Perché nessuno più in carcere diventi un “fascicolo vivente” di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 15 febbraio 2022 Una nuova circolare del DAP torna a parlare estesamente di rieducazione. Mi è arrivata in questi giorni una lettera/articolo di uno dei miei “redattori detenuti”, che ha subito vari trasferimenti, certamente per responsabilità anche sue, ma considerando che è cresciuto in carcere, qualche domanda anche l'istituzione se la dovrebbe porre, rispetto a tanti ragazzi che si stanno bruciando la giovinezza nelle galere. Lui è anche il primo che ha fatto, con Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia riparativa, una mediazione sperimentale per un pesante conflitto che aveva avuto con un compagno di detenzione, sfociato in lesioni gravi; lui è quello che a Ceretti ha ispirato il titolo della sua autobiografia, “Il diavolo mi accarezza i capelli”. E oggi, nella sua lettera, Raffaele ha usato un’altra immagine fulminante nella sua efficacia, si è definito un “fascicolo vivente”. Una definizione perfetta per dire quanto, in questi anni, siano stati difficili, tortuosi, spesso inefficaci nelle carceri quei percorsi che avrebbero dovuto essere, per ogni detenuto, nessuno escluso, rieducativi, quindi trasformativi, e invece troppo spesso hanno inchiodato le persone al loro fascicolo. Che va di anno in anno gonfiandosi, perché quando le cose non funzionano tutto si trasforma in reclami, denunce, sanzioni disciplinari. Ora una nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria torna a parlare estesamente di rieducazione. È firmata dal Direttore generale del Personale e delle Risorse, Massimo Parisi, ed è dedicata alla “valorizzazione del ruolo e della figura professionale del Funzionario giuridico pedagogico”. Una cosa mi pare evidente, che dietro quella circolare non si sente il linguaggio della burocrazia, ma quello dell’esperienza sul campo in uno degli istituti più avanzati, Bollate, dove Parisi è stato direttore. E mi viene da dire che finalmente la sperimentazione di Bollate potrebbe e dovrebbe cominciare ad avere delle ricadute positive sulle altre carceri. Tutto nuovo, dunque, in questa circolare? No, è una circolare che riprende le vecchie circolari sulla rieducazione, ne sottolinea i contenuti più significativi, e non dimentica di sviluppare le tante parti che in questi anni non hanno trovato l’applicazione che meritavano. E richiama anche l’Ordinamento Penitenziario, per come è stato riformato nel 2018. Una “piccola riforma” che però ha messo al centro del percorso rieducativo concetti importanti come autonomia, responsabilità, socializzazione e integrazione della persona detenuta, e questa circolare cerca di dare valore a questi concetti. Vorrei allora provare a fissare l’attenzione su alcune parole chiave, con la consapevolezza che tutto il tema della rieducazione va ripreso e rifondato. Potenzialità da valorizzare: Nella circolare si parla di attitudini e di potenzialità da incoraggiare e mettere a frutto, perché “in quanto soggetto adulto, del detenuto deve essere sostenuto il processo di autodeterminazione e la libera adesione alla proposta trattamentale dovrà essere coinvolta sin dalla fase di progettazione delle attività”. Niente di rivoluzionario, per carità, ma dare più spazio e credibilità al “buono” che c’è anche nel peggiore dei “fascicoli viventi”, aiutare le persone a ripartire da lì per ricostruire le loro vite non è così scontato: troppo spesso le persone che finiscono in galera si sentono delle nullità, a volte non hanno neppure la consapevolezza di possedere delle qualità, si sentono schiacciate sul loro reato, “reati che camminano” è l’efficace definizione data di sé da un altro detenuto. Osservazione partecipata: Parlare più di “osservazione partecipata” che di ”osservazione scientifica della personalità” e spostare l’attenzione dal colloquio individuale alla valorizzazione di sguardi diversi è un obiettivo che già era stato sottolineato dalla circolare del 2003, ma non si può certo dire che si sia realizzato, basta vedere quanto è ancora difficile far funzionare nelle carceri i Gruppi di Osservazione e Trattamento, che intorno all’educatore (FGP) dovrebbero raccogliere e mettere a confronto tutti gli operatori che sono coinvolti nel percorso di reinserimento di una persona detenuta, anche esterni all’amministrazione, come insegnanti, volontari, operatori del Terzo Settore. Operatori che dovrebbero poter dare un contributo significativo ai percorsi individuali, sostenendo con determinazione il passaggio dalla detenzione alle misure di comunità, tappa fondamentale della rieducazione. Dinamismo e deburocratizzazione: “Il principio che deve informare l’assetto organizzativo attorno alla figura (del FGP) è quello della deburocratizzazione”, “L’utilizzo di metodi/strumenti di osservazione diversificati caratterizza sempre più in senso dinamico la figura del funzionario giuridico pedagogico che deve muoversi all’interno delle sezioni, incontrare i detenuti, presenziare alle loro attività…”. Ricordo quando tempo fa un direttore di carcere che stimo in modo particolare, Antonio Gelardi, mi ha spiegato l’espressione “fare il direttore con i piedi”: “Fare il direttore con i piedi è una espressione che si tramanda di esperienza in esperienza, a me la insegnò il mio primo direttore a Sollicciano, nella prima esperienza che feci, da vice direttore, in quell’istituto complicato. Vuol dire lasciare la scrivania, dove il problema è l’adempimento, per vivere la vita della comunità, toccare con mano, parlare, capire, incuriosirsi. Perché alla fine per quanto il carcere possa spegnere, ingrigire, la vita è un po’ come l’erba che spacca il cemento e viene fuori lo stesso”. È un dinamismo che, e su questo non saremo ipocriti, non crediamo voglia dire essere presenti sempre alle attività, non avrebbe senso neppure se ci fosse il tempo per farlo, perché le persone detenute hanno bisogno di autonomia e di confronto, il più possibile libero, con operatori che non rappresentino le Istituzioni e non abbiano un ruolo ufficiale nella loro “scalata alla libertà” (che è inevitabilmente il loro primo obiettivo), ma certamente significa riconoscere l’importanza di queste attività e cercare il confronto, l’ascolto, il dialogo, nel rispetto del bisogno di “autodeterminarsi” del detenuto. La circolare, proprio per questa necessità di far muovere una istituzione spesso ferma e incapace di capire i bisogni dei suoi utenti, parla esplicitamente del fatto che il Funzionario giuridico-pedagogico “dovrà essere facilmente contattabile e raggiungibile”, superando così la necessità della famigerata “domandina”. Quello che è importante è “prevedere la presenza del funzionario in un’ampia fascia oraria, organizzando anche turnazioni pomeridiane o preserali, dato che, come ampiamente evidenziato, il ruolo non si deve relegare a mansioni di back office che giustificherebbero orari unicamente mattutini, ma deve piuttosto essere incentivato a vivere appieno la vita dell’istituto”. Questa questione degli orari ha già comprensibilmente scatenato il fastidio di molti operatori, perché lavorare con turni preserali non piace a nessuno, e anche perché, ovviamente, manca personale, e i 210 educatori in più promessi ancora sono immersi nei concorsi, ma che tante carceri dopo le tre del pomeriggio diventino un deserto, che le attività si svolgano tutte negli stessi orari e “si contendano” i detenuti l’una alle spese dell’altra non è più accettabile. Rappresentanza: “Si ritiene opportuno rilanciare il ruolo e l’importanza, da un punto di vista trattamentale, delle rappresentanze già previste nell’ordinamento penitenziario finalizzate alla rilevazione dei bisogni e alla valutazione delle proposte progettuali provenienti dagli stessi detenuti”. Su questa questione della rappresentanza Massimo Parisi potrebbe forse essere più coraggioso e parlare di una rappresentanza elettiva: a Bollate lui stesso l’aveva introdotta e, se non sbaglio, funzionava, perché le persone, elette dai loro compagni a rappresentarle, e aiutate dal volontariato a formarsi, dal momento che la formazione per i rappresentanti è una tappa cruciale della loro crescita, con questa esperienza sono maturate, hanno imparato a pensare sì a se stesse, ma anche agli altri, ai compagni di sezione, a chi ha più difficoltà a farsi ascoltare. Incontri studenti/detenuti: È scarna la frase che ricorda l’importanza degli incontri tra persone detenute e studenti “buona prassi è l’organizzazione di incontri studenti/detenuti”. Bene comunque che la circolare lo riconosca, perché una delle esperienze che risulta più significativa nei percorsi rieducativi è proprio quella del confronto con le scuole: lo è per gli studenti, perché nelle narrazioni degli autori di reato scoprono quanto poco netta è la distinzione tra bene e male, e quanto facile è scivolare da un comportamento a rischio all’illegalità; lo è per le persone detenute, che attraverso le scuole si confrontano direttamente con le paure della società, a volte anche con la rabbia e l’ansia di chi ha subito un reato, e sentono di restituire qualcosa a quella stessa società aiutandola a fare prevenzione. Lavoro di rete: È ampio lo spazio dedicato in questa circolare al lavoro di rete, cosa che sarebbe scontata ovunque, ma non lo è affatto in una istituzione che spesso ancora parla del Volontariato e del Terzo Settore come di ospiti, e tende a promuovere una specie di “autarchia”, una volontà di fare da sé perché così, riducendo il peso del mondo esterno, è più facile garantire la sicurezza: “È bene ribadire che tutti gli operatori che a vario titolo si occupano del detenuto (quindi anche operatori del privato sociale, del volontariato, della scuola, oltre alle figure istituzionali) devono essere coinvolti in quanto preziosa fonte di elementi di osservazione e incoraggiati ad operare in una rete virtuosa e multiprofessionale”. Il ruolo decisivo della società: Se ancora così di frequente parte consistente dell’amministrazione penitenziaria ritiene le attività del Terzo Settore “non essenziali” o ancillari, tanto da chiuderle più e più volte nel corso della pandemia, anche quando grazie alle vaccinazioni qualcosa avrebbe dovuto essere cambiato nelle chiusure e nelle quarantene, e se il Terzo Settore non è riconosciuto neppure in una Commissione come quella che deve stilare il regolamento interno di un carcere, nonostante sia considerato da importanti ricerche come responsabile dell’80 % delle attività rieducative negli istituti di pena, allora non è affatto superfluo che la Circolare ne ribadisca il ruolo, il peso, il valore: “È importante ribadire che se il coordinamento delle attività e degli interventi afferenti al trattamento è in capo al funzionario giuridico pedagogico, il mondo esterno ha un ruolo comunque formalizzato dall’ordinamento penitenziario (si pensi al fatto che il legislatore del 1975 ha inserito i contatti con il mondo esterno tra i principali elementi del trattamento) e quindi vanta un ruolo decisivo nel contesto penitenziario che deve essere promosso (e non solo per le funzioni spesso sussidiarie che ricopre)”. Anni fa la redazione di Ristretti Orizzonti ha organizzato in carcere una Giornata di studi dal titolo “Il senso della rieducazione in un paese poco educato”. Il tema è ancora attuale e forte, proprio perché il nostro è un paese con uno scarso senso civico, e quanto meno la società ha coscienza dell’importanza di rispettare le regole, tanto più, paradossalmente, tende a scaricarsi la coscienza irrigidendo le regole per “i cattivi”. Così l’intuizione dei padri costituenti, di dare alla pena una funzione rieducativa ben più che punitiva, rimasta spesso lettera morta, ha bisogno di trovare nuova linfa. Questa circolare mette dei punti fermi, c’è naturalmente ancora tanta strada da fare, per esempio sul tema della rieducazione dei “cattivi per sempre”, di quei mafiosi che la Costituzione non esclude affatto dall’articolo 27. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti Suicidi in carcere, dall’inizio dell’anno una mattanza: 12 detenuti e 2 agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2022 Continua la macabra conta delle vittime nelle carceri da inizio anno Garante nazionale e sindacati di polizia penitenziaria sollecitano interventi. Ma non è cambiato nulla, nonostante la promessa dalla ministra Cartabia. Di cella si muore. Il carcere continua a mietere vittime, detenuti ma anche agenti penitenziari. La parola chiave che va usata a distanza di un mese e mezzo dall’inizio dell’anno è “suicidio”. Ben 12 detenuti si sono tolti la vita, a questo si aggiunge il suicidio di un agente penitenziario in servizio presso il carcere di Sanremo è avvenuto lunedì scorso. È il secondo dall’inizio dell’anno. L’ultimo dei suicidi venerdì sera a Regina Coeli - L’ultimo detenuto che si è tolto la vita è avvenuto venerdì sera nel carcere romano di Regina Coeli. Di origine marocchine, 24 anni, si è ammazzato inalando il gas della bomboletta comunemente usata per cucinare. In tutto questo, nonostante i proclami, la ministra della giustizia non ha fatto alcun intervento. Nemmeno un decreto legge, almeno per tamponare l’emergenza in attesa di una vera e propria riforma. L’escalation dei suicidi è un campanello di allarme. L’espressione “carcere”, oltre che dal latino, si pensa che derivi dall’ebraico carcar che vuol dire “tumulare”, “sotterrare”: i dati statistici sulle morti confermano che le galere assomigliano sempre di più a dei cimiteri, con tanto di cubicoli (le celle) che diventano luoghi ideali per togliersi la vita. Non di rado accade che finiscano “tumulate” persone non compatibili con il sistema penitenziario, o più semplicemente che hanno la possibilità, disattesa, di una misura alternativa. Ed è il garante nazionale delle persone private della libertà, a chiedere di porre subito rimedio a questa situazione. Ha lanciato un comunicato subito dopo che c’è stato il decimo suicidio commesso da giovane donna ristretta nel carcere di Messina: le era stato appena convalidato l’arresto in custodia cautelare. Il Garante: ai suicidi si devono aggiungere quattro decessi classificati come “per cause ancora da accertare” - Il Garante ha sottolineato che ai suicidi si devono aggiungere quattro decessi classificati come “per cause ancora da accertare”. Sono numeri che non possono non allarmare e che evidenziano una netta crescita rispetto agli ultimi anni. Il Garante nazionale ha espresso forte preoccupazione per tale situazione e ribadisce l’urgenza di garantire alle persone detenute e al personale penitenziario chiamato a fare fronte a una situazione particolarmente difficile un più efficace supporto, sia in termini qualitativi che quantitativi. Le Istituzioni dello Stato, compreso il Garante nazionale, hanno il dovere di dare una risposta tempestiva alle esigenze specifiche e alle vulnerabilità delle persone private della libertà. “Per questo - ha sottolineato il garante - occorre con urgenza riavviare un dialogo produttivo sull’esecuzione penale detentiva per trovare soluzioni alle tante difficoltà che vivono le persone ristrette e chi negli Istituti penitenziari opera. Così come occorre trovare risposte effettive alla criticità dell’affollamento, situazione accentuata dalla pandemia”. E ha concluso: “È solo a partire da tale ampio confronto che si può arrivare a trovare un percorso comune volto a ridurre le tensioni e a ridefinire un modello detentivo nel solco tracciato dalla Costituzione, dando così’ un segnale di svolta di cui il sistema penitenziario ha bisogno”. Ma tutto è immobile. Dure le parole di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che parla di un sistema carcerario letteralmente allo sbando. “Ma - aggiunge De Fazio - quel che è più grave, è abbandonato a se stesso dalla politica, dalla ministra della Giustizia e dal governo”. Parla di una vera carneficina e lancia un allarme: “Se si continuasse con questa media, in un anno morirebbero ben oltre cento detenuti”. Il sindacalista ammonisce: “Non è più il tempo di indugiare né delle passerelle, il governo vari immediatamente un decreto-legge per mettere in sicurezza le carceri, sia sotto il profilo di quella che è una vera e propria emergenza umanitaria, sia sotto l’aspetto della tenuta dell’intero sistema, il quale vede gli operatori di Polizia penitenziaria patire aggressioni alla media di oltre cento al mese, ormai allo stremo, e impossibilitati ad assolvere al proprio ruolo, come dimostrato anche dai suicidi. Servono, altresì, interventi urgentissimi per migliorare le strutture e le infrastrutture, ma soprattutto per potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, mancanti di 18mila unità, e fornire gli equipaggiamenti”. Secondo De Fazio, parallelamente, il Parlamento dovrebbe approvare un decreto legislativo per delegare una riforma complessiva dell’esecuzione penale, che reingegnerizzi il carcere e riorganizzi compiutamente il Corpo di polizia penitenziaria. “Non ce ne voglia nessuno, ma tutto questo, almeno per noi, - conclude De Fazio - sembra ancora più importante e urgente della carriera dei magistrati”. Rita Bernardini ha ripreso lo sciopero della fame - Eppure, come ha promesso la ministra Cartabia, da gennaio il Governo si sarebbe messo in moto per intervenire sul sistema penitenziario. Anche alla luce della relazione elaborata dalla Commissione Ruotolo. Ma tutto tace. Il 29 gennaio scorso, ricordiamo che Giuliano Amato, il nuovo Presidente della Corte Costituzionale, ha dato una significativa risposta a una domanda posta da Riccardo Arena, durante il programma di Radio Carcere, la storica rubrica di Radio Radicale. In merito al sovraffollamento nelle carceri e a possibili interventi della Consulta ha così osservato: “La questione non ci è stata ancora riproposta, ma certo se ci venisse riproposta noi ci troveremo davanti alla responsabilità che lei ha ricordato”. Intanto l’esponente radicale, Rita Bernardini, ha ripreso lo sciopero della fame per sollecitare nuovamente risposte concrete da parte del governo. Cannabis, un referendum per svuotare le carceri e le aule di tribunale di Maria Pia Scarciglia* Il Manifesto, 15 febbraio 2022 I numeri del paradosso. Un detenuto su tre finisce in carcere per la violazione di un solo articolo della Legge 309/90 che contribuisce drasticamente al sovraffollamento delle carceri. Allo stesso tempo, la normativa ha limitato ulteriormente le libertà di centinaia di migliaia di consumatori, imponendo sanzioni amministrative che colpiscono particolarmente persone socialmente ed economicamente inserite. In data 8 gennaio 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo per violazione dell’art 3 della Cedu, che come noto sancisce il divieto di praticare trattamenti inumani e degradanti. La Corte prendeva atto della drammatica condizione di vita dei detenuti all’interno degli Istituti di pena italiani obbligando lo stato a rimediare attraverso una serie di misure deflattive, volte a ridurre il sovraffollamento carcerario. All’epoca dei fatti la popolazione detenuta superava le 64.000 persone con un tasso di sovraffollamento vicino a percentuali ignobili per un paese Ue e firmatario di Convenzioni internazionali contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. A tal proposito il legislatore, in data 23 dicembre 2013, emanava il cd. “Decreto svuota carceri” D.L. n° 146, successivamente convertito in legge, con modificazioni, in data 21 febbraio 2014, n° 10 “Misure urgenti in tema di diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”. All’interno di quel corpo di misure veniva riformulata una parte dell’art.73 comma 5 del D.P.R 309/1990 riducendo la pena comminata per reati previsti dal presente articolo in relazione alla lieve entità. Un intervento necessario per tentare di arginare i numerosi ingressi in carcere per possesso e detenzione di quantitativi modesti di sostanze stupefacenti. Nel 2014 la sentenza della Corte Costituzionale 32/2014 dichiarava l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49 meglio conosciuta con il nome dei suoi firmatari Fini-Giovanardi. Sono passati sette anni da quella pronuncia che di fatto ha ripristinato i meccanismi sanzionatori ex art 73 del Testo unico D.P.R.309/90 con ricadute significative sui numeri del carcere, in discesa rispetto a quelli in cui la Legge Fini-Giovanardi è rimasta in vigore, ma pur sempre preoccupanti rispetto al numero delle persone che entrano nei circuiti penali e repressivi della legge. L’avvento della pandemia da Covid-19 ha avuto ricadute anche sui numeri del carcere che sono tornati a scendere nel 2020 di circa 8.000 unità grazie ad una serie di misure varate dal Governo unitamente alla concessione di misure non custodiali da parte dei Tribunali. Nelle galere italiane al 28 febbraio 2021 i detenuti erano 54. 