Perché nessuno più in carcere diventi un “fascicolo vivente” di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2022 Una nuova circolare del DAP torna a parlare estesamente di rieducazione. Mi è arrivata in questi giorni una lettera/articolo di uno dei miei “redattori detenuti”, che ha subito vari trasferimenti, certamente per responsabilità anche sue, ma considerando che è cresciuto in carcere, qualche domanda anche l'istituzione se la dovrebbe porre, rispetto a tanti ragazzi che si stanno bruciando la giovinezza nelle galere. Lui è anche il primo che ha fatto, con Adolfo Ceretti, uno dei massimi esperti di Giustizia riparativa, una mediazione sperimentale per un pesante conflitto che aveva avuto con un compagno di detenzione, sfociato in lesioni gravi; lui è quello che a Ceretti ha ispirato il titolo della sua autobiografia, “Il diavolo mi accarezza i capelli”. E oggi, nella sua lettera, Raffaele ha usato un’altra immagine fulminante nella sua efficacia, si è definito un “fascicolo vivente”. Una definizione perfetta per dire quanto, in questi anni, siano stati difficili, tortuosi, spesso inefficaci nelle carceri quei percorsi che avrebbero dovuto essere, per ogni detenuto, nessuno escluso, rieducativi, quindi trasformativi, e invece troppo spesso hanno inchiodato le persone al loro fascicolo. Che va di anno in anno gonfiandosi, perché quando le cose non funzionano tutto si trasforma in reclami, denunce, sanzioni disciplinari. Ora una nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria torna a parlare estesamente di rieducazione. È firmata dal Direttore generale del Personale e delle Risorse, Massimo Parisi, ed è dedicata alla “valorizzazione del ruolo e della figura professionale del Funzionario giuridico pedagogico”. Una cosa mi pare evidente, che dietro quella circolare non si sente il linguaggio della burocrazia, ma quello dell’esperienza sul campo in uno degli istituti più avanzati, Bollate, dove Parisi è stato direttore. E mi viene da dire che finalmente la sperimentazione di Bollate potrebbe e dovrebbe cominciare ad avere delle ricadute positive sulle altre carceri. Tutto nuovo, dunque, in questa circolare? No, è una circolare che riprende le vecchie circolari sulla rieducazione, ne sottolinea i contenuti più significativi, e non dimentica di sviluppare le tante parti che in questi anni non hanno trovato l’applicazione che meritavano. E richiama anche l’Ordinamento Penitenziario, per come è stato riformato nel 2018. Una “piccola riforma” che però ha messo al centro del percorso rieducativo concetti importanti come autonomia, responsabilità, socializzazione e integrazione della persona detenuta, e questa circolare cerca di dare valore a questi concetti. Vorrei allora provare a fissare l’attenzione su alcune parole chiave, con la consapevolezza che tutto il tema della rieducazione va ripreso e rifondato. Potenzialità da valorizzare: Nella circolare si parla di attitudini e di potenzialità da incoraggiare e mettere a frutto, perché “in quanto soggetto adulto, del detenuto deve essere sostenuto il processo di autodeterminazione e la libera adesione alla proposta trattamentale dovrà essere coinvolta sin dalla fase di progettazione delle attività”. Niente di rivoluzionario, per carità, ma dare più spazio e credibilità al “buono” che c’è anche nel peggiore dei “fascicoli viventi”, aiutare le persone a ripartire da lì per ricostruire le loro vite non è così scontato: troppo spesso le persone che finiscono in galera si sentono delle nullità, a volte non hanno neppure la consapevolezza di possedere delle qualità, si sentono schiacciate sul loro reato, “reati che camminano” è l’efficace definizione data di sé da un altro detenuto. Osservazione partecipata: Parlare più di “osservazione partecipata” che di ”osservazione scientifica della personalità” e spostare l’attenzione dal colloquio individuale alla valorizzazione di sguardi diversi è un obiettivo che già era stato sottolineato dalla circolare del 2003, ma non si può certo dire che si sia realizzato, basta vedere quanto è ancora difficile far funzionare nelle carceri i Gruppi di Osservazione e Trattamento, che intorno all’educatore (FGP) dovrebbero raccogliere e mettere a confronto tutti gli operatori che sono coinvolti nel percorso di reinserimento di una persona detenuta, anche esterni all’amministrazione, come insegnanti, volontari, operatori del Terzo Settore. Operatori che dovrebbero poter dare un contributo significativo ai percorsi individuali, sostenendo con determinazione il passaggio dalla detenzione alle misure di comunità, tappa fondamentale della rieducazione. Dinamismo e deburocratizzazione: “Il principio che deve informare l’assetto organizzativo attorno alla figura (del FGP) è quello della deburocratizzazione”, “L’utilizzo di metodi/strumenti di osservazione diversificati caratterizza sempre più in senso dinamico la figura del funzionario giuridico pedagogico che deve muoversi all’interno delle sezioni, incontrare i detenuti, presenziare alle loro attività…”. Ricordo quando tempo fa un direttore di carcere che stimo in modo particolare, Antonio Gelardi, mi ha spiegato l’espressione “fare il direttore con i piedi”: “Fare il direttore con i piedi è una espressione che si tramanda di esperienza in esperienza, a me la insegnò il mio primo direttore a Sollicciano, nella prima esperienza che feci, da vice direttore, in quell’istituto complicato. Vuol dire lasciare la scrivania, dove il problema è l’adempimento, per vivere la vita della comunità, toccare con mano, parlare, capire, incuriosirsi. Perché alla fine per quanto il carcere possa spegnere, ingrigire, la vita è un po’ come l’erba che spacca il cemento e viene fuori lo stesso”. È un dinamismo che, e su questo non saremo ipocriti, non crediamo voglia dire essere presenti sempre alle attività, non avrebbe senso neppure se ci fosse il tempo per farlo, perché le persone detenute hanno bisogno di autonomia e di confronto, il più possibile libero, con operatori che non rappresentino le Istituzioni e non abbiano un ruolo ufficiale nella loro “scalata alla libertà” (che è inevitabilmente il loro primo obiettivo), ma certamente significa riconoscere l’importanza di queste attività e cercare il confronto, l’ascolto, il dialogo, nel rispetto del bisogno di “autodeterminarsi” del detenuto. La circolare, proprio per questa necessità di far muovere una istituzione spesso ferma e incapace di capire i bisogni dei suoi utenti, parla esplicitamente del fatto che il Funzionario giuridico-pedagogico “dovrà essere facilmente contattabile e raggiungibile”, superando così la necessità della famigerata “domandina”. Quello che è importante è “prevedere la presenza del funzionario in un’ampia fascia oraria, organizzando anche turnazioni pomeridiane o preserali, dato che, come ampiamente evidenziato, il ruolo non si deve relegare a mansioni di back office che giustificherebbero orari unicamente mattutini, ma deve piuttosto essere incentivato a vivere appieno la vita dell’istituto”. Questa questione degli orari ha già comprensibilmente scatenato il fastidio di molti operatori, perché lavorare con turni preserali non piace a nessuno, e anche perché, ovviamente, manca personale, e i 210 educatori in più promessi ancora sono immersi nei concorsi, ma che tante carceri dopo le tre del pomeriggio diventino un deserto, che le attività si svolgano tutte negli stessi orari e “si contendano” i detenuti l’una alle spese dell’altra non è più accettabile. Rappresentanza: “Si ritiene opportuno rilanciare il ruolo e l’importanza, da un punto di vista trattamentale, delle rappresentanze già previste nell’ordinamento penitenziario finalizzate alla rilevazione dei bisogni e alla valutazione delle proposte progettuali provenienti dagli stessi detenuti”. Su questa questione della rappresentanza Massimo Parisi potrebbe forse essere più coraggioso e parlare di una rappresentanza elettiva: a Bollate lui stesso l’aveva introdotta e, se non sbaglio, funzionava, perché le persone, elette dai loro compagni a rappresentarle, e aiutate dal volontariato a formarsi, dal momento che la formazione per i rappresentanti è una tappa cruciale della loro crescita, con questa esperienza sono maturate, hanno imparato a pensare sì a se stesse, ma anche agli altri, ai compagni di sezione, a chi ha più difficoltà a farsi ascoltare. Incontri studenti/detenuti: È scarna la frase che ricorda l’importanza degli incontri tra persone detenute e studenti “buona prassi è l’organizzazione di incontri studenti/detenuti”. Bene comunque che la circolare lo riconosca, perché una delle esperienze che risulta più significativa nei percorsi rieducativi è proprio quella del confronto con le scuole: lo è per gli studenti, perché nelle narrazioni degli autori di reato scoprono quanto poco netta è la distinzione tra bene e male, e quanto facile è scivolare da un comportamento a rischio all’illegalità; lo è per le persone detenute, che attraverso le scuole si confrontano direttamente con le paure della società, a volte anche con la rabbia e l’ansia di chi ha subito un reato, e sentono di restituire qualcosa a quella stessa società aiutandola a fare prevenzione. Lavoro di rete: È ampio lo spazio dedicato in questa circolare al lavoro di rete, cosa che sarebbe scontata ovunque, ma non lo è affatto in una istituzione che spesso ancora parla del Volontariato e del Terzo Settore come di ospiti, e tende a promuovere una specie di “autarchia”, una volontà di fare da sé perché così, riducendo il peso del mondo esterno, è più facile garantire la sicurezza: “È bene ribadire che tutti gli operatori che a vario titolo si occupano del detenuto (quindi anche operatori del privato sociale, del volontariato, della scuola, oltre alle figure istituzionali) devono essere coinvolti in quanto preziosa fonte di elementi di osservazione e incoraggiati ad operare in una rete virtuosa e multiprofessionale”. Il ruolo decisivo della società: Se ancora così di frequente parte consistente dell’amministrazione penitenziaria ritiene le attività del Terzo Settore “non essenziali” o ancillari, tanto da chiuderle più e più volte nel corso della pandemia, anche quando grazie alle vaccinazioni qualcosa avrebbe dovuto essere cambiato nelle chiusure e nelle quarantene, e se il Terzo Settore non è riconosciuto neppure in una Commissione come quella che deve stilare il regolamento interno di un carcere, nonostante sia considerato da importanti ricerche come responsabile dell’80 % delle attività rieducative negli istituti di pena, allora non è affatto superfluo che la Circolare ne ribadisca il ruolo, il peso, il valore: “È importante ribadire che se il coordinamento delle attività e degli interventi afferenti al trattamento è in capo al funzionario giuridico pedagogico, il mondo esterno ha un ruolo comunque formalizzato dall’ordinamento penitenziario (si pensi al fatto che il legislatore del 1975 ha inserito i contatti con il mondo esterno tra i principali elementi del trattamento) e quindi vanta un ruolo decisivo nel contesto penitenziario che deve essere promosso (e non solo per le funzioni spesso sussidiarie che ricopre)”. Anni fa la redazione di Ristretti Orizzonti ha organizzato in carcere una Giornata di studi dal titolo “Il senso della rieducazione in un paese poco educato”. Il tema è ancora attuale e forte, proprio perché il nostro è un paese con uno scarso senso civico, e quanto meno la società ha coscienza dell’importanza di rispettare le regole, tanto più, paradossalmente, tende a scaricarsi la coscienza irrigidendo le regole per “i cattivi”. Così l’intuizione dei padri costituenti, di dare alla pena una funzione rieducativa ben più che punitiva, rimasta spesso lettera morta, ha bisogno di trovare nuova linfa. Questa circolare mette dei punti fermi, c’è naturalmente ancora tanta strada da fare, per esempio sul tema della rieducazione dei “cattivi per sempre”, di quei mafiosi che la Costituzione non esclude affatto dall’articolo 27. *Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti In attesa del futuro Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Luigi Pagano* Ristretti Orizzonti, 14 febbraio 2022 In attesa che la Ministra Cartabia sciolga il dubbio su chi sarà il futuro Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fervono i pronostici, gli identikit, le dichiarazioni di sostegno a potenziali candidati che si ritiene siano i più capaci a ricoprire un ruolo del genere. Stavolta, si dice, la Ministra non può sbagliare nella scelta, la situazione nelle carceri oscilla tra confusione e dramma determinando l’impressione che si navighi a vista nonostante la pandemia ancora imperi, il sovraffollamento sia ormai divenuto endemico, i suicidi siano all’ordine del giorno e il personale abbia iniziato a far trapelare la propria profonda insoddisfazione. Tutte le persone di cui si fa i nomi hanno ottime credenziali da vantare (fondate, comunque, su quanto hanno realizzato nell’ambito della loro attuale professione), ma credo che prima di dire “questa è la persona giusta” si debba non solo avere bene in mente che carcere si vuole, ma anche come si intenda operare, nei fatti, per realizzarlo. Preciso: a quali principi debba ispirarsi il carcere ce lo dice la Costituzione e la legge di riforma varata nel 1975 ne è la traduzione normativa, da allora, però, sono trascorsi circa 47 anni ed è convinzione comune che essa sia rimasta in buona parte inattuata. E la realtà non può smentirla. Cosa le sia successo è presto detto, basta contare le volte, 60 circa dal suo varo a oggi, che il legislatore è intervenuto a modificarla, fluttuando tra letture diametralmente opposte sulla funzione preminente da attribuire alla detenzione. Dopo appena due anni dalla sua promulgazione, nel 1977, vengono istituite le carceri di massima sicurezza, peraltro derogando alla legge con un decreto interministeriale, ma nel 1986, con la legge Gozzini le si abolisce, si introduce nella normativa l’istituto dei permessi premio, nuove misure alternative e si eliminano le preclusioni al loro accesso prima previste per taluni titoli di reato. Il tempo di fare i conti con queste rilevanti novità - e con il nuovo codice di procedura penale e la riforma del corpo di polizia penitenziaria nel frattempo subentrate - che già giunge l’ora di cambiare ancora. I decreti legge varati tra il 1990 e il 1992 per fronteggiare la recrudescenza del crimine organizzato, dopo svariate formulazioni arrivano, infine, a stabilire il divieto alla concessione dei benefici penitenziari per coloro che sono condannati per reati di mafia o assimilati, a meno che non collaborino con la giustizia, di fatto abrogando per loro la legge Gozzini. L’esigenza successiva è quella di differenziare l’apparato penitenziario creando un circuito “speciale” che comprende, in prevalenza, imputati e condannati per i reati inerenti la delinquenza di stampo mafioso e uno “ordinario” composto dal rimanente 80% dei 44.000 detenuti in quel momento presenti. Si sostenne, allora, che una scelta del genere fosse uno scotto necessario non solo per fronteggiare le associazioni criminali e mettere in sicurezza le carceri, ma anche per salvaguardare il regolare svolgimento della vita penitenziaria e le attività trattamentali per la popolazione detenuta considerata meno pericolosa. Non v’è ragione di dubitare che gli intenti fossero questi, ma la storia seguì un altro verso. Lo ammette lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quando, dopo la prima condanna Cedu all’Italia del 2009 per trattamento “inumano e degradante”, in una circolare del 2011 riconosce in tutta onestà che i detenuti comuni risultavano essere le persone maggiormente penalizzate dallo stato delle carceri, paradossalmente ancor più dei ristretti nelle sezioni d’alta sicurezza. Mentre per questi, infatti, erano state previste, si legge, “disposizioni e cautele di ordine logistico, nessuna norma era stata dettata sulle modalità di gestione delle sezioni di media sicurezza che erano rimaste, dal 1993, anno della loro introduzione, ispirate alla rigida disciplina custodiale del relegamento all’interno della camera - o “locale di pernottamento” (art. 6, comma 2 o.p.)- divenuta così “camera di detenzione”, salvi i previsti momenti di permanenza all’aria aperta o nelle sale comuni, a prescindere dalla posizione giuridica e da valutazioni afferenti al grado di pericolosità dei ristretti”. Ovvero, il perimetro vitale posto a disposizione dei detenuti comuni, per buona parte della giornata e in troppe strutture penitenziarie, era quello della cella, un perimetro ristretto che con l’aumentare delle presenze diveniva sempre più angusto tanto da sfidare lo stesso principio fisico della impenetrabilità dei corpi. Le misure adottate, al riguardo, però, non sortirono effetti duraturi né lo ebbero quelle prese dopo l’ulteriore condanna subita nel 2013, nonostante gli impegni presi con la Cedu, nonostante gli Stati Generali, occasioni perse per una reale trasformazione. Il carcere resta quello che il Presidente Napolitano, nel 2013 a proposito della sentenza Cedu sul caso Torreggiani, definì, in una lettera indirizzata al Parlamento e letta nel deserto delle aule, “una questione scottante... una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Ecco da cosa nasce la mia domanda: che carcere si vuole allora? Come lo immaginano i politici, posto che né la destra né la sinistra possono dichiararsi del tutto innocenti rispetto alla situazione attuale e su di loro, oltre che la poca chiarezza di intenti, gravano anche altre responsabilità. Una è relativa proprio alle nomine del capo Dap, scelta ricaduta sino a oggi solo su magistrati, ma pur riconoscendone i meriti che si sono conquistati nella loro attività, è legittimo o no chiedersi quale competenza specifica essi avessero acquisito per reggere un’amministrazione e un’amministrazione come quella penitenziaria? Il carcere è struttura complessa, in cui operano svariate professionalità, che il caos di questi anni ha messo quasi le une contro le altre, è confrontarsi con le organizzazioni sindacali, gestire risorse umane e materiali, è sapere di contabilità e di medicina. Non si vuole affermare, ben inteso, che la situazione attuale sia colpa di chi ha diretto le carceri, bensì che non si può prendere tempo per fare esperienza quando è necessaria una guida che quelle difficoltà le conosce e sappia come affrontarle. Certo, è ovvio che le cose via via si apprendono se si ha voglia di calarsi nella realtà, ma poi succede che, quando finalmente si è giunti a capire, con la nomina di un nuovo ministro il capo Dap venga sostituito da un giorno all’altro... con altro magistrato. E si ricomincia daccapo quasi che l’amministrazione penitenziaria sia condannata a dover improvvisare, per volontà divina. Dal 1993 si contano 13 capi del Dap e tre reggenti, per lo più nomine slegate da ogni progettualità e prive di una linea di continuità con le precedenti gestioni. Prima di ogni cosa, allora, vanno identificate le cose da fare e realisticamente realizzabili e solo dopo scegliere la/le persona/e adatte per questo compito. In un’ottica del genere spero si possa guardare anche a una categoria che il carcere lo conosce bene perché amministrarlo è il suo mestiere. Mi riferisco alla dirigenza penitenziaria che nelle passate, illogiche, scelte di vertice, non solo non è mai riuscita a ottenere la guida del