In attesa del futuro Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Luigi Pagano* Ristretti Orizzonti, 13 febbraio 2022 In attesa che la Ministra Cartabia sciolga il dubbio su chi sarà il futuro Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fervono i pronostici, gli identikit, le dichiarazioni di sostegno a potenziali candidati che si ritiene siano i più capaci a ricoprire un ruolo del genere. Stavolta, si dice, la Ministra non può sbagliare nella scelta, la situazione nelle carceri oscilla tra confusione e dramma determinando l’impressione che si navighi a vista nonostante la pandemia ancora imperi, il sovraffollamento sia ormai divenuto endemico, i suicidi siano all’ordine del giorno e il personale abbia iniziato a far trapelare la propria profonda insoddisfazione. Tutte le persone di cui si fa i nomi hanno ottime credenziali da vantare (fondate, comunque, su quanto hanno realizzato nell’ambito della loro attuale professione), ma credo che prima di dire “questa è la persona giusta” si debba non solo avere bene in mente che carcere si vuole, ma anche come si intenda operare, nei fatti, per realizzarlo. Preciso: a quali principi debba ispirarsi il carcere ce lo dice la Costituzione e la legge di riforma varata nel 1975 ne è la traduzione normativa, da allora, però, sono trascorsi circa 47 anni ed è convinzione comune che essa sia rimasta in buona parte inattuata. E la realtà non può smentirla. Cosa le sia successo è presto detto, basta contare le volte, 60 circa dal suo varo a oggi, che il legislatore è intervenuto a modificarla, fluttuando tra letture diametralmente opposte sulla funzione preminente da attribuire alla detenzione. Dopo appena due anni dalla sua promulgazione, nel 1977, vengono istituite le carceri di massima sicurezza, peraltro derogando alla legge con un decreto interministariale, ma nel 1986, con la legge Gozzini le si abolisce, si introduce nella normativa l’istituto dei permessi premio, nuove misure alternative e si eliminano le preclusioni al loro accesso prima previste per taluni titoli di reato. Il tempo di fare i conti con queste rilevanti novità - e con il nuovo codice di procedura penale e la riforma del corpo di polizia penitenziaria nel frattempo subentrate - che già giunge l’ora di cambiare ancora. I decreti legge varati tra il 1990 e il 1992 per fronteggiare la recrudescenza del crimine organizzato, dopo svariate formulazioni arrivano, infine, a stabilire il divieto alla concessione dei benefici penitenziari per coloro che sono condannati per reati di mafia o assimilati, a meno che non collaborino con la giustizia, di fatto abrogando per loro la legge Gozzini L’esigenza successiva è quella di differenziare l’apparato penitenziario creando un circuito “speciale” che comprende, in prevalenza, imputati e condannati per i reati inerenti la delinquenza di stampo mafioso e uno “ordinario” composto dal rimanente 80% dei 44.000 detenuti in quel momento presenti. Si sostenne, allora, che una scelta del genere fosse uno scotto necessario non solo per fronteggiare le associazioni criminali e mettere in sicurezza le carceri, ma anche per salvaguardare il regolare svolgimento della vita penitenziaria e le attività trattamentali per la popolazione detenuta considerata meno pericolosa. Non v’è ragione di dubitare che gli intenti fossero questi, ma la storia seguì un altro verso. Lo ammette lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quando, dopo la prima condanna Cedu all’Italia del 2009 per trattamento “inumano e degradante”, in una circolare del 2011 riconosce in tutta onestà che i detenuti comuni risultavano essere le persone maggiormente penalizzate dallo stato delle carceri, paradossalmente ancor più dei ristretti nelle sezioni d’alta sicurezza. Mentre per questi, infatti, erano state previste, si legge, <>. Ovvero, il perimetro vitale posto a disposizione dei detenuti comuni, per buona parte della giornata e in troppe strutture penitenziarie, era quello della cella, un perimetro ristretto che con l’aumentare delle presenze diveniva sempre più angusto tanto da sfidare lo stesso principio fisico della impenetrabilità dei corpi. Le misure adottate, al riguardo, però, non sortirono effetti duraturi né lo ebbero quelle prese dopo l’ulteriore condanna subita nel 2013, nonostante gli impegni presi con la Cedu, nonostante gli Stati Generali, occasioni perse per una reale trasformazione. Il carcere resta quello che il Presidente Napolitano, nel 2013 a proposito della sentenza Cedu sul caso Torreggiani, definì, in una lettera indirizzata al Parlamento e letta nel deserto delle aule, “una questione scottante... una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Ecco da cosa nasce la mia domanda: che carcere si vuole allora? Come lo immaginano i politici, posto che né la destra né la sinistra possono dichiararsi del tutto innocenti rispetto alla situazione attuale e su di loro, oltre che la poca chiarezza di intenti, gravano anche altre responsabilità. Una è relativa proprio alle nomine del capo Dap, scelta ricaduta sino a oggi solo su magistrati, ma pur riconoscendone i meriti che si sono conquistati nella loro attività, è legittimo o no chiedersi quale competenza specifica essi avessero acquisito per reggere un’amministrazione e un’amministrazione come quella penitenziaria? Il carcere è struttura complessa, in cui operano svariate professionalità, che il caos di questi anni ha messo quasi le une contro le altre, è confrontarsi con le organizzazioni sindacali, gestire risorse umane e materiali, è sapere di contabilità e di medicina. Non si vuole affermare, ben inteso, che la situazione attuale sia colpa di chi ha diretto le carceri, bensì che non si può prendere tempo per fare esperienza quando è necessaria una guida che quelle difficoltà le conosce e sappia come affrontarle. Certo, è ovvio che le cose via via si apprendono se si ha voglia di calarsi nella realtà, ma poi succede che, quando finalmente si è giunti a capire, con la nomina di un nuovo ministro il capo Dap venga sostituito da un giorno all’altro...con altro magistrato. E si ricomincia daccapo quasi che l’amministrazione penitenziaria sia condannata a dover improvvisare, per volontà divina. Dal 1993 si contano 13 capi del DAP e tre reggenti, per lo più nomine slegate da ogni progettualità e prive di una linea di continuità con le precedenti gestioni. Prima di ogni cosa, allora, vanno identificate le cose da fare e realisticamente realizzabili e solo dopo scegliere la/le persona/e adatte per questo compito. In un’ottica del genere spero si possa guardare anche a una categoria che il carcere lo conosce bene perché amministrarlo è il suo mestiere. Mi riferisco alla dirigenza penitenziaria che nelle passate, illogiche, scelte di vertice, non solo non è mai riuscita a ottenere la guida del Dap, salvo episodiche reggenze, ma ci ha rimesso anche il posto da vice capo che tanto riusciva a dare in termini di suggerimenti d’esperienza a chi ne era digiuno. A questa dirigenza, e ovviamente al personale che con la stessa ha collaborato in periferia, si deve la tenuta delle carceri e la realizzazione, stupefacente constatata la friabilità del contesto, di progetti di alto spessore che resistono nel tempo e tuttora sono citati a esempio come “best practice”. Io credo che la soluzione ai suoi dubbi la Ministra possa trovarla in seno al Dipartimento, dando fiducia ai suoi operatori, un gesto che comporterebbe anche una crescita di tutta l’organizzazione in termini di responsabilità e di gestione. È una speranza, è un augurio o, forse, solo un invito a discutere fuori degli abituali schemi. *Luigi Pagano è stato tra l’altro direttore di Milano San Vittore, ha ricoperto diversi incarichi dirigenziali come Provveditore Regionale, nonché come Vice-Capo Dipartimento. Autore del libro “Il Direttore”, oggi è in pensione e collabora con l’Università Milano Bicocca Carceri da suicidio. La dignità cancellata di David Allegranti La Nazione, 13 febbraio 2022 Oltre cinquanta volte deputati e senatori hanno interrotto il Mattarella con scroscianti applausi. La parte meno applaudita è stata proprio quella sui penitenziari. Nei primi 40 giorni dell’anno ci sono stati dieci suicidi nelle carceri italiane. L’ultima è una giovane donna a Messina. A questi suicidi vanno aggiunti anche quattro decessi “per cause ancora da accertare”. Come osserva il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, “sono numeri che non possono non allarmare e che evidenziano una netta crescita rispetto agli ultimi anni. Le Istituzioni dello Stato, compreso il Garante nazionale, hanno il dovere di dare una risposta tempestiva alle esigenze specifiche e alle vulnerabilità delle persone private della libertà”. Per questo “occorre con urgenza riavviare un dialogo produttivo sull’esecuzione penale detentiva e trovare soluzioni alle tante difficoltà che vivono le persone ristrette e chi negli Istituti penitenziari opera. Così come occorre trovare risposte effettive alla criticità dell’affollamento, situazione accentuata dalla pandemia”. In molti, durante il discorso di re-insediamento di Sergio