372. Il 35% della popolazione detenuta si trova in carcere per violazione del D.P.R 309/90, principalmente degli artt. 73, 74. L’applicazione delle misure restrittive di sanità pubblica necessarie per contenere la trasmissione del virus si è abbattuta in tutti i settori della vita, compreso l’uso e il consumo di droghe, dei mercati della droga, dei setting e della diffusione sul mercato illegale di quaranta nuove sostanze psicoattive. Da anni le nostre associazioni Antigone e Cild documentano con ricerche, analisi e rilevazioni riportate anche all’interno dei Libri Bianchi sulle droghe come la nostra normativa continui ad essere centrata sul sistema penale, piuttosto che su politiche pubbliche di governo e regolamentazione del fenomeno, il cui effetto è quello di riempire le carceri di persone che usano droghe, per le quali la detenzione rappresenta un danno profondo per la loro immagine sociale e per la propria vita. Un detenuto su tre risulta infatti finire in carcere per la violazione di un solo articolo della Legge 309/90 che contribuisce drasticamente al sovraffollamento delle carceri. Allo stesso tempo, la normativa ha limitato ulteriormente le libertà di centinaia di migliaia di consumatori, imponendo sanzioni amministrative che colpiscono particolarmente persone socialmente ed economicamente inserite. La Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze 2021 (i dati raccolti sono del 2020) parla espressamente di un 74% delle oltre 32.879 segnalazioni ex art 75 Testo Unico stupefacenti per detenzione di cannabis e di un 19% per cocaina. Il 97% delle segnalazioni riguarda minorenni alla loro prima segnalazione. Tuttavia se il 68% dei procedimenti amministrativi si conclude con una ammonizione il 31% è oggetto di applicazione di sanzioni amministrative con le conseguenze para penali che esse prevedono. I programmi terapeutici sebbene rappresentino una valida risposta alla segnalazione amministrativa risultano residuali. Solo l’1% aderisce al programma presso i SerD territoriali. La Relazione al Parlamento ci racconta che tra i molti effetti della pandemia vi è quello di non aver aggiornato i numeri dei sistemi di rilevamento e tracciamento in seno al Ministero dell’Interno e della Giustizia. Il comparto dei lavoratori della giustizia in smart working non ha proceduto alle ordinarie iscrizioni al Casellario, si è così registrata una riduzione di circa il 30% nell’inserimento dei dati nel Sistema Informativo del Casellario. Nel 2020 i soli condannati per reati di droga sono stati 10.578 un numero in flessione se confrontato alle condanne dell’ultimo triennio. Tuttavia è la Relazione Europea sulla droga a cura di Emcdda che traccia un quadro ancora più allarmante. Il calo dei reati legati al mercato della droga non coincide con la diminuzione dell’offerta considerato l’aumento delle produzioni globali di droga che seguono ed intercettano i cambiamenti sociali imposti dalla pandemia e le sfide di un mercato in continua trasformazione. Le operazioni di Polizia finalizzate al contrasto della cannabis sono state 12.066 con sequestri di kg 19.868,69 per la marijuana e di kg 58.827,66 per tutte le sostanze. Sono state sequestrate 414.396 piante di cannabis con in testa la Regione Campania per il più alto numero di sequestri. I Tribunali accusano gli effetti della legislazione antidroga che solo nel 2020 ha prodotto 92.875 procedimenti penali per la sola violazione dell’art 73 Testo Unico. Sono state coinvolte 189.707 persone tra uomini e donne. Sono invece 45.467 le persone che rispondono ex art 74 D.P.R.309/90 (associazione finalizzata al traffico) con un numero pari a 4.681 procedimenti penali l’anno. Le cifre nel caso di specie sono superiori al 2019. L’enorme mole di procedimenti giudiziari pesa come un macigno sul comparto della giustizia, e in generale, sull’organizzazione degli uffici dei Tribunali producendo tempi di fissazione delle udienze lunghi e dilatori: solo il 46% dei procedimenti si trova in primo grado del giudizio, il 13% in secondo grado e l’1,0% in terzo grado. Un altro grande tema è quello della recidiva regolata ex art 99 c.p., che nel caso dei reati de quo balza in avanti con il 29% dei soggetti imputati per violazione del T.U. Le denunce ex art. 73 sono state 28.889, di cui 13.586 solo per cannabis mentre quelle per art. 74 sono state 3.372. Gli arresti 20.641 mentre dalla libertà sono state denunciate 10.414 persone di cui 10.192 stranieri. L’età media dei soggetti denunciati si attesta tra i 20 /24 anni. È chiaro che il maggiore detonatore degli ingressi in carcere resta ad oggi l’art. 73, architrave del D.P.R. 309/90. Il fenomeno della droga, benché trattato principalmente in chiave criminale dovrebbe essere affrontato e declinato a tema di salute pubblica. La salute delle persone tossicodipendenti in carcere è consegnata alle Asl, ai SerD, e sempre più sovente ai servizi di igiene mentale la cui area nelle carceri si dipana tra i consumatori di sostanze che nel corso della detenzione sviluppano disturbi mentali e del comportamento. Una ricerca di intervento nelle carceri italiane del Ministero della Salute ha evidenziato che dei 15 interventi chiave raccomandati dall’OMS nel 2013 soltanto alcuni (tra cui informazione, formazione ed educazione, screening, counseling e trattamento HIV, prevenzione tubercolosi) vengono realizzati, ma quasi sempre soltanto in maniera estemporanea e non arrivano a coprire tutta la popolazione detenuta, mentre altri sono totalmente disattesi (in particolare la distribuzione di preservativi, aghi e siringhe o la prevenzione della trasmissione di malattie infettive tramite tatuaggi e piercing). L’Oms nel documento inviato al nostro Paese pone particolare attenzione sul tema delle malattie infettive e sui rischi di infezione della popolazione detenuta rispetto a quella libera. Per questi motivi è utile ricordare e richiamare la definizione di salute, elaborata dall’OMS, per cui salute è “uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o di infermità”. A tale proposito - repetita iuvant - l’art. 27 comma 3 della Costituzione italiana rammenta che “umanità e riabilitazione” sono concetti fondamentali che nel caso delle persone che usano sostanze debbono poter essere soddisfatti attraverso interventi qualitativi, di politiche pubbliche per l’attuazione del Dpcm sui nuovi Lea, da una logica di alternativa alla stigmatizzazione e patologizzazione delle persone che usano droghe, centrata sull’empowerment e il sostegno alle competenze nella valutazione dei rischi, sulle strategie di autoregolazione dei consumi personali e di apprendimento sociale in una logica proattiva di Tutela e Promozione della Salute. In questa ottica si inserisce la proposta referendaria del Comitato promotore del Referendum cannabis. Una scelta, quella di abrogare quella condotta oggi vietata, come la coltivazione in forma domestica, e con questa, l’abrogazione delle pene detentive per tutte le 22 condotte censurate per le sostanze in tabella II e IV. Un referendum in nome della tutela della salute pubblica e di quella delle giovani generazioni affichè non ci siamo mai più casi Cucchi e Aldrovandi. *Avvocata, Associazione Antigone Puglia Incognita referendum sulla riforma della giustizia di Valentina Stella Il Dubbio, 15 febbraio 2022 Eutanasia, cannabis e le 6 “schede” su magistratura e diritto penale: la campagna per il Sì rischia di complicare l’iter del ddl sul Csm. C’è una strana congiuntura astrale nel firmamento della giustizia tra oggi e domani. Stamattina la Corte costituzionale si riunirà in camera di consiglio per esaminare otto giudizi di ammissibilità riguardanti i referendum abrogativi su eutanasia, cannabis e giustizia. Le prime due materie danno luogo a un solo quesito ciascuna, mentre le schede sulla “giustizia giusta” saranno 6: legge Severino, misure cautelari e recidiva, separazione delle funzioni dei magistrati, partecipazione di membri laici ai Consigli giudiziari e al Consiglio direttivo della Cassazione, responsabilità civile diretta dei magistrati, elezione dei componenti togati del Csm. Tra i promotori c’è fiducia, viste le dichiarazioni di qualche giorno fa del neo presidente della Consulta Giuliano Amato: “Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile, il voto popolare”. Come ha detto l’avvocato Guido Camera, presidente dell’associazione di giuristi Italiastatodidiritto, che parteciperà come difensore, con il professor Alfonso Celotto e l’avvocato Simona Viola di + Europa, nel giudizio di ammissibilità sull’eutanasia attiva, “se la Corte darà il via libera a tutti e 8 i quesiti referendari, in primavera gli italiani avranno la possibilità di dare il via a una stagione di riforme in chiave autenticamente liberal- democratica, in materia di giustizia e diritti civili, che manca oramai da troppi anni”. Domani invece la commissione Giustizia della Camera comincerà l’esame del maxiemendamento Draghi- Cartabia alla riforma del Csm. Ora, la domanda che tutti ci poniamo è cosa potrebbe accadere se la Consulta desse il via libera ai referendum, in particolare a quelli sulla giustizia, promossi da Lega e Partito radicale. Nel giorno della sua relazione al Parlamento, qualche settimana fa, la ministra Marta Cartabia, rispondendo alla senatrice di +Europa Emma Bonino, disse chiaramente che riforme parlamentari e consultazione popolare sono “due percorsi legittimi, paralleli, hanno poche aree di sovrapposizione e bisognerà in quel caso vedere se il legislatore soddisfa le richieste dei referendum o meno; ben vengano entrambe in modo tale che siano portate avanti parallelamente”. Non a caso il governo non si è costituito davanti alla Corte costituzionale. Comunque le aree di sovrapposizione riguardano due quesiti: quello sulla separazione delle funzioni e quello sull’equa valutazione di professionalità dei magistrati. Se passasse il sì per il primo, il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo per tutta la vita professionale. Ma già con la riforma Cartabia i passaggi diverrebbero solamente due. E Forza Italia chiede di ridurli a uno soltanto. Con il sì al secondo, verrebbe riconosciuto anche ai membri “laici”, cioè avvocati e professori, di partecipare attivamente alla valutazione dell’operato dei magistrati. Anche qui la riforma del governo prevede il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Quindi, considerato che la riforma parlamentare del Csm dovrebbe approdare in Aula a marzo, mentre sui referendum si andrebbe a votare a primavera inoltrata, due quesiti potrebbero essere, anche se solo in parte, superati. Tuttavia, come ha scritto Carlo Nordio sulle pagine del Messaggero, la forza del referendum trascende i singoli quesiti e rappresenterebbe, qualora passassero, un messaggio alla magistratura e al Parlamento: non vogliamo più questa amministrazione della giustizia, è tempo di grandi riforme, non di pannicelli caldi come è l’attuale proposta in discussione alla Camera, giudicata debole anche dall’Unione Camere penali. Quindi, se stasera o domani arrivasse il via libera della Consulta, la decisione impatterebbe non poco sui partiti: il centrodestra unito - spera Salvini - sarebbe rafforzato e si preparerebbe alla campagna di primavera insieme ai radicali, mentre Partito democratico e Movimento 5 Stelle si troverebbero in una posizione scomoda. In particolare i dem - contrari ai referendum giacché li considerano un’iniziativa populista che contrasta con le riforme di cui si sta discutendo in Parlamento hanno già vissuto una specie di psicodramma quando, ad aderire in pieno o in parte alla campagna referendaria, sono stati, ovviamente a titolo personale, nomi di spicco come Goffredo Bettini, Giorgio Gori, Gianni Pittella, Massimo Smeriglio, Luciano Pizzetti. E proprio ieri, se la pasionaria Enza Bruno Bossio ha ricordato di averli sottoscritti tutti, il suo compagno di partito e senatore Salvatore Margiotta ha scritto su twitter: “Sono pentito di non aver firmato, per disciplina di partito e per rispetto del mio stesso ruolo in Parlamento, i referendum sulla giustizia, o almeno alcuni di essi. Se la Corte li ammetterà, farò la mia parte nella campagna”. In generale, quello che la magistratura percepisce come un voto contro se stessa, chiamerebbe i partiti ad essere severi, ad esempio, in fase di elaborazione dei decreti attuativi della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. E si riaprirebbe l’importante partita sulla vera separazione delle carriere, promossa dall’Unione Camere penali con il Partito Radicale, bloccata in commissione Affari costituzionali alla Camera. Referendum, il menù politico della Consulta di Michele Ainis La Repubblica, 15 febbraio 2022 Interpretare la Costituzione non è la stessa cosa che applicare il codice degli appalti o il diritto tributario. La prima detta norme generali, che conformano la nostra democrazia. Sicché i giudici costituzionali devono possedere sensibilità politica. Se ciascun referendum fosse come un uovo (Giuliano Amato dixit), con 8 referendum potremmo farci una frittata. Sarà questo il menù che verrà servito in tavola dai giudici costituzionali? Sbatteranno le uova fino a romperle, negando agli italiani il voto? E che razza di decisione spetta alla Consulta? In punta di diritto o con un occhio rivolto alla politica, alla vita della polis? Lui, il nuovo presidente della Corte costituzionale, ha invitato i suoi colleghi a non cercare il pelo nell’uovo, impegnandosi piuttosto per consentire il voto popolare. A prima vista, una bestemmia giuridica. La Consulta rappresenta la prima magistratura del Paese, non un super Parlamento, nonostante i timori espressi da Togliatti in Assemblea costituente. Le sue pronunzie sono vincolate da una norma (l’articolo 75 della Costituzione), si tratta semplicemente d’applicarla. E hanno forma di sentenza, non di legge. Quindi ogni valutazione politica rimane estranea all’oggetto del giudizio, altrimenti rischierebbe d’inquinarlo. E le conseguenze politiche della decisione sono affare dei partiti, non della Consulta. Ma è un errore, anzi un abbaglio. I 15 membri dell’organo che deciderà sui referendum formano una categoria speciale, staccata dall’apparato giudiziario, benché indossino una toga nera lunga fino ai piedi. Ne è prova la stessa composizione della Corte: 5 giudici vengono scelti dalle magistrature superiori (Cassazione, Corte dei conti, Consiglio di Stato), ma gli altri 10 da organi rappresentativi (Parlamento e presidente della Repubblica). Dunque per due terzi la Consulta è figlia del potere politico, non di quello giudiziario. Per quale ragione? Perché interpretare la Costituzione non è la stessa cosa che applicare il codice degli appalti o il diritto tributario. La prima detta norme generali, che conformano la nostra democrazia. Sicché i giudici costituzionali devono possedere “sensibilità politica”, come si legge nei manuali. La valenza politica delle sentenze pronunziate in nome della Carta s’estende poi alla massima potenza, quando esse hanno per oggetto un referendum. Non a caso la Repubblica italiana venne battezzata da una consultazione popolare (nel 1946), mentre un altro referendum (nel 1993) ha schiuso i battenti alla seconda Repubblica. E non a caso la giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità dei referendum è ondivaga come una ballerina di flamenco. In mezzo secolo d’esperienza, vi si legge tutto e il suo contrario. Introducendo limiti ulteriori a quelli scolpiti dai costituenti, aggiungendo e poi negando criteri di giudizio talvolta scriteriati. Ma per lo più accendendo il rosso del semaforo: 67 referendum ammessi, molti di più bocciati. Questa diffidenza verso il più antico strumento di democrazia diretta è in se stessa politica, riflette l’ostilità con cui la politica italiana ha sempre accompagnato i referendum. E infatti la sua storia comincia con 22 anni di ritardo sulla Costituzione (la legge istitutiva è del 1970). Continua frodando il voto popolare (fra gli episodi più vistosi: la consultazione sul finanziamento pubblico ai partiti, abrogato nel 1993 dal 90% dei votanti, ma riesumato otto mesi dopo sotto forma di “rimborsi elettorali”). Infine s’inabissa quando i partiti decidono d’organizzare l’astensione, facendo naufragare 25 referendum dal 1997 in poi. Il vento tuttavia è cambiato. Ad annusare l’aria, ora s’avverte piuttosto un favor della politica italiana verso il referendum, se non un moto d’amore. Difatti l’anno scorso, con una legge approvata a voti unanimi, il Parlamento ha introdotto le firme digitali per sottoscrivere i quesiti. Ne hanno profittato i giovani, aderendo in massa ai referendum sull’eutanasia (un milione e 200 mila firme) e sulla cannabis (630 mila). Mentre il governo Draghi non è intervenuto dinanzi alla Consulta per sostenere l’inammissibilità dei referendum, come facevano i governi nel passato. Giusto così: quando l’affluenza ai seggi precipita all’11% - ha osservato giorni fa Francesco Bei, rispetto alle suppletive di Roma - le occasioni di partecipazione elettorale vanno assecondate, non certo negate. Vale per l’esecutivo, vale per le Camere, ma vale altresì per la Consulta. Referendum, Flick: “Sulla giustizia si rischia di delegittimare il Parlamento” di Liana Milella La Repubblica, 15 febbraio 2022 L’ex Guardasigilli: “I quesiti leghisti mi sembrano una sorta di verdetto popolare negativo sia sull’inerzia della politica sui temi della giustizia da una parte, sia dall’altra sull’iperattivismo della magistratura”. Lei Flick, da ex Guardasigilli, autore dei noti pacchetti sulla giustizia sotto il primo governo Prodi, che proponevano una riforma globale con più di una dozzina di leggi, come giudica i sei referendum radical leghisti? “In sintesi, le rispondo che mi sembrano una sorta di verdetto popolare negativo sia sull’inerzia della politica sui temi della giustizia da una parte, sia dall’altra sull’iperattivismo della magistratura proprio in mancanza delle indicazioni puntuali della politica attraverso le necessarie leggi di riforma”. Quindi il suo giudizio sui sei referendum è negativo? “Fino a un certo punto. In questa situazione c’è il rischio che l’intervento dello strumento più tipico della sovranità popolare, il referendum, possa risolversi o in una manovra strumentale della politica, oppure, al contrario, in uno straripamento della magistratura dai suoi compiti. Secondo la ben nota legge dei vasi comunicanti. E aggiungo che il ricorso al referendum, proprio per le sue caratteristiche, può finire per delegittimare il Parlamento che non ha affrontato prima gli stessi problemi. Aggiungo la difficoltà di chiedere agli elettori un voto rispetto a temi che, tranne quelli di principio fondamentali in cui è possibile distinguere tra il sì e il no, si risolvono in una serie di zone grigie e di problemi assai complessi”. Sta dicendo che i sei referendum sulla giustizia sono troppo complicati e poco accessibili al grande pubblico che ne determinerà la sorte con il voto? “Vede, una cosa è che i cittadini siano chiamati a rispondere, come è loro diritto e dovere, su una questione di principio fondamentale; altra cosa è costringerli a una gimcana tecnica su formule difficile da capire anche per gli addetti ai lavori”. Sta forse parlando del quesito lungo due pagine sulla separazione delle carriere? “Come ha fatto a indovinare? In fondo però era abbastanza facile.... Aggiungo che, mentre il referendum su un quesito complicato, come questo di cui stiamo parlando, probabilmente incontra ostacoli di carattere costituzionale che non possono essere affrontati e risolti attraverso lo stesso referendum, gli altri quesiti pongono temi e problemi che potevano e dovevano essere risolti con legge ordinaria”. Bocciato il quesito delle carriere non pensa che anche quello sulla responsabilità dei giudici possa ugualmente rischiare? “Guardi, che sul tema c’è stato già un referendum ammesso e votato dagli italiani. Per cui questo quesito mi ricorda l’abrogazione referendaria del ministero dell’Agricoltura che risorse subito dopo sotto un altro nome”. Vede ostacoli anche su questo referendum? “Francamente no, ma vedo un uso che potrebbe diventare improprio. Vorrei essere ancora più chiaro, ma perché se un partito vuole cambiare le regole sulla responsabilità civile non lo fa in Parlamento?”