Dap, salvo episodiche reggenze, ma ci ha rimesso anche il posto da vice capo che tanto riusciva a dare in termini di suggerimenti d’esperienza a chi ne era digiuno. A questa dirigenza, e ovviamente al personale che con la stessa ha collaborato in periferia, si deve la tenuta delle carceri e la realizzazione, stupefacente constatata la friabilità del contesto, di progetti di alto spessore che resistono nel tempo e tuttora sono citati a esempio come “best practice”. Io credo che la soluzione ai suoi dubbi la Ministra possa trovarla in seno al Dipartimento, dando fiducia ai suoi operatori, un gesto che comporterebbe anche una crescita di tutta l’organizzazione in termini di responsabilità e di gestione. È una speranza, è un augurio o, forse, solo un invito a discutere fuori degli abituali schemi. *Luigi Pagano è stato tra l’altro direttore di Milano San Vittore, ha ricoperto diversi incarichi dirigenziali come Provveditore Regionale, nonché come Vice-Capo Dipartimento. Autore del libro “Il Direttore”, oggi è in pensione e collabora con l’Università Milano Bicocca Carcere e diritti ristretti, il recupero oltre la detenzione di Domenico Alessandro De Rossi* nuovogiornalenazionale.com, 14 febbraio 2022 Dopo tanti anni che aspettiamo una riforma globale e sistemica del “servizio” giustizia in linea col dettato costituzionale che riguardi la vera funzione del carcere, del trattamento e delle conseguenti caratteristiche edilizie, il principio tuttora vigente è quello che purtroppo considera ancora la detenzione come pena, legittimando la sofferenza come pubblica vendetta nei confronti di chi ha compiuto un reato. A che serve tentare di ripensare il carcere, a maggior ragione la sua configurazione spaziale, se i dati politici e culturali di partenza rimangono fermi o, addirittura, arretrano giorno dopo giorno restringendo ulteriormente i diritti di uomini e donne ristretti? Seguendo il principio di necessità (etica) per l’affermazione dei diritti, i quali proprio nel campo dell’esecuzione penale trovano ampio sostegno fortunatamente dalle sentenze della Cedu, dobbiamo non arrenderci al ragionamento nichilista che vede piuttosto nella “disfunzionalità” dello Stato sempre più un appalesarsi di un sottile disegno servo di logiche di conservazione dello statu quo, meno visibili, quanto non facilmente comprovabili. Non diciamo purtroppo nulla di nuovo se ricordiamo che la situazione delle carceri in Italia è in uno stato di grave sofferenza dove spesso si riscontrano atti e violenze nei confronti di detenuti. Oggi più che mai proprio a fronte della pandemia e dell’elevato numero di detenuti in eccesso rispetto all’effettivo numero di posti disponibili. Con l’aggravante dei continui suicidi di detenuti, dei quali ogni giorno prendiamo atto, che non sopportando le inumane condizioni della detenzione sono costretti a togliersi la vita. Pur vivendo nel Paese che dette i natali al Beccaria, siamo costretti a constatare inefficienza, indifferenza, superficialità da parte di coloro che nonostante abbiano il potere di cambiare, per migliorare la situazione, nulla compiono, se non agendo quasi in via esclusiva sugli aspetti securitari, di controllo e repressione. Né possiamo accettare le soluzioni di emergenza riguardanti le misure adottate a suo tempo dal Dap quando, a seguito della condanna “pilota” del 2013 della Cedu per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ha inventato con fantasia tutta italiana la cosiddetta “vigilanza dinamica”. Una finzione tutta burocratica in cui al termine delle ore destinate al riposo notturno nella “camera”, nuovo eufemismo per non dire cella, vengono aperte le porte per spostare i detenuti. Tutti in corridoio stipati. Quanto avviene in quello spazio affollato o all’interno delle “camere” non è direttamente osservabile dagli agenti perché posti al di là della cancellata, con buona pace della sicurezza, della salute e del diritto di chi nel carcere è il più debole. L’invenzione bizzarra è stata fatta, oltre che per la carenza di personale, al solo scopo di dimostrare che i metri quadrati a disposizione del detenuto vanno calcolati tenendo conto in aggiunta delle superfici costituite dai corridoi. Formalmente questa ingannevole soluzione lascerebbe i detenuti liberi di circolare in ambienti più vasti e “ricreativi”, impegnandoli così in occupazioni di vario genere e alla ristrutturazione comportamentale. Peccato che nella maggioranza delle carceri italiane lo spazio destinato alla libera circolazione fuori dalla cella altro non è che un corridoio, una corsia, un lungo passaggio con il quale dovrebbe essere recuperata - sulla carta - la dimensione ottimale e compensativa per detenuto a fronte dei 3 mq minimi previsti per cella. Insomma la giornata in carcere dovrebbe essere trascorso dai detenuti percorrendo più volte nelle due direzioni la lunghezza del corridoio: il cosiddetto spazio “vivibile” finalmente recuperato dall’apertura delle porte delle camere. Siamo certi che in realtà, il recupero del corridoio non può definirsi da un punto di vista spaziale e funzionale come un posto compensativo ai fini della vivibilità in condizioni di non alienazione. Il camminare su e giù, per ore e per anni, all’interno di una corsia, quasi sempre solo con luce artificiale, strusciandosi lungo le pareti è da considerare a tutti gli effetti una condizione avvilente per l’individuo ristretto in carcere, dove nulla c’è e ci sarà per il suo recupero. Le più recenti tendenze per il recupero dei detenuti oggi sono più orientate verso un uso proattivo dell’esperienza carceraria, lunga o breve che sia. Sono concepite non solo come momento correzionale duro, punitivo e restrittivo da subire esclusivamente come strumento di limitazione dello spazio e del tempo come esperienza della pena, ma soprattutto pensate invece come “momento-occasione” di ristrutturazione del comportamento deviato. Una legislazione più aggiornata, dovrebbe prevedere tutto questo mediante congrue misure deflattive circa l’affollamento degli istituti utilizzando appropriati criteri di depenalizzazione dei reati minori, immaginando forme alternative di remunerazione sociale. Carceri o penitenziari, istituti correzionali specializzati, case lavoro, centri di recupero comportamentale, soprattutto per i giovani, sono vari modi per definire quelle strutture di servizio che dovrebbero essere destinate alla gestione (quasi) totale della vita delle persone condannate, a tutto vantaggio della società libera per evitare la recidiva e la radicalizzazione. Così come ho ampiamente documentato nel mio recente libro “Non solo carcere” (Mursia) la detenzione dovrebbe tendere, in una effettiva visione correzionale e riabilitativa, verso un trattamento individualizzato fino al più alto livello, anche nei confronti della massima sicurezza. L’approccio, fatto di progressive gratificazioni/restrizioni capaci di “negoziare”, caso per caso la ricompensa, dovrebbe fondarsi su metodologie sistemiche di riscontri effettivi concernenti la verifica puntuale del comportamento del detenuto. Il criterio dovrebbe orientarsi verso la preparazione al futuro-stato-di-libertà, al reinserimento del detenuto, prevenendo, nell’interesse del corpo sociale, il grave fenomeno della recidiva. Rimandiamo tutto questo alla prossima Italia. *Centro Europeo Studi Penitenziari Minori autori di reato, la prigione diventa l’ultima ratio di Sofia Antonelli* Il Riformista, 14 febbraio 2022 È sempre più esiguo il ricorso alla detenzione in carcere per minori autori di reato. Al 15 gennaio 2022 erano 316 (di cui 140 stranieri e 8 ragazze) i minori e i giovani adulti detenuti nelle carceri minorili italiane, a fronte di 13.611 ragazzi complessivamente in carico ai Servizi della Giustizia Minorile. Le presenze negli Istituti Penali per Minorenni (IPM) hanno raggiunto oggi il dato più basso mai registrato dal 2007. È questo uno dei principali dati che emergono da “Keep it trill” - VI rapporto sulla Giustizia Minorile in Italia, che Antigone ha presentato ieri a Roma. Con cadenza biennale, l’associazione racconta (sul sito www.ragazzidentro.it) lo stato della giustizia penale minorile in Italia, tramite schede, video e approfondimenti tematici, realizzati grazie alle informazioni e le immagini raccolte dal suo osservatorio che, con costanza, visita annualmente i 17 istituti presenti in Italia. Il calo nell’utilizzo della detenzione è dovuto anche agli effetti della pandemia, ma certamente asseconda una tendenza che si registra da tempo, con presenze ormai stabilizzate poco sopra le 300 unità. Al contrario di quanto accade per gli adulti, la detenzione intramuraria è quindi per i ragazzi davvero l’ultima ratio. Ancor più ultima per i ragazzi infrasedicenni che rappresentano circa il 6% del totale. In generale, le presenze in Ipm vedono una netta maggioranza di ragazzi che hanno commesso il reato da minorenni ma che hanno attualmente raggiunto la maggiore età. Più del 60% ha infatti tra i 18 e i 24 anni, età massima per restare in Ipm. I dati mostrano dunque la residualità di minori detenuti, al punto da domandarsi se non sia giunto il tempo di un definitivo superamento del ricorso al carcere almeno per i minori di 16 anni, se non per i minorenni in generale. La permanenza in Ipm, non solo è rara ma è anche generalmente breve. Nella maggior parte dei casi si tratta di una tappa all’interno di percorsi più lunghi, che si svolgono soprattutto altrove, nelle comunità e sul territorio. Le comunità che fanno parte di questo sistema sono in totale 637. Di queste solo tre sono gestite direttamente dal Ministero della Giustizia, mentre le restanti sono strutture private da esso accreditate all’accoglienza. Al 15 gennaio 2022, erano 923 i ragazzi sottoposti a misure penali ospitati da comunità. Proprio l’organizzazione dell’attuale sistema penitenziario minorile ha portato l’associazione ad avanzare due proposte. Da una parte un regolamento ad hoc che risponda alle esigenze specifiche della vita dei ragazzi presenti negli Ipm, tenendo conto della loro specificità. Dall’altro di un codice penale per i minori. Come ha ricordato anche il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, c’è bisogno di una diversa elencazione di reati e un ben più vario pluralismo sanzionatorio. “Il furto di un ragazzino in un supermercato - ha sottolineato - non può essere paragonato a quello in appartamento di una persona adulta. Il primo potrebbe essere depenalizzato, trattato civilmente, o affidandosi alla giustizia riparativa. Ben potrebbe essere trattato fuori dal diritto penale”. Per ampliare il racconto sulle carceri minorili, Antigone quest’anno ha realizzato una serie di quattro video da cui il rapporto prende il nome. “Keep it trill. Storie di ragazzi nelle carceri minorili” vede come protagonista il rapper Kento, che da oltre dieci anni tiene laboratori di scrittura rap e poesia all’interno degli Ipm e delle comunità. La serie è un viaggio nelle carceri minorili italiane, attraverso le storie dei ragazzi e delle ragazze che vi si incontrano. “Trill” è una parola dello slang hip hop che, unendo i termini true e real, indica qualcosa di autentico e genuino. “Trill” sono le storie dei ragazzi che finiscono nel circuito penale, con le loro difficoltà, fragilità, possibilità. “Trill” è il ruolo che la giustizia minorile dovrebbe sempre avere: quello di proteggere i sogni più autentici dei ragazzi senza mai cedere a percorsi stereotipati, promuovendo per loro ogni opportunità futura e mantenendo genuine le loro vite. *Antigone Giustizia, non solo riforma del Csm: dalle carriere alla Severino c’è l’incognita referendum di Liliana Milella La Repubblica, 14 febbraio 2022 Da domani la pronuncia della Consulta sull’ammissibilità agli otto quesiti. Tra questi, la responsabilità diretta dei giudici. Le coincidenze possono essere assai malandrine. Stavolta, tra referendum radical-leghisti sulla giustizia e legge di riforma del Csm, il diavolo ci ha proprio messo la coda. E basta un’occhiata al calendario per averne conferma. Tra domani e mercoledì i 15 giudici della Consulta affronteranno il dossier sui referendum presentati a doppia firma dalla Lega e dai Radicali. Decideranno se sono ammissibili. Dozzine di volte Matteo Salvini e Giulia Bongiorno hanno ripetuto che il voto degli italiani può cambiare il destino della politica della giustizia. E allora cosa può accadere alla legge sul Csm se la Corte licenzia tutti, o la maggior parte, dei sei referendum? Inevitabile un impatto mediatico con conseguenze politiche, perché in vista del voto - aprile o i primi di maggio - si scatenerà un’imponente propaganda radical-leghista. Proprio mentre la Camera discute la legge sul Csm (in aula a fine marzo). Dei sei referendum ce ne sono due che possono influire. Il quesito sulla separazione delle carriere e quello sulla responsabilità civile dei giudici. Il primo ha un effetto specifico sul testo. Il secondo ne ha uno politico. Perché se, com’è accaduto nel 1987, gli italiani votano in massa sì alla responsabilità diretta delle toghe, questo suona come l’espressa richiesta di una legge molto severa contro i giudici. Quanto alle carriere, nella legge di Cartabia è scritto che una toga non può cambiare casacca più di due volte. Il referendum darebbe grande fiato al centrodestra per ridurre il passaggio a una sola volta. E la saldatura tra Lega, Fi, Azione a FdI, che già emerge con chiarezza sul sorteggio come legge elettorale, trarrebbe grande fiato dalla campagna sui referendum. Separazione delle funzioni - Un giurista come Nello Rossi lo ha definito “il quesito più complicato e astruso”. Sicuramente è quello più lungo, oltre due pagine, praticamente illeggibile per un cittadino comune per via dei riferimenti ai singoli commi di ben cinque diverse leggi. Più che di separazione delle carriere dei magistrati sarebbe corretto parlare di una separazione delle funzioni, quella di giudice e quella di pubblico ministero. L’obiettivo del quesito è cancellare del tutto la possibilità di passare da una funzione all’altra nel corso di una carriera. Oggi questo è possibile per quattro volte, ma già con la riforma Cartabia i passaggi diventano solamente due. E il centrodestra chiede di ridurli a uno soltanto. Ridurli del tutto è impossibile perché la Costituzione parla di un solo ordine. Responsabilità civile diretta per i giudici - Nel 1987, dopo il caso Tortora, i Radicali di Pannella, Partito socialista e Partito liberale vinsero il referendum sulla responsabilità civile delle toghe, che passò addirittura con l’80,21% di sì. Ma la legge dell’anno dopo, firmata dal Guardasigilli Giuliano Vassalli, fu subito contestata dai Radicali perché non prevedeva una responsabilità “diretta” dei giudici, ma frapponeva lo scudo dello Stato, il quale poi si rivaleva economicamente sul magistrato. La legge del 2015 del ministro della Giustizia Andrea Orlando conferma il “filtro” dello Stato. Ed è proprio questo “filtro” che il nuovo referendum vuole eliminare, riproponendo la responsabilità diretta del magistrato che deve pagare di tasca sua l’eventuale condanna per l’errore giudiziario commesso. Abolire la legge Severino - Con un tratto di penna, Lega e Radicali vogliono cancellare buona parte della legge Severino, in realtà un decreto legislativo operativo dal 31 dicembre 2012. Sotto il governo Monti, nella legge anticorruzione firmata dalla Guardasigilli Paola Severino, fu approvato il decreto sull’incandidabilità e decadenza per chi ha una condanna che supera i due anni. La regola vale per candidature al Parlamento italiano ed europeo e per i ruoli di governo. Nonché, ma solo per un range di reati, per gli amministratori locali che però vengono sospesi dalla carica anche dopo la sentenza di primo grado, norma da sempre contestata. La Consulta, in due sentenze firmate dall’attuale vicepresidente Daria de Pretis, ha confermato la piena costituzionalità della legge. Stop alla custodia cautelare - In controtendenza con la linea leghista del “tutti in galera”, sulla custodia cautelare prevale invece l’imprinting garantista dei Radicali. Tant’è che il quesito interviene sui presupposti della carcerazione preventiva, stabiliti dall’articolo 274 del Codice di procedura penale. L’articolo fissa tre paletti che consentono al pm, dopo la conferma del gip, di tenere in carcere il presunto autore di un reato. Innanzitutto il pericolo di fuga dell’arrestato, la possibilità che possa inquinare le prove e che possa reiterare il reato. Dei tre presupposti, se il referendum dovesse passare, resterebbe solamente il pericolo di fuga. La custodia cautelare non potrà essere confermata per i reati puniti nel massimo con 5 anni e neppure per il finanziamento pubblico dei partiti. Le pagelle ai magistrati - Se viene approvata la legge sul Csm appena proposta dalla Guardasigilli Cartabia, il quesito sul diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari diventa di fatto inutile. Proprio perché gli avvocati avranno la possibilità di esprimersi anche sulle “pagelle” dei giudici. Il Consiglio giudiziario, in ogni Corte di Appello, elabora i giudizi sulla carriera di una toga. Giunte al Csm, le pagelle diventano la base per una promozione o per una bocciatura. La principale critica è che i profili sono troppo “buonisti”. E soprattutto gli avvocati, pur presenti, non possono votare. A legge sul Csm approvata potranno farlo, non a titolo personale ma dopo un deliberato del Consiglio dell’ordine degli avvocati, spersonalizzando il voto che, se individuale, potrebbe risentire di un caso che li ha visti contrapposti al pm o al giudice. Basta firme per candidarsi al Csm - Come strumento per sbaragliare le correnti della magistratura, ecco il quesito che chiede di cancellare l’obbligo - previsto da una legge del 1958 - per chi decide di candidarsi al Csm, di essere sostenuto da un elenco di “presentatori”, che possono andare da un minimo di 25 a un massimo di 50. Convalidati appunto da altrettante firme. Ma proprio il numero dei sostenitori, chiaramente assai limitato in vista di un’elezione rispetto a un corpo elettorale che ormai si avvicina alle 10mila toghe, dimostra che non si annida sicuramente qui il peso “oscuro” delle correnti. Ma semmai in un’attività dietro le quinte. Se l’obiettivo è quello di favorire candidature del tutto libere, certo non potranno essere così poche firme a cambiare il destino di un candidato. La riforma della giustizia e il dovere del Parlamento di Luciano Violante La Repubblica, 14 febbraio 2022 Alla fine di marzo l’Aula di Montecitorio dovrebbe cominciare l’esame della riforma dell’ordinamento giudiziario. I partiti intendono discuterla e hanno guadagnato l’impegno del governo a non apporre la fiducia. Su temi così rilevanti, che attengono allo statuto di un potere dello Stato, è giusto che ciascuna forza politica presenti al dibattito la propria visione dei problemi e le proprie soluzioni. Un potere dello Stato, il Parlamento, interverrà sullo statuto di un altro potere dello Stato, la magistratura. Quando discute e approva leggi, il Parlamento esercita la propria sovranità. I vincoli della sovranità sono particolarmente stringenti quando vengono prodotte regole che riguardano un altro potere dello Stato. In questi casi bisogna essere all’altezza del compito nei confronti della storia costituzionale e della opinione pubblica. L’obbiettivo è il recupero di