è da porre in risalto l’incapacità dei dirigenti e degli esponenti dei partiti maggiormente coinvolti nelle indagini di reagire con atti politici, il loro annichilimento psicologico e morale, la loro soggezione passiva e spaventata agli umori antipartitici e giustizialisti della piazza, a loro volta alimentati dalla campagna mediatica di fiancheggiamento dell’azione repressiva; un quasi- suicidio politico, insomma, non impedito o agevolato da quei versanti partitici che - come nel caso del Pds - speravano di trarre vantaggio dal crollo dei vecchi partiti delegittimati. Non manca anche di recente, però, chi sul piano causale tende altresì ad attribuire un non trascurabile rilevo al (supposto) “obiettivo ultimo” dei magistrati milanesi di occupare “spazi politici”, obiettivo che risulterebbe - tra l’altro - confermato dai numerosi passaggi successivi dalle file della magistratura alle cariche politiche nei partiti e in Parlamento, in particolare nelle file della sinistra. Senonché sembra più verosimile - come si rileverà anche appresso - che i magistrati del pool, piuttosto che perseguire il precostituito obiettivo finale di assumere in proprio cariche politiche, fossero animati dall’intenzione lato sensu politica di ingaggiare una guerra giudiziaria contro un sistema corrotto. Rispetto al problematico rapporto tra politica e giurisdizione, un nodo essenziale era stato segnalato già all’inizio del 1993 dall’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi: il quale rilevò che il contrasto della corruzione sistemica faceva assumere alla magistratura - cito tra virgolette - “un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze (…) ha caricato di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale”. Ma, in verità, non si è trattato soltanto di un rischio. L’onestà intellettuale impone di riconoscere che la sovraesposizione politica del potere giudiziario connessa alla lotta alla corruzione sistemica, più che in termini di mero rischio, si è verificata come dato di fatto difficilmente contestabile (e ciò anche a prescindere dall’eventuale intenzione soggettiva dei singoli magistrati impegnati nell’attività investigativo-repressiva). A conferire una valenza oggettivamente politica all’azione giudiziaria era proprio il carattere sistemico della corruzione politico-amministrativa e il fatto, conseguente, che sul banco degli imputati finiva quasi un intero ceto politico in concorso con un ceto imprenditoriale colluso. E però sarebbe ingenuo non considerare più che verosimile una aggiuntiva volontà soggettiva dei magistrati milanesi di finalizzare le indagini anche ad obiettivi più generali di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva, in sé meritori ma di problematica compatibilità con gli scopi istituzionali della giurisdizione penale. Certo, segnava un grande passo avanti - ed era perciò da salutare come una conquista in termini di civiltà e moralità giuridica - il fatto che il magistero punitivo si mostrasse finalmente capace di processare e sanzionare una macro-criminalità sistemica, così interrompendo anche simbolicamente una tradizione di prevalente e compiacente impunità di cui avevano beneficiato il ceto politico e il mondo economico-imprenditoriale (anche se a questa affermazione di giustizia e legalità egualitarie si accompagnavano popolari umori “giustizialisti” di meno nobile sorgente). Ma questo importante passo avanti comportava, proprio per il sovrappiù di politicità connesso a una repressione su vasta scala riferita al sistema politico-partitico, rilevanti costi sotto il profilo dell’equilibrio costituzionale complessivo; nel contempo, si alimentava nell’opinione pubblica (e in particolare nei settori più entusiasti del ‘repulisti’ giudiziario) l’illusione che la giustizia punitiva potesse fungere da strumento idoneo a estirpare la corruzione diffusa. A prescindere dal coefficiente di pregiudiziale simpatia o antipatia verso Mani pulite, una cosa sembra fuori discussione: l’abbattimento finale per via giudiziaria del sistema dei partiti di governo della cosiddetta Prima Repubblica ha rappresentato un evento molto drammatico e traumatico, produttivo di effetti di lunga durata rispetto a una ben nota patologia (soprattutto) italiana destinata a cronicizzarsi, cioè a quella sorta di grave nevrosi politico-istituzionale costituita dal conflitto tra politica e magistratura. Conflitto che ha - tra l’altro - fatto sì che una politica rimasta prevalentemente debole ha continuato a subire in varia forma un forte condizionamento inibente o oppositivo da parte del potere giudiziario, percependosi per di più - a torto o a ragione - come una specie di sorvegliata speciale quasi sotto controllo ricattatorio-ritorsivo, e comunque rivelandosi sino ad oggi incapace di riacquisire l’autorevolezza, la credibilità e il coraggio necessari per ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale. Eppure, non si può dire che la magistratura penale considerata nel suo insieme abbia, dopo i primi anni Novanta dello scorso secolo, durevolmente mantenuto un livello alto di legittimazione e consenso per importanza e continuità di azioni investigativo-repressive, professionalità, efficienza, rispetto dei principi di garanzia e capacità di elaborazione culturale. Piuttosto, sono andati progressivamente aumentando i casi di indagini avventate o spericolate destinate a esiti fallimentari, di proscioglimenti o assoluzioni spesso tardive di politici e amministratori pubblici sospettati troppo affrettatamente di condotte delittuose, come pure sono andati crescendo i fenomeni di improprio protagonismo sia mediatico che politico di alcuni esponenti della magistratura specie d’accusa. La crisi infinita dopo Mani pulite di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 17 febbraio 2022 L’intero sistema, diventando instabile, ha contagiato persino parte della magistratura, che ha introiettato i vizi della peggiore politica, dal correntismo spregiudicato al vacuo protagonismo. E ha nutrito forme di infantilismo populista. Una catena di causalità lega la crisi della politica con gli eventi che l’hanno generata trent’anni or sono. La prossimità tra lo sbandamento dei partiti, seguita alla “necessitata” rielezione di Mattarella, e il trentennale dell’inchiesta che ha smantellato la Prima Repubblica pare enfatizzare un ordito di continuità. E forse non è solo un effetto ottico. La vicenda del Quirinale, con i suoi strascichi, è in realtà l’ultimo prodotto di una decomposizione del sistema parlamentare che ha determinato in dieci anni l’avvento a Palazzo Chigi di due “commissari” (Mario Monti nel 2011 e Mario Draghi nel 2021) chiamati, per competenza tecnica e indiscusso prestigio personale, a riparare in fretta e furia la macchina dello Stato mandata in panne dalla paralisi dell’esecutivo e dall’inanità delle assemblee parlamentari. Ma se le emergenze vengono così affrontate e i danni più gravi scongiurati con cadenza decennale, l’incapacità della politica italiana di ridarsi un ordine sistemico razionale, dopo che le inchieste di Mani pulite ne hanno sconquassato l’assetto, può autorizzare a chiedersi se siano mai esistite davvero una Seconda o una Terza Repubblica (anche perché saltare dall’una all’altra in Paesi più razionali comporta un cambio di Costituzione e non una semplice riverniciata tramite legge elettorale) o se, piuttosto, non ci troviamo ancora in una fase di transizione indotta dalla crisi mai elaborata della Prima. Quale che sia la risposta, una mancata elaborazione è molto visibile sul piano dell’architettura istituzionale, come ha ricordato anche di recente Carlo Nordio, candidato di bandiera di Giorgia Meloni per il Colle e protagonista anch’egli della stagione di Mani pulite ma da una collocazione ideale alquanto lontana rispetto al pool di Milano. Appena liberati dal fascismo e dall’incubo dell’uomo solo al comando, i nostri padri costituenti pensarono a un esecutivo imbrigliato da un sistema a fortissima centralità del Parlamento. Il sistema funzionò per molti anni, con leader prestigiosi (De Gasperi, Togliatti, Nenni…) e con partiti strutturati, veri partiti-Paese (portatori di un progetto organico e di una filosofia politica, oltre che di apparati diffusi e capillari). Collanti ideali, filtri di istanze, cinghie di trasmissione sociale, quei partiti trovarono nel sistema proporzionale una legge elettorale di equilibrata compensazione: finché quella compensazione non diventò camarilla, consociativismo, degenerazione tangentista. L’effetto collaterale di Mani pulite è stato assai profondo, ma forse solo oggi possiamo misurarne l’impatto. L’inchiesta nata dall’arresto di Mario Chiesa ha azzerato, assieme ai politici corrotti, le culture politiche che li avevano partoriti, quasi come se queste fossero le vere responsabili. Di più. Sembra avere reso molti italiani allergici quasi a ogni forma di cultura politica o di pensiero politico strutturato. Mauro Calise ha descritto anni or sono con lucidità il risultato di questo percorso nel suo “Partito personale”: più che comitati elettorali, partiti suscitati dai capi e che dei capi seguono il declino, come mostrano ascese repentine e rapide cadute. Il Pd, parziale erede di quel Pci-Pds meno colpito degli altri dagli strali della magistratura milanese (la materia è ancora oggetto di roventi controversie), è l’unico ad avere preso una strada diversa e tuttavia s’è trasformato in un’organizzazione di quadri con scarso radicamento popolare: Enrico Letta se n’è reso talmente conto da suscitare le “Agorà democratiche”, aprendo il dibattito alla società. Difficile che basti a uscire dalla palude. Il gesto condiviso sui social e la dichiarazione istantanea (contraddicendo i moniti sul “presentismo” lanciati un tempo da un politico saggio come Michel Rocard) hanno costituito per troppi leader “di stagione” l’unica lettura dei fenomeni. Il problema è che un parlamentarismo tutto fondato sui partiti, in caso di partiti assenti o astenici, non funziona più. Gli ultimi anni ne sono la prova estrema. L’intero sistema, diventando instabile, ha contagiato persino parte della magistratura, che ha introiettato i vizi della peggiore politica, dal correntismo spregiudicato al vacuo protagonismo. E ha nutrito forme di infantilismo populista, basate sul mito assolutorio e fallace di un popolo buono conculcato da una casta di malvagi mandarini sempre al potere. Per capire quanto fasulla sia stata l’immagine di una “società civile” incorrotta (anziché afflitta dagli stessi mali dei suoi governanti) si può leggere Simona Colarizi nella sua analisi degli anni 1989-1994 in “Passatopresente” (edito da Laterza). E, per capire quanto lo sia anche oggi, si possono leggere le sconcertanti intercettazioni (ancora e sempre immanenti nel dibattito pubblico!) allegate a fascicoli di indagine che narrano un’Italia intenta ad arraffare con la truffa i miliardi del Superbonus. Non è facile uscire bene da una transizione trentennale che ha tenuto la giustizia come linea del fronte: capace di dividere ancora i cittadini in berlusconiani e antiberlusconiani (il breve sogno del Cavaliere sul Quirinale aveva fatto fare un balzo di vent’anni indietro alla polemica politica) e, più di recente ma con le stesse categorie di pensiero, in renziani e antirenziani. Mani pulite è un regalo avvelenato persino più della corruzione che si proponeva di eliminare se la riforma del Csm rischia di spaccare di nuovo in fazioni un Paese che dovrebbe remare tutto nello stesso senso per arrivare a un approdo sicuro nel 2026 (ultimo anno del Pnrr). E, tuttavia, l’occasione c’era e ci sarebbe, per quei partiti che volessero rigenerarsi e magari tracciare insieme il perimetro del prossimo campo di gioco: la sospensione “tecnica” imposta da Draghi sarebbe ancora un’opportunità di lavoro preziosa, magari non per varare una più che necessaria riforma della Carta, ma almeno per ritrovare cultura istituzionale e regole condivise, fuori dagli slogan rimasticati che infestano i talk show. Serve un segnale. Ma, se il primo anno dell’esecutivo di salvezza pubblica è culminato nel caos sul Quirinale, la speranza di un… ravvedimento operoso dei partiti nell’anno elettorale sembra ad oggi pura chimera. Trent’anni fa Tangentopoli. Ma il giustizialismo ora barcolla di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 febbraio 2022 La memoria, ricostruita col senno di poi, rischia di fare brutti scherzi. Quando il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato a Milano da un pm anomalo, un ex poliziotto venuto dal basso, colorito e pittoresco, tal Antonio Di Pietro, i giornali attribuirono alla notizia moderata attenzione. Non era un titolo d’apertura. Una grana per il Psi di Craxi certamente sì. Ma nulla di più. Nessuno avrebbe scommesso su uno scandalo di prima grandezza, figurarsi su una slavina tale da travolgere l’intero sistema. Lo scontro tra poteri dello Stato, tra politica e magistratura, durava già da anni, con picchi di tensione anche molto alti. Ma