. Forse perché non ha i numeri per farlo... “Il richiamo al popolo è sempre legittimo e la volontà di quest’ultimo va rispettata, come appena l’altro ieri ha ricordato il presidente della Corte Amato con parole che lui stesso ha definito ovvie”. E sia. Ma di leggi sulla custodia cautelare ce ne sono state moltissime e adesso la Consulta si trova sul tavolo un referendum che invece propone una stretta molto pesante che potrebbe lasciare in libertà persone pericolose. Quel quesito va sottoposto ai cittadini? “Certamente lei ricorda che lo stesso procuratore generale della Cassazione, il “papà” di tutti i pubblici ministeri, ha ricordato che troppo spesso nella custodia cautelare si è ecceduto. E allora bisogna chiedersi se il voto per questo referendum non sia una specie di protesta sproporzionata contro gli eccessi nell’uso della custodia cautelare”. Scusi, ma supposto che effettivamente ci siano stati gli eccessi, smontare del tutto lo strumento della custodia cautelare non potendo più utilizzarla per i truffatori seriali delle vecchiette, i bancarottieri di professione, i corruttori seriali, non le pare del tutto fuori dal codice penale? “Non si dimentichi mai che nella Costituzione sta anche scritto che la custodia cautelare non può essere un’anticipazione della pena per via della presunzione di non colpevolezza. In secondo luogo, forse si tratta di calibrare meglio in via legislativa i presupposti della custodia cautelare con limiti tassativi non solo di tempo, ma anche di sufficienza degli indizi. Ma per questo basterebbe una legge se solo si avesse la forza di vararla e poi di applicarla”. Sta incolpando i giudici? “Gliel’ho già detto, è colpevole da un lato la politica quando non decide o formula leggi ambigue, e dall’altro la magistratura quando, nell’applicare le leggi esistenti, in realtà finisce per crearne di nuove. Il tutto in un contesto generale di ricorso al penale non più come extrema ratio, ma strumento per il controllo sociale soprattutto degli emarginati”. Insomma, questo quesito è ammissibile? “Io dico solo che forse è un po’ come sparare col cannone agli uccellini”. Una cannonata è sicuramente quella contro la legge Severino sugli incandidabili che peraltro la Consulta ha già dichiarato per due volte rispettosa della Costituzione. Perché imporre il colpo di spugna? “Evidentemente c’è chi ritiene che non basti battersi per una modifica della legge, ma che occorra mobilitare il popolo...ancora una volta il cannone, anche se non contro i passeri, ma contro gli uccelli predatori”. Da tre anni, prima con Bonafede e adesso con Cartabia, governo e Parlamento tentato di cambiare le regole del Csm. È utile che gli italiani votino per eliminare le firme per candidarsi al Csm o ancora sul diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari? “Il problema più serio per il Csm, dal punto di vista costituzionale, è quello delle misure disciplinari, per cui io stesso ho proposto l’Alta corte, come molti altri. Quanto al voto degli avvocati, che io stesso chiesi più di vent’anni fa, lo vedo già risolto dalla ministra Cartabia con il ddl sul Csm. Quanto alle firme mi pare un po’ eccessivo chiamare al voto gli italiani su un tema come questo”. Referendum, Magi: “I quesiti non sono un intralcio, aiutano le istituzioni che devono decidere” di Gabriele Bartoloni La Repubblica, 15 febbraio 2022 Intervista al deputato di +Europa alla vigilia del pronunciamento della Consulta: “Garantire ai cittadini di esprimersi su temi che per anni sono stati ignorati dal Parlamento significa dare vita ad una nuova stagione di partecipazione. La riforma del Csm? È debole”. Riccardo Magi, radicale e deputato di +Europa, domani la Corte Costituzionale si pronuncerà sui quesiti referendari. È fiducioso? “Va detto che la Consulta spesso è andata oltre i limiti di ammissibilità previsti dalla Costituzione. Le parole del presidente Amato ci hanno rassicurato, certo. Ma dire che non bisogna cercare “il pelo nell’uovo” significa che più volte in passato quest’ultimo è stato cercato, eccome. Garantire ai cittadini di esprimersi su questioni che per anni sono state ignorate dal Parlamento significa fare ciò che il presidente della Repubblica ha sottolineato nel discorso del giuramento: dare vita ad una nuova stagione di partecipazione dei cittadini. In ballo c’è la credibilità delle istituzioni. I referendum al vaglio della Corte toccano alcuni dei temi su cui sta discutendo anche il Parlamento, come la riforma del Csm appena approvata dall’esecutivo. Non teme una sovrapposizione? “Un intervento popolare non è di intralcio, ma di aiuto alle istituzioni che si stanno occupando di questi temi. Sul tema della giustizia, ad esempio, all’interno della maggioranza ci sono visioni che difficilmente avrebbero potuto consentire al governo di fare una riforma risolutiva di tutte le questioni aperte”. Quindi non è soddisfatto della riforma uscita dal Consiglio dei ministri? “Direi di no. Ho l’impressione che sia una riforma debole, nonostante la buona volontà della ministra Cartabia. Le condizioni politiche sono quelle che sono. A meno di un anno dalle prossime elezioni vedo una forte difficoltà al livello parlamentare nel trovare una soluzione che possa rendere la riforma all’altezza dei problemi che abbiamo di fronte”. Quali sono i punti che non le piacciono? “La questione della separazione delle carriere non è stata toccata, ad esempio. Ma penso anche alla responsabilità civile o alla valutazione dei magistrati. Anche qui sarebbe necessario un intervento più netto, che non vuol dire tornare allo scontro tra il partito dei magistrati e chi faceva solo garantismo di maniera. Al contrario, significa dire che esiste un settore dell’amministrazione dello Stato su cui ci deve essere una valutazione”. Il pacchetto approvato in Consiglio dei ministri arriverà alla Camera questa settimana. Come +Europa presenterete degli emendamenti? “Si, sicuramente faremo la nostra parte. Sulle porte girevoli, ad esempio, non può passare il messaggio secondo cui i magistrati possono tranquillamente tornare a fare il loro lavoro dopo aver ricoperto dei ruoli chiave nel determinare le leggi. Il problema non è solo il magistrato che si fa eleggere, ma anche quello che viene chiamato a ricoprire una carica, come succede negli uffici legislativi o nei gabinetti dei ministeri”. Anche il referendum sull’eutanasia si sovrappone alla discussione della legge sul suicidio assistito. Le divisioni nella maggioranza non sono poche. Quale delle due ha maggiori possibilità di vedere la luce? “Posso assicurare che le votazioni sulla legge sul fine vita non inizieranno questa settimana. Ci sono dei provvedimenti urgenti, come i decreti da convertire, che finiranno per scavalcarla. La mia previsione è che non si comincerà a votare prima di marzo. Ma visto il testo che sta discutendo il Parlamento, la strada maestra rimane quella del referendum”. Perché? “La legge in discussione non è assolutamente sufficiente. Le limitazioni sono troppe. Il testo, ad esempio, prevede che possano accedere al suicidio assistito solo coloro che sono tenuti in vita attraverso sostegni sanitari vitali. Una condizione che esclude i malati oncologici. Un’altra condizione è l’inserimento del paziente all’interno di un percorso di cure palliative prima di accedere al suicidio assistito. Poi da non sottovalutare c’è anche la questione legata all’obiezione di coscienza. Qui il rischio che la legge non venga applicata è alto, visto ciò che sta accadendo con l’aborto”. Per quanto riguarda la legge sulla cannabis, altro tema oggetto di referendum, le divisioni in Parlamento non sono poche. Anche qua conviene sperare nel referendum? “Nonostante abbia cercato di costruire un consenso intorno al testo, è difficile che con questa maggioranza possa essere approvato entro la fine della legislatura. L’unica via praticabile sembra quella del referendum. La legge italiana sugli stupefacenti è tra le più repressive di Europa. Ricordo che più di un terzo dei detenuti è in carcere per droga. Se avessimo una legge diversa, sicuramente non avremmo a che fare con il sovraffollamento carcerario”. Salvo rare eccezioni il sostegno dei partiti ai referendum al vaglio della Consulta è stato abbastanza timido. Perché secondo lei? “Qualcuno all’interno delle principali forze politiche spera che questi referendum vengano evitati. Se a primavera i cittadini fossero chiamati ad esprimersi su tutti questi temi, alla politica, che per anni li ha ignorati, non rimarrebbe altro che farsi un esame di coscienza. Sappiamo come la pensa il centrodestra sui diritti civili, ma M5s e Pd, salvo rare eccezioni, non si sono mai pronunciati su cannabis e eutanasia. Giuseppe Conte disse addirittura che su certe questioni i referendum sono inadeguati. E non parliamo di un partito qualsiasi, ma di un movimento che dice di essere nato per sostenere la democrazia diretta”. Nordio: riforme e referendum, è l’occasione buona per rivoluzionare la giustizia di Angela Stella Il Riformista, 15 febbraio 2022 “Il codice di procedura penale firmato da Vassalli, partigiano e Medaglia al valor militare, è stato saccheggiato e demolito perché incompatibile con la Costituzione. Lasciando spazio al codice Rocco firmato da Mussolini che è ancora in auge”. “L’importanza del referendum giustizia non risiede tanto nei singoli quesiti quanto nel messaggio che i cittadini possono dare: ossia se siano o meno soddisfatti di questo modo di amministrare la giustizia. Abbiamo una magistratura la cui credibilità è ai minimi termini, da poco abbiamo assistito allo scontro tra Csm e Consiglio di Stato, altri scandali stanno coinvolgendo la Procura di Milano. I referendum non riuscirebbero a sanare la situazione ma sarebbero un segnale importante sia per la magistratura che per la politica”. In attesa della decisione di martedì della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi oggi su otto quesiti referendari (sei sulla giustizia, uno sull’eutanasia e uno per la legalizzazione della cannabis), l’ex procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, fa il punto sullo stato della giustizia in Italia. “Le riforme proposte dal Governo in materia di giustizia osserva il magistrato - in parte importanti come quelle sulle porte girevoli, tuttavia sono il minimo sindacale rispetto alla reale necessità di quella rivoluzione copernicana di cui avrebbe bisogno il nostro sistema giudiziario. Per ritornare a una giustizia giusta, osserva Nordio, servono riforme importanti di cui i referendum possono essere il volano: “Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, differenza tra il giudice del fatto e giudice del diritto, allargamento dei patteggiamenti, e soprattutto la ridefinizione del ruolo dei pm italiani, unici al mondo che godono di un potere immenso senza responsabilità”. Questa settimana è segnata da tre date importanti: oggi la nuova Corte Costituzionale presieduta da Giuliano Amato deciderà sull’ammissibilità di 8 quesiti referendari (uno su eutanasia, uno su cannabis, sei sulla giustizia - Legge Severino, misure cautelari e recidiva, separazione delle funzioni dei magistrati, partecipazione di membri laici ai Consigli giudiziari e al Consiglio direttivo della Cassazione, responsabilità civile diretta dei magistrati, elezione dei componenti togati del Csm); domani arriverà in commissione Giustizia della Camera il testo di riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario approvato nel Consiglio dei ministri di venerdì; il 17 febbraio sarà il trentesimo anniversario di Tangentopoli. Tutto questo scenario ci chiama a una riflessione profonda per cercare di capire le conseguenze e gli intrecci delle due strade di riforma: quella parlamentare e quella possibile popolare. Sullo sfondo il destino della nostra magistratura. Nel giorno della sua relazione al Parlamento qualche settimana fa la ministra Cartabia, rispondendo alla senatrice di +Europa Emma Bonino, aveva chiaramente detto che riforme parlamentari e referendum sono “due percorsi legittimi, paralleli, hanno poche aree di sovrapposizione e bisognerà in quel caso vedere se il legislatore soddisfa le richieste dei referendum o meno; ci sono tutte quelle tecniche che ben conosciamo e il nostro impianto costituzionale prevede queste forme di dialogo tra il lavoro in Parlamento, la democrazia rappresentativa e quella del referendum”. Ma non la pensano così tutti i partiti, in primis il Partito democratico, mentre Salvini invoca un centrodestra compatto se si andasse a votare in primavera. Pensate invece che il senatore del Pd Salvatore Margiotta ha scritto su twitter: “Sono pentito di non aver firmato -per disciplina di partito, e per rispetto del mio stesso ruolo in Parlamento - i referendum sulla giustizia, o almeno alcuni di essi. Se la Corte li ammetterà, farò la mia parte nella campagna”, mentre la dem Enza Bruno Bossio ha confermato di averli sottoscritti tutti. Insomma un vaglio positivo della Consulta porterebbe scompiglio nei partiti e se ne vedrebbero delle belle. Di tutto questo parliamo con il dottor Carlo Nordio, ex magistrato, che da giovedì è in libreria proprio con Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura (Guerini e Associati Editore, pag 192, euro 18,50). Referendum: il presidente della Consulta Amato ha detto “Non si cerchi il pelo nell’uovo”. Segnale positivo? Non si tratta di una anticipazione di una sentenza di merito sulla costituzionalità di una legge, ma del chiarimento di un principio che riguarda l’affermazione della volontà popolare. Quindi ha fatto bene a specificare quella necessità di “evitare di cercare il pelo nell’uovo”. Tutto lascia ben presagire che, a parte qualche probabile limatura o rimodulazione di qualche quesito tecnicamente imperfetto, i referendum si faranno. Nella presentazione del suo libro leggiamo che “Indipendentemente dalla formulazione dei quesiti, imperfetta e spesso incomprensibile, il messaggio sottostante è chiarissimo: occorre una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere”. Abbiamo quindi davvero bisogno che i cittadini si esprimano? Assolutamente sì perché, come ho scritto nella terza parte del mio libro, l’importanza del referendum giustizia non risiede tanto nei singoli quesiti quanto nel messaggio che i cittadini possono dare: ossia se siano o meno soddisfatti di questo modo di amministrare la giustizia. Abbiamo una magistratura la cui credibilità è ai minimi termini, da poco abbiamo assistito allo scontro tra Csm e Consiglio di Stato, altri scandali stanno coinvolgendo la Procura di Milano. I referendum non riuscirebbero a sanare la situazione ma sarebbero un segnale importante sia per la magistratura che per la politica. Faccio presente che nel nostro Paese molti referendum hanno spesso trasceso la contingenza del quesito: basti pensare a quello costituzionale del 2016 che si trasformò in un referendum pro o contro Renzi; o a quello di oltre 40 anni fa sul divorzio che fu pro o contro Fanfani. La ministra Cartabia, rispondendo in Senato a Emma Bonino, ha detto che i referendum viaggiano paralleli alle riforme, non sono in contrasto... Esatto, ma per una semplice ragione. Le riforme proposte dal Governo in materia di giustizia, in parte importanti come quelle sulle porte girevoli, tuttavia sono il minimo sindacale rispetto alla reale necessità di quella rivoluzione copernicana di cui avrebbe bisogno il nostro sistema giudiziario. Quindi secondo Lei quella appena licenziata dal Cdm è una riforma al ribasso? È insufficiente per eliminare o anche solo per limitare i problemi di fondo del nostro sistema giudiziario. Certo, qualche aspetto positivo lo contiene. Come dicevo prima, la riforma sulle porte girevoli sicuramente rappresenta un passo avanti; anche se, a mio parere, bisognerebbe distinguere tra i magistrati che cercano consenso politico e quelli che vengono incaricati come tecnici nei vari ministeri. Detto questo, sono anche favorevole a una forte riduzione dei magistrati fuori-ruolo: credo che dei 200 attualmente distaccati ne basti solo il 10 per cento, gli altri dovrebbero tornare a lavorare nei tribunali. Secondo Lei come mai non si è potuto fare di più? La Cartabia non avrebbe potuto incidere di più, in quanto le riforme non le fa solo lei ma anche il Parlamento, al quale manca la volontà politica di portare avanti riforme strutturali significative. Quali sono i problemi di fondo del nostro sistema giudiziario? Noi abbiamo un sistema giudiziario schizofrenico: da un lato un codice di procedura penale, firmato da una Medaglia d’argento al valor militare per aver preso parte alla Guerra di Liberazione (Giuliano Vassalli, ndr), saccheggiato e demolito perché incompatibile con la Costituzione. Dall’altro un codice penale che è del 1930, firmato da Benito Mussolini e dal Re, che gode di ancora di ottima salute. Tutto ciò dimostra che nel nostro Paese se non si fa una riforma costituzionale radicale non si risolvono i problemi di fondo, in quanto la nostra Costituzione ha demolito il codice Vassalli e ha tenuto in piedi quello fascista. Quali modifiche in particolare bisognerebbe apportare? Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, differenza tra il giudice del fatto e giudice del diritto, allargamento dei patteggiamenti, e soprattutto la ridefinizione del ruolo del pubblico ministero. Il pm italiano è l’unico al mondo che gode di un potere immenso senza responsabilità: ha quello di dirigere la polizia giudiziaria, come fa anche il procuratore distrettuale americano, ma, a differenza di quest’ultimo che è elettivo, il nostro pm gode delle guarentigie del giudice. Pertanto, la ragione per cui migliaia di processi si celebrano inutilmente, senza che nessuna ne risponda dipende dal fatto che il pubblico ministero ha un arbitrio assoluto e incontrollato su cosa indagare e cosa no. E, quindi, anche quando fa spendere milioni di euro per le intercettazioni, provoca dolore creando false aspettative nelle vittime di reato, e distrugge le vite degli imputati, poi assolti, nessuno gli chiede conto del suo operato. Negli Usa dovrebbe cambiare mestiere, perché lì vengono valutati i risultati del prosecutor. Tornando alla riforma appena licenziata, i partiti, soprattutto Pd e Forza Italia, continuano a discutere sul tema della legge elettorale... È illusorio pensare che cambiando la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura si riduca il potere delle correnti, in quanto il correntismo è molto radicato, soprattutto tra i magistrati più anziani. Diciamolo chiaramente: è una pura questione di potere, non c’entra nulla la cultura della giurisdizione o l’autonomia della magistratura. Questo potere non vorranno mai abbandonarlo e quindi studieranno il miglior modo per adattare qualsiasi nuova procedura elettiva affinché possano mantenerlo. Un esempio molto significativo è quanto accaduto circa 30 anni fa con le elezioni politiche: fu introdotto il sistema uninominale pensando che ognuno potesse votare il proprio candidato ma poi alla fine i partiti, in modo bizantino, si sono divisi prima le varie circoscrizioni, mantenendo così i difetti del sistema proporzionale senza averne i pregi. Così faranno anche per il Csm. L’unica soluzione è il sorteggio: è vero però - e qui la Ministra ha ragione - che per attuare questo sistema occorre una modifica costituzionale. Quindi, tornando a quanto detto prima, serve una nuova assemblea costituente per una riforma ampia della Costituzione. Facciamo un passo indietro: per frenare lo strapotere dei pm sarebbe d’accordo a nuove valutazioni di professionalità basate anche sugli esiti dei provvedimenti? Sono d’accordissimo. Ma ho dei forti dubbi sul fatto che venga applicata questa nuova valutazione: quelli che effettueranno questi giudizi saranno gli stessi magistrati che con il sistema attuale appartengono alle correnti: se fino ad ora hanno sempre qualificato come intelligentissimi, bravissimi e operosissimi i loro protetti, faranno lo stesso anche un domani, giustificandosi con il fatto che l’azione penale era obbligatoria. Nel suo nuovo libro lei scrive che l’effetto collaterale più pernicioso di Mani Pulite è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Oggi come sono i rapporti tra politica e magistratura? Oggi il Parlamento è ancora più debole perché si è quasi dissolto quello che restava dei partiti - lo si è visto chiaramente durante le elezioni del Quirinale -. In tale scenario paradossalmente può essere più forte il capo del Governo che li tiene tutti in riga. Allo stesso tempo però la magistratura, a seguito degli scandali ripetuti e continui, si è estremamente indebolita. Pertanto la bilancia pende a favore della politica che potrebbe recuperare la sua legittima supremazia come sta tentando di fare. Peccato che il Parlamento abbia tante altre questioni da affrontare all’ordine del giorno - pandemia, economia, Ucraina, etc - e soprattutto è composto da forze, penso soprattutto al Movimento Cinque Stelle che ha della giustizia una visione giacobina. E l’alleanza del M5S con il Partito democratico che peso ha? Il Pd è molto oscillante: ha un’anima un po’ garantista ma è sempre molto prudente per quanto concerne i rapporti con la magistratura. A parole sostiene la necessità delle riforme, alla prova dei fatti si oppone. Basti vedere l’atteggiamento sul referendum: quello sulla giustizia gli fa paura perché se dovesse avere una manifestazione di volontà popolare univoca e forte smentirebbe quella che è la politica giudiziaria del Pd degli ultimi quarant’anni. Che Presidente del Csm è Mattarella? Poco incisivo o ha parlato nel momento giusto? Nella prassi non ha alcun potere operativo nei confronti del Csm. Invece secondo la Costituzione potrebbe intervenire, tanto è vero che Cossiga, che era un grande costituzionalista, ha provato a farlo ma il risultato è stato quello della richiesta dell’impeachment perché si era sollevata contro l’intera magistratura e parte della politica con il PdS. Ultimissima domanda: l’Anm processa i magistrati coinvolti nelle chat di Palamara. Che ne pensa? Questa operazione non può svolgerla l’Anm perché è dentro fino al collo nel sistema Palamara. Quest’ultimo non è uscito come Minerva dalla testa di Giove. È uscito dall’Anm e l’ha governata per anni. Il referendum per una giustizia nuova: né manettara, né esitante di Carmelo Palma Il Foglio, 15 febbraio 2022 Riportare il discorso sui delitti e sulle pene a un canone liberale è un’impresa che richiede da tutti, politici e magistrati, un’autocritica profonda. I referendum promossi dal Partito radicale e sostenuti dalla Lega non realizzano le riforme sufficienti per mettere in sicurezza la giustizia penale, ma ne costituiscono la condizione necessaria. Se oggi la Corte costituzionale sarà coerente con gli auspici del suo presidente Amato e li ammetterà senza “cercare il pelo nell’uovo”, ci sarà almeno la speranza di aprire una discussione non inutilmente polemica o corriva. In un paese in cui il populismo giudiziario ha affratellato politici e magistrati e l’uso demagogico del diritto penale ha precorso i motivi più caratteristici del populismo elettorale - che si è affermato proprio come pervertita domanda di giustizia, cioè di galera -, riportare il discorso sui delitti e sulle pene a un canone liberale è un’impresa che richiede da tutti, politici e magistrati, un’autocritica profonda e la totale messa in discussione dell’uso della giustizia penale come mezzo di ecologia politica o, peggio, di igiene morale della società. La verità è che nessun partito, a esclusione di quello Radicale, può dichiarare la propria estraneità a questo sistema affermatosi per progressivi slittamenti, che ha finito per identificare la tutela penale con la tutela democratica tout court e per dilatarne il perimetro fino a comprendervi qualunque problema di effettiva rilevanza pubblica. Questa deriva panpenalistica non solo ha reso l’attività di repressione criminale, anche a fini dimostrativi, il terreno privilegiato della legittimazione politica di leader e partiti (ciascuno, com’è noto, coi propri “reati di riferimento”), ma ha anche trasformato la giustizia penale in un oracolo dai responsi casuali, che avvicinano la giurisdizione alle distopie fantastiche della “Lotteria a