Gentile Ministra, “un uomo solo al comando” delle carceri non basta di Ornella Favero* Ristretti Orizzonti, 16 febbraio 2022 La giustizia penale è “regina” delle trasmissioni televisive e al centro dei programmi politici di tutti gli schieramenti, il carcere molto meno: per questo diventa sempre più importante che chi questa realtà la conosce bene da dentro aiuti a riflettere sul fatto che il processo, la condanna, la galera, il male a cui si risponde con altrettanto male non ci rendono più sicuri né sono in grado di arginare e contrastare il disagio e la sofferenza sociale. Gentile Ministra, vista la complessità dei temi riguardanti le pene, il carcere, le misure di comunità, e l’intenzione, più volte espressa da Lei, di riformare profondamente le carceri e tutto il sistema dell’esecuzione penale, vorremmo con insistenza e pazienza presentare una sintesi delle proposte del Terzo Settore e le riflessioni da cui si sviluppano, a partire dalla consapevolezza che la privazione della libertà in carcere è di per sé una condizione innaturale che produce sofferenza, alienazione, isolamento. Si tratta, quindi, di lavorare per ridurne i danni là dove non se ne può proprio fare a meno. In considerazione del fatto che a breve verrà nominato un nuovo Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ci permettiamo anche di dire che, in una situazione complessa e disgregata come quella attuale, non basta “un uomo solo al comando”: bisognerebbe davvero avere il coraggio di costituire una task force, con competenze differenziate, organizzative e relative alla sicurezza, pedagogiche per la centralità della rieducazione, e di tutela dei diritti, perché oggi bisogna ripartire da dignità e diritti. Per questi compiti servono persone che abbiano maturato una lunga esperienza che le abbia portate a conoscere a fondo il mondo del carcere, che siano appassionate del proprio lavoro, che credano veramente che le persone detenute possono cambiare e che abbiano una spiccata propensione alla collaborazione e valorizzazione di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nella complessa realtà dell’esecuzione penale. - La nostra proposta principale riguarda la costituzione di un gruppo di lavoro operativo, di cui facciano parte esponenti delle esperienze storiche e significative delle cooperative sociali e del volontariato, che in questi anni si sono distinte per le attività svolte tanto all’interno degli istituti penitenziari quanto nell’area penale esterna. Servono un dialogo e un confronto stabili con i referenti del DAP, proprio per non sprecare le competenze consolidate sul campo, ma per metterle a disposizione dell’Amministrazione e delle altre realtà coinvolte, con cui co-programmare e co-progettare i progetti di reinserimento delle persone detenute. È una sfida che ci sentiamo di affrontare perché ci sono temi, che il Terzo Settore ha portato avanti negli anni, che hanno permesso di costituire un patrimonio di conoscenze, che se non adeguatamente condiviso rischia di andare disperso. Elenchiamo di seguito solo alcuni temi su cui il Terzo Settore lavora da anni e che potrebbero costituire il primo terreno di confronto e condivisione con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il Ministero della Giustizia. 1. Affrontare la tematica del lavoro in carcere e fuori, valorizzando il patrimonio di esperienza sviluppato dalle cooperative attive nel territorio e capaci di portare all’interno delle carceri attività lavorative, che hanno tutte le caratteristiche del lavoro vero, qualificato, risocializzante. Attività lavorative che vanno modulate insieme a occasioni di istruzione in collegamento con la scuola, di crescita culturale, di cura della mente e del corpo, fondamentali per la responsabilizzazione delle persone detenute. In carcere quindi serve più lavoro “formativo”, servono più attività costruite in vista del “fuori”, che è molto più complesso di quanto si aspetti la persona detenuta quando inizia a uscire con i primi permessi. Ma serve anche mettere a fuoco la funzione, le finalità e il senso dei lavori di pubblica utilità rispetto alla natura e al valore del lavoro retribuito. 2. Co-progettare un piano per una formazione congiunta tra operatori dell’Amministrazione Penitenziaria (agenti di polizia penitenziaria, personale dell’area pedagogica, personale amministrativo), magistratura di sorveglianza, istituzioni quali quella scolastica e sanitaria, e Terzo Settore con il duplice obiettivo, da un lato di promuovere una maggiore conoscenza reciproca utile ad abbattere i pregiudizi, dall’altro di sviluppare le diverse competenze arricchite dalla pluralità degli sguardi. La formazione e la ricerca congiunte sono fondamentali anche per ripensare i percorsi rieducativi individualizzati, basati sulla continuità delle proposte educative, sul confronto con la società esterna, sul graduale reinserimento nella comunità. 3. Sviluppare tutte le iniziative per sostenere gli affetti delle persone detenute, a partire dall’uso allargato al massimo delle tecnologie. Se a inizio lockdown fossero state subito messe in atto le misure per ampliare il numero delle telefonate e introdurre le videochiamate, forse la paura e la rabbia sarebbero state più contenute, ma quello che non si può più cambiare ci deve però insegnare per il futuro, e il primo insegnamento è che, quando finirà l’emergenza, non vengano tagliate le uniche cose buone che la pandemia ha portato, il rafforzamento di tutte le forme di contatto della persona detenuta con la famiglia come le videochiamate e Skype, e l’uso delle tecnologie per sviluppare più relazioni possibile tra il carcere e la comunità esterna. 4. Mappare le esperienze di giustizia riparativa realizzate negli istituti penitenziari, a cominciare dai percorsi di autentica rieducazione in cui famigliari di vittime di reati, come Agnese Moro, Fiammetta Borsellino, Silvia Giralucci accettano di entrare in carcere e di aprire un dialogo con le persone detenute: è infatti dall’incontro con le vittime e con la loro sofferenza che nasce la consapevolezza del male fatto. Sono esperienze importanti per promuovere la cultura della mediazione anche nella gestione dei conflitti all’interno delle carceri e avviare su questi temi percorsi innovativi, con il sostegno di mediatori penali professionali, come già si è sperimentato a Padova. Perché questi conflitti, affrontati solo con rapporti disciplinari, perdita della liberazione anticipata, trasferimenti, alla fine allungano la carcerazione delle persone punite e non affrontano affatto il tema cruciale, che è quello della difficoltà a controllare l’aggressività e la violenza nei propri comportamenti. 5. Valorizzare l’esperienza dei progetti di confronto con le scuole che hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti in incontri con le persone detenute, sottolineando il ruolo delle narrazioni nei loro percorsi rieducativi. Il progetto “A scuola di libertà” rappresenta una esperienza che, se per gli studenti è di autentica prevenzione, per le persone detenute è una specie di restituzione: mettendo al servizio delle scuole le proprie, pesantissime storie di vita i detenuti restituiscono alla società qualcosa di quello che le hanno sottratto. E non meno significativi sono gli incontri con vittime di reati, famigliari delle persone detenute, operatori della Giustizia. 6. Mettere in rete gli Sportelli di Orientamento Giuridico e Segretariato Sociale, di modo che le competenze e le buone prassi su materie complesse come la residenza, le pensioni, i documenti di identità diventino patrimonio di tutti. 7. Porre mano alla questione dell’accoglienza in strutture abitative, senza la quale si rischia di sprecare le opportunità lavorative esterne e la possibilità di usufruire di misure di comunità. 8. Riformare gli art. 17 dell’Ordinamento penitenziario e 118 e 120 del Regolamento, per consentire un reale coinvolgimento del volontariato anche nell’esecuzione penale esterna e rimuovere gli ostacoli legislativi alla sua crescita e alla collaborazione con UEPE/UIEPE 9. Mettere a disposizione del DAP le risorse del Terzo Settore nell’ambito dell’Informazione e della Comunicazione. Sono tante da questo punto di vista le esperienze concrete, dalla Rassegna Stampa quotidiana di Ristretti Orizzonti, di cui usufruiscono tantissimi operatori della Giustizia, ai seminari di formazione per giornalisti, realizzati in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti in alcune carceri, ai Festival della Comunicazione dal carcere e sul carcere, organizzati dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia con interventi dei massimi esperti in materia. 10. Le tecnologie possono essere anche uno straordinario strumento per promuovere un confronto continuo tra gli istituti penitenziari sull’organizzazione della vita detentiva, che deve diventare un momento stabile di verifica di quello che si può e si deve fare per avviare un cambiamento significativo dell’esecuzione delle pene. Pensare di cambiare alcune norme non basta però, sono le persone che quelle norme le hanno applicate e le dovranno applicare che prima di tutto devono mettere in discussione il loro modo di porsi di fronte alla realtà nella quale vivono e operano, partendo da un’analisi seria dei motivi che in questi anni hanno paralizzato le necessarie riforme, fra i quali quell’assenza di efficaci strumenti di controllo, che ha permesso che un Ordinamento, che ha più di quarant’anni, sia in buona parte ancora disatteso. Siamo certi che sia fondamentale l’esistenza di uno spazio strutturato, in cui i rappresentanti del Terzo Settore possano mettere a frutto decenni di conoscenza sul campo in un confronto continuo con il DAP, coinvolgendo anche nuove rappresentanze delle persone detenute, finalmente elette e non estratte a sorte, proposta questa avanzata da noi da tempo e ora ripresa e sostenuta dalla Commissione per l’innovazione dell’esecuzione penale. Questo permetterebbe finalmente che le sperimentazioni ed innovazioni introdotte in certi istituti abbiano una positiva ricaduta in tutte le realtà detentive, superando finalmente la divisione tra istituti “con vocazione trattamentale” e istituti con pochissime attività, e spesso più di “intrattenimento” che di reale valore rieducativo. Forte è la richiesta che lei, gentile Ministra, metta in atto ogni sforzo per migliorare in modo sostanziale la vita detentiva a partire da ciò che può essere fatto immediatamente per via amministrativa (per esempio rendendo estesa in tempi e orari la possibilità di telefonare e/o videochiamare i propri famigliari, anche per chi non lavora e non ha risorse personali). Ma per mettere mano a una riforma delle carceri servirebbe subito un provvedimento urgente di concessione di liberazione anticipata speciale, anche per compensare le enormi difficoltà e sofferenze a cui la popolazione detenuta è stata sottoposta dall’inizio della pandemia. Se si pensasse a una liberazione anticipata speciale, un giorno di libertà restituito per ogni giorno vissuto nel carcere della pandemia, nel carcere dell’assenza di rieducazione, i numeri del sovraffollamento scenderebbero in modo significativo, e se poi si facesse ogni sforzo per accelerare le assunzioni di personale educativo e di direttori, allora si potrebbe davvero cominciare a “rivoluzionare” un sistema, che è immerso in una crisi sempre più profonda. La forza delle nostre proposte discende dal contatto quotidiano che abbiamo con le persone detenute e la loro sofferenza, e non esclude nessuno, neanche i mafiosi, neanche le persone ritenute da quasi tutti, ma non dalla Costituzione, “cattivi per sempre”. La forza discende anche dal desiderio di collaborare a dar loro delle risposte, e da tutta la passione ed il coinvolgimento, che in ciascuno di noi continuano a vivere e a spingerci a mettere a disposizione idee ed energie per cambiare una realtà complessa come quella del carcere. È una sfida quotidiana in cui non c’è niente di scontato e dove le vere soluzioni sono principalmente nelle mani delle persone e della loro capacità di lavorare insieme, moltiplicando così il valore del contributo di ognuno. Cogliamo l’occasione per dare la nostra disponibilità ad approfondire con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria il tema del rapporto tra istituzione penitenziaria e Terzo Settore, un tema che può essere davvero importante e innovativo, e a tal fine ci impegniamo a coinvolgere nel dibattito di approfondimento esperti del Terzo Settore di levatura altissima come i professori Stefano Zamagni, Luca Antonini, Giuliano Amato. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti In carcere ci si ammazza nove volte in più che fuori di Alessandro Capriccioli* Il Riformista, 16 febbraio 2022 Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage. Dal Duemila a oggi si sono tolti la vita 1.222 detenuti: una media di 55,5 all’anno. Alta la frequenza di suicidi anche tra gli agenti. Sembra incredibile, ma questi numeri non bastano a sollecitare iniziative. Se c’è una cosa utile che la pandemia ci ha regalato, tra tanti aspetti negativi e spesso tragici, è un minimo di dimestichezza in più con un approccio basato sui numeri, che permetta di interpretare la realtà prescindendo dalle sensazioni soggettive e basandosi sull’obiettività dei dati. Si tratta di un metodo che, epidemie a parte, può essere applicato a qualsiasi fenomeno della nostra società, e che forse è opportuno adottare anche per affrontare la questione dei suicidi in carcere, visto che le sole notizie in merito, ancorché drammatiche, non sembrano sufficienti a destare la giusta attenzione. Andiamo per ordine, e diamo un’occhiata ai numeri che abbiamo a disposizione. Dall’inizio dell’anno nelle carceri del nostro paese si sono tolte la vita dodici persone detenute (undici uomini e una donna), corrispondenti alla media (spaventosa) di un suicidio ogni tre giorni e mezzo. Naturalmente si tratta di un lasso di tempo troppo ristretto per trarre conclusioni generali. Per costruire una visione d’insieme più solida dobbiamo prendere in esame un periodo più significativo, ad esempio quello che va dal 2000 al 2021: ventidue anni in cui nelle nostre carceri si sono tolte la vita 1.222 persone, pari a una media di 55,5 suicidi l’anno. Poiché dagli inizi degli anni duemila il numero dei detenuti nei nostri istituti penitenziari si è mantenuto relativamente stabile, attestandosi su un livello medio pari a circa 58mila unità (stiamo trattando i numeri in modo approssimativo, ma più che sufficiente a ottenere una stima di massima), si ricava con facilità che la media di suicidi nell’ambito della nostra popolazione carceraria è pari a circa nove suicidi ogni diecimila persone. Già a prima vista non è difficile comprendere che si tratta di un numero molto alto. Ma per apprezzare appieno la sua entità sarà utile raffrontarlo col tasso di suicidi nella popolazione generale. Grazie ai dati elaborati dall’Istituto superiore di sanità sappiamo che in Italia si registrano ogni anno circa 4.000 morti per suicidio. Prendendo in esame la popolazione con età superiore a 15 anni (non solo perché il suicidio è un evento statisticamente molto raro nell’infanzia, ma anche perché questa operazione ci aiuta a comparare il dato con quello degli istituti penitenziari, nei quali accedono quasi esclusivamente gli adulti) questo dato corrisponde grosso modo a un tasso di 10 suicidi ogni 100mila abitanti, che riportato alla stessa scala utilizzata per i detenuti equivale circa a un suicidio ogni diecimila individui. Dal raffronto tra i due indici si può concludere che il tasso suicidario nella popolazione carceraria è pari a circa nove volte quello riscontrabile nella popolazione generale. Questo risultato, al di là del modo rudimentale con cui l’abbiamo ottenuto, ci dice in modo molto chiaro che il numero dei suicidi negli istituti penitenziari non è grande: è enorme. La reclusione in carcere rappresenta un gigantesco fattore di rischio in relazione all’eventualità del suicidio, perché chi viene recluso ha una probabilità di togliersi la vita quasi decuplicata rispetto a chi conduce una vita libera. Tutto ciò senza contare i tentativi di suicidio sventati o semplicemente non andati a buon fine, di cui non è materialmente possibile tenere il conto (ma che chi frequenta il carcere sa essere molto numerosi), e la frequenza degli episodi di suicidio tra gli agenti di polizia penitenziaria, anch’essa ampiamente superiore alla media nazionale. Le cause di questa macroscopica differenza tra probabilità di suicidio in carcere e probabilità di suicidio fuori dal carcere sono ormai arcinote, perché formano oggetto di analisi e studio da decenni. Si tratta di cause sistemiche, più che puntuali: se da un lato è evidente che determinate condizioni (l’abuso della custodia cautelare, il sovraffollamento, le condizioni strutturali dei singoli istituti, la ridotta quantità di attività lavorative e ricreative in determinate realtà) fanno aumentare la possibilità di eventi critici, dall’altro è ormai acclarato che il grosso del rischio si deve alla privazione della libertà in quanto tale, che determina con grande frequenza stati di ansia, di depressione e di disperazione. Il carcere, insomma, è una fabbrica di suicidi. E meraviglia, perfino al di là del disinteresse endemico che la nostra classe politica nutre nei confronti del mondo penitenziario, che un dato così allarmante non sia sufficiente a indurre un complesso di iniziative che investa almeno due fronti: da un lato gli interventi che sarebbe possibile operare da subito per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute, per incrementare il ricorso alle misure alternative e per ridurre ai minimi termini l’istituto della carcerazione preventiva; dall’altro un ripensamento profondo della funzione e dell’effettiva utilità dell’istituzione carceraria, nell’ottica della sua progressiva riduzione al campo dell’extrema ratio e perciò, nella maggior parte dei casi, del suo superamento. Non c’è più tempo da perdere. Perché si tratta, numeri alla mano, di fermare una strage. *Consigliere regionale del Lazio +Europa Radicali In carcere si suicidano detenuti e guardie. Ma tutto quanto si fa è un applauso a Mattarella di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 16 febbraio 2022 Tra le molte domande che questa classe politica non si pone c’è quella che riguarda una donna di 29 anni, arrestata nell’ambito di un’operazione anti-droga, che dopo appena 48 ore decide di togliersi la vita impiccandosi. Era detenuta nel carcere di Gazzi di Messina. Cosa può aver spinto a prendere un lenzuolo, annodarselo al collo e lasciarsi andare? Analoga domanda ce la si può porre a proposito di un ragazzo ventiquattrenne, originario