Mattarella, si sono spellati le mani. Oltre cinquanta volte deputati e senatori hanno interrotto il presidente della Repubblica con scroscianti applausi, tutto un bene bravo bis. La parte meno applaudita, come ricordato su queste colonne nei giorni scorsi, è stata proprio quella sul carcere: “Dignità è un Paese dove le carceri non siano sovraffollate e assicurino il reinserimento sociale dei detenuti. Questa è anche la migliore garanzia di sicurezza”, ha detto il capo dello Stato. I numeri dei suicidi e lo stato di malessere psichico nelle carceri italiane - di cui si parla troppo poco - dovrebbe indurre la politica a ridurre il numero degli applausi e delle chiacchiere per portare a termine un lavoro ben fatto (o almeno fatto). A partire dalla mancata riforma dell’ordinamento penitenziario. Probabilmente non basterebbe: servirebbe una riforma del nostro modo di pensare. Quante volte leader politici con responsabilità importanti hanno detto che bisogna mettere la gente “in galera” e poi “buttare via la chiave”? Il capo del Dap, Bernardo Petralia, magistrato antimafia, si è appena dimesso, con un anno di anticipo. Ha 69 anni, gli è nata una nipotina, è diventato nonno e dice che vuole passare più tempo con la famiglia. Congratulazioni e tanti cari auguri. “Delle volte ho difficoltà a dormire per quello che vedo: detenuti che parlano di acqua calda e di un water come fossero lussi”, ha spiegato di recente Petralia. Vedere con i propri occhi è sempre istruttivo. Vale per il giornalismo, ma anche per la politica e la stessa magistratura. Marta Cartabia, da presidente della Corte costituzionale, portò i magistrati nelle carceri italiane. Forse un giro non occasionale negli istituti penitenziari servirebbe anche a quei politici che vogliono “buttare via la chiave”. Potrebbe aiutarli a straparlare meno. Giustizia, si torna subito a litigare di Francesco Grignetti La Stampa, 13 febbraio 2022 Era prevedibile, perché la giustizia è un campo di battaglia da trent’anni e anche stavolta non fa eccezione. Così non si è ancora spenta l’eco del consiglio dei ministri di venerdì, dove le proposte di Marta Cartabia sono state discusse in extremis per l’intera mattinata, salvo uscirne con l’unanimità dei ministri, e il giorno dopo si ricomincia a litigare. Forza Italia, infatti, ha immediatamente rimesso in discussione il punto di equilibrio. “Il sistema elettorale per i togati non va bene, lo correggeremo in Parlamento”, dice Antonio Tajani, intervistato a Rainews 24. Ma se si cambia un pilastro della riforma, si rimette in discussione tutto. E il Pd è fermissimo nel richiamare gli altri partner della maggioranza. “Ribadiamo a Tajani - scrive su Twitter la vicepresidente dem del Senato e responsabile Giustizia, Anna Rossomando - che mettere in discussione la legge elettorale per il Csm significa mettere in discussione tutta la riforma. Proporre il sorteggio, un metodo incostituzionale, vorrebbe dire vanificare il lavoro di mesi. Ieri c’è stato un Cdm, non un pourparler”. Il dramma è che sulla giustizia si giocano alcune partite identitarie che è ben difficile archiviare. Forza Italia, per dire, è preoccupata che la battaglia contro i magistrati gli venga scippata dalla Lega. Quindi è quasi giocoforza che sentano di dover alzare la voce. Il Pd, all’opposto, teme di aver concesso già troppo e non ci sta a ulteriori sconvolgimenti. E quindi, se ci dovrà essere qualche aggiustamento parlamentare, come anche Mario Draghi ha lasciato intendere, dovrà riguardare aspetti secondari certo non l’architrave del sistema. A riaprire la discussione sul sistema elettorale per i magistrati, che è il cuore del problema, e a caldeggiare il sistema del sorteggio temperato, oltre quelli di Forza Italia, si potrebbero aggiungere i voti della Lega e quelli di Fratelli d’Italia. E che faranno i centristi? E i renziani, i quali hanno il dente avvelenato con la magistratura per i noti problemi del senatore Matteo Renzi? E gli ultragarantisti di Azione o quelli di +Europa, che fiancheggiano addirittura il referendum sulla separazione delle carriere? Persino i grillini avevano ipotizzato il sorteggio temperato, che è peraltro l’opzione preferita dall’area di magistrati che è più ascoltata nel M5S. La partita che si va aprendo può avere esiti impensati, insomma. Ne è consapevole il forzista Pierantonio Zanettin, che sente odore di vittoria e perciò usa toni suadenti: “Il sorteggio (temperato) non contrasta con l’articolo 104 della Costituzione perchè i candidati vengono sempre e comunque votati dai magistrati. Del resto, la stessa Anm ne è consapevole avendo sottoposto a referendum consultivo tra i suoi iscritti la nostra proposta. Con tutta evidenza una proposta incostituzionale non avrebbe neppure avuto dignità di dibattito”. Di contro, è allarmatissimo il dem Alfredo Bazoli: “Fanno finta che non ci sia stato un Consiglio dei ministri che ha approvato la riforma. È come dire che abbiamo scherzato”. Avverte: se si vuole portare a casa la riforma, si eviti di alzare continuamente l’asticella e ci si predisponga “ad un lavoro costruttivo in commissione che parta dallo schema approvato dal governo, non che lo stravolga”. Csm a sorte e carriere separate: destre già all’assalto di Cartabia di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2022 La riforma della ministra. Scontro Forza Italia e Lega, presentano gli emendamenti per stravolgere la norma. Pd: “Così si vanifica tutto”. Modifica della norma sulle porte girevoli, separazione delle funzioni tra magistrati giudicanti e inquirenti e sistema elettorale non più maggioritario con collegi binominali, ma con sorteggio, anche se “temperato”. Non sono passate nemmeno 48 ore dall’approvazione della riforma del Csm firmata Marta Cartabia, che il centrodestra va già all’assalto della norma approvata venerdì, all’unanimità, in Consiglio dei ministri. Ad alzare le barricate contro la ministra della Giustizia è soprattutto Forza Italia, che venerdì mattina, in pre-Consiglio, aveva addirittura minacciato il premier Draghi di non votare la riforma senza le modifiche richieste. Poi i tre ministri Renato Brunetta, Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, dopo una lunga trattativa tra Silvio Berlusconi e gli emissari del premier, hanno detto “sì” ottenendo in cambio l’impegno del governo a non mettere il voto di fiducia e quindi dare la possibilità al Parlamento di approvare qualche modifica. E così sarà, a partire da mercoledì, quando inizierà l’iter della riforma in commissione Giustizia alla Camera. Peccato che le richieste di Forza Italia e Lega non siano “minime”, ma andrebbero a stravolgere l’intero impianto della norma. Rischiando di spaccare la maggioranza. Gli emendamenti firmati dai berluscones sono stati inseriti, in maniera alquanto irrituale, in un documento di tre pagine fatto allegare da Forza Italia al verbale del Consiglio dei ministri. Come dire: noi votiamo il testo, ma sia messo agli atti che non lo condividiamo in toto. E così nelle premesse del documento, i forzisti definiscono la riforma Cartabia sul Csm “un testo base” che “deve essere affidato agli approfondimenti parlamentari”. Per questo, si legge, “va garantita la non apposizione del voto di fiducia” per “lasciare spazio alle sensibilità da parte di ciascun gruppo”. Gli emendamenti che Forza Italia presenterà in commissione sono tre. Il primo, il meno spinoso, riguarda la modifica della norma sulle porte girevoli tra magistratura e politica: i berlusconiani sollevano difetti di forma nella norma e parlano di “perplessità lessicali ed interpretative”. Il secondo emendamento proposto da FI invece è quello sulla “separazione delle funzioni” tra magistrati giudicanti e inquirenti. Una storica battaglia berlusconiana. Non sarebbe una vera e propria “separazione delle carriere” (come prevede uno dei quesiti referendari di Lega e Radicali) perché per quella servirebbe una norma costituzionale che non ha alcuna possibilità di passare, ma quasi. Nella normativa attuale pm e giudici possono cambiare funzioni per quattro volte nella propria carriera, il testo originario di Bonafede li limitava a due mentre FI chiede una versione più hard: il magistrato potrà cambiare funzione solo una volta nei primi cinque anni di carriera, poi mai più. Una separazione delle carriere mitigata, insomma. E su questa proposta la battaglia politica tra le forze di maggioranza potrebbe diventare durissima anche se da FI assicurano di avere già avuto garanzie da Cartabia che dovrebbe dare parere favorevole. L’ultima richiesta riguarda il sistema elettorale: gli azzurri chiederanno un sorteggio temperato (si sceglie tra gli estratti) al posto del meccanismo previsto dalla norma, cioè un sistema maggioritario con collegi binominali anche se con un correttivo proporzionale. Anche la Lega condivide la proposta con FI. “Così il sistema elettorale non va” ha detto Antonio Tajani ottenendo la risposta stizzita del Pd. “È incostituzionale, si vanifica la riforma” replica la responsabile giustizia dem Anna Rossomando. “Saremo leali, ma su questi punti abbiamo mano libera e vedremo chi ci