credibilità della magistratura attraverso la ricostruzione di un nuovo equilibrio tra indipendenza e responsabilità. È in gioco anche la credibilità del Parlamento. Se su una materia di questa delicatezza le Camere legiferassero in modo scomposto, sarebbe inevitabile la perdita di fiducia. Se legiferassero male, tra litigi e senza dar prova di essere consapevoli dei valori in gioco, se apparisse che intendono celebrare vendette o consacrare umiliazioni, la politica subirebbe un’altra sconfitta perché si sarebbe dimostrata inadeguata al compito. I temi sono certamente difficili; ma proprio sui temi difficili la politica è chiamata a dar prova di essere consapevole dei propri doveri. La questione più delicata riguarda il sistema elettorale del Csm. L’obbiettivo comune a tutti è la eliminazione del peso improprio delle correnti, per garantire la indipendenza del singolo magistrato da centri di potere interni al Csm. Occorre chiarire una questione chiave. Al Csm la Costituzione non attribuisce alcuna funzione di governo della magistratura-istituzione; affida invece, e nel rispetto delle norme dell’ordinamento giudiziario, tutte le decisioni che riguardano la vita professionale dei singoli magistrati. E solo queste. Pertanto non si deve eleggere una maggioranza, ma una rappresentanza, il più vasta possibile, delle opinioni interne alla magistratura, che si intreccerà con la rappresentanza delle opinioni sulla giustizia presenti nella società e nel mondo politico, espressa dai componenti eletti dal Parlamento. Il documento presentato da Forza Italia in Consiglio dei ministri propone, per limitare il peso anomalo delle correnti, e garantire quindi la indipendenza interna, che i magistrati votino solo candidati estratti a sorte. L’intento è condivisibile, ma la proposta non sembra conseguire lo scopo. Il condizionamento anomalo delle correnti si esercita soprattutto al momento del voto degli elettori e nel quotidiano esercizio delle funzioni del Csm. Una volta che i candidati siano estratti a sorte, è prevedibile che scattino intese, nelle correnti e tra le correnti, per scegliere quelli da favorire. E gli eletti non potranno che essere grati a chi li ha portati a Palazzo dei Marescialli. La proposta, inoltre, appare incostituzionale. La Costituzione parla espressamente di elezione, che é scelta individuale e razionale, tanto da parte dell’elettore quanto da parte del candidato. Il sorteggio si fonda invece sulla casualità. Si obietta che il sorteggio é già previsto nel nostro ordinamento; é vero, ma mai come modalità della elezione; sempre come alternativo alla elezione. Poiché è da tutti condiviso l’obbiettivo della indipendenza del singolo magistrato da eventuali gruppi interni al Csm, occorre individuare la soluzione più coerente. Il governo propone un maggioritario con forte correzione proporzionale. A me sembra opportuna una legge elettorale interamente proporzionale perché il peso dei gruppi di potere si riduce frantumando la rappresentanza, non aggregandola. Altri potranno individuare altre soluzioni. L’importante è che sia chiaro il fine e che si sia all’altezza dell’impegno. Com’è difficile riformare la giustizia di Luigi Labruna La Repubblica, 14 febbraio 2022 Ce n’è voluto. Ma alla fine l’esplicito messaggio del presidente Mattarella al Parlamento sulla crisi della giustizia, più volte anche da noi richiesto, è arrivato. Rinvigorito dall’inserimento con toni drammatici nel messaggio letto dopo il giuramento alla Camere riunite. Alle quali, a proposito di giustizia, ha parlato di “terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività”, aggiungendo: “È indispensabile che le riforme annunciate giungano con immediatezza a compimento”. Speriamo che stavolta le sue parole ottengano un ascolto maggiore delle vane esternazioni esortative effettuate negli ultimi settennati da lui e dai suoi predecessori. E che parlamento, governo e magistrati imbocchino finalmente, bon gré mal gré, la via da lui indicata per “corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità della giustizia, come richiesto dai cittadini”. E che il Csm - del quale è il presidente (funzione che spero eserciti in avvenire il più possibile di persona) - inizi davvero a operare “superando logiche di appartenenza che devono restare estranee all’Ordine giudiziario”, e che la magistratura riesca a far sì “che venga recuperato un profondo rigore”. I cittadini, infatti - ha sottolineato il Capo dello Stato - “devono poter nutrire convinta fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario”. E non debbono “avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili”. Le speranze, però, che ciò accada sono poche. In aula i flagellati hanno annuito, condiviso, acclamato. Venerdì Draghi e Cartabia hanno fatto passare in Cdm, all’unanimità, una bozza di riforma, comunicando però al Paese che “permangono differenze di vedute”. Tra i ministri (“non dobbiamo eccedere; va ammorbidita”, traballa Orlando) e nei partiti. “Presenteremo emendamenti - dice il Pd - è troppo penalizzante”. E Forza Italia: “Saremo leali, ma avremo mani libere”. Zanda aveva avvisato: “C’è forte il rischio che il Parlamento non tenga in adeguato conto le indicazioni di Mattarella”. Anche perché magistrati e vertici Anm dicono di interpretare la reprimenda presidenziale “non come un richiamo ai giudici” ma un invito “a tutti” a “tener alta l’attenzione sulla centralità e delicatezza della funzione giudiziaria”. E definiscono la riforma Cartabia “confusa e inutile”. Incentiverebbe (pensate!) “l’ansia di carriera dei magistrati”. La riforma della Giustizia può essere una svolta storica di Pietro Paganini e Raffaello Morelli formiche.net, 14 febbraio 2022 Non risolve tutto, ma la riforma ha messo in moto il ritorno a meccanismi funzionanti di una democrazia liberale (che per natura procede in modo graduale). Che non intendono punire i magistrati ma colpire mentalità e pratiche giustizialiste che riducono la libertà nelle relazioni tra i cittadini. Il commento di Pietro Paganini e Raffaello Morelli, Competere Può essere una svolta storica. Il Consiglio dei Ministri dell’11 febbraio ha deciso all’unanimità la riforma del sistema elettorale per il Csm e le nuove regole per la carriera dei magistrati entrati nelle liste elettorali oppure titolari di incarichi di governo nei ministeri, nelle regioni e negli organismi pubblici. Questa decisione si traduce ora in un emendamento alla legge sulla giustizia in corso di discussione in parlamento e dunque sarà quest’ultimo a decidere quando e in che termini diverrà davvero operativa. Tuttavia va detto subito che quella del Consiglio dei Ministri è una svolta storica che fa riemergere nel settore della giustizia la politica di governare nell’interesse dei cittadini, dopo che per un trentennio hanno dominato le pulsioni giustizialiste, o per mentalità illiberale o per miopi convenienze comunicative attraverso i mezzi di comunicazione. Stando ai testi varati ad oggi, il nuovo sistema elettorale del Csm (a partire dal rinnovo nel prossimo luglio) strappa l’organismo al correntismo strutturato secondo gruppi di potere ideologico; e la carriera dei magistrati non potrà più spostarsi a piacimento avanti ed indietro tra la funzione giurisdizionale e l’attività politica e di governo, né candidarsi dove nei tre anni precedenti erano state esercitate le funzioni, né essere insieme titolare di giurisdizione e titolare di incarichi elettivi o governativi. Ambedue le innovazioni sono cambiamenti che riportano il Csm e la magistratura alle funzioni originarie di tutela del cittadino. Al di là delle limature tecniche che potranno essere poi fatte, in questa decisione del CdM sono in ballo due principi democratici importanti. Sulla questione del Csm, si punta ad evitare il più possibile il correntismo. Che non è un fatto tecnico, bensì il ripristino del ruolo di vigilanza sul funzionamento dell’ordine autonomo della magistratura. Che, in quanto definito odine autonomo dalla Costituzione, non può essere un centro di elaborazione politica, quasi una quarta camera sempre fremente per intervenire sul formarsi delle leggi, perfino in parlamento. Sulla questione della carriera dei magistrati, introdurre il divieto dell’andare e venire a piacimento tra giurisdizione e politica è davvero una rivoluzione rispetto alla pratica invalsa da un trentennio del debordante potere assegnato all’ambiente dei magistrati nell’assumere decisioni di natura politica (al punto che, per avere supporto giuridico nell’attività di governo, la prassi è il ricorso ad ottenere un magistrato nel proprio gabinetto, quasi che nel campo del diritto non esistessero altre professionalità altrettanto e più istruite). Un clima di sudditanza di cui tutti sono stati responsabili. I magistrati che lo attivano, i politici che lo praticano ossequiosi, i mezzi comunicazione che lo cavalcano esaltati e i cittadini che sopportano ogni violenza alla Costituzione. Il liberale Aldo Bozzi ammoniva già oltre cinquant’anni fa che “un Magistrato non solo deve essere imparziale, ma deve essere considerato tale”. Il magistrato che partecipa alle elezioni, che esercita funzioni di governo, che svolge incarichi societari, assume una connotazione che lo marchia e che gli impedisce il venir considerato imparziale. In più, le due prassi rimosse dall’attuale delibera del CdM, si sostenevano a vicenda, originando e rafforzando i privilegi di una vera e propria casta di potere (ad esempio le nomine del Csm fatte a pacchetto per facilitare la spartizione), che non era estesa a tutti i magistrati in servizio ma che restava determinante nel darne un’immagine distorta presso i cittadini (i quali, seppure in ritardo, non hanno più la fiducia nella magistratura che sarebbe opportuna) e nel tessere reti di sostegno ai magistrati in vari ambienti a cominciare dai mezzi di comunicazione (non a caso la decisione del Csm ha indotto alcune testate di punta a sminuirne il rilievo tentando di suscitare polemiche strumentali inesistenti). Dunque aver rimosso quelle prassi è un punto di partenza costruttivo. Avendo avuto la tenace determinazione per decidere - riprendendo in sostanza l’impianto del Ministro Guardasigilli precedente - il Governo ha completato, dopo le riforme del Processo Penale e del Processo Civile, la fase urgente degli interventi nel settore Giustizia. Non è tutto né sono definitivi gli assetti (esistono già diverse questioni su cui continueranno le battaglie, quali la separazione delle carriere), ma intanto si è messo in moto il ritorno a meccanismi funzionanti di una democrazia liberale (che per natura procede in modo graduale). Meccanismi che non intendono punire le toghe - come invece sostiene l’Associazione Magistrati - ma sono concepiti per non tollerare mentalità e pratiche giustizialiste che riducono se non affossano la libertà nelle relazioni tra i cittadini (meccanismi all’opposto del solito Renzi che neppure capisce la estraneità alla democrazia liberale del sostituire il processo con il fare una querela penale a un Pm perché ha chiesto di rinviarlo a giudizio, anche se sbagliasse). L’auspicio è che anche le Camere - visto che il Governo non porrà la questione di fiducia - abbiano la medesima determinazione del Governo e che, dopo aver applaudito frenetiche il discorso di Mattarella, ne applichino le indicazioni in tema di giustizia. Presto e bene. Quali riforme per una giustizia migliore. Parlano Spataro e Bruti Liberati di Annalisa Chirico Il Foglio, 14 febbraio 2022 No alla demagogia, sì al compromesso sulle “porte girevoli” (purché non sia solo uno slogan). Rinforzare gli organici, rispettare il garantismo della Costituzione, dicono i due decani della magistratura italiana. Prima che un target per ottenere i fondi del Pnrr, in Italia la riforma della giustizia - ampia, incisiva, efficace - è una “questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Parole, quelle virgolettate, che il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano ebbe a pronunciare in un memorabile discorso del 2011. E nell’allocuzione davanti ai grandi elettori, in occasione del secondo insediamento, il capo dello stato Sergio Mattarella ha invocato “profonde riforme” del settore. Su questo e non solo abbiamo interpellato due decani della magistratura italiana. Per l’ex procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro, oltre quarant’anni con la toga indosso e adesso docente all’Università Statale di Milano, “è importante che qualsiasi riforma resti immune dal populismo, troppo spesso diffuso in materia giudiziaria. Da decenni assistiamo alle iniziative di governi che, non appena si insediano, indipendentemente dal colore politico, indicano nei rispettivi programmi la riforma della giustizia come necessaria e urgente. Nel caso dell’attuale governo, credo che nessuno possa nutrire dubbi sulle qualità del presidente del Consiglio Mario Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia. Si sono già attuati diversi passaggi importanti, ho apprezzato, per esempio, la riforma del processo penale così come il provvedimento sulla presunzione di innocenza”. Qualche nota stonata tra i provvedimenti approvati? “In molti si sono concentrati sulla questione della improcedibilità e della prescrizione, spesso trascurando le numerose misure varate per velocizzare i processi, ma io non ho condiviso l’attribuzione della scelta delle priorità al Parlamento, sia pure secondo criteri generali. Il Csm ha già emesso, negli anni, numerose circolari e direttive sulle priorità al fine di restringere il campo di discrezionalità di procure e presidenti di tribunali, sicché la nuova previsione rischia di alterare il principio della separazione dei poteri. Il Parlamento può prevedere che la scelta delle priorità sia obbligatoria e indicarne le procedure ma la loro selezione compete a procuratori e presidenti di organi giudicanti, non alla maggioranza politica di turno. Ritengo invece inutile la misura secondo la quale, nel richiedere il rinvio a giudizio, il pm, e, nel disporlo, il giudice, debbano prevedere, sulla base degli elementi acquisiti, la ragionevole ipotesi di condanna. In realtà, a me pare più una norma a contenuto lessicale: già adesso il pm deve chiedere il rinvio a giudizio in presenza di elementi di responsabilità sufficienti a sostenere l’accusa in giudizio, insomma deve essere convinto che possa arrivare a condanna”. Secondo i dati forniti dal primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, quasi i due terzi dei fascicoli usciti dalle procure non vanno a giudizio e le condanne per i reati minori (assai diffusi) sono meno del 37 percento. “Sarà vero ma ciò non mi pare rilevante. Non è con un lessico diverso che avremo più condanne a fronte di rinvii a giudizio, pur se occorre certo professionalità e attenzione nel valutare gli elementi di cui si dispone”. Il governo, con il premier Draghi, intende porre fine alle cosiddette “porte girevoli”. Il Cdm ha approvato gli emendamenti al ddl in discussione in Parlamento: si vieta il ritorno alla giurisdizione per un magistrato eletto (l’approdo sarà fuori ruolo presso il ministero di via Arenula o altre amministrazioni), prevedendo invece un limbo di tre anni per colui che si sia candidato senza essere eletto. La soluzione la convince? “Qualcuno ha persino affermato che si dovrebbe vietare ai magistrati di candidarsi, ma questo non si può perché il diritto di elettorato passivo spetta a tutti i cittadini. Si pone, in effetti, un problema non solo di immagine quando il magistrato, terminato il mandato, rientra alla funzione. Secondo l’articolo 51 della Costituzione, chi è eletto a funzioni pubbliche elettive ha diritto di conservare il suo posto di lavoro. Tuttavia, la soluzione individuata sembra compatibile con la Costituzione poiché il magistrato, esaurita la funzione politica, non cesserebbe di essere tale ma verrebbe adibito a compiti diversi come quelli fuori ruolo. Non potrebbe svolgere insomma funzioni requirenti o giudicanti. È un compromesso accettabile perché non si perderebbe il posto di lavoro e si eviterebbe un danno di immagine per l’intera categoria. Faccio notare però che tale problema non riguarda soltanto i magistrati: è normale che prefetti e questori tornino a svolgere i loro compiti dopo la carica politica? Nel passato non lontano alcuni avvocati, diventati poi parlamentari, si sono battuti per l’approvazione di leggi che sarebbero state utili ai loro assistiti in processi in corso ed altri esempi si potrebbero fare”. Lei proporrebbe di impedire agli avvocati eletti in Parlamento di svolgere la loro professione? “Non mi spingerei a tanto, dico però che il problema non riguarda solo i togati”. Nelle elezioni per il Quirinale, tra un ex magistrato potenziale eletto - Carlo Nordio - e le critiche del M5s al ministro Cartabia per eccesso di garantismo, la giustizia è tornata a farla da padrone. Un tasto dolente? “Sulla candidatura dell’ex magistrato Nordio ho chiarito subito che non avrei proferito una sola parola, e continuo ad astenermi. La giustizia è sempre al centro del dibattito ma non direi che sia stata un tasto dolente nel confronto per il Quirinale. Non credo che abbia influenzato le decisioni che hanno portato alla auspicata rielezione di Sergio Mattarella”. Il capo dello stato, nel suo primo discorso alle Camere, si è soffermato sulla riforma della giustizia, ne ha evidenziato l’urgenza. “La chiediamo tutti, anche noi magistrati, il punto è come attuarla. Il presidente non ha indicato linee guida, non è sceso in dettaglio, non ha parlato per esempio dell’ipotesi scandalosa dell’elezione del Csm per sorteggio, comunque paludato. Io reputo urgente rinforzare gli organici amministrativi ed investire nelle risorse. Le parole del capo dello stato le ho interpretate come un invito ad affrontare la questione delle riforme con spirito costruttivo”. Tornando al garantismo, un ex premier, Giuseppe Conte, fece discutere quando, in Parlamento, precisò di non essere “né garantista né giustizialista”. Le chiedo, dottor Spataro: la Costituzione è “terza” rispetto a questi due poli? “La Costituzione è garantista, punto. Il giustizialismo è un termine connotato negativamente, è l’atteggiamento di chi vorrebbe condanne a tutti i costi, sempre e comunque. È sbagliato contrapporvi il garantismo che è insito nella Costituzione, non solo nell’articolo 111, e in tutti gli ordinamenti democratici. Essere garantisti significa assicurare l’esercizio dei propri diritti a tutti gli imputati, dal peggior mafioso al ladro di biciclette. La Costituzione non è sbilanciata ma è fondata sul garantismo. Il giustizialismo non ha e non deve avere accesso alla Costituzione”. Intanto il M5s deve fare i conti con una sentenza che sospende il ruolo di Conte. Siamo all’invasione di campo della magistratura o c’è qualcosa di patologico nel fatto che si ricorra sistematicamente al giudice per risolvere conflitti interni ai partiti? “Non entro nel merito della vicenda anche perché riguarda il campo della giustizia civile, di cui non ho esperienza. Come dicevo, la Costituzione è fondata sulla tutela di garanzie e diritti, se un cittadino si ritiene leso nei suoi diritti ha la facoltà di adire le vie legali. Tocca poi ai giudici, nei tre gradi di giudizio, valutare la fondatezza di tali rimostranze. Tuttavia, quando ci si lamenta del potere esondante dei magistrati e delle loro presunte invasioni di campo, bisognerebbe porsi il seguente interrogativo: è la magistratura che si allarga o è alla magistratura che si ricorre troppo, persino per risolvere diatribe politiche?”