il Paese assisteva senza prendere parte con tifo davvero acceso. Il discredito della classe politica dilagava, questo sì, ma senza che la sfiducia diffusa si fosse tradotta in delega alla magistratura. L’Italia era già un Paese solcato da una profondissima vena antipolitica ma non ancora giustizialista. Però ci voleva poco perché il discredito della politica si traducesse in affidamento totale al potere togato e in sete di galera. Sarebbe bastata una pioggia sostenuta: arrivò il diluvio. Tangentopoli, coniugata con l’emozione sincera e unanime provocata dalle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelia, trasformò in pochi mesi i magistrati in eroi popolari, cavalieri senza macchia. Quello che era stato, e in larghissima misura ancora era, scontro tra poteri dello Stato divenne per quasi tutti l’epopea del bene contro il male. La politica si arrese e forse non poteva fare altro. Ci sono due episodi precisi che segnano quella disfatta. Il 5 marzo 1993 il ministro della Giustizia Giovanni Conso, uno dei più insigni giuristi italiani, varò un decreto che depenalizzava, con valenza retroattiva, il reato di finanziamento illecito ai partiti. I magistrati di Mani pulite e soprattutto l’intero coro dei grandi media insorsero. Per la prima volta nella storia il capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, rifiutò di firmare un decreto, facendolo decadere. Meno di due mesi dopo, il 29 aprile, la Camera negò, probabilmente in seguito a una manovra leghista coperta dal voto segreto, l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi, segretario del Psi assurto a simbolo stesso della corruzione. La sera dopo una folla inferocita contestò il leader socialista di fronte alla sua residenza romana, l’Hotel Raphael, a colpi di sputi e monetine. I due episodi delineano il quadro esauriente in modo esauriente: una furia popolare che s’identificava senza esitazioni con la magistratura, uno schieramento dei media quasi unanime e militante a sostegno dei togati, una debolezza della politica strutturale e irrimediabile, un potere dello Stato, la magistratura, in grado di presentarsi come ultimo baluardo, unico a godere di credibilità e fiducia. La parabola del giustizialismo, destinata a durare decenni, cominciò allora. I mesi seguenti furono una mattanza: la classe politica fu falcidiata tutta. Non mancarono suicidi eccellentissimi, come quelli di Gabriele Cagliari, ex presidente Eni, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi- Montedison, il 20 e il 23 luglio. Ma già nel 1994 la situazione appariva molto diversa. Abbattuta la prima Repubblica, con Berlusconi trionfante in nome non della continuità ma al contrario della rottura col passato in nome della “rivoluzione liberale”, sembrò per qualche mese che fossero in campo due poteri di pari forza. Berlusconi, uomo alieno da tentazioni belliche, provò subito a risolvere a modo suo: assorbendo le toghe nel nuovo sistema di potere. Offrì a Di Pietro e D’Ambrosio, due magistrati di punta di Mani Pulite, posti da ministri. Rifiutarono e fu subito chiaro che lo showdown era solo questione di tempo. Anche in questo caso due date bastano a restituire l’intera vicenda. Il 13 luglio 1993 il ministro della Giustizia del governo Berlusconi varò un decreto che limitava fortemente l’uso della custodia cautelare, strumento principe delle inchieste sulla corruzione ma effettivamente più abusato che usato. I magistrati di Mani pulite contrattaccarono, chiesero in diretta tv il trasferimento. I partiti che sostenevano il governo, Lega e An, si schierarono contro il dl, che fu ritirato. Poi il 21 novembre, arrivò l’invito a comparire per Berlusconi, anticipato dal Corriere della Sera prima che il diretto interessato fosse messo al corrente. Il governo cadde meno di due mesi dopo. Per registrare tutte le battaglie e le scaramucce, gli agguati e gli scontri frontali dei decenni successivi ci vorrebbe un’enciclopedia. Nel mirino delle inchieste finirono a valanghe, incluso l’emblema stesso di Mani pulite, Antonio Di Pietro. Un paio di governi furono travolti. Il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema fallì per il pollice verso del potere togato, che si oppose all’allargamento della riforma anche al dettato sulla giustizia. Nel nuovo secolo quella spinta popolare e populista che vedeva nei magistrati i suoi campioni e nel carcere la panacea, trovò, come era forse inevitabile una rappresentanza politica, il M5S e arrivò, come era invece forse evitabile, a vincere le elezioni del 2018. È possibile che quell’apparente trionfo sia destinato a passare alla storia come l’avvio del tramonto. Gli scandali che hanno demolito, con il caso Palamara, la credibilità della magistratura, l’avvio di riforme in controtendenza rispetto alla temperie giustizialista, infine alcune sentenze clamorose, come quella sulla trattativa segnano forse la fine di una fase durata una trentina d’anni. Pescara. Tragedia in carcere, detenuto ritrovato morto nel suo letto ilpescara.it, 17 febbraio 2022 Un detenuto di 40 anni è stato ritrovato morto nel suo letto nel carcere San Donato di Pescara martedì 15 febbraio. Il 40enne era nella sua cella in compagnia di altri detenuti ed è stato ritrovato senza vita degli agenti della polizia penitenziaria nel corso del consueto giro di controllo intorno alle ore 8. L’uomo sembrava che dormisse e invece era già avvenuto il decesso. L’immediato arrivo sul posto del medico ha potuto solo portare alla constatazione della morte. Sul corpo non sono stati riscontrati segni di violenza e l’ipotesi più probabile è quella di un decesso nel sonno a causa di un malore fatale. Il 40enne, da quello che si apprende, non soffriva di particolari patologie. Giuseppe Merola, segretario regionale della Fp-Cgil, però torna a segnalare le problematiche dalla casa circondariale pescarese: “Sovraffollamento della popolazione detenuta, presenza di soggetti psichiatrici e carenze organiche delle varie figure professionali sono, in diversi istituti del Paese, la punta dell’iceberg rispetto a una discutibile gestione penitenziaria. Servono seri investimenti e risorse, anche per rilanciare l’esecuzione penale esterna”. Santa Maria Capua Vetere. La duplice veste di Ministero e Asl: sia danneggiati che responsabili di Viviana Lanza Il Riformista, 17 febbraio 2022 Quello dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere continua ad essere un caso giudiziario più unico che raro. Ieri una nuova singolarità: il Ministero della Giustizia e l’Asl di Caserta, che si erano già costituiti parte civile, sono stati ammessi anche come responsabili civili, il che significa che compariranno nel processo nella duplice veste sia di danneggiati sia di responsabili con riferimento ai danni procurati ai detenuti dai loro dipendenti. Potranno quindi chiedere un risarcimento ai propri dipendenti nel caso di condanna di questi ultimi per il comportamento violento o omissivo assunto il giorno dei pestaggi in carcere e contemporaneamente potrebbero, nello stesso processo, essere condannati a risarcire in sede civile i danni provocati ai detenuti da agenti o funzionari dell’amministrazione penitenziaria, o dai due medici, tutti finiti sotto accusa, a vario titolo, per i brutti fatti di Santa Maria. Il nodo sui responsabili civili lo ha sciolto ieri il giudice dell’udienza preliminare Pasquale D’Angelo dopo settimane di riflessione e basandosi anche su una sentenza della Corte di Cassazione civile a Sezioni Unite. Una vittoria per i circa cento detenuti che si sono già costituiti parte civile nel processo. In totale si ritiene che le vittime dei pestaggi siano 178, è dunque probabile che altri si facciano avanti nelle prossime udienze, c’è tempo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Intanto l’udienza preliminare è aggiornata al 29 marzo. La Procura aveva presentato proposta di patteggiamento a pene intorno a un anno e mezzo per 32 agenti imputati che avrebbero avuto un ruolo più marginale, ma non si è raggiunto per ora alcun accordo; per gli altri imputati è probabile che i pm chiedano il rinvio a giudizio sempre che qualche imputato non chieda a sua volta di accedere al rito abbreviato. Nel complesso si parla di 108 fra agenti della polizia penitenziaria e funzionari del Dap (quindi del Ministero) e di due medici del carcere (per questo il riferimento all’Asl) imputati a diverso titolo per i pestaggi e le umiliazioni avvenute quel 6 aprile 2020 nel reparto Danubio del carcere sammaritano e per i tentativi compiuti dopo la mattanza per occultarne le tracce e tenere tutto sotto silenzio. Milano. Degrado e aggressioni: la vita nelle carceri cittadine redattoresociale.it, 17 febbraio 2022 La relazione di metà mandato del Garante dei detenuti Francesco Maisto. Piove nelle celle, nelle infermerie. A Opera detenuti allettati vengono assistiti dai compagni di cella in attesa di una visita specialistica. Concentrazione di reclusi con problemi psichiatrici: “San Vittore è diventato un manicomio”. “La pandemia ha gettato un potente faro di luce sulle questioni del sistema penitenziario lasciate in sospeso per tanto tempo: degrado delle strutture, sovraffollamento, debolezza del servizio sanitario”. Francesco Maisto, garante dei detenuti del Comune di Milano, traccia un quadro preoccupante delle condizioni in cui versano le carceri della città: San Vittore, Opera e Bollate. Se ora la situazione dei contagi è sotto controllo, con numeri molto bassi tra i detenuti (20 positivi a Bollate, 31 a San Vittore e 2 a Opera), rimane la gravità della qualità di vita di chi è recluso e di chi ci lavora (agenti e personale amministrativo). Intervenendo oggi alla seduta della sottocommissione carceri del Consiglio comunale per presentare la sua relazione di metà mandato, Maisto sottolinea come “ci sia un crescendo di aggressioni al personale”: dal 2015 ad oggi il 2020 è stato l’anno peggiore, ma con una situazione preoccupante anche nel 2021. Tensioni causate da sovraffollamento, concentrazione di detenuti con problemi psichiatrici e carenza di assistenza sanitaria. In Lombardia ci sono 672 detenuti con problemi psichiatrici e 208 con disturbi del comportamento. E a Milano la situazione è analoga. “San Vittore, nonostante gli sforzi della direzione e del personale, sembra ormai un manicomio più che un carcere” commenta amaramente il Garante. Basti pensare che alcune celle da tre sono state adibite a un solo posto letto per isolare i detenuti aggressivi anche verso i compagni di cella. San Vittore tra l’altro ha 928 detenuti su una capienza di 800 posti letto. Anche nel carcere di Opera c’è un problema di mancanza di assistenza sanitaria (affidata all’azienda ospedaliera Santi Carlo e Paolo): ci vogliono mesi di attese per visite specialistiche e ci sono stati casi di detenuti allettati assistiti dai compagni di cella. Ci sono poi infiltrazioni di acqua nelle celle, nell’infermeria, che è dotata anche laboratori medici ma sotto utilizzati per mancanza di personale. A Bollate i detenuti sono circa 1164 su 906 posti previsti. Bollate ha una situazione migliore, con più detenuti che hanno possibilità di lavorare, “ma la pandemia ha comunque cambiato questo carcere, che rimane tuttavia un esempio a livello nazionale”. Padova. I sindacati sul Due Palazzi: “La carenza di personale in carcere è diventata cronica” padovaoggi.it, 17 febbraio 2022 “In qualità di Rsu vorremmo segnalare la carenza di personale delle funzioni centrali: l’organico previsto dalle piante organiche è di 28 unità mentre ne sono attualmente assegnate solo 20 e nei prossimi mesi si ridurranno ulteriormente di 2 unità per pensionamenti” “In qualità di Rsu vorremmo segnalare la carenza di personale delle funzioni centrali: l’organico previsto dalle piante organiche è di 28 unità mentre ne sono attualmente assegnate solo 20 e nei prossimi mesi si ridurranno ulteriormente di 2 unità per pensionamenti”. Inizia così la lettera redatta martedì 15 febbraio dalle Rsu Funzioni Centrali, Stefano Rossi della Fp Cgil e Cinzia Sattin, della Cisl Fp, in risposta all’ispezione presso l’Area Sicurezza e Trattamentale della casa di reclusione di Padova svolta precedentemente dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Ufficio Prap). La carenza - Le Rsu esprimono le proprie perplessità riguardo le osservazioni comunicate dall’ufficio Prap, con una lettera del 17 dicembre 2021, laddove viene scritto che “il numero di funzionari giuridico-pedagogici dell’area è in linea con le direttive ministeriali e in rapporto alla popolazione detenuta presente connotata solo da soggetti con pena passata in giudicato di entità variabile”. Secondo i sindacalisti non è così. “Un’osservazione che ci lascia perplessi - dicono i due rappresentanti sindacali - dal momento che le piante organiche prevedono 10 funzionari giuridico pedagogici ma ne sono presenti solo 8 (compreso il capoarea) poiché un’unità è in aspettativa da anni. Ricordiamo che i precedenti accordi sindacali prevedevano un educatore ogni 50 