sta” minaccia il forzista Pierantonio Zanettin. Emendamenti arriveranno anche da FdI. A partire da una mozione sui referendum leghisti per chiedere al governo di legiferare in materia ed evitare “lo spreco di denaro pubblico”. Anche perché Meloni si è staccata da Salvini sui sei quesiti (due non li ha firmati) e FdI boicotterà la campagna referendaria della Lega. Altolà dei partiti sulla giustizia: la stretta per le toghe in politica “si allarga” a chi non è eletto di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 febbraio 2022 L’accelerazione del governo sulla riforma della giustizia per farla approvare al Consiglio dei ministri si scontra con l’altolà dei partiti. L’ultima grana riguarda le cosiddette “porte girevoli” tra politica e magistratura, cioè il rientro in servizio delle toghe dopo una parentesi in Parlamento o nei Consigli regionali o comunali, ma anche al governo, nazionale o locale che sia: ministri, sottosegretari, assessori. Alla fine la stretta si applicherà a tutti, proprio per le pressioni arrivate dal Parlamento e per una “coerenza” richiesta dallo stesso premier Draghi. La proposta iniziale alle forze politiche dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia prevedeva il divieto di rifare il giudice o il pubblico ministero solo per le “cariche elettive”, non per chi è chiamato a far parte di un esecutivo senza passare dalle urne. Ma dopo l’allarme lanciato dal deputato di Azione Enrico Costa (“un magistrato potrà tranquillamente fare l’assessore regionale, il ministro o il sottosegretario e tornare a fare il pm”) si sono sollevati prima i grillini e poi Forza Italia: così non va. “Si tratterebbe di norme ad personam e ne abbiamo già avute abbastanza in passato”, spiega la responsabile giustizia dei Cinque Stelle Giulia Sarti. Alla quale si aggiunge il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani: “Se un magistrato decide di fare politica a qualsiasi livello, e viene eletto o fa il ministro o il sottosegretario, non può ritornare a fare il magistrato”. Il riferimento a cariche di governo e norme ad personam riguarda Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio (che ha discusso della riforma con la Guardasigilli), e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, entrambi giudici del Consiglio di Stato. Ma potrebbe estendersi ai capi di gabinetto e altre funzioni di stretta collaborazione con istituzioni politiche o amministrative. Tuttavia già nel disegno di legge dell’ex ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede in discussione alla Camera (la riforma Draghi-Cartabia sarà un emendamento a quel testo) è prevista una norma transitoria per specificare che le nuove regole non sono retroattive, e dunque non si applicano a chi attualmente è fuori ruolo per questi motivi. Nessuna questione personale, dunque. Ma ormai la polemica s’era innescata e, ieri sera, si è arrivati alla proposta di limitazioni fino ai capi di gabinetto, per i quali ci sarebbe comunque un periodo di “decantazione”. Con la speranza che la soluzione vada bene a tutti i partiti della maggioranza. Che comunque restano su posizioni diverse, anche perché si sta trattando materia scivolosa sul piano costituzionale. L’articolo 51 della Carta prevede che chi assume “funzioni pubbliche elettive ha diritto di conservare il suo posto di lavoro”. Secondo la proposta Cartabia, i magistrati dovranno invece ricollocarsi presso uffici non direttamente coinvolti nei processi, poiché ne verrebbe comunque minata l’immagine di indipendenza. Prevedere la restrizione anche a chi non partecipa a competizioni elettorali ma viene chiamato a collaborare per le proprie competenze tecniche, è un’ulteriore forzatura sulla quale era perplesso il Pd, che invoca comunque “paletti severi”: no alla contemporaneità tra carica elettiva e funzione giudiziaria, no a candidature nello stesso distretto in cui si è esercitata la funzione e “regole stringenti” per il ritorno in ruolo, ma nel rispetto della Costituzione. Problemi di costituzionalità vengono evocati anche per ciò che riguarda la riforma del Consiglio superiore della magistratura. L’ultima proposta di Cartabia prevede una legge elettorale della componente togata (che salirebbe a 20 consiglieri, mentre 10 diventerebbero quelli scelti dal Parlamento) secondo un sistema maggioritario binominale con una quota di proporzionale, per ridurre il peso delle correnti e garantire maggiore pluralismo e contendibilità dei seggi, anche da candidati singoli. Ma Lega e Forza Italia insistono per il sorteggio (sia pure “temperato”: estrazione a sorte di una platea di potenziali candidati da mandare alle urne); una vecchia idea grillina, poi abbandonata da Bonafede. Ma la ministra ha già ribadito il contrasto di una simile ipotesi con l’articolo 104 della Costituzione, che parla di togati “eletti” da tutti i magistrati, senza altre specificazioni o limitazioni. Voto e toghe in politica: ora i partiti all’attacco sulla riforma del Csm di Liana Milella La Repubblica, 13 febbraio 2022 Da lunedì il dibattito in commissione e in Parlamento il voto sul provvedimento varato dal Consiglio dei ministri è previsto a fine marzo. Ma la strada è in salita. Ce la farà la riforma del Csm a essere approvata prima della scadenza del Consiglio attuale? E cioè l’inizio di luglio? Quando, appena finito il consiglio dei ministri, hanno posto questa domanda alla Guardasigilli Marta Cartabia lei ha risposto che sì, proprio lo stato già avanzato della riforma alla Camera, consentirà un voto in tempo, senza dover ricorrere alla proroga dell’attuale Csm. Ma dopo 24 ore, una rapida carrellata nella maggioranza consegna la foto di un percorso in salita. E se il partito che appare “più fedele” a Cartabia è il Pd, gli altri gruppi presentano un conto salato. Che potrebbe trasformare il dibattito nella commissione Giustizia, a partire da lunedì, in una corsa contro il tempo, visto che il voto sulla riforma è previsto in aula per la fine di marzo, e Draghi ha garantito che non ci sarà la fiducia, com’è accaduto per le riforme del penale e del civile. Così sembra cadere nel vuoto l’appello del vice presidente del Csm David Ermini quando dice: “Nell’interesse dei cittadini, come ha ammonito il presidente Mattarella, la giustizia non può essere terreno di scontro, di contrapposizioni elettorali o di diffidenze corporative. Né, a maggior ragione, può trasformarsi in resa dei conti mettendo a rischio l’indipendenza della magistratura”. Ma lo scenario potrebbe essere tutt’altro. Ecco nel dettaglio le varie posizioni dei partiti. Lega: sì al sorteggio dei magistrati - Giulia Bongiorno affila i coltelli. “Le misure proposte combattono le degenerazioni del correntismo” dice la senatrice responsabile Giustizia della Lega. “La legge elettorale di Cartabia non incide a sufficienza, perché si sa già che saranno eletti 7 consiglieri di Area e 7 di Magistratura indipendente. Serve assolutamente il sorteggio tra magistrati che hanno la terza valutazione di professionalità e senza procedimenti disciplinari, poi tra i sorteggiati si vota”. Non basta. Bongiorno vuole “codificare” le circolari del Csm “perché vengono scritte, ma interpretate in modo vario a seconda delle correnti, invece deve valere una lettura univoca”. E ancora, “sanzioni disciplinari più rigorose”. Sull’accesso alla carriera un tirocinio prima del concorso. Forza Italia: separazione delle funzioni - “Il sistema elettorale non va bene, lo correggeremo in Parlamento con un sorteggio temperato” annuncia il vice presidente di Fi Antonio Tajani. Proprio come la Lega. E il capogruppo in commissione Giustizia Pierantonio Zanettin già lavora alle modifiche. “Dopo la war room con Berlusconi e Ghedini, Draghi ha garantito che non ci sarà la fiducia. Su due punti ci teniamo le mani libere: la separazione delle funzioni, un solo cambio di casacca, dopo 4-5 anni dall’ingresso in carriera. Inoltre il sistema elettorale proposto è un arretramento rispetto a quello in vigore perché prevede liste che oggi non ci sono. Siamo per il temperato gradito dal 42% dei magistrati che hanno votato al referendum dell’Anm e che è costituzionale”. Fratelli d’Italia: giudici e pm ognuno con il suo Csm - “Abbiamo invitato la ministra Cartabia alla festa di Atreju, abbiamo ascoltato un bel confronto tra lei e Nordio, ma poi la Guardasigilli non ci ha neppure convocati” esordisce Carolina Varchi, protagonista di infuocati interventi in aula. “Gli emendamenti? Non li conosciamo. Ma le nostre proposte sono già in commissione da mesi. Le porte girevoli? Vanno chiuse per tutti, anche per chi non è eletto. Il sorteggio è la madre di tutte le riforme, a fortiori è l’unico metodo per disarticolare le patologie del correntismo, e poi nella stessa Anm non lo vuole solo Articolo 101, ma anche Mi. Vogliamo la separazione delle carriere e due Csm perché i giudici non possono decidere le promozioni dei pm e viceversa”. Pd: allentare la stretta sui capi di gabinetto - “È una riforma, non una ok Corral, va migliorata, ma non certo affossata” dice la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando. E Walter Verini, il