del Marocco. Detenuto nel carcere romano di Regina Coeli, è stato arrestato per rapina. Ha scelto di “evadere” in modo definitivo inalando il gas della bomboletta del fornello da campeggio che in carcere viene comunemente usato per cucinare. Quanto gli avrebbero potuto dare, per la rapina? Una detenzione di qualche anno…Ha preferito morire. Come i due casi citati, altri dieci, dall’inizio dell’anno; sono tanti, uno ogni 3-4 giorni. Aldo Di Giacomo, segretario del Sindacato Polizia Penitenziaria, ricorda che nel 2021 i suicidi ufficiali in carcere sono stati 54, oltre 500 negli ultimi dieci anni; e alcune decine di migliaia i casi di autolesionismo e il doppio i casi di interventi di agenti penitenziari che sono riusciti a sventare i tentativi di suicidi. Non solo detenuti. Un assistente capo della polizia penitenziaria, S.C., cinquant’anni, in servizio nella casa circondariale di Valle Armea, a Sanremo, si toglie la vita impiccandosi. Un mese fa è stato un sostituto commissario del corpo di polizia penitenziaria, B.N. di 58 anni, in servizio nel carcere di Enna a togliersi la vita. “Un dramma che va avanti da tempo”, sospira Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Gli agenti sono lasciati abbandonati a loro stessi, avrebbero bisogno di strumenti di aiuto e di sostegno, è la denuncia unanime dei sindacati della polizia penitenziaria. Lo scorso anno 2021 sono stati cinque i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita, sei furono nel 2020 ed erano stati undici nel 2019. Ora è sempre arduo addentrarsi nelle motivazioni che spingono una persona a una scelta così radicale e definitiva. Tuttavia come escludere che in queste tragedie possa aver influito la realtà lavorativa? Ancora Capece: “Numerosi autorevoli esperti del settore sostengono come sia necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia Penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare e promuovere la salute di tutti i dipendenti dell’Amministrazione Penitenziaria”. Ancora più duro il segretario della Uil Polizia Penitenziaria Gennarino De Fazio: “A rendere nitido a politici e governanti il quadro delle nostre carceri non sono evidentemente bastate le rivolte del 2020 e i conseguenti tredici morti, così come non è stato sufficiente tutto ciò che è emerso nel corso del 2021”. De Fazio ricorda la “provocazione” dell’ex capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, secondo il quale ogni magistrato farebbe bene trascorrere una settimana in carcere. Secondo De Fazio “ne servirebbero almeno due ai nostri politici per comprenderne appieno le storture, la disorganizzazione e i molteplici deficit”. Non c’è più tempo, denuncia De Fazio: “Pressoché ogni giorno, ormai, nelle discariche sociali rubricate sotto il nome di carceri succede qualcosa di grave; i detenuti continuano a patire e a morire e gli operatori, di Polizia penitenziaria in primis, ne subiscono le conseguenze dirette e indirette e spesso si trovano fra l’incudine delle legittime aspettative dell’utenza e il martello che deriva dalle ripercussioni provocate da un sistema fallimentare”. Nel suo discorso di reinsediamento il presidente Sergio Mattarella ci ha ricordato un lungo elenco di “dignità” da garantire e tutelare; e ha fatto un esplicito riferimento alla situazione carceraria: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”. Per il diritto alla vita, per la vita del diritto, non si stancava di ripetere Marco Pannella: tra i pochissimi politici che trascorreva in carcere, tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria, i suoi Natali, Capodanno, Pasque e Ferragosto. Legge più equilibrata sull’ergastolo ostativo grazie alla mediazione di Cartabia con i partiti di Errico Novi Il Dubbio, 16 febbraio 2022 Andrà riconosciuta, agli uffici di via Arenula e alla guardasigilli Marta Cartabia, una notevole resistenza ai sovraccarichi di stress. Negli stessi giorni in cui completava l’ultima faticosa revisione sulla riforma del Csm, il ministero della Giustizia ha trovato il tempo per risistemare anche il testo sull’ergastolo ostativo. Così oggi, nella commissione Giustizia di Montecitorio (dove ieri Cartabia è pure apparsa per un’audizione sul Recovery), i deputati e il governo, rappresentato dal sottosegretario Francesco Paolo Sisto, definiranno un nuovo testo, decisamente meno in conflitto con l’ordinanza 97/ 2021 emessa dalla Consulta sul “fine pena mai”. Basta un dettaglio, in apparenza lessicale, in realtà decisivo: è stata espunta dal nuovo articolo 4 bis (il passaggio dell’ordinamento penitenziario che tuttora subordina alla collaborazione la liberazione condizionale dei reclusi di mafia e terrorismo) l’espressione “con assoluta certezza”. Un’iperbole inserita nel primo testo base, voluto innanzitutto dai 5 Stelle, con cui si vincolava la magistratura di sorveglianza ad accogliere le istanze degli “ostativi non collaboranti” solo qualora gli stessi detenuti avessero fornito elementi in grado di escludere con assoluta certezza, appunto, residui collegamenti col crimine e rischi che potessero ripristinarsi. Ora, almeno quel cappio giuridico è sciolto. Restano altri vincoli, certo. Il testo che deriverà dalla riformulazione degli emendamenti concordata fra deputati e ministero non sarà un inno al “diritto alla speranza”, affermato dalla Corte costituzionale e spesso evocato da Cartabia. Ma è un po’ meno hard. Non solo per il dettaglio sulla “certezza”. Va segnalato innanzitutto l’accantonamento di un’ipotesi molto pericolosa per l’autonomia dei singoli magistrati di sorveglianza: quella di assegnare al solo Tribunale di sorveglianza di Roma la competenza sulle istanze di liberazione condizionale presentate dai detenuti ostativi. Non si andrà in quella direzione, pure sollecitata dal togato Csm Nino Di Matteo. Piuttosto si sostituirà con un collegio l’attuale previsione del giudice monocratico. Spiega uno dei deputati che fanno parte del “comitato ristretto” sull’ergastolo, il dem Carmelo Miceli: “Partiamo da un dato: tutti i gruppi rappresentati in commissione, nessuno escluso, convengono sulla necessità di sottrarre il singolo giudice a un’esposizione che diventerebbe eccessiva. Con l’ordinanza della Consulta, e la nostra legge che deve recepirla, viene meno l’irrinunciabilità della collaborazione per l’accesso al beneficio. Crescono dunque la discrezionalità del giudice ma anche i rischi di ritorsione. È un aspetto”, fa notare Miceli, “su cui non siamo ancora a una riformulazione degli emendamenti concordata fra commissione e ministero. Ma ci siamo vicini: domani (oggi per chi legge, ndr) ne discuteremo, e credo si opterà per un procedimento in cui a valutare le istanze sarà d’ora in poi un collegio dello stesso Tribunale di sorveglianza competente per territorio”, appunto. Così, d’altra parte, ricorda il parlamentare dem, “verrebbe a mancare l’organo giurisdizionale a cui proporre reclamo, che attualmente consiste proprio in un collegio di magistrati. Alcuni, ad esempio la Lega, propongono di attribuire la competenza sui reclami al Tribunale di sorveglianza di Roma. Noi del Pd riteniamo si possa invece ricorrere alle associazioni previste all’articolo 11 del codice di procedura penale, per cui ciascun Tribunale è abbinato a un altro per la competenza sui processi riguardanti magistrati. Sui reclami delle ordinanze in materia di ergastolo, Brescia giudicherebbe i reclami provenienti da Milano, per intenderci”. Sono aspetti complessi, ma ormai sottratti al rischio di restrizioni irragionevoli. “Non possiamo permetterci di arrivare senza una legge a maggio, quando la Consulta potrebbe definitivamente dichiarare incostituzionale il presupposto assoluto della mancata collaborazione: vorrebbe dire”, per Miceli, “esporsi al rischio di scarcerazioni scriteriate. A Falcone, Borsellino e a tutte le vittime della mafia si deve un atto di responsabilità del Parlamento”. Atto che si traduce, come detto, in una legge ancora fitta di ostacoli, per il detenuto “non collaborante”. Ma almeno, rispetto al testo di partenza, grazie all’intervento di via Arenula e di partiti come FI, Italia viva e Leu, si è lasciato il giudice, o il Tribunale di sorveglianza, più libero di dissociarsi dai caveat delle direzioni Antimafia. Considerato il contesto, di più non si poteva. Pittelli, Formigoni, Dell’Utri... e tutti gli altri detenuti con patologie gravissime? di Sandra Berardi* Il Dubbio, 16 febbraio 2022 Pittelli è tornato a casa. Bene. Il suo sciopero della fame contro l’assurda revoca degli arresti domiciliari (ottenuti per motivi di salute gravi) è stato ascoltato da tanti, e anche dal Gip. A Pittelli la misura domiciliare era stata riconosciuta per la condizione di “devastazione psicologica” causata dai 9 mesi circa di carcerazione preventiva. Allora perché non considerare quei 9 detenuti su 100, attualmente quasi 5000 persone, che soffrono di patologie psicologiche e psichiatriche (tra i quali la percentuale più alta soffre di nevrosi dovute alla detenzione in sé) meritevoli di attenzione pubblica e di misure alternative al carcere al pari di Pittelli? È di ieri l’ennesima notizia di suicidio in carcere: Manuela Agosta non aveva ancora 30 anni e si è impiccata a poche ore dall’arresto. Dal suo ingresso in carcere non ha mai smesso di piangere e nessuno ha tenuto in considerazione l’evidente “devastazione psicologica” che l’ha annientata fino a portarla a farla finita. È stato il decimo suicidio dall’inizio dell’anno di persone giovanissime. Ora siamo arrivati a 12 suicidi. Una riflessione bisogna pur farla altrimenti si rischia di far passare per giustizia l’ennesimo privilegio. Quando si tratta di diritto alla salute dei detenuti, a prescindere dalla singola posizione giudiziaria se ancora imputati o se già condannati in via definitiva, gli esempi favor rei da fare non sono tanti. O meglio, le norme a tutela dei diritti dei detenuti vengono facilmente applicate per gli indagati e/ o condannati “eccellenti” mentre divengono inapplicabili per chiunque altro. Basti pensare alle migliaia di detenuti che soffrono di patologie fisiche o psicologiche - oppure di entrambe - gravissime, e magari rimangono in regime di custodia cautelare anche per anni, oppure hanno diversi decenni di detenzione alle spalle, ai quali l’applicazione degli istituti di tutela viene sistematicamente negata. E ancor più negata è l’attenzione pubblica e istituzionale. Quanti detenuti e detenute che non si chiamano Formigoni, che hanno quindi più di 70 anni, si trovano in carcere? Quanti detenuti e detenute che non si chiamano Dell’Utri, con patologie ben più gravi anzi, gravissime, si trovano ancora in carcere? Voglio ricordare la storia di alcune persone tra le tante per le quali abbiamo sollecitato interventi urgenti: Salvatore Giordano (Due morti di tumore in carcere per un 2019 da dimenticare - Il Dubbio); Carmelo Caminiti, un detenuto in attesa di giudizio che si è sempre professato innocente, con gravissime patologie che ha iniziato uno sciopero della fame (dopo tre anni di custodia cautelare in carcere) affinché venisse ascoltato da un procuratore. Dopo due mesi di sciopero della fame venne ricoverato ormai in coma, morirà dopo pochi giorni e assolto per non aver commesso il fatto a due mesi dalla morte (Ha gravi patologie ma le sue condizioni sono ritenute compatibili con il carcere. Ora è in coma - Il Dubbio). E ancora, il caso di Domenico Papalia: ha 77 anni, da 44 anni in carcere e un tumore ormai in metastasi (Domenico Papalia in carcere da 44 anni con gravissime patologie e senza speranza di uscire - Il Dubbio); quello di Carmelo Latino, che dopo 5 mesi di isolamento con gravi problemi psichici è arrivato a cucirsi la bocca (Carcere di Parma, ha gravi problemi psichici e da 5 mesi è in isolamento totale - Il Dubbio) oppure quello recente di Vincenzino Iannazzo, lasciato morire in carcere, in 41 bis e in condizioni disumane, nonostante le gravissime e plurime patologie per cui più volte era stata presentata, e rigettata, istanza di differimento della pena che, anche in tal caso, sarebbe dovuta essere obbligatoria (L’agonia di Iannazzo: lasciato al 41bis nonostante fosse gravissimo - Il Dubbio). L’elenco sarebbe ancora lungo. E già nel 2018 rivolgemmo un appello alle autorità competenti, rinnovato con l’esplosione della pandemia (Appello: Sospensione della pena per tutti detenuti malati e anziani - Osservatorio Repressione), affinché venisse riconosciuto il diritto alla salute e le garanzie costituzionali a quelle diverse migliaia di persone anziane e ammalate che da sempre, e ancora oggi, subiscono la spada di una Giustizia garantista solo con i forti. *Associazione Yairaiha Onlus Riforma e referendum, l’ingorgo sulla giustizia. E Cartabia avverte: “L’Europa ci guarda” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 16 febbraio 2022 “Ora è il tempo del Parlamento”, dice la ministra della Giustizia Marta Cartabia, illustrando a Montecitorio l’attuazione delle riforme previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le modifiche appena varate dal governo su Consiglio superiore della magistratura e ordinamento giudiziario e consegnate alla Camera per il dibattito e l’approvazione non sono direttamente connesse ai finanziamenti del Pnrr ma, avverte la ministra, c’è ugualmente “un’attenzione altissima da parte della Commissione europea”. Perché ci sono diversi aspetti che, sia pure indirettamente, hanno a che fare con l’efficienza del sistema. Sintesi: sulla riforma adesso tocca al Parlamento, l’Europa vigila sulla riforma, quindi l’Europa vigila sul Parlamento. Che naturalmente resta autonomo e incondizionabile nelle scelte che vorrà fare, ma ciò non toglie che quelle scelte potrebbero avere delle ricadute. Forse più ampie di quello che immaginano i partiti intenzionati a rimettere mano al progetto licenziato dal governo. La promessa del premier Mario Draghi di non strozzare il dibattito con la questione di fiducia ha ridato fiato ai propositi di “riforma della riforma” delle forze politiche che appoggiano il governo. Soprattutto di centrodestra. Le Lega di Matteo Salvini si mostra la più battagliera, galvanizzata dai referendum su cui il leader ha messo il proprio timbro quasi scalzando la compartecipazione radicale. Per lui il voto sui sei quesiti sottoposti al vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale (tra oggi e domani sapremo quanti lo avranno superato) non interferirà sul lavoro delle Camere perché “il popolo è sovrano”, e sarà proprio il popolo a fare “ciò che il Parlamento non è riuscito a fare in trent’anni”. Ma al di là degli slogan di Salvini, almeno tre dei sei referendum toccano questioni che sono anche oggetto della riforma Cartabia-Draghi: le norme sulla presentazione delle candidature togate al Csm, quelle che limitano il ruolo degli avvocati nei consigli giudiziari per la valutazione dei magistrati e quelle sul passaggio tra le funzioni di pm e giudice. Per ciascuna di queste tre materie l’emendamento governativo prevede novità, e sarà invitabile che la discussione in Parlamento s’intrecci con la campagna elettorale, se si dovesse votare in primavera. Tanto più che uno degli argomenti in ballo (la riforma del sistema elettorale del Csm) è da un lato molto urgente se non si vuole che il nuovo Consiglio sia eletto con le vecchie regole, e dall’altro foriera di profonde divisioni nella maggioranza. Lega e Forza Italia insistono per il sorteggio “temperato” dei candidati: una platea di eleggibili scelti a caso, da sottoporre al voto delle toghe. Una soluzione scartata dalla ministra perché considerata incostituzionale, ma sulla quale l’asse di centrodestra della maggioranza continua a puntare le proprie carte. Sapendo di poter contare, su questo punto, sulla convergenza di Fratelli d’Italia. “Il limite della riforma Cartabia è che non riesce a combattere il correntismo”, spiega Giulia Bongiorno a nome della Lega. E, pur senza avanzare controproposte, il deputato renziano Cosimo Ferri si schiera sulla stessa linea: “Chiedo alla ministra passi avanti più decisivi, perché questa riforma sembra accentuare il sistema delle correnti”; proprio lui che di quel sistema è stato uno dei principali artefici, fin quando è stato sorpreso a tessere accordi trasversali insieme a Palamara, all’hotel Champagne. L’estate scorsa Matteo Renzi ha sottoscritto i referendum radical-leghisti, e in materia di giustizia è già accaduto che prendesse forma una maggioranza alternativa a quella di governo: tutto il centrodestra più Italia viva, relegando Pd, Cinque Stelle e Leu in minoranza. Anche per questo Cartabia sottolinea che sì, “ora è veramente il tempo del Parlamento”, ma “il governo e il ministro seguiranno passo passo, e con attenzione, tutto quello che ci sarà da fare”. Giustizia, le spine della riforma di Giovanni Verde Corriere del Mezzogiorno, 16 febbraio 2022 Finalmente, di un politico, leggo dichiarazioni sensate sulla giustizia. Le ha rese l’onorevole Orlando, che non è laureato in giurisprudenza, ma è uomo intelligente (merce che non sempre si riscontra nei politici nostrani). Egli ha fatto tesoro della sua esperienza di ministro della Giustizia e sa che la giustizia del cittadino nulla ha a che fare con il Csm e con la nomina dei suoi componenti; che mettere al rogo le correnti può essere rimedio peggiore del male; che il problema dei magistrati che si danno alla politica (oltre ad essere marginale per il cittadino: oggi i magistrati in questa situazione sono poco più di una ventina) ha complesse sfaccettature. Bravo. Aderendo al suo pensiero, cerco di indicare al lettore i punti di maggior rilievo della riforma, premettendo che quest’ultima non avrà alcuna incidenza sulle aspettative di giustizia dei cittadini. Orlando, che è stato ministro della Giustizia con sufficiente autonomia di pensiero (ossia senza farsi sommergere dai magistrati che presidiano il ministero), ha ben presente che organizzare il nostro sistema di giustizia dando qualche importanza all’efficienza è un’impresa titanica destinata quasi sicuramente all’insuccesso. Una conferma? La riforma ha introdotto (ispirandosi a quanto praticato altrove: ad esempio in Germania) una sorta di pagella di valutazione del magistrato (discreto, buono, ottimo). L’intenzione (quale ricavo dalla relazione al disegno) è quella di incentivare i magistrati a coltivarsi, in un mondo in cui l’aggiornamento culturale è particolarmente difficile, e ad organizzarsi in maniera da ridurre i tempi delle decisioni tenendone elevato il livello qualitativo. Di fronte all’innovazione il presidente dell’Anm (che parla esprimendo la posizione ufficiale della magistratura) ha subito mostrato contrarietà: una valutazione del genere - ammonisce - può servire soltanto per riscontrare cadute