. Voterà ai referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali? “Attendo intanto di conoscere il vaglio di ammissibilità perché alcuni quesiti, come quello sulla separazione delle carriere, non mi paiono compatibili con la Costituzione. Sul punto sono certo che voterò contro”. Intende contro l’ipotesi di separare le carriere di magistrati inquirenti e giudicanti... “Esatto. Sono stato tra i primi in Italia, anche in occasione di convegni delle Camere penali molti anni or sono, ad ammonire contro giudizi improvvisati e affrettati. Invitavo tutti a considerare i limiti stringenti, già definiti ex lege, che disciplinano il cambio di funzione. Per esempio, oggi puoi passare dalla funzione requirente a quella giudicante solo se cambi regione, oltre che in presenza di altre condizioni. Dai dati aggiornati, che visiono ogni due anni, emerge chiaramente che i cambi di funzione riguardano un numero irrisorio di casi. E inoltre le risoluzioni europee sono unanimi nella valutazione positiva del sistema italiano, eretto addirittura a modello perché consente, a determinate condizioni, a pm e giudice di cambiare ruolo sviluppando così quella che si chiama ‘cultura giurisdizionalè. Pensare che ciò faciliti l’accoglimento delle richieste del pm da parte del giudice è una sciocchezza assoluta, lo dimostrano del resto le numerose assoluzioni che intervengono a fronte di rinvii a giudizio. Insomma, è un non-problema, spesso strumentalmente messo in campo, addirittura con previsioni di separazione dei Csm, uno per giudici e l’altro per pm”. A proposito di Csm, l’attuale in scadenza a luglio, il governo Draghi ha approvato anche emendamenti al ddl in discussione in Parlamento relativi alla scelta dei componenti elettivi che tornano a essere trenta: venti togati scelti dai magistrati e dieci dal Parlamento, com’era fino alla riforma del 2002. Il sistema di voto diventa misto: quattordici saranno scelti con il maggioritario basato su collegi binominali, il quindicesimo sarà il terzo più votato da individuare attraverso un calcolo ponderato, i rimanenti cinque saranno scelti tra i giudici con un sistema proporzionale su base nazionale. “Anzitutto, il mio plauso va al ministro Cartabia che si è sempre detta contraria alla vergognosa ipotesi di sorteggio. Nella mia carriera ho fatto anche parte del Csm e ho osservato, anche da quella postazione, il proliferare di tentativi di riforma, tutti originati dal desiderio di sconfiggere il correntismo. Il correntismo in sé è una tendenza che può essere degenerativa, certo, ma non si può eliminare la necessità per chi vota di riconoscersi nel programma di un candidato. Io sono sempre stato per un sistema proporzionale, basato su più collegi territoriali, non un unico nazionale. Quanto alla proposta in questione, vorrei comprenderne bene i contorni. Resto in ogni caso contrario all’istituzione di una pluralità di collegi pari al numero dei candidati da eleggere. Dalla mia esperienza so che si rischierebbe di favorire ancor di più il peso delle correnti o dei potentati locali. Meglio un proporzionale temperato”. Anche in questo meccanismo di voto uno contro l’altro, appare complicato inserire la parità di genere in una professione dove le donne, oggigiorno, sono maggioranza. Come se ne esce? “Ho sempre ritenuto importante coinvolgere di più le donne magistrato nei ruoli di rappresentanza istituzionale e associativa. Il tema è delicato ma non sarei contrario alla previsione di quote ad hoc per garantire parità di genere o significativa presenza di donne in seno al Csm. Dovrebbe essere così anche per i membri laici”. Che mi dice dell’inclusione di avvocati e professori universitari con diritto di voto nei consigli giudiziari? “Il loro coinvolgimento attivo è positivo. Se i membri laici potranno votare anche quando si decidono i pareri sulle progressioni di carriera, sarà un fatto ancor più positivo. Anche in questo caso bisognerebbe pensare a un simmetrico intervento della magistratura, almeno in talune pratiche di competenza dei Consigli forensi a livello distrettuale”. Che cosa pensa della proposta, avanzata dal presidente della Fondazione Leonardo Luciano Violante, che assegna il giudizio disciplinare a un’alta corte esterna al Csm? “La trovo interessante, poiché questo ipotizzato organismo interverrebbe come giudice di appello e su ricorso degli interessati. Alcuni senatori del Pd hanno già presentato un disegno di legge in proposito. Bisognerebbe scendere in dettaglio per capire le modalità di designazione di chi ne farebbe parte. È certo che chi giudica i magistrati ordinari deve aver fatto parte della magistratura stessa o avere esperienza della giustizia ordinaria. Diversamente non si comprenderebbero molti problemi, incluso il fatto che spesso i ritardi nelle decisioni non sono dovuti a colpe dei magistrati ma a carichi incredibili di lavoro e a carenze strutturali di risorse umane e materiali”. Edmondo Bruti Liberati, già procuratore della Repubblica di Milano e presidente dell’Anm, toga storica di Md, non ci sta a sentir parlare vagamente di “porte girevoli”. “L’espressione ‘porte girevoli’, di per sé, è uno slogan. Se consulta l’Enciclopedia Treccani, vedrà che per ‘slògan’, sostantivo maschile, s’intende una ‘breve frase, incisiva e sintetica, per lo più coniata a fini pubblicitari o di propaganda politica, che, per ottenere un effetto immediato ed essere facilmente memorizzabile, si avvale spesso di accorgimenti ritmici, della rima, di assonanze o allitterazioni’”. D’accordo, procuratore, ma così divaghiamo. Io parlo del premier Draghi e della linea dura contro le “porte girevoli” tra politica e giustizia. “Lo slogan ‘porte girevoli’ mette insieme un problema reale, di agevole soluzione, e un (quasi) non problema, di assai difficile soluzione. Trattare nello stesso modo questioni diverse non è mai ragionevole. Il caso di Catello Maresca è solo l’ultimo di una serie di candidature di magistrati in elezioni amministrative nella stessa sede in cui prestano servizio. Un vuoto normativo che la politica non è stata capace di riempire nonostante ripetute sollecitazioni da parte della stessa Associazione nazionale magistrati. Ho viva memoria di una mia audizione come presidente dell’Anm alla commissione Giustizia della Camera nei primi anni Duemila. Per gli incarichi nelle amministrazioni locali, dai comuni alle regioni, se si ammette la candidatura solo in luoghi territorialmente diversi e lontani da quello ove si è stati magistrati e si prevede in caso di elezione (anche come semplice consigliere o nomina come assessore) la collocazione in aspettativa, la questione si chiude nei fatti. Problema reale e soluzione agevole”. E dei magistrati eletti in Parlamento? “Candidature ed elezioni al Parlamento rappresentano un (quasi) non problema di alquanto difficile soluzione. In passate legislature è stata significativa la pattuglia di magistrati in Parlamento, equamente divisi tra centrodestra e centrosinistra, anche con personalità di spicco che hanno dato contributi significativi alla legislazione. I tempi sono cambiati anche a causa del sistema elettorale dei ‘nominati’ dagli apparati di partito. Oggi sono pochissimi i magistrati alla Camera e al Senato. È bene introdurre più precise incompatibilità, come ha fatto il governo prevedendo, per esempio, che i magistrati che scelgono di candidarsi non potranno farlo nelle regioni in cui hanno esercitato la funzione di giudice o di pm negli anni precedenti. Tuttavia meccanismi che rendano di fatto impossibile la candidatura al Parlamento rischiano di urtare con i princìpi costituzionali. È una ben misera concezione della politica e del Parlamento come macchie indelebili di faziosità. Magistrati nei parlamenti nazionali vi sono in tutte le democrazie europee ed altrettanto nel Parlamento europeo. Si introducano incompatibilità e limiti più stringenti ma la questione, non dimentichiamolo, è nelle mani della politica. Si ritiene inopportuna (ed è anche la mia opinione) in questa contingenza storica la presenza di magistrati in Parlamento? La soluzione è semplice: i partiti non li candidino!”. Lei ha ragione ma la politica sembra vittima e carnefice nel rapporto con lo strapotere giudiziario. Nel suo discorso alle Camere il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a proposito del Csm in scadenza a luglio, ha definito “inimmaginabile” che si possa far tornare al voto i magistrati con le regole vigenti. “La riforma del sistema elettorale del Csm è necessaria perché la legge in vigore, introdotta a suo tempo dal Parlamento nel proposito di eliminare l’influenza delle correnti dei magistrati, ha prodotto esattamente il risultato opposto. Ancora una volta sacrificare sull’altare di uno slogan, in questo caso ‘eliminare l’influenza delle correnti’ impedisce la riflessione razionale. Si arriva all’assurdo della proposta di sorteggio che, anche nella versione cosiddetta ‘temperata’, non è affatto temperato perché cozza non solo con lo spirito, ma già con la univoca dizione dell’articolo 104 della Costituzione: i componenti del Csm ‘sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categoriè. Bando ai facili slogan e alla demagogia e piuttosto attento studio dei meccanismi dei sistemi elettorali; materia tecnicamente complessa sempre e che non può prescindere dal considerare l’ambito di applicazione. Il Csm attuale termina il suo mandato in estate: vi è tutto il tempo perché si elaborino proposte razionali, le si testi con simulazioni e infine il Parlamento decida a ragion veduta. Nel 1990, in poco più di un mese, il Parlamento approvò una legge che in molti allora ritennero imperfetta ma sempre molto meglio della successiva tuttora in vigore. Elezione del consiglio direttivo di una bocciofila, elezione del parlamento nazionale o di un ente locale, elezione dei componenti togati del Csm: non considerare ampiezza del corpo elettorale e funzioni che l’organo elettivo deve svolgere porta sempre a soluzioni maldestre. E altrettanto non considerare che in qualunque situazione un gruppo di persone si trovi a dover eleggere un numero ristretto di persone si creano al momento o entrano in gioco preesistenti aggregazioni, che si adoperano per sostenere i candidati che ritengono più vicini alle loro idee sulla gestione di quell’organo e più adatti a ricoprire il ruolo”. Aggregazioni o correnti? “Aggregazioni, associazioni, gruppi di opinione o ‘correnti’, arrivo alla parolaccia. Dice nulla il concetto di ‘formazione socialè di cui l’articolo 2 della Costituzione: ‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’? I sistemi elettorali devono mirare a lasciare al singolo elettore ampie possibilità di scelta, ma se pretendono di ignorare l’esistenza dei corpi intermedi creano solo guai. A proposito di magistrati. In tutta Europa esistono associazioni di magistrati, di norma più di una come andando da ovest a est in Portogallo, Spagna, Francia, Germania, Polonia etc. La caratteristica italiana è l’esistenza di una Associazione nazionale che nel tempo si è strutturata come una associazione di associazioni, le quali sono mutate negli anni e stanno mutando. Il gruppo di magistrati, che si è posto in polemica con tutti e ha sostenuto il sorteggio, alle ultime elezioni dell’Anm si è puntualmente costituito in ‘corrente’ e ha partecipato alle elezioni del Comitato direttivo centrale dell’Anm. Una modesta proposta: impostiamo i correttori automatici dei nostri sistemi di scrittura con la sostituzione della parola ‘associazione’ a quella di ‘correnti’ dei magistrati”. Proporzionale o maggioritario per il Csm? “I ‘pregi’ che si attribuiscono ai sistemi maggioritari nelle elezioni politiche o amministrative sono esattamente ciò che per il Csm si deve cercare di evitare; occorre quindi essere cauti nel ‘giocare’ con varie combinazioni incentrate sul maggioritario. A sistemi che hanno insiti i rischi del notabilato, delle visioni localistiche e delle pratiche di scambio, si contrappongono i sistemi che, operando per la rappresentanza del pluralismo di posizioni culturali e professionali, hanno in sé gli antidoti per quelle derive. Si tratta di operare per valorizzare quegli antidoti. Il pluralismo culturale e professionale caratterizza la magistratura, come qualunque altro gruppo professionale. Nonostante le degenerazioni questo pluralismo è insieme un valore positivo e una realtà che nessuna alchimia elettorale può eliminare. Il proporzionale per liste concorrenti in collegio unico nazionale in passato ha assicurato che nel Csm fossero rappresentati anche gruppi minoritari (nel 1986 un gruppo da poco costituito ebbe un seggio su venti), e con il meccanismo delle preferenze vi sono state non poche sorprese rispetto ai candidati più in vista o più sostenuti dalle dirigenze. È vero che le dirigenze dei gruppi formano la lista dei candidati secondo le regole interne, ma nessun apparato potrebbe praticare scelte di esclusione in una lista ampia di venti candidati e l’elettore, che possa esprimere un numero limitato di preferenze, ha un’ampia possibilità di scelta”. Ma il meccanismo delle liste concorrenti non rischia di essere eccessivamente rigido? “Tale rigidità può essere attenuata in diversi modi: voto singolo trasferibile, panachage, vecchio sistema del Senato (la cosiddetta proposta Silvestri). Oggi la parola ‘proporzionale’ non sembra più bandita e per di più è l’unico sistema che in collegio unico nazionale o in collegi, comunque, molto ampi può assicurare un equilibrio di genere”. Il governo ha approvato un sistema a prevalenza maggioritario basato su collegi binominali. “I sistemi maggioritari, per definizione, impongono ai gruppi che concorrono alle elezioni l’individuazione di candidature ‘secche’ per evitare dispersione di voti e perdita del seggio. Un sistema di tipo maggioritario uninominale per il Csm nel 1972, facendo finta di ignorare l’esistenza delle correnti dell’Anm, assicurò a quella che ottenne circa il quaranta percento dei voti la totalità dei seggi. Nel collegio binominale le associazioni possono decidere di sostenere più di un candidato con la certezza di dividere i voti e di perdere il seggio ovvero concentrare il sostegno su un solo candidato con chances di eleggerlo. Altrettanto il singolo elettore tenderà al voto utile concentrandolo sul candidato che ha effettive chances di elezione. Se queste logiche saranno indotte dal sistema elettorale non si dica poi che non erano prevedibili. Il correttivo proporzionale per cinque posti di giudice è limitato ma comunque opportuno. Il ‘collegamento’ tra candidati è di fatto la proposizione di liste, anche se nel testo si parla di candidature individuali, ma poi per la assegnazione dei seggi si deve far riferimento ai voti ottenuti dai ‘gruppi di candidati collegati’. Il collegio unico nazionale, contrariamente a una diffusa vulgata, può consentire l’elezione di candidati outsider che sulle loro proposte in tema di organizzazione della giustizia possano raccogliere un consenso diffuso. E poi evita logiche di rappresentanza localistica che nel Csm non devono avere spazio. Quale che sia il nuovo sistema elettorale spetterà agli eletti intendere il riferimento ai gruppi che li hanno sostenuti come condivisione di valori e di proposte e non di logiche di potere”. Ma basterà la riforma del Csm per cambiare il volto della giustizia italiana? “Si dimentica forse che il disegno di legge 2681 in discussione alla Camera è dedicato alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cioè di quelle disposizioni che reggono l’organizzazione della giustizia e il cui fine, nel quadro dei princìpi costituzionali, è quello di assicurare un servizio giustizia più efficiente e che meglio tuteli la garanzia dei diritti. La Commissione Luciani, di cui hanno fatto parte giuristi di enorme rilievo esperti della materia e anche espressioni di diverse tendenze di opinione, ha proposto una serie di correttivi e di aggiunte all’originario disegno di legge caratterizzate da equilibrio e rifiuto di ogni semplificazione demagogica. Si lavori su queste e avremo una giustizia migliore”. Giustizia, Grasso: “Temo il corto circuito tra legge e campagna sui quesiti” di Conchita Sannino La Repubblica, 14 febbraio 2022 Intervista all’ex procuratore nazionale antimafia, oggi senatore di Leu. “Le porte tra politica e giustizia? Sarebbe stato meglio chiuderle prima”. La riforma sul Csm? “Giusta, ma migliorabile. Purché si tenga fuori il risentimento verso le toghe”. Le porte sprangate tra politica e giustizia? “Sarebbe stato meglio chiuderle prima, alcuni di noi lo dicevano da anni”. Palamara? “Ogni volta che mi cita è come se mi desse una medaglia. E comunque la degenerazione del correntismo risale a tanto tempo fa”. Pietro Grasso, senatore di Leu e già presidente di Palazzo Madama, ha abbracciato la politica dopo quasi 45 anni in magistratura, da giudice nel maxi processo a Cosa Nostra al fianco di Falcone e Borsellino, fino alla guida della Procura nazionale antimafia. E oggi ha un timore: la tempesta perfetta “tra i referendum sulla giustizia e la campagna elettorale”. Senatore Grasso, la riforma è la risposta tardiva alla crisi della magistratura? “È nell’interesse dei magistrati riacquistare la fiducia dei cittadini, ben vengano norme che eliminino il correntismo patologico e le cordate per promozioni, nomine, potere”. Questo sistema di voto per il Csm, maggioritario temperato, la convince? “Non esclude, in verità, le possibilità di accordi tra correnti per lo scambio di voti. Si potrebbe allora prevedere un termine, a ridosso del voto, per mutare la composizione dei collegi, con un sorteggio. Altrimenti sono facilmente individuabili e possono favorire previsioni e accordi”. Lei era per un diverso sistema, tracciato in un suo Ddl. In sintesi? “Ho proposto un’elezione a due livelli. La prima fase con collegi molto ristretti, in modo da favorire - annullando quasi il ruolo delle correnti - i magistrati più stimati e più validi. E successive assemblee: con la scelta dei togati tra questi ultimi. Tra elezioni contemporanee, maggioranze qualificate e ballottaggio, si riduce quasi a zero il rischio di accordi tra correnti”. E il sorteggio chiesto dalla Lega? “Per me è incostituzionale, e trovo ridicoli gli stratagemmi con cui lo si vuole far rientrare dalla finestra...”