relatore alla Camera, mette paletti: “In Parlamento la sosterremo contro tentativi di stravolgimento”. Quindi no a modifiche che suonino come vendette nei confronti dei pm. Nel merito? Rossomando elenca i punti da cambiare: la modifica della norma troppo penalizzante nei confronti dei capi di gabinetto e dei responsabili degli uffici legislativi; ritocchi alla legge elettorale “per garantire una partecipazione aperta”; la piena incompatibilità tra cariche elettive e funzioni giudiziarie, anche per i non eletti. Infine una delibera dell’Ordine per far votare gli avvocati nei consigli giudiziari. Movimento 5 Stelle: argine alle correnti e minoranze tutelate - L’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede vede nella riforma Cartabia “la sua riforma”. Per migliorarla i suoi deputati, la responsabile Giustizia Giulia Sarti e il relatore Eugenio Saitta, chiederanno il sorteggio dei membri delle commissioni del Csm, che era già nella Bonafede. Nonché, dice Saitta, “interventi mirati nella legge elettorale per garantire la presenza dei gruppi minori rispetto alle correnti più forti anche ampliando la quota proporzionale”. Sarti, contro il Pd che vuole allargare le maglie, vuole stringere quelle degli avvocati che votano sulla carriera dei giudici nei consigli giudiziari. Il M5S proporrà di cancellare la norma “perché non basta che a esprimersi sia il consiglio dell’Ordine per evitare giudizi personalizzati”. Italia viva e Azione: no a porte girevoli e pagelle più severe - Modifiche “pesanti” da Italia viva, con Lucia Annibali, e da Azione con Enrico Costa. La prima: “Linea intransigente sulle porte girevoli, no a distinguere tra chi è eletto e chi non è eletto, tra chi ha incarichi di governo o un ruolo ministeriale, nessuna differenza tra Parlamento e amministrazioni locali”. Dubbi sul sistema elettorale e subito la scelta se vuoi fare il pm o il giudice. Da Costa mannaia sulle valutazioni di professionalità che “devono tenere conto in modo puntuale dei risultati dell’attività professionale, degli esiti delle inchieste, della tenuta delle sentenze, degli arresti ingiusti, delle persone mandate a processo senza prove sufficienti”. Bongiorno: “Via i magistrati dai ministeri, spero il centrodestra resti unito” di Francesco Grignetti La Stampa, 13 febbraio 2022 La senatrice della Lega: “Troppa enfasi su una riforma che tocca poche toghe. Non si incide sullo strapotere delle correnti, che si stanno già organizzando”. Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, così è la riforma di Marta Cartabia secondo Giulia Bongiorno. Di lei, del suo giudizio, Salvini si fida. E se ora Bongiorno dice che gli emendamenti licenziati dal consiglio dei ministri “sono un buon punto di partenza, ma non il punto di arrivo”, c’è da aspettarsi tempesta. Sono in arrivo, infatti, proposte indigeste per la magistratura associata. La Lega è pronta a scendere in campo con chi vuole il sorteggio temperato come sistema elettorale del futuro Csm. Benissimo il blocco delle porte girevoli, ma chiederanno di più: il rientro nei ranghi di tanti magistrati distaccati nei ministeri e la fine dell’immunità per i membri del Csm. Senatrice Bongiorno, ora che ha potuto leggere il testo della riforma, qual è il suo giudizio? “Molto positivo per alcuni capitoli. Bene il ruolo degli avvocati nel sistema di valutazione dei magistrati. Bene il blocco delle porte girevoli, anche se devo onestamente dire che tocca un numero davvero esiguo di magistrati e mi pare che ci sia stato un eccesso di enfasi mediatica. Piuttosto affrontiamo con massima decisione la questione dei troppi magistrati distaccati nei ministeri, specie quando ci si lamenta dei vuoti d’organico. Non va bene, invece, il sistema elettorale per il prossimo Csm. Secondo me, tra vecchio e nuovo sistema, non cambia davvero nulla. Non si incide sulla presa delle correnti. Che si stanno già organizzando. Posso affermare fin d’ora che in base ai calcoli fatti dalle correnti stesse, alle prossime elezioni avremo 7 consiglieri di Magistratura Indipendente, 7 progressisti di Area, i restanti 6 suddivisi tra gli altri. Stanno già pensando a candidature civetta per garantirsi il risultato”. E allora? Anche voi della Lega chiedete il sorteggio temperato? “La Cartabia sa come la penso perché l’ho illustrato più volte alla ministra. Il sorteggio è l’unico sistema che possa davvero tagliare il cordone ombelicale dell’eletto con le correnti. Si dovrebbe pensare a un meccanismo in tre tempi: verificare la presenza di alcuni requisiti, quali una certa anzianità e nessun carico disciplinare; sorteggio per avere un numero congruo di candidati; infine voto da parte dei magistrati”. Il sorteggio è quanto chiede anche Forza Italia. Vedremo un centrodestra riunito? “Io vorrei vedere un’alleanza tra tutti quelli che hanno a cuore l’indipendenza, l’autonomia e la terzietà della magistratura. Però riconosco che su questo aspetto sento maggiore comunanza di visione nel centrodestra”. Il Pd è già sulle barricate... “In consiglio dei ministri, è stato detto esplicitamente al premier e alla Cartabia che in Parlamento avremmo voluto rivedere alcuni punti. Non c’è alcuna preclusione e Draghi l’ha detto pure in conferenza stampa”. Altre criticità? “C’è un capitolo di cui non si parla mai, ma che secondo noi va affrontato: i membri del Csm godono di una immunità-scudo che a questo punto va cancellata. La legge inizialmente garantiva l’immunità per le opinioni espresse dai consiglieri, ma nel tempo si è trasformata in un’incontrastata immunità su più fronti. Di fatto non vengono chiamati a rispondere mai delle delibere adottate anche se assunte con meccanismi non cristallini. Alla luce di quello che è emerso negli ultimi due anni, questa immunità va abolita. Questo gioverebbe alla trasparenza e al principio del buon andamento dell’amministrazione”. Scusi, Bongiorno, come si concilia questo lavoro parlamentare con i referendum? “Camminano in parallelo. Da una parte, puntiamo a migliorare questa riforma. Dall’altra, però, una delle più incisive riforme sarà la separazione delle carriere. Sapendo che con questa maggioranza che vede forze politiche tanto diverse non ci si arriverà mai, al Parlamento occorre la spinta del suffragio popolare. Sa, io sono insieme un parlamentare e un avvocato. Frequento le aule di tribunale. E miei clienti immancabilmente mi chiedono se il giudice è della stessa corrente del pubblico ministero, o se è suo amico. Un tempo era una preoccupazione, adesso è un terrore. Dobbiamo assolutamente troncare questo legame, anche a livello di Csm: non deve esserci neppure il sospetto che il giudice possa decidere in un senso o nell’altro perché la sua carriera può essere condizionata dalla corrente a cui aderisce il pm”. Che pensa di un’Alta Corte per i giudizi disciplinari? “Se ne può parlare, purché non sia un orpello per lasciare le cose come stanno. Intanto io vedrei bene due Alte Corti per due Csm. Ma soprattutto mi preoccuperei di cambiare fisionomia al Csm stesso: perché non pensare una riforma radicale e mandare al Csm solo magistrati a fine carriera? Terminato il mandato, dovrebbero andare in pensione. Li immagino come dei vecchi saggi della categoria, al di sopra di ogni sospetto di do-ut-des. Il Csm è troppo importante per lasciarlo in balia delle degenerazioni del correntismo”. Spataro: “I sorteggi sono un’assurdità. Li userebbero mai per il Parlamento?” di Conchita Sannino La Repubblica, 13 febbraio 2022 L’ex magistrato: “Trovo giusto però cambiare il sistema elettorale e ridurre il numero dei magistrati fuori ruolo. No al fermo di 3 anni per i capi di gabinetto”. “Dovrei dare ancora il mio parere di toga in pensione? Sono il primo a pensare che a volte parliamo troppo. E poi faccio lo stesso peccato”. Ma, Armando Spataro, lei è stato il procuratore di Torino, aggiunto a Milano, membro autorevole di quel Csm che ora il maxi emendamento del governo vuole rifondare… “Sì, il Csm è ormai al centro di accuse spesso strumentali, quasi si trattasse del vertice di un apparato criminale. Io ne ho fatto parte più di 20 anni fa e ne sono orgoglioso...”. Venti anni dopo, la magistratura è stata travolta da cadute, scandali, faide. Al netto delle modifiche che subirà in Parlamento, servirà questa riforma contro il correntismo? “Il pregio è di prevedere per il Csm un nuovo sistema elettorale, invece del pessimo di oggi: nato proprio per contrastare inaccettabili derive del correntismo. Confesso che avrei preferito un sistema proporzionale. Ma c’è stato lo sforzo di conciliare opposte visioni della rappresentanza istituzionale”. E sulle nomine, i criteri? “Apprezzo anche le misure che tendono a disciplinare procedure e criteri per la nomina dei dirigenti degli uffici, nonché quelli per le valutazioni di professionalità”. Il centrodestra vuole il sorteggio... “Confesso: solo pensare che al Csm, la cui formazione è disciplinata dalla Costituzione, i magistrati possano essere eletti tra quelli sorteggiati, mi produce reazioni incontrollabili...”