di professionalità e non per fare le graduatorie dei più bravi e - aggiunge - mai con il concorso degli avvocati. Il fatto è che nella magistratura si è imposto il criterio della assoluta fungibilità dei magistrati fra loro, in base al principio che l’uno vale l’altro. È un sistema, fondato su di un’ipocrita finzione, che ha pregi (soprattutto per la magistratura giudicante, in quanto ne assicura nel massimo grado l’indipendenza), ma paga il prezzo dell’inefficienza. Qualsiasi organizzazione di un lavoro da svolgere in comune presuppone, infatti, qualche forma di gerarchia, che la magistratura associata ritiene incompatibile con il suo modo d’essere. Anche l’attuale provvedimento, pertanto, non riesce a sottrarsi alla funzione di produttore di montagne di carte e di burocrazia (di cui esempi troviamo nelle proposte tabellari di organizzazione degli uffici giudicanti e nei progetti organizzativi degli uffici requirenti. Non parliamo di quelle per le inutili valutazioni di professionalità, positive al 99%). Avverrà, in tal modo, che la novità introdotta dalla riforma (di cui non è chiara la finalità e che di per sé non sarà di non facile attuazione) sarà esornativa, ossia si tradurrà in un’apparenza. Il cittadino è indifferente al problema delle nomine e, quindi, si è appassionato alla vicenda Palamara per l’innata predisposizione al gossip. Se è acculturato a sufficienza, rileverà che l’intervento del Governo, cede alla lusinga del gossip e si industria per congegnare un barocco sistema elettorale del Csm. Il Governo agisce in questo modo, essendo in difesa, ossia per opporsi al sorteggio (in disparte ogni valutazione sulla compatibilità del criterio con la Costituzione, la quale - si sa - vale a giorni alterni e secondo le convenienze). Se si scegliesse il sorteggio (scelta ancora possibile in Parlamento e auspicata, con atteggiamento che a me sembra ritorsivo, perfino da FI, la cui ideologia dovrebbe privilegiare il merito), avremmo la sublimazione del più esasperato qualunquismo, perché il sorteggio è un atto di viltà praticato (e la pratica diffusa sta consegnando il Paese alla mediocrità) da chi riconosce di non essere capace di fare corrette valutazioni di merito e di assumersene la responsabilità (oltre tutto il disegno non può non riconoscere al Csm un potere di valutazione, così che logica vorrebbe che a farle siano magistrati “meritevoli” e non “sorteggiati”). Il cittadino è molto più sensibile al problema del magistrato politicizzato. Lo è secondo le convenienze. Quante volte il cliente mi ha chiesto “di che colore è il giudice”, avendo maturato la convinzione che la disposizione di legge è argilla che il magistrato può manovrare a suo piacimento. Il fatto è che non possiamo impedire al magistrato di avere una sua ideologia. Ci dobbiamo accontentare (e dovremmo pretendere) che non la renda palese. Quindi, fermo che l’intervento del legislatore interviene sulla “forma” e non sulla “sostanza” del problema, sono da condividere (e, a mio avviso, finanche eccessive) le misure repressive suggerite al Parlamento. Resta irrisolto il vero problema (e qui dissento da Orlando): al cittadino non può stare bene che alla formazione di leggi o di provvedimenti amministrativi partecipino soggetti che sono i diretti destinatari del provvedimento (come è nel caso delle leggi sull’ordinamento giudiziario) o che domani dovranno applicarlo (come è per i giudici amministrativi). Qui, anche a costo di sacrificare professionalità, le misure restrittive dovrebbero essere molto più rigorose. C’è un problema irrisolto e oramai non più eludibile e riguarda il pubblico ministero. Da tempo scrivo che la soluzione non sta nella reale ed effettiva separazione delle carriere (per realizzare la quale sarebbe necessario intervenire sulla Costituzione che ha raccolto in unico corpo giudici e pubblici ministeri). È invece possibile e necessario, perché lo prevede la Costituzione, scrivere un’apposita legge che “ordini” i pubblici ministeri e ne individui le responsabilità disciplinari: È necessaria una legge apposita sulla responsabilità civile personale del pm. Le stesse disposizioni del codice di procedura penale che regolano il potere di indagine dovrebbero essere riconsiderate. Sui quotidiani di qualche giorno fa ho letto di un pubblico ministero salernitano in combutta con giornalisti locali con i quali confezionava articoli che poteva utilizzare come notizie di reato. È un caso limite? Non direi: la recente vicenda milanese (il cd. caso Amara) e altre ancora di cui abbiamo quotidianamente notizia non sono molto dissimili. In un Paese civile non è accettabile che questi comportamenti siano resi (anche soltanto) possibili. Pure se in preda alla confusione, perché fuorviato da una cattiva informazione, il cittadino è in grado di capire che questo è un problema reale e dovrebbe capire che, essendo un problema tecnicamente complesso, non può essere risolto a suon di referendum, il cui esito (necessariamente tranchant) potrebbe renderne ancora più difficile una ragionevole soluzione. P.S. L’ho fatta troppo lunga. Ho omesso di parlare del giudice disciplinare. È un tema assai tecnico che occuperebbe troppo spazio senza forse interessare. Giustizia, le prime riforme fatte sono già da correggere di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 febbraio 2022 Durante l’audizione in parlamento, la ministra Cartabia spiega che sarà necessario intervenire con modifiche sull’ufficio del processo e sul giudizio dei minori. Poi avverte: la Commissione europea segue da vicino anche il disegno di legge delega sull’ordinamento giudiziario. Da oggi sotto i riflettori. Alla vigilia dell’approdo in commissione giustizia dei suoi emendamenti su Csm e ordinamento giudiziario, la ministra Marta Cartabia ha spiegato ieri alla camera perché anche questa riforma sia seguita con attenzione dall’Unione europea. Il terzo disegno di legge delega non ha una posizione centrale nel Pnrr come le due leggi delega approvate nel 2021 - processo penale e civile - ma alcune sue parti, ha rivelato ieri la ministra, “sono il frutto di un’interlocuzione stretta con la Commissione europea”. Con le prime due riforme, nel Pnrr, il governo si è impegnato a raggiungere entro il 2026 una riduzione del 40% dei tempi della giustizia civile, del 25% di quella penale e dell’80% dell’arretrato. La piena realizzazione di questi obiettivi determinerebbe, ha detto ieri Cartabia, “un aumento del Pil fino all’1,7%”. Il Pnrr prevede circa 3 miliardi di investimenti destinati alla giustizia, per la gran parte assorbiti dalle assunzioni a termine per i nuovi uffici del processo (2 miliardi). Nella quota restante c’è la riqualificazione del patrimonio immobiliare di tribunali e uffici di procura (411 milioni) e ci sono altri investimenti tra i quali 83 milioni per la digitalizzazione (“entro il 2026 andranno digitalizzati i fascicoli degli ultimi 11 anni, 10 milioni in tutto”). L’Europa è attenta alla riforma dell’ordinamento giudiziario perché “nel rapporto sulla Rule of law l’Italia è considerata debole sotto l’aspetto dell’efficacia e dell’efficienza - ha detto Cartabia ai deputati della commissione giustizia - mentre la nostra struttura normativa, anche di contrasto alla corruzione, viene considerata ampiamente soddisfacente”. Dunque per la Commissione è importante riformare il modo in cui saranno assegnati gli incarichi direttivi e semi direttivi negli uffici giudiziari - gli emendamenti prevedono che si tengano in maggior conto le capacità organizzative - perché “hanno un impatto diretto sulla riduzione dei tempi della giustizia”. “L’unione europea usa tre parole per quanto riguarda i sistemi giurisdizionali - ha detto la ministra, intervenendo nel pomeriggio a un’iniziativa dell’istituto Sturzo - indipendenza, qualità ed efficienza. Non è una deriva efficientistica, la tutela dei diritti è vanificata da un sistema che non è efficiente”. Se fare presto è necessario, importante è anche fare bene ma nella replica ai deputati la ministra ha dovuto spiegare che entrambe le leggi delega approvate l’anno scorso necessitano già di correttivi. Per quanto riguarda l’ufficio del processo, previsto dalla riforma penale, fatti i concorsi risulta “una sovrabbondanza di candidati vittoriosi non distribuiti in maniera uniforme sul territorio, servirà un piccolo intervento normativo e bisogna intervenire anche stabilendo l’incompatibilità tra ufficio del processo e professione di avvocato, la norma non è cristallina”. Modifiche ci saranno anche per correggere la composizione monocratica del primo grado del giudizio sui minori, problema abbondantemente segnalato durante le audizioni. A questo punto, però, la correzione non potrà stare nei decreti legislativi, che sono vincolati dal testo approvato della delega civile. Giustizia, il rischio di peggiorare la situazione di Astolfo Di Amato Il Riformista, 16 febbraio 2022 Il ddl approvato dal governo interviene su questioni molto delicate con proposte non convincenti: è il caso del metodo di elezione del Csm ma anche della valutazione dei magistrati. E se, all’esito della riforma dell’ordinamento giudiziario, la qualità delle decisioni peggiorasse ulteriormente? Il disegno di legge, approvato all’unanimità dal Governo, tocca molti punti dello statuto giuridico della magistratura. La delicatezza degli interventi sta nel fatto che essi, alla valenza corporativa connessa alla circostanza che sono destinati ad incidere sulla condizione giuridica di una categoria, aggiungono una valenza sul piano degli interessi collettivi, in quanto sono destinati ad incidere direttamente sulla qualità dei provvedimenti giudiziari, qualità che è certamente scaduta, e di molto, se il Capo dello Stato ha ritenuto necessario denunciare, con sorprendente brutale sincerità, il loro carattere spesso arbitrario ed imprevedibile. È quest’ultima, dunque, la prospettiva corretta nella quale valutare l’iniziativa riformatrice, e non già quella, meramente corporativa, che troppo spesso emerge dalle prese di posizione della magistratura associata. In questa prospettiva, sono molti gli aspetti della riforma che non convincono: dalle regole per la elezione dei membri togati del Csm alla totale abolizione della rilevanza della anzianità nel conferimento degli incarichi, che è l’unico criterio obiettivo, e perciò non manipolabile, esistente. Vi è un aspetto del disegno di legge, tuttavia, che appare più degli altri poco meditato. Si tratta di quella parte del provvedimento, che intende introdurre nuove regole, per le valutazioni di professionalità periodiche dei magistrati, con la valorizzazione del criterio della “tenuta dei provvedimenti giurisdizionali”. Una siffatta previsione corrisponde alla richiesta, formulata da più parti, di dare rilievo anche all’esito di tante iniziative giudiziarie, che partono con grandissimo clamore, distruggendo la vita e la dignità delle persone coinvolte, e che, poi, nel silenzio generale, si concludono con un nulla di fatto. Va subito detto che una tale previsione, seppure richiami immediatamente il ricordo di quella serie di accadimenti che accompagnano spesso talune indagini penali (dagli avvisi di garanzia a mezzo stampa, alle ordinanze di custodia cautelare e ai decreti di sequestro, di cui vengono subito pubblicati ampi stralci sui giornali), è destinata ad operare anche in ambito civile. Anche le decisioni civili, difatti, sono suscettibili di valutazione in ordine alla “tenuta”, potendo le stesse essere riformate in sede di impugnazione. Ed anche le decisioni civili possono avere effetti devastanti sulla vita delle persone. Ebbene, la proposta governativa presenta due profili di criticità. Uno di carattere generale e l’altro specifico della giustizia penale. Il profilo di carattere generale sta nella circostanza che il semplicismo, con cui la proposta è formulata, urta con quella complessità dell’ordinamento e delle sue fonti, che, pur senza autorizzare lo sfrenato soggettivismo cui oggi troppo spesso si assiste, non consente di ridurre la valutazione di una decisione ad una scelta tra il bianco ed il nero. Il rischio diventa un acritico appiattimento sui precedenti giurisprudenziali consolidati, come tutela del giudice dai rischi per la propria valutazione, che una giurisprudenza innovativa potrebbe comportare. Potrebbe essere colpita, in modo surrettizio, la stessa indipendenza del giudice. Ecco, allora, che oggetto di valutazione dovrebbe essere non già la “tenuta” in sé dei provvedimenti, bensì la ragione della mancata “tenuta”. Certamente profondamente diversi sono i casi in cui i provvedimenti siano affetti da marchiani errori di diritto o totale superficialità o mancanza di equilibrio nella considerazione delle prove, da quelli in cui si sia in presenza di questioni nuove ed opinabili o di compendi probatori particolarmente complessi. Si tratta, indubbiamente, di una distinzione non sempre agevole, ma alla quale occorre inevitabilmente giungere affinché sia realmente perseguita quella finalità di stimolare una maggiore qualità dei provvedimenti giudiziari, che è alla base della proposta di riforma. L’aspetto che, poi, riguarda in modo specifico il settore della giustizia penale si riferisce al tema del rapporto tra pubblico ministero e giudice. A ben vedere, se nella valutazione professionale di un pubblico ministero diventa rilevante la “tenuta” delle sue iniziative, la conseguenza è che il giudice finisce con l’avere, nelle sue mani, il destino non solo dell’imputato, ma anche quello, sia pure solo professionale, del pubblico ministero. Al di là di ogni solenne affermazione di facciata sull’autonomia e l’indipendenza di chi giudica, si tratta di un aspetto che non può non influire. quantomeno in alcuni casi, sul giudizio. Si pensi ai piccoli tribunali, nei quali giudici e pubblici ministeri condividono ogni esperienza, sentendosi parte della medesima categoria professionale, o alla eventualità di appartenenza del pubblico ministero e del giudice alla medesima corrente associativa. Già oggi, come ha denunciato su questo giornale dell’il febbraio Gian Domenico Caiazza, l’imputato è colpito da una presunzione di colpevolezza, dovuta allo spostamento del baricentro della giustizia penale dal giudizio alle indagini, con attribuzione all’ipotesi accusatoria di un peso quasi conclusivo nella valutazione penale del fatto. Figurarsi cosa può succedere se, a questo primo condizionamento, si dovesse aggiungere la preoccupazione del giudice di poter danneggiare, con la sua decisione, la carriera del collega pubblico ministero. In conclusione, affinché la riforma sia davvero capace di ridare qualità alle decisioni della magistratura, vi sono due nodi che non possono essere aggirati: quello di una valutazione del merito delle decisioni e quello della separazione delle carriere. La prima questione è molto delicata e, proprio per questo, non può trovare risposta su di un piano meramente ideologico. Si tratta di individuare soluzioni di buon senso, come potrebbe essere la costituzione di una commissione di valutazione espressa dal C.S.M., dall’Avvocatura e dall’Accademia, abilitata a pesare la “qualità” delle decisioni. Del resto, se è prevista una amplissima discrezionalità rispetto alla valutazione dell’attitudine agli incarichi direttivi, non si comprende perché dovrebbe essere esclusa una valutazione sulla qualità dell’attività svolta, valutazione rispetto alla quale l’esistenza di críteri tecnici sarebbe di per sé limitativa di possibili abusi. La seconda questione richiede solo la volontà politica di superare la strenua resistenza, che sta opponendo la corporazione dei magistrati. Un esito favorevole e plebiscitario del quarto quesito referendario sarebbe un viatico formidabile per giungere finalmente alla ormai ineludibile separazione delle carriere di magistratura giudicante e di magistratura requirente. Aggiustare le porte girevoli tra politica e magistratura di Francesco Merloni Il Domani, 16 febbraio 2022 Tra le riforme connesse al Pnrr italiano c’è quella della revisione del sistema delle “porte girevoli” tra politica e magistratura, nel senso di rendere più difficile, se non vietato, il ritorno in magistratura per chi abbia ricoperto cariche e incarichi politici. Partiamo da alcuni punti fermi. Le norme sullo status dei magistrati devono assicurare, nella misura massima possibile, che il magistrato sia e appaia imparziale; l’imparzialità è garantita dalla posizione di indipendenza della funzione giurisdizionale, non a caso soggetta solo alla legge e totalmente sottratta all’indirizzo politico. A questo fine servono norme oggettive, che limitino il passaggio dalla magistratura alla politica e ritorno, prescindendo da valutazioni di tipo soggettivo, che riguardino la personale capacità di un magistrato di agire imparzialmente. È il sistema in sé che deve funzionare. Se un magistrato ha esercitato per un periodo funzioni di tipo “politico” c’è da dubitare che esso, tornato in magistratura, possa essere o apparire imparziale. Potrebbe, ad esempio, giudicare atti o comportamenti tenuti dall’amministrazione dalla quale proviene in modo non distaccato. C’è, quindi, da stabilire quando un incarico pubblico svolto ha carattere politico. L’attuale disciplina dei dirigenti amministrativi, ad esempio, ritiene politici, e quindi esclude il conferimento degli incarichi dirigenziali, incarichi di tipo elettivo (nelle assemblee) o su nomina (i componenti degli esecutivi nelle amministrazioni statali e territoriali) e negli enti pubblici; incarichi di componente degli organi di governo degli enti pubblici. In alcuni casi (i direttori generali delle Asl), anche la sola candidatura senza elezione è causa di inconferibilità. Molto meno chiara è la disciplina sui magistrati, anche se è evidente che per essi il rigore deve essere maggiore e si deve procedere ad una corretta e articolata individuazione di tutte le funzioni “politiche” svolte e graduare le limitazioni sull’accesso alle cariche pubbliche e sul ritorno alle funzioni giurisdizionali. In alcuni casi può essere necessaria la totale esclusione, in altri può esser sufficiente un periodo (anch’esso da graduare) di cosiddetto “raffreddamento”. Restano posizioni incerte, quali la provenienza da funzioni in autorità amministrative indipendenti o da uffici di diretta collaborazione (gabinetti, uffici legislativi, segreterie) con gli organi politici. Per le prime il rientro non pone problemi di conflitto, dal momento che le loro funzioni sono da considerarsi quasi giurisdizionali e perciò sottratte all’indirizzo politico e i loro componenti sono scelti per una elevata competenza tecnica e per riconosciuta indipendenza personale. Per i secondi, invece, la collaborazione stretta con gli organi