detenuti per le case di reclusione, oltre al capo area, e un educatore ogni 100 detenuti per le case circondariali, sempre oltre al capo area. Oggi sono presenti in istituto 578 detenuti, con un trend che segna un incremento costante, pertanto gli educatori dovrebbero essere 11/12. Vogliamo anche ricordare che prima del taglio delle piante organiche operate con la legge Madia, erano previsti 15 educatori per la casa di reclusione di Padova per una capienza regolamentare di 438 detenuti, un numero mai raggiunto neanche in tempi di Covid”. Un problema, secondo i sindacati, ormai cronico. Cagliari. La lettera di dolore delle donne detenute nel carcere di Uta cagliaripad.it, 17 febbraio 2022 Prendendo spunto da un appello giunto il 25 gennaio, l’associazione Caminera Noa intende denunciare la situazione della sezione femminile del carcere di Uta. “Prendendo spunto da un appello giunto il 25 gennaio dalla sezione femminile del carcere di Uta, Caminera Noa intende denunciare come le carceri siano strutture che non risolvano affatto le contraddizioni della nostra società, nella quale chi sbaglia finisce a scontare la propria pena in luoghi tutt’altro che adatti al recupero e al reinserimento dei condannati. Accade questo perché le carceri italiane si basano sul concetto della pena da scontare piuttosto che su quello del recupero dei detenuti. Per questa stessa ragione non vi è un vero dibattito sulle forme di recupero alternative di chi nella nostra società ha commesso dei reati. Le carceri sono unicamente luoghi di sofferenza e di isolamento affettivo e relazionale, spesso sovraffollate e in condizioni strutturali precarie in cui vengono a mancare, come raccontato nel caso della sezione femminile del carcere di Uta, persino il vitto, costrette a reperirlo nella sezione maschile, e dove si vive in scarse condizioni igienico-sanitarie e di grandissimo disagio psicologico”. Lo scrive Giulia Carta, responsabile alle politiche di genere per Caminera Noa. “Pensiamo che a Uta si stiano negano i diritti delle detenute, in un contesto in cui vengono lasciate ad ammalarsi e a soffrire in solitudine, condannate a svolgere mansioni non dovute e non retribuite, sempre come dichiarato nell’appello lanciato dalle detenute. A distanza di venti giorni non arrivano infatti notizie che facciano pensare che qualcosa di concreto sia stata fatta per risolvere ad una situazione evidentemente non più sopportabile. Caminera Noa chiede quindi un intervento immediato delle istituzioni affinché si ponga prontamente fine ai disagi che da tempo si denunciano dall’interno delle mura del carcere. Evidenziamo inoltre come lo Stato italiano sia tenuto al rispetto dei diritti sanciti dalla carta di Parigi del 10 aprile 1949, di cui ricordiamo in particolare l’art. 5: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.” Lettera dalla sezione femminile del Carcere di Uta Ti disturbo perché le cose in questo carcere sono assurde e vorrei che se fosse possibile potessi far sapere al di fuori cosa succede qui dentro. In primis siamo detenute presso il femminile, il quale è tutto positivo al covid e la struttura carceraria non è in grado a tutt’oggi di sostenere la situazione e garantire le condizioni sanitarie necessarie. Il potenziale penitenziario è praticamente dimezzato. E sono tutte senza guanti. Ogni cosa ti viene passata senza essere igienizzata. Non essendoci lavoranti poiché siamo solo in 10, stanno facendo fare a quelle poche rimaste mansioni per le quali poi non vengono nemmeno pagate. A me per esempio mi stanno facendo pulire due sezioni insieme e invece di zone canoniche ne faccio molte di più e solo 5 giorni dai contagi mi hanno munito di appositi sostegni sanitari anti contagio. Nella zona telefono vi hanno messo uno spray tipo sgrassatore, neanche dell’amuchina. Gli stracci con cui lavo dovrebbero essere igienizzati o dati dei nuovi. Non ci forniscono né mascherine né calzari adeguati se entriamo in area Covid. Il mangiare ci viene passato dal maschile con pentoloni e non sappiamo se essi possano essere infetti, mentre dovrebbero essere dati in porzione con piatti monouso da gettare. I medici non vengono mai, né medici di primo soccorso né psicologi né psichiatri e siamo chiuse nelle celle dai primi di gennaio. Le porta vitto oltre a portare il vitto, devono scendere in cucina a lavare le pentole da rendere al maschile. Tutto questo gratis. Nel mese precedente ci hanno dimezzato le ore poiché non vi erano fondi e continuano ad aumentare i prezzi del sopravvitto. Situazioni ancora più gravi come tenere una detenuta con richiesta di divieto d’incontro una notte con quella stessa detenuta per cui aveva richiesto di essere spostata, perché minacciosa e pericolosa essendo e avendo già avuto precedenti violenti per cui ha ottenuto già da altre detenute divieti e denunce. Tutto questo perché non poteva stare sola in camera poiché a rischio suicidale. Gli avrebbero dovuto dare il piantonamento. Non vi sono riabilitazioni di nessun genere, né da parte dei Serd, né da parte delle stesse educatrici che non vediamo mai, siamo lasciate a noi stesse e stiamo ammalandoci sia fisicamente che psicologicamente. Sicuramente abbiamo sbagliato nella nostra vita ed è giusto pagare, ma a volte si sbaglia non perché di indole delinquenti e vorremmo che il carcere in primis sia una struttura dove si possa capire e poter rinascere ricreandoci una nuova vita, perché anche se erranti siamo comunque Donne, mamme e mogli che fuori da questa porta carceraria, vogliamo tornare con la voglia di migliorarsi e tornare dai loro cari con speranze e con degli scopi per non varcare più questa maledetta porta di ferro, dove tutto accade ma nessuna sa. Dove tutti muoiono, ma il tutto viene taciuto, dove nessuno parla tutto rimane all’interno di queste fredde mura che ci stanno spezzando e degradando giorno dopo giorno. Ma dentro di noi c’è un grido forte d’aiuto e spero che queste grida possano oltrepassare queste mura e farsi sentire per poter cambiare tutto ciò. Chiediamo almeno durante questa gravissima situazione incontenibile ed ingestibile di essere mandate ai domiciliari, la cosa sta veramente degenerando e noi non vogliamo morire qui dentro per la negligenza di un’amministrazione che non è capace di gestire una cosa così pesante e gravosa. Ti ringraziamo e speranzose attendiamo un vero aiuto. Le detenute di Uta Palermo. Officine Malaspina, i giovani detenuti del carcere scrivono e realizzano un film palermotoday.it, 17 febbraio 2022 Cinque i laboratori didattici sui mestieri del cinema che si stanno svolgendo nelle aule dell’edificio dell’omonima via: produzione cinematografica, regia e scrittura cinematografica, ripresa e fotografia, scenografia e costumi, sound design e broadcasting. Cinque laboratori sui mestieri del cinema e, successivamente, la realizzazione vera e propria di un film, che racconti una storia originale e che parli alle coscienze di chi lo guarda. Sono gli obiettivi del progetto “Officine Malaspina”, dell’associazione Centro Studi Pianosequenza, che è stato avviato a Palermo e che coinvolge 30 giovani detenuti (tra i 14 e i 25 anni) dell’Istituto penitenziario minorile (Ipm) “Malaspina”, con annesso centro di prima accoglienza “Francesca Morvillo”. Cinque i laboratori didattici sui mestieri del cinema che si stanno svolgendo nelle aule dell’edificio dell’omonima via: produzione cinematografica, regia e scrittura cinematografica, ripresa e fotografia, scenografia e costumi, sound design e broadcasting. “I ragazzi hanno già iniziato a scrivere la sceneggiatura. Si tratta di una favola moderna ambientata a Palermo che ha per protagonisti i giovani abitanti di un quartiere ai margini. Il nostro scopo è quello di utilizzare il linguaggio cinematografico quale strumento di istruzione, rieducazione e crescita, anche nell’ottica del reinserimento socio-lavorativo di questi ragazzi”, spiega Luciano Accomando, regista e ideatore del progetto, che è stato finanziato dal Dipartimento per le Politiche giovanili e il Servizio civile universale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. “Officine Malaspina, con i suoi laboratori - dice la direttrice dell’Ipm, Clara Pangaro - rappresenta un luogo di esperienza, di apprendimento e di produzione creativa, combinando insieme ambiti importanti quali la formazione, il sociale e la cultura. Il mondo del cinema, realtà considerata come qualcosa di distante e irraggiungibile, diventa per i ragazzi che partecipano a questo progetto una realtà a cui è possibile accedere imparando e cimentandosi in maniera concreta nei diversi mestieri specifici di questo settore e vivendo in presa diretta le diverse fasi di produzione e realizzazione di un film”. “Un progetto ambizioso - conclude Patrizia Toto, presidentessa di Centro Studi Pianosequenza - con cui vogliamo anche sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammatica situazione di esclusione sociale in cui versano i giovani detenuti, rendendo possibile l’idea di un riscatto sociale e di una piena realizzazione di sé”. Steccanella, l’avvocato degli “indifendibili” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 17 febbraio 2022 “La giustizia degli uomini”, il saggio del difensore di Battisti e Vallanzasca. Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la sua professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso. Ha un rapporto laico con la giustizia. Il suo libro dovrebbe essere letto da tutti, ma non solo letto anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza prima degli altri sia che sognino di seguire le sue tracce sia che invece vogliano diventare magistrati Lui dice che “questo libro non è né un trattato sul processo penale né un manuale sul mestiere dell’avvocato...”. Ma non è così, perché “La giustizia degli uomini” (Mimesis Edizioni, 18 euro) di Davide Steccanella dovrebbe proprio essere non solo letto, ma anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza, prima di altri. Sia che sognino di diventare dei Carnelutti, ma anche se si accontentassero del più modesto ruolo di un Di Pietro, visto che in questo febbraio 2022 siamo in clima di celebrazioni per il trentennale di un arresto, evento per il quale non si dovrebbe mai festeggiare. E questo dovrebbe essere il primo insegnamento, per gli studenti. Il secondo potrebbe riguardare il coraggio, quello di assistere “gli indifendibili”, come Cesare Battisti, il terrorista, e Renato Vallanzasca l’incontrollabile delinquente abituale. Lui l’ha fatto, perché Davide Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la propria professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso, benché figlio di avvocato. E si sa che le toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, generano altre toghe. Ma da lui abbiamo queste due garanzie di un rapporto “laico” con l’amministrazione della giustizia. Infatti il nostro autore è entrato per la prima volta nel sacrario del Palazzo di giustizia di Milano un po’ dalla porta di servizio, a ventiquattro anni, mentre era militare nel corpo dei carabinieri, cui all’epoca era affidato il servizio traduzioni dei detenuti dal carcere di San Vittore al tribunale. Così, negli anni in cui, pur avendo in tasca una laurea in giurisprudenza (quella che ti apre tutte le porte, come si diceva un tempo), non si è ancora ben deciso che cosa fare “da grandi”, il giovane Steccanella si ritrovò a guardare il processo con occhio neutro. Con stupore guarda il trattamento riservato ai detenuti. E li vede così: “Animali trascinati in catene da una gabbia all’altra nell’indifferenza generale, questo erano”. E le toghe? “...provavo un malcelato fastidio nel vedere quegli avvocati parlarsi addosso per ore davanti a tre signori, altrettanto agghindati che - seduti su una sorta di scranno reale con aria annoiata- il più delle volte neanche ascoltavano. Alla fine il signore seduto al centro - vecchissimo, ai miei occhi- leggeva il verdetto con tono solenne e dizione incomprensibile”. Attenzione a vedere nelle impressioni di questo ragazzo qualcosa di superficiale, perché quello lì con la divisa da carabiniere aveva capito qualcosa di profondo, che il processo è violenza, e che tra le lungaggini e la noia delle toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, c’è un soggetto-vittima, un animale in catene. In un canile, aggiungerà anni dopo un detenuto tragicamente eccellente, Gabriele Cagliari. Davide Steccanella, avvocato per caso, quel palazzo lo frequenta ancora da trentacinque anni. E mette la sua esperienza, il suo vissuto, a disposizione di chi voglia conoscere senza gli occhi dell’ideologia o dello schieramento di campo. Ricorda senza piaggeria due grandi avvocati milanesi, Corso Bovio e Ludovico Isolabella, suo primo e unico maestro. Dipinge come pubblici ministeri-tipo, due ancora famosi ancorché da poco pensionati, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Il primo, la cui indole era “ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere che non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca”. Uno che pareva appartenere a quella “cultura becera” che considerava gli avvocati come azzeccagarbugli, “furbastri dediti... a lucrare sul crimine impunito”. La seconda colpiva, racconta l’Autore, per “... quella devozione ai limiti del maniacale allo Stato”. “La sua missione era catturare i mafiosi, cosa che fece sebbene non tutti lo fossero davvero, prendendosi qualche ingiusto anno di galera”. Descrizioni perfette dei due, più efficaci di tanti commenti. Con una considerazione generale, alla fine del capitolo. “Una cosa sono i pubblici ministeri “militanti”, durissimi e in buona fede, sebbene sorretti da certezze tanto granitiche da diventare sordi a qualunque istanza della difesa; altra cosa sono quelli che semplicemente giocano sporco”. Ecco. Ma fuori dagli schemi dei personaggi famosi, dei militanti e di coloro che giocano sporco, per capire come funzionava (e funziona) spesso nella quotidianità il processo, ricordiamo un episodio che riguardò un riconoscibile (pur se non citato con nome e cognome) ex assessore regionale democristiano della Regione Lombardia. Arrestato due volte, la seconda costretto al digiuno per sollevare un po’ di attenzione sul suo caso. Precisiamo che fu poi assolto in ambedue i processi. Ma nel secondo, ricorda Steccanella che fu suo difensore con Isolabella, la pm aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere. E avendole fatto notare il difensore che gli parevano un po’ tanti per un semplice tentativo, la “sventurata” ammise di non essersene accorta e modificò la richiesta a un anno e quattro mesi. Così, con indifferenza, per lei gli anni erano solo numeri, non furto di vita di persone. La carriera politica dell’assessore era finita (da tempo fa l’avvocato), non quella della pm, che divenne giudice di cassazione. Con quale imparzialità possiamo immaginare. Ma erano poche, in quegli anni di Tangentopoli, le occasioni per il giovane avvocato, oggi sessantenne, di andare a difendere un innocente. La gran parte del tempo gli avvocati lo trascorrevano facendo gli “accompagnatori” di indagati disposti a tutto, alla delazione, al tradimento, pur di non andare in carcere. Il che non era proprio un bel mestiere, per chi doveva difendere. Facile, soprattutto. Sicuramente l’avvocato Steccanella ha tratto maggior soddisfazione, pur se i risultati non gli hanno dato il merito che gli sarebbe dovuto, nell’assistere “gli indifendibili”, Cesare Battisti e Renato Vallanzasca. “Io so che cosa pensa la madre di uno stupratore” di Enrica Brocardo Grazia, 17 febbraio 2022 Un giorno tuo figlio viene accusato di violenza sessuale e la tua vita va in pezzi. È la vicenda, ispirata a una storia vera, raccontata nel film “L’accusa”. La protagonista è Charlotte Gainsbourg, che recita con il suo primogenito e che dice: “A lui ho insegnato che ogni maschio oggi deve rispettare la donna che ha davanti”. Come può reagire una madre quando scopre che il proprio figlio è accusato di violenza sessuale? Soprattutto quando quel figlio si dichiara innocente e quasi certamente è convinto di esserlo? È una delle tante domande sollevate da un film, L’accusa, in arrivo al cinema il 24 febbraio. Claire, la madre, interpretata da Charlotte Gainsbourg, è una femminista. In una delle prime scene la vediamo partecipare a un dibattito radiofonico proprio su un caso di violenza che vede coinvolti alcuni immigrati. Claire è la madre di Alexandre, l’attore Ben Attal che nella vita reale è figlio di Gainsbourg e del suo compagno Yvan Attal, che firma la regia. Alexandre è un giovane brillante, studia in una prestigiosa università americana. Una sera, Alexandre va a una festa di amici con Mila, la figlia diciassettenne del nuovo compagno di sua madre, che ha appena conosciuto. Lei è molto diversa: cresciuta con una madre ebrea ortodossa, è timida, insicura. A quel party si vede benissimo che si sente a disagio. Quello che dovrebbe essere una sorta di fratello acquisito la convince a bere e Mila, che agli alcolici non è abituata, non si sente bene. È con questa scusa che lui l’accompagna a prendere un po’d’aria. Quello che accade là fuori, al buio, nel film non si vede. Una scelta precisa. Perché qualunque cosa sia successa, per il ragazzo si è trattato di un rapporto assolutamente consensuale. Anche se la motivazione, una scommessa con gli amici a chi per primo fosse riuscito a fare sesso con una delle invitate (e mostrare i suoi slip come prova), lo ammetterà lui stesso, è quanto meno riprovevole. Mentre per lei, che decide di denunciarlo alla polizia, non c’è dubbio che sia stato uno stupro. E il film mostra in tre capitoli diversi la stessa storia, dal punto di vista di lei, di lui e, poi, il confronto fra i due e le loro famiglie al processo. “Le scene in tribunale sono le prime che abbiamo girato”, racconta Gainsbourg. “Vedere Ben sul banco degli imputati, nonostante fosse tutto finto, è stato difficile, mi sono sentita emotivamente coinvolta. Il mio personaggio vive una situazione terribile per una madre. Era convinta di aver educato suo figlio al rispetto. È possibile che sia davvero colpevole? E se lo è, in quanto mamma, Claire può arrivare a negare tutto ciò in cui, come femminista, ha sempre creduto?”. L’accusa è tratto dal libro Le cose umane della scrittrice francese Karine Tuil, a sua volta ispirato a un fatto reale: lo stupro di una ragazza da parte di uno studente della Stanford University nel 2015, di cui si parlò molto per il commento del padre di lui alla condanna a (soli) sei mesi di carcere del figlio: “Un prezzo troppo alto per venti minuti d’azione in vent’anni di vita”. Ma, secondo Gainsbourg, il film mette in primo piano il tema del consenso, una questione che le sta particolarmente a cuore in quanto mamma, oltre che di Ben, 24 anni, anche di due figlie: Alice, 19, e Joe, 10: “Yvan, il mio compagno e il loro papà, e io non ci stanchiamo mai di dire loro: “Di qualunque cosa si tratti, se non ti va, non farlo. E, soprattutto, non tacere”. Io non sono stata cresciuta in questo modo, da ragazza nessuno mi ha mai detto che era un mio diritto non volere qualcosa. Per quanto riguarda i maschi, è importante che imparino a leggere i desideri di chi hanno davanti. Per fortuna, credo che la maggior parte dei giovani, oggi, conosca i codici giusti”. Gainsbourg è figlia dell’attrice e cantante Jane Birkin, alla quale ha dedicato il documentario Jane By Charlotte (in uscita prossimamente) e del musicista Serge, il contrario del politicamente corretto che, nel 1985, fece scandalo con il video della canzone Lemon Incest in cui cantava a petto nudo in un letto con Charlotte, allora tredicenne, in camicia e mutandine. Ed è anche a causa di queste sue origini che l’attrice, quando esplose il movimento #MeToo, era stata molto cauta nelle sue dichiarazioni. Da un lato, infatti, aveva sostenuto le donne che avevano avuto il coraggio di denunciare, dall’altro, però, aveva messo in guardia dal rischio di estremizzazioni e dalle condanne via social media. Oggi, però, sembra aver cambiato prospettiva. Dice: “Sono stata fortunata perché non ho mai subito molestie e perché sono nata in un tempo in cui a “guidare la danze” non erano più gli uomini. I maschi si sono presi libertà che allora sembravano normali, ma che non devono esserlo più. All’inizio, ero perplessa solo perché mi sembrava che, per reazione, si esagerasse dal lato opposto. Ma, adesso, penso che certi estremi servano per arrivare al cambiamento, che si tratti di una fase necessaria a trovare un nuovo equilibrio”. Referendum, luci e ombre di un compromesso di Stefano Folli La Repubblica, 17 febbraio 2022 È stata una novità inattesa e quasi rivoluzionaria la conferenza stampa del presidente della Corte per illustrare le ragioni delle sentenze e dialogare nel merito con i giornalisti. Una volontà di trasparenza che cambia un po’ l’immagine della Consulta. C’è da domandarsi, peraltro, se l’iniziativa di Amato servirà a disinnescare le polemiche sui due referendum rigettati: l’eutanasia (per la precisione: l’omicidio del consenziente) e la legalizzazione delle droghe leggere (la cannabis). A giudicare dalle reazioni, si deve presumere di no, almeno non subito. I comitati promotori hanno speso tempo e passione per imporre i due temi e la loro delusione è cocente. Anche perché si è parlato di un errore materiale nel quesito sulla droga: una tesi che ha sparso altra benzina sul fuoco e naturalmente viene respinta dal radicale Cappato, il quale arriva a denunciare una ferita alla democrazia. Vedremo. Quel che è certo, le scelte della Corte resteranno nella memoria del paese per un’altra ragione: l’aver ammesso cinque dei sei referendum sulla giustizia (è rimasto escluso il quesito sulla responsabilità del magistrato, comunque uno dei più significativi). Non era scontato. Con la sentenza si sottolinea ciò che non va nel sistema giudiziario e attende di essere corretto dopo anni di ritardi. Ovviamente la Corte rifiuta anche solo il sospetto di agire per motivi politici o per influenzare la politica. Le decisioni sono prese in base a un esame tecnico-giuridico delle questioni, all’interno dei margini costituzionali. Tuttavia esiste qualcosa che si definisce lo “spirito dei tempi”, ossia il mutare del senso comune a proposito di certi aspetti della vita nazionale. È la ragione per cui talune riforme, considerate in passato non prioritarie, diventano urgenti. Sotto tale profilo la Corte - s’intende nel suo ambito e con le cautele necessarie - può e forse vuole contribuire a modernizzare il paese in un’epoca in cui il Parlamento tende ad arenarsi sui provvedimenti chiave. Come la Corte Suprema degli Stati Uniti sa interpretare lo “spirito dei tempi”, così anche la Consulta può aiutare la modernizzazione. È una tesi che non convince quanti hanno letto nella giornata di ieri e nelle parole di Amato solo un abile compromesso. Niente sul “fine vita” e sulla cannabis legale. Niente sulla responsabilità dei magistrati che sbagliano. E con il Parlamento che potrebbe vanificare uno o due dei quesiti ammessi. Ma chi invece vede il bicchiere mezzo pieno, pensa che la spinta verso una riforma generale della giustizia sia evidente, al di là delle prudenze della riforma Cartabia e del rischio che essa sia, ciò nonostante, annacquata. In fondo chi ricorda le dure parole del presidente Mattarella nel discorso inaugurale del nuovo mandato, si rende conto che il tema giustizia non può essere accantonato ancora una volta. Il che significa colpire il sistema correntizio e corporativo, nonché ridurre la tentazione di sovrapporsi alla politica da parte di alcuni magistrati. L’occasione c’è, bisogna capire se sarà sfruttata. Molto dipende da come si svolgerà la campagna elettorale. Già la destra si è divisa: Giorgia Meloni non intende lasciare a Salvini, promotore delle firme, il palcoscenico. Del resto, sarebbe un errore se la Lega si limitasse a sventolare una bandierina di partito. A sua volta il Pd è stato scavalcato dagli eventi su un tema cruciale, anzi quasi un tabù: appunto il rapporto con la magistratura. Referendum, la versione di Amato di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 febbraio 2022 Il presidente della Corte costituzionale spiega eccezionalmente le decisioni sui quesiti: ammessi solo cinque sulla giustizia. Spaccheranno la maggioranza e due potrebbero essere superati dalla riforma Cartabia del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Caccia al quorum, il governo potrebbe evitare l’abbinamento con le amministrative. È come se l’arbitro di un acceso derby calcistico scendesse in sala stampa un minuto dopo il fischio finale, a spiegare le sue decisioni sui rigori dati e non dati, sul Var e le espulsioni. Professore, giurista, politico, Giuliano Amato non può che interpretare il ruolo di presidente della Corte costituzionale al modo di chi da cinquanta anni è più è un protagonista della scena pubblica. Così si presenta proprio lui per spiegare ai giornalisti (e loro tramite agli elettori) le decisioni della Corte sui referendum. Non sono andate come aveva auspicato quando aveva raccomandato ai colleghi il massimo dell’apertura: tre quesiti su otto la Corte li ha respinti. Le ultime notizie le porta il presidente: “Faccio anche la parte del comunicato”, sorride Amato. Così, eccezionalmente, abbiamo un fatto - la non ammissibilità dei referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati e sulla depenalizzazione di alcune condotte legate all’uso personale delle droghe, in aggiunta alla non ammissibilità già comunicata del referendum sull’omicidio del consenziente - e la spiegazione del fatto. Amato si preoccupa di incanalare il racconto della notizia lungo binari che non nuocciano alla Corte: “Ci ha ferito sentir dire che non abbiamo tenuto in conto le sofferenze dei malati, non è così, il referendum non avrebbe riguardato solo la loro condizione”. Probabilmente anche la decisione di rendere pubblico il suo invito, alla vigilia, a “non cercare il pelo nell’uovo” era