. Ma poco meno di 1800 magistrati, al referendum dell’Anm, si sono espressi a favore... “Hanno detto sì al sorteggio degli eleggibili, che poi dovrebbero partecipare a primarie. Ma rientra tra gli stratagemmi di cui parlavo”. Lo stop radicale alle “porte girevoli”: nessuna toga eletta o nominata torna più a fare il pm o il giudice. Inevitabile o severo? “Sì, lo condivido e lo ripeto da anni. Il magistrato deve apparire imparziale oltre che esserlo”. E sui ruoli tecnici (come i capi di gabinetto, capi dipartimento) anche lei è scettico sul ‘purgatorio’ dei tre anni? “Veramente sono d’accordo col principio, ma non ho capito cosa dovrebbero fare in questi tre anni”. Il Pd chiede che non si cambi la riforma. E Leu? Il sostegno alla riforma è pieno o condizionato? “Personalmente spero che ci siano margini di miglioramento, purché si proceda sui contenuti e non con senso di rivalsa contro la magistratura”. I referendum possono pregiudicare il via alla riforma? “Temo che il corto circuito tra riforma, referendum, campagna referendaria e campagna elettorale - che spaccherà la maggioranza di governo - possa incendiare il clima a danno della possibilità di una buona riforma condivisa”. Dieci anni fa, lei si candidò e si dimise (tra i pochi, come de Magistris). Ma la degenerazione, sistema Palamara e non solo, non era già in corso? “La degenerazione del correntismo risale a tanto tempo fa. Malcostume che ha inciso su tutti, per colpa di poche, ma influenti, eccezioni. Su Palamara, che dire: mi dedica una citazione che è una medaglia. Conferma che non ho mai smesso di cercare la verità, rispettando le regole, sulle stragi dei miei amici”. Si è sentito investito del “dovere di tramandarne la loro memoria”. E spesso si è tentati dal chiederle quale posizione avrebbero assunto... “Un conto è tramandare la memoria, un altro è far parlare i morti, sport cui non mi dedico. Ma posso certo ricordare cosa hanno fatto in vita: si sono opposti al bieco e patologico correntismo. Subendone gravi conseguenze”. La riforma “dimentica” i consiglieri di Stato di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2022 Possono avere incarichi (e stipendi) ai vertici dei ministeri senza lasciare la toga. I giudici amministrativi possono ottenere incarichi di vertice in ministeri e altre amministrazioni senza andare “fuori ruolo”, cioè senza smettere di fare i magistrati, cumulando funzioni e relativi stipendi. E sfuggendo così alla stretta inserita nella nuova norma - i tre anni di “raffreddamento” prima di rientrare in servizio - che invece riguarda solo chi quelle funzioni le ha abbandonate. Fine delle carriere a metà tra politica e magistratura? Non per tutti. La riforma che blocca le porte girevoli “dimentica” una categoria che non ne ha mai avuto bisogno, perché va avanti e indietro tutti i giorni: i giudici amministrativi, che da Bolzano a Palermo sono abituati a gravitare nei due mondi allo stesso tempo, grazie a un privilegio che permette loro di ottenere incarichi di vertice in ministeri e alte amministrazioni senza andare “fuori ruolo”, cioè senza smettere di fare i magistrati, cumulando funzioni e relativi stipendi. E sfuggendo così alla stretta voluta dalla ministra Marta Cartabia - i tre anni di “raffreddamento” prima di rientrare in servizio - che invece riguarda solo chi quelle funzioni le ha abbandonate. Parliamo di una schiera di decine e decine di consiglieri di ministri, esperti e vice capi di gabinetto che sotto il completo da grand commis mantengono la toga di giudici nei Tar e (soprattutto) al Consiglio di Stato. E per questo si ritrovano di continuo a decidere controversie e dare pareri sugli atti della pubblica amministrazione, compresi magari i ministeri dei governi per cui lavorano. È una consuetudine diffusa: perfino mentre il governo chiudeva il testo sulle porte girevoli c’era chi gli chiedeva conto di situazioni come queste. Il deputato di Alternativa (la componente del Misto che riunisce alcuni ex dei 5 stelle) alla Camera, Andrea Colletti, ha depositato un’interrogazione su tre casi recenti, per i quali ravvisa “un potenziale se non attuale conflitto di interesse in cui l’interesse personale interferisce con l’interesse pubblico generale, determinando una non terzietà ed imparzialità della decisione assunta”. Parliamo di Michele Corradino, Massimiliano Noccelli e Raffaello Sestini, tre magistrati in servizio al Consiglio di Stato. Ma non solo. Corradino è anche consigliere giuridico del ministero della Difesa, a diretta collaborazione di Lorenzo Guerini. Noccelli, dal 21 aprile scorso, è a Palazzo Chigi come esperto nell’Ufficio per le pari opportunità: compenso lordo quarantamila euro all’anno. Sestini, infine, è passato in un lunghissimo cursus honorum per quasi tutti i ministeri: esordisce nel vecchio dicastero dell’Industria e dell’Artigianato, di cui diventa vice capo dell’Ufficio legislativo nel 1988. Poi le Pari opportunità, i Trasporti, lo Sviluppo economico, l’Istruzione, i Rapporti col Parlamento, l’Ambiente. Fino al 3 marzo 2021, quando è scelto come vice capo di gabinetto dal Ministero della Transizione Ecologica Roberto Cingolani, con un compenso lordo annuo di 47.520 euro. Che cumula, come i suoi colleghi, agli emolumenti - si parla di cifre che aggirano tra i 150 e i 200 mila euro l’anno - che già ricevono dall’amministrazione d’appartenenza. Tutti e tre, quindi, lavorano nei ministeri, ma continuano a distribuire torti e ragioni a Palazzo Spada. E il 15 gennaio scorso erano riuniti nella Terza sezione del Consiglio di Stato per dirimere una controversia che coinvolgeva non un Comune o una municipalizzata, ma il ministero della Salute: l’oggetto era il ricorso del dicastero di Roberto Speranza contro la sentenza del Tar del Lazio che aveva accolto i ricorsi contro le linee guida per le cure domiciliari, che i medici ritenevano un’imposizione. Il punto, però, non è tanto il merito del giudizio, ma chi giudicava: dei cinque giudici che hanno dato ragione al ministero, i tre citati svolgono allo stesso tempo incarichi presso altrettanti ministeri. E toccherebbe solo a loro, nel caso non improbabile in cui la controversia riguardasse proprio quello in cui lavorano, dichiarare il proprio conflitto d’interesse scegliendo di astenersi. La nuova legge, del resto, non glielo impone. Di queste storture la riforma sulle porte girevoli tra magistratura e politica non si occupa. L’articolo 19 del ddl in discussione alla Camera, come riformulato dal maxiemendamento del governo, regola il “ricollocamento a seguito dell’assunzione di incarichi apicali e incarichi di governo non elettivi”. Riguarda tutti i magistrati, compresi i militari, ma - attenzione - solo quelli collocati fuori ruolo che al rientro e per i successivi tre anni “saranno destinati ad attività non direttamente giurisdizionali, né giudicanti né requirenti”. La regola però non tiene conto delle peculiarità della giustizia amministrativa, che sotto questo aspetto ha maglie molto più larghe di quella ordinaria. In base alla legge 418/1993, che ne regola l’ordinamento, i giudici di Tar e Consiglio di Stato possono assumere quasi tutti gli incarichi senza bisogno di andare fuori ruolo: basta un’autorizzazione del Consiglio di presidenza, l’equivalente del Csm. L’unica limitazione è che possono svolgere un solo incarico “in modo continuativo”, mentre non c’è un tetto per quelli che “non comportano un rilevante impegno di lavoro”. Viene escluso solo un ridotto numero di cariche specifiche (segretario generale, capo di gabinetto, direttore della Scuola della Pubblica amministrazione) che comportano l’uscita dal ruolo. Ma non tutte le altre, tra cui consigliere giuridico, esperto, vice capo di gabinetto e così via, che sono collezionabili a piacimento senza rischio di dover lasciare la toga, cumulando i compensi sulla base di un “contratto individuale” di diretta collaborazione. Il tema di fondo, però, è un altro: questa dimenticanza lascia aperta una breccia nel muro eretto dalle nuove norme per separare incarico politico e ruolo giudiziario, consentendo di esercitarli entrambi e in contemporanea. Più che una porta girevole, una galleria a doppia percorrenza. Senza correttivi, il conflitto antico che si voleva evitare rischia di vedersi attribuire una patente di legittimità. E il tema potrebbe alimentare una coda di polemiche. Corruzione, il governo non ha recepito direttiva Ue sul whistleblowing di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 14 febbraio 2022 Nelle scorse settimane sono scaduti i termini per recepire la direttiva europea sui segnalatori di illeciti: un passaggio fondamentale per integrare la legge del 2017. The good lobby: “Legge essenziale per garantire maggiori tutele contro le ritorsioni. Ma il governo è totalmente disinteressato all’argomento”. Dopo gli allarmi anche di Anac e Transparency international, arrivano anche i dati del Centro studi enti locali: tra 2018 e 2021 calo del 45% delle segnalazioni. La Commissione europea è pronta ad aprire una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il mancato recepimento della direttiva Ue sul whistleblowing. Un passaggio fondamentale per integrare la legge del 2017 e rafforzare uno strumento chiave nella lotta alla corruzione, che l’esecutivo di Mario Draghi ha ignorato, nonostante i termini siano scaduti già a dicembre. “Il mancato recepimento è una bella figuraccia a livello internazionale”, è il titolo del comunicato di The Good Lobby, l’organizzazione che si occupa di trasparenza, l’unica che denuncia come in settimana l’Italia sia finita nel mirino della Commissione. “Nulla è stato fatto. Non male per un governo che si trova ad affrontare la più importante fetta del Pnrr e che la trasparenza è più capace a predicarla che applicarla”, sottolinea l’organizzazione non governativa. “E spiace notare - commenta Federico Anghelé di The Good Lobby - che il governo italiano, oggi preso a modello da altri paesi e dalla stampa internazionale, risulti totalmente disinteressato all’argomento a differenza di Francia, Spagna e Portogallo”. A evidenziare il ritardo dell’Italia è anche l’ultimo dossier realizzato da Csel (Centro studi enti locali) pubblicato dall’agenzia Adnkronos. L’urgenza di rafforzare lo strumento del whisteblowing e rassicurare chi intenda avvalersene è testimoniata infatti anche dai dati: tra il 2018 e il 2021 c’è stato un preoccupante calo del 45% del numero di segnalazioni di illeciti inviate all’Autorità nazionale anticorruzione. D’altronde proprio il presidente dell’Anac Giuseppe Busia già a inizio anno aveva denunciato l’inadempienza dell’Italia: “I whistleblower svolgono un ruolo essenziale nel portare alla luce fatti corruttivi o fondati sospetti di illeciti che possono minacciare l’interesse pubblico. In tutti i paesi che riconoscono questo istituto, le segnalazioni hanno permesso la protezione di interessi comuni fondamentali, nonché il recupero di ingenti risorse pubbliche”. La direttiva Ue prevede include nella definizione di whistleblower anche soggetti al di fuori della tradizionale relazione lavorativa, come consulenti, membri dei consigli direttivi, ex dipendenti e candidati a posizioni lavorative. Fornisce protezione anche a coloro che assistono i whistleblower. Inoltre considera irrilevanti le motivazioni che hanno spinto a segnalare e permette ai whistleblower di denunciare illeciti direttamente nel luogo di lavoro oppure alle autorità competenti. Introduce il divieto di ogni tipo di ritorsione e prevede sanzioni per coloro che ostacolano il diritto a segnalare, attuano ritorsioni o non rispettano l’obbligo di mantenere la confidenzialità. Ancora, richiede agli Stati membri di garantire l’accesso a un servizio gratuito, comprensivo e indipendente di assistenza all’interno del settore pubblico, compresa l’assistenza legale e finanziaria. Infine, introduce l’obbligo di prendere in carico le segnalazioni e di mantenere il whistleblower informato entro un tempo ragionevole. Per questo, già un mese prima della scadenza, The Good Lobby e Transparency International avevano lanciato l’allarme invitando il governo Draghi a porre rimedio. Questa norma “è un tassello fondamentale per evitare che le risorse europee del Recovery Fund finiscano in mano al malaffare”, sottolinea sempre Anghelé. Per il direttore dell’ufficio italiano di The Good Lobby il recepimento della direttiva Ue “è essenziale per garantire maggiori tutele contro le ritorsioni perché permetterà di scegliere fra diversi canali di segnalazione, anche al di fuori della propria azienda o amministrazione. Un aspetto fondamentale che, in futuro, potrebbe prevenire il ripetersi di tragedie come quelle della funivia del Mottarone. Sappiamo infatti che un ex dipendente aveva segnalato internamente il guasto dell’impianto e aveva subito minacce di licenziamento. Se solo la Direttiva europea fosse stata in vigore, avrebbe potuto segnalare anonimamente la mancanza di sicurezza della funivia tramite un canale esterno e si sarebbe potuta evitare una tragedia in cui hanno perso la vita 14 persone”, ricorda Anghelé. Le denunce di The Good Lobby e Transparency International però sono cadute nel vuoto, hanno trovato come risposta “il solito assordante silenzio cui ci ha abituato questo governo che si guarda bene dal dare una risposta alla società civile”. Eppure, ora anche il Centro studi enti locali sottolinea le stesse criticità. Da una parte infatti, l’indice annuale 2021 del Cpi (Indice di percezione della corruzione), reso noto da Trasparency International Italia, ha evidenziato un balzo in avanti di 3 punti registrato dal nostro Paese, che ha guadagnato dieci posizioni in classifica. Come sottolineato nel report, però, restano delle criticità sui temi del whistleblowing e anche della regolamentazione del lobbying, dal momento che l’Italia non è ancora in linea con le direttive europee. Ritardi che vengono definiti preoccupanti anche dal Csel: “È un adempimento fondamentale per integrare e modificare quanto già previsto con la legge del 30 novembre 2017”. Le nuove misure previste nella direttiva, si legge nel dossier, “sicuramente contribuirebbero a rendere molto più efficace questo fondamentale strumento”. Ma non solo. Così come nel caso del recepimento della direttiva Ue 2019/37 sul whistleblowing, anche in tema di antiriciclaggio si attendono snodi legislativi ancora al palo. Nello specifico, manca all’appello la pubblicazione del registro dei titolari effettivi, introdotto con la normativa di recepimento della direttiva Ue, alla quale non si è potuto ancora dare seguito in quanto non sono stati ancora emanati i decreti attuativi previsti dalla legge. Infine, la legge sul lobbying, il cui testo è stato approvato, in prima seduta, dalla Camera dei deputati e che è in attesa dell’approvazione da parte del Senato. Omicidio di Mauro Guerra, l’intervista che può cambiare le cose di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 febbraio 2022 A due settimane dall’annunciata chiusura del processo d’appello in sede civile per l’omicidio di Mauro Guerra, avvenuto il 29 luglio 2015 a Carmignano di Sant’Urbano, un’intervista può cambiare completamente le cose. Su una delle più assurdamente tragiche violazioni dei diritti umani accadute negli ultimi anni in Italia, mai diventata popolare a causa del luogo estremamente periferico in cui si svolse, hanno cercato di tenere i riflettori accesi le organizzazioni Amnesty International e A Buon Diritto e una manciata di giornalisti. Uno di loro, Ivan Grozny Compasso, ha intervistato una persona più che interessata ai fatti, su cui ricordiamo che nel dicembre 2018 è stata pronunciata una sentenza di assoluzione. Il maresciallo dei carabinieri Filippo Billeci non è proprio una figura di secondo piano: nel 2011 ha diretto un’operazione anti-camorra e sette anni dopo è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica italiana. Nel 2015 Billeci è il comandante della stazione dei carabinieri di Battaglia Terme. Fino a poco tempo prima era stato comandante proprio della stazione di Carmignano di Sant’Urbano. Il 29 luglio i suoi colleghi gli chiedono di recarsi lì, dove c’è da fare un Tso a una persona recalcitrante. Billeci scoprirà solo dopo che non era stato autorizzato alcun Tso e si renderà invece subito conto che la persona che doveva subirlo era sì, giustamente, recalcitrante ma non pericolosa. Del resto, Billeci e Guerra si conoscono. Dall’intervista emergono particolari sconcertanti, soprattutto quando Billeci è chiamato a commentare le dichiarazioni fatte sotto giuramento da un suo collega, il brigadiere Stefano Sarto, colui che l’ha chiamato a Carmignano di Sant’Urbano. Billeci, che a sua volta ha perso un figlio in circostanze tragiche nel 2021, ricorda che con Guerra “c’era un rapporto particolare, ci capivamo”. È tormentato dal fatto che “c’era il mondo attorno a quella casa” [della famiglia Guerra] e che “la situazione è sfuggita di mano a tutti”. Billeci smentisce le affermazioni di Sarto, il quale ha sostenuto che di fatto fosse stato proprio Billeci ad assumere il controllo della situazione e avesse dato il comando di catturare Guerra, dando vita a un folle inseguimento nei campi. Ricordiamo: un uomo in preda al panico, a piedi nudi e in mutande, inseguito da carabinieri armati. Come poteva una persona, per quanto agitata, costituire un pericolo? La risposta di Billeci è importante, poiché è proprio sull’elemento della pericolosità di Guerra che si è basata la sentenza assolutoria del 2018. La risposta è questa: “Lo sappiamo benissimo, non credo fosse pericoloso. Se lo fosse stato non sarei stato in casa da solo un’ora con lui. Per me Mauro non era pericoloso, con me non c’erano mai stati problemi in tanti anni (…) Prima che arrivassi io era abbastanza alterato, poi quando sono arrivato io si è calmato. Quando si è messo a correre lungo la strada non ha fatto nulla a nessuno”. Perché Billeci non sia mai stato chiamato a testimoniare, rimane un enorme mistero di una delle ennesime storie italiane in cui una famiglia chiede giustizia e rischia di non riceverla dalle istituzioni cui si affida. Campania. Carceri minorili, 71 baby detenuti tra Nisida e Airola di Viviana Lanza Il Riformista, 14 febbraio 2022 L’antico palazzo del Settecento è collocato nel centro della piccola città. Airola per molti è infatti sinonimo di istituto penale minorile. È il secondo carcere minorile della regione Campania. I ragazzi ospitati al suo interno provengono nella maggior parte dei casi dai territori del Napoletano e del Salernitano, solo raramente da altre regioni o paesi. A inizio anno nell’istituto si contavano 30 minori, su una capienza regolamentare di 46. Airola è tra gli istituti di pena che l’associazione Antigone ha visitato nei mesi scorsi raccogliendo i dati che sono ora al cuore del sesto rapporto sulla giustizia minorile, un report biennale con cui si prova a fare di volta in volta il punto della situazione di un settore delicato della giustizia, quello che riguarda gli adolescenti e i giovani adulti. Il primo carcere minorile della Campania è Nisida. Si trova in cima a un isolotto, distante dunque dal centro di Napoli ma incastonato in un paesaggio di particolare bellezza. La struttura è un complesso di fabbricati tra il verde e a picco sul mare. Un edificio ospita gli uffici della direzione e del personale amministrativo, gli altri i reparti detentivi dove sono reclusi ragazzi e ragazze, incluso il centro di prima accoglienza, il luogo dove vengono portati i minori arrestati. In ultimo, in una posizione leggermente defilata rispetto agli edifici appena descritti, si trova un edificio ulteriore, che ospita il Centro studi sulla devianza minorile, in origine animato da alcuni esperti in materia che svolgevano attività di ricerca e di analisi. Oggi, per mancanza di fondi, il centro ospita solo due studiosi, che si occupano prevalentemente della raccolta di dati statistici. Secondo l’ultimo report, Nisida ospita 41 detenuti, di cui 36 ragazzi e 5 ragazze. Sulla carta la capienza regolamentare è di 70 posti, ma già quando le presenze si aggirano intorno alle 60 l’istituto inizia ad andare in profonda sofferenza. Per quanto riguarda la provenienza dei ragazzi, la maggior parte viene da Napoli e provincia, gli stranieri sono nove, mentre la