. Eppure, ha detto sì al sorteggio il 42 per cento di chi ha votato in Anm. Ben 1787 magistrati. Perché? “Un’assurdità assoluta. I colleghi favorevoli al sorteggio si impegnino, piuttosto, come in democrazia avviene. Facendo conoscere agli elettori ciò che va modificato, piuttosto che auspicare l’estrazione a sorte di chi dovrà battersi a tutela della loro indipendenza. E si interroghi pure la politica: perché mai non dovrebbero essere sorteggiati i componenti del Parlamento visto che criticità e prassi inaccettabili sono proprie anche dei partiti, in misura ben maggiore delle correnti dell’Anm?”. Porte girevoli: si vieta alle toghe che scendono in politica (o perché eletti, o perché nominati) di tornare alle funzioni. Avremo quote di ottimi “imboscati” nei ministeri? “Attenzione: è esiguo il numero di magistrati che scendono in politica. E va apprezzato che la riforma abbia previsto la riduzione del numero dei magistrati che possono essere collocati fuori ruolo. Non condivido però, il timbro di ‘imboscato’ per chi lavora nei ministeri. Specie nelle istituzioni internazionali, svolgono ruoli importanti, contribuiscono al prestigio della giustizia italiana che tanti ignorano dolosamente”. Perché non condividete il fermo di 3 anni per i capi di gabinetto? “Intanto va ribadito che anche quelli che svolgono funzioni pubbliche elettive hanno diritto a conservare il posto di lavoro (Costituzione dixit): ma per loro trovo giusto il periodo di decantazione. Non condivido invece che vengano penalizzati quanti hanno svolto ruoli tecnici, come i capi di gabinetto dei ministri”. Ha avuto rapporti eccellenti con gli avvocati: ora votano nei consigli giudiziari. Matureranno insieme? “Condivido la scelta, anche se spesso trovo inutilmente belligeranti le posizioni dell’Unione delle Camere Penali, come sulla separazione delle carriere. Sì, il confronto sarà utile...”. C’è un “però”? “Sarebbe bene pensare che, reciprocamente, i magistrati prendano parte con diritto di voto alle decisioni dei Consigli forensi su questioni di comune interesse”. Ha condannato gli attacchi mossi da Renzi ai pm che ne chiedono il rinvio a giudizio. Ma non pensa che esista un tema di “credibilità” da parte di chi formula accuse gravi? “Vale per tutti. La credibilità di magistrati, giornalisti, avvocati, e dei politici, non può che essere oggetto del vaglio dei cittadini interessati. Purché ciò avvenga in modo obiettivo e non pregiudiziale”. Caiazza: “Daremo pagelle ai giudici, ma non basta. La legge è debole” di Concetto Vecchio La Repubblica, 13 febbraio 2022 Il presidente degli avvocati penali: “Le porte girevoli? Il vero problema non sono gli eletti in Parlamento, ma i capi di gabinetto o del legislativo, lì c’è la commistione”. E com’è cambiata la giustizia italiana? “C’è stato uno scivolamento progressivo dal focus sul processo a quello sull’indagine: l’incriminazione conta molto di più della sentenza. Una deriva iniziata con Mani Pulite”. I processi si fanno in tribunale? “Sì, ma mediaticamente non contano nulla. Ho seguito per cinque anni il processo Ilva - una vicenda di enorme rilevanza sociale - ma dalla terza udienza in poi non ho più visto un giornalista in aula”. E com’è cambiato il rapporto con la magistratura? “Il pubblico ministero ha finito per enfatizzare oltre misura il proprio ruolo. A Catanzaro, dopo i 250 arresti dell’inchiesta Rinascita Scott, il procuratore Gratteri disse: ‘Abbiamo liberato la Calabrià. Come se il dibattimento non fosse più necessario. In questo clima è davvero difficile esercitare la funzione difensiva”. Perciò avete chiesto il diritto di voto nelle valutazioni di professionalità dei magistrati? “È un modo per introdurre una variabile in un giudizio che al 99,2 per cento risulta positivo. Sono tutti bravi, insomma, e l’avanzamento così avviene automaticamente”. La pagellina non mina l’indipendenza della magistratura? “Perché mai? Nel consiglio giudiziario gli avvocati sono in netta minoranza. Ma il loro giudizio almeno introduce un elemento non controllabile”. Un legale può essere veramente sempre super partes? “Certo, semmai vedo un altro pericolo: ovvero che l’avvocato finisca per tenere un comportamento ancillare nei confronti del magistrato da giudicare”. E perché dovrebbe? “Perché all’indomani se lo ritroverà in aula. Quindi l’avvocatura dovrà esprimere figure di grande levatura nei consigli giudiziari”. Cosa rivela quel 99 per cento? “Le carriere sono appiattite, tutti si ritrovano con lo stesso curriculum. Si innesca anche una deresponsabilizzazione: un giudice sa che non ci saranno ricadute nella sua carriera”. E ora la pagella dell’avvocato può davvero cambiare il corso delle cose? “Andavano introdotte altre misure di valutazione statistica sull’attività del singolo magistrato. Per esempio oggi la la media delle sentenze riformate in appello è del 30 per cento, se a un magistrato di primo grado gliene riformano il 60 per cento allora c’è un problema che va valutato dal consiglio”. Come giudice nel complesso la riforma Cartabia? “Debole”. Si porrà fine alle “porti girevoli, non siete contenti? “Il vero problema non sono i magistrati eletti in Parlamento, appena cinque o sei, su novemila toghe. La commistione con la politica è data dai giudici fuori ruolo distaccati nei ministeri: i capi gabinetto o i capi del legislativo”. Non è diritto di un ministro avvalersi di esperti? “Perché non sceglierli tra i professori o gli avvocati? Invece sono quasi tutti pubblici ministeri, in questo momento ben duecento. Il magistrato che ha vinto il concorso deve fare quello, non collaborare col politico”. Non è previsto per legge? “Sì, ma la competenza premia l’appartenenza culturale. Il ministro di centrodestra si sceglie i collaboratori della stessa area, e viceversa. Proporremo una legge d’iniziativa popolare per abolire la norma”. Mani Pulite trent’anni fa. Rivoluzione mancata che ha reso gli italiani più faziosi di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 13 febbraio 2022 Tutto cominciò a Milano il 17 febbraio 1992: il socialista Mario Chiesa riceve dall’imprenditore Luca Magni 7 milioni di lire in contanti. “Soldi miei” dice al capitano Zuliani che lo arresta. “No, sono nostri”, replica il carabiniere. E parla a nome dell’Italia. Quella sera a Milano c’è nebbia. Nella caserma della Celere di via Cagni, tra Bicocca e Niguarda, avvolge i lampeggianti delle volanti che scaricano 102 arrestati, una vera retata. Ed è rotta da un vocione che pare dirigere il traffico: “Di qua, di qua, portatemeli qua!”. Si sbraccia Antonio Di Pietro mentre colloca nei loculi per gli interrogatori medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione catturati nell’inchiesta sulle patenti facili: un Caronte che smista anime in pena. Torchierà tutti quasi in contemporanea, saltabeccando da un terzo grado all’altro per contestare contraddizioni, e sbraitando a uso di noi cronisti, passati... casualmente da quelle parti. Annoto con scrupolo, ma non capisco. Non ho gli elementi per rendermi conto che la sera del 1° dicembre 1987 sto assistendo alla nascita di un metodo: giudiziario e mediatico. Quando, oltre quattro anni dopo, mi ritrovo davanti quel semisconosciuto sostituto procuratore con astuzie da commissario messicano ed eloquio da presepe vivente, il metodo è perfezionato. E molte cose sono cambiate. Nel mondo, con la caduta del Muro di Berlino. E da noi: perché gli italiani cominciano a votare in libertà senza più lo spauracchio del comunismo. Nuovo metodo e nuovo codice - Il nuovo codice di procedura penale (rito accusatorio, all’americana) ha ottenuto l’effetto contrario a quello che (occultamente) si proponeva: i socialisti al governo sognavano di ridimensionare i pubblici ministeri, facendone parti del processo pari agli avvocati; logico sarebbe stato alla lunga mettere i magistrati sotto qualche forma di controllo politico: prima che accadesse, i magistrati si sono messi a remare tutti assieme contro la politica. L’Italia ancora governata dal Caf (l’asse tra Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani) è attraversata da una crisi economica devastante: il premier socialista Giuliano Amato (braccio destro di Craxi) è stato costretto a una Finanziaria lacrime e sangue, la lira è uscita dallo Sme (il serpentone monetario progenitore dell’euro). Sono insomma finiti i soldi, sui quali si reggeva il patto degli anni Ottanta tra un sistema politico che otteneva consenso in cambio di debito pubblico, finanziamenti occulti in cambio di appalti truccati, e una popolazione ormai assuefatta all’assistenzialismo clientelare. Gli imprenditori si sfilano: i grandi perché sperano in una nuova Italia neoliberista che mandi al macero il keynesismo dei vecchi partiti e salti subito sul treno europeo del Trattato di Maastricht; i piccoli semplicemente perché strangolati da mazzette che non riescono più a pagare, in un Paese in cui il malcostume è diventato cavallo di battaglia di un comico genovese, Beppe Grillo, epurato dalla Rai per le sue barzellette anticraxiane. Impresa di pulizia al Pio Albergo Trivulzio - Uno tra i più piccoli, Luca Magni, titolare di una ditta di pulizie che lavora col Pio Albergo Trivulzio (la Baggina, per