un anticipo di questa accorta strategia comunicativa. La Corte, ha spiegato Amato, nella sostanza ha ritenuto i quesiti troppo vasti, avrebbero cioè prodotto effetti al di là delle intenzioni dichiarate dai proponenti. Il referendum sull’omicidio del consenziente avrebbe depenalizzato anche omicidi al di fuori dei casi di eutanasia. Il referendum sulle droghe avrebbe depenalizzato condotte anche non riferite alla cannabis ma ad altre droghe pesanti e, in caso di vittoria del Sì, “ci farebbe violare obblighi internazionali plurimi”. Quello sulla responsabilità civile dei magistrati “avrebbe avuto un effetto non abrogativo ma propositivo, introducendo di fatto una normativa del tutto nuova rispetto alla storica responsabilità indiretta dei magistrati”. Bisogna leggere le motivazioni, è probabile che in quest’ultimo caso il problema sia che la nuova normativa sulla responsabilità diretta dei magistrati non sarebbe stata autoapplicativa, avrebbe cioè avuto bisogno di un successivo (ma non imprevedibile) intervento del parlamento. Si trattava, del resto, di una non ammissibilità attesa. Semmai la sorpresa è l’ammissibilità del quesito che può cancellare del tutto le norme della legge anticorruzione sull’incandidabilità e la decadenza a seguito di condanne penali. Secondo la Corte, evidentemente, l’eventuale abrogazione non impatterebbe su obblighi e convenzioni internazionali, malgrado la legge delega che stia a monte del decreto Severino presenti se stessa come attuazione di una convenzione Onu contro la corruzione. Amato ha spiegato in conferenza stampa che il via libera è stato possibile perché la convenzione Onu non richiamava direttamente le specifiche norme sull’ineleggibilità, ma un quadro di interventi anti corruzione contenuti in altri decreti delegati. Diversamente il vincolo del rispetto dei trattati internazionali, in questo caso quelli contro il traffico di droga, è valso per bocciare il referendum sulle droghe. Anche se quei trattati non hanno impedito ad altri stati sottoscrittori come il Canada e Malta di legalizzare l’uso della cannabis o la sua coltivazione. Cinque referendum in ogni caso sono salvi, sono quelli sulla giustizia proposti mediaticamente da radicali e Lega ma sostanzialmente da nove consigli regionali a maggioranza centrodestra (che si sono anche divisi le spese legali, 135mila euro di soldi pubblici). I quesiti - 1) abolizione delle firme per le candidature togate al Csm 2) separazione netta e definitiva delle funzioni tra giudici e pm 3) legge Severino 4) limiti alla custodia cautelare e 5) voto degli avvocati nei giudizi di professionalità dei magistrati - spaccheranno la maggioranza. Lega, Forza Italia e centristi da una parte, Pd, M5S e Leu dall’altra. Anche se è prevedibile, specialmente nei quesiti sulla separazione delle funzioni e sulla custodia cautelare, che la spaccatura entri anche nel Pd. Due di questi referendum potrebbero essere superati dall’approvazione del nuovo testo Cartabia di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: abolizione delle firme per le candidature (non più previste) e introduzione del voto degli avvocati (adesso previsto). Ma è difficile che la riforma possa essere definitivamente approvata in tempo, anche se il governo dovesse rimangiarsi la promessa di Draghi di non mettere la fiducia (cosa che per la seconda lettura al senato è assai probabile). Qualche chance in più ci sarebbe se il governo decidesse di convocare il referendum nell’ultima data utile, domenica 12 giugno, evitando cioè l’abbinamento con le amministrative (previste per il 5 e il 19 giugno). Sarebbe un bello sgambetto ai sostenitori del Sì che a questo punto, senza più i referendum più sentiti che sono caduti davanti alla Corte, dovranno lottare soprattutto per raggiungere il quorum dell’affluenza. E se la Consulta avesse sbagliato? di Luigi Manconi La Stampa, 17 febbraio 2022 E se la Corte costituzionale avesse commesso un errore? Intendo dire: se fosse caduta in un grave equivoco proprio nel considerare i testi di legge sui quali era destinato a intervenire il referendum in materia di depenalizzazione della coltivazione domestica di alcune piante di cannabis? È possibile ipotizzarlo se si ascoltano le parole pronunciate, nel corso di una conferenza stampa, dal presidente della Consulta Giuliano Amato. Si dovrà attendere il dispositivo della sentenza prima di dare una valutazione definitiva ma, al momento, qualcosa non torna. Il ragionamento è complesso e richiede un po’ di pazienza. Il presidente Amato ha sottolineato come il comma 1 dell’articolo 73 faccia riferimento alle “tabelle 1 e 3 delle sostanze stupefacenti, che non includono nemmeno la cannabis, che si trova nella tabella 2”. Facendo intendere che questo sia avvenuto per un errore materiale dei promotori del Referendum. Così non è. Infatti, il comma 4 richiama testualmente le condotte di cui al comma 1 dello stesso articolo 73, tra le quali è ricompresa proprio quella della coltivazione. Appare evidente, dunque, come non si possa prescindere da una lettura combinata dei due commi. In altre parole, i proponenti non hanno fatto riferimento al comma 1 perché volevano legalizzare la coltivazione di “droghe pesanti”, bensì perché non si poteva fare altrimenti, dal momento che i due commi sono correlati. In ogni caso - ed è quanto esposto nella memoria difensiva del quesito e nel corso dell’udienza in Corte - questo non avrebbe comportato automaticamente la libera produzione di ogni tipo di sostanza. Il termine “coltiva” fa riferimento alle piante: l’unica pianta che è possibile consumare come stupefacente è la cannabis. Si possono coltivare - certo con grandi difficoltà e in determinate regioni del mondo - papavero e coca ma per consumarle come stupefacenti occorre trasformarle: la “produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione” sarebbero rimaste punite nel comma 1 dell’articolo 73. Il presidente Amato, inoltre, ha affermato che l’eventuale approvazione del quesito avrebbe comportato la violazione di “obblighi internazionali plurimi che sono un limite indiscutibile dei referendum”. Ma va ricordato che sono numerosi i paesi come il Canada, diciotto Stati degli USA, l’Uruguay e, in ultimo, Malta - che hanno depenalizzato la coltivazione domestica, senza che ciò abbia comportato la sospensione delle convenzioni internazionali. Va ricordato, poi, che il referendum sulla cannabis ha subito in questi mesi un processo di deformazione e di alterazione del suo reale significato. È stato un grave errore considerarlo come materia di esclusivo interesse per gli ultimi “fricchettoni” dell’Occidente, per gli adolescenti in cerca di emozioni forti e per gli incanutiti coltivatori di memorie all’insegna di “Peace&Love”. Insomma, una sgualcita riedizione del festival di Woodstock o il sequel di film come Harold e Maude e L’erba di Grace per un pubblico di giovani e vecchi “accannati”. Si deve tener conto che le stime più attendibili parlano, per la sola Italia, di oltre sei milioni di consumatori, presenti in tutte le fasce di età. E non solo: la possibilità di coltivazione domestica di piante di cannabis avrebbe un effetto importante su quella drammatica situazione rappresentata da molte migliaia di malati affetti da patologie come sclerosi multipla, dolore oncologico cronico, cachessia (in anoressia, HIV, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette. In Italia, sin dal 2007, il ricorso a farmaci cannabinoidi è legale, ma la possibilità concreta di ricorrervi è resa ardua da molti ostacoli: difficoltà di approvvigionamento, scarsa disponibilità dei medici alla prescrizione, costi assai eccessivi per un uso frequente, ridotta produzione nazionale. Il che impone il ricorso al mercato estero e la conseguente intollerabile lentezza per l’acquisto e l’ulteriore aumento dei prezzi. La possibilità di coltivazione presso il proprio domicilio non solo avrebbe consentito a un numero crescente di pazienti di ricorrere a quei farmaci alleviando le proprie sofferenze, ma li avrebbe sottratti al mercato clandestino e alla inevitabile penalizzazione. Come è accaduto in anni recenti - porto due esempi tra i molti - a Walter De Benedetto e Fabrizio Pellegrini. Il primo affetto da artrite reumatoide e il secondo da fibromialgia ed entrambi sottoposti a perquisizioni, arresti, processi e condanne. Infine un’ultima considerazione. Per il referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia sono state raccolte 1.239.423 firme, per quello sulla cannabis cinquecentomila in sette giorni: due importanti occasioni di mobilitazione collettiva e di partecipazione popolare nell’epoca in cui la crisi dei partiti conosce il suo punto più basso; e nella fase che vede il ruolo del parlamento intorpidirsi in una sorta di sospensione afasica. È ovvio che le decisioni della Corte costituzionale non debbano tener conto di tali fattori “politici”, ma resta il timore che sentenze come quelle su temi di così intensa emotività possano determinare un sentimento di frustrazione, difficilmente sanabile. Perché i palazzi temono la democrazia diretta di Piergiorgio Odifreddi La Stampa, 17 febbraio 2022 La contrapposizione fra i promotori del referendum sul fine vita e la Corte Costituzionale deriva da visioni antitetiche della partecipazione dei cittadini alla politica, una formale e l’altra sostanziale. Dal punto di vista formale si scontrano, da un lato, l’idea democratica e popolare che a decidere delle regole del vivere comune, e soprattutto di quelle che ne costituiscono il fondamento e l’essenza, debbano essere i cittadini stessi, senza mediazioni di alcun tipo. E, dall’altro lato, l’idea paternalistica ed elitaria che a decidere debbano essere invece organismi e strutture via via più lontane dal sentire della gente comune, che vanno dal Parlamento al governo e agli organi di controllo. Nello specifico, la distanza che separa la Corte Costituzionale dal popolo è abissale: un terzo dei suoi giudici è eletto dagli eletti (i parlamentari), un terzo è eletto da un eletto dagli eletti (il presidente della Repubblica), un terzo è eletto da giudici che non sono eletti, e nessun giudice è eletto direttamente dai cittadini. Come se non bastasse, neppure la Costituzione che la Corte interpreta è stata a suo tempo approvata direttamente dai cittadini, ma soltanto indirettamente dall’Assemblea Costituente. E se anche lo fosse stata, oggi sarebbero morti tutti coloro che l’avessero votata: un’aperta violazione del cosiddetto principio di Jefferson, secondo il quale “la Terra è data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essi”. Non stupisce dunque che il Parlamento, il governo e la Corte Costituzionale, che incarnano forme di democrazia via via più indirette e differite, guardino con crescente sospetto e fastidio ai referendum, che costituiscono invece una rivendicazione di democrazia diretta e immediata da parte dei cittadini. Stupisce invece, semmai, che lo stesso presidente Giuliano Amato abbia dichiarato qualche giorno fa, irritualmente ma benemeritamente: “Davanti ai quesiti referendari ci si può porre in due modi: o cercare qualunque pelo nell’uovo per buttarli nel cestino, oppure cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto. Noi dobbiamo lavorare al massimo in questa seconda direzione”. Naturalmente il neopresidente della Consulta parlava con cognizione di causa, ben sapendo che i suoi colleghi la pensavano esattamente al contrario di lui. E infatti, nei confronti del referendum sul fine vita hanno appunto trovato il “pelo nell’uovo per buttarlo nel cestino” paventato da Amato. Il quale, appartenendo a una tradizione storica di laicismo che è da sempre minoritaria nel Parlamento e nella politica della Repubblica italiana, sapeva bene che, oltre alle questioni formali, avrebbero pesato al riguardo anche argomentazioni sostanziali, legate alla concezione clericale della vita. Questa concezione è stata pubblicamente ribadita dal Papa il 9 febbraio scorso, a pochi giorni dalla delibera della Corte, in una delle esternazioni-ingerenze ai quali i suoi predecessori ci avevano abituati, e che gli ingenui pensavano fossero diventate obsolete nel suo sedicente “nuovo corso”. Riecheggiando le parole dei suoi predecessori Pio XII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Francesco ha affermato: “La vita è un diritto, non la morte, la quale va accolta, non somministrata”. E ha aggiunto, affinché chi aveva orecchie da intendere intendesse: “Questo principio etico riguarda tutti, non solo i cristiani o i credenti”. Ora, che un Papa pretenda di dettar legge a tutti è nell’ordine delle cose, visto che la Legge Fondamentale del Vaticano rigetta persino il principio della separazione dei poteri di Montesquieu, sul quale si fondano le democrazie moderne. Così come è nell’ordine delle cose che un Papa rigetti anche il principio risorgimentale “libera Chiesa in libero Stato” di Cavour, sul quale è stata invece fondata l’unità d’Italia. Non è invece nell’ordine delle