Babilonia” di Borges o delle “Justice Machines” di Charpentier. Nulla, infatti, come la natura randomica dei giudizi rende la giustizia tanto temibile quanto arbitraria. E nulla come la minacciosa imponderabilità delle sentenze presta un’aura sacrale al sacerdozio togato, che reclama nell’indipendenza e nell’autonomia il diritto di fare da sé e per sé, come un potere assoluto. Per queste ragioni si è costituito il “Comitato garantista per il Sì”, promosso da Italia europea e Comitato Ventotene: per raccontare l’urgente bisogno di una riforma della giustizia, ma anche per dare un’esposizione garantista, non viziata da retaggi manettari, ma neanche troppo pavida ed esitante, delle buone ragioni dei referendum. La terzietà dei giudici, la riforma anti correntizia del Csm, la responsabilità dei magistrati e la valutazione non corporativa delle loro competenze, la presunzione d’innocenza e la difesa di indagati e imputati da pene che anticipino il giudizio definitivo costituiscono una sorta di indice delle principali emergenze della giustizia penale. È ovviamente più semplice sostenerli o avversarli a seconda che si sia sostenitori e avversari degli attuali promotori. Di Salvini o, come sicuramente si dirà, “delle destre”. Ma chi si incamminerà su quella strada segnata - favorevole o contrario che sia - contribuirà solo a sciupare l’occasione offerta dai referendum. Maggioranza sull’orlo di una crisi di nervi per il ddl sui magistrati di Giacomo Puletti Il Dubbio, 15 febbraio 2022 FI insisterà su sorteggio per la scelta dei togati e separazione delle funzioni più netta. Bazoli (Pd): “Così può saltare tutto”. “Il governo non sarà disponibile a un Vietnam parlamentare, e davanti a emendamenti come quelli che prevedono il sorteggio temperato si metterebbe a rischio la tenuta della maggioranza”. A dirlo è Alfredo Bazoli, capogruppo del Partito democratico in commissione Giustizia alla Camera, in vista dell’avvio della discussione a Montecitorio sulla proposta di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario che ha avuto il via libera del Consiglio dei ministri la scorsa settimana all’unanimità. Il riferimento è alle proposte di modifica di Forza Italia, che già in Cdm aveva depositato un testo scritto con illustrata la propria posizione. Ovvero “mani libere” sul sistema di elezione dei giudici togati di palazzo dei Marescialli e sulla possibilità che un magistrato possa cambiare una sola volta la propria funzione entro cinque anni dall’inizio della carriera, come spiega al Dubbio Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in commissione a Montecitorio. “Noi non accettiamo diktat o presunte questioni relative alla tenuta della maggioranza - spiega il deputato - Credo dovremo fare una discussione seria e senza fretta perché c’è tutto il tempo. Certo è che dopo il dibattito in Commissione accetteremo il verdetto della maggioranza, anche sui temi più controversi”. Ma è proprio il tempo uno dei fattori principali in vista della discussione parlamentare, perché l’obiettivo del governo è portare a casa la riforma entro luglio, così da consentire l’elezione dei giudici togati del nuovo Csm con il nuovo sistema elettorale. Non un obbligo, visto che una legge elettorale chiaramente già esiste, ma una forte esortazione, ribadita, esplicitamente, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di reinsediamento. Per farlo, serve l’approvazione di Camera e Senato entro poche settimane, così che poi, a pubblicazione in Gazzetta ufficiale avvenuta, si dia il tempo necessario allo stesso Csm per definire i collegi elettorali. “Se ci mettessimo a fare rivoluzioni rischieremmo di arrivare a un allungamento indefinito dei tempi di approvazione della legge e di creare qualche fibrillazione in maggioranza - continua ancora Bazoli, intercettato tra una riunione e l’altra sul tema - Se ognuno mette la propria bandierina si avranno dei contraccolpi a livello politico, per questo mi auguro una discussione costruttiva che non miri a stravolgere i capisaldi sui quali si è trovato l’accordo a Palazzo Chigi”. Anche perché il testo non è facilmente modificabile e non contiene grandi margini di manovra, soprattutto sui punti politicamente più caldi. In primis sul sistema di voto: la questione del pre sorteggio degli eleggibili, richiesta dal centrodestra, pare non facilmente attuabile, per rischi di incostituzionalità temuti innanzitutto dalla guardasigilli Marta Cartabia. La Carta sancisce in effetti che i rappresentanti togati al Csm debbano essere eletti tra tutti i magistrati ordinari in servizio: il vizio potrebbe dunque risiedere nel fatto stesso di impedire a un magistrato di candidarsi, come invece potrebbe accadere con il pre sorteggio. C’è poi il tema delle “porte girevoli”. A quanto ha lasciato intendere la ministra, il testo già prevede che non possano rientrare nella giurisdizione quei magistrati che abbiano assunto incarichi non solo di ministro, sottosegretario o assessore, ma anche di Capo di gabinetto in un dicastero. “Il rischio che i tempi siano troppo stretti c’è, anzi diciamo pure che i tempi sono serrati commenta Eugenio Saitta, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia alla Camera - Ma devo dire che non vedo grandissime distanze tra le forze politiche, né quella tensione che aveva contraddistinto la riforma del penale: penso che nella discussione in commissione si possano trovare dei punti di convergenza per portare a casa la riforma nei tempi prestabiliti”. Quel che emerge è che il M5S “non ha alcuna preclusione circa il sistema elettorale” e che “si possono fare dei passi in avanti sulle novità introdotte riguardo alla valutazione dei magistrati”. Il faro, come sempre, è la legittimità costituzionale, perché a quella, conclude Saitta, “ci tengono tutti”. In primis il governo, che su questo non intende fare un passo indietro. Pena il caos in maggioranza. Presunzione d’innocenza, una norma che rimette al centro l’individuo di Giuseppe Belcastro Il Dubbio, 15 febbraio 2022 Dietro ogni notizia c’è un uomo, una famiglia, le loro vite. È materiale delicato, da maneggiare con estrema cautela. Si è conclusa sabato scorso la due giorni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti di UCPI che quest’anno ha avuto sede a Catanzaro, nello splendido scenario del Teatro Politeama. Ho avuto l’onore di intervenire alla IV sessione dei lavori, che, in vista del recentissimo D. Lgs. 188/21 attuativo della direttiva comunitaria 343/2016, è stata dedicata a “informazione giudiziaria e presunzione di innocenza”. A margine dell’incontro, ho provato a mettere a punto alcune riflessioni di principio sul contenuto di quel decreto, sul quale tanto si è già scritto e, v’è da credere, tanto ancora si scriverà, anche alla luce delle prassi applicative che ne dovranno scaturire. Per farlo, mi è apparso utile muovere dalla reazione che la sua entrata in vigore ha generato in un paio di casi. Il 27 novembre dello scorso anno, dalle pagine del Corriere della Sera, Luigi Ferrarella anticipava la pubblicazione del decreto con una garbata e ragionata critica ad un testo normativo che, chiudendo i rubinetti ufficiali delle notizie o, comunque, limitandone molto la portata, avrebbe alimentato una vera e propria “guerra informativa”. Uno scenario bellico in cui con il giornalista, quasi un “casco blu dell’Onu”, è condannato a combattere per cercare materiale al mercato nero delle notizie, essendogliene altrimenti precluso l’accesso. Peraltro, osservava ancora l’autorevole commentatore, per una eterogenesi dei fini, nel tentativo di “tagliare le unghie ai PM” la normativa sembra al contrario dotarli di un ulteriore affilato artiglio: saranno loro a scegliere se, cosa e quando comunicare ai mezzi di informazione. Il 6 febbraio, dalle pagine del Fatto Quotidiano, il dott. Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro, in maniera più frontale, additava le nuove norme come un tentativo di offuscamento della “rilevanza sociale del diritto all’informazione” e, addirittura, “del diritto alla verità delle vittime di gravi reati”. Secondo il Procuratore Gratteri, il decreto impedirebbe di “spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie” assottigliando il già labile filo fiduciario che consente a quelle stesse vittime di squarciare, talvolta, il velo dell’omertà. Tra i timori espressi dal magistrato poi, anche “il silenzio” causato dal decreto, in grado, par di capire, di creare un brodo di coltura favorevole alla proliferazione del fenomeno mafioso che, come si sa, nel silenzio sguazza e cresce. Sono due posizioni sideralmente distanti per modi e argomenti, forse solo accomunate dall’idea della non necessarietà dell’intervento legislativo, in un caso perché reiterazione di principi che dovrebbero già essere introiettati a partire dall’art. 27 della Costituzione, nell’altro perché la norma europea sarebbe indirizzata ad altri paesi non ancora provvisti, a differenza dell’Italia, di sufficienti presidi a garanzia della presunzione di innocenza. Lascio a chi legge di riflettere in adesione alla propria sensibilità su ciascuna di esse, limitandomi, per questo aspetto, solo a segnalare che, a differenza delle parole di Ferrarella, le censure del dott. Gratteri mi appaiono squadrate con l’ascia della retorica più che affinate con il cesello del ragionamento. Al di là di questo però, mi preme invece segnalare un’altra cosa. Ciò che a me pare dirimente, per risolvere il giudizio sulla norma, è che, in disparte gli effetti concreti, sui quali potrà tornarsi con interventi correttivi e persino con l’opera di mediazione delle circolari applicative (lo dimostrano quelle adottate rapidamente dai Procuratori Capo di Bologna, Giuseppe Amato, e di Perugia, Raffaele Cantone, partecipi della sessione di lavori) il decreto ha il pregio indiscutibile di rimettere al centro il vero cuore dell’informazione, vale a dire l’individuo che ne è oggetto. Dietro ogni notizia c’è un uomo, una famiglia, le loro vite. È materiale delicato, da maneggiare con estrema cautela. In questo senso, allora, il decreto alza chiaramente l’asticella, avanza la linea di protezione. La nuova norma, oltre che di far “considerare” l’imputato come innocente fino alla sentenza definitiva, mi pare si prefigga soprattutto lo scopo di farlo “rappresentare” come tale. E non è una sfumatura. Messa così, infatti, riportata cioè sulla piazza della comunicazione, la questione diventa decisiva e la norma non solo opportuna, ma pure necessaria. Basta rileggere le rassegne stampa sulle più recenti vicende di clamore mediatico per avvedersi che la continenza concettuale non è appartenuta alla nostra informazione se non in un numero sparuto di casi; con l’aggravante che la bulimia informativa spinge ad accendere i riflettori sulle vicende in modo fulmineo, illuminandone l’inizio (l’indagine, meglio se con arresti) e disinteressandosi degli esiti del processo. I dati valorizzati dall’informazione sono quindi solo quelli investigativi, con buona pace tanto del loro essere per definizione provvisori, quanto del fatto che il controllo processuale, in un numero nient’affatto basso di casi concreti, li smentisce. Ed allora, se una critica può muoversi al decreto non è certo la sua innecessarietà, quanto quella di non aver corredato i propri precetti con apposite sanzioni procedurali, avendo costruito invece un sistema di controllo e rettifica dotato di un certo tasso di fideismo. C’è da immaginare che la norma avrà, almeno nell’immediato, una vita non semplice, ma ciò non deprime affatto le ragioni della sua opportunità; anzi le enfatizza. Forse è vero che il nostro ordinamento conteneva già, almeno in parte, le istruzioni per l’uso corretto dell’informazione giudiziaria, ma quel bugiardino è rimasto troppo spesso chiuso in una scatola che questo decreto contribuisce forse in qualche misura ad aprire. Csm, quell’antica idea di affidarsi al sorteggio per favorire la democrazia di Raffaele Romanelli* Il Domani, 15 febbraio 2022 Per riformare l’elezione del Consiglio superiore della magistratura (Csm) c’è chi propone il sorteggio. Perché? Come dobbiamo intendere la proposta? Il sorteggio delle cariche è un sistema di scelta praticato già nella Grecia antica, dove circa 600 incarichi che costituivano l’amministrazione pubblica erano assegnati per estrazione a sorte tra tutti i cittadini. Il che si suole chiamare democrazia. Ma sul “tutti”, attenzione, perché erano esclusi gli stranieri, i meteci, nonché i lavoratori manuali, che nella proporzione di tre a due erano schiavi, non liberi. Tra quei “tutti” chi avesse oltre trent’anni poteva proporsi; la carica durava un anno non rinnovabile, ed era sottoposta a una serie di controlli e rendiconti. Il sistema si intrecciava con quello delle elezioni - le cariche militari ad esempio erano elettive: non era certo tra gli estratti Pericle, rieletto generale (stratega) per più di vent’anni - e aveva una chiara valenza “democratica”, giacché favoriva la partecipazione, se non universale, ampia e corale, affidando la scelta al caso (alla sorte, al fato). In questo senso, come ha mostrato anni fa un brillante studioso, Bernard Manin, se l’estrazione è democratica, si può dire per contrasto che l’elezione è aristocratica - o, se si preferisce il termine, elitaria: si scelgono i migliori, c’è chi si candida, si espone, si esibisce. È una distinzione quella tra sorteggio come democrazia e elezione come aristocrazia, ben chiara ai classici, da Aristotele a Montesquieu a Max Weber. Quando però si afferma la rappresentanza politica, tra Sette e Ottocento, prevale l’idea che le cariche debbano essere sostenute da un consenso, un consenso che premia il merito e la capacità, e dunque seleziona i migliori, le élite. Nel momento poi in cui il corpo elettorale si amplia, raggiunge i molti o i tutti, tutti sono al proscenio. Ma, la cosa era ben chiara ai padri della politica da Guicciardini a Rousseau, il popolo è ben capace di giudicare idee, uomini e fatti, ma non perciò di governare. Si pensi alle giurie popolari, appunto scelte dalla sorte tra tutti i cittadini: in quel caso, sotto la guida “tecnica” dei magistrati, si suppone che tutti possono esprimere un giudizio su un evento criminoso che ha ferito l’ordine sociale, o la morale condivisa. Non è così nelle scelte politiche e di governo, evidentemente. Allora il meccanismo elitario si fa “democratico” - se si preferisce: il meccanismo democratico si fa elitario - si costruiscono nuovi meccanismi della scelta, i partiti, le candidature, la campagna elettorale, le procedure elettorali. E di estrazione a sorte non è più il caso di parlare. La si ritrova occasionalmente, ma rispondendo a una diversa logica. Il sorteggio può avere una valenza virtuosa se avviene in corpi ristretti, tra eguali, tra una élite già selezionata in cui tutti sono egualmente passibili di essere scelti. La scelta, non la sorte, rimane il criterio principale, ma proprio al fine di facilitarne l’esercizio in alcune fasi l’estrazione a sorte può servire a correggere le distorsioni presenti nelle competizioni elettorali, le cricche, le cordate, le intese sotterranee. Così avviene nelle repubbliche medievali italiane, che sempre ossessionate dalle fazioni (i Montecchi, i Capuleti...) studiano ogni sorta di contromisura, a cominciare dal podestà straniero. In sostanza, l’estrazione testimonia di un insuccesso, di un limite della politica, quando la società politica non è immediatamente in grado di esercitare una scelta virtuosa, di eleggere in base a merito e competenze: i meccanismi della scelta non funzionano, e ci si appella al caso. Se ne trova traccia anche oggi, ad esempio in certe fasi dei concorsi universitari - procedura tra quelle che più godono di orrida fama, un giorno sarebbe da capire perché. L’idea è ancora quella di contrastare le “cricche” accademiche; e poiché, proprio per la natura delle selezioni non tutti gli “eguali” del corpo sono parimenti degni, allora si combinano i due criteri: la commissione è estratta a sorte tra quanti sono stati prima eletti, oppure, simmetricamente, è eletta, ma tra alcuni soggetti scelti dalla sorte. Il che ricorda il sistema adottato nella repubblica di Venezia per l’elezione del Gran consiglio: in quel caso, erano estratti a sorte i nomi di coloro che nominavano i candidati, i quali venivano poi votati subito dopo, senza che ci fosse il tempo di condurre “campagne elettorali”. Se ben pensato (ma non sembra che oggi lo sia), può essere questo il caso della scelta dei membri del Csm, dove tanto si parla di indebolire le “correnti”, le cordate, gli accordi sotterranei. Ma il sospetto per le pratiche oscure può coinvolgere l’intera attività politica in quanto tale. L’antipolitica accompagna la politica da sempre (fin dai greci?). I movimenti populisti contemporanei l’hanno solo depurata di ogni consapevolezza istituzionale, portandola al diapason della rozzezza. Allora si torna a parlare di sorteggio, eventualmente elettronico, “popolare”, “tra tutti i cittadini”. Non sono mancate proposte simili; ad esempio nel 2013, all’apice del qualunquismo populista, c’è stato una specie di Casaleggio-Grillo belga, di cui un editore si è prestato a offrire i pensamenti, che spiegava al pubblico italiano “perché votare non è più democratico”. L’idea non è nuova. E vi si possono mescolare pulsioni assai diverse, che alla diffidenza per la politica di massa uniscono nostalgie elitarie. Può sorprendere, ma in fondo non dovrebbe, trovarne traccia anche nella cultura comunista, o finanche democratica. Il federalista Altiero Spinelli - appunto un intellettuale ex-comunista - nel 1948 scriveva: “Bisognerebbe diffondere il metodo del sorteggio fra un certo numero scelto di uomini, nonché quello delle elezioni indirette. Più si spezza l’elezione di massa, più si restituisce nobiltà alle istituzioni libere. E senza nobiltà esse non possono prosperare”. L’idea doveva circolare, se nel 1950 la ritroviamo per bocca di Ernesto Rossi, un altro azionista, la cui polemica verso il monopolio dei partiti era diretta verso il suffragio universale, “da sostituirsi da sistemi come “la cooptazione”, “gli esami da parte di commissioni di esperti”, “la nomina di coloro che hanno già ricoperto cariche importanti”, “la sorte”“. Rossi giudicava quest’ultimo come il sistema “migliore di tutti”. *Storico Mani pulite, il bilancio 30 anni dopo: su 2.565 indagati i condannati furono 1.408 di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 febbraio 2022 Le indagini del pool composto da Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito. La pena più alta: 5 anni e 6 mesi a un dirigente Anas. Ma davvero Mani pulite è finita in niente dal punto di vista delle sentenze, come propagandano i suoi critici? Tutto e il contrario di tutto può essere detto nell’indisponibilità di statistiche giudiziarie, perché i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di elaborazioni; perché persino lo staff dei pm in Procura dopo un po’ perse il conto degli esiti sempre sfrangiati e spesso sovrapposti; e perché neppure gli archivi dei giornali aiutano, posto che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. Così l’unico modo per avvicinarsi a un tasso accettabile di approssimazione è stato provare non dall’alto delle statistiche, ma dal basso del ritrovare il filo degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare un ultimo stato processuale noto (fino a inizio 2000) a un nome e cognome. Con questo parametro si può ragionare con attendibilità non tanto sul numero dei procedimenti iscritti (3.146 imputazioni, a volte la stessa persona per più ipotesi), quanto sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito). Sino all’anno 2000 avevano patteggiato o erano stati condannati 1.408 di essi, mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte del reo). Manca all’appello l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, spesso perché si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni o di posizioni trasmesse per competenza territoriale altrove e lì “desaparecide”, ma la prognosi più realistica è che abbiano finito per ingrossare la casella del fuori tempo massimo, cioè delle prescrizioni. In carcere a scontare una pena nel 2000 erano in quattro, tutti nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale draconiane. Tanto che - tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli - in fin dei conti la pena massima definitiva nei processi di Mani pulite non è stata appannaggio di Mario Chiesa (che ha chiuso con 5 anni e 4 mesi) o di Sergio Cusani (5 anni e 5 mesi di cumulo finale), ma di un poco noto capo-compartimento Anas, che oggi non avrebbe senso rinominare qui (non essendo figura di rilievo pubblico), e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, pur partito da un iniziale conto complessivo di 16 anni. Appartiene invece non a Cerciello (7 mesi) e neanche a Cusani (5 mesi), ma anche qui a un assai meno noto colonnello della GdF il record di custodia cautelare di tutta Mani pulite: un anno in carcere nella fortezza di Peschiera. Centoquaranta i miliardi di lire rientrati all’erario come risarcimenti: compresi i 56 miliardi versati da un costruttore (nel frattempo morto) che nel processo Enimont poi vide infine paradossalmente prescriversi la propria imputazione. “Mazzette vere e personaggi da fumetto, così nacque il nome Tangentopoli” di Piero Colaprico La Repubblica, 15 febbraio 2022 Era il 17 febbraio del ‘92 quando scoppiò il caso giudiziario Mario Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. L’inchiesta Mani Pulite “andò avanti a un ritmo forsennato, cambiando radicalmente la storia d’Italia”, racconta l’inviato di allora di Repubblica che cominciò a scrivere tra i primi del “Kennedy di Quarto Oggiaro”. La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un funzionario comunale all’Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, condomini, proprietari terrieri, architetti di ampliare verande e sottotetti e realizzare piccole e grandi costruzioni. Ma al pomeriggio apriva una sua agenzia, a circa 400 passi di distanza. E là, non più mezzemaniche, bensì consulente in giacca di cammello, studiava le stesse pratiche che poi, come funzionario, sarebbe riuscito a far approvare. Si pagava ancora in lire: bastava un milione, vale a dire 500 euro attuali, per sentirsi dire sì quando si erano incassati una serie di no. Insomma, un’idea semplice e criminale, con una dinamica involontariamente umoristica. Il funzionario-consulente era andato avanti un bel po’ di tempo a decuplicarsi lo stipendio, inglobando piccole e grandi somme quotidiane, finché la sua epopea era finita all’improvviso, grazie a intercettazioni telefoniche e confessioni. E si era ritrovato a San Vittore. Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti, quelle che poi finiscono immancabilmente male: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli. Milano, “la città delle tangenti”: sarebbe meglio dire “la città delle tangenti che venivano scoperte”, perché non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste “cronache di Tangentopoli”. Non se ne accorse nessuno. Fra Milano e l’Italia intera si ripeteva infatti il medesimo schema giudiziario: veniva scoperto un corrotto, si indagava su politici, amministratori e funzionari, e qualcuno di loro entrava in carcere. Nessuno o quasi accettava però di rispondere agli interrogatori dei magistrati, o tantomeno di coinvolgere altre persone. Poco dopo, di regola, avvenivano le scarcerazioni: e quel sistema che verrà definito dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro “dazione ambientale”, non veniva intaccato. Mai. Ma l’Italia è anche il Paese dei “Finché”. Uno crede sempre di avere successo, potere e potersela cavare, finché: finché, in un pomeriggio buio e freddo, il 17 febbraio 1992, viene arrestato nel suo ufficio il socialista Mario Chiesa. Era sfottuto come il “Kennedy di Quarto Oggiaro”, dal nome di un quartiere di periferia, aveva non nascoste ambizioni da sindaco e millantava una forte amicizia con i Craxi. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. La “Baggina”, casa di riposo amata dai milanesi, è un’istituzione dotata di un grande patrimonio immobiliare. Chiesa non utilizzava questa fortuna, ricavata dalle eredità di chi pensa “ai vecchioni”, come un tempo venivano chiamati, per dare un tetto a sfrattati o indigenti, ma a giornalisti, architetti, avvocati, politici, magistrati, per fare favori alle categorie già privilegiate. Aveva intascato, quel pomeriggio, le banconote di una tangente, senza sapere di essere caduto in trappola. Accanto alla filigrana delle 50mila ci sono le firme di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani, e di Pietro. Il caso fa scalpore a Milano e viene seguito dai cronisti giudiziari. Sono un inviato speciale da oltre due anni, nei primi giorni non me ne occupo, finché - c’è sempre il finché - vengo convocato dall’allora capo redattore Guido Vergani che chiude la porta e dice: “Piero, non puoi dire di no. Devi darci una mano, a Scalfari non piace come stiamo lavorando, ci ha chiesto di dare il massimo in questo servizio. Tanto, quanto durerà? Un paio di mesi al massimo, poi torni a girare...”. Non avrei detto “no” comunque. Quando con il collega del Giorno Paolo Colonnello, restando cinque ore davanti a San Vittore, scopriamo che Mario Chiesa sta parlando, quel termine mi rispunta. E lo riutilizzo nelle settimane successive. Cronache di Tangentopoli. Nessuno se lo fila. Sarà infatti un ignoto titolista delle cronache nazionali di Repubblica a “spararlo” in grossi caratteri. Ed è così che entra nell’immaginario. Le televisioni lo riprendono subito, mentre i giornali, specie i diretti concorrenti, ci mettono un po’ di più. Poi cedono. Com’è noto, l’inchiesta non durò “due mesi”, come profetizzava Vergani, ma anni. Andò avanti a un ritmo forsennato e intenso, cambiando radicalmente la storia d’Italia. Il termine ha purtroppo figliato i vari Calciopoli, Concorsopoli e Vallettopoli, come se “poli”, invece di “città”, significasse “scandalo”, ma in qualche modo è rimasto nel tempo. Viceversa, la storia dell’inchiesta subisce continue riletture, aggiustamenti, ritocchi. Anche se la sostanza vera non cambia: c’era un fortissimo e ramificato sistema di corruzioni negli appalti, nelle assunzioni, negli incarichi, in grado di uccidere ogni merito, pesare sui bilanci pubblici, sostenere le casse dei partiti, e anche di non pochi singoli personaggi. Tangentopoli, per l’appunto. Tangentopoli, Colombo e Cagliari jr: “Una cena per ricordare che senso ha la giustizia” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 15 febbraio 2022 Il confronto tra il pm del pool e il figlio di un indagato morto suicida in carcere tre giorni prima di Raul Gardini. “Sembrava tutto più grande di noi”. Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool di Mani Pulite, e Stefano Cagliari, il figlio di Gabriele Cagliari, l’ex presidente di Eni morto suicida in carcere, il 20 luglio 1993, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Si ritrovano trent’anni dopo il primo arresto di Tangentopoli a Metropolis Live, la trasmissione sul sito di Repubblica condotta da Gerardo Greco, insieme al vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e al direttore dell’Espresso Marco Damilano. Si confrontano su quella stagione di inchieste, sul senso del carcere e della pena, sulla spettacolarizzazione della giustizia. E si ripropongono di incontrarsi lontano dalle telecamere. “Mi piacerebbe che ci vedessimo a cena”, dice Colombo a Cagliari. Perché Colombo e Cagliari non si sono mai incontrati in privato, ma solo quando sono stati chiamati a ricordare quegli anni dai loro, opposti, punti di osservazione. L’ex pm ha poi scritto la prefazione a “Storia di mio padre”, il libro che raccoglie le lettere lasciate dal manager nei mesi a San Vittore. In una Gabriele Cagliari scrive che “il carcere è uno strumento di tortura, un serraglio per animali senza anima e senza testa”. “Non è l’ultima che ha scritto - dice Stefano - Quella è del 3 luglio 1993, diciassette giorni prima di suicidarsi. È stata definita da mia madre il suo “testamento politico”. Ricordo che lesse le prime righe e poi me la diede. Da quel giorno fino al 18 luglio, mio padre ha lasciato tante altre lettere, rivolte a noi, agli amici, agli avvocati. Alcune le ha tenute in cella, in tutte spiegava il suo gesto. Non sapevamo che ci fossero, perché a noi scriveva lettere in cui non traspariva questa sua intenzione. Un paio di giorni dopo ha provato a suicidarsi e probabilmente non c’è riuscito, e ha continuato a scriverci. Poi sono accadute una serie di cose per cui lui ha preso la decisione la sera del 19 di luglio, e la mattina dopo l’ha messa in atto”. Tre giorni dopo, anche il suicidio di Raul Gardini. “Eravamo sul sagrato per i funerali di mio padre e stavamo per entrare in chiesa. Eravamo già scossi per quanto ci era successo. Tutto sembrava più grande di noi”. “Suicidi ce ne sono stati diversi - ricorda Colombo - Peraltro come indagato nelle nostre inchieste sarebbe stato a casa, perché noi avevamo chiesto al gip di concedere i domiciliari. Io non posso che unirmi alla disperazione dei familiari, non è possibile che queste cose succedano, ma continuano a succedere. Quest’anno nelle carceri italiane si sono già suicidate almeno dieci persone. Purtroppo il carcere è quello che è, ma non deve essere così. È una situazione insopportabile”. Oggi, a trent’anni da Mani Pulite, Colombo preferirebbe rievocare un’altra ricorrenza. “Mi è venuto in mente che il 17 di febbraio del 1600 è stato bruciato a Campo de’ Fiori Giordano Bruno. Forse sarebbe il caso di ricordare il 17 febbraio di Giordano Bruno piuttosto che Mani Pulite. Perché secondo me non è cambiato molto. Alcune cose sì: la corruzione non è più, come era allora, un sistema. I rapporti tra le industrie e la pubblica amministrazione passavano attraverso il pagamento di tangenti, destinate alle casse dei partiti. Si potevano finanziare pubblicamente i partiti, ma invece i soldi passavano per altre strade. Adesso questo sistema non esiste più, per quel che ne sappiamo, ma la corruzione esiste ancora. Per questo dico che sono altre le date da ricordare. Se vogliamo restare al secolo passato, quello che ha cambiato la storia del mondo è stata la caduta del Muro di Berlino. Mani Pulite è stata una conseguenza di quella caduta. Io mi sono dimesso dalla magistratura dopo tredici anni nel pool perché ho capito che non tutto si può risolvere con il processo penale”. “Lei ha conosciuto mio padre in quei giorni, quando era in carcere per un’altra inchiesta, Eni Sai - interviene Cagliari - mi piacerebbe avere un giudizio umano sulla persona, per capire il mosaico che era mio padre. Io nel libro ho raccolto le testimonianze di chi lo conosceva, ma non dei magistrati che hanno indagato su di lui”. “Bisogna che una sera usciamo a cena”, propone Colombo. “Magari”, risponde subito Cagliari. “Io suo padre l’ho conosciuto soltanto per le indagini, non mi sembra di averlo incontrato prima, anche se ho investigato molto anche su altre società Eni. L’ho incontrato soltanto in quelle occasioni, non sono situazioni in cui si conosce una persona. Sarei contento se una sera uscissimo a cena, se chiacchierassimo anche di queste cose”. I beni confiscati alle mafie? La metà degli immobili non sono ancora utilizzati di Alessandra Coppola Corriere della Sera, 15 febbraio 2022 L’allarme del Terzo settore. Critiche sul bando dell’Agenzia per la Coesione: assegnazioni riservate agli enti pubblici e i fondi vanno a finanziare solo ristrutturazioni. Risposta? “Gli Ets possono co-progettare”. Borgomeo: “Non è vero, restiamo residuali”. La lezione di Rosarno. Quattro alloggi rimessi a nuovo con fondi europei in una palazzina sottratta alla ‘ndrina dei Pesce, più 16 moduli abitativi edificati su un terreno confiscato: abbandonati, vandalizzati, occupati abusivamente. Il caso del “residence Lamezia”, ancora nella Piana, 90 camere ristrutturate e addirittura arredate grazie a un Piano operativo nazionale (Pon) Sicurezza: ancora vuote. Nella migliore delle ipotesi, l’esempio di Noha di Galatina: un recupero con soldi pubblici nel 2009, per arrivare all’assegnazione solo nel 2018. La via del riutilizzo dei beni confiscati alle mafie è costellata di buone intenzioni, che non sempre vanno a segno. Ecco perché il presidente della Fondazione con il Sud, Carlo Borgomeo, con Buone Notizie parla di “grande occasione mancata”. Si riferisce al recente bando dell’Agenzia per la coesione territoriale che - nel quadro del Pnrr - destina 250 milioni di euro agli enti territoriali del Mezzogiorno per la valorizzazione degli immobili sottratti alla criminalità. Due errori strutturali, segnala Borgomeo. Il primo è nel lungo elenco di cui Rosarno, Lamezia e Galatina sono solo flash: “Si sottovaluta l’esperienza negativa dei Pon Sicurezza in base ai quali i Comuni finanziavano progetti di ristrutturazione, e poi? In un territorio dominato dalle mafie, l’effetto psicologico di un bene recuperato dallo Stato, con dispendio di risorse pubbliche, ma inutilizzato, è devastante”. Al rischio di spreco si aggiunge un pericoloso assist alla propaganda mafiosa. Il secondo punto è quello che ha portato tutto il Terzo settore a protestare, da Libera, all’Arci alle associazioni che da anni hanno esperienza nella gestione (complicata) dei beni confiscati: “Siamo stati esclusi dal bando”, sottolinea Borgomeo, benché sia espressamente indicata nel Pnrr la possibilità “di avvalersi della co-progettazione del Terzo settore”. A Buone Notizie il direttore dell’Agenzia per la coesione territoriale, Paolo Esposito, chiarisce: “Il bando sostiene di fatto la partecipazione degli enti del Terzo settore sin dalla fase di programmazione dell’intervento. Infatti è attribuito un punteggio specifico e puntuale alle proposte dei Comuni che presentino il progetto in collaborazione con il partenariato istituzionale, economico e sociale e le organizzazioni del territorio”. L’Agenzia ha prorogato il bando fino al 28 febbraio e ha risposto alle critiche con un lungo elenco di Faq (domande e risposte). Il ministero per il Sud è intervenuto a fornire ulteriori spiegazioni, sottolineando la necessita di coinvolgere le associazioni e indicando una preferenza per “progetti destinati a creare centri antiviolenza per donne e bambini o case rifugio, oppure asili nido o micronidi”. Infine, lo stesso direttore Esposito ha diffuso poco prima di Natale una nota in cui spiegava che la ragione per cui l’Avviso è stato riservato alle amministrazioni pubbliche sta soprattutto nella necessità di “una tempistica coerente con il Pnrr”. Il coinvolgimento di privati, insomma, avrebbe aperto una serie di lungaggini burocratiche. Il presidente di Fondazione con il Sud la considera “un’argomentazione debole: significa che bisogna comunque spendere quei soldi?”. Quanto al punteggio per i Comuni che rispondono al bando coinvolgendo il Terzo settore, Borgomeo indica un limite sostanziale: i fondi non possono essere usati che per la ristrutturazione. Mentre serve che stiano in piedi non solo le mura, ma anche l’associazione che le abita: una quota dei fondi andrebbe destinata alla “start up”, all’avvio del progetto di valorizzazione. Si ponga per esempio il caso di un Comune che voglia ospitare in un appartamento ex mafioso un Centro contro la violenza sulle donne: questo bando aiuta a mettere in piedi la struttura, ma - si chiede Borgomeo - con quali soldi si attiva poi il centro? Una proposta, già sostenuta in passato, è stanziare, accanto ai finanziamenti per la ristrutturazione, una quota del Fondo unico della Giustizia (dove confluiscono gli euro confiscati ai mafiosi) da spendere esattamente per sostenere il progetto all’interno del bene, pagare i primi stipendi, dare il via al riutilizzo immaginato ai tempi della legge 109 del ‘96. Ventisei anni dopo l’Agenzia nazionale per i beni confiscati conta 35mila immobili di cui almeno 17 mila ancora da destinare. Più quattromila aziende che, per una lunga serie di ragioni, quando perdono la proprietà mafiosa si ritrovano senza più la capacità (dopata) di stare sul mercato. Nel caso degli immobili, l’esperienza ha insegnato che non sono sempre in condizioni, o in posizioni, che li rendono di facile riutilizzo. Il dibattito su come valorizzarli al meglio è aperto. Intanto si procede sperimentando. L’Agenzia ha tentato per la prima volta nel 2020 l’assegnazione diretta (senza la mediazione degli enti territoriali) di mille unità immobiliari, invitando il Terzo settore: sono stati solo 160 i progetti presentati. Una gara molto complicata, spiegano dalle associazioni. “Si tratta di una buona prima esperienza - valuta l’avvocato antimafia Ilaria Ramoni, amministratore giudiziario di beni confiscati - che però a mio avviso mette in luce la necessità delle piccole realtà associative di essere supportate non solo nell’effettivo riutilizzo del bene, ma anche nella fase di partecipazione al bando. In quest’ottica, si può anche comprendere che l’avviso dell’Agenzia per la coesione destini i fondi agli enti locali, fermo restando che sarebbe necessario ascoltare le realtà presenti sul territorio e ragionare in un’ottica di sinergia”. Si torna alla via indicata dalla nota del “Gruppo di lavoro permanente sui beni confiscati” creato da Fondazione con il Sud assieme ad Arci e Forum del Terzo Settore, riassunta nella parola “co-progettazione”. “Non è - scrive il Gruppo - una mera rivendicazione di spazi e di ruoli da parte del Terzo settore. Essa vuol dire, in concreto, tenere insieme gli interventi di ristrutturazione con quelli di gestione”. Quel che sembra emergere da questo bando, concludono, è ancora una volta “una cultura politica che vede il Terzo settore non come un attore di sviluppo ma come un soggetto “residuale” nel quale far convergere due debolezze: le incapacità del pubblico e le non convenienze del privato”. La morte di Mauro Guerra, il carabiniere assolto e quel teste ignorato che riapre il caso di Luigi Manconi La Repubblica, 15 febbraio 2022 Nel filmato trasmesso da “Chi l’ha visto?” i carabinieri cercano di convincere Guerra ad andare in ospedale: poi la situazione precipita. Un giovane uomo fugge lungo i campi nei pressi della propria abitazione, a Carmignano di Sant’Urbano, una località tra Padova e Rovigo. È a piedi nudi e indossa solo un paio di boxer. È il 29 luglio del 2015 e Mauro Guerra, questo è il suo nome, morirà a trentadue anni in quel pomeriggio afoso. A ucciderlo è un colpo di pistola che gli trafigge l’addome, esploso da uno dei carabinieri che lo inseguono. Facciamo un passo indietro. Guerra, laureato in Economia, aveva finito il servizio ausiliare presso l’arma dei Carabinieri e svolgeva un tirocinio professionale per diventare commercialista. Recentemente aveva manifestato qualche segno di sofferenza psichica. Un giorno di quel luglio si era recato nella caserma dei carabinieri, a trecento metri dalla sua casa, per comunicare l’intenzione di organizzare una manifestazione pubblica. Vi aveva trovato il nuovo comandante, Marco Pegoraro, al quale aveva lasciato una serie di disegni di “ispirazione mistica”. Le parole di Guerra e quelle sue illustrazioni bastarono a convincere Pegoraro della pericolosità dell’uomo. Da qui la decisione di sottoporre Guerra a un Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Senza che ve ne fossero le ragioni oggettive e senza che venisse seguita la procedura necessaria per un provvedimento così invasivo e così limitativo della libertà individuale: ovvero, l’autorizzazione dei sanitari e del sindaco del comune di appartenenza dell’interessato. Guerra si trova in casa quando due carabinieri gli intimano di recarsi in caserma. Poi si aggiungono numerosi altri militari, che tentano di convincerlo a salire sull’ambulanza, sopraggiunta nel frattempo. Il giovane finge, infine, di accettare il ricovero, per poi darsi alla fuga. Le scene successive sono grottesche e violente: una decina di carabinieri insegue Guerra seminudo che, in ultimo, viene raggiunto. Mentre un anello delle manette gli viene serrato a un polso, Guerra si divincola e colpisce il carabiniere: è allora che un colpo di pistola lo raggiunge, uccidendolo. Solo dopo quaranta minuti, con l’arrivo di un mezzo dell’elisoccorso, verranno tentate le manovre di rianimazione. A distanza di un’ora e mezza, viene dichiarato il decesso. Il successivo esame tossicologico escluderà l’assunzione di ogni tipo di sostanza psicotropa. Il processo di primo grado per omicidio colposo a carico del maresciallo Pegoraro si conclude nel dicembre del 2018 e ha un esito sconcertante: l’imputato viene assolto, ma le motivazioni della sentenza rappresentano, sotto il profilo giudiziario, una stridente contraddizione rispetto al verdetto. Vi si legge infatti quanto segue: “è da ritenere che tutto l’inseguimento per i campi, nonché i tentativi di immobilizzazione della persona offesa, siano state condotte del tutto arbitrarie e illegittime”; e che è stato messo in atto un “grave tentativo di stordimento del Guerra (in quel momento libero cittadino), attraverso la somministrazione occulta di una dose di tranquillante”. Il tutto richiamerebbe la dinamica propria di un sequestro di persona. Detto ciò, con totale sprezzo di qualsivoglia consequenzialità logica e giuridica, l’imputato viene assolto. La procura non ricorre in appello e, di conseguenza, la sentenza è definitiva. Tuttavia, mentre il processo prosegue sul piano civile, emerge un fatto nuovo. Intervistato da Ivan Grozny Compasso di Padovaoggi.it, il maresciallo Filippo Billeci, fino a tre mesi prima dei fatti comandante della stazione dell’Arma di Carmignano, racconta la sua versione. Quel giorno di luglio venne chiamato a svolgere un’azione di “mediazione”, nella convinzione che si potesse indurre Guerra ad accettare un TSO: “dopo ho scoperto che non c’era”, quel TSO. Ancora: “Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni”; e “se fosse stato pericoloso, non sarei stato in casa da solo un’ora con lui”. Poi la situazione precipita: “Quando Mauro ha visto che non c’era il documento che certificava il TSO, ha detto che lo si poteva lasciare stare e ha preso la strada per i campi”: e “quando si è messo a correre lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno”. Quindi “c’è stata quella colluttazione con il carabiniere Sarto, poi il collega che è intervenuto, Pegoraro, ha deciso di operare in quella maniera. E quando si opera in quella maniera...”