i milanesi), non riesce più a sostenere l’ingordigia del patron dell’istituto, Mario Chiesa, socialista in rampa di lancio per Palazzo Marino e gran boiardo delle tangenti milanesi. Va dai carabinieri. Il capitano Roberto Zuliani lo porta da Di Pietro. Insieme firmano le banconote (sette milioni delle lirette d’allora) che Magni dovrà consegnare a Chiesa. Quando quello le prende, scatta il trappolone. “Sono soldi miei”, dice il tangentista. “No, sono nostri”, replica Zuliani a nome dell’Italia. È il 17 febbraio 1992, Mani pulite nasce così. E comincia così il crollo del sistema, da cui nascerà una transizione che ancora oggi, trent’anni dopo, non si è affatto conclusa. Finché il sistema teneva, nessuno aveva mai parlato, certo dell’impunità. Chiesa ci mette cinque settimane a San Vittore per capire che il sistema non tiene più e che il suo leader, Bettino, è così indebolito da doverlo insultare al tg (“un mariuolo”) per prenderne le distanze. Il crollo di Chiesa, tutti cella - Il 23 marzo, crolla. Parlerà per giorni, tirando dentro tutte le imprese che avevano rapporti col Trivulzio e attivando un meccanismo esponenziale, perché gli imprenditori chiamati in causa finiscono in cella e a loro volta parlano coinvolgendo altri ancora: per uscire. Solo chi confessa rompe il patto coi complici diventando inaffidabile: è la teoria di Piercamillo Davigo, il Dottor Sottile che, con il saggio Gherardo Colombo, il procuratore Saverio Borrelli affianca in pool Di Pietro quando, infine, si capisce che l’inchiesta è decollata e “i magistrati faranno centinaia di arresti e scriveranno un romanzo”, come prevede il facondo avvocato Vittorio D’Aiello che intercettiamo nei giardinetti del carcere, tra un interrogatorio e l’altro dei suoi clienti. La novità sconvolgente è che per la prima volta in galera ci vanno tanti colletti bianchi, non più solo i barabba. Comincerà così, e durerà per mesi, la processione di “penitenti”, big indagati o solo sospettati che, per evitare il passaggio in carcere, si mettono in fila davanti all’ufficio di Di Pietro (la mitica stanza 254) assistiti da “avvocati accompagnatori”, legali amici della Procura aventi il solo vero mandato di verbalizzarne le confessioni. Le elezioni e la Lega - Dopo le elezioni di aprile, che sanciscono la crisi dei partiti di governo e l’ascesa della Lega di Bossi, in poche settimane l’inchiesta travolge la politica milanese e poi quella nazionale, i tesorieri e i segretari di partito e i manager delle imprese maggiori: la spartizione è a monte, per quote fisse, con collettori designati dai segretari, e tiene dentro tutti, anche l’opposizione del Pci-Pds tramite cooperative. Sotto il palazzo di giustizia di Milano cominciano a raccogliersi supporter, cortei, fiaccolate al grido di “Tonino salvaci dal male”, si vendono magliette col logo di Tangentopoli, poster con le facce dei pm in versione Intoccabili, un film che spopola. Di Pietro, con la sua callidità da Bertoldo, diventa in breve l’eroe pop che dovrebbe vendicare gli italiani vessati dai partiti: la sua Montenero di Bisaccia sembra Camelot, la sua ostentata rudezza un antidoto marziale alle mollezze da fine regime della Prima repubblica. Una rappresentazione forzata, alla quale molto contribuiamo noi dei media, i primi talk show, la carta stampata. Noi, cronisti assegnati a questa storia, siamo quasi tutti giovanissimi e seconde firme: all’inizio nessuno credeva che Chiesa parlasse, così i big non erano stati mandati in campo; quando quello parla, noi abbiamo in mano tutte le fonti, così l’inchiesta non può togliercela più nessuno. Si tratta però di rischiare molto, raccontando dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno: non ha senso contenderci notizie, ha senso piuttosto controllare che siano tutte vere, che non ci lancino una “polpetta avvelenata” per intossicare l’intera narrazione (attorno al palazzo di giustizia corvi e volpi cominciano a raccogliersi in gran copia). Il pool dei giornalisti - Una sera di primavera, al ristorante Gambarotta di via Moscova, nasce dunque il pool dei cronisti: reggerà bene il primo anno, la prima lunga ondata dell’indagine. Ma, certo, ci toglierà qualcosa; avendo quasi tutti la stessa formazione da sinistra studentesca, quasi tutti abbiamo gli stessi pregiudizi: il nostro Craxi “ideale” assomiglia molto a quello delle caricature di Forattini, gli imprenditori a certi caratteristi della Piovra. Siamo decisi a salvare il mondo per via giornalistica. Poiché l’inchiesta sembra regalarci proprio la verità che abbiamo già in testa, quasi nessuno di noi sente il bisogno di guardarla anche da qualche altra angolazione: il bene di qua e il male di là, è manicheismo giovanile. Sicché del memorabile discorso del leader socialista alla Camera, il 3 luglio, cogliamo solo la disperata e vana chiamata di correità davanti a colleghi muti e atterriti (“se gran parte di questa materia va considerata criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale”) e non, anche, la portata visionaria per quanto allucinata (da allora in avanti, la politica sarà sterco del demonio per tanti, troppi italiani). Quando ad agosto, isolato e ormai col fiato dei pm sul collo, Craxi lancia quattro corsivi sull’ Avanti per sostenere che Di Pietro non è forse l’eroe che pensiamo, elencando una lunga serie di suoi rapporti pregressi nello stesso milieu milanese poi oggetto dell’inchiesta, noi derubrichiamo tutto a fango. E, certo, il fine di Craxi è quello, infangare. Ma noi non ci domandiamo se in tanto fango ci sia qualche fiorellino di verità, non rilevante penalmente, s’intende, ma significativo sul piano dell’immagine se non della deontologia. Così, un po’ tradiamo i lettori o, almeno, impediamo alla parte più moderata di essi di avere un punto di vista completo, distante dalle fazioni che già si vanno delineando. Neppure sui suicidi, che iniziano quell’estate, ci soffermiamo a riflettere. Il calderone - Il deputato socialista Sergio Moroni ammette, nella lettera d’addio al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, di avere preso 200 milioni (di lire) per il partito. Ma non è un ladro, per sé non ha intascato un soldo. Sui media dovremmo distinguere meglio, proteggere le dignità: tutto finisce in un calderone da dove la rabbia popolare attinge. Ormai il piano è inclinato, verso l’inevitabile. Craxi prende il primo avviso di garanzia a metà dicembre 1992: molti gli appioppano l’infame soprannome di Cinghialone, l’obiettivo della caccia. Non c’è da stupirsi se, quando la Camera ne nega, ad aprile ‘93, l’autorizzazione a procedere, una folla inferocita lo copra di sputi e monetine davanti all’Hotel Raphaël, sua abituale residenza romana. Il sistema è in ginocchio. E, come spesso in simili frangenti, in Italia si muovono forze oscure. Se il primo anno è stato segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino, la seconda estate dell’inchiesta risuona delle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Nella città di Mani pulite, un’autobomba davanti alla villa comunale fa cinque morti e dodici feriti. Due giorni dopo, ai funerali solenni, i milanesi seguono in un corteo spontaneo Borrelli e gli altri magistrati del pool, inneggiano a Di Pietro, invocano la forca, coprono di fischi e insulti le autorità dello Stato. L’onda giustizialista - Nemmeno altri due suicidi eccellenti, quello del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, invertono la grande onda giustizialista che sembra conquistare il Paese. Le vere esequie della Prima repubblica si celebrano pochi mesi dopo, in diretta tv. Al primo processo per la maxitangente Enimont (i 150 miliardi versati da Gardini ai partiti per sciogliersi dalla letale joint venture con la mano pubblica), Di Pietro decide di portare alla sbarra un solo imputato, il finanziere Sergio Cusani, consulente di Gardini, e tutti i segretari di partito come testimoni. In decine di udienze trasmesse al mattino da Un giorno in pretura, gli italiani vedono così i potenti d’un tempo flagellati dal loro amato pm: che li umilia (tutti tranne Craxi), sfoggiando per l’occasione il dipietrese, un mix di proverbi della nonna, imprecazioni, sbuffi e strafalcioni forse anche studiati, che ne accentuano la distanza di campione del Paese reale (che “parla come mangia”) dall’élite tanto deprecata. Le forche caudine vengono però risparmiate al Pci-Pds: questo, oltre a generare polemiche che durano tuttora, convincerà gli eredi di Berlinguer e della sua questione morale di avere infine la via spianata (dai giudici) verso la conquista del potere. Achille Occhetto arma la sua “gioiosa macchina da guerra”, che diventerà invece simbolo di sconfitta. L’arrivo dell’imprenditore populista - Perché le elezioni di marzo ‘94 (le prime con un sistema a prevalenza di maggioritario) dimostrano che dalla caduta di un sistema parlamentare nessuno di quel sistema si salva. E consegnano il Paese al primo vero populista della nostra Repubblica, Silvio Berlusconi: imprenditore non certo osteggiato dai vecchi partiti, amico personale di Craxi, e tuttavia capace, con uno straordinario illusionismo