cose che, nel terzo millennio, il Parlamento e la Corte Costituzionale agiscano di concerto, in un combinato disposto, rifiutandosi l’uno di legiferare in democrazia indiretta su questioni di vita e di morte, e rifiutandosi l’altra di permettere ai cittadini di rimediare all’ignavia degli eletti con un atto di democrazia diretta. Spesso noi italiani dobbiamo vergognarci di noi stessi, ma per una volta siamo costretti a vergognarci delle nostre istituzioni, elette o non elette che siano. Flick: “Sul Fine Vita deve decidere il Parlamento, non la Corte Costituzionale” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 17 febbraio 2022 Per il presidente emerito della Consulta quelli per la bocciatura del quesito che autorizzava l’omicidio del consenziente sono “attacchi ingiustificati. Se fosse passato non sarebbe stato più possibile punire nemmeno chi lancia sfide mortali su TikTok”. Il quesito sul Fine Vita non è stato accolto. E ora la Corte Costituzionale è al centro delle polemiche. Giovanni Maria Flick, da presidente emerito della Corte Costituzionale, cosa ne pensa? “Sono polemiche ingiustificate. E bene ha fatto il presidente Giuliano Amato a rispondere. Il primo dovere della Corte è spiegare. Poi leggeremo la motivazione”. Sull’eutanasia c’era una forte aspettativa che il quesito venisse accolto. Invece è stato respinto. “Non è stato accolto il quesito che in sostanza richiedeva di trasferire le norme sull’aiuto al suicidio all’omicidio del consenziente, attraverso la pronuncia della Corte. Ciò non è possibile con un referendum abrogativo che non può comportare aggiunte al quesito e al testo”. Tre anni fa la Corte non si era espressa in quella direzione? “No. Aveva detto che l’aiuto al suicidio rimane reato. Proprio a difesa dei soggetti fragili. Ma in casi particolari, ovvero quando c’è sofferenza intollerabile, infermità irreversibile e necessità di interventi salvavita continui, aveva previsto la possibilità di non punire chi aiuta il suicidio. Ma qui è diverso”. Perché? “Perché l’aiuto al suicidio è cosa diversa dall’omicidio. Anche di chi lo consenta o lo chieda. Se fosse stato accolto il quesito sarebbe rimasto punito solo l’omicidio dell’infermo di mente o del minore. Non di colui che accoglie la richiesta dell’amico: “Premi tu il grilletto perché non me la sento”. O di chi lancia una sfida. Pensiamo a Tik Tok” Cosa c’entra Tik Tok? “Ci sono le sfide per gioco tra ragazzi che possono essere mortali: chi rimane più a lungo con un sacchetto di plastica in testa o su un binario di un treno. Tutto sarebbe stato legalizzato”. Non si potevano trasferire le stesse cautele previste per l’aiuto al suicidio? “Lo deve fare la legge e non una pronunzia della Corte. Invece, paradossalmente, il quesito finiva per includere tutte le possibilità, non solo le situazioni di sofferenza”. Ma se il Parlamento non decide? “Si va sotto il Parlamento e si chiede di decidere, oppure alle elezioni se ne vota un altro. Non è un’offesa alla democrazia il fatto che la Corte faccia il suo dovere. E che serve una legge per risolvere un problema di questo genere. Come ha detto Amato, il Parlamento è il luogo dove discute di valori e non può venire meno ai suoi doveri”. Anche il quesito sulla cannabis è stato escluso... “Dipende da come sono formulati i quesiti. Quello della cannabis, ad esempio, coinvolgeva tutte le droghe e non solo la coltivazione per uso personale. Perciò incideva su una situazione regolata anche da trattati internazionali: cioè su una situazione in cui non può richiedersi un referendum abrogativo”. Da ex ministro cosa pensa dei 4 quesiti sulla giustizia accolti, a partire da quello sulla legge Severino? “Sono stato 9 anni alla Corte, non entro nel merito. Ma quei quesiti incidono solo, ancorché profondamente, sulle leggi ordinarie. Non c’è una richiesta alla Corte di andare oltre i quesiti. Poi diverrà decisiva la volontà popolare, la cui massima espressione è il referendum”. C’è chi dice che sul Fine vita la Corte non ha considerato la sofferenza. “C’è una grande responsabilità dei media. La Corte ha esercitato il suo potere: non deve tener conto della sacralità della vita, che è un concetto religioso (e c’è chi non lo è). Ma nemmeno deve ignorare il principio della solidarietà e la tutela dei soggetti deboli”. Padovani: “Quel no sul fine vita è profondamente sbagliato e dettato da ragioni politiche” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 febbraio 2022 Intervista all’Accademico dei Lincei, che in Corte Costituzionale ha sostenuto le ragioni del referendum sull’eutanasia legale. Il professore e avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, due giorni fa in Corte Costituzionale ha sostenuto le ragioni del referendum sull’eutanasia legale rappresentando “La Società della Ragione” e altre associazioni. Come giudica la decisione della Consulta? Profondamente sbagliata. Il dispositivo della Corte riproduce in sintesi la motivazione della sentenza della stessa Consulta del 2018 che sospese la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 cp (Istigazione o aiuto al suicidio) sollevata dalla Corte di Assise di Milano nel caso Dj Fabo. Si rispose, rinviando al Parlamento, che non si poteva dichiarare l’incostituzionalità perché bisognava salvaguardare le persone fragili e vulnerabili. Ora ci troviamo dinanzi alla stessa motivazione. L’errore è quindi duplice. Perché? Il primo errore consiste nel fatto di invocare una circostanza che non risponde alla realtà normativa. La tutela delle persone più deboli e più fragili è amplissimamente rassicurata dalla piena e integrale sopravvivenza della disposizione del terzo comma dell’articolo 579 c.p. che garantisce i requisiti di validità del consenso. Per capirci bene: con la modifica referendaria chi avesse provocato la morte di un minorenne, di un infermo di mente, di chi si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, o di una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno sarebbe stato comunque giudicato per omicidio? Esatto. Questi paletti sono talmente stretti - nel senso che definiscono tutta una serie di circostanze - e nello stesso tempo talmente ampi - perché definiscono quelle stesse situazioni in modo vago - che a posteriori non sono stati mai accertati. Il 579 cp sta lì a sancire il principio di indisponibilità della vita ma non ha mai ricevuto alcuna applicazione, perché mai si è riconosciuto un valido consenso alla propria uccisione. Quindi le persone fragili sarebbero state tutelate esattamente come lo sono ora. Qual è la seconda ragione per cui è sbagliata? Una motivazione che era stata utilizzata per rigettare una questione di costituzionalità è stata utilizzata in sede impropria, ossia per giudicare dell’ammissibilità o meno di un quesito referendario, che invece andrebbe vagliata solo tenendo presente i casi previsti dall’articolo 75 della Costituzione (Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). Invece i giudici costituzionali sono andati ad esaminare una eventuale normativa di risulta, facendo considerazioni completamente avulse dal contesto di ammissibilità. Nel motivare l’ammissibilità dei quattro quesiti sulla giustizia, si sono invece usati i parametri dell’articolo 75 da lei citato... E invece per il referendum eutanasia si è andati oltre. Molti sostengono che se fosse passato il referendum si sarebbe creato un vuoto normativo... Ma quale vuoto normativo? Non è vero che sarebbe accaduto questo. Quando hanno dichiarato la parziale incostituzionalità dell’aiuto al suicidio è la Corte stessa che si è chiesta come colmare il vuoto normativo. E ci è risposti di ricorrere alla legge del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che è l’unica che esiste in materia di fine vita. La giustificazione del vuoto normativo è pretestuosa. Il leader dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, ha parlato di “sentenza politica”. Lei è d’accordo? Sono d’accordo perché non vedendo ragioni giuridiche alla base della decisione della Consulta non posso che vedere ragioni politiche. Dettate da cosa? Questa materia non è semplicemente divisiva perché - lo sappiamo tutti - la maggioranza degli italiani sarebbe stata favorevolissima alla soluzione prospettata dal referendum. Ma noi in Italia abbiamo l’ipoteca dello SCV. Cioè? Stato della Città del Vaticano che su certe materie è ente sovrano. Si ricordi, perdere il dominio in queste materie significa perdere il potere sui corpi, che è il potere fondamentale come insegnava Marco Pannella. E la Chiesa non vuole assolutamente perdere questo controllo. La vita è un dono, le verrà risposto oltre Tevere... Sono anche d’accordo, ma se ricevo una cosa in dono ne faccio quello che voglio. E poi ne renderò conto a chi me l’ha donata. Se esiste, quel qualcuno mi giudicherà. Non capisco come non ci si renda conto di una verità così elementare. Ieri Vladimiro Zagrebelsky dalle colonne de La Stampa pur sostenendo che la decisione della Corte non deve destare sorpresa, ripercorrendo altre decisioni interne e sovranazionali, tuttavia ha scritto che “alla volontà libera della persona che decide di morire, la Corte ha sostituito l’autorità dello Stato. In tal modo ha adottato una posizione autoritaria”. Condivide? Certamente. Si è stabilito che in Italia esiste, e non si può contestare neanche con il voto popolare, il dovere di vivere. I cittadini italiani non sono liberi di decidere a maggioranza se la vita è un dovere. Devono subirlo invece questo dovere. Noi siamo stati condannati a vivere. La nostra vita non ci appartiene: questo ci ha detto la Corte Costituzionale. Oppure bisogna andare all’estero o continuare a praticare l’eutanasia clandestina... Ai giudici della Corte questo non interessa perché a loro vanno benissimo le soluzioni ipocrite perché non turbano le coscienze. I sepolcri imbiancati restano imbiancati. È difficile vivere in un Paese che da un lato si proclama democratico e liberale ma che dall’altra parte ti obbliga a vivere anche se tu ritieni che la tua vita non sia più degna di essere vissuta. E ora che fare? Anche dal versante parlamentare non arrivano buone notizie... Sono pessimista: secondo me non succederà più niente perché la sentenza della Corte avrà effetti indiretti ma poderosi sul Parlamento, in quanto legittimerà la stasi legislativa. Cannabis: la decisione della Consulta tra tabelle sbagliate e obblighi internazionali di Carmine Di Niro Il Riformista, 17 febbraio 2022 Assieme alla responsabilità civile delle toghe e all’eutanasia legale, o per meglio dire “l’omicidio del consenziente”, come riferito dal presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, era il tema più sentito. E tutti e tre sono stati bocciati dalla Consulta. Il referendum sulla cannabis non si terrà dopo la decisione della Corte costituzionale, guidata dal presidente Giuliano Amato, di bocciare il quesito referendario proposto da Associazione Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione, oltre ai partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani. Una decisione motivata dallo stesso Amato in una conferenza stampa in cui l’ex presidente del Consiglio ha precisato la scelta dell’inammissibilità perché si sarebbe trattato di “un referendum sulle sostanze stupefacenti, non sulla cannabis sulla quale, con le parole, c’è stata una parziale analogia con il quesito dell’eutanasia”. Il presidente della Consulta ha ricordato che il quesito “è articolato in 3 sotto quesiti. Il primo relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga prevede che scompare tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, ma la cannabis è alla tabella 2, quelle includono il papavero la coca, le cosiddette droghe pesanti”. Una circostanza “sufficiente per farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum. E ci portano a constatare l’inidoneità dello scopo perseguito”, ha sottolineato Amato. Il presidente della Corte Costituzionale ha fatto emergere quindi il “paradosso” del quesito sulla cannabis, ricordando come le “sezioni unite della Cassazione che interpretando l’articolo 73 ha già ritenuto che sia fuori dalla punibilità la coltivazione a uso personale della cannabis”, e dunque “se il quesito fosse stato presentato in questi termini sarebbe stato ammissibile”. Di segno opposto, come ampiamente prevedibile, le reazioni politiche alla decisione della Consulta. Da Forza Italia può esultare Maurizio Gasparri, che parla di “ottima notizia”. “Il partito della droga è stato sconfitto. I fautori della morte e quelli che vorrebbero incoraggiare il traffico di droghe gestito dalla criminalità, perché di questo si tratta, hanno perso. Difendiamo la vita, sosteniamo chi recupera i tossicodipendenti, non chi vuole farli rimanere tali per sempre”, spiega in una nota il senatore azzurro. Di tutt’altro tono sono invece le parole di Riccardo Magi, deputato di +Europa da sempre in prima fila nella battaglia sulla legalizzazione delle droghe leggere e per l’eutanasia legale. Magi definisce la