. La testimonianza di Billeci, pure acquisita agli atti, non è stata ascoltata in dibattimento perché - dice lo stesso maresciallo - “nessuno ha chiesto la mia versione. Da parte di un tribunale non credo sia la cosa più opportuna”. Già. E si può aggiungere una domanda: quanto vale la vita di un giovane uomo inerme nella frazione di Carmignano del comune di Sant’Urbano? Piemonte. “Necessari percorsi formativi per chi assiste i detenuti psichiatrici” cuneodice.it, 15 febbraio 2022 Ieri l’audizione della Commissione Sanità della Regione dedicata alla salute psichiatrica dei carcerati. L’audizione della Commissione Sanità (presieduta da Alessandro Stecco) sulla sanità in carcere è stata dedicata ieri mattina alla salute psichiatrica dei detenuti. Durante gli interventi tutti gli esperti intervenuti sono stati concordi sull’esigenza di costruire percorsi specifici di formazione professionale sia per i medici e gli infermieri che operano dentro il carcere, sia per gli agenti di polizia penitenziaria che si trovano a contatto con i detenuti psichiatrici. Il garante regionale dei detenuti, Bruno Mellano, ha tracciato una panoramica della situazione generale che vede la Regione (responsabile della sanità anche in carcere) rapportarsi necessariamente con le istituzioni deputate alla sorveglianza dei detenuti: “Ci sono circa quattromila detenuti nelle tredici carceri piemontesi che vengono trattati in maniera differente perché le situazioni strutturali sono molto diverse nei vari istituti. Mancano i medici specialisti interni e quindi spesso è necessario trasferire i detenuti in ospedale per le visite, con notevole impiego di scorte. Dovremmo puntare su un adeguamento tecnologico che permetta per esempio la telemedicina”. Il dottor Roberto Testi, medico legale responsabile della Sanità penitenziaria dell’Asl di Torino (a cui fa riferimento il carcere delle Vallette), ha parlato del SAI (struttura per l’assistenza intensiva) e del Sestante (reparto psichiatrico) all’interno del carcere di Torino. “Il Sai dovrebbe essere un piccolo ospedale all’interno del carcere ma non è così. Spesso si ricorre a ricoveri esterni perché non ci sono le strumentazioni necessarie per le diagnosi, inoltre i concorsi per i medici che servirebbero vanno deserti. Il Sestante - nato come progetto di eccellenza - adesso è chiuso perché deve essere ristrutturato”. Anche la dottoressa Patrizia Vaschetto ha parlato del Sestante (struttura di cui è la responsabile): “Alcuni detenuti-pazienti non hanno la diagnosi psichiatrica e il reparto dovrebbe servire proprio come punto di osservazione in vista della diagnosi, ma non si sono abbastanza medici disponibili”. Nel suo intervento la dottoressa Adele Starita, magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Vercelli, ha messo l’accento sulle difficoltà di comunicazione tra le Asl e le strutture della Giustizia, la necessità di aumentare le strutture specifiche che si occupano di psichiatria dentro il carcere e le ore di presenza dei medici specialisti: “La sola struttura del Sestante di Torino non basta per tutto il territorio piemontese, ce ne vorrebbe almeno un’altra. I detenuti psichiatrici stanno aumentando ma c’è una carenza cronica di strutture terapeutiche sul territorio per cui non si possono fare uscire dal carcere i detenuti psichiatrici che ne avrebbero bisogno. Non ci sono infatti strutture che possano seguirli con le dovute misure di sicurezza”. Infine, ha presentato una breve panoramica della situazione dei detenuti psichiatrici in Piemonte: “A Fossano non sono segnalate criticità. A Cuneo i soggetti psichiatrici sono gestiti da due medici ma mancano specialisti interni e quindi sono necessarie le visite esterne. Il carcere di Saluzzo (struttura di alta sicurezza) per lo stesso motivo ha bisogno di scorte aggiuntive: ci vogliono sei agenti per ogni scorta. Inoltre negli ospedali spesso non ci sono sale di attesa separate per i detenuti”. Al termine dell’audizione sono intervenuti per chiedere chiarimenti i consiglieri: Sara Zambaia (Lega), Marco Grimaldi (Luv), Domenico Rossi (Pd), Francesca Frediani (M4o). Milano. Carceri, la denuncia del Garante: San Vittore sembra un manicomio di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 15 febbraio 2022 Maisto: carenza di assistenza psichiatrica nelle strutture milanesi. I positivi da Covid? Numeri sotto controllo. “Il carcere di San Vittore sembra un manicomio”. Parole del garante dei detenuti del Comune, Francesco Maisto, intervenuto ieri alla sottocommissione carceri di Palazzo Marino. Certo, Maisto tranquillizza i consiglieri sulla situazione dei contagi da Covid negli istituti di pena milanesi, ma denuncia la situazione critica a San Vittore sul fronte della cura di alcune patologie: “Ci sono detenuti con patologie psichiatriche a regime ordinario, c’è stata la chiusura del Centro di Osservazione Neuropsichiatrico e i detenuti psichiatrici sono collocati nei reparti comuni seppure ci sia la sezione dei monitorati psichici. Ulteriore fattore è la mancata copertura degli esperti psichiatrici 24 ore su 24 e la scopertura dalle 16 del pomeriggio e fino al giorno dopo”. La carenza di assistenza psichiatrica è causa dell’aumento delle aggressioni contro il personale in servizio nelle carceri: “Da un’analisi statistica del Prap della Lombardia - continua Maisto - emerge che dal 1° gennaio del 2015 al 31 aprile del 2021 c’è stato un crescendo del fenomeno di aggressioni al personale. In particolare il 2020 è stato l’anno peggiore finora e il 2021 ha già fatto segnalare un trend che se è confermato porterebbe il dato al doppio rispetto al 2019 e al triplo rispetto al 2015”. Il quadro è più rassicurante quando il garante comunale dei detenuti parla dei contagi da Covid negli istituti penitenziari. Secondo i dati riferiti da Maisto in commissione, nel carcere di Bollate attualmente ci sono 20 detenuti Covid positivi, mentre tra agenti e operatori vari i positivi sono 145. A San Vittore attualmente sono 29 i casi di contagiati mentre gli agenti positivi, fino all’8 febbraio, sono risultati 287. Nella casa di reclusione di Opera “dopo una bolla che si è verificata dopo Natale e che fece assurgere il carcere a uno di quelli con più contagi in Italia, attualmente la situazione è la più tranquilla con un caso che viene gestito internamente e due gestiti all’ospedale, mentre nella polizia penitenziaria i soggetti contagiati sono 271”. I dati sui positivi sotto controllo non elimina il problema del sovraffollamento nelle carceri cittadine. “Abbiamo un fenomeno di sovraffollamento di ritorno che richiede spazio all’interno delle carceri per realizzare le misure anti-Covid - continua Maisto. In Lombardia, mentre nel 2019 erano detenute 7.397 persone, nel 2020 sono state ristrette 6.084 persone. Quindi sono state ristrette 1.313 persone in meno. A questo si correla il dato delle misure alternative: nel 2019 erano 1.971 le persone sottoposte a misure alternative, che sono salite a 3.316 nel 2020, ovvero 1.345 persone in più. Questo significa che si può operare diversamente. Durante la pandemia si è operato nella legittimità: perché non si può continuare in questo modo anche senza che ci sia il Covid? Bisogna lavorare per operare diversamente per evitare il sovraffollamento che oggi comporta anche il problema dei contagi”. Taranto. Carcere stracolmo: 700 detenuti su 350 posti disponibili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 febbraio 2022 La denuncia del Sappe: “Inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale”. “Taranto è sicuramente tra le carceri più affollate della nazione con circa 700 detenuti a fronte di 350 posti disponibili e con un organico di polizia penitenziaria totalmente insufficiente”. Così il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, nel documento che oggi sarà consegnato al sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina, a conclusione della visita nel carcere di Taranto. “In ogni sezione detentiva sono ospitati circa 70 detenuti senza spazi nelle stanze, con grave carenza di attività trattamentali, rieducative e sportive”, si legge nel documento. “Praticamente inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale. Noi riteniamo che dare la possibilità di impiegare i detenuti in attività lavorative e rieducative, sia l’unico modo per evitare disordini, proteste, pericoli nonché situazioni di degrado”, prosegue il Sappe. “Denunciamo l’insufficiente assistenza sanitaria ai detenuti di cui moltissimi affetti da patologie molto serie e la presenza di un altissimo numero di detenuti con problemi psichiatrici a cui l’Asl risponde con un numero di ore assegnate agli specialisti inadeguato. Da due mesi un detenuto con problemi psichiatrici è dimenticato presso ospedale di Taranto, poiché non si trova una Rems, con enormi costi economici di mezzi e uomini”, va avanti il sindacato. “La sicurezza non può essere garantita né dai poliziotti e nemmeno dalle apparecchiature elettroniche considerata che presso la sala regia si riscontra inefficienza di strumentazioni, con monitor e apparecchi di videosorveglianza e sistemi di sicurezza attivi, assenti o non funzionanti”, sottolinea il Sappe. “Vogliamo anticipare che il prossimo 22 febbraio, il Sappe manifesterà davanti al carcere per denunciare tutta la situazione sin qui raccontata, che purtroppo non investe solo il carcere di Taranto ma l’intera regione, considerato che in 20 anni si è ridotto l’organico della polizia penitenziaria nelle carceri pugliesi di circa 600 unità, con centinaia di detenuti in più”, conclude il sindacato. Biella. Il carcere non sia una macchia indelebile di Vittorio Barazzotto laprovinciadibiella.it, 15 febbraio 2022 Il tema delle carceri è spesso dimenticato dalla cattiva politica, perché è un argomento complesso che merita una riflessione attenta ed occuparsi dei diritti dei detenuti potrebbe essere addirittura controproducente in termini di consenso popolare. I problemi del carcere rimangono così rinchiusi nel perimetro delle case circondariali, come i detenuti all’interno delle proprie celle, per poi degenerare in episodi drammatici di cui periodicamente si dà notizia. Qualche giorno fa è stato presentato dal Prefetto di Biella un progetto, sostenuto dal garante dei diritti dei detenuti della provincia e da varie associazioni di volontariato, che si pone l’obiettivo di mantenere un legame affettivo tra i genitori carcerati ed i propri figli, che scontano in libertà una pena pesante quanto quella dei propri padri. Per integrare una così importante iniziativa, vista anche la sensibilità del Prefetto su questo argomento, occorre investire anche sulla formazione dei detenuti, richiamando l’attenzione della Regione Piemonte su un tema evidentemente non ritenuto prioritario. A livello locale le risorse ci sono, l’istituto scolastico alberghiero “Gae Aulenti” di Biella può mettere a disposizione docenti per avviare percorsi di avviamento professionale. La pandemia ha esasperato l’isolamento dei detenuti, a cui sono state sottratte gran parte delle offerte formative e se non ci si adopera per assicurare loro una preparazione professionale che li possa riabilitare una volta tornati in libertà, le conseguenze sociali saranno nefaste, dentro e fuori dal carcere. Anche il Presidente della Repubblica Mattarella ha recentemente risollevato l’attenzione mediatica sulle carceri e sul percorso di reinserimento nella società, perché la detenzione non diventi una macchia indelebile. Non si tratta di eccesso di pietismo, ma di un motivo concreto e pratico. Un carcere che non funziona bene può diventare criminogeno e indirizzare verso le recidive. Roma si riappropria del carcere di Regina Coeli. Un’iniziativa di Demos farodiroma.it, 15 febbraio 2022 L’assessora alle politiche sociali, Barbara Funari, l’assessore alla cultura, Miguel Gotor, e il capogruppo capitolino di Demos, Paolo Ciani (impegnato anche nella Comunità di S. Egidio che della presenza accanto agli ultimi, anche ai detenuti, ha fatto la sua cifra distintiva), si sono recati oggi in visita al carcere romano di “Regina Coeli”. Durante la visita la delegazione è entrata in due sezioni, interloquendo con alcuni detenuti e con il personale di Polizia Penitenziaria, per poi realizzare un momento di incontro e ascolto con la direttrice, il comandante e il dirigente sanitario, nei locali della biblioteca di Roma Capitale, all’interno dell’Istituto. “Questa visita - spiega l’assessora Barbara Funari - rappresenta un segnale importante dell’interesse della nuova Amministrazione capitolina. Abbiamo a cuore la situazione di chi vive nelle carceri a Roma e lo abbiamo ribadito nel corso dell’incontro fatto con la Direttrice e con tutto il personale impegnato. Occuparsi dei detenuti deve essere per le Istituzioni un impegno civile e prioritario e da parte mia un’occasione di riflessione e confronto utile per capire come rendere i servizi già in essere di Roma Capitale sempre più efficaci, per garantire il diritto alla salute e al reinserimento sociale”. “Quella di oggi è una visita che tenevo molto a fare - ha aggiunto l’assessore Miguel Gotor - perché sono convinto che la qualità di una democrazia si misura anche, e soprattutto, dalle condizioni in cui versano le sue carceri che avranno la massima attenzione da parte di questa amministrazione. “Come Assessorato alla Cultura siamo disponibili a prendere in considerazione molto seriamente tutte le richieste che ci arriveranno dal mondo penitenziario cittadino e a rispondervi in modo positivo”, ha concluso. “Gli istituti penitenziari non sono un mondo a parte. Sono parte integrante della città, luoghi a cui le istituzioni sono chiamate ad assicurare presenza e attenzione, come a tutti gli altri - ha affermato il capogruppo capitolino di Demos Paolo Ciani - Abbiamo voluto fortemente essere qui oggi, dare un segnale, esprimere alle persone private della libertà personale e a tutto “l’universo carcere” (personale di polizia penitenziaria, personale civile, personale sanitario e volontari) che Roma non li dimentica, ma li accompagna in un percorso di inclusione e reinserimento sociale”. Salerno. I detenuti del carcere di Eboli cureranno un orto sociale tvoggisalerno.it, 15 febbraio 2022 Cureranno un orto in uno spazio incolto all’interno della cinta muraria del Castello Colonna i detenuti del carcere di Eboli. Un progetto, ‘Orto condiviso’, nato grazie alla collaborazione tra il penitenziario, la Coldiretti Salerno e l’associazione di volontariato Gramigna di Pago Veiano (Benevento). “L’orto sociale è un’esperienza quasi unica in Italia - spiega il presidente di Coldiretti Salerno Vito Busillo - abbiamo accolto con entusiasmo il progetto del penitenziario e dell’associazione di volontariato Gramigna per dare ai detenuti un’opportunità per il cambiamento, recuperando il senso collettivo di appartenenza a una comunità, elevando il lavoro in carcere a qualcosa di non semplicemente punitivo e affermando il ruolo sociale dell’agricoltura. Coldiretti si impegna a fare formazione agricola contribuendo al contempo a valorizzare beni demaniali che sono a disposizione delle carceri per allestire in futuro, è un’idea a cui lavoreremo, un piccolo mercato a Km 0”. “Il progetto sarà scandito da incontri settimanali durante i quali saranno fornite ai partecipanti le nozioni sulle varietà da coltivare e mostrate, concretamente, le attività così da poterle svolgere poi in autonomia - spiega Rosario Meoli dell’associazione Gramigna - I detenuti parteciperanno ad ogni fase del progetto, dalla pulizia dello spazio assegnato, alla preparazione del terreno, concimazione e preparazione dei solchi per la messa a dimora delle piantine e delle sementi. La formazione sulla cura dell’orto sarà accompagnata dalla realizzazione di schede informative sulle singole piante coltivate”. Milano. Strumenti musicali dal legno dei barconi. La “metamorfosi” dei detenuti di Opera di Sabrina Cottone Il Giornale, 15 febbraio 2022 Legni delle barche dei migranti naufragati a Lampedusa diventano strumenti musicali che mani vive torneranno ad accordare, grazie a chi una vita sta cercando di ricostruirsela dal fondo dei propri errori, nella falegnameria del carcere milanese di Opera. Nelle nostre tiepide case ricordare i corpi che si agitano lontani dai salvagenti e vanno giù a fondo è una fatica, un senso di colpa da allontanare prima che la coscienza si svegli e cominci a parlare. Si chiama “Metamorfosi” questo progetto promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Milano e attuato in collaborazione con la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, il direttore generale dell’Agenzia delle Accise Marcello Minenna, e la Casa di reclusione Milano-Opera. Una metamorfosi destinata prima di tutto a noi salvati e in cerca di salvezza, oltre che a onorare la memoria dei troppi morti dei quali abbiamo perduto anche il nome e a restituire qualche grammo di umanità alla storia del Mar Mediterraneo diventato il cimitero più grande d’Europa. Le autorità giudiziarie ne avevano già autorizzato lo smaltimento, in una specie di fossa comune delle barche naufragate sulle coste di Lampedusa, simile alla fossa comune di chi lassù, sballottato dal mare, ha trascorso i suoi ultimi giorni. Invece che un trionfo della morte, però, ne è nato un nuovo progetto di vita, che passa per le mani di chi sta espiando la propria pena, in una comunione che lega chi non c’è più e chi vuole tornare a essere ancora. Gli strumenti musicali cresciuti tra le mura del carcere dai legni di Lampedusa formeranno “L’Orchestra del Mare” e non è solo un modo di dire. Il laboratorio di Liuteria, poi diventato anche di Falegnameria di Opera, non a caso spesso definito carcere modello per le attività di recupero, è un progetto attivo dal 2012, anno di nascita della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti. Il Laboratorio non è solo un corso come un altro per dar senso al tempo trascorso in carcere, ma un vero luogo di formazione professionale. Sono usciti dalle spesse mura di Opera molti violini pregiati. In questo modo il reinserimento in società dopo avere scontato la pena è più semplice e le recidive, ovvero la possibilità di commettere ancora reati, si abbassano drasticamente. “Metamorfosi”, come in iniziative passate, permetterà anche di realizzare presepi. Il primo presepio della Falegnameria era stato donato a Papa Francesco e a guidare i detenuti in questi anni è stato Francesco Tuccio, il falegname che ha realizzato la famosa Croce di Lampedusa con i legni dei barconi affondati. Un incrocio di vite perdute e smarrite che ritrovano senso, fin nel significato più concreto della parola che è il lavoro. Sulla scia della Croce di Tuccio saranno realizzate altre croci da donare alle scuole, e poi angeli e corone del rosario. Tra le litanie lauretane della preghiera del Rosario, alle invocazioni a Maria ne è stata aggiunta una: “Aiuto dei migranti, prega per noi”. Pochi giorni fa al Papa è stato presentato un quadro dove è Maria che sembra galleggiare sulle acque, dal titolo “Madonna del porto negato”. Spiritualità e arte possono fare miracoli. Diseguaglianza economica: un’ingiustizia sociale e un freno alla crescita di Giuseppe Arbia* La Stampa, 15 febbraio 2022 Uno dei temi principali del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella pronunciato il 2 febbraio durante la cerimonia di insediamento a Montecitorio per il suo secondo settennato ha riguardato la diseguaglianza economica. Il Presidente ha affermato: “ Costruire un’Italia più moderna è il nostro compito. Ma affinché la modernità sorregga la qualità della vita e un modello sociale aperto, animato da libertà, diritti e solidarietà, è necessario assumere la lotta alle diseguaglianze e alle povertà come asse portante delle politiche pubbliche”. In effetti il tema della diseguaglianza economica era stato affrontato anche dal Presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso di insediamento di un anno esatto fa il 17 febbraio 2021. Ecco le sue parole: “Gravi e con pochi precedenti storici gli effetti sulla diseguaglianza. In assenza di interventi pubblici il coefficiente di Gini, una misura della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, sarebbe aumentato, nel primo semestre del 2020 (secondo una recente stima), di 4 punti percentuali, rispetto al 34,8% del 2019. Questo aumento sarebbe stato maggiore di quello cumulato durante le due recenti recessioni”. Il coefficiente di Gini, cui fece riferimento Draghi in quell’occasione, viene utilizzato in tutto il mondo nelle statistiche ufficiali, ed è una misura che varia da 0 a 100, assumendo il valore pari a 0 nel caso di perfetta equità nella distribuzione del reddito (cioè quando tutti gli individui percepiscono lo stesso reddito) e un valore pari a 100 nel caso di massima disuguaglianza, cioè quando un solo percettore di reddito detiene tutto il reddito dell’economia e tutti gli altri hanno reddito pari a zero. Invero, la crescita della diseguaglianza in Italia non è certamente un fenomeno tipico di questo periodo di pandemia e costituisce, al contrario, una caratteristica costante degli ultimi anni. L’indice di Gini, infatti, cresce ormai costantemente in Italia dal 2007 (quando era al 32,9%) fino a raggiungere il valore di 35,9 nel 2017 (ultimo dato ufficiale rilasciato dalla World Bank) quando la media dei paesi dell’Unione Europea era 31,3% e solo tre Paesi dell’Unione mostravano una situazione più diseguale della nostra (Bulgaria, Lituania e Romania). Nello stesso anno a livello mondiale la media era del 36,1, quindi appena superiore al valore registrato nel nostro Paese. Ma perché la diseguaglianza economica è così importante? Certamente si tratta di un’attenzione ai temi della giustizia sociale. Ma è solo per questo che il tema è stato posto così in evidenza nell’atto di insediamento delle prime due cariche dello stato? In realtà, per sottolineare il fatto che non sia solo questo il tema, in un passo successivo del suo discorso il Presidente Mattarella, opportunamente, aggiunge “Le diseguaglianze non sono il prezzo da pagare alla crescita. Sono piuttosto il freno di ogni prospettiva di crescita”. In effetti la relazione tra diseguaglianza e crescita al quale fa riferimento il Presidente della Repubblica è un tema che ha affascinato intere generazioni di economisti. Essa dipende da un gran numero di fattori, ma gli argomenti più convincenti, su cui concordano la maggior parte degli studiosi, vanno nella direzione di un meccanismo circolare di causazione. In estrema sintesi: elevati livelli di crescita del reddito pro-capite sembrano il più delle volte portare all’acuirsi della concentrazione dei redditi nelle mani di pochi percettori e, dunque, a una maggiore diseguaglianza. Tuttavia, non si deve interpretare questo meccanismo come la possibilità