politici, il concorso attivo alla determinazione del contenuto di leggi e di atti di natura politica e l’influsso che viene esercitato sullo svolgimento dei compiti di gestione da parte degli uffici, devono far propendere per l’esclusione del ritorno in magistratura o almeno dovrebbe imporre un adeguato periodo di raffreddamento e una collocazione in uffici ben distanti, territorialmente (questo vale per gli incarichi locali, non per quelli nazionali) e per materia, dall’incarico di collaborazione svolto. Se ci occupiamo dei magistrati l’approccio nel definirne lo status non può che essere unitario. Un trattamento differenziato dei magistrati amministrativi è del tutto fuori dalla nostra Costituzione. Anzi, l’occasione della disciplina delle porte girevoli potrebbe esser utilmente colta per rimuovere le ultime situazioni che rendono i giudici amministrativi meno indipendenti di quelli ordinari, Un importantissimo contributo alla piena attuazione del modello di giurisdizione di un paese di diritto, come voluto dalla Costituzione. Riforma della magistratura: lo stop alle porte girevoli non diventi una “resa dei conti” di Alberto Vannucci* Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2022 È davvero una singolare coincidenza che il Consiglio dei ministri approvi all’unanimità un nuovo testo della proposta di legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura a pochi giorni da un anniversario storico. Un trentennale, per la precisione: 17 febbraio 1992, arresto in flagranza di reato di Mario Chiesa, presidente socialista del milanese Pio Albergo Trivulzio, evento che segnò l’avvio delle inchieste di Mani pulite. Dopo nulla sarebbe più stato lo stesso nei rapporti tra magistratura e classe politica. Non solo quella “vecchia”, presto spazzata via dall’evidenza giudiziaria del suo coinvolgimento in un “meccanismo che viveva di vita propria” (così lo definì un assessore milanese), quello della corruzione sistemica; ma anche quella “nuova” che l’avrebbe poco degnamente sostituita. Il sociologo Alessandro Pizzorno spiegò l’origine di quelle frizioni in un denso libriccino del 1998, Il potere dei giudici. Di fronte all’indebolirsi e poi al collasso dei partiti di massa, sempre meno capaci di esercitare una funzione adeguata di selezione di una classe politica dominata da carrierismo e affarismo, ricattabile e facile preda - quando non ostaggio - di interessi e potentati economici, la magistratura ha esteso la sfera delle competenze di fatto esercitate. E lo ha fatto rispondendo a domande sociali, sciogliendo i nodi irrisolti della cattiva regolazione e riempendo i vuoti normativi, ma anche facendosi talvolta coraggiosamente carico di emergenze - terrorismo, mafia, corruzione - scaturite dai fallimenti della politica. L’attivismo crescente dei giudici ha avuto dunque profonde radici istituzionali e sociali, tra cui l’ingresso di nuove leve di magistrati nell’Università di massa, che indebolì quei vincoli di collusione - di ceto e d’affari - che fino ai primi anni 70 del secolo passato avevano rinsaldato il patto indicibile tra classe politica e potere giudiziario: alla prima una grande autonomia formale ma soprattutto privilegi e gratificazioni, economiche e di status, in cambio di una “non interferenza” nelle degenerazioni partitocratiche che avrebbero trasformato la corruzione nella più ovvia e “standardizzata” modalità di interazione tra universo imprenditoriale e sistema politico. Per fare un esempio tra i molti possibili, tutti sapevano - ma pochi si indignavano - che il Tribunale di Roma era soprannominato “porto delle nebbie” precisamente per la sua capacità di attrarre i procedimenti penali più scomodi per la classe politica di governo, atti che una volta attraccati in quegli uffici sarebbero stati persi di vista e presto dimenticati nell’inerzia dei magistrati. L’avvio delle inchieste di “mani pulite” e il cataclisma politico che ne seguì avrebbero rappresentato un punto di non ritorno. Alla magistratura finì infatti per essere affidata una funzione impropria di “controllo di virtù” della politica. Un ruolo che sarebbe spettato a un’opposizione politica invece connivente, ma esercitato dalla magistratura ha determinato negli anni una polarizzazione del conflitto, forzando gli stessi giudici a competere in una sfera indebita di consenso dell’opinione pubblica. Come afferma lucidamente Pizzorno: “In maniera o implicita o, più spesso, esplicita, che lo teorizzasse o no, la magistratura italiana ha agito tenendo conto di quanto avveniva nella sfera pubblica; e ha potuto svolgere il suo compito soprattutto grazie all’appoggio che vi ha trovato. La battaglia con la classe politica è stata combattuta per il riconoscimento e i giudizi che provenivano dalla sfera pubblica”. Sarebbe arrivata poi l’interminabile stagione della sistematica denigrazione del potere giudiziario ad opera di Berlusconi. A lui si devono perle come “la magistratura è una malattia della nostra democrazia, dobbiamo assolutamente cambiare l’ordine giudiziario”, nel 2006. Una malattia che agli occhi del Cavaliere si sarebbe aggravata, tanto che tra anni dopo così la descrive: “è come una metastasi…”. Eppure l’attacco di una classe politica ostile al potere giudiziario è stato rintuzzato persino negli anni del berlusconismo rampante. Grazia a un sostegno popolare ancora diffuso e alla sponda di alcune forze politiche, è rimasto soltanto un’aspirazione quel riequilibrio di poteri che nelle aspirazioni dell’allora presidente del consiglio, perennemente indagato, avrebbe presumibilmente consentito l’apposizione di guinzaglio e museruola ai giudici ostili. Del resto -Berlusconi dixit - “questi giudici sono doppiamente matti. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana”. C’è voluto l’harakiri di frange significative della stessa magistratura per autorizzare l’odierno tentativo di riforma, che configura anche un riequilibrio dei rapporti di forza. Dopo i troppi casi di “toghe sporche”, ma soprattutto dopo l’inchiesta che ha svelato il “sistema” Palamara - ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex membro del Csm, artefice di una giostra vorticosa di raccomandazioni e spartizioni - l’evidenza di traffici nell’ombra, lottizzazioni correntizie, sterili rivalità e meschinerie assortite ha intaccato la credibilità dei magistrati quali primari “controllori” dell’altrui virtù. Al contrario, la loro stessa virtù è stata messa in discussione proprio nella sfera del riconoscimento pubblico, così preziosa anche per la classe politica, specie quando è indagata. Nascono da queste premesse istituzionalmente insidiose le proposte governative di riforma dell’ordinamento giudiziario, che pure appaiono in buona misura condivisibili per intenti e contenuti. È ragionevole porre un freno ai meccanismi di “porte girevoli” che hanno permesso ai magistrati di transitare liberamente avanti e indietro dai loro ruoli, giudicanti o inquirenti, verso carriere politiche e incarichi governativi. In alcuni casi addirittura mantenendoli entrambi, nonostante le stridenti ragioni di opportunità: si veda il caso di Catello Maresca, che siede alternativamente sui banchi della Corte d’Appello di Catanzaro e in quelli di capo dell’opposizione nel consiglio comunale di Napoli, la stessa città dove era PM antimafia prima di candidarsi. L’alternanza tra ruoli partigiani e “neutri” disinvoltamente praticata da alcuni magistrati, per quanto autorizzate dalla legge, ha contribuito a intaccare la reputazione di “terzietà” e imparzialità di tutta la magistratura, rendendola vulnerabile alle accuse ricorrenti di impropri condizionamenti politici o ideologici. Va segnalato però il rischio che il disegno di legge rappresenti, nei suoi passaggi parlamentari, l’occasione per una tardiva “resa dei conti” tra due presunti duellanti, magistratura e classe politica. Un aspirante erede politico di Berlusconi, Matteo Renzi, leader di Italia Viva, proprio in questi giorni ha disseppellito l’ascia di guerra scagliandosi contro i magistrati che lo indagano. Piena autonomia e indipendenza della magistratura, soprattutto nei confronti del potere politico, devono restare una qualità cruciale del nostro assetto costituzionale, prerequisito per quel bilanciamento tra i poteri dello Stato su cui si fondano le fragili architetture democratiche. *Professore di Scienza Politica Sardegna. Ormai è “l’isola carcere” del Mediterraneo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 febbraio 2022 Sono più della metà i detenuti provenienti da tutta Italia (1.014 su 1.968), soprattutto quelli ristretti in Alta Sicurezza e 41 bis. Problema denunciato a suo tempo dal Garante, ora riconfermato da Maria Grazia Caligaris di Sdr. Su 1968 detenuti presenti nelle dieci carceri sarde, solo 1014 risultano residenti nella regione. Sono gli ultimi dati evidenziati da Maria Grazia Caligaris di “Socialismo Diritti Riforme”. Una fotografia che sembra confermare ancora una volta la condizione di una Sardegna “isola carcere” nel Mediterraneo. Il problema è sempre lo stesso. Come già osservato nei vari rapporti del Garante nazionale delle persone private della libertà, la Sardegna si caratterizza per un numero elevato di Istituti di pena, superiore alle esigenze territoriali. Ciò comporta il trasferimento sull’isola di un elevato numero di ristretti provenienti da altre regioni. C’è la sostanziale rinuncia al principio che la pena sia eseguita in modo tale da non recidere il rapporto con il proprio ambito affettivo e relazionale - La scelta dell’Amministrazione penitenziaria di utilizzare, date le complessive condizioni di sovraffollamento nel territorio nazionale, tutti i posti disponibili, ha comportato la sostanziale rinuncia al principio che vuole che la pena sia eseguita, salvo eccezioni riferibili a contesti criminali diffusi in un dato territorio, in modo tale da non recidere il rapporto con il proprio ambito affettivo e relazionale; principio delineato sia dall’articolo 42 dell’ordinamento penitenziario relativo ai trasferimenti, sia dalla regola 17.1. delle Regole penitenziarie europee. Tale situazione comporta pesanti ricadute negative sulla possibilità di mantenere le relazioni familiari con i propri cari, costretti a lunghi e costosi viaggi per fare i colloqui. Anche se attualmente, grazie anche alla pandemia, c’è stata una riduzione del “danno” attraverso l’utilizzo delle videochiamate. Il 2022 fa registrare fin dal primo mese un aumento di ristretti nelle carceri della Sardegna - Il problema, però, rimane. La Sardegna è, di fatto, una “isola carcere”. Non solo. Da tempo, è stato scelto di trasferire e concentrare nelle strutture detentive dell’isola un gran numero di persone detenute in regime di Alta sicurezza, nonché un numero consistente di coloro che sono detenute in regime di 41 bis. A questo si aggiunge il sovraffollamento. Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti e Riforme, osserva che il 2022 fa registrare fin dal primo mese un aumento di ristretti nelle carceri dell’isola. “In un mese - sottolinea l’esponente - sono passati da 1968 a 2000 con due strutture penitenziarie in sofferenza. Si tratta di Case di Reclusione destinate a detenuti dell’Alta Sicurezza prevalentemente ergastolani. Nello specifico Oristano-Massama (272 presenze per 259 posti) e Tempio Pausania (171 per 170) oltre il limite regolamentare. In un momento in cui il Covid continua a dilagare con quarantene per tutto il personale e chiusura delle attività trattamentali e in parte dei colloqui, anche i numeri “piccoli” non lasciano tranquilli”. Altro dato rilevante, è la questione anagrafica. “Oltre il 50% (1013) ha un’età compresa tra i 45 e gli oltre 70 anni. Il 35 % invece dai 18 e i 44 anni. Lasciano perplessi i dati posti agli estremi. Sono infatti 4 (1 straniero) i giovani tra i 18 e i 20 anni nelle carceri sarde e 54 (2 stranieri) quelli che hanno superato i 70 anni. Situazioni limite - denuncia Caligaris - che avrebbero necessità di un approfondimento che potrebbe chiarire le circostanze della loro permanenza dietro le sbarre”. Campania. Il Garante dei detenuti Ciambriello: “Fake news sulle rivolte in carcere” di Viviana Lanza Il Riformista, 16 febbraio 2022 Nei giorni scorsi alcuni sindacati della polizia penitenziaria avevano diffuso comunicati stampa in cui si faceva riferimento a presunte “rivolte” in carcere. In particolare nelle carceri di Ariano Irpino e Santa Maria Capua Vetere. Proprio l’allarme sul penitenziario casertano aveva destato grande preoccupazione in chi si era trovato a leggere quelle note dei sindacati. Perché Santa Maria è stato teatro della mattanza del 6 aprile 2020 che vede imputati oltre un centinaio di agenti penitenziari per torture e lesioni ai danni di detenuti e perché l’allarme dei giorni scorsi era legato a presunte rivolte dei detenuti, si temeva quindi una nuova spirale di violenza per fortuna non c’è stata. Purtroppo, però, da parte di alcune testate giornalistiche c’è stata scarsa attenzione alla verifica delle voci su presunte “rivolte”. Di qui il duro atto d’accusa del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello: “Vorrei stigmatizzare i contenuti allarmistici e da fake news in riferimento a presunte rivolte fatte dai detenuti sia nel carcere di Ariano Irpino che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - ha affermato. Comunicati stampa diffusi dai sindacati di polizia penitenziaria e pubblicati, incautamente e senza adeguate verifiche, sia da quotidiani che da siti di informazione, persino dalla Rai che ha mandato sul posto due inviati”. A detta del garante regionale i fatti avvenuti in quelle carceri non potevano definirsi “rivolte”. “A Santa Maria Capua Vetere un detenuto ha distrutto il corridoio del reparto Danubio e ha ferito due agenti, a cui è stata data una prognosi di dieci giorni. Ad Ariano Irpino, invece, un gruppo di detenuti ha distrutto le telecamere di videosorveglianza all’interno di un solo reparto, così da poter forzare il cancello e quindi accedere ad un’altra sezione per punire un detenuto - ha spiegato Ciambriello -. Insomma, mi indigno sia per il procurato allarme sociale, sia per il fatto che la stampa non ha controllato la veridicità di ciò che è avvenuto in questi istituti”. Un atto d’accusa duro, quello che il garante dei detenuti rivolge a due interlocutori importanti nel panorama collettivo. Sullo sfondo, c’è poi tutta la complessità di un tema, quello che riguarda il mondo penitenziario, che in questo momento più che nel passato è sotto i riflettori. Dovrebbe esserlo per porre fine alle annose criticità, non per alimentare inutili o infondati allarmi. Ed è da questa considerazione che nasce la riflessione che il garante Ciambriello propone, chiedendo l’impegno a stemperare le tensioni e a collaborare per il fine comune di garantire diritti e dignità a tutti, non solo a chi lavora ma anche a chi vive nelle carceri. Di qui l’ennesimo appello rivolto alla politica. “Proprio ieri ho portato nel carcere di Poggioreale 3mila mascherine Ffp2 e materiale sanitario vario (saturimetri, compresse per ipertensioni e cardiopatie, glucometro e strisce per glicemia). Materiale che si aggiunge alle 13mila mascherine chirurgiche, alle due sedie a rotelle, ai pannoloni e alle coperte per i detenuti ammalati del reparto San Paolo consegnate nei giorni scorsi”, ha raccontato Ciambriello. “Il volontariato non può avere un ruolo subalterno - ha sottolineato. Chiedo alla politica un’assunzione di responsabilità di fronte a una situazione insostenibile”. “Interventi del privato sociale e del volontariato sono piccole gocce nel mare dell’oceano, rispetto al carcere, alla sua dimensione disumana, al sovraffollamento - ha poi aggiunto all’uscita da Poggioreale - È facile dire che le carceri scoppiano e che Poggioreale è il carcere più sovraffollato d’Europa. Sulle carceri non si intravede una via d’uscita: ci sono troppi problemi, situazioni insostenibili, non vengono applicate le leggi esistenti e non si vive con dignità la dimensione detentiva. Occorre subito un decreto svuota carceri. La politica deve attuare una svolta: chiedo al Ministro della giustizia un’assunzione di responsabilità”. Sardegna. Negli istituti penitenziari sardi incontri tra scrittori e detenuti di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 febbraio 2022 Prosegue il tour letterario di scrittori contemporanei, affermati o emergenti, negli istituti penitenziari sardi. L’iniziativa, promossa dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, prevede incontri con i detenuti su temi presenti in opere scelte dai loro autori. Una gamma di argomenti legati alla memoria, all’ambiente, a fragilità sociali ma anche generi come il noir e la saggistica. La serie di eventi è partita il 3 settembre scorso dal carcere di Tempio Pausania, dove Giampaolo Cassitta ha presentato “Domani è un altro giorno” (Arkadia, 2020), ritratto di una donna determinata a restituire serenità ai figli dopo la scomparsa del padre, sullo sfondo della Sardegna tra gli anni Sessanta e Settanta. Il 7 dicembre nella casa di reclusione di Isili, Roberta Secchi ha raccontato l’esperienza dei laboratori di “scrittura incrociata” tra persone detenute e persone libere che hanno dato origine al volume “Ti prendo in parola, scambi di scrittura tra persone recluse e non” (Sensibili alle foglie, 2016). L’esperienza della malattia e della disabilità, narrata con leggerezza o declinata in generi inconsueti, è comune invece alle opere proposte da Matteo Porru, che ha presentato “Madre ombra” nella casa circondariale di Alghero, Flavio Soriga che a Cagliari Uta ha parlato con i detenuti del suo “Nelle mie vene”, e Francesco Abate, che presenterà “Torpedone trapiantati” a Oristano. Dedicati alla saggistica gli incontri degli ultimi giorni. Fabrizio Raccis, il 12 febbraio a Lodè Mamone ha presentato il suo “Edgar Allan Poe. Il mistero della morte” (Catartica, 2021) e il 13, nel carcere di Sassari, Lirio Abate “Faccia da mostro” (Rizzoli, 2021). Tra gli ospiti dei prossimi eventi anche Gianni Mascia e Cristian Mannu. Tutti gli autori che hanno partecipato agli incontri hanno donato i loro libri alle biblioteche degli istituti penitenziari. “È stata la mia prima presentazione in un istituto penitenziario e mi ha colpito dentro l’anima - ha commentato sui social lo scrittore cagliaritano Fabrizio Raccis (che ripeterà, a breve, l’esperienza con i detenuti di Nuoro). Mi ha sorpreso il fatto di aver trovato dei ragazzi attenti e così interessati alla storia di Edgar Allan Poe; hanno fatto delle domande bellissime sulla scrittura e sul mio saggio. Penso che ognuno di noi, nonostante i propri sbagli, abbia il diritto di trovare un po’ di pace e serenità attraverso la lettura o la scrittura. Grazie