fascia d’età più rappresentata è quella tra i 17 e i 21 anni. Più della metà dei ragazzi attualmente presenti nell’istituto minorile di Nisida sono detenuti in esecuzione di una condanna definitiva, e in media i periodi di detenzione vanno da uno a due anni. E i reati per i quali sono reclusi riguardano in prevalenza i reati di furto, rapina e spaccio di droga. I giovani adulti svolgono insieme ai minori le attività ma nelle camere detentive vengono suddivisi in gruppi omogenei per età. Antigone ha fatto un viaggio all’interno degli istituti minorili di tutta Italia, inclusi quelli della Campania. Il rapporto dell’associazione quest’anno si è anche avvalso del contributo del rapper Francesco “Kento” Carlo, ed è stato nominato non a caso Keep in trill, perché trill è una parola dello slang hip hop che nasce dalla fusione di altri due termini, true e real, per indicare qualcosa di autentico e genuino. Trill sono le storie dei ragazzi che finiscono nel circuito penale e il ruolo che la giustizia minorile dovrebbe avere, “quello di proteggere i sogni più autentici dei ragazzi senza mai cedere a percorsi stereotipati”, si legge nel rapporto di Antigone. Quindi una chance, una nuova opportunità. Sebbene la vera svolta sarebbe chiudere gli istituti minorili e riuscire a dare una seconda chance ai ragazzi seguendo altri percorsi. “Il vero successo sarebbe la chiusura degli istituti penali per minorenni - ha affermato Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento della giustizia minorile - ad oggi tuttavia una risorsa imprescindibile, che va potenziata per la valorizzazione dei bisogni dei ragazzi all’interno delle strutture”. Marche. Acli, le attività sportive nelle carceri marchigiane primapaginaonline.it, 14 febbraio 2022 Da cinque anni US Acli porta avanti il progetto “Una comunità in movimento” organizzando attività sportive di vario genere nelle carceri marchigiane. È arrivato al quinto anno di attività il progetto “Una comunità in movimento” che l’US Acli di Ascoli Piceno realizza nelle strutture carcerarie marchigiane, proponendo attività sportive di vario genere. Acli: una comunità in movimento - Si tratta di una iniziativa ormai consolidata nel tempo e di cui sono noti i benefici. Non solo per un buono stato di salute, ma anche per la convivenza all’interno dell’istituto penitenziario, poiché contribuisce ad abbassare i livelli di tensioni e di conflitti. Le attività proposte sono pensate e organizzate in modo da essere strumento educativo. Oltre che un mezzo per lavorare sulle relazioni, sulle regole, sul significato della sconfitta e della vittoria, sulla gestione delle frustrazioni. E anche su valori come la legalità. Si tratta di una esperienza che anche nel 2020 e 2021 ha offerto opportunità di praticare attività sportiva in maniera continuativa. Come dimostrano le 98 ore svolte nel 2021 a Fossombrone, le 32 realizzate a Fermo e le 140 di Ascoli Piceno. Oltre all’organizzazione di attività sportive è stato messo a disposizione materiale per lo svolgimento delle iniziative. Un bel gesto di solidarietà è stato compiuto dal Torino e dal Napoli, che hanno regalato ai detenuti palloni e magliette autografati dai propri calciatori. “L’iniziativa parte da un protocollo d’intesa - spiega Giulio Lucidi, segretario provinciale - che l’US Acli nazionale ha stipulato con il Dipartimento degli affari penitenziari del Ministero della giustizia. Protocollo di intesa che ha permesso varie attività nelle carceri marchigiane sin dal 2017. Il progetto è partito nella casa circondariale di Ascoli, e si è allargato a quella di Fossombrone e a quella di Fermo. Le attività che sono state realizzate in questi anni sono di vario genere. In particolare calcio, calcio a cinque, elementi di base dell’atletica leggera, attività motoria, calcio balilla, ginnastica con metodo yoga. Ma anche attività cinofila, tennis tavolo, ginnastica posturale e allenamenti di carattere funzionale”. Cassino (Fr). Morì in carcere per un’iniezione, la madre: “Vogliamo la verità” di Carmela Di Domenico ciociariaoggi.it, 14 febbraio 2022 Mimmo D’Innocenzo muore il 27 aprile del 2017 per un malore nel corridoio del carcere di via Sferracavalli mentre i medici provano a trasferirlo in ospedale. Sul braccio un foro di siringa. I familiari non credono all’ipotesi di una overdose: impossibile per un giovane che non faceva uso di eroina. E, cosa non secondaria, vietata in carcere. Il caso giudiziario va verso la chiusura. Ma la famiglia, soprattutto mamma Alessandra, non si arrende. Diversi i tentativi di tenere alta l’attenzione. Due anni fa il sit-in proprio davanti al tribunale di Cassino. Poi ancora a Roma. L’incontro della signora Pasquire con il ministro Cartabia, pure una interrogazione parlamentare di Italia Viva nella scorsa estate per chiedere se a suo tempo il dipartimento dell’amministra zione penitenziaria abbia svolto indagini interne per verificare le circostanze che hanno determinato il decesso del ragazzone romano giunto dalla comunità di Assisi da appena due giorni, compresa la presenza di un registro degli ingressi in infermeria in quel mese di aprile, mai trovato. Mimmo, finito in un brutto giro di coca come raccontato dalla madre a 29 anni decide di smettere: entra in comunità. Ma non ce la fa. Una mattina raggiunge un supermercato sotto casa e a volto scoperto tenta una rapina, poi viene arrestato. Inizia a scontare la pena ad Assisi, in comunità. Quando diventa definitiva viene trasferito a Cassino dove, dopo due giorni, muore. La difesa della famiglia, rappresentata dall’avvocato Vitelli, riesce a scoprire attraverso indagini difensive l’esistenza di un testimone che avrebbe riferito di un’iniezione la sera precedente al malore. Forse calmanti. Esisterebbe la testimonianza di un agente di polizia penitenziaria che riferisce di aver accompagnato il ragazzo in infermeria per un malore la sera prima. Ma né medico né infermiera ricordano nulla. E il registro degli ingressi non esiste più. Come pure la gola profonda che raccontò come era andata. “Come si fa, poi, a non ricordare un ragazzone come mio figlio, alto due metri?” ribatte mamma Alessandra, che anche venerdì scorso è tornata a Cassino, fuori dal tribunale per chiedere che venga fatta luce sulla morte del figlio. Ora con la fissazione della data dell’udienza in cui verrà discussa l’opposizione alla archiviazione, il 5 maggio, la famiglia torna a sperare. “Vogliamo la verità, non un colpevole a ogni costo” ribatte mamma Alessandra. Milano. C’è vita nell’Expo, la nuova città nasce dai detenuti di Chiara Baldi Specchio - La Stampa, 14 febbraio 2022 “Mai avrei pensato di finire a lavorare nella ristorazione, visto il mio passato. Ma ora ne sono felice”. Dario ha 56 anni, i capelli imbiancati e diverse vite alle spalle. Nella prima installatore di turboalternatori, macchine che raccolgono l’energia elettrica. Nella seconda manutentore di locomotori per 15 anni nelle ferrovie federali svizzere. “Poi ho commesso un errore e sono finito in cella. Dove ogni giorno ho dovuto dimostrare che non ero un criminale, ma solo una persona che aveva sbagliato”. A San Vittore, Busto Arsizio e, infine, nel “carcere modello” di Bollate, alle porte di Milano. La terza vita di Dario comincia nel 2018 come occasione di riscatto arriva nel 2018, quando da detenuto finisce a lavorare negli uffici di Lendlease a Mind - Milano Innovation District - l’area ex Expo da oltre un milione di metri quadrati che diventerà il più grande distretto di riqualificazione urbana d’Italia e tra i primi cinque d’Europa. Il 19 ottobre 2019 Dario esce dal carcere e dal giorno dopo viene assunto a tempo indeterminato: “Mi mandano a fare il cameriere in un bar-ristorante, mi arrabbio molto, non era il mio settore”. Poi però si appassiona, capisce che in quella costruzione in legno, che sembra uno chalet di montagna pur essendo a mezz’ora dal centro di Milano, con una terrazza di cui va particolarmente fiero, può dare sfogo alle sue idee. “Oggi facciamo feste e aperitivi, un piccolo svago dopo una giornata di lavoro. Abbiamo chiesto i permessi al Comune per poter usare la terrazza anche in inverno”. Dario voleva fare l’imprenditore, oggi lo è. Grazie alla sua voglia di cambiare vita e a un progetto che gli ha permesso di farlo. I padiglioni Il Decumano di Expo 2015 sette anni dopo è irriconoscibile: una lunga distesa di cemento e, ai lati, cantieri. Ogni tanto spunta un edificio ma i famosi padiglioni non ci sono più, se non per qualche eccezione: Tanzania, Zambia, Sri Lanka e sullo sfondo Haiti, Congo, Zimbabwe e Mozambico. Un vago ricordo dei quasi cento che hanno caratterizzato l’Esposizione Universale. Tutti gli altri sono stati tirati giù per fare spazio a Mind, dove lavorano centinaia di persone. Non solo ricercatori, biologi e innovatori, ma anche operai e manovalanza di ogni tipo. Gli operai che all’alba vengono qui a lavorare si muovono da un cantiere all’altro a bordo di una navetta, perché fare su e giù per quel miglio che è stato così trafficato, ora che non c’è più niente, fa solo perder tempo. Dario è uno dei detenuti coinvolti nel Programma nato nel 2018 grazie a Lendlease, ministero della Giustizia, Anpal e altri partner istituzionali. A dicembre 2021 è stato rinnovato per altri cinque anni. Spiega Nadia Boschi, manager Lendlease nonché responsabile del programma: “Uno degli elementi percepiti come critici a Mind era la vicinanza con il carcere di Bollate. Ci siamo chiesti come attenuare la diffidenza e fare in modo che la sostenibilità aziendale passasse dall’impatto sociale”. Nei primi tre anni sono stati coinvolti 30 detenuti ma il numero crescerà. Prima di entrare nei cantieri, la cui specializzazione è molto alta, devono affrontare un periodo di formazione. Ma la difficoltà principale è far convivere pacificamente e senza pregiudizi detenuti e lavoratori. “Questo è un “ambiente non protetto”, cioè, a differenza di altre esperienze simili attivate in carcere, senza altri detenuti: operano con lavoratori “liberi” in un contesto di vita reale”. Tanto che le persone che scontano una pena - spesso anche ergastolani - arrivano a Mind in autonomia e sempre in autonomia rientrano in carcere. L’erosione dei pregiudizi In questi anni non sono mancate scene di incomprensioni e diffidenze. “Il primo mese - ricorda Boschi - avevamo dipendenti che nascondevano la borsa se nei paraggi c’era un detenuto. Poi hanno smesso. Dopo tre anni possiamo dire che sono crollati i pregiudizi”. Per Vincenzo Lo Cascio, responsabile dell’Ufficio Centrale lavoro dei detenuti del ministero della Giustizia, Programma 2121 è “un modello da esportare in tutta Italia, tenendo conto delle differenze tra istituti di pena e contesti regionali, in quanto. Ma, ne è certo, “è un’esperienza fondamentale per chi è privo della libertà personale, pur essendo su base volontaria”. Per più ragioni: “Innanzitutto, chi aderisce dimostra al Tribunale di Sorveglianza, che fa una preselezione, che vuole davvero cambiare vita. In secondo luogo, perché un detenuto nel corso della sua detenzione accumula un debito economico con lo Stato e visto che il lavoro a Mind è retribuito, può cominciare a pagarne una parte, riducendo il rischio di recidiva che in Italia è del 70 per cento: dover pagare una cartella esattoriale per le “spese di giustizia” dopo essere stati in carcere è un disincentivo alla riabilitazione per molti detenuti perché la maggior parte di essi proviene da contesti di forti difficoltà economiche. Avere un’occupazione stabile aiuta però ad alleviare questa prospettiva”. Non è però solo l’esperienza lavorativa a contare, sebbene rappresenti una voce importante nel curriculum vitae del detenuto, che così potrà essere inserito in un contesto professionale stabile. Significativo è anche l’aspetto che riguarda l’ambito familiare: un detenuto non è il reato che commette e così ha modo di ricrearsi una vita oltre il lavoro. Proprio quello che è avvenuto con Dario: “I miei figli sono tornati a parlarmi e quando vado a trovarli è la mia ex moglie a ospitarmi. Una cosa impensabile prima”. Questo è possibile grazie a Fondazione Cascina Triulza che avvia percorsi complementari per le famiglie dei carcerati. “Sono realtà molto difficili, soprattutto se sono presenti bambini: bisogna spiegare loro cos’è il carcere, perché il loro genitore vive lì. E una volta concluso il percorso lavorativo, aiutare detenuti e famiglie a trovare un punto di incontro”, dice Chiara Pennasi, direttrice generale della fondazione. Ma anche il rapporto con i colleghi è centrale. “Una volta - racconta una dipendente di Lendlease - ebbi un attacco di panico in ufficio e con me c’era solo un collega detenuto. Che mi è stato vicino fino a che non sono stata meglio e mi ha persino donato il suo Tavor, che portava sempre con sé perché anche lui soffriva di ansia. Il nuovo distretto ha due filoni, Scienze della Vita e Città del Futuro. Tre i partner pubblici che lo stanno tirando su: l’Università Statale di Milano, che avrà il suo campus scientifico lì dove una volta sorgevano i padiglioni della Biodiversità e altri di paesi come l’Indonesia; Human Technopole, che già ospita 200 ricercatori a Palazzo Italia e ne avrà 1200 a regime nel 2025; e l’Ospedale Galeazzi, che ha già ultimato la sua nuova sede, lì dove una volta c’erano i padiglioni di Bahrein, Angola, Repubblica Ceca, un palazzone di 16 piani operativo da metà 2022 con oltre 9 mila persone tra pazienti e operatori sanitari. Proprietaria dei terreni di Mind è Arexpo, la società pubblica (3,7 milioni di euro di utile nel 2021) che ha dato in concessione per 99 anni 480 mila metri quadrati alla multinazionale australiana Lendlease, per una cifra complessiva di circa 2 miliardi di euro. “Abbiamo portato a Mind AstraZeneca e Esselunga, oltre a una folta schiera di realtà del settore dell’innovazione e la tecnologia”, racconta Stefano Minini, Project Director di Mind per Lendlease. Il ritmo di lavoro dei cantieri è forsennato perché il tempo corre e nonostante il Covid non abbia avuto l’impatto temuto - esclusi i mesi di lockdown si è sempre lavorato - all’inizio del 2024 va conclusa la realizzazione di West Gate dove ci saranno uffici, laboratori, 400 residenze in affitto oltre a un albergo e una piastra per lo scambio di idee e persone. E lo stesso Decumano - ora ricoperto di cemento - verrà smantellato per essere riqualificato in ottica verde: diventerà una lunghissima pista ciclabile che sarà collegata a Milano. Torino. Detenuti formati per installare la fibra ottica: il progetto di Linkem di Federica Cravero La Repubblica, 14 febbraio 2022 Venti “semiliberi” del carcere Lorusso e Cutugno selezionati in questi giorni frequenteranno il corso di Sirti per poi mettersi al lavoro: obiettivo, linea superveloce fin dentro gli appartamenti. Uscire dal carcere per entrare nelle case dei torinesi, a installare fibra ottica e Adsl, ma anche per realizzare qualunque altro tipo di impianti, come le telecamere di videosorveglianza in ditte e uffici. È l’opportunità che sarà presto data a una ventina di detenuti del Lorusso e Cutugno. Il personale del penitenziario li sta selezionando in questi giorni e presto sarà scelta la classe che inizierà a seguire il corso di formazione per poi essere impiegati in gruppi di lavoro fuori dalle mura della casa circondariale del quartiere Vallette. A ideare e gestire il progetto sono due importanti società del settore dele telecomunicazioni, Linkem e Sirti. “Questo è un progetto pilota che speriamo di poter replicare poi in altre città - spiega Davide Rota, amministratore delegato di Linkem, società di telecomunicazioni in forte crescita, che ha da poco incorporato Tiscali - Abbiamo constatato che la richiesta di nuovi impianti è in crescita e c’è carenza di manodopera. Di conseguenza formare detenuti in questo settore significa dare loro una reale opportunità di inserimento nel mondo del lavoro una volta finita la loro pena. Inoltre essendo un mestiere delocalizzabile, possono metterlo in pratica ovunque, visto che spesso i detenuti hanno vite lontane dal carcere in cui sono reclusi”. La parte di formazione e la pratica sul campo sono affidate a Sirti, uno dei maggiori installatori. Uno dei principali impieghi sarà quello di collegare la linea internet nelle abitazioni, per i più svariati operatori, nell’ultimo tratto prima dell’apparecchio di casa. Il progetto è rivolto a detenuti che stiano per scontare la pena, visto che devono avere la possibilità di godere della semilibertà per accedere al lavoro esterno. Sperando anche in una continuità una volta liberi. È da un paio d’anni che Linkem si è interessata alla questione del lavoro dentro le mura e lo ha fatto grazie all’incontro di Rota con Rita Russo, ora provveditore del Piemonte, quando era direttrice del carcere di Lecce. Lì è stato aperto un laboratorio (poi replicato nel braccio femminile di Rebibbia) per la riparazione dei router restituiti dai clienti quando si cambia modello o semplicemente operatore e che nella maggior parte dei casi sono ancora in buono stato o necessitano di piccole manutenzioni. Progetto seguito con interesse anche dai ministri alla Giustizia, Marta Cartabia, e dal collega per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, Vittorio Colao. “Mi sono reso conto - continua Rota - che moltissime persone dentro in carcere potrebbero lavorare, direi l’80%, e sarebbe un buon modo per scontare una condanna: noi offriamo veri contratti, assumiamo le persone che lavorano per noi. E in un caso abbiamo dato un lavoro in Linkem anche a un detenuto dopo la scarcerazione”. Oltre ai vantaggi per i detenuti, che impiegano il tempo e si costruiscono opportunità per il futuro abbattendo il rischio di recidiva, c’è un altro aspetto interessante per le aziende, che ne hanno minori costi per i locali e per la vigilanza. “Investire in carcere è una di quelle situazioni in cui ci guadagnano tutti”, commenta l’ad di Linkem. Milano. La “Metamorfosi” dei barconi naufragati: il progetto per i detenuti di Opera Il Messaggero, 14 febbraio 2022 I legni saranno utilizzati nella falegnameria del carcere di Opera per la costruzione di strumenti musicali. Recuperare i legni dei barconi dei migranti naufragati a Lampedusa per farne strumenti musicali dall’alto valore simbolico: è questo il progetto promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti di Milano e sostenuto dall’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli. Il progetto “Metamorfosi” è attuato grazie alla collaborazione con il Ministro degli Interni, Luciana Lamorgese, il Direttore generale dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli, Marcello Minenna, e la Casa di Reclusione Milano-Opera. “Metamorfosi” ha come finalità il recupero e la trasformazione dei legni provenienti dai barconi di migranti naufragati sulle coste dell’isola di Lampedusa. Questi legni saranno utilizzati nella falegnameria del carcere di Opera per la costruzione di strumenti musicali che formeranno “L’Orchestra del Mare”, ma anche croci da donare alle scuole italiane e oggetti di forte valore spirituale come presepi, angeli e rosari. L’iniziativa, voluta dal Ministro dell’Interno, è stata resa possibile grazie all’attività di coordinamento svolta dal prefetto di Agrigento, Maria Rita Cocciufa, con il supporto della Procura che ha rilasciato i necessari nulla osta e ha consentito all’Ufficio delle