che crescita e diseguaglianza possano convivere a lungo in quanto livelli elevati di diseguaglianza instaurano un meccanismo di causa-effetto di segno opposto il quale tende a rallentare la crescita. In assenza di interventi redistributivi ciò può innescare una spirale che, nelle fasi mature dell’economia, può condurre all’implosione del sistema economico. Tale spirale regressiva può essere solo arrestata con un deciso intervento redistributivo. Vorrei osservare, prima di andare più oltre, che tali considerazioni prescindono dalle diverse inclinazioni politiche che si possono avere sull’argomento e, a giusta ragione, su di esse il Presidente Mattarella ha richiamato l’impegno di tutte le forze dell’arco Costituzionale. In effetti, nel suo celebre saggio del 1994 (“Destra e sinistra”) il filosofo Norberto Bobbio sostiene come proprio la concezione della diseguaglianza sia alla base delle diverse inclinazioni politiche chiamando in causa le due posizioni paradigmatiche di Jean Jacques Rousseau e di Friedrich Nietzsche. Rousseau, infatti, sostiene che tutti gli uomini sono uguali all’inizio, ma la società che sostituisce lo “stato naturale” degli antichi, li trasforma e li rende diversi. Friedrich Nietzsche, invece, ritiene che le cose si svolgano esattamente all’opposto: tutti gli uomini sono diversi per loro natura ed è solo la Società che li convince che sono uguali attraverso quella che egli chiama la religione della compassione. Seguendo le idee di Rousseau, un sostenitore della sinistra dovrebbe, pertanto, sostenere quelle scelte che incoraggino la riduzione delle disparità tra gli individui tendendo a ricostruire l’originale “stato naturale” in cui tutti gli individui hanno uguale accesso ai beni della terra e ai loro frutti. Al contrario, un seguace del pensiero di destra dovrebbe concepire la politica come l’insieme di regole tese a incoraggiare e aiutare tutte le iniziative dei singoli individui (diversi nelle capacità e nelle abilità) anche qualora queste producessero una maggiore e ulteriore diseguaglianza. Tuttavia, per comprendere la ragione per la quale la lotta alla diseguaglianza è un argomento sul quale debbano convergere posizioni politiche molto diverse, è utile riflettere sulle “cause” della diseguaglianza stessa, e chiarire che i differenziali di reddito osservati tra gli individui possono dipendere da due fattori distinti con implicazioni diametralmente opposte. Facendo proprio riferimento alle categorie Rousseauiane si può, infatti, affermare che essi possano essere dovuti a differenze naturali e a differenze sociali. Le differenze naturali tra individui, ad esempio nel loro quoziente intellettivo, nelle loro capacità relazionali, nelle loro abilità manuali ecc., conducono, infatti, a una diversa produttività del lavoro la quale, secondo i principî neoclassici si traduce in differenziali salariali e quindi in diseguaglianza dei redditi. Tuttavia, tale diseguaglianza è una diseguaglianza “buona” essendo essa associata a fattori stimolanti la crescita economica. Chi può dissentire dall’economista Gregory Mankiw quando afferma che l’approdo di un imprenditore geniale sulla perfetta isola di Utopia dove tutti hanno il medesimo reddito abbia un effetto positivo per tutti gli abitanti? In effetti dalla sua attività imprenditoriale tutti ne beneficiano sia in via diretta, per la soddisfazione derivante dall’innovazione introdotta, sia indirettamente per la domanda di lavoro che essa genera. Tuttavia, in un sistema incontrollato, l’innovatore (e in misura crescente i suoi discendenti non necessariamente dotati delle medesime qualità naturali) andrebbe via via beneficiando di vantaggi competitivi, rendite di posizione e barriere all’entrata i quali, a lungo andare, potrebbero generare differenziali di reddito basati non più su diseguaglianze naturali, ma sociali. Questo secondo tipo di diseguaglianza che può venire ad instaurarsi è una diseguaglianza, diciamo così, “cattiva” destinata a frenare anziché accelerare lo sviluppo economico. In effetti, la diseguaglianza nei redditi dovuta a cause naturali non può che avere un effetto benefico per lo sviluppo e la crescita economica, attraverso il meccanismo degli incentivi, dal momento che alcuni produrranno più di altri a merito delle loro capacità individuali. Al contrario la presenza di diseguaglianze sociali non può che frenare la crescita attraverso un’infinità di meccanismi differenti che vanno dalla ricerca delle rendite di Joseph Stiglitz, alla autoriproduzione del capitale di Thomas Piketty o ai fallimenti del mercato del credito e la stabilità sociale invocati da Robert Barro. Politiche economiche che abbiano a cuore l’obiettivo della efficienza del sistema e della crescita dovrebbero dunque favorire il primo tipo di diseguaglianza con l’incentivazione del merito e reprimere, invece, con decisione il secondo tipo a prescindere dalle posizioni politiche. In questi anni caratterizzati dalla pandemia l’Italia sta sperimentando bassi tassi di crescita del reddito pro-capite congiunti a crescenti livelli della diseguaglianza dovuta a fattori sociali e non naturali. Stante la relazione tra le due variabili ciò può portare a una contrazione ulteriore dell’economia fino al suo collasso. Una maggiore progressività nelle imposte sul reddito e sulle successioni - Le ricette disponibili per evitare che ciò accada sono estremamente semplici nella loro sostanza e destinate a raggiungere i propri obiettivi purché si sia disposti ad attenderne con pazienza gli effetti. Innanzitutto, la realizzazione di una maggiore progressività dell’imposta sul reddito. In tal senso la riforma fiscale avviata con la Legge di bilancio per il 2022 è stata sin troppo timida con modifiche modeste per i redditi più bassi, e nessun intervento sull’imposta di successione attualmente caratterizzata da aliquote molto basse e non progressive e che, contrariamente all’imposta sul reddito, non produce effetti negativi né sui consumi né sugli investimenti. Investimenti in capitale umano e nella ricerca scientifica - Inoltre, le risorse derivanti dal PNRR dovrebbero far crescere l’investimento pubblico in capitale umano (andando a valorizzare le differenze naturali tra gli individui) e nella ricerca scientifica, i quali rappresentano i due motori principali della crescita. Tali misure sarebbero di sicuro beneficio per la crescita economica e andrebbero a vantaggio di tutte le componenti sociali. Andrebbero al contempo a realizzare quella redistribuzione dei redditi in senso maggiormente egualitario che stimolerebbe ulteriormente la crescita. Le società umane si sono da sempre avvicendate nel palcoscenico mondiale a seguito di eventi naturali, demografici, invenzioni o guerre attraverso i quali alcune culture si sono imposte e altre si sono eclissate. La fase drammatica che stiamo vivendo acuita negli ultimi anni dalla emergenza legata alla pandemia richiede un intervento deciso nell’azione pubblica con ritorni che saranno necessariamente dilazionati nel tempo. Per quanto detto il richiamo del Presidente Mattarella non va però inteso innanzitutto come un problema etico di lotta alla povertà e di solidarietà sociale sui cui temi si possono avere posizioni diverse in base alle diverse inclinazioni politiche. È invece essenzialmente un problema di sopravvivenza del sistema economico stesso che da tali inclinazioni prescinde. La battaglia su questo fronte è estremamente ardua e richiede decisione, tempo e pazienza, ma se non la si combatte siamo già rassegnati a perdere la grande occasione che la storia ci concede e a cedere il passo ad altre civiltà così da andare a occupare solo un posto importante nei libri di storia. In quel momento non si discuterà più nel nostro Paese di ricchezza e di povertà, né di diseguaglianza economica né di pensiero di destra e pensiero di sinistra. *Ordinario di Statistica Economica - Dipartimento di Scienze Statistiche -Facoltà di Economia Università Cattolica, Roma Caro ministro Bianchi, eviti la morale. Adesso curi questa scuola malata di Michela Marzano La Stampa, 15 febbraio 2022 La notizia (insopportabile) è la tragica morte, durante uno stage, di Giuseppe Lenoci, il ragazzo di 16 anni che era a bordo del furgone di una ditta di termo-dinamica finito contro un albero in provincia di Ancona. La notizia (inammissibile) è che non è passato nemmeno un mese dalla morte altrettanto tragica di Lorenzo Parelli, schiacciato a 18 anni da una trave di acciaio in una fabbrica a Lanuzacco (Udine). La notizia è che, in Italia, non solo non c’è sicurezza sui posti di lavoro, ma non c’è nemmeno rispetto per i più giovani: mandati allo sbaraglio invece di essere protetti, accompagnati, seguiti, istruiti. Le notizie sono queste, non altre. E il fatto che il ministro Bianchi abbia lasciato in anticipo la presentazione di un libro cui era stato invitato, in un Paese diverso dal nostro, forse, non sarebbe stato nemmeno citato. Avrebbe potuto comportarsi in maniera diversa un ministro dell’Istruzione? C’è davvero qualcuno che pensa che si sarebbe potuto fermare al convegno dopo aver essere stato messo al corrente dell’accaduto? Ma siamo in Italia. E quando le studentesse e gli studenti sono scesi in piazza per protestare contro l’alternanza scuola-lavoro dopo la morte di Lorenzo e per chiedere al ministro di tener fede alla parola data in autunno (quando aveva dichiarato che gli esami di maturità non sarebbero stati diversi da quelli dell’anno scorso), la risposta è stata prima la violenza della polizia, poi l’assenza di argomenti da parte della ministra Lamorgese durante l’informativa in Parlamento, e infine la cocciutaggine del ministro Bianchi che, trattando i più giovani con insopportabile paternalismo, ha più volte ribadito che le proprie decisioni erano state prese per il loro bene: “Noi adulti non possiamo assecondare questa idea che i ragazzi non ce la fanno” Se mettiamo in fila tutto e riflettiamo con onestà, non possiamo nemmeno farci attraversare la mente dall’idea che l’abbandono della presentazione del libro da parte del ministro Bianchi sia una notizia. Anzi. Viene solo da chiedersi se c’era davvero bisogno di un’altra tragedia affinché si accorgesse che c’è qualcosa che non va, che non è ammissibile che dei ragazzi muoiano durante uno stage, e che forse, come ha giustamente affermato Luca Redolfi, il coordinatore nazionale dell’Unione degli Studenti, è un po’ tutto il sistema a essere malato. Il presidente Mattarella aveva messo al centro i giovani non solo nel suo messaggio di fine anno, ma anche nel proprio discorso per il giuramento. Il 31 dicembre si era indirizzato direttamente a loro: li aveva esortati a non fermarsi, a non scoraggiarsi e a prendere in mano il proprio futuro; aveva letto alcuni brani della bellissima lettera di Pietro Carmina ai propri alunni - quei passaggi in cui il professore di storia e filosofia li invitava a non aver paura di rischiare per non sbagliare - e aveva ricordato a noi adulti la necessità di lasciare ai giovani il testimone. Il 3 febbraio poi, di fronte ai grandi elettori, Mattarella non aveva solo ricordato Lorenzo Parelli, aveva anche spiegato come dietro il termine “dignità” ci fosse sempre anche l’azzeramento delle morti sul lavoro, il diritto allo studio e la trasmissione della cultura. Ma Mattarella è un grande presidente. E non si può pretendere da tutti i nostri politici la sua stessa levatura morale. Non è questo, d’altronde, che rimprovero al ministro Bianchi. Ciò che gli rimprovero è di essersi chiuso a riccio, invece di ascoltare i ragazzi e le ragazze; di aver tirato dritto per la propria strada, invece di rimettersi in discussione; di essersi limitato a fare la morale alle studentesse e agli studenti, invece di prendere sul serio le criticità che gli venivano segnalate e la sofferenza giovanile. Ben venga, allora, il gesto di ieri. Non è mai troppo tardi per rendersi conto che la realtà è cocciuta e che, nonostante di si metta tutta la buona volontà, lei non si piega di fronte alle belle parole e ai buoni propositi. Esattamente come non è mai troppo tardi per iniziare ad ascoltare davvero, invece di accontentarsi di monologhi senz’altro ben redatti ma privi di anima e di cuore. Ascoltare significa accettare il rischio di cambiare idea. Ascoltare significa fare spazio, all’interno del blocco delle proprie certezze, al dubbio e alla critica. Ascoltare significa non essere indifferenti. Le nostre ragazze e i nostri ragazzi, per parafrasare il professor Carmina, non sono il futuro, gentile ministro. Loro sono il presente. Rilegga il testo di Pietro Carmina, signor ministro. È una lettera piena di amore. E i nostri giovani hanno bisogno di amore, non certo di indifferenza e di morte. Un referendum per decidere se la vita è un diritto o un dovere di Andrea Pugiotto Il Riformista, 15 febbraio 2022 La legge di iniziativa popolare è caduta nel vuoto, le disposizioni della Consulta trovano il muro delle aziende sanitarie. Il quesito sull’eutanasia è l’ultima chance per ribellarsi alla logica del codice Rocco. 1. In termini di politica del diritto, il referendum “eutanasia” rappresenta l’estrema chance. Approvato a furor di popolo (come le indagini demoscopiche prevedono), costringerà finalmente le Camere a ridefinire l’area della punibilità circa le scelte di fine vita, ancora oggi presidiata dal codice Rocco. Tutti gli altri tentativi, ad oggi, non hanno vinto sull’ignavia legislativa. La legge d’iniziativa popolare, depositata nel 2013, ha attraversato le ultime due legislature come un oggetto non identificato. Il giudicato costituzionale (sent. n. 242/2019), ottenuto grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato, fatica a trovare applicazione per le resistenze delle aziende sanitarie. Il monito rafforzato rivolto al legislatore dalla Consulta (ord. n. 207/2018) è caduto nel vuoto di un Parlamento che non riesce nemmeno ad approvare un testo di legge che ricalca, malamente, quanto già stabilito dai giudici costituzionali. Se anche la via referendaria verrà sbarrata, non ci sarà rimedio alcuno. Se non quello all’italiana: nella penombra delle corsie d’ospedale, con la complice comprensione del medico di turno. O, per chi può, oltre il confine italo-elvetico. 2. Il quesito riguarda la fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). La relazione del Guardasigilli dell’epoca (1929, VIII dell’era fascista) ne giustifica la punibilità al fine di conservare “quel particolare bene giuridico che concerne l’esistenza fisica della persona”. Per l’ideologia di cui Alfredo Rocco è il ventriloquo la vita non è un diritto personalissimo, rappresentando invece “un prevalente interesse sociale”. In questa visione organicistica, il consenso validamente espresso alla propria morte non evita la punibilità di chi ha dato esecuzione alla volontà altrui; ne tempera soltanto la misura della pena. Il referendum si ribella a tale logica, interrogando gli elettori su un dilemma: la vita è un dovere sociale o un diritto individuale? Il sì alla richiesta abrogativa offre una risposta, introducendo nell’ordinamento il principio di disponibilità della propria vita e assicurando, nel contempo, il rispetto della vita altrui. Vediamo come. 3. Il quesito agisce chirurgicamente sull’art. 579 c.p.: attraverso l’abrogazione di alcune sue parti e l’automatica saldatura delle rimanenti, ottiene due risultati normativi. Il primo è un esplicito effetto conservativo: la conferma della punibilità a titolo di omicidio comune (art. 575 c.p.) per la morte del consenziente, se si tratta di un soggetto “vulnerabile” perché minore, o perché le sue condizioni personali escludono l’autenticità del consenso prestato, o perché quel consenso è stato estorto o carpito con inganno. Il secondo, invece, è un implicito effetto innovativo: al contrario, una persona di maggiore età, sana di mente, capace di esprimere un libero consenso, potrà validamente autorizzare la propria morte, senza conseguenze penali per chi l’abbia materialmente determinata. Non si tratterà di una generalizzata “licenza di uccidere” né di una “corsa a farsi ammazzare” anche fuori da qualsiasi contesto eutanasico, come qualcuno paventa. Per rendersene conto, basta conoscere la granitica giurisprudenza sull’art. 579 c.p., rigorosissima nel vagliare la validità del consenso prestato, di fatto sempre esclusa. Oggi, chi uccide una persona invocandone il previo consenso deve mettere in conto un’incriminazione e una (pressoché) certa condanna per omicidio volontario. Giocoforza, il principio di autodeterminazione - introdotto dal voto popolare - potrà legittimamente operare solo all’interno della legge n. 219 del 2017 in tema di consenso informato, che la stessa Consulta richiama nella sua decisione sul “caso Cappato”. Fuori da tale procedura, il consenso sarà valutato come invalido e la condotta di chi ha ucciso ricadrà nel reato di omicidio doloso. 4. Questa è la radiografia del quesito e delle sue conseguenze, da tenere presente per diagnosticarne l’ammissibilità. Diagnosi complicata dall’estrosa e creativa giurisprudenza referendaria della Consulta, dove “tutto deve essere motivato” ma dove “tutto è motivabile” (così, icasticamente, il suo ex Presidente Gaetano Silvestri). Si può tentare una rassegna degli ostacoli da superare per arrivare a votarlo. Con una raccomandazione preliminare: nel modello costituzionale il referendum è la regola, l’inammissibilità l’eccezione. Non viceversa. È questo - credo - il senso autentico delle recenti parole che, alla vigilia dell’udienza del 15 febbraio, il Presidente della Consulta Giuliano Amato ha inteso rivolgere a tutti, giudici costituzionali in primis. 5. Si è detto che il referendum in esame sarebbe il risultato di un arzigogolato “taglia&cuci”, spia di una sua vietata natura manipolativa. È una critica fuori fuoco. La tecnica del ritaglio “non è di per sé causa di inammissibilità del quesito” (sent. n. 26/2017). Lo è solo quando il testo legislativo inciso è adoperato come un canestro di parole da cui estrarre, combinandole artificialmente, un’innovazione “del tutto estranea al contesto normativo” originario (sent. n. 36/1997). Ma non è questo il caso. Certamente manipolativo sul piano delle disposizioni, il suo esito è quello tipico di un (ammissibile) referendum abrogativo parziale che cancella dall’art. 579 c.p., depenalizzandola, la fattispecie speciale dell’omicidio di chi ha espresso validamente il consenso alla propria morte. 6. Il quesito - si insiste - sarebbe inammissibile per il suo carattere propositivo, mirando surrettiziamente a introdurre una norma inesistente, dal contenuto profondamente diverso da quella in vigore. È una critica sbagliata, se riferita all’esplicito effetto conservativo del referendum, che ribadisce quanto già oggi prevede l’art. 579, comma 3, c.p. È una critica irricevibile, se riferita invece al suo implicito effetto innovativo: perché abrogare è “disporre diversamente”, come insegnava Vezio Cricolata Safulli annoverando il referendum tra le fonti del diritto, abilitato a innovare l’ordinamento. Cosa che può fare sostituendo a quanto previsto il suo opposto: sia abrogando in toto una legge, sia rovesciandone il contenuto normativo attraverso un’abrogazione parziale. Sta proprio qui la carica antagonista del voto popolare contro l’indirizzo politico espresso dalla legislazione in vigore, sulla quale il referendum può intervenire con la scure o con il bisturi. Quel voto non è un mero emendamento su un testo altrui, ma una decisione in proprio. 7. L’ammissibilità del quesito è contestata anche per le sue conseguenze, lesive del bene costituzionale della vita. Ma è davvero così? Quanto all’intangibilità della vita altrui, il referendum non abroga integralmente l’art. 579 c.p., e conferma l’automatica riespansione della punibilità per omicidio doloso, se il consenso della vittima non è validamente prestato. Tanto basta ad assicurare il livello minimo di tutela del diritto costituzionalmente garantito dalla norma oggetto del quesito, come esige la Consulta (cfr. sentt. nn. 26/1981 e 35/1997, entrambe riguardanti quesiti abrogativi parziali della legge sull’aborto). Quanto alla possibilità di disporre della vita propria, sulla base di scelte personali libere, consapevoli, informate, è esattamente quanto s’intende rimettere alla decisione popolare. E lo si può fare perché - come il reato di aiuto al suicidio - l’incriminazione dell’omicidio del consenziente non è vietata dalla Costituzione, ma neppure imposta. Il quesito, dunque, non riguarda una norma costituzionalmente vine perciò sottratta all’abrogazione (legislativa o popolare). Salvo non voler annoverare Alfredo Rocco tra i precursori della Costituzione repubblicana, a sua insaputa. 8. In realtà, una bocciatura del referendum motivata con un presunto vulnus al bene costituzionale della vita mal celerebbe un sindacato anticipato sulla legittimità dei suoi esiti normativi. Si tratterebbe di uno sviamento funzionale del compito spettante alla Consulta, chiamata a giudicare esclusivamente l’ammissibilità del quesito abrogativo, non anche la costituzionalità dei relativi effetti sull’ordinamento. Si tratta di due competenze diverse, dalle finalità non sovrapponibili, governate da scadenze temporali e regole processuali differenti. Anche quanto a flessibilità delle relative decisioni, perché nel giudizio sulla costituzionalità di una legge la Corte può sottrarsi alla logica necessariamente binaria del giudizio sul referendum (ammissibile o inammissibile). Faranno bene i giudici costituzionali a tenere separati i due piani, se non vogliono esporsi all’accusa di negare arbitrariamente il diritto di voto, indebolendo così la propria legittimazione. 