infinite a quanti stanno facendo in modo che questi incontri letterari proseguano nonostante le mille difficoltà dovute alla pandemia”. Agrigento. Muore a 32 anni Samuele Di Silvio, giallo in carcere latinaoggi.eu, 16 febbraio 2022 Trovato senza vita nell’istituto di pena dove stava scontando la condanna definitiva a 11 anni. Fatale, forse, un’ischemia. Un vero e proprio mistero si nasconde dietro la morte improvvisa di Samuele Di Silvio, uno dei figli di Armando detto Lallà, trovato senza vita nel carcere di alta sicurezza di Agrigento dove stava scontando la condanna definitiva a undici anni di reclusione. Un mistero, il decesso, alimentato dal fatto che il detenuto pontino non aveva ancora 32 anni. La notizia è arrivata in città nella serata di ieri e ha iniziato a circolare tra l’incredulità generale, non solo tra i familiari. Si sa ben poco sulle circostanze del decesso, anche se ieri sera si vociferava di una possibile ischemia. Ma con ogni probabilità saranno disposti tutti gli accertamenti medici del caso per fugare ogni dubbio sulla natura del decesso avvenuto dietro le sbarre. Napoli. Detenuto muore di Covid all’ospedale Cardarelli di Viviana Lanza Il Riformista, 16 febbraio 2022 È la settima vittima del virus nelle carceri campane da quando è iniziata la pandemia. Un detenuto di 56 anni, Alberto Ronzullo, è morto nella serata di lunedì 14 febbraio nel reparto Covid dell’ospedale Cardarelli di Napoli dove era ricoverato da metà dicembre. L’uomo, affetto da patologie pregresse, era recluso nel carcere di Poggioreale e non era vaccinato. Dall’inizio della pandemia è il settimo detenuto morto in Campania a causa del covid-19, oltre a sei agenti di Polizia penitenziaria e al medico del carcere di Secondigliano. A lanciare un appello per la vaccinazione è il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello: “A Poggioreale su una popolazione di 2204 detenuti ci sono ancora 361 detenuti che hanno scelto di non vaccinarsi; mentre i detenuti che hanno completato il ciclo vaccinale con tre dosi sono 869. Nel rispetto del diritto alla salute e alla dignità personale - prosegue il garante - rivolgo un appello ai detenuti Campani a vaccinarsi, a rispettare le precauzioni e i protocolli sanitari. Non dobbiamo abbassare la guardia ci vuole responsabilità e rispetto della funzione di prevenzione. La pena non può essere solo privazione della libertà e sequestro del tempo”. Sulla morte di Ronzullo, contagiatosi a Poggioreale insieme ad altri due compagni di cella, Pietro Ioia, garante del comune di Napoli commenta: “Si continua a morire di carcere e noi garanti ci sentiamo inermi. Non ci sono figure professionali, non si sono educatori, non ci sono psicologici. Non sappiamo più quante volte ripeterlo”. Garanti che nel corso di questa pandemia hanno assistito i detenuti con “mascherine termometri e saturimetri” ricorda Ciambriello. “In tanti - sottolinea - non si vaccinano per disinformazione o paura, è una questione delicata. Ho fatto appello ad aumentare le visite specialistiche in carcere e portare anche strumentazioni valide come ad esempio la tac da poter fare anche in loco”. Poi denuncia che negli ospedali campani “ci sono solo 36 posti letto riservati ai detenuti. A Benevento non ce n’è manco uno”. Modena. Rivolta in carcere, indagati tre agenti. I pm ipotizzano lesioni gravi e tortura di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 16 febbraio 2022 Svolta nel fascicolo dopo gli esposti dei detenuti. Iscritta anche un’impiegata: non denunciò. Lesioni aggravate e tortura: sono i reati, gravissimi, che la Procura di Modena ipotizza a carico di almeno tre agenti della polizia penitenziaria presenti l’8 marzo 2020 nel carcere di Sant’Anna, dove quel giorno scoppiò una violenta rivolta, che devastò la struttura, sedata secondo i detenuti nel sangue. Una quarta persona, un’impiegata, è indagata per omissione di atti d’ufficio perché avrebbe assistito al pestaggio di un detenuto da parte degli agenti senza denunciare. L’inchiesta è ancora in fase iniziale e condotta nel riserbo dalle pm Lucia De Santis e Francesca Graziano, che a fine dicembre avrebbero interrogato i tre agenti indagati. Gli stessi sono stati identificati grazie al riconoscimento fotografico da parte di alcuni detenuti, che hanno firmato vari esposti per denunciare torture e botte subite quel giorno dai poliziotti, secondo il loro racconto, in cerca di vendetta per la violenta rivolta messa in atto dai detenuti e innescata dalla notizia di un positivo al Covid tra i ristretti. In un esposto firmato da cinque di loro, assistiti tra gli altri dai legali Ettore Grenci e Donata Malmusi, è contenuta la dettagliata denuncia di aggressioni a suon di calci, pugni e manganellate da parte degli agenti. “Siamo stati denudati e pestati in un corridoio” hanno scritto nella lettera d’accusa recapitata anche all’associazione Antigone. Analoghe segnalazioni sono arrivate singolarmente in Procura, che le sta vagliando attentamente. Un altro esposto è stato presentato da un detenuto straniero di 38 anni assistito dall’avvocato Luca Sebastiani. “Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Ammazzavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole” scrive l’uomo, che poi è stato trasferito nel carcere di Forlì, dove si è fatto portare in ospedale per essere refertato e lì gli sarebbero state diagnosticate lesioni talmente gravi che è stato sottoposto a un intervento chirurgico a un braccio. Tutte le denunce sui presunti pestaggi sono confluite in un unico fascicolo, assegnato alle due pm De Santis e Graziano. Le stesse magistrate hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione del fascicolo per omicidio colposo e morte e lesioni come conseguenza di altro reato sugli otto detenuti morti durante e dopo la rivolta. Per la Procura, e per il gip che ha respinto l’opposizione all’archiviazione dei familiari dei deceduti, le morti sarebbero avvenute solo per malori e overdose a seguito dell’abuso di farmaci e metadone razziati dall’infermeria. Ma legali e familiari la pensano diversamente e, con l’avvocato Sebastiani, hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per capire cosa sia successo davvero quell’8 marzo 2020 al Sant’Anna. Sulla morte di un nono detenuto, Salvatore Piscitelli, è ancora aperta un’inchiesta ad Ascoli Piceno, dove era stato trasferito e dove è deceduto. Secondo le denunce degli altri le botte sarebbero continuate anche durante il viaggio e una volta arrivati nel carcere di Ascoli. Nell’esposto firmato dai cinque, che dicono di essersi trovati coinvolti passivamente nella rivolta, scrivono: “Siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna”. Le indagini proseguono. Trento. Il carcere è un destino? Dopo la pena, quali sono le possibilità di rientro nella società? lavocedeltrentino.it, 16 febbraio 2022 A queste domande, i Lions Club Trento del Concilio hanno cercato di dare una risposta con il meeting dal titolo “Dal carcere alla comunità - Il modello Italiano alle Nazioni Unite”. Ospiti d’eccezione il Procuratore Generale della Repubblica, S. E. dott. Giovanni Ilarda, che ha introdotto il tema offrendo una panoramica storica del lavoro nelle carceri. Il dott. Lo Cascio, Capo sezione ufficio centrale del lavoro dei detenuti presso il Ministero della Giustizia che ha realizzato delle vere e proprie “fabbriche di mascherine dentro il carcere” e la dott.ssa Orozco, Responsabile del programma di cooperazione tra Italia e Messico per le Nazioni Unite, che ci ha spiegato come l’Onu si adoperi affinché il modello italiano venga esportato in Messico. La serata è proseguita con l’intervento della Prof.ssa Menghini, professoressa associata di diritto penale della facoltà di giurisprudenza di Trento nonché Garante dei detenuti della Provincia, che ci ha illustrato la situazione nel nostro territorio e si è conclusa con un saluto dell’Assessore Bisesti che ha ricordato come la Provincia stia operando, tramite lo sport, per includere i Detenuti in un percorso riabilitativo. Tutti i relatori hanno convenuto sul fatto che il lavoro costituisca la leva e l’occasione non solo per acquisire nuove competenze ma anche la consapevolezza delle proprie capacità e della dignità del lavoro, così come, altrettanto, è emersa la difficoltà di realizzare attività lavorative stabili nel carcere. Per questo il progetto delle fabbriche nelle carceri costituisce una possibilità concreta di lavorare. Attualmente, le 4 fabbriche coinvolgono 350 detenuti e producono 700.000 mascherine al giorno. Effettivamente, “Il lavoro nobilita l’uomo”: ove si è potuto attuare un programma di lavoro certo per i detenuti, anche al di fuori delle mura carcerarie, i detenuti hanno trovato un riscatto per le loro esistenze, e diminuito drasticamente le recidive. La responsabile internazionale Lions, Elena Appiani, ha poi ricordato i grandi progetti realizzati nelle carceri di Venezia, per la sartoria, e di Vicenza, con la creazione di un forno e la formazione nel settore metallurgico. Tutti con il patrocinio e il sostegno attivo dei Lions. Una serata stimolante, di grande attualità, che ha lasciato un segno in tutte noi, per poter meglio capire un sistema complesso e delicato, ma soprattutto che costituisce un punto di partenza per sostenere un programma di aiuto al reinserimento nella Comunità “Dal carcere alla Comunità”. Prato. “Voci dall’altra parte della città”, due detenuti si raccontano agli studenti reportpistoia.com, 16 febbraio 2022 Si terrà giovedì 17 febbraio alle 10 l’incontro online “Voci dall’altra parte della città” organizzato dalla Polizia Municipale di Prato tra l’Amministrazione comunale, gli studenti delle classi quinte del Liceo scientifico Copernico e due detenuti del carcere pratese de La Dogaia che sono al termine di un percorso di reinserimento lavorativo e sociale. L’obiettivo è mettere in guardia i ragazzi dai pericoli derivanti da determinate condotte o comportamenti che la pandemia può avere accentuato, come l’abuso di alcol, l’uso di stupefacenti o il ricorso alla violenza. Nella Sala video dell’Unità di Educazione stradale della Polizia Municipale (viale De Gasperi, 56) saranno presenti il sindaco Matteo Biffoni, l’assessore alla Polizia Municipale e Sicurezza Urbana Flora Leoni e il Comandante della Polizia Municipale Marco Maccioni. Roma. “Cookery Rebibbia”, la tavola calda che dà lavoro ai detenuti di Rita Chessa vistanet.it, 16 febbraio 2022 “Cookery Rebibbia”, il bar tavola calda che ha avviato da luglio 2021 un progetto interessante ed inclusivo in partnership tra la direzione dell’Istituto penale Rebibbia Terza casa e il Gruppo Cr. Qui vi lavorano anche sette detenuti che oltre ad intraprendere l’avviamento professionale, vengono formati nel settore della panificazione. Roma, Metro B direzione Rebibbia. La voce registrata gracchia l’indicazione del capolinea verso il quartiere nella periferia nord-est della città, dove si trova la prima casa di Pierpaolo Pasolini. Il nome di questo luogo rimanda a Scipione Rebiba, uno dei più antichi vescovi del quale si conoscano con certezza i dati sulle ordinazioni episcopali. Uscita dalla metropolitana incrocio il simpatico murale con un grosso mammut grande 7 metri per 5 realizzato dal fumettista Zerocalcare nel 2014 che ci dà il benvenuto con la scritta: “fettuccia di paradiso stretta tra la Tiburtina e Nomentana, terra di mammut, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Qui ci manca tutto, non ci serve niente”. Il riferimento è al ritrovamento fatto negli anni ‘80 di alcune zanne dell’antico animale ritrovate in seguito a degli scavi archeologici nella zona vicino a Casal de’ pazzi. Sempre a Rebibbia ci sono opere degli street artist Blu, Moby Dick, solo per citarne alcuni. Avrei voluto vederli tutti. Oggi però ci rechiamo verso via Bartolo Longo 82, indirizzo del carcere, per andare a mangiare al “Cookery Rebibbia”, bar tavola calda che ha avviato da luglio 2021 un progetto interessante ed inclusivo in partnership tra la direzione dell’Istituto penale Rebibbia Terza casa e il Gruppo Cr. Qui vi lavorano anche sette detenuti che oltre ad intraprendere l’avviamento professionale, vengono formati nel settore della panificazione. “In questo modo possono costruire il proprio futuro all’insegna del riscatto sociale” afferma Giuliano Catarci, uno dei responsabili. Ho assaggiato quindi una pizza deliziosa alle patate, il personale è cordiale, disponibile e professionale. Mentre mangio pensiamo alla storia di questo impasto ed a coloro che lo hanno preparato. Già di per sé il pane viene realizzato secondo un procedimento ritualistico legato alle stagioni, è simbolo archetipico del lavoro dell’uomo e dell’immaginario iconografico religioso. Stavolta invece sembra di fare una comunione laica, è emozionante. Se ci fosse un modo per poter riscrivere la sceneggiatura della propria vita è probabile che vorremmo, più che tornare indietro, avere altre possibilità per ricominciare. Ed è quello che avviene qui, dove si apprende un mestiere e si facilita il reinserimento sociale. “‘Cesare deve morire’ è stato un documentario meraviglioso dei fratelli Taviani con protagonisti i detenuti del carcere di Rebibbia che interpretavano Shakespeare diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli” mi racconta Moreno, uno dei frequentatori del Cookery che si è offerto gentilmente di riaccompagnarmi alla metropolitana. “Appena torno a casa cercherò di vederlo, vado a nutrire anche l’anima” gli rispondo. Tangentopoli vista da dentro di Marco Imarisio Corriere della Sera, 16 febbraio 2022 Il libro di Goffredo Buccini, “Il tempo delle mani pulite”, sarà in edicola a partire dal 17 febbraio con il “Corriere della Sera” al prezzo di 12 euro. Il libro è realizzato in collaborazione con Laterza. Le speranze e gli eccessi dell’inchiesta giudiziaria che sconvolse il Paese: giovedì 17 febbraio con il quotidiano il saggio sulla stagione in cui finì alla sbarra un’intera classe dirigente. Siamo tutti reduci di qualcosa. E non c’è nulla di male. Abbiamo tutti una esperienza, lavorativa o di vita, e quasi sempre i due aspetti si sovrappongono, che ha in qualche modo definito quel che siamo, che ci ha segnato più di ogni altra vicenda. Goffredo Buccini, oggi editorialista e inviato del “Corriere”, è stato un giovane redattore che all’inizio degli anni Novanta entrava nel palazzo di giustizia di Milano, intimidito dai suoi marmi razionalisti e dall’autorevolezza di colleghi più esperti di lui, convinti che la cronaca giudiziaria fosse ormai finita, non era più quella di una volta. Non sapevano di essere sull’orlo del vulcano. E ben presto la politica italiana e la società italiana sarebbero state travolte dalla sua esplosione. Non potevano immaginare che ben presto sarebbe cominciato un tempo nuovo, quello delle Mani pulite. Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. Così la pensava Buccini in quegli anni, a dire il vero così la pensavamo tutti. Per chi cominciava a fare questo mestiere, e stava alla finestra, quella inchiesta e quel che stava succedendo, era tutto ciò a cui si poteva aspirare. La speranza di cambiare un mondo con i propri articoli, di redimere il proprio Paese dai suoi vizi endemici, si è rivelata una illusione. Poi venne la Seconda Repubblica e ora siamo nella Terza, e insomma, non rimane poi molto di quella stagione così aspra, se non una discussione ormai trentennale su quel che avrebbe potuto essere, e sugli errori e gli eccessi che lo hanno impedito. Ma il reduce Buccini non fa certo del reducismo, ai miei tempi era tutto più importante, eravamo tutti più bravi. Anche perché, a differenza di altri, lui è andato avanti, ha compiuto altri viaggi, altre esperienze, ha continuato a studiare. Proprio per questo, “Il tempo delle mani pulite” (1992-1994) non è soltanto un libro di ricostruzione, di memoria e di riflessione su quella esperienza così importante. È anche un romanzo di formazione, è vita vissuta, elaborata con gli occhi di oggi, perché nessuno dovrebbe mai essere uguale al sé stesso giovane. Si cambia, si cresce, si diventa più consapevoli, così dovrebbe essere. Anche chi ha trascorso gli ultimi trent’anni su Marte e non conosce Mani pulite dovrebbe leggere questo libro. Perché dentro ci sono tante altre cose. C’è quel rito così desueto in una società bloccata come la nostra, il passaggio del testimone tra diverse generazioni di cronisti, c’è la Milano degli anni Ottanta, forse da bere ma così orgogliosa di quel che era, fino a sconfinare nella presunzione, nel senso di impunità delle sue principali figure. C’è un percorso personale, raccontato senza sconti a sé stesso, con il quale è possibile immedesimarsi a prescindere dal proprio mestiere, con quella immagine del Duomo nella nebbia che per Buccini “è un ricordo di libertà, e di possibilità” che lo accompagna nei suoi primi anni, e chi non l’ha provata quella sensazione di Milano come terra promessa, che in qualche modo anche se non ci sei nato ti riconosce, come cantava Giorgio Faletti. E poi, certo, Il tempo delle mani pulite è un bellissimo libro sul giornalismo. Sul senso di questo mestiere. Sulle scelte estreme che bisogna fare nel giro di dieci minuti, sulla fatica che ci vuole, per tirare fuori una notizia, scriverla, impaginarla. E subito pubblicarla, perché il frigorifero che le tiene al fresco consentendo di soppesarle e farle maturare non è stato ancora inventato. Quando, di preciso, abbiamo cominciato a pensare che “le carte” fossero l’unico prisma possibile per interpretare la realtà? Chi mette in circolo atti di procedimenti ancora aperti, brani di intercettazioni? Se ne discute da sempre. Anzi, da allora. Buccini lo sa, e lo racconta con episodi reali e senza fare teorie, come è cambiato il modo di fare cronaca e quali siano le conseguenze che ancora oggi paghiamo. Perché c’era quando tutto questo è cominciato, perché ha vissuto quell’epoca da protagonista, facendola coincidere per altri due anni con la sua vita, senza staccare, senza mai dormire tranquillo, con la paura del buco, la notizia mancante, sempre a ronzare nella testa. L’opera che adesso viene pubblicata con questo giornale ha già fatto molto discutere, perché non si tratta di memorialistica, ma di una ricostruzione dei fatti che tiene conto di quel che sappiamo oggi, e di quel che siamo diventati. Buccini fa rivivere un’epoca che non considera più gloriosa come pensava allora. L’indignazione per quelle tangenti, per un malcostume noto a tutti e del quale nessuno parlava, era nell’aria. E non fu un bel sentimento collettivo. Produsse senso di onnipotenza nei magistrati, negli indagati paura di essere arrestati e messi alla pubblica gogna, con la confessione come unica via di uscita. Il popolo applaude, in Parlamento sventola