decisione della Corte costituzionale “un colpo durissimo per la democrazia in Italia. Sicuramente la Corte ha fatto quello che il presidente Amato aveva detto che non avrebbe fatto: cercare il pelo. Alcune delle motivazioni che abbiamo ascoltato hanno dell’incredibile”. “Il presidente Amato ha detto che siamo intervenuti sul comma 1 dell’articolo 73 che non riguarderebbe solo la Cannabis, ma il comma 4 riporta le stesse condotte del comma 1”, spiega Magi a Radio Capital. “Il comma 1 dell’articolo 73 riguarda con una serie di condotte la tabella 1 e 3; il comma 4, che riguarda la tabella 2 e 4, quindi dove c’è la Cannabis, dice che per le stesse condotte di cui al comma 1 si applica quest’altra pena. Non potevamo che intervenire sul comma 1, semplicemente perché il comma che riguarda la Cannabis dice ‘per le stesse condotte di cui al comma 1’”. Durissimo anche il commento, affidato ai social, di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni: “La Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato ha completato il lavoro di eliminazione dei referendum popolari. Dopo eutanasia anche Cannabis. Hanno così assestato un ulteriore micidiale colpo alle istituzioni e alla democrazia”. Poi ha aggiunto: “Giuliano Amato ha affermato il falso dicendo che il #referendum non toccherebbe la tabella che riguarda la #cannabis. Non sono stati nemmeno in grado di connettere correttamente i commi della legge sulle droghe. Un errore materiale che cancella il referendum”. Cannabis. Il paternalismo proibizionista del “Dottor Sottile” di Leonardo Fiorentini e Marco Perduca Il Manifesto, 17 febbraio 2022 La conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale con cui sono stati comunicati i giudizi di ammissibilità degli ultimi referendum ci ha fatto fare un salto indietro nel tempo. Una voce centrale della politica italiana dei primi anni Novanta, quando per l’appunto veniva adottato il Testo unico sugli stupefacenti. Dopo esser entrato irritualmente nel merito dell’inammissibilità del referendum sull’eutanasia, ha presentato le motivazioni contro l’ammissibilità di quello sulla cannabis. Col più classico dei paternalismi proibizionisti, Giuliano Amato ha anticipato le motivazioni del no della Consulta: il contrasto con le convenzioni internazionali, il mancato riferimento dei ritagli alla cannabis. Il quesito mirava a depotenziare gli effetti penali della 309 del 1990 depenalizzando la coltivazione a uso personale. Come spiegato per mesi e ribadito in Corte il 15 febbraio scorso, il testo referendario non violava alcuna convenzione dell’Onu, anche perché, come ricordato dalla Sessione Speciale dell’Assemblea Generale del 2016, le Convenzioni sono da ritenere tanto flessibili quanto interpretabili. A riprova di ciò la decriminalizzazione, se non legalizzazione, di Uruguay, Canada e Malta e 19 Stati USA, senza la loro uscita dalle tre Convenzioni. A differenza di quanto accade con la cannabis, per ottenere cocaina ed eroina dalle rispettive piante non è sufficiente coltivare, ma occorrono altre condotte come depurazione, sintetizzazione, trasformazione, produzione, fabbricazione che il quesito non interveniva. Così come la detenzione illecita di piante e foglie (che sono elencate nelle tabelle) a fini di spaccio non era toccata dal ritaglio previsto, continuando così a essere adeguatamente punita. La stessa Convenzione del 1961 non obbliga gli Stati a proibire tout court la coltivazione lasciando quindi quella gradualità necessaria affinché il quesito rimanesse nell’ambito degli impegni internazionali dell’Italia. Il riferimento di Amato alle tabelle della legge 309/90 ha omesso di ricordare che dall’anno della bocciatura della Legge Fini-Giovanardi (2014) il comma 4 dell’articolo 73 - che definisce le pene per le cosiddette “droghe leggere” contenute nelle tabelle II (cannabis) e IV (Benzodiazepine) - è tornato a riferirsi alle condotte contenute nel comma 1. Come motivato nella memoria depositata dal comitato promotore, l’unico effetto dell’intervento abrogativo sarebbe stato rendere penalmente irrilevante la coltivazione a uso personale grazie al già citato permanere delle altre condotte rivolte allo spaccio, in primis la detenzione. Oltre a confondere “sostanze” con “piante”, Amato ha parlato di “inidoneità” del testo piuttosto che inammissibilità - sviste, o leggerezze, che dal “Dottor Sottile” non ci si sarebbero aspettate. Il fatto che invece siano arrivate all’ultimo minuto ci deve far parlare di “boccone avvelenato”, di decisioni politiche prese sui due referendum che avevano a che fare con scelte individuali senza ripercussioni su salute o ordine pubblico, proposte sottoscritte da quasi due milioni di persone in un’estate di partecipazione popolare diretta come mai se n’erano viste nella storia repubblicana. E dire che era stato Amato stesso ad aver invitato a “cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto”. Leggeremo con attenzione le motivazioni ma, a oggi, in virtù di questa e delle precedenti decisioni della Corte sui referendum sulle droghe, in Italia la legge sugli stupefacenti non può essere modificata per via referendaria né viene degnata di alcuna attenzione politica dalle forze parlamentari. Neanche da quelle che a parole sarebbero a favore di riforme. La Consulta di questi ultimi due giorni pareva una torre d’avorio dove il popolo sovrano è stato guardato dall’alto senza alcuna attenzione al mutato sentire della società. La naturale ed evidente evoluzione del diritto vivente - si pensi alla decisione della Corte di Cassazione sulla coltivazione ad uso personale del 2019 - o le diverse condizioni internazionali sono stati ritenuti elementi di contorno. Un contorno che con crescente disincanto e disinteresse guarda ai bocconi avvelenati che gli vengono propinati, convinto di non meritarseli. Migranti. Covid, il distanziamento fisico va garantito anche nei Centri di accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 febbraio 2022 Decisione della Corte di cassazione. Va tutelato il distanziamento fisico anti covid anche per i richiedenti asilo accolti nei centri di accoglienza. Così hanno sentenziato i giudici della cassazione accogliendo il ricorso presentato dall’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). Una grande vittoria, perché la Corte riconosce che non va discriminato chi è accolto in un centro di accoglienza. Nel marzo 2020, l’Asgi aveva iniziato una controversia davanti al Tribunale di Bologna chiedendo che il Ministero dell’interno, il Comune di Bologna, la Regione Emilia Romagna e il Consorzio L’Arcolaio garantissero ai richiedenti asilo ospiti del CAS Mattei il distanziamento personale imposto dalle misure anti- Covid, denunciando che nella struttura non erano rispettate in quanto gli ospiti erano costretti a vivere in stanze di 8- 10 persone e senza spazi comuni compatibili con dette misure. Il Tribunale ha per tre volte respinto la causa dichiarando che doveva essere proposta davanti al TAR in quanto il CAS è un contesto nel quale il Ministero (e gli altri soggetti) hanno potere discrezionale, condannando pesantemente Asgi al pagamento delle spese di giudizio. Martedì scorso, però, arriva la rivincita. La Corte di cassazione ha dato ragione ad Asgi, dichiarando che il diritto alla salute, anche dei richiedenti asilo, va esaminato dal Giudice ordinario, cioè dal Tribunale, perché non vi è potere discrezionale a fronte di misure pre- determinate dal legislatore in modo tale da non consentirne attuazioni differenziate e discriminatorie (le misure sul distanziamento personale). La corte di cassazione, elencando le varie disposizioni attuative del decreto legge emanato nel 2020 (e poi successivamente prorogate) recante le misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID- 19, applicabili sull’intero territorio nazionale, evidenza che nella stessa direzione e con specifico riferimento alla materia dell’accoglienza dei richiedenti asilo rilevano le circolari del Ministero dell’Interno prot. n. 3393 del 18.3.2020 recante “Interventi di prevenzione della diffusione del virus COVID- 19 nell’ambito del sistema di accoglienza e dei centri di permanenza per il rimpatrio. Ulteriori indicazioni” e prot. n. 3728 del 1.4.2020 recante “Interventi di prevenzione della diffusione del virus COVID- 19 nell’ambito del sistema di accoglienza”, adottate con specifico riferimento alla situazione dei centri di accoglienza straordinaria. In tali atti, come detto provenienti dall’autorità ministeriale centrale funzionalmente competente alla gestione dei flussi di richiedenti asilo, “(...) si sottolinea l’esigenza di assicurare, nell’ambito dei centri, le dovute distanze interpersonali e di evitare forme di assembramento, anche nel momento dell’erogazione dei pasti, anche garantendo il decongestionamento dei centri maggiormente affollati attraverso un’eventuale redistribuzione dei migranti in altri centri”. Sempre i giudici della cassazione sottolineano che in piena crisi pandemica la medesima amministrazione centrale ha indicato “la necessità di assicurare nelle strutture di accoglienza il rigoroso rispetto delle misure di contenimento della diffusione del virus previste a livello nazionale, onde evitare l’esposizione ai rischi di contagio per i migranti accolti e per gli operatori, nonché di generare situazioni di allarme sociale dovute al mancato rispetto, da parte dei primi, dell’obbligo di rimanere all’interno delle rispettive strutture”, poi aggiungendo che “(...) è inoltre opportuno mantenere un costante collegamento con gli enti gestori dei centri, sotto il duplice obiettivo di monitorare il rispetto delle prescrizioni imposte e di intercettare eventuali difficoltà operative”. Altra inequivocabile indicazione è dove si afferma “(…) la necessità di assicurare che nell’ambito dei centri vengano adottate le necessarie misure di carattere igienico- sanitario e di prevenzione, nonché evitate forme di particolare concentrazione di ospiti”. Per i giudici della Corte Suprema, può quindi concludersi che il servizio di accoglienza straordinaria in favore dei soggetti ospitati nelle strutture di accoglienza straordinaria risulta improntato, per espressa volontà delle fonti normative, alla protezione dei bisogni basilari delle ‘ persone richiedenti asilo’ e al perseguimento di una rete di sicurezza sociale che, per il tramite di parametri normativi predeterminati dal legislatore, sono espressione dei canoni di ragionevolezza e solidarietà, i quali informano il sistema costituzionale interno. Per questo motivo, il dovere di salvaguardare la salute dei soggetti richiedenti asilo accolti nei CAS risulta - scrivono i giudici - “intimamente legato al principio di solidarietà nella sua proiezione verticale, pubblica ed istituzionale, e per ciò stesso improntato ad impedire forme discriminatorie di tutela, quando appunto entrano in gioco posizioni soggettive riferibili a persone che versano, spesso, in situazione di evidente vulnerabilità proprio in ragione della condizione di richiedente asilo e dell’impossibilità di regolare autonomamente la propria esistenza all’interno delle strutture di accoglienza”. Stato di diritto, la Corte Ue boccia Polonia e Ungheria di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 17 febbraio 2022 I fondi del Recovery potrebbero essere bloccati: si tratta rispettivamente di 23,9 miliardi di sovvenzioni e 12,1 di prestiti per Varsavia e di 7,2 miliardi di sovvenzioni per Budapest. Ma la Commissione prende tempo prima di avviare un iter lungo e complicato. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha stabilito che la “condizionalità” tra versamento dei fondi europei e rispetto dello stato di diritto è perfettamente legale, in nome dei valori della Ue: questo regolamento, che sulla carta è in vigore dal 1° gennaio 2021, era di fatto stato sospeso dalla Commissione, in attesa della sentenza della Corte di Giustizia, sollecitata a esprimersi sulla sua legalità da Polonia e Ungheria, due paesi che dovrebbero essere messi in causa per le derive dello stato di diritto, il primo sull’indipendenza della giustizia, il secondo per la corruzione. La Corte di Giustizia ha dato torto al ricorso di Varsavia e Budapest, che sostengono che il regolamento della condizionalità non rispetta i Trattati e che priva gli stati della certezza del diritto. Non c’è appello possibile a questa decisione. I fondi del Recovery potrebbero quindi essere bloccati per Polonia e Ungheria: si tratta rispettivamente di 23,9 miliardi di sovvenzioni e 12,1 di prestiti per Varsavia e di 7,2 miliardi di sovvenzioni per Budapest. Il parlamento europeo, che aveva avviato un ricorso contro la Commissione per “inattività”, ieri ha interrogato l’esecutivo europeo (anche se la presidente, Ursula von der Leyen non si è presentata e si è fatta sostituire dal commissario al Bilancio, Johannes Hahn): “Adesso l’Europarlamento aspetta che la Commissione applichi velocemente il meccanismo di condizionalità”, che “per noi non è negoziabile”, ha affermato la presidente Roberta Metsola. Il Parlamento europeo “ha la leva dell’approvazione del bilancio per fare pressione”, sottolineano i Verdi. “Una sentenza senza appello”, per l’europarlamentare Renew Valérie Hayer, “il meccanismo che condiziona il versamento dei fondi al rispetto dello stato di diritto è perfettamente legale, la Commissione non ha più scuse”. Reazioni soddisfatte di varie capitali: “Una buona notizia” per la Francia, la decisione della Corte “rafforza la nostra comunità di valori” per la Germania. Per Olanda, Belgio e Lussemburgo, “c’è il via libera perché la Commissione reagisca”. La Corte di Giustizia, ha aggiunto il primo ministro belga Alexander De Croo “fa riferimento ai valori europei in senso ampio, sono i nostri valori fondamentali, la libertà, la democrazia, ma anche l’eguaglianza uomo-donna e i diritti delle persone Lgbti+. Sarà sempre più difficile per gli stati membri pretendere che questi diritti non siano vincolanti e che possano essere ignorati”. Sulla carta, la Commissione può finalmente agire sulla base della protezione dei contribuenti Ue dalla frode. La decisione della Corte di Giustizia, infatti, non è una “punizione” per le deviazioni - come potrebbe essere interpretato il ricorso all’articolo 7, già in corso per Polonia e Ungheria, rispettivamente dal 2017 e dal 2018 e che potrebbe portare alla sospensione del diritto di voto in Consiglio dei due paesi, procedura che all’atto pratico è arenata da tempo. Per la corte di giustizia, “un corretto management del budget Ue e gli interessi finanziari dell’Unione possono essere seriamente compromessi da un non rispetto dello stato di diritto”. Ma nei fatti la Commissione ha reagito ieri con estrema prudenza. Bruxelles aspetta “maggiori chiarimenti” sulle “linee direttrici”, che saranno oggetto di “valutazioni approfondite nelle prossime settimane”. Poi dovrebbe avviare un iter lungo e complicato: una “notifica” agli stati messi in causa, che avranno tra uno e tre mesi per “formulare osservazioni” in risposta. Una volta ricevute le osservazioni, la Commissione deve decidere se presentare la richiesta agli stati membri per avviare un’azione. Se deciderà di agire, gli stati messi in causa avranno ancora un altro mese per rispondere con delle seconde “osservazioni”, questa volta relative alla “proporzionalità” dell’azione. In seguito, ci sarà ancora un altro mese per presentare una proposta di azione agli stati membri, ed entro tre mesi la questione dovrà passare in Consiglio a maggioranza qualificata (almeno 15 stati su 27). In altri termini, non ci sarà nulla, al meglio, prima dell’estate. Intanto, il 3 aprile ci sono le elezioni in Ungheria e Bruxelles vuole evitare di dare argomenti anti-europei a Viktor Orbán in campagna elettorale. La Polonia spera di evitare la sospensione del versamento dei fondi, tanto che nei mesi precedenti era arrivata a un’attenuazione delle controverse leggi sulla giustizia. Inoltre il presidente, Andrzej Duda, è ormai un interlocutore importante per i partner nella crisi dell’Ucraina: la Polonia ha la presidenza dell’Ocse (l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, 57 membri) e per far fronte alle tensioni di guerra è rinato il triangolo di Weimar (Francia, Germania, Polonia). Ieri, Varsavia ha criticato una “decisione sfortunatamente conforme alla pericolosa tendenza della Corte di Giustizia e delle istituzioni della Ue ad allargare lo spazio legale al di là dei Trattati”, definendola “un ricatto agli stati sovrani quando le loro posizioni sono diverse da quelle degli eurocrati”. Per l’Ungheria, si tratta di “un giudizio politico”, a causa “della legge sulla protezione dell’infanzia”, ha commentato la ministra della Giustizia, Judit Varga. Germania: carcerati e dimenticati? di Aldo Magnavacca Corriere d’Italia, 17 febbraio 2022 Di solito, nelle edizioni di gennaio e febbraio del nostro giornale non mancavano le consuete fotografie dei consoli in visita ai connazionali detenuti o altre note che parlavano dei pacchi dono inviati tradizionalmente dai consolati ai detenuti italiani nel periodo natalizio. Quest’anno nulla si sente, nulla si vede. Alcuni familiari dei detenuti italiani in Germania hanno invece segnalato alla nostra redazione che quest’anno il solito pacco dono, o il semplice panettone, a qualche loro congiunto detenuto non è arrivato al carcere come negli anni precedenti. Una dimenticanza? Speriamo di sì. Non è escluso che l’assistenza consolare ai detenuti sia stata svolta in linea di massima come sempre, solo che a noi non ne è giunta notizia. La situazione nelle carceri, al momento, non è comunque molto felice. La pandemia non si è fermata davanti ai cancelli degli istituti di pena. I contatti con l’esterno hanno subito limitazioni. La possibilità di contagio in ambienti ristretti, nel vero senso della parola come gli istituti di pena, è di un’elevata pericolosità. A questo punto bisogna fare un’osservazione di carattere generale che vale sempre quando si parla di detenuti, anche di detenuti italiani in Germania. Stabiliamo a priori che qui non si vuole battere il tasto della pietà, della pena verso i “meno fortunati” o del romanticismo che in molti ambienti aleggia verso coloro che hanno sfidato le leggi, stile Mario Merola “Io songo carcerato e mamma more”. Il ragionamento, l’approccio dovrebbe essere piuttosto di tutt’altra natura. Nei confronti dei detenuti vale, più di tutte le altre, la massima della parità di trattamento. Sbagliato è invece ogni atteggiamento da esorcista verso chi ha meritato il carcere. Sbagliato è anche ogni approccio decisamente lacrimevole. Le autorità devono preoccuparsi innanzitutto che la diversa nazionalità, la mancanza di conoscenza della lingua veicolare nelle carceri, la diversa estrazione culturale non rendano la vita di un carcerato più amara e dura di un altro che sconta la stessa pena per lo stesso reato. Immaginate una persona detenuta i cui familiari sono tutti in Italia? Il disagio aumenta in maniera notevole quando questo detenuto per mesi e mesi non riceve visite dai suoi cari. Questo detenuto soffre più degli altri detenuti e non è giusto. Immaginate una persona che all’interno del carcere non può assolvere l’addestramento professionale per prepararsi a un futuro migliore perché non conosce il tedesco? Questo detenuto soffre più degli altri detenuti e non è giusto. Immaginate una persona costretta tutti i giorni a mangiare cose estranee ai suoi gusti, alle sue abitudini alimentari? Questo detenuto soffre più degli altri detenuti e non è giusto. E la lista potrebbe continuare, segnalando altre situazioni di diseguaglianza nelle condizioni di detenzione. L’assistenza ai detenuti italiani all’estero, nel frattempo. è ben definita nelle regole consolari. La misericordia, invece, che è il nobile sentimento di coinvolgimento attivo verso l’infelicità altrui, dovrebbe essere, a sua volta, ben definita nell’animo di chiunque asserisce di essere cristiano. E, tra le sette opere di misericordia corporale, che ogni cristiano dovrebbe tener ben presente per definirsi tale, è anche elencato, insieme a dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, seppellire i morti anche “visitare i carcerati”. Sono elencati per ultimi i carcerati. Ma ci sono. Non lo dimentichiamo. Bahrein. La libertà si ottiene con il silenzio e smettendo di criticare le istituzioni dello Stato di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 17 febbraio 2022 La vicenda di Hassan Mushaima: “Preferisco restare in prigione da uomo libero, che tornare a casa e vivere da schiavo, senza dignità”. “Preferisco restare in prigione da uomo libero, che tornare a casa e vivere da schiavo, senza dignità”. Con queste parole Hassan Mushaima ha detto no alla proposta giunta dalle autorità del Bahrein di porre fine al suo ergastolo a patto di porre fine all’attivismo politico. A raccontare la sua storia all’Agenzia Dire è il figlio Ali Mushaima, residente a Londra, da dove continua a battersi per la liberazione del noto attivista e politico di 74 anni, nel Bahrain. Nazione con oltre 30 isole nel Golfo Persico, al centro di rotte commerciali importanti, sin dall’antichità, ma dove il rispetto dei diritti umani e civili è ancora lontano dall’essere una realtà. La vicenda di Hassan Mushaima. Fu animatore delle rivolte del 1994, e anche allora, ricorda il figlio, venne incarcerato due volte: “Durante quelle proteste la gente come lui veniva arrestata solo perché chiedeva riforme politiche o della polizia, libertà democratiche, e la fine della corruzione. Venivano attaccate anche le case e i famigliari degli attivisti”. Il leader politico venne nuovamente incarcerato nel 1995, nel 1996 e nel 2001. Nel 2005 Mushaima venne nominato segretario generale del partito di opposizione Haq Movement for Liberty and Democracy, quindi finì in carcere ancora nel 2007 e nel 2009. Per la sua partecipazione alle proteste del 2011 - scoppiate in Bahrein sulla scia delle rivolte arabe - venne infine condannato al carcere a vita. Il silenzio in cambio della libertà. “Sono più di dieci anni che mio padre è tenuto dietro le sbarre in condizioni terribili - denuncia Ali Mushaima - gli negano le cure e ha scarsi contatti con la famiglia e il mondo esterno, che si sono azzerati con la pandemia. Qualche mese fa, una volta uscito da un ricovero in ospedale (Ali Mushaima è già sopravvissuto a un linfoma, ndr) ha rifiutato il rilascio e io capisco le sue ragioni: è una prassi in Bahrain rimandare a casa i detenuti di coscienza dietro la promessa del silenzio, ossia di interrompere ogni attività politica e non rilasciare più dichiarazioni. Ma nella sua vita - avverte il figlio - è stato arrestato tante volte, quale garanzia avrebbe di non essere rinchiuso di nuovo?”. Dove il Re decide tutto, anche chi governa. Il Regno del Bahrain, che in arabo significa “la terra tra i due mari”, è una monarchia costituzionale dove il governo è nominato dal re. L’attuale primo ministro è l’erede al trono, Sheikh Salman bin Hamad al-Khalifa. Questa isola del Golfo persico, che dista una trentina di chilometri dall’Arabia Saudita e dal Qatar, torna nelle cronache occidentali per i giacimenti di petrolio, i campionati di Moto Gp o per le sue opportunità di investimento che evocano i fasti delle grandi “petromonarchie”. Ma come chiarisce Ali Mushaima “non è un Paese ricco. Dipende dagli aiuti di Arabia Saudita e Kuwait, ed è più piccolo del Qatar. L’economia non è stabile, i salari sono bassi e quindi ci sono molti poveri”. Alla gente comune solo il 6% delle spiagge, il resto è del Re. Ma il problema principale secondo l’attivista “è la mancanza di diritti. In Bahrein non si possono criticare le istituzioni, la gente non si rappresentata e non può prendere parte alle decisioni”. Un esempio su tutti: “La popolazione ha libero accesso solo al 6% delle spiagge. Il resto appartiene alla famiglia reale o a imprenditori e miliardari. Anche sui terreni ci sono limitazioni. È come vivere in un grande carcere”. E chi chiede il cambiamento spesso finisce davvero in prigione: “sono circa 1.500 i detenuti di coscienza- continua Ali Mushaima- su una popolazione di un milione e mezzo di abitanti, ma purtroppo non abbiamo stime esatte. Sappiamo però che spesso subiscono torture”, e questo nonostante il Bahrain abbia siglato la Convenzione Onu contro la tortura e Patto Internazionale sui diritti civili e politici. Lo sciopero della fame. Per denunciare tutto questo, Ali Mushaima a fine 2021 si è accampato per quasi un mese di fronte all’ambasciata del Bahrain a Londra, sostenendo al contempo uno sciopero della fame: “Non era la prima volta che lo facevo, nel 2018 ho scioperato per 46 giorni. Ma lo scorso dicembre finalmente sono venuti a trovarmi una decina di parlamentari, tra cui anche il leader laburista Eremy Corbyn, che poi hanno organizzato un dibattito alla Camera dei Comuni”. Un’iniziativa che “ha attirato anche maggiore attenzione da parte dei media” ma “non dal governo di Londra - lamenta l’attivista - perché in questi anni, dal ministero degli Esteri continuano a dire che ‘monitorano la situazione’ senza chiarire cosa significhi e quali azioni comporti”. Le buone relazioni per il commercio delle armi. Per Mushaima il problema è che “si vogliono mantenere ottime relazioni economiche, come la vendita di armi. I governi non sono disposti a lasciarsi disturbare dalla questione dei diritti umani. Prendiamo il caso della guerra nello Yemen: è evidente che la gente sta morendo di fame, ma nessuno si accorge che i sauditi (a capo di una coalizione militare internazionale, ndr) stanno manovrando i Paesi occidentali per continuare a portare avanti i loro interessi in quel Paese”. Sul tema, oggi alle 18 l’organizzazione Americans for Democracy and Human Rights in Bahrain (Adhrb) organizza un dibattito online con giornalisti, politici ed esperti dal titolo ‘Il Bahrain undici anni dopo la Primavera Araba: Una panoramica sui diritti umani tra prigionieri politici e altre violazioni’.