9. Ciò vale anche in replica a chi paventa il caos normativo perché, con la vittoria dei sì nel referendum, si finirebbe per punire l’aiuto al suicidio e non l’omicidio del consenziente, che pure è reato più grave del primo. È un argomento suggestivo ma non persuasivo, perché la produzione continua di norme è sempre fonte di potenziali antinomie con quelle precedenti. L’ordinamento giuridico appresta strumenti per risolverle: l’interpretazione dei giudici; l’impugnazione a Corte della norma di dubbia costituzionalità; la sopravvenuta modifica legislativa. Rimedi che scattano nel momento applicativo della legge o alla luce di esso. Non prima, nella fase della produzione normativa, legislativa o referendaria che sia. 10. In che senso la morte vada intesa come un fine (è la fine o il fine della vita?) è opzione personale. Tale è anche la decisione di come arrivarci, specie quando il corpo abitato si fa intollerabile prigione. Sotto la crosta giuridica, sono questi gli interrogativi che il quesito pone. Sono domande di senso sulle quali è impossibile un accordo unanime. In questi casi, una democrazia liberale non vieta né impone una condotta, lasciandola a una libera scelta circondata di giuste cautele e adeguate procedure. Nei limiti di un atto abrogativo di norme vigenti, il referendum va in questa direzione. La sola rispettosa di tutti. Cannabis terapeutica: un miraggio per i malati. C’è la legge, ma in molte Regioni non si trova di Diana Alfieri Il Giornale, 15 febbraio 2022 Può essere prescritta per il dolore cronico, ma l’accesso alle cure è un Far West. Non meno di 50mila pazienti in Italia affrontano quotidianamente le difficoltà legate all’approvvigionamento della cannabis terapeutica per il trattamento del dolore cronico. Lungo la Penisola, infatti, ci sono solo sei distributori e soltanto una sessantina di farmacie che si dedicano attivamente alla preparazione dell’estratto dalle inflorescenze. Se il principio del diritto di cura a solo scopo terapeutico è stato sancito qualche anno fa, il modello distributivo resta carente. Ci si affida alle competenze del farmacista, sempre che se ne trovi uno. E questo è il primo problema perché ci sono ampie aree del Paese in cui è impossibile avere accesso al farmaco. Le associazioni dei pazienti, così come gli operatori sanitari, avanzano da tempo tre richieste: rendere l’accesso alle cure uguali per tutti i cittadini italiani, trasformare un prodotto artigianale in un prodotto industriale più sicuro e preciso nella somministrazione e nell’adeguamento delle terapie e fare in modo che il Ministero della Salute, tramite la commissione Salute della Conferenza delle Regioni, uniformi l’accesso alla terapia a livello nazionale rendendo rimborsabili le preparazioni allestite a partire dall’estratto di cannabis. Le differenze tra regioni sono enormi, si va da territori dove le cure a base di cannabis non sono rimborsabili ad altre dove lo sono ma esclusivamente per le preparazioni delle farmacie ospedaliere ad altre ancora dove sono rimborsabili anche quelle lavorate dalle farmacie territoriali autorizzate. La cannabis terapeutica può essere prescritta per patologie con spasticità associata al dolore, come sclerosi multipla, glaucoma resistente alle terapie convenzionali, la sindrome di Tourette. Può servire anche come analgesico “nel dolore cronico”, ma anche come antidoto agli effetti di chemioterapia, radioterapia e terapie contro l’HIV. Nel 2021 il fabbisogno di cannabis terapeutica a livello nazionale è stato di 1.400 chili a fronte della produzione di 300 chili dell’istituto farmaceutico militare di Firenze. Troppo poco. Per questo da tempo Ministero della Salute e Aifa hanno autorizzato la prima azienda farmaceutica, Farmalabor, all’importazione, ripartizione e confezionamento del principio attivo stupefacente denominato “Estratto di cannabis 15% Thc”. Si tratta di una soluzione che consentirebbe di uscire dall’attuale far west e dal problema dell’approvvigionamento a macchia di leopardo, con un prodotto sempre reperibile, in grado di assicurare il passaggio da una fase artigianale a una fase industriale. Questo estratto, infatti, è un prodotto standardizzato, pronto all’uso, utilizzabile per l’allestimento di preparazioni da realizzare attraverso una semplice diluizione. La soluzione, insomma, c’è già e il paradosso è che le istituzioni l’hanno adottata al 99%, ma ora manca l’ultimo miglio, in attesa del quale i pazienti patiscono inutilmente una situazione evitabile. La Conferenza Stato-Regioni che fa? Stati Uniti. Migliaia in galera per quella legge razzista di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 15 febbraio 2022 La vicenda di Brandon Jackson in prigione per venticinque anni. Oggi si batte per poter ottenere un nuovo e regolare processo. “È il giorno più bello della mia vita negli ultimi 25 anni e mezzo. Ho avuto così tante perdite, ma questo un giorno compensa tutto”. Sono state le prime parole pronunciate venerdì scorso da Brandon Jackson, l’uomo 50enne che in Louisiana ha ottenuto la libertà vigilata dopo ben 25 anni di detenzione. La sua è anche la storia di come una legge razzista adottata dalla Louisiana stia mantenendo in carcere centinaia di persone negli Stati Uniti nonostante sia stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema nel 2018. Jackson infatti è rimasto vittima della ‘Jim Crow juri’, una denominazione che di per se contiene già un indirizzo ben preciso. Secondo tale legge una persona poteva essere condannata, anche all’ergastolo, nonostante il verdetto di colpevolezza dei 12 giurati non fosse unanime. Ed è proprio quello che ha subito Jackson che è stato condannato nel 1997 a seguito di una rapina a mano armata a Bossier City, con un voto di 10 a 2. Così quello che nella maggioranza degli stati sarebbe stato un processo illegale è stato considerato valido. I cosiddetti ‘verdetti non unanimi’ furono inseriti nella Costituzione dello Stato della Louisiana nel 1898. L’obiettivo era esplicito e venne esplicitato nella gazzetta ufficiale degli atti: ‘stabilire la supremazia della razza bianca’. La legge dunque è stata scritta con l’intento di garantire condanne per gli imputati neri annullando i voti dei giurati non bianchi, che costituivano una porzione minore dei pool di giurie locali. La ‘Jim Crow juri’ è rimasta in vigore per più di un secolo, e la sua legalità è stata riaffermata in una decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1972. Solo nel 2018 diverse inchieste hanno messo in luce come i verdetti non unanimi colpivano le persone afroamericane, circostanza che ha riguardato proprio Brandon Jackson, nero così come i giurati che nel procedimento avevano votato per la sua innocenza. Quando i legislatori statali hanno avanzato un’iniziativa elettorale per abrogare la legge, la maggioranza è stata schiacciante, solo che il cambiamento non poteva essere applicato in maniera retroattiva e riguardavano solo gli imputati i cui casi erano iniziati a partire dal 1° gennaio 2019 o successivamente. Nel 2020 però la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che i verdetti non unanimi erano incostituzionali in quanto, come dichiarato dal giudice Brett Kavanaugh, erano ‘un pilastro di un programma completo e brutale di misure razziste’. Secondo un rapporto del 2020 stilato dall’organizzazione no-profit Promise of Justice Initiative, che rappresenta e difende coloro che sono stati condannati da verdetti di giuria non unanimi, circa 1500 persone erano ancora dietro le sbarre dopo essere state dichiarate colpevoli con decisioni di 10 a 2 o 11 a 1. L’ottanta per cento di questi imputati erano appunto neri. Nonostante il clima politico e la consapevolezza dell’opinione pubblica fossero mutati le porte della cella per Jackson non si sono aperte immediatamente, rimaneva il discrimine che se un caso di giuria divisa si fosse già fatto strada attraverso il normale processo di appello statale, esso sarebbe comunque rimasto in piedi. Per questo già due anni fa una prima richiesta di libertà vigilata era stata negata, una decisione cambiata poi pochi giorni fa ma soltanto grazie al fatto che è stato riconosciuto il ravvedimento del condannato e il suo impeccabile percorso carcerario. Jackson infatti ha sempre sostenuto di essere innocente e l’accoglimento della richiesta di rilascio non deriva dunque da regole ingiuste visto che la corte che ha esaminato il suo caso, come ha spiegato il suo legale Claude-Michael Comeau, ‘presume che tutte le condanne siano corrette’ e richiede alle persone di ammettere la colpevolezza. Nonostante la liberazione e le speranze dei gruppi di difesa che confidavano nelle decisioni della Corte Suprema, Jackson rimane un criminale condannato e non è certo se la sua petizione per un nuovo processo, questa volta ‘regolare’, avrà un buon esito. Le motivazioni della crisi tra Russia e Ucraina di Andrea Marinelli Corriere della Sera, 15 febbraio 2022 Cos’è successo fra Russia e Ucraina, perché siamo arrivati a questo punto? E perché Putin dovrebbe volere invadere il Paese? La crisi tra Ucraina e Russia, nonostante diversi tentativi diplomatici, è giunta a un livello di tensione particolarmente elevato. Ma quali sono le cause di questa crisi? Cosa c’è alla radice di una guerra che - per alcuni osservatori - è già iniziata? 1. Da cosa nasce il conflitto fra Russia e Ucraina? A febbraio 2014, il popolo ucraino ha cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovich, instaurando un governo ad interim filoeuropeo non riconosciuto da Mosca. Vladimir Putin ha risposto annettendo la Crimea e incoraggiando la rivolta dei separatisti filorussi nel Donbass, regione nel Sudest del Paese. Oggi le generazioni più giovani spingono l’Ucraina verso l’Europa, e anche l’attuale presidente Volodymyr Zelensky - eletto nel 2019 - è vicino all’Occidente. Il conflitto, però, ha radici più antiche e profonde. Il presidente russo ritiene che il suo Paese abbia un “diritto storico” sull’Ucraina, che faceva parte dell’Unione Sovietica fino al collasso del 1991: lo ha anche scritto apertamente in un lungo articolo pubblicato lo scorso anno, in cui definisce Russia e Ucraina “una nazione”. Il crollo dell’Unione Sovietica ha lasciato profonde cicatrici in parte del popolo russo: lo stesso Putin lo aveva definito “la più grande catastrofe geopolitica” e l’Ucraina era stata la perdita più dolorosa. In molti, scrive David Sanger sul New York Times, ritengono che Putin si ritenga ora “in missione per correggere questo errore”. Inoltre, lo scorso anno, l’Ucraina ha approvato una legge che proibisce a 13 oligarchi di possedere dei media per influenzare la politica, colpendo direttamente l’amico di Putin Viktor Medvedchuck, uno degli uomini più ricchi del mondo. Oltre alla sua attività di petroliere, infatti, Medvechuck - che è ancora ai domiciliari, accusato di altro tradimento - è il leader del principale partito filorusso d’Ucraina, Piattaforma dell’Opposizione, ed è proprietario di un impero televisivo attraverso il quale diffondeva la propaganda di Mosca e influenzava la politica ucraina. Poco dopo il suo arresto, Putin ha cominciato ad ammassare truppe al confine. 2. Cosa c’entra in tutto questo la Nato? L’Ucraina vuole entrare nella Nato, la Russia si oppone. Già dal 2008 - in seguito al summit di Bucarest e prima dell’arrivo del governo filoeuropeo non riconosciuto da Putin - Kiev stava lavorando per entrare nell’Alleanza atlantica, che non può però accettare nuovi membri già coinvolti in conflitti. Per essere ammessa, inoltre, l’Ucraina ha bisogno di combattere la corruzione che domina nel Paese e di intraprendere un percorso di riforme politiche e militari. In questo momento, dunque, un ingresso nella Nato è altamente improbabile, anche per l’opposizione della Russia: per Putin l’ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica sarebbe il punto di non ritorno, anche se la Russia non ha formalmente alcun potere di veto. L’Ucraina, invece, chiede una timeline precisa per entrare nell’Alleanza atlantica. A questa domanda ha risposto, indirettamente, anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden: “La possibilità che l’Ucraina si unisca alla Nato in tempi brevi è molto remota”, ha detto il presidente americano. L’interferenza russa, intanto, ha rinnovato anche le ambizioni di Paesi come Finlandia e Svezia, che Mosca vorrebbe tenere fuori dal Trattato nordatlantico. 3. Perché la Russia teme l’allargamento della Nato? Al momento solo il 6% dei confini russi toccano Paesi della Nato, secondo il dipartimento di Stato americano. L’Ucraina però condivide con la Russia una frontiera lunga 2.200 chilometri. Il Cremlino vuole soprattutto mantenere la sua sfera d’influenza nell’area, e vuole che la Nato rinunci alle sue attività nell’Est Europa, tornando alla situazione del 1997: da allora sono diventati membri dell’Alleanza atlantica Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Questo significherebbe che la Nato dovrebbe ritirare le proprie truppe dalla Polonia e dalle tre repubbliche baltiche, oltre che i propri missili da Polonia e Romania. Mosca accusa infatti la Nato di riempire l’Ucraina di armi e gli Stati Uniti di fomentare le tensioni. Per questo Putin, parlando dopo l’incontro con Macron del 7 febbraio, ha parlato anche del suo arsenale atomico: “Lo capite o no che se l’Ucraina entra nella Nato e tenta di riprendersi la Crimea con mezzi militari, i Paesi europei saranno automaticamente trascinati in una guerra con la Russia? Ovviamente i potenziali militari di Russia e Nato sono imparagonabili, e lo sappiamo. Ma sappiamo anche che la Russia è uno dei Paesi dotati di armamenti nucleari, e che per alcune componenti supera il livello di diversi Paesi. Non ci saranno vincitori. Voi europei sareste trascinati in una guerra contro la vostra volontà”. 4. Putin dice che non invaderà l’Ucraina: è credibile? I fatti indicano una situazione diversa: in particolare il massiccio schieramento di soldati lungo il confine, il sostegno ai separatisti del Donbass - ai quali è stato fornito mezzo milione di passaporti russi - e la minaccia di dure conseguenze se l’Ucraina dovesse fare qualcosa di provocatorio. Putin ha inoltre già attaccato la Cecenia nel 1999, la Georgia nel 2008, la stessa Ucraina nel 2014 e la Siria nel 2015. Come nota Henry Foy sul Financial Times, però, si sta verificando anche un approccio piuttosto inusuale per la diplomazia moderna: la Casa Bianca, la Nato e l’Unione europea stanno diffondendo una grande quantità di briefing, informazioni di intelligence, minacce e accuse di vario genere - materiale in genere riservato ai negoziati - al fine di evitare una guerra. Tutto questo, spiega il corrispondente da Bruxelles del quotidiano britannico, ha esposto al pubblico globale le divisioni del fronte occidentale su come affrontare la Russia. 5. Ma come giustifica Putin lo schieramento dei soldati al confine? La Russia ritiene di poter muovere le truppe a suo piacimento all’interno del proprio territorio, spiega il corrispondente da Mosca della Bbc Steve Rosenberg. Non solo: sono in corso anche esercitazioni (“programmate”) con la Bielorussia. 6. Perché gli Stati Uniti si interessano all’Ucraina? Come scritto da Giuseppe Sarcina, “il presidente americano non ha cercato lo scontro con i russi: la sua agenda era un’altra. Biden è convinto che la crisi ucraina sia piena di rischi anche sul versante della politica interna. Il motivo è molto semplice. Se Putin bluffa o alla fine si arriva a un accordo, saranno in molti a rivendicarne i meriti. Ma se il leader russo attacca e paralizza mezzo Occidente, allora tutti chiameranno in causa le responsabilità, la “debolezza” di Biden. All’inizio del 2021 l’Amministrazione Usa pensava di poter “stabilizzare” le relazioni con il Cremlino, offrendo collaborazione sul terrorismo e un piano graduale di disarmo. Oggi è costretta, suo malgrado, a dover aggiornare la linea politica, preparandosi a uno scontro con Mosca da anni Sessanta. La Casa Bianca, inoltre, non vuole farsi trovare impreparata a nessun livello, a costo di apparire allarmista. Ecco perché, tra l’altro, sta sollecitando i cittadini americani a lasciare Kiev: non si devono ripetere le disastrose e umilianti scene di panico viste a Kabul nell’agosto scorso”. Gli Stati Uniti vogliono di certo limitare l’influenza di Vladimir Putin - temono l’espansione russa nell’Europa dell’Est - e difendere il principio per cui ogni Paese ha il diritto di scegliersi il proprio destino e le proprie alleanze: non solo per l’Ucraina, ma per tutti i Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia e che negli anni Novanta sono passati con la Nato. “C’è una ragione fondamentale per cui gli Stati Uniti e il resto del mondo democratico dovrebbero sostenere l’Ucraina nella sua battaglia contro la Russia di Putin”, scrive Francis Fukuyama su American Purpose. “L’Ucraina è una vera democrazia liberale, anche se in difficoltà. La popolazione è libera, in un modo in cui i russi non lo sono. Possono protestare, criticare, mobilizzarsi e votare. Per questo Putin vuole invadere l’Ucraina: la vede come una parte integrante della Russia, ma sopratutto ne teme la democrazia che può proporre un modello ideologico alternativo per il popolo russo”. Secondo Fukuyama, quindi, l’Ucraina oggi è lo Stato in prima linea nella battaglia geopolitica globale fra democrazia e autoritarismo. La crisi ucraina, inoltre, trascende i confini europei: anche la Cina sta osservando attentamente la risposta occidentale, scrive lo storico, mentre valuta i rischi di reincorporare Taiwan. “A Washington”, scriveva ancora Sarcina, “ora è chiaro a tutti che la partita sia doppia. La vice segretaria agli Esteri, Wendy Shelman, lo ha detto esplicitamente: se diamo via libera a Putin, stiamo anche consegnando Taiwan a Xi Jinping”. Nicaragua. L’ultimo affronto di Ortega: muore in cella il comandante Torres di Gianni Beretta Il Manifesto, 15 febbraio 2022 L’ex generale dell’esercito sandinista era in carcere da sei mesi per “tradimento”: aveva criticato quella che definiva la peggiore dittatura. Ignote le cause della morte, da tempo i familiari denunciavano le pessime condizioni di detenzione. Nel ‘74 liberò l’attuale presidente dalle prigioni di Somoza. “Non avrei mai immaginato alla mia età di dover lottare in forma civica e pacifica contro un’altra e peggiore dittatura di coloro con i quali avevo condiviso i valori di giustizia e libertà”. È la frase che l’ex comandante guerrillero Hugo Torres aveva pronunciato poco prima di essere arrestato in Nicaragua dal regime orteguista per “tradimento della patria” il 13 giugno scorso. Torres, 73 anni, ex generale dell’Ejercito Popular Sandinista durante la rivoluzione, è deceduto lo scorso fine settimana nell’ospedale capitalino della polizia. Era stato ricoverato nel dicembre scorso dopo vari svenimenti nella cella del carcere del Chipote dov’era finito (in salute) sei mesi prima. La stessa galera, sulla collina che domina Managua e il lago Xolotlán, in cui un tempo la dittatura dei Somoza rinchiudeva a marcire i ribelli sandinisti. Una detenzione fatta d’isolamento, malnutrizione, maltrattamenti, interrogatori continui e scarse visite dei familiari, che denunciano invano il trattamento disumano cui sono sottoposti 168 prigionieri politici di varia tendenza, la cui unica colpa è dissentire da Daniel Ortega e dalla sua co-presidente (nonché consorte) Rosario Murillo. Alcuni di essi/e erano aspiranti presidenti alle elezioni farsa del novembre scorso dove la coppia si è rinnovata per un quarto mandato consecutivo. Ma un accanimento particolare è riservato proprio agli ex compagni di lotta che fin dagli anni 90, come Torres, criticano Ortega per aver ribaltato, in un delirio messianico di potere, i valori del sandinismo rivoluzionario. E che nel 2018 solidarizzarono con la rivolta popolare lanciata dai giovani universitari, soffocata nel sangue dal neo tiranno con un saldo di almeno 352 vittime. Tra loro, in assai precarie condizioni, il quasi 80enne ex sacerdote-ministro (alla famiglia) Edgar Parrales; Victor Hugo Tinoco (ex viceministro degli esteri) e Doria Maria Tellez (ex ministro alla sanità), condannata la scorsa settimana a otto anni di reclusione per fantomatici “atti contro l’indipendenza e la sovranità nazionale” in un pseudo-processo che invece che in tribunale si è svolto nello stesso penitenziario, senza che avesse potuto mai incontrare un avvocato. Con loro ci sono pure in attesa di giudizio 27 detenuti fra i 19 e i 25 anni, a cominciare da uno dei leader di quella sollevazione, Lesther Alemán. Senza contare gli oltre centomila nicaraguensi che hanno scelto o dovuto abbandonare il paese. Stavolta l’imbarazzo del clan Ortega per la morte di Hugo Torres è palpabile. Al di là dei comunicati ufficiali in cui non si chiariscono le cause del decesso, si giunge a inventare una precedente cancellazione del processo a suo carico per “ragioni umanitarie” e si menziona una presunta volontà dello scomparso di non voler alcun tipo di esequie. L’esoterica tuttofare Rosario Murillo è arrivata incredibilmente a decretare festivo lunedì 14 febbraio per san Valentino. Ma cosa starà pensando davvero Daniel Ortega del mitico comandante Hugo Torres e (con lui) i tre generali che si sono succeduti finora alla testa dell’esercito, che furono liberati dalle prigioni somoziste quella vigilia di Natale del 1974 dopo una brillante operazione guerrigliera con lo stesso Hugo nella quale furono presi in ostaggio diversi esponenti della dittatura di allora? E come reagiranno i 60 militanti sandinisti rilasciati (insieme allo scomparso fondatore del Frente Sandinista Tomás Borge) nell’agosto ‘78 quando ancora lui (l’unico a cimentarsi in entrambe le azioni) partecipò con Dora Maria Tellez all’assalto del parlamento somozista, per portarli poi tutti in salvo (in entrambi i casi) a L’Avana?