il cappio. I giornalisti di Mani pulite si sentono supereroi del fumetto che loro stesso contribuiscono a creare. Tempo per riflettere, non ce n’è, e in fondo nessuno vuole farlo. Ci sono invece i reati, dettaglio che troppo spesso oggi si tende a scordare, nell’autodafé del senno di poi. Buccini adotta la giusta distanza che all’epoca era oggettivamente impossibile mantenere. E nel farlo, scrive un libro al tempo stesso intimo e di interesse pubblico, che ci aiuta a capire davvero l’essenza di quel biennio così cruciale. E cosa ha significato, per tutti noi. Referendum Eutanasia, la Consulta boccia il quesito di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 16 febbraio 2022 Fine vita, la Corte Costituzionale ha giudicato inammissibile il quesito referendario. L’Associazione Luca Coscioni, promotrice del referendum, aveva raccolto un milione e 200 mila firme. Marco Cappato: “Brutta notizia per la democrazia”. La Corte Costituzionale ha respinto il referendum sull’eutanasia legale. La Consulta ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mirava, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili. Il quesito del referendum prevedeva l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale (quello che disciplina il reato di omicidio del consenziente) cosa che avrebbe comportato l’introduzione dell’eutanasia legale. Il comitato promosso dall’associazione Luca Coscioni per questo referendum aveva raccolto oltre 1 milione e 200 mila firme, tra fisiche ed elettroniche. Per Marco Cappato, dell’associazione Luca Coscioni, la decisione della Corte è “una brutta notizia” per “coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo” e “per la democrazia”. “Proseguiremo con altri strumenti. Come con Piergiorgio Welby e Dj Fabo. Andremo avanti con la disobbedienza civile, faremo ricorsi”, aggiunge Cappato, che poi chiosa:”Eutanasia legale contro eutanasia clandestina”. Secondo quanto previsto dal referendum, per ottenere la legalizzazione dell’eutanasia si sarebbe passati attraverso la depenalizzazione parziale dell’omicidio del consenziente, con esclusione di casi ben definiti. Ovvero in caso di consenso dato da persona minore degli anni diciotto, da persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione oppure carpito con inganno. Tutti questi casi avrebbero continuato ad essere puniti come omicidi dolosi. Ma, come detto, la Consulta non ha giudicato ammissibile il quesito. La Corte Costituzionale dovrà ora esprimersi su una serie di altri quesiti, il principale dei quali riguarda la legalizzazione del consumo di cannabis; gli altri vertono su temi legati alla giustizia. Se i giudici dovessero ammettere questi referendum gli italiani saranno chiamati alle urne in un periodo compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. Prudenza etica e riforme civili. Dopo il no della Consulta sull’eutanasia di Stefano Folli La Repubblica, 16 febbraio 2022 Il più carico di implicazioni etiche, il più difficile da decifrare riducendolo a un “sì” o un “no”, era il referendum sull’eutanasia legale, il primo sul quale la Corte si è pronunciata. Il fatto che non lo abbia ammesso non autorizza a pensare che la stessa sorte toccherà anche agli altri nelle prossime ore o nei prossimi giorni. Come è logico, non c’è alcun nesso diretto tra questo primo quesito, l’altro sulla cannabis e soprattutto la massa critica dei sei interrogativi sul sistema giudiziario. Il tema eutanasia è irricevibile per ragioni subito chiarite dai giudici: mancherebbe, se il quesito fosse approvato, una sufficiente tutela della vita umana e le persone “deboli e vulnerabili” sarebbero le più esposte. Come dire che il loro consenso al “fine vita” potrebbe essere estorto o magari nemmeno richiesto. S’intende che la pronuncia della Corte sta suscitando polemiche anche aspre, ma lo stesso sarebbe successo a parti invertite. Ora esultano gli ambienti cattolici, mentre non sanno nascondere la delusione i radicali che propugnano da anni il diritto a morire. Eppure non è strano che la Consulta abbia rigettato un tema tanto controverso. In un certo senso è come se dicesse tra le righe che il senso comune non è ancora pronto per accogliere un’innovazione così profonda del costume e della morale. Per cui il prezzo sarebbe pagato non da un’élite informata e consapevole, bensì da chi è meno in grado di discernere ed è più soggetto a subire pressioni psicologiche. È una tesi su cui ci si dividerà a lungo, ma era prevedibile che la Corte sul punto specifico scegliesse la linea della prudenza. Peraltro il filo che unisce tra loro gli altri referendum, soprattutto quelli sulla giustizia, non si è spezzato. È un filo che non riguarda il merito delle questioni, bensì le parole pronunciate di recente dal neo presidente Giuliano Amato. Due frasi rivelatrici di come egli intende esercitare il suo mandato. La prima: “Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile, il voto popolare”. La seconda: “I referendum sono una cosa molto seria e bisogna evitare di cercare a ogni costo il pelo nell’uovo per buttarli nel cestino”. Difficile essere più chiari nell’attuale momento storico. Amato non vuole essere ricordato come il presidente della Corte che ha contribuito a ingessare ancora di più un sistema che solo nella paralisi conservatrice, in cui le varie corporazioni si sostengono l’un l’altra, riesce a difendere se stesso. Se si vota, decide il popolo. E il popolo è chiamato a decidere - attraverso uno strumento costituzionale - per la semplice ragione che il Parlamento per troppi anni è rimasto inerte. Come ha scritto su questo giornale Francesco Merlo, “solo il referendum in Italia fa volare le riforme impossibili”. Non sappiamo ancora se i quesiti sulla giustizia saranno ammessi. Gli indizi lasciano pensare che lo saranno, vedremo se tutti o una parte. Di sicuro certi punti cruciali scuotono l’albero del rapporto sempre più opaco tra politica e giustizia. Lo dimostra tra l’altro lo scontro tra la magistratura e Matteo Renzi, prima con la querela annunciata dal senatore contro i pm dell’inchiesta sul finanziamento illecito, poi con una vecchia lettera (non spedita) del padre al figlio allegata agli atti e quindi resa pubblica. Nessuno stupore se i referendum sulla giustizia determineranno un contraccolpo trasversale nelle forze politiche i cui esiti saranno destabilizzanti. Adesso l’eutanasia sarà clandestina di Luigi Manconi La Stampa, 16 febbraio 2022 La sentenza della Corte Costituzionale, per la vecchia e immarcescibile “eterogenesi dei fini” certamente non voluta dai membri della Consulta, produrrà, pressoché fatalmente, l’effetto di incentivare l’eutanasia clandestina, quella assai diffusa nella “zona grigia” tra pietà umana e interessi inconfessabili, tra atteggiamento compassionevole e abbandono terapeutico. Perché questa è la realtà molto spesso taciuta o rimossa: l’eutanasia viene praticata con notevole frequenza nell’oscurità delle corsie degli ospedali, nella riservatezza delle camere da letto e nel clima equivoco e complice delle residenze per anziani. E può manifestarsi nel gesto doloroso di un uomo, pur dotato di risorse e privilegi, come Mario Monicelli, che si lascia cadere da una finestra del quinto piano di una clinica romana; o nell’atto notturno di chi priva del sostegno vitale un malato terminale. E, invece, l’eventuale esito positivo del referendum avrebbe potuto sortire l’effetto di indurre, infine, a legiferare: a normare, cioè, la materia del fine vita, fissando limiti e vincoli, condizioni e deroghe. Oltretutto, la pronuncia di inammissibilità offrirà un potente pretesto, quasi ne avesse bisogno, a un ceto politico pusillanime per rinviare, differire e procrastinare. Il risultato è la conferma di un vuoto legislativo, nel quale si riprodurranno illegalità e sofferenza, insensata ostinazione terapeutica e crudele prolungamento artificiale di vite ormai svuotate di significato e di dignità. Va detto, inoltre, che la Corte Costituzionale, nel mentre è chiamata a formulare un giudizio sulla ammissibilità del referendum, sembra entrare pienamente nel merito dello stesso, come si deduce dalla lettura del suo comunicato. Vi si afferma, infatti, che in caso di abrogazione, anche parziale, dell’articolo 579 del codice penale, “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. Qui si possono sollevare due dubbi. Il primo è che, se pure così fosse, quello sarebbe eventualmente la conseguenza di un referendum che ottenesse la maggioranza dei consensi. Ma la Corte è chiamata a valutare se siano state rispettate le condizioni che rendono il referendum ammissibile, e non a sindacare presunti vizi di incostituzionalità della futura normativa di risulta. E l’articolo 75 indica tre soli motivi espliciti di esclusione, che qui non ricorrono in alcun modo. Certo, nel corso degli anni la giurisprudenza della Consulta ha aggiunto limitazioni legate a criteri di omogeneità e semplicità, ragionevolezza e idoneità a conseguire il fine perseguito. Requisiti rispettati dal quesito sull’omicidio del consenziente, ma che si prestano a interpretazioni più ampie e discrezionali, alle quali evidentemente i giudici della Consulta hanno fatto ricorso per decretarne l’inammissibilità. Ed ecco il secondo, e ancora più robusto, dubbio. Il quesito e l’eventuale sua approvazione non avrebbero in alcun modo cancellato e nemmeno intaccato o incrinato quel comma tre dello stesso articolo 579 del codice penale che considera comunque omicidio quello attuato nei confronti del consenziente che sia “persona minore degli anni diciotto, inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti”. O, ancora, l’omicidio di persona il cui consenso sia stato “estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. Come si vede, anche nel caso di vittoria del sì, quelle “persone deboli e vulnerabili” di cui parla il comunicato della Consulta sarebbero state tutelate e sottratte a una fine non voluta. Mentre, dopo la sentenza della Corte, non siamo affatto sicuri che, nel perpetuarsi di una colpevole carenza legislativa e nell’impossibilità di ricorrere al voto popolare, quelle stesse persone fragili saranno, d’ora in poi, maggiormente protette. Autorità di Stato e libera volontà di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 16 febbraio 2022 La inammissibilità disposta dalla Corte costituzionale del referendum abrogativo riguardante l’articolo 579 del Codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente, provoca rammarico, ma non molta sorpresa. Il quesito referendario lasciava applicabili le norme sull’omicidio nei soli casi in cui la libertà e consapevolezza del consenso sia viziata, perché si tratta di minore di diciotto anni, ovvero di un infermo di mente, o in condizioni di deficienza psichica, oppure di una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia, suggestione, o carpito con l’inganno. La Corte aveva posto le premesse della dichiarazione di inammissibilità nella sua sentenza del 2019, relativa alla diversa, ma strettamente legata punizione di chi aiuta altri a suicidarsi. Si trattava di una ipotesi confinante con quella dell’omicidio del consenziente, nella quale la Corte aveva già preso posizione, enunciando condizioni per ammettere che la volontà di una persona di porre fine alla propria vita incontri la disponibilità di altri a fornire il proprio aiuto. I valori in campo nel discutere dell’omicidio del consenziente sono gli stessi che pone l’aiuto al suicidio: la differenza tra i due casi sta nel solo fatto che l’atto finale e letale sia compiuto dal soggetto che ha deciso di morire oppure dall’altro soggetto che lo aiuta. Se l’aiuto non è ammesso, non prevale la vita - come si pretende che sia -, ma intervengono forme atroci di suicidio oppure, per i soggetti impossibilitati a uccidersi, il perdurare di una vita intollerabile. In ogni caso si pongono nello stesso modo le questioni che riguardano il diritto alla vita, il diritto a porvi fine, le cautele necessarie ad assicurare che la decisione di morire sia libera, consapevole, persistente. Non sorprende allora che una Corte che aveva non molto tempo prima imposto una serie di limiti e condizioni per ammettere la non punibilità dell’aiuto al suicidio, abbia ritenuto di impedire la possibile approvazione del quesito referendario. Con essa sarebbe rimasta in vigore una norma che puniva come omicidio il solo caso in cui la volontà della persona sia viziata, senza considerare i limiti e le condizioni posti dalla Corte. Con la sentenza sull’aiuto al suicidio, la Corte - a ciò indotta dall’inerzia del Parlamento - ne aveva stabilito la non punibilità a condizione che chi chiede e ottiene quell’aiuto sia affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che trova assolutamente intollerabili, sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale e sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La Corte aveva così ritagliato una specifica e limitata situazione, al di fuori della quale l’autodeterminazione della persona non viene riconosciuta. Alla volontà libera della persona che decide di morire, la Corte ha sostituito l’autorità dello Stato. In tal modo essa ha adottato una posizione autoritaria, rifiutando quella propria di una società liberale, rispettosa della dignità delle persone, di cui l’autodeterminazione è una componente. È questo che si trae dalla Convenzione europea dei diritti umani (che vincola anche l’Italia); questo hanno ritenuto due Corti costituzionali come quella tedesca e quella austriaca, argomentando da sistemi costituzionali del tutto analoghi, sul punto, a quello italiano. In particolare, il Tribunale costituzionale tedesco, sulla base della intangibilità della dignità umana e della inviolabilità della libertà della persona, con sacrosante parole ha affermato che da tali principi costituzionali deriva il diritto di scegliere in autonomia di porre termine alla propria vita con una decisione informata e ponderata. E ha aggiunto che da ciò segue il diritto di controllare la propria vita nel modo scelto e di non essere costretti a forme di vita non conciliabili con la propria concezione di sé e della propria identità personale. E l’autonomia della persona non è limitata a situazioni come quella di malattia incurabile, né si applica solo a certi stadi della vita o di una malattia. Secondo il Tribunale costituzionale tedesco, la decisione della persona non può essere valutata imponendo valori di carattere generale, dogmi religiosi, norme sociali, poiché la sua decisione deve esser rispettata come frutto di autodeterminazione. Fondamentale, sia per l’aiuto al suicidio, che per l’omicidio del consenziente è la volontà della persona che chiede di morire. La definizione di una situazione oggettiva che escluda la punibilità di chi aiuta taluno a porre fine alla propria vita, finisce con il mettere in ombra la grave, difficile, essenziale questione della volontà di chi vuol morire. Le norme penali devono essere accompagnate da disposizioni e misure che accertino la “qualità” della volontà manifestata dalla persona. È necessario offrire sempre la possibilità di cure palliative, ma non basta. Necessaria è l’offerta di assistenza psicologica e sociale, che possano rappresentare alternative accettate dalla persona, solo così veramente libera. Dal Parlamento infine si attende una completa disciplina rispettosa della autonomia delle persone. Fine vita, la rabbia e la delusione dopo 40 anni di battaglie per l’eutanasia legale di Maria Novella De Luca La Repubblica, 16 febbraio 2022 Le reazioni dei sostenitori: il fronte referendario annuncia che continuerà a combattere con altri strumenti. La prima raccolta di firme nel 1979, poi la proposta Fortuna. La voce è accorata, la delusione è forte. “Questa è una brutta notizia per coloro che soffrono e dovranno soffrire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia”. Sono le venti di ieri sera e Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, dopo la lunghissima giornata di attesa dentro e fuori il palazzo della Consulta, le cui finestre guardano il Quirinale, mostra tutta la sua delusione. “Sull’eutanasia proseguiremo con altri strumenti. Come con Welby e Dj Fabio. Andremo avanti con disobbedienza civile, faremo ricorsi. Eutanasia legale contro eutanasia clandestina”. Di nuovo, ancora, a oltre 40 anni dalla prima raccolta di firme del 1979, dal primo testo depositato in Parlamento nel 1984 dal socialista Loris Fortuna, la parola eutanasia, cioè “dolce morte”, resta tabù. Inammissibile per la politica, inammissibile per la Chiesa. Secco e amaro il commento di Beppino Englaro, il papà di Eluana, che soltanto dopo 5.750 giorni di battaglie ottenne la possibilità di lasciar morire sua figlia, in coma da 17 anni. “Se pensate a quanto ho dovuto lottare perché alla mia Eluana fosse concesso il diritto costituzionale di rinunciare alle cure, se pensate al calvario che la mia famiglia ha dovuto subire, non meravigliatevi se questo Stato oggi boccia un diritto ancor più radicale, cioè il referendum sull’eutanasia. Il tema universale della vita e della morte fa ancora paura. I cambiamenti culturali sono lenti, ma una risposta la politica la deve dare, i tribunali stanno già autorizzando il suicidio assistito, quanto a lungo possono ignorare la voce delle persone?”