politico e televisivo, di convincere milioni di italiani di essere una specie di maverick, un anticonformista, portatore di un ossimoro, la rivoluzione liberale. I lunghi mesi di tensione del suo governo con il pool sfociano nell’invito a comparire che Borrelli e i suoi gli fanno recapitare mentre è a Napoli, presiedendo per l’Italia un vertice mondiale sulla criminalità (sfregio che lui mai perdonerà) e nell’inopinato addio alla toga di Di Pietro, proprio a ridosso dell’interrogatorio cui il pm avrebbe dovuto sottoporre il premier (dopo avere annunciato ai colleghi “quello lo sfascio”). È un’Italia smarrita e avvelenata, quella che esce infine dai due anni più turbolenti della sua storia repubblicana, il 1992-94. Due falsi miti - Gravata nei decenni successivi da due miti fasulli e contrapposti: il golpe giudiziario (mai avvenuto, poiché i partiti si suicidarono tramite corruzione e degrado morale) e la Mani pulite “mutilata” da un sistema ricompattato (altra fandonia, poiché a fermarla furono l’ambigua defezione di Antonio Di Pietro e la caduta di consenso tra cittadini stufi della mistica delle manette). Dopo stagioni di berlusconismo e antiberlusconismo, giustizialismo di piazza e garantismo peloso, retorica del vaffa e partitocrazia senza ormai partiti, l’etica pubblica è svanita quasi del tutto, la corruzione è più diffusa di prima e ha infettato perfino la magistratura: l’illusione di riformare un Paese per via giudiziaria mostra oggi tutte le sue falle. Più che un clamoroso processo in tv servono molte discrete ore di educazione civica in classe. “Sei un rinnegato”, mi dice con ostinazione un vecchio cronista del nostro pool. Qualche orologio è rimasto fermo all’ora di trent’anni fa. Riduzione “riparatoria” della pena, non c’è decadenza nell’ambito del medesimo processo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2022 La riparazione in forma specifica non è impedita dal tempo trascorso tra il periodo cautelare e la condanna definitiva. Se la custodia cautelare - applicata in condizioni che violano l’articolo 3 della Cedu - è scomputabile dalla pena inflitta non opera alcun termine di decadenza per la domanda di riparazione in forma specifica, cioè la riduzione dei giorni di detenzione comminati con la condanna definitiva. La Cassazione esclude, dando ragione al ricorrente, che sia applicabile il termine di decadenza di sei mesi dalla fine della custodia cautelare per cui si richiede la riparazione, se questa è già stata scontata, ma va calcolata ai fini della pena definitiva. Infatti nel ricorso, deciso dalla Cassazione con la sentenza n, 4992/2022, la pena definitiva, per quanto preceduta dalla rimessione in libertà riguardava comunque il medesimo procedimento per cui era stata disposta la misura cautelare in carcere. L’unicità del procedimento non consente di applicare il comma 2 dell’articolo 35 ter dell’ordinamento penitenziario - che in realtà riguarda la riparazione monetaria per la detenzione inumana sofferta - e a cui si applica il termine di decadenza di sei mesi dalla sua conclusione o per la carcerazione preventiva che sia slegata dalla pena per cui vi è esecuzione al momento della domanda di riparazione. Il ricorso accolto contesta anche l’applicazione al caso concreto del termine di decadenza sempre di sei mesi dall’entrata in vigore del Dl 92/2014 previsto per chi ha già avviato un procedimento davanti alla Corte dei diritti dell’uomo al fine di ottenere la riparazione prevista dalla norma dell’ordinamento penitenziario. Liguria. Carceri, dalla Regione 350.000 euro per la prosecuzione de “La rete che unisce” cittadellaspezia.com, 13 febbraio 2022 La Giunta regionale, su proposta dell’assessore alle Politiche sociali Ilaria Cavo, ha deliberato lo stanziamento di 350.000 euro per la prosecuzione dell’attuale patto di sussidiarietà “La rete che unisce” e per l’attivazione del nuovo patto di sussidiarietà giustizia finalizzato a dare continuità agli interventi di sostegno per persone detenute o sottoposte a misure di esecuzione penale esterna e per i loro familiari. “Ancora una volta puntiamo sui patti di sussidiarietà come strumento di coprogettazione tra Regione e Terzo Settore - dichiara l’assessore alle Politiche sociali, Ilaria Cavo - E’ un provvedimento molto atteso che si muove in due direzioni: da una parte consente la prosecuzione fino a marzo del progetto in corso, dall’altra avvia un nuovo procedimento amministrativo per coinvolgere il più ampio numero di realtà del Terzo Settore che intendano impegnarsi nell’attività a supporto di detenuti e persone in esecuzione penale esterna, nonché a minori sottoposti a provvedimenti penali in un percorso di coprogettazione”. Il progetto del patto di sussidiarietà si articola attorno ai temi dell’informazione, del sostegno e dell’accompagnamento, del miglioramento della qualità della vita in carcere, delle risorse alloggiative, della genitorialità, della mediazione penale minorile, della giustizia riparativa, degli interventi di prevenzione e di contrasto alla criminalità minorile. “Parliamo di un patto efficace e longevo giunto all’undicesima edizione e che non si è mai fermato nemmeno durante la pandemia - aggiunge Ilaria Cavo. In dieci anni ‘La rete che unisce’ ha seguito 14.300 persone, tra cui mille minori, coinvolgendo ben 45 organizzazioni del Terzo Settore e 179 tra operatori e volontari. Oggi molte delle misure di inclusione sociale rivolte a persone sottoposte a misure penali trovano il loro fondamento nel patto di sussidiarietà giustizia in grado di proporre interventi diretti ma anche indiretti, capaci cioè di facilitare azioni e provvedimenti che si integrano con le politiche di inclusione”. Liguria. La legge c’è, a quando il Garante dei detenuti? di Conferenza Volontariato e Giustizia Liguria La Repubblica, 13 febbraio 2022 La Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia della Liguria (Crvgl) - articolazione locale della omonima Conferenza Nazionale - è nata nel 2000 e riunisce diverse associazioni di volontariato impegnate da anni, e a vario titolo, nello svolgimento di attività all’interno delle carceri o del circuito penale esterno. Più volte è intervenuta sul tema del garante dei detenuti per sollecitare una soluzione che colmasse la mancanza di tale figura nella nostra regione. Chiediamo di intervenire (ahinoi ancora una volta) per la perdurante assenza in Liguria della figura del “Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale”, malgrado da un anno sia stata approvata la legge regionale che ne disciplina ruoli, poteri e funzioni. L’iter concluso con l’approvazione della legge sconta un lungo percorso. Della questione si cominciò a discutere circa 15 anni fa. Nel 2015 le prime proposte di legge, incalzate dai rilievi posti dal Garante Nazionale, Mauro Palma, dopo la sua visita in Regione Liguria nell’autunno 2016. Nel giugno del 2020, dopo 4 anni di discussioni, vede la luce la L.R. n° 10 per l’istituzione del “Garante delle persone sottoposte a misure di restrizione della libertà personale”, mentre a marzo 2021, dopo alcune modifiche rese necessarie a seguito dei rilievi del Governo, viene approvato dalla Regione Liguria un testo normativo bipartisan; ricordiamo che prima di quella data la Liguria condivideva - con la Basilicata - la non invidiabile situazione di Regione senza una legge in merito. Il ruolo del Garante è stato maggiormente evidenziato nella recente epidemia da Covid-19. Durante i disordini scoppiati negli istituti di pena in alcune città italiane, i Garanti si sono dimostrati importanti interlocutori nelle mediazioni tra le parti per la riduzione delle tensioni e il rispetto delle garanzie costituzionali. Vale la pena ricordare che per “privazione della libertà” s’intende “ogni forma di detenzione o imprigionamento o collocazione di una persona in un luogo sotto custodia che non le sia consentito lasciare volontariamente, su ordine di un’autorità giudiziaria, amministrativa o di altro tipo”; quindi il mandato del Garante non riguarda i soli detenuti nelle carceri o i sottoposti a misure alternative alla detenzione, ma anche coloro che si trovano nei C.P.R. (Centri di Permanenza e Rimpatrio), nelle Rems (Residenze per Misure di Sicurezza) e le persone soggette a T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Il mondo del Terzo settore che opera in ambito penale ha accolto con piacere la legge tanto attesa. Le associazioni aderenti alla “Rete Carcere” del Centro Ligure Volontariato hanno dimostrato concretamente la propria disponibilità a collaborare perché si giungesse presto alla piena operatività, indicando nell’audizione dello scorso giugno alcune caratteristiche funzionali all’individuazione di un profilo come quello indicato dalla legge. Per queste ragioni, a luglio 2021 fu inviata alla Regione Liguria una lettera sottoscritta da criminologi, psichiatri e rappresentanti di diversi enti del Terzo settore operanti in ambito penale (tutti aderenti alla Crvgl), in cui si proponeva la candidatura di un profilo, quello del Prof. Stefano Padovano, motivando tale scelta con il possesso dei requisiti