Dogane del Canale di Sicilia di procedere all’individuazione e all’affidamento delle imbarcazioni in legno, per le quali l’autorità giudiziaria aveva già disposto la distruzione e lo smaltimento. “Il sapore del riscatto” di Ginevra Barboni, film sul reinserimento in società di ex detenuti di Giovanni Mercadante corrierepl.it, 14 febbraio 2022 Il “Sapore del riscatto”, il cortometraggio interamente dedicato all’inclusione e al pieno reinserimento di detenuti o ex detenuti della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia come vera e propria strategia di sicurezza integrata, è entrato in concorso al Toronto International Woman Film Festival. La conferma è arrivata per la giovane cineasta; si tratta di un ulteriore ed importantissimo riconoscimento internazionale per questo progetto ispirato e fortemente voluto dall’Amministrazione comunale di Castelfranco Emilia. Non si tratta dell’unico traguardo tagliato da questo corto cinematografico: curato alla regia e sceneggiato da Ginevra Barboni, con protagonisti attori del calibro di Salvatore Striano, Valentina Pastore e Davide Scafa, con la produzione esecutiva di Chiara Trerè; “Il sapore del riscatto” è entrato anche al Chicago Indie Film Award ed è finalista all’Oniros Film Award di New York. “È veramente una grande soddisfazione vedere quanti importanti traguardi stia tagliando nel corso del tempo questo progetto a cui teniamo veramente tantissimo - afferma il Sindaco di Castelfranco Emilia Giovanni Gargano rivolgendo il suo personale plauso - a chi ha creduto in questa idea, dai miei colleghi di Giunta alla Direzione della Casa circondariale fino alle realtà associative del territorio. “Questi primi riscontri giunti dagli Stati Uniti e dal Canada ci riempiono di orgoglio e di fiducia, non solo perché confermano la validità artistica del nostro lavoro, ma anche perché confermano, soprattutto, che il tema trattato sensibilizza anche oltre i confini del nostro Paese e dell’EU - ha dichiarato la regista Ginevra Barboni sottolineando che - questo è per noi motivo di ulteriore soddisfazione, in quanto dimostra l’importanza sociale di questo lavoro, che è stato il motivo per il quale abbiamo accolto questa possibilità di collaborazione con il Comune della Città di Castelfranco Emilia e con la Regione Emilia-Romagna”. Ginevra Barboni, romana, è figlia e nipote d’arte. Black Lab Film Co, già da un po’ di tempo ha riconosciuto e ha inserito Ginevra Barboni tra le 50 registe più promettenti al mondo. Classe 1989, Ginevra ha una preparazione accademica di tutto rispetto. Suo nonno è stato E. B. Clucher: da “Lo chiamavano Trinità” in poi, tanto per citare un titolo tra i tanti film che ha diretto, ha costruito un pezzo di storia indimenticabile del nostro cinema. Proprio in questo 2022 ricorreranno i 100 anni dalla sua nascita. Il padre di Ginevra, Marco Tullio Barboni, è noto sceneggiatore di cinema e tv, e negli ultimi anni anche scrittore di notevole successo. Nel 2016 arriva per Ginevra la Laurea Magistrale in Televisione, Cinema e New Media, conseguita presso l’Università Iulm di Milano con una tesi, seguita dal prof. Giovanni Chiaramonte, intitolata “Lo Specchio di Andrej Tarkovskij: un film tra memoria e ricordo”. Dopo la frequenza di un corso di formazione di Ercole Visconti presso la Scuola Civica di Cinema Luchino Visconti di Milano, e la partecipazione alla Masterclass “Showrunner: creare e produrre serie tv” di Neil Landau dell’Ucla, School of Theatre, Film and Television”. Le specializzazioni professionali di questa giovane promessa nostrana sono davvero tante. Il primo cortometraggio di Ginevra Barboni (come autrice, produttrice e regista) nel 2019 si intitola “La vita che ti aspetta”, ed ha vinto premi in tutto il mondo. Referendum. La Corte Costituzionale di Amato darà la parola al popolo? di Franco Corleone L’Espresso, 14 febbraio 2022 La decisione della Corte Costituzionale sulla ammissibilità dei referendum, in particolare su quello riguardante la mitigazione delle sanzioni per le condotte riguardanti la cannabis, avrà una portata storica. La scelta della tolleranza zero contro la droga, fondata su una guerra ideologica e sul proibizionismo moralistico, si impose in Italia più di trenta anni fa e fu codificata con il Dpr 309/90. Le conseguenze nefaste della repressione si manifestarono subito con tragedie individuali e con l’esplosione delle presenze in carcere. Nel 1993 un referendum popolare cancellò le norme più repressive della legge Iervolino-Vassalli. Ma la bulimia della caccia alle streghe indotta dalla war on drug si realizzò con l’approvazione truffaldina nel 2006 di un decreto legge noto come legge Fini-Giovanardi che aveva come motto “la droga è droga” equiparando tutte le sostanze e punendo la detenzione da sei anni a venti anni di carcere. Finalmente nel 2014 la Corte Costituzionale decretò l’incostituzionalità di quelle norme. Purtroppo l’ingolfamento dei tribunali è continuato e il sovraffollamento delle patrie galere è divento endemico. Il Parlamento, nonostante la presentazione di proposte di legge per una riforma intelligente e umana non ha fatto nulla. Ora è sul tappeto un referendum che ha raccolto una adesione straordinaria per eliminare almeno la persecuzione della canapa. Il Presidente Draghi ha deciso che il Governo non si costituisca con l’Avvocatura dello Stato davanti alla Corte Costituzionale per difendere una legge che rappresenta un segno di archeologia criminale. La decisione è quindi totalmente nelle mani della Consulta che non potrà accampare come alibi le convinzioni o i condizionamenti del potere. Il Presidente Amato ha espresso con parole degne della Costituzione il favore per la partecipazione popolare e la decisione dei cittadini proprio su temi sensibili su cui le forze politiche appaiono timide e reticenti. Se tutto andrà nel verso del diritto, contro il politicismo, il 12 giugno il popolo sovrano potrà compiere una scelta di liberazione. Soprattutto i giovani potranno riconciliarsi con le Istituzioni. Eutanasia, giustizia e droghe leggere: referendum alla volata finale di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 14 febbraio 2022 Domani la Consulta deciderà se dare il via libera ai quesiti. I partiti temono altri scontri e divisioni nella maggioranza. È uno dei passaggi politici più delicati di quest’ultimo anno di legislatura. Perché, se domani la Corte costituzionale darà il via libera ai referendum su giustizia, eutanasia legale e cannabis, le crepe nella già frammentata maggioranza di governo non potranno che allargarsi. Gli otto quesiti (sei solo sulla giustizia), infatti, affrontano questioni che dividono profondamente le forze politiche che sostengono Draghi e, soprattutto nel campo del centrosinistra, rischiano di spaccare i partiti al loro interno. Anche per questo, sono in molti a tifare in silenzio perché dalla Consulta arrivi uno stop almeno ad alcuni dei quesiti proposti. Gli stessi che non hanno troppo gradito le parole del neo presidente della Corte, Giuliano Amato, sulla necessità di impegnarsi “per consentire il voto popolare e non cercare il pelo nell’uovo”. Non è certo un caso, ad esempio, che in aula alla Camera sia appena stata portata la legge sul suicidio assistito (esame poi rinviato a marzo), che affronta in modo diverso e più sfumato lo stesso tema del referendum. Un modo per far vedere che, finalmente, in Parlamento si prova a legiferare sulla materia. Anche se non c’è alcuna garanzia che la legge arriverà mai all’approvazione, così come quella sulla cannabis, ferma in commissione Giustizia a Montecitorio, che affronta parzialmente lo stesso tema del referendum. Sulla giustizia, invece, un paio di quesiti intrecciano la riforma del Csm appena varata dal governo, che passerà all’esame del Parlamento, con tutte le incognite del caso. Tra l’altro, se arriverà il via libera della Consulta, si dovrebbe votare per i referendum negli stessi giorni delle amministrative, probabilmente l’ultimo weekend di maggio o il primo di giugno. Un incrocio esplosivo, destinato a smuovere il quadro politico in vista delle elezioni del 2023. Eutanasia: si aprirà la strada al suicidio assistito - Il referendum sull’eutanasia legale propone di modificare l’articolo 579 del Codice penale, relativo all’ “omicidio del consenziente”. Punta a eliminare alcune parti del testo, in modo da rendere legittimo l’operato del medico che somministra un farmaco letale a un paziente o lo prepara per l’assunzione autonoma da parte dell’interessato. Ad oggi, questa azione viene punita con il carcere da 6 a 15 anni. Se vincesse il sì, l’eutanasia attiva potrà essere consentita nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e sul testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza della Corte costituzionale sul “caso Cappato”: il paziente richiedente deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze insopportabili, oltre che pienamente capace di prendere una decisione libera e consapevole. L’eutanasia rimarrà sempre un reato, equiparato all’omicidio, se commessa contro una persona incapace di intendere e volere o il cui consenso sia stato estorto con la violenza oppure contro un minore di 18 anni. Il referendum è stato promosso dall’Associazione Luca Coscioni e dal Partito Radicale, sostenuto da +Europa e da Sinistra Italiana. Tra i principali partiti, quelli di centrodestra sono schierati nettamente contro, mentre nel centrosinistra regna una certa ambiguità: né il Pd né il M5s hanno ancora preso una posizione chiara e ufficiale sulla questione, salvo dichiarazioni di singoli esponenti. “Per loro si porrebbe un problema politico - dice il deputato di +Europa, Riccardo Magi - sarebbe un esame di maturità, in particolare per il Pd”. Giustizia: le carriere separate e la responsabilità civile - Sono 6 i referendum sulla giustizia portati avanti da Lega e Partito radicale. I temi: riforma del Csm, responsabilità diretta dei magistrati, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere dei magistrati, limiti agli abusi della custodia cautelare, abolizione della legge Severino. In estate sarebbero state raccolte 4 milioni di firme, ma alla fine la Lega ha preferito portarli avanti attraverso le nove Regioni a guida di centrodestra, piuttosto che sottoporre le firme al vaglio della Cassazione. Il più dirompente riguarda la separazione delle carriere dei magistrati. In caso di vittoria al referendum, il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. Ma sarebbe clamorosa anche la responsabilità civile diretta del magistrato (attualmente è indiretta: si può fare causa allo Stato, che si potrà rivalere sul magistrato solo in caso di dolo o colpa grave) da parte del cittadino che si sente leso nei suoi diritti. Altri di fatto saranno svuotati dalla riforma Cartabia, come ad esempio la possibilità per un magistrato di candidarsi al Csm senza necessità di firme di altri colleghi; oppure quello sul voto di avvocati e professori di diritto nel processo di valutazione dei magistrati. Quanto alla tagliola sugli amministratori locali condannati in primo grado, che a norma di legge Severino vengono sospesi: in Parlamento sta camminando una proposta del Pd per limitare gli automatismi ai “reati gravi”. A favore dei quesiti della Lega vanno considerati Giorgia Meloni (ma non su tutti), Forza Italia, ed Emma Bonino a nome di +Europa. Da ricordare che pure Matteo Renzi ha firmato per i quesiti. Contrari Pd, M5S e LeU. Cannabis: la liberalizzazione delle droghe leggere Il referendum sulla cannabis interviene sul “Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope”, sia sul piano della rilevanza penale sia su quello delle sanzioni amministrative legate al possesso di droga. Propone, innanzitutto, di depenalizzare la coltivazione delle piante e di non prevedere più il carcere per qualsiasi condotta illecita relativa alla cannabis, con eccezione dell’associazione finalizzata al traffico illecito. Al momento, la coltivazione per uso personale può essere punita anche con il carcere, da 2 a 6 anni, oltre che con una multa: molto dipende dalla valutazione del giudice, in base alla quantità. In generale, si calcola che più di un terzo dei nuovi ingressi in carcere sia dovuto a reati di droga. Sul piano amministrativo, il quesito punta a eliminare la sanzione della sospensione della patente di guida e del “patentino” per i motorini, oggi prevista per chi viene trovato in possesso (in qualsiasi contesto) di una piccola quantità di droga per uso personale. Una sospensione da 1 a 3 mesi, disposta dal Prefetto, che è stata applicata a un milione e mezzo di persone da quando la legge è in vigore. Va precisato che la guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di cannabis continuerebbe comunque a essere punita dall’art. 187 del Codice della strada. Il referendum è stato promosso da varie associazioni, tra cui Luca Coscioni, Antigone e Forum Droghe, oltre che da +Europa e Partito Radicale. Tra le forze politiche, contrario il centrodestra, non pervenuto il centrosinistra: nessuna posizione ufficiale da parte di Pd e M5s, se non dichiarazioni di singoli esponenti. Il diritto di decidere sulla propria vita di Gaetano Silvestri* La Stampa, 14 febbraio 2022 La Costituzione italiana è ispirata ai due princìpi fondamentali della libertà e dell’eguaglianza, che non si pongono come una coppia oppositiva, ma come due facce della stessa medaglia. Si è liberi perché si è uguali, si è uguali perché si è liberi. La nostra Carta fondamentale ha realizzato il superamento del liberalismo elitario del XIX secolo e, ad un tempo, del collettivismo liberticida del regime sovietico. È bandita pertanto ogni forma di organicismo, sia che si presenti come restaurazione del passato, sia che aspiri a fornire la base teorica di uno statalismo oppressivo vestito di panni “rivoluzionari”. Fascismo e stalinismo furono lasciati per sempre alle spalle. La conseguenza logica e assiologica di questa impostazione di fondo è la priorità etica e giuridica della persona rispetto allo Stato. In nessun caso e in nessun modo può essere sostenuto o avallato l’assorbimento della prima nel secondo. La persona non può essere funzionalizzata ad alcuna finalità collettiva, ma solo tenuta alla solidarietà verso gli altri, intesi, a loro volta, come persone o gruppi sociali. Ulteriore effetto di questo cambio radicale di prospettiva generale è che esiste un diritto, non un dovere alla vita. Sul piano giuridico si deve aggiungere - a moderazione dell’astrattezza di tale teoria etica - che la sovranità della persona su se stessa deve incontrare limiti di natura formale e sostanziale, perché l’accertamento della natura genuina della volontà di porre fine alla propria esistenza è molto complessa e potrebbe essere inquinata non solo da rozzi e clamorosi condizionamenti (o addirittura da violenza), ma da induzione quotidiana, sommessa, ma non per questo meno efficace. Per le considerazioni che precedono, il referendum sull’art. 579 c.p. assume il significato di una integrazione e un completamento della giurisprudenza costituzionale sull’art. 580. In altre parole, si tratta di far cadere l’artificiosa barriera tra suicidio come atto compiuto, anche materialmente, dalla persona che non vuole più vivere ed eutanasia, che, a parità di volontà libera e consapevole, tende allo stesso risultato con l’intervento attivo di un terzo, che si pone come mero strumento della volontà suicidaria. Nella prospettiva referendaria, ciò che conta è la piena libertà della volontà della persona interessata, indipendentemente dal “mezzo” di cui si serve per realizzare il suo intento. L’applicazione delle condizioni poste dalla Corte per il suicidio assistito non sarebbe frutto di interpretazione analogica, ma l’effetto di una originaria conformazione della fattispecie post-referendaria dello stesso art. 579, una volta eliminato il vincolo assoluto e generale dell’indisponibilità della vita e sostituito - com’è evidente dalla logica della normativa di risulta - con vincoli specifici e relativi, in funzione di tutela di valori costituzionalmente sanciti. Sarebbe errato quindi ritenere che l’abrogazione referendaria farebbe espandere l’area di applicabilità del reato di omicidio di cui all’art. 575 c.p Si tratta di un quesito referendario che si pone nel solco di grandi referendum del passato, che implicavano scelte di civiltà etica e giuridica (divorzio, aborto) ed hanno dimostrato che i cittadini italiani sono meno condizionati da suggestioni confessionali o ideologiche di quanto supponessero i “benpensanti”. Non si tratta neppure di un referendum manipolativo, nel senso - stigmatizzato dalla Corte - dell’utilizzazione di spezzoni di frasi, singole parole o particelle, in sé e per sé privi di significato, ma volti ad introdurre normative nuove, del tutto indipendenti dai testi originari. L’esito positivo del referendum non precluderà certamente al legislatore la possibilità di costruire una riforma organica di tutto il complesso di princìpi, regole e rapporti, personali e istituzionali, collegati alla tematica generale del fine vita. Il binario tracciato dal referendum potrà essere soltanto il rispetto del supremo principio di autodeterminazione dell’individuo, nucleo duro di una cultura liberale finalmente non più compressa da diversi organicismi, religiosi o ideologici. Il principio supremo non può che essere: vivere in unione con gli altri, senza annullare la propria individualità, base ineliminabile perché abbia un senso parlare di libertà e di democrazia. *Ex presidente della Corte Costituzionale Suicidio farmacologico assistito o diritto a morire rapidamente e con dignità? di Paola Ferrari Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2022 Suicidio farmacologico assistito o terapia palliativa terminale? Esiste il diritto alla morte che libera dal dolore ed esiste il diritto a che lo Stato liberi dal dolore? Quando la persona può decidere di uscire dalla propria vita contando sul supporto di un medico che lo liberi dal dolore della morte? È il tema che in questi giorni divide l’Italia e che ha visto l’associazione Luca Coscioni in prima linea in una lunga battaglia giudiziaria a sostegno di un paziente tetraplegico che aveva l’espresso la volontà di interrompere le cure e di giungere ad una morte rapida attraverso un’accelerazione farmacologica. Il Comitato Tecnico del farmaco dell’azienda sanitaria delle Marche, con relazione del 4 febbraio, ha affermato che il farmaco “Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi”, proposto dal cittadino, è “idoneo a garantire la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile virgola compresa la somministrazione di un farmaco”. Si tratta di suicidio oppure di sedazione terminale profonda con un farmaco solo più efficace? Se le questioni di principio possono essere distanti quando il confronto si fa con il dolore di una vita lucida non vissuta e dolorosa il crinale si fa molto più stretto e scivoloso. I fatti Mario, nome di fantasia, ha 43 anni e da dieci anni vive immobile e paralizzato a causa di un incidente stradale che gli ha procurato una frattura della colonna vertebrale. È mantenuto in vita grazie a macchinari e trattamenti di sostegno vitale. Soffre di un’assoluta compromissione di tutte le funzioni corporali di base al punto da richiedere sostegno manuale anche per gli elementari bisogni di evacuazione. Sostegni