. Tocca il cuore del problema Beppino Englaro, i diritti civili, nella latitanza ingessata del Parlamento, passano sempre più per i tribunali. Mario e Antonio, ad esempio, i due pazienti marchigiani, entrambi tetraplegici, che stanno ottenendo il suicidio assistito in Italia per via giudiziaria. Dietro di loro una schiera di volti di chi ha utilizzato il proprio corpo perché i malati terminali potessero avere diritto di scelta. Bisogna tornare al coraggio di un giovane uomo, Luca Coscioni, presidente dei radicali italiani, che fece della sua malattia, la Sclerosi laterale amiotrofica, una bandiera per il diritto alle cure e morì a 39 anni dopo aver rinunciato alla tracheotomia. E mentre Beppino Englaro lottava contro tutti gli organismi dello Stato perché a Eluana fosse legalmente concesso di morire, Piergiorgio Welby, affetto da distrofia muscolare, inviò al presidente Giorgio Napolitano una lettera in cui chiedeva pubblicamente l’eutanasia. Assistito con infinito amore dalla moglie Mina, Piergiorgio portò avanti una lotta titanica, diventando il simbolo di quella battaglia di libertà. Il 16 dicembre del 2006 il tribunale di Roma respinse la sua richiesta di porre fine all’accanimento terapeutico. Welby chiese allora al medico Mario Riccio, con un atto di disobbedienza civile, di porre fine al suo calvario. Riccio staccò il respiratore a Welby sotto sedazione, venendo poi assolto dall’accusa di omicidio del consenziente. Adesso le parole di Mina sono una sferzata ai giudici costituzionali: “Mi è arrivata una stilettata al cuore. Sono affranta. Non desisto, utilizzerò il mio corpo perché venga approvata una buona legge sull’eutanasia, dovessi dormire davanti al Parlamento. Oggi Piergiorgio sarebbe triste, per lui e per tutti i malati che hanno sofferenze disumane continuerò a lottare”. Nel cammino accidentato del fine vita, c’è la storia tragica di Giovanni Nuvoli, malato di Sla, chiedeva il distacco del respiratore, il tribunale di Sassari respinse la richiesta, i carabinieri bloccarono il medico che voleva aiutarlo. Nuvoli si lasciò morire di fame e sete. Era il 2007. Eluana Englaro sarebbe morta nel 2009, con la sedazione profonda, dopo la sentenza della Cassazione che autorizzò il blocco della nutrizione e idratazione artificiale. Soltanto nel 2017 però il Parlamento ha approvato la legge sul biotestamento, anticipata dalla lunga guerra di papà Englaro. Poi Dj Fabo. Nel 2017 Fabiano Antoniani, cieco e tetraplegico dopo un incidente stradale, scrive a Sergio Mattarella chiedendo di poter morire in Italia. Invano. Fu accompagnato in Svizzera da Marco Cappato, poi assolto dall’accusa di istigazione al suicidio, con la storica sentenza della Consulta del 2019 che ha depenalizzato il suicidio assistito. Quella strada dell’addio che percorreranno, nelle Marche, prima Mario e poi Antonio. Eutanasia e suicidio assistito: perché serve una legge e come funziona in Europa di Milena Gabanelli e Francesco Tortora Corriere della Sera, 16 febbraio 2022 La Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia, ma il problema resta. Se una persona volesse porre fine alla propria vita perché colpita da malattia terminale con dolori atroci e nessuna cura disponibile, cosa le consente di fare la legge? In Italia dal 2017 è legale la sospensione delle cure (eutanasia passiva), che permette al malato di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, alimentazione e idratazione comprese. Tuttavia se il paziente fosse ridotto irreversibilmente allo stato vegetativo, dovrebbe aver già espresso le sue volontà attraverso un biotestamento. Significa che avrebbe dovuto pensarci prima. Sono almeno 15 anni che il tema del fine vita spacca l’opinione pubblica e le forze politiche. Le divisioni sono riemerse lo scorso 9 febbraio quando il disegno di legge sul suicidio assistito è tornato alla Camera dopo un esame di due anni nelle Commissioni Giustizia e Affari sociali, e sono destinate a riaccendersi con la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva promosso dall’Associazione Luca Coscioni. Le tre strade del fine vita - Ovunque nel mondo sia stata definita una legge chiara sul fine vita, le condizioni del paziente per usufruirne sono queste: invalidità irreversibile o malattia terminale, dolori insopportabili, nessuna cura disponibile e sempre il consenso del malato. Oltre all’eutanasia passiva che è legale o tollerata in quasi tutti i Paesi europei, ci sono altre due strade: l’eutanasia attiva e il suicidio assistito. La prima è praticata da un medico, di solito attraverso iniezione endovenosa. Secondo l’attuale legislazione italiana questa modalità è assimilabile all’omicidio volontario. Nel suicidio assistito è invece il malato, con l’assistenza del medico, a compiere autonomamente l’ultimo atto che porta alla morte. Dove sono legali eutanasia attiva e suicidio assistito - In Europa sono legali in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Spagna. Il primo Paese a muoversi è stato l’Olanda dove entrambe le vie, tollerate fin dal 1985, sono state legalizzate completamente nel 2002. Possono ricorrervi anche i minori, ma sotto i 16 anni c’è bisogno del consenso dei genitori. In 18 anni i casi di eutanasia e suicidio assistito sono stati 75.360. Anche il Belgio ha legalizzato le due pratiche nel 2002. Dal 2014 l’eutanasia è stata estesa a bambini e minori. In 18 anni vi hanno fatto ricorso 24.520 malati. La Spagna ha reso legale l’eutanasia dallo scorso giugno. Prima del varo della legge, aiutare qualcuno a morire in Spagna era potenzialmente punibile con una pena detentiva fino a 10 anni. Al di fuori dei confini europei, eutanasia e suicidio assistito sono legali in Canada, Colombia, Nuova Zelanda e in alcuni stati australiani (Queensland, Tasmania, Victoria, South Australia e Western Australia). In Svizzera, Austria, Germania e in undici stati Usa (California, Colorado, Hawaii, Montana, Maine, New Jersey, Nuovo Messico, Oregon, Washington, Vermont e District of Columbia) è consentito il solo suicidio assistito. In Germania, dove resiste la memoria delle 300 mila vittime con disabilità mentali e fisiche dei medici nazisti, non è stata ancora formulata una legge, ma la Corte Costituzionale federale ha stabilito nel febbraio 2020 la legittimità della pratica in determinate circostanze. Il caso Svizzera - La Svizzera ha legalizzato il suicidio assistito nel l 1942 e la legge tollera la pratica quando i pazienti agiscono in autonomia, e chi li aiuta non ha alcun interesse nella loro morte. I suicidi assistiti rappresentano circa l’1,5% dei 67 mila decessi registrati in media ogni anno. A differenza di ciò che accade altrove, le cliniche della Confederazione elvetica offrono il servizio anche ai cittadini stranieri. La più grande organizzazione per il suicidio assistito in Svizzera si chiama Exit, è stata fondata nel 1982 e aiuta soltanto i residenti nel Paese: oltre mille persone ogni anno ricevono assistenza e quasi tutte (98% nel 2019) scelgono di morire a casa propria o nella casa di cura in cui vivono. Nel 2020 circa 1.282 malati gravi hanno utilizzato i servizi dell’organizzazione, 68 in più rispetto al 2019. L’età media era di 78,7 anni, il 59% era composto da donne. Dignitas, la seconda più grande organizzazione per il suicidio assistito, accetta anche stranieri non residenti (costo medio 10 mila euro). Come Exit, offre i propri servizi solo a persone con malattie gravi, che soffrono dolori “insopportabili” oppure che hanno una menomazione insostenibile. Dal 1998 al 2020 Dignitas ha portato a termine 3.248 suicidi assistiti. La maggior parte erano tedeschi (1.406), britannici (475), francesi (405), svizzeri (200) e italiani (159). Nel 2020 i suicidi assistiti sono stati 221, e 14 malati erano italiani. Il suicidio assistito in Italia - Negli ultimi sei anni gli italiani che hanno contattato l’Associazione Luca Coscioni per avere informazioni sul fine vita sono stati in totale 1.725. L’attuale legge sul suicidio assistito in discussione alla Camera è appoggiata da Pd, Leu, Italia viva e Cinque Stelle: composta di 8 articoli, nasce da una proposta di iniziativa popolare depositata nel 2013 e più volte riformulata accogliendo anche modifiche suggerite da partiti di destra. Il disegno di legge però continua a dividere il Parlamento e trova l’opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Prevede la possibilità per il malato di autosomministrarsi la sostanza letale fornita da un medico che non è punibile. Il testo include anche l’obiezione di coscienza dei medici e un precedente percorso di cure palliative da parte del paziente per alleviare le sofferenze. La proposta di legge è arrivata per la prima volta in Parlamento a dicembre, tre anni dopo l’invito della Corte Costituzionale a legiferare sul tema e due anni dopo la sentenza 242 con la quale la Consulta ha riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito per persone capaci di intendere e volere, affette da malattie irreversibili che procurano sofferenze insopportabili, tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. Finora nulla però è riuscito finora a sbloccare l’azione parlamentare, e c’è già chi teme che il disegno di legge dopo tanto impegno possa essere affondato come il decreto Zan. Il referendum - Ad accelerare i tempi per una legge sul tema poteva essere ancora l’intervento della Corte Costituzionale che però martedì 15 febbraio ha ritenuto inammissibile il referendum per l’abrogazione parziale dell’art. 579 del Codice penale (omicidio del consenziente) e dunque per l’eutanasia attiva. La Consulta ha bocciato il quesito perché “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. La raccolta firme a favore del referendum era stata sottoscritta da oltre 1,2 milioni di cittadini. Analizzando i dati sulle firme digitali pubblicati dall’Associazione Coscioni si scopre che ad approvare il referendum erano stati 221 mila donne e 171 mila uomini e i più attivi risultavano i giovani con età tra i 21 e i 30 anni (154.360 firme). Decisamente inferiori le firme dei più anziani, probabilmente anche per una minore propensione all’uso del digitale. I promotori del referendum sostenevano che la depenalizzazione dell’eutanasia attiva avrebbe permesso di non creare discriminazioni tra malati e di accompagnare verso il fine vita anche quelle persone sofferenti che non possono ricorrere ad aiuti esterni. I critici invece temevano che l’approvazione di una legge sull’eutanasia avrebbe legittimato in tutto e per tutto l’omicidio del consenziente, creando le condizioni per “liberarsi del malato” violando il principio della sacralità della vita. Dopo la bocciatura della Corte Costituzionale, appare sempre più necessaria una legge che delimiti con chiarezza confini e responsabilità, affinché non si ripetano situazioni come quella di Mario, il 43enne tetraplegico che, pur avendo ottenuto il permesso di ricorrere al suicidio assistito, è rimasto ostaggio di ricorsi e ordinanze contrapposte in attesa che una commissione medica individuasse il farmaco da utilizzare. Un calvario durato 18 mesi. Alternanza scuola-lavoro. Non è un Paese per aspiranti martiri di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 16 febbraio 2022 Morire di studio, morire di lavoro. Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci. Due studenti che non erano a scuola, e non erano lavoratori, morti su un lavoro che non era un lavoro nelle ultime tre settimane. Questo atroce paradosso è uno degli esiti della trasformazione della scuola in un’istituzione del capitale disumano. I penosi balbettamenti davanti a queste tragedie intollerabili insistono su una distinzione pensata per confondere il dibattito e neutralizzare la vibrante protesta degli studenti che vogliono abolire l’alternanza scuola-lavoro. Gli stessi chiedono una radicale trasformazione della formazione professionale che prevede il ripensamento di un intero sistema, a cominciare dal mercato del lavoro. Nulla di meno, perché altrimenti la formazione professionale resterebbe uno strumento che ha limitato in maniera importante la componente culturale e quella laboratoriale interna e ha dato sempre più spazio alla formazione del precariato, all’insicurezza e alla violenza in azienda e nella società. E invece sì ripete, a cominciare dal ministro dell’istruzione Bianchi e da quello del lavoro Orlando, che la formazione professionale ispirata a una malintesa subalternità al sistema tedesco non è l’alternanza scuola-lavoro. Ma buongiorno! Chi critica la scuola del capitale disumano non ha fatto questa confusione. Semmai l’hanno fatta loro o i media, e non solo per esigenze di sintesi. Oggi si usa questa espressione e la si intende come la parte per il tutto. La confusione, fatta ad arte o meno, può essere dunque intesa anche come un sintomo. Quando ci si riferisce all’”alternanza scuola lavoro (ribattezzata con un acronimo che suona come uno sputo: Pcto, cioè “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento”) ci si può riferire alle politiche che hanno mutato l’istruzione nell’obbedienza a un principio morale funzionale all’occupazione precarizzata. L’alternanza scuola lavoro, ovvero l’insieme dei progetti, degli stage e dei tirocini in tutte le scuole è la traduzione di un disegno che trasforma gli studenti dai 16 ai 19 anni in occupabili. Questo concetto, ricorrente oggi nelle teorie neoliberali del mercato del lavoro, è stato adattato agli studenti. Oggi è il principio di soggettivazione al quale sono disciplinati in un sistema che trasforma la forza lavoro in potenza in manodopera disponibile a farsi concava e convessa in impieghi accessori, occasionali, servili - i “lavori di merda” (Bullshit jobs) di cui parlava David Graeber - caratteristici di un’economia terziarizzata povera. Agli studenti questa realtà è nota. La vivono i padri, le madri, le sorelle e i fratelli, milioni di persone. Per questa ragione si oppongono a un mondo orrendo che non considerano giunto alla fine come ritengono gli esteti dell’apocalisse, né irreversibile come auspicano gli evangelisti del realismo capitalista. Senza contare che trovano intollerabile il fatto che esistano adulti che pretendono di manipolare la loro esistenza e guidarla verso un’attività che impone un’educazione al rischio totale. Questa è la prerogativa della cittadinanza attuale dove si può morire non solo per lavoro, ma anche per studio. C’è da auspicare che quella degli studenti diventi un’insurrezione. Che i loro docenti, i presidi, il personale amministrativo e i genitori si costituiscano in forza di interposizione contro chi considera il rischio della morte per lavoro e per studio come un sacrificio in nome della “crescita”. E, così facendo, chiariscano un fatto che dovrebbe essere evidente, eppure si fa fatica a comprendere. In queste condizioni non esiste un’alternanza scuola-lavoro “etica” né l’obbligo a farla comunque e a ogni costo in nome dell’occupabilità. A chi invece disprezza l’esigenza di una scuola che forma soggettività autonome, critiche e capaci di resistere con un “No” ai ricatti dello Stato e delle imprese andrebbe ricordato che rischia di giustificare un modello che contempla anche la possibilità della morte. Questo non è un paese per aspiranti martiri. Droghe e lockdown. Oltre le false profezie di Susanna Ronconi Il Manifesto, 16 febbraio 2022 Quando si fa ricerca non si smette mai di chiedersi a cosa serva farla, e come far sì che possa essere spendibile, in qualche modo utile alle persone. Domande pressanti nel campo dei consumi di droghe, dove le litanie dominanti - devianza, malattia, droga-demonio, una-volta-dipendente-per sempre-dipendente, dalla cannabis all’eroina e via elencando - segnano un dibattito pubblico che ripete, con una sorprendente perseveranza, immagini potenti, solide e stolide, destinate a costruire un senso comune che descrive le droghe (illegali) come un invincibile potere assoluto, ma anche e purtroppo a orientare le politiche e il consenso attorno ad esse. Così accade che, di default, a inizio pandemia scattino profezie di catastrofe: consumi di droghe alle stelle, viraggi pericolosi di ogni sorta, “basta farsi” di qualcosa, aumento delle overdosi, picchi di microcriminalità perché serve più denaro per affogare in un uso compulsivo l’impatto della pandemia…. A giudicare dai dati di diverse fonti, nulla di tutto questo è accaduto, in Italia, durante il primo lockdown del 2020: i consumi sono rimasti sostanzialmente stabili, caso mai hanno registrato in media una flessione, soprattutto per cocaina, stimolanti e eroina, nonostante il mercato illegale non abbia mai chiuso; c’è stato un aumento, per altro non eclatante, di uso di alcool, ma è interessante che, se è aumentato in alcuni casi l’uso quotidiano, non così il binge drinking, cioè l’eccesso e le abbuffate; non c’è stato un picco di overdose; non un allarme microcriminalità droga-correlata. Quando le profezie si sbagliano è perché è sbagliato lo sguardo sul fenomeno su cui vaticinano. La ricerca serve a prospettare uno sguardo diverso, eccentrico rispetto alle profezie infondate, o almeno così dovrebbe essere. Subito dopo il lockdown un gruppo di ricercatori e operatori, professionali e peer, dei servizi di Riduzione del danno hanno condotto - senza un euro di fondi - una ricerca qualitativa, con interviste in profondità raccolte in otto città, per capire come le persone che usano droghe hanno gestito la loro vita e i loro consumi durante il confinamento. La ricerca - La vita e i consumi delle persone che usano droghe durante il primo lockdown - descrive persone, assai diverse per età, genere, esperienze di consumo, sostanze usate, che mettono in atto strategie di controllo e regolazione dei propri consumi, evitano comportamenti di uso compulsivo, limitano rischi e danni sulla base dell’esperienza pregressa e spesso arrivano a diminuire dosaggi e limitare il numero di sostanze usate. Ma soprattutto, persone che, anche quando hanno delle difficoltà, o vivono in strada o hanno alle spalle decenni di uso, esprimono un elevato livello di auto riflessività, consapevolezza e razionalità delle proprie scelte, a cominciare da quelle di una regolazione dell’uso di droghe orientata al minor rischio e a una maggiore funzionalità. Persone che non sono andate spasmodicamente a caccia di qualsivoglia sostanza, come la profezia annunciava. Che parlano dei propri apprendimenti dall’esperienza della pandemia, del futuro, della società in cui viviamo. Che sperimentano le disuguaglianze, e quando sono in difficoltà lo sono più per la perdita del lavoro, per l’isolamento o per non avere un tetto piuttosto che per una molecola-demonio. La catastrofe non c’è stata, ed è solo grazie a loro, alle loro capacità di controllo, a volte in alleanza con i servizi, dove sono rimasti aperti, non certo grazie a un mercato nero imperterrito o a imperterrite disuguaglianze sociali. A cosa serve la ricerca? A non perdere tempo in profezie sbagliate, a smettere di leggere le persone attraverso le droghe e a cominciare a leggere le droghe attraverso le persone: si scoprirà che le droghe si possono gestire e che la guerra non serve. La ricerca è online su fuoriluogo.it/lockdown Migranti. Nasce la prima piattaforma online per mappare i Centri in tutta Italia di Elisa Cornegliani Il Fatto Quotidiano, 16 febbraio 2022 Lo rileva ActionAid, che insieme ad Openpolis ha realizzato il sito Centri d’Italia. L’idea, spiega il responsabile Fabrizio Coresi, nasce dall’esigenza di colmare un vuoto informativo: “Sarebbe necessario che il ministero dell’Interno adottasse uno strumento simile al nostro: senza dati che consentano l’analisi delle precedenti, su quali basi si elaborano le nuove politiche migratorie?” Emergenza, grandi concentrazioni al posto di suddivisioni territoriali, mancanza di programmazione: è la fotografia che racconta la gestione dei migranti in Italia. Si articola seguendo due sentieri. Il primo, ordinario, è il Sai - Sistema di accoglienza e integrazione, ex Sprar ed ex Siproimi, in capo ai Comuni - il secondo passa attraverso i centri di accoglienza straordinaria, Cas. Quest’ultimo è un circuito ritenuto emergenziale, che viene tuttavia impiegato come fosse strutturale. Lo dice un monitoraggio