indispensabili a svolgere l’incarico: competenze professionali specifiche, conoscenza delle diverse aree di azione, capacità di interazione con le istituzioni degli ambiti coinvolti, oltre che per l’assenza di incompatibilità tra l’investitura all’incarico e le relative attività professionali. L’incontro con i capigruppo della Regione Liguria dello scorso dicembre è servito per rinnovare gli impegni presi e portare a termine questo lungo e sofferto iter. La sensazione è di essere andati oltre il tempo massimo, pertanto non rimane che fare in fretta perché il sistema è al collasso. Le carceri liguri segnano ormai un sovraffollamento endemico, in cui la pandemia da Covid non aiuta e i tassi di auto ed eterolesionismo ne sono la prova. Insomma il tempo è scaduto, il Garante non potrà risolvere tutto (non è il suo compito!) ma potrà essere un agente di mediazione importante tra le istituzioni e il territorio per cercare di migliorare la condizione esistente. Parliamo del territorio non impropriamente: i soggetti di cui si dovrà occupare il Garante sono figli, genitori o partner di altri cittadini, che vivono in strutture nelle quali lavorano altre persone (a loro volta con familiari), insomma quello che vogliamo sottolineare è che questa figura, prevista dalla legge, necessità più che mai di un’investitura. Da ciò ne discenderebbe una testimonianza di civiltà e prima ancora di forza della politica, nel sapere scegliere al di là di logiche di breve respiro. Anche il Presidente Mattarella, nel discorso di insediamento per il suo nuovo mandato, ha sottolineato l’urgenza di mettere mano alla Giustizia e ha ricordato che “Dignità è un paese in cui le carceri non sono sovraffollate”. Modena. Poliziotti penitenziari indagati per tortura e lesioni aggravate di Nello Trocchia Il Domani, 13 febbraio 2022 La procura di Modena ha iscritto nel registro degli indagati diversi agenti della Polizia penitenziaria. Sono accusati di tortura e lesioni aggravate, per i fatti accaduti nel carcere Sant’Anna l’8 marzo 2020. L’iscrizione è avvenuta a fine 2021 e ha trovato conferma, qualche giorno fa, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario. A quanto risulta a Domani, alcuni detenuti avrebbero riconosciuto diversi agenti, consultando un album fotografico che gli inquirenti hanno sottoposto loro quando sono stati ascoltati come persone informate sui fatti. Il procedimento è nella fase delle indagini preliminari, l’ultima proroga è stata richiesta e ottenuta dalla procura nel settembre scorso. La rivolta violenta di Modena - Nel carcere di Modena, l’8 marzo 2020, i detenuti hanno inscenato una rivolta violenta che è stata contenuta dagli agenti della polizia penitenziaria, intervenuti per “riprendere” il controllo del carcere. Per i fatti accaduti in quelle ore la procura ha aperto tre fascicoli. Uno per le devastazioni compiute dai detenuti, un altro per la morte di nove reclusi e un ultimo per le violenze che i poliziotti penitenziari avrebbero compiuto durante e dopo la rivolta. La prima indagine è ancora in corso. La seconda inchiesta è stata archiviata perché i detenuti sono morti, secondo i risultati delle indagini, per overdose di metadone e non sono emerse altre responsabilità. Contro l’archiviazione del fascicolo è stato presentato un reclamo, poi respinto. L’associazione Antigone, con l’avvocata Simona Filippi, ricorrerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo, così come hanno già fatto i familiari di un detenuto, assistiti dall’avvocato Luca Sebastiani. L’inchiesta relativa alle violenze sui detenuti è appunto nella fase delle indagini preliminari e su di essa c’è il massimo riserbo. Gli inquirenti stanno cercando di fare luce su quel giorno di violenza e lutto, ma le indagini sembrano procedere a rilento. Sono iniziate a seguito di diversi esposti presentati, ancora nel 2020, da sette detenuti che hanno raccontato quello che era successo nel carcere. Il fascicolo è nelle mani della magistrata Lucia De Santis e del procuratore Luca Masini. Le testimonianze - Uno dei primi esposti è stato presentato, nel marzo 2020, dall’associazione Antigone e dagli avvocati delle vittime. Conteneva i racconti di alcuni detenuti. Tutti sostenevano di essere stati coinvolti, in maniera passiva e senza parteciparvi, alla rivolta dell’8 marzo, di aver assistito al pestaggio di alcuni detenuti poi morti e successivamente di essere stati trasferiti nel carcere di Ascoli Piceno. In queste fasi avrebbero subìto ogni tipo di violenza. Il loro racconto, con i diversi esposti presentati, sono confluiti in un fascicolo, modello 44, ovvero contro ignoti, che alla fine dell’anno scorso è diventato modello 21, a carico di persone note e identificate: sono gli agenti penitenziari indagati per lesioni aggravate e tortura. Lo ha confermato nei giorni scorsi la procuratrice generale facente funzioni di Bologna, Lucia Musti. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Bologna, ha aggiornato lo stato delle indagini partendo proprio da quella che ha riguardato i decessi dei detenuti. “È stato aperto un fascicolo a modello 21 (indagati noti) a seguito delle numerose denunce presentate da detenuti/persone offese per il delitto di tortura le cui indagini (oggetto di proroga) proseguono nel più stretto e doveroso riserbo”, ha detto Musti. Ma cosa hanno raccontato i detenuti? “Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti. Dopo essere stati ammanettati e privati delle scarpe ed essere stati picchiati, siamo stati fatti salire sui mezzi della polizia penitenziaria. Contrariamente a quanto scritto in seguito dagli agenti, non avevamo fatto alcuna resistenza”, hanno sostenuto i detenuti. A seguito delle violenze, i detenuti sono stati trasferiti nel carcere di Ascoli Piceno e in altri istituti. Anche qui i reclusi hanno denunciato di avere subìto un nuovo pestaggio così come nei giorni seguenti. Raccontano anche di un altro detenuto, ufficialmente morto per overdose di metadone, ma, stando alla loro ricostruzione, picchiato e al quale non sarebbe stato prestato il necessario soccorso. Le vittime sono state ascoltate tra settembre e ottobre dello scorso anno, a 18 mesi dai fatti. Avrebbero riconosciuto alcuni agenti consultando un album fotografico che gli inquirenti hanno sottoposto loro. Dopo il riconoscimento ci sarebbe stata l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni agenti. Ma le domande sui detenuti morti, sulle modalità di trasferimento, sulla presenza delle telecamere (che emerge da alcune annotazioni di polizia) restano ancora senza risposta. Monza. Emergenza suicidi in carcere: la politica si mobilita monzatoday.it, 13 febbraio 2022 Nei giorni scorsi un detenuto si è tolto la vita nel carcere di Monza. Aveva 33 anni e avrebbe dovuto scontare ancora due anni di pena, ma ha compiuto il gesto estremo inalando il gas del fornello che aveva nella cella. Un gesto che ha scosso la politica monzese. Il consigliere Paolo Piffer (Civicamente) ha chiesto la convocazione di una commissione consiliare ad hoc proprio sul tema dell’emergenza nelle carceri, e in particolare in quello monzese. “In Italia dall’inizio dell’anno sono 22 i detenuti che si sono tolti la vita - commenta il consigliere di minoranza. Proprio qualche settimana fa avevo accompagnato la parlamentare Lia Quartapelle (Pd) a visitare il nostro carcere, ed era uscita decisamente preoccupata. Al netto dell’emergenza sanitaria, che ha ovviamente complicato il tutto, le condizioni dei detenuti, così come quelle degli agenti, sono al limite. Mancano risorse, manca personale, la politica a tutti i livelli sembra limitarsi a passerelle di facciata e tavoli di lavoro dove non si conclude nulla. Serve subito una riforma seria e radicale. Investire nel carcere vuol dire investire nella sicurezza di tutti i cittadini”. Da qui la richiesta di una commissione consiliare ad hoc alla quale invitare anche il sindaco, la direttrice del carcere, una rappresentanza della polizia penitenziaria, e una dell’area educativa e dell’area sanitaria. Sulla vicenda emergenza carcere interviene anche la consigliera Francesca Pontani (Italia Viva). “Il carcere di Monza è una casa circondariale, non una casa di reclusione, ma in questi due anni è avvenuta la trasformazione. Così a un sovraffollamento già chiaro a tutti, si sono sovrapposti altri problemi strutturali e organizzativi dovuti al Covid. È triste pensare che in una città come Monza nessuno abbia risposto alla richiesta di un garante cittadino promossa da una mozione che avevo sottoscritto con il collega Marco Lamperti (Pd). C’è un regolamento, c’è la volontà dell’amministrazione. Manca chi si proponga. Il carcere di Monza è un pezzo della nostra città e segno della nostra civiltà”. Verona. Lo scarcerano e perde il lavoro. L’Inps deve pagargli l’indennità di disoccupazione di Fabiana Marcolini L’Arena, 13 febbraio 2022 Il 2 ottobre 2020 venne scarcerato, a Montorio aveva lavorato come operaio generico alle dipendenze del Ministero di Giustizia dal gennaio 2019. Riacquistò la libertà ma perse l’impiego, non avrebbe potuto opporsi al “fine pena” e per questo