che se non messi in atto porterebbero comunque alla morte ma passando per atroci dolori. Vuole esercitare il suo diritto a interrompere le cure ma chiede di morire rapidamente con una terapia “efficace e non dolorosa”. La sedazione profonda classica risulterebbe insufficiente. Il percorso del diritto Mario afferma il suo diritto sulla scorta della decisione della Corte Costituzionale 242/2019 emessa sulla nota vicenda che vide coinvolto Mario Cappato, noto dirigente dell’associazione, a seguito della morte di DJ Fabo. In quella circostanza, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale (istigazione a suicidio), affermò che la declaratoria di incostituzionalità attiene non a qualsiasi istigazione al suicidio ma in modo specifico e esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero, alternativamente, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza. L’art. 580 cod. pen. fu dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. L’accertamento è necessario per evitare che il sanitario che lo sostiene in questo progetto possa essere accusato deontologicamente e penalmente. Dopo avere chiesto all’Asl di Ancona di essere liberato dalla vita diventata secondo lui una tortura intollerabile e avendone ottenuto un rifiuto, Mario si rivolse in via d’urgenza al Tribunale di Ancona affinché fosse accertato il suo diritto alla somministrazione del farmaco “Tiopendone sodico” nella quantità di 20 grammi un barbiturico utilizzato come agente anestetico per procedure chirurgiche. Il Tribunale di Ancona, con ordinanza del 26/03/2021, respinse la richiesta per quanto riguardava l’aiuto della struttura sanitaria alla prescrizione e somministrazione del farmaco ma accolse la richiesta di valutazione delle condizioni cliniche e del percorso terapeutico suggerito dal cittadino. La Corte Costituzionale, secondo il tribunale marchigiano, affermava il diritto del singolo a porre fine alla propria vita ma non anche il diritto di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza. Contro questa decisione fu proposto reclamo al collegio che valorizzò un altro punto della controversia e cambiò la decisione del giudice monocratico. Si tratta di stabilire, afferma il giudice di Ancona, fino a che punto può essere valorizzato e garantito il diritto all’autodeterminazione del malato nelle scelte e nelle terapie, nel caso in cui il quadro patologico sia ormai irreversibile. Occorre comprendere, prosegue, in assenza di una disciplina puntuale, se tra le libertà del paziente desumibili dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma della Carta Fondamentale, vada annoverato il diritto alla liberazione delle sofferenze nel più breve tempo possibile oppure il diritto a morire rapidamente e con dignità con conseguente diritto “a ricevere un aiuto nel morire”. Il Tribunale marchigiano, in sintesi, affermò che il paziente aveva il diritto non di pretendere l’assistenza attiva ma di pretendere dall’azienda sanitaria regionale della Marche l’accertamento delle sue condizioni di salute al fine di verificare se vi fossero i presupposti richiamati nella sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo e la verifica sull’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco (Tiopendone sodico la quantità di 20 grammi) prescelti dall’istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile. Il fragile equilibrio tra eutanasia e palliazione C’è da chiedersi se quello che chiede Mario sia effettivamente un suicidio oppure più semplicemente l’accompagnamento alla morte attraverso una tecnica, seppure potente, di sedazione palliativa con un farmaco diverso e più rapido e potente di quelli normalmente utilizzati a tale scopo. Il paziente è in una condizione di accanimento terapeutico. Senza macchine e liberazione fisiologica manuale non può vivere. Interrompere le cure porterebbe comunque e inevitabilmente alla morte naturale, come in tutte le malattie terminali ma la morte giungerebbe lucidamente e tra atroci dolori. La differenza è solo nel farmaco utilizzato per sedare il paziente ed accompagnarlo nella sua naturale morte. Ad avviso di chi scrive, la richiesta di Mario non è di essere ucciso, ma solo di essere sedato rapidamente per essere staccato dalle procedure di assistenza e andare via senza dolore. Un distinguo etico di non poco conto che si fonda sul punto di partenza del malato destinato o meno ad una morte comunque certa. Un malato che avrebbe diritto comunque alla sedazione profonda. Il farmaco scelto si distingue solo per la sua rapidità d’azione. Nella “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita del 22/09/2020 si afferma che “sotto il profilo clinico, i fattori che maggiormente determinano la domanda di eutanasia e suicidio assistito sono il dolore non gestito e la mancanza di speranza, umana e teologale, indotta anche da una assistenza umana, psicologica e spirituale sovente inadeguata da parte di chi si prende cura del malato”. Il Magistero della Chiesa ricorda che “quando si avvicina il termine dell’esistenza terrena, la dignità della persona umana si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”. Prosegue, “nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati “non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte” o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria”. Principio fondamentale e ineludibile dell’accompagnamento del malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali. In particolare, una cura di base dovuta a ogni uomo, afferma il documento, “è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale] a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente”. Un profondo senso religioso può permettere al paziente di vivere il dolore come un’offerta speciale a Dio, nell’ottica della Redenzione, tuttavia, prosegue il documento “la Chiesa afferma la liceità della sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile e nelle migliori condizioni interiori. Questo è vero anche nel caso di trattamenti che avvicinano il momento della morte (sedazione palliativa profonda in fase terminale), sempre, nella misura del possibile, con il consenso informato del paziente. Dal punto di vista pastorale, è bene curare la preparazione spirituale del malato perché arrivi coscientemente alla morte come all’incontro con Dio. L’uso degli analgesici è, dunque, parte della cura del paziente, ma qualsiasi somministrazione che causi direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è inaccettabile. La sedazione deve dunque escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla morte comunque inevitabile”. I termini, in questo contesto sono importanti. Quando si parla di “suicidio” si parla della scelta deliberata di una persona di mettere fine alla propria vita a prescindere dalla malattia quando, al contrario, si parla di “eutanasia” si parla del diritto di un paziente gravemente malato di morire naturalmente ma di alleviare il dolore attraverso l’impiego di mezzi per alleviare la sofferenza (per esempio: l’uso di morfina) causa, come effetto secondario, la diminuzione dei tempi di vita. Le modalità di accertamento di questo confine non sono semplici, coinvolgono valutazioni etiche che non possono e non devono essere ignorate come non può essere ignorato il diritto della persona gravemente compromessa ad andare via senza dolore. Ucraina, la lezione dei missili di Cuba di Paolo Garimberti La Repubblica, 14 febbraio 2022 Anche nella crisi del 1962 la tattica degli Stati Uniti fu anticipare le mosse dei sovietici, rendendo pubbliche le informazioni dei servizi segreti. Può sembrare un paradosso. Ma Vladimir Putin sta facendo un favore a Joe Biden, il cui tasso di consenso interno era sceso al livello di quello bassissimo di Jimmy Carter. Assediando l’Ucraina, alzando ogni giorno il frastuono dei tamburi di guerra, che la Casa Bianca fa riecheggiare puntualmente in tutto il mondo amplificandoli al punto da infastidire perfino il governo di Kiev, il presidente russo ha finito per ricompattare l’Occidente, obbligando anche i “malpancisti”, come i governanti francesi e tedeschi, e i riluttanti, come quello italiano, a schierarsi per la linea dura e a seguire la leadership americana. A Biden questa postura da “guerriero della guerra fredda”, che scolora, anche se non cancella, il disastroso ritiro dall’Afghanistan, giova nei sondaggi. La sua linea sulla crisi ucraina ha un gradimento tra i democratici quasi doppio di quello riferito alla sua presidenza. Ma lo fa salire anche tra i repubblicani, specie perché ha promesso che non invierà soldati americani a morire per Kiev. E gli americani non sopportano più l’idea dei loro figli che tornano in sacchi di plastica, dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan. Mentre sul piano internazionale “America is back”, lo slogan dell’era post-trumpiana, è tornato ad avere un significato, dopo essere apparso a lungo soltanto uno slogan. Perfino l’Alleanza atlantica, di cui Emmanuel Macron aveva dichiarato la “morte cerebrale”, sembra essersi rianimata sotto la spinta della minaccia russa nel cuore dell’Europa. L’ossessione di Putin (avere la Nato alla porta di casa, cioè in Ucraina, e nel giardino, i Paesi ex satelliti del defunto Patto di Varsavia) sta diventando una tenda a ossigeno per Biden. D’altra parte questa crisi ucraina ripropone scenari da guerra fredda vecchia maniera. Ed è proprio in quel periodo che il presidente americano e il suo team diplomatico e di sicurezza si sono formati e sembrano trovarsi a loro agio, a differenza di quello che accadde a Barack Obama, silente fino ad apparire acquiescente, quando la Russia inghiottì la Crimea e aprì l’infinita crisi ucraina. Perciò può essere utile rileggere due “test match”, come si direbbe nel rugby, della guerra fredda per capire azioni e reazioni di una vicenda che tiene il mondo con il fiato sospeso, ma che appare estranea al tempo in cui viviamo. Anche perché ci sono in entrambi i casi analogie davvero impressionanti. La prima è la crisi dei missili a Cuba dell’ottobre del 1962, che ha riempito libri di storia e ispirato una sorta di docufilm, Thirteen Days, basato sui “Kennedy Tapes”, i documenti della Casa Bianca sui tredici giorni che tennero il mondo nell’incubo di un conflitto nucleare. Nikita Krusciov era convinto di avere in pugno il giovane John Kennedy, che aveva incontrato e umiliato in un bilaterale a Vienna. Invece il presidente americano e soprattutto il fratello Bob, la vera mente negoziale, finirono per piegare Mosca e alla fine Krusciov giustificò la ritirata usando la scusa che i missili, che voleva installare a Cuba, servivano a “impedire agli Stati Uniti di rovesciare il governo cubano”. La chiave tattica dei Kennedy fu di anticipare le mosse dei sovietici, rendendo pubbliche le informazioni dei servizi segreti. Il New York Times ha osservato l’analogia con l’attuale crisi in Ucraina dove stiamo assistendo “al più aggressivo rilascio di informazioni dell’intelligence dai tempi della crisi dei missili a Cuba”. La Casa Bianca ha reso di pubblico dominio i movimenti delle truppe russe, i piani per costruire un video di false atrocità che potrebbero servire da pretesto per un intervento, progetti di un golpe per mettere a Kiev un governo filo-russo, le stime sul possibile numero di morti e perfino presunti dubbi di alti funzionari e militari russi sulla strategia di Putin. Una tattica di guerra psicologica che, a giudicare dalle reazioni russe, ha fortemente innervosito il Cremlino. Il secondo caso da guerra fredda che presenta forti analogie con la situazione attuale è quello della Polonia nel 1980, quando le azioni di Solidarnosc, il sindacato creato da Lech Walesa, misero in crisi il debole governo di Varsavia e spinsero l’Urss di Breznev a un accerchiamento a tenaglia, proprio come la Russia di Putin oggi con l’Ucraina: 400mila soldati sovietici alla frontiera orientale tra Urss e Polonia, più alcune divisioni della Germania dell’Est e della Cecoslovacchia alla frontiera occidentale. Anche in quella occasione l’Occidente minacciò durissime sanzioni economiche per l’Urss e, nonostante i tentennamenti della Francia di Valéry Giscard d’Estaing e della Germania di Helmut Schmidt, gli Stati Uniti tennero duro finché l’Urss non rinunciò all’intervento, temendo i rischi militari (simili a quelli dell’Ucraina di oggi) e le conseguenze delle sanzioni. La storia quasi mai si ripete. Ma rileggere il passato è quasi sempre utile per capire il presente. Specie se i protagonisti sono gli stessi, anche se cambiano gli interpreti. La ritirata da Kabul premessa dell’incubo di Kiev: la superpotenza americana si scopre più fragile di Domenico Quirico La Stampa, 14 febbraio 2022 Mosca ne approfitta, sa che rischia poco dalle sanzioni. E gli ucraini non si fidano: l’Occidente ci abbandona. Che cosa è rimasto della deflagrazione dell’agosto dello scorso anno a Kabul, della indecente ritirata americana lasciando dietro armi e bagagli, ovvero trenta milioni di esseri umani? Apparentemente nulla. Spente le accuse e le recriminazioni, sì ogni tanto di fronte a qualche eccesso talebano il ricordo brucia ancora le labbra, anche in America le polemiche per la ritirata fanno la muffa nella penombra delle cose da non dire. La sconfitta come tutte le sgradevoli verità non suscita primati di popolarità. E poi adesso si parla di guerra in Europa, il Donbass, le pianure ucraine così secolarmente spalancate agli invasori: gli unni, i mongoli, i barbari, i russi versione putiniana. Diamine! Rifiutata, ricusata, vituperata e archiviata, la guerra nel vecchio continente benpensante e soddisfatto rifiorisce con le sue sporadi e i suoi fermenti. E può insanguinarci più liberamente. Ma non ci avevano garantito nel 1989 che... altro che Afghanistan! Lì della guerra si poteva parlare in modo cerimonioso, srotolando spirituali questioni geopolitiche: appunto perché era lontanissima. A qualche centinaio di chilometri da Vienna o Trieste è tutt’altro che un tropicalismo. Ci prende il panico, entriamo in un circolo vizioso. Anche perché a spazzar via le rare obiezioni che chiedono di percorrere silenziose e appartate vie diplomatiche, farfugliate solo da Parigi e Berlino (a proposito non c’è qualcosa che ricorda lo scenario che precedette la seconda guerra irachena?) a alzare i toni e a far chiasso, a garantire, parola della Cia, che la guerra ci sarà sono proprio gli americani. Hanno fissato perfino la data dell’attacco russo. Le loro previsioni funeste tuonano, ci assordano, si riempiono senza requie la bocca della sacrilega parola guerra e sembrano aver perso il senso della misura. E se le premesse dell’incubo ucraino fossero state fissate proprio nella remota Kabul? Gli encomiasti dell’americano impero riluttante forse non ne hanno tenuto conto. Ma non è stato proprio lì, in un Paese devastato, dove tra le rovine nonostante gli americani si sono reinsediati i più delinquenti, i più fanatici, che si è rivelata una mutazione forse essenziale nei rapporti di forza, se non addirittura una rivoluzione nell’idea stessa di chi va considerato forte e di forza? Questa era stata la intuizione immediata, a caldo, se volete da spettatori planetari, di quella incredibile sconfitta che consegnava al nemico un popolo a cui l’Occidente aveva garantito, giurato aiuto e protezione. Dall’oggi al domani la superpotenza si era scoperta nuda, fragile, egoisticamente vile e soprattutto lo aveva ammesso. Tutto andava per aria. Il potere devastatore si era rivelato inutile, perché si abbassava a fare calcoli e si raggrinziva. A Washington e in Occidente abbiamo interpretato, manipolato, disinfettato il cattivo esempio. Altri invece hanno iniziato a riflettere. Se è accaduto a Kabul perché quella folgorante manifestazione di impotenza e di rassegnazione non potrebbe estendersi ad altri luoghi dello scacchiere mondiale? E se fosse venuto il momento di costringere gli americani a metter le carte sul tavolo per vedere se dispongono ancora di re ed assi o solo di scartini? Putin è, forse, tra costoro. Anche perché al contrario degli scalcinati taleban in ciabatte custodisce negli arsenali i missili e le bombe che fino a qualche tempo fa rendevano la Guerra, quella definitiva e apocalittica, impossibile. Davvero l’accasciato Biden, che cerva di restare a galla in una democrazia emotiva che ancora per metà lo ritiene un presidente baro e illegittimo, sarebbe disposto (o meglio, avrebbe il consenso necessario) per chiedere ai ragazzi americani di morire per Karchov? Il minaccioso chiasso della Casa Bianca in questi giorni ha un odore acuto di labilità nervosa, emanata da animi irresoluti. Gli Stati Uniti del terzo millennio non assomigliano forse alla Gran Bretagna dell’inizio del Novecento, alla vigilia (diamine!) della Grande Guerra? Ovvero una potenza apparentemente intatta ma che comincia ad accorgersi, con angoscia, dei segnali del declino economico e geopolitico; mentre nuove potenze in ascesa, la Cina con l’economia, la Russia con gli arsenali e i mercenari, sono impazienti di afferrare la loro parte di bottino? Ancor più rapidamente che per l’impero britannico la posizione di primato mondiale si è dimostrata per loro logorante. La presidenza incerta, visibilmente e umanamente senescente, di Biden scolpisce con amara evidenza una condizione che neppure il mito di una tecnologia militare, apparentemente gratuita e onnipotente, può correggere. Un primo esempio, e ancora non si era sopraffatti dallo choc afghano, è stata la Crimea: retrocessa nel dimenticatoio, accettata come fatto compiuto al modestissimo prezzo, per Putin, di sanzioni che nella storia non hanno mai fermato nessun prepotente. Semmai offerto un velo alla impotenza degli ipocriti. Dunque si può tentare di mordere un sopruso più grande: l’Est della Ucraina, russofilo e forse filorusso. La fata bellicosa di una annessione? Forse no, semmai un mezzo per imporre a Kiev e all’Occidente la finlandizzazione di Kiev, altro dimenticato congegno della Guerra fredda che dovremmo ripassare: ovvero una specie di neutralità, una anchilosi che lascia margini di auto governo ma con linee e obblighi in politica estera che non si devono mai superare. Dove più che le cose dette pesano le reticenze. In fondo l’Ucraina con i suoi oligarchi miliardari e corrotti e dove i leader dell’opposizione che rischiano processi e galera non assomiglia più ai vizi della democrazia autoritaria di Mosca che all’Occidente? Putin sa già che, qualunque sarà la sua mossa, non rischia molto: le pesantissime sanzioni, l’unica replica annunciata da Biden all’invasione. Consistono in una scomunica del sistema economico e bancario russo e una sorta di deconnessione finanziaria sul modello di quella applicata all’Iran tra il 2012 e il 2018 (che non ha strangolato gli ayatollah). Non abbastanza per spaventare Putin che ha nel frattempo ridotto la quota del dollaro nelle riserve russe e creato un sistema autarchico di trasferimento tra banche e imprese. Nel montare della angoscia e degli annunci di guerra i più tranquilli, o rassegnati, sembrano proprio gli ucraini. Conoscono bene i russi. E hanno imparato a conoscere il blah blah astratto degli occidentali. Che promettono sempre molte cose, entrare nell’Unione europea, lo scudo della Nato, e poi non mantengono mai le promesse. Loro, sì, hanno letto la lezione di Kabul. Nessuno, se e quando verrà il momento, li difenderà davvero.