di ActionAid, che a partire dal 2018 ha ricostruito distribuzione, tipologia e dimensione dei centri presenti all’interno dei confini nazionali. Ora il loro lavoro, svolto insieme a Openpolis, è consultabile sulla piattaforma - la prima mai realizzata - Centri d’Italia. “Il nostro obiettivo era riempire un vuoto informativo: i dati su questo tema emergono nel corso di un’unica relazione in previsione ogni anno a fine giugno. Aspettiamo, quindi, che il ministero dell’Interno faccia lo stesso: il terzo settore non può sostituire le istituzioni”, spiega Fabrizio Coresi esperto di migrazione per ActionAid. “Vorremmo che la migrazione non fosse basata sulla strumentalizzazione e sulla propaganda ma fosse portata avanti con l’analisi di dati che ci consenta di capire quale è stato l’impatto delle precedenti politiche migratorie”. I numeri: strutture piccole sacrificate - Al 30 novembre 2021, il 68,34% richiedenti asilo (quasi 7 su 10) risiede nei centri di competenza prefettizia - cioè i Cas - mentre la restante minoranza si trova nel Sai. Questi i termini assoluti, certificati dal ministero dell’Interno - e riportati da ActionAid - verso la fine dello scorso anno: 53.664 persone nei Cas, 25.221 nel Sai e 781 nella prima accoglienza. “Sappiamo che sia per i territori sia per le persone in arrivo la migliore forma di accoglienza è quella micro, svolta cioè in centri di piccola o media dimensione”. E invece si va nella direzione opposta. Ancora qualche dato: fra il 2018 e il 2020 il numero dei centri attivi sul territorio nazionale è sceso del 25,1%, e contestualmente si è registrata una flessione del 40,2% dei posti disponibili. Il tutto, in parte, dovuto alla pandemia di Covid-19 che ha in parte ridotto gli sbarchi: “Ma a essere stati chiusi sono soprattutto i centri di piccole dimensioni (massimo 20 persone). In questo arco di tempo hanno perso quasi 22mila posti”. A fronte dei -20mila delle strutture grandi (dai 51 a 300 ospiti), dei -14mila di quelle medie e, soprattutto, dei -7.133 dei centri molto grandi (più di 300 persone). I Cas grandi, inoltre, registrano un aumento della loro capacità di capienza. Questi numeri, secondo Coresi, vogliono dire due cose: “Non si è approfittato dell’allentamento del ritmo degli sbarchi per avviare una programmazione strutturale sulla migrazione. Al contrario, si individua una spinta verso le grandi concentrazioni. L’opposto di quello che servirebbe”. Conferma arriva dal fatto che nel 2020 le 16 città più popolose, cioè quelle con più di 200mila abitanti, “ospitano il 18,2% delle persone. Due anni prima la percentuale era pari al 14,2%”. In media, si legge sul documento ActionAid, i centri di Roma e Milano sono molto più grandi rispetto al resto del Paese: in particolare a Milano la capienza media delle strutture è circa 10 volte la media nazionale. I centri più piccoli sono gli stessi che registrano anche il maggior taglio ai fondi attribuiti per spese di vitto, alloggio, e servizi necessari per l’integrazione per ogni ospite: - 27%. Servizi, quelli offerti, che sono carenti. Soprattutto nei Cas: “Abbiamo contabilizzato che in un centro di 50 persone un ospite ha a disposizione 12 minuti a settimana di mediazione linguistico - culturale. Il bando della prefettura prevede la garanzia di 10 ore per tutti gli utenti a settimana. Quindi 600 minuti diviso 50 persone = 12. Il tempo a disposizione - ogni sette giorni - per capire cosa ti sta succedendo”. Le politiche migratorie - Due passaggi che si legano a due nomi: Salvini con il decreto sicurezza e l’attuale ministro dell’Interno Lamorgese. “Prima di Salvini, l’accoglienza funzionava così: il migrante arrivava in Italia dalla frontiera sud, a Lampedusa. Qui incontrava una prima modalità di selezione, che suddivideva i migranti economici dai richiedenti asilo. Come sappiamo, questi ultimi sono gli unici che possono accedere a un permesso di soggiorno regolare anche se sono arrivati illegalmente. I migranti economici vengono chiusi nei cpr, rimpatriati o respinti. I secondi invece entrano nel circuito dell’accoglienza, o Cas o Sprar. L’inserimento era arbitrario”. Poi arrivano i cambiamenti apportati con l’attuale leader della Lega: “Alla frontiera sud si ripresenta la stessa suddivisione di cui sopra, ma i richiedenti asilo possono entrare solo nei Cas, che diventano così una tappa obbligatoria (a differenza di prima). Restano lì in attesa che la Commissione territoriale incaricata di giudicare la loro storia si pronunci: se ricevono un diniego devono andarsene, se ottengono lo status di rifugiati vengono trasferiti nel circuito Sprar che ora è Sai. Ma il punto è che nel frattempo restano nei Cas, dove vivono un periodo di sospensione esistenziale che li distrugge. Il percorso di autonomia, fuori da lì, si fa sempre più difficile”. Quindi, l’intervento Lamorgese: “Torniamo almeno in parte all’assetto pre-Salvini. Purtroppo però manteniamo un sistema che rischia di essere discriminatorio e non in grado di accompagnare in maniera efficace all’autonomia. Il Sai mantiene infatti due livelli di servizi: alcuni “essenziali” previsti per i richiedenti asilo, ed altri “verso l’integrazione” riservati ai rifugiati. L’esperienza ormai ventennale del sistema pubblico in capo ai comuni - e la letteratura in materia - ci dicono che la fase iniziale è fondamentale nel prosieguo della vita dei nuovi cittadini. Un’attenzione e un investimento sulla persona che quindi dovrebbe essere messo in atto da subito, senza differenze di status”. Il ruolo dei comuni - I comuni sono a capo dei progetti di accoglienza, ma, fa notare Coresi, “Possono applicare al sistema in modo volontario. Tuttavia, l’articolo 118 della Costituzione assegna ai comuni stessi le funzioni amministrative. Quindi perché l’accoglienza non dovrebbe rientrarci di diritto? Il criterio di volontarietà, al contrario, riduce il numero di comuni interessati. Questo è il problema principale. Se l’obbligatorietà non è una via percorribile, consideriamo l’ipotesi incentivi. In passato è successo: nel 2016 c’era una tantum per ogni migrante accolto che andava alle stesse amministrazioni comunali, per esempio”. Il punto è: andrebbe incrementato il sistema di accoglienza pubblico. “Manca un tavolo programmatico dal 2016. Ci dovrebbe essere una stima dei posti in accoglienza e poi una successiva pianificazione. E delle clausole di salvaguardia: per esempio, il divieto di installare Cas dove è presente la rete Sai. Ma tutto questo non si fa”. Con la piattaforma Centri d’Italia, quindi, propone un monitoraggio che non c’è. Chiude Coresi: “Sarebbe necessario che il ministero adottasse uno strumento simile al nostro: senza dati che consentano l’analisi delle precedenti, su quali basi si elaborano le nuove politiche migratorie?” Stati Uniti. Come la tecnologia di riconoscimento facciale rafforza il razzismo della polizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 febbraio 2022 Il dipartimento di Polizia di New York è da tempo al centro di polemiche per le sue attitudini razziste, rese evidenti dall’elevato numero di perquisizioni ai danni dei cittadini non bianchi. Oggi, una nuova ricerca pubblicata da Amnesty International e dai suoi partner nell’ambito della campagna “Ban the scan”, rivela che gli abitanti di New York che vivono in quartieri dove sono più frequenti le perquisizioni sono anche più esposti all’invadente tecnologia di sorveglianza basata sul riconoscimento facciale. In quartieri come Bronx, Brooklyn e Queens, più è alta la percentuale di abitanti non bianchi e maggiore è la concentrazione di telecamere a circuito chiuso per il riconoscimento facciale. Le conclusioni della ricerca si basano su dati ottenuti da migliaia di volontari del progetto Decode Surveillance NYC, che hanno mappato oltre 25.500 telecamere a circuito chiuso installate a New York. Amnesty International, insieme ad analisti, ha comparato questi dati con le statistiche sulle perquisizioni e con informazioni demografiche. Dal 2016 al 2019 la polizia di New York ha usato la tecnologia di riconoscimento facciale in almeno 22.000 occasioni. I dati sulle perquisizioni disponibili dal 2002 indicano che le comunità nere e latine sono state di gran lunga il bersaglio principale. Poi è successo ancora altro. Durante le manifestazioni del movimento Black Lives Matter del 2020, le persone che hanno preso parte alle proteste di New York sono state esposte a livelli maggiori di tecnologia di riconoscimento facciale. Chi si dirigeva a Washington Square Park dalla più vicina stazione della metropolitana era ripresa dalle telecamere Argus della polizia newyorkese per tutto il tragitto. In contemporanea con la pubblicazione della sua ricerca, Amnesty International ha lanciato un nuovo sito che consente agli utenti di scoprire quanto un percorso pedonale tra due luoghi di New York possa essere esposto alla tecnologia di sorveglianza di massa. Tra i partner che hanno collaborato alla ricerca di Amnesty International figurano Julien Cornebise, Computer Science Department, University College London; BetaNYC, un’organizzazione della società civile che usa dati e tecnologie per chiamare i governi a rendere conto delle loro azioni; e il dottor Damon Wischik, un analista indipendente. Amnesty International chiede un divieto totale sull’uso, sullo sviluppo, sulla produzione, sulla vendita e sull’esportazione di tecnologia di riconoscimento facciale per la sorveglianza di massa sia da parte degli stati che delle imprese private. Svizzera. Volontari reclutati per “testare” il carcere di Zurigo Ovest prima dell’apertura La Regione, 16 febbraio 2022 Nel Canton Zurigo 832 persone si sono offerte volontarie per essere imprigionate. Si sono infatti proposte per testare il carcere di Zurigo Ovest, che verrà aperto in aprile. La prova generale si svolgerà fra il 24 e il 27 di marzo e avverrà in condizioni il più vicino possibili alla realtà. Il termine di registrazione per annunciarsi è scaduto domenica sera. Un prerequisito per passare questo bizzarro periodo dietro le sbarre è che i volontari siano sottoposti a un controllo di sicurezza e che vivano nel Canton Zurigo. Le verifiche su residenti domiciliati altrove sarebbero invece troppo complicate. L’obiettivo è quello di simulare le operazioni nel nuovo penitenziario nel modo più realistico possibile. Pertanto i partecipanti dovranno consegnare all’ingresso telefoni cellulari e altri dispositivi. Per contro la perquisizione corporale sarà effettuata solo su chi si dirà d’accordo. Inoltre verrà concordata una parola chiave con la quale i finti galeotti potranno segnalare di averne avuto abbastanza dell’isolamento. Algeria. Detenuti in sciopero della fame, il governo nega la loro esistenza di Stefano Mauro Il Manifesto, 16 febbraio 2022 Più di cento fra giornalisti e attivisti del movimento Hirak, incarcerati per reati d’opinione. Intanto Amnesty denuncia la “dura repressione governativa” contro l’opposizione. Resta ancora forte la pressione di numerosi partiti di opposizione e della Lega algerina per i diritti dell’uomo (Laddh) nei confronti del governo algerino riguardo alla situazione di numerosi prigionieri d’opinione in sciopero della fame e di cui, al contrario, la Procura di Algeri ha negato “l’esistenza”. Dalla fine di gennaio una quarantina di detenuti di coscienza - prevalentemente giornalisti, blogger e attivisti legati al movimento di protesta Hirak - ha iniziato uno sciopero della fame nella prigione di El Harrach (Algeri) per protestare “contro le accuse di attentato all’integrità dello stato o altri capi di imputazione simili”, come rivendicato dalla Laddh e dai loro avvocati. Secondo quanto ha riferito il quotidiano algerino El Watan, “molti di questi detenuti sono stati trasferiti nelle carceri di Berrouaghia e Bouira”, provvedimento che, secondo Abdelghani Badi (uno degli avvocati della difesa) sembra essere “una violazione del loro diritto di protestare e una misura punitiva”. “Denunciamo il rifiuto della direzione del carcere di applicare l’articolo 64 della legge sugli istituti penitenziari che prevede particolari tutele per chi fa lo sciopero della fame - ha affermato Badi -, come siamo sorpresi dalle dichiarazioni dell’accusa che, attraverso un comunicato ufficiale, ha negato l’esistenza di un tale movimento di protesta”. I dati forniti dalla Laddh affermano, al contrario di quanto sostenuto dalle autorità governative, che nella scorsa settimana sarebbero stati trasferiti “almeno 23 detenuti da El Harrach”, mentre il reale numero delle persone in sciopero supera “i 100 detenuti nel solo carcere di Algeri”. “Sono numerose le testimonianze di violenze fisiche e psicologiche nei confronti del movimento di protesta nelle carceri - ha aggiunto Said Salhi, vicepresidente della Laddh - come il continuo rinvio delle udienze per allungare la loro detenzione o il loro trasferimento forzato in altre prigioni”. All’approssimarsi dell’anniversario, il 22 febbraio 2019, dell’Hirak - il movimento di protesta che portò alle dimissioni dell’allora presidente Bouteflika e che mirava al cambiamento del sistema politico algerino fondato su corruzione e clientelismo - la repressione governativa sembra ancora presente contro i suoi attivisti. Se da una parte l’Hirak è riuscito nella sua richiesta di dimissioni nei confronti di Bouteflika, dall’altra le proteste non hanno impedito al “sistema” di eleggere un presidente della repubblica (Abdelmajid Tebboune) ed un parlamento delegittimati in entrambe le tornate elettorali da un’elevatissima astensione (oltre l’80%). La presidenza di Tebboune - che inizialmente aveva “benedetto” la volontà di rinnovamento dell’Hirak - ha lentamente fiaccato le oceaniche manifestazioni pacifiche degli algerini fino reprimerle e vietarle con arresti di massa e leggi che vietavano “cortei non autorizzati dalle prefetture”. Al riguardo lo scorso mercoledì Amnesty International ha denunciato “la dura repressione governativa che ultimamente ha colpito i partiti politici di opposizione”. “In quest’ultimo anno le autorità algerine hanno chiuso le sedi di alcuni partiti, hanno condannato leader di partito e represso in modo brutale qualsiasi forma di dissenso - afferma il documento - portando ad almeno 251 il numero delle persone attualmente detenute per aver esercitato i loro diritti alla protesta pacifica e alla libera espressione”. Amnesty si riferisce a Fethi Ghares, coordinatore del Movimento Democratico e Sociale (Mds), condannato il 9 gennaio dal tribunale di Bab el Oued (Algeri) a due anni di reclusione “per aver criticato l’attuale presidente”, e all’arresto di almeno 60 membri, inclusi ex parlamentari, del Raggruppamento per la Cultura e Democrazia (Rdc) uno dei principali partiti di opposizione. Anche il recente scioglimento dell’associazione giovanile Raj per “false accuse relative all’organizzazione di attività non corrispondenti ai suoi statuti” e il congelamento delle attività del Partito Socialista dei Lavoratori (Pst) sono “segnali preoccupanti”. “L’Algeria deve porre fine alla repressione contro tutte le forme di dissenso, tenendo conto che la Costituzione algerina garantisce il diritto alla libertà di espressione per i partiti politici”, ha affermato nel comunicato stampa Amna Guellali, vicedirettrice per il Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty. Sudan. Sciopero della fame contro il golpe, ma Al Burhan si sente più forte di Michele Giorgio Il Manifesto, 16 febbraio 2022 Un centinaio di detenuti politici digiuna contro il regime militare di Abdel Fattah al Burhan. Ma il generale a capo del colpo di stato sa di avere il sostegno di vari governi mediorientali, anche di quello israeliano. Lunedì altri due manifestanti uccisi. Più di cento detenuti sudanesi, tra i quali esponenti politici di alto profilo, da ieri sono in sciopero della fame. Compie così un ulteriore salto di qualità la protesta contro il colpo di stato dello scorso 25 ottobre con cui le forze armate guidate dal generale Abdel Fattah al Burhan hanno posto fine all’accordo di condivisione del potere con i civili del 2019 raggiunto dopo la rimozione del presidente Omar al Bashir. L’annuncio del digiuno è giunto mentre i sudanesi piangevano la morte di altri due giovani uccisi dai militari durante le proteste di lunedì contro il golpe. Altre decine di persone sono state ferite. Un primo dimostrante è stato colpito a morte a Khartoum, il secondo a Omdurman. Dal 25 ottobre oltre 80 civili sono stati uccisi dal fuoco delle forze sicurezza. Non si arresta l’ondata di arresti fra rappresentanti dell’opposizione e del governo pre-golpe, come il membro del precedente Consiglio di transizione Mohamed al Faki e l’artista Mazen Hamed. Al Faki è noto per aver guidato il Comitato per la rimozione del potere (Erc), organismo istituito allo scopo di recuperare al controllo dello Stato una serie di imprese, immobili e grandi patrimoni posseduti illegalmente da uomini di Al Bashir. La scorsa settimana erano stati arrestati altri oppositori dei militari, tra i quali Al Tayeb Osman Youssef, Wagdi Salih e l’ex ministro Khalid Omer Yousif. Sono almeno 145 i prigionieri del regime militare. Unione europea e i governi di Canada e Svizzera nei giorni scorsi hanno espresso “preoccupazione” per gli arresti in Sudan e chiesto “l’immediato rilascio di tutti coloro che sono detenuti ingiustamente”. A stretto giro è arrivata la replica del governo fantoccio messo in piedi da Al Burhan che ha respinto le accuse definendole una “palese ingerenza negli affari interni del Sudan”. Il generale punta a una restaurazione a piccoli passi del passato regime anche perché i militari non hanno alcuna intenzione di abbandonare le posizioni di potere che per oltre trent’anni avevano consolidato sotto Al Bashir. Per questo al Burhan il 12 febbraio si è schierato pubblicamente contro la riforma dell’esercito e lo smantellamento delle famigerate Forze di supporto rapido. “Nessuno può parlare di ristrutturazione delle istituzioni militari, ad eccezione delle forze che verranno scelte dal popolo attraverso le elezioni”, ha tuonato. Le forze armate sudanesi, sul modello di quelle egiziane, possiedono industrie, non solo militari, aziende agricole e dell’estrazione mineraria. Al Burhan e il suo braccio destro, Mohamed Hamdan Dagalo, si sentono più forti rispetto a qualche settimana fa. Sanno di non essere isolati, di godere delle simpatie di diversi governi mediorientali e che gli Usa, in cambio di rassicurazioni sulla politica estera filoccidentale del Sudan golpista, non accresceranno le pressioni per una svolta democratica. Nei giorni scorsi Dagalo ha visitato Abu Dhabi e, con ogni probabilità, anche Tel Aviv, mentre a inizio settimana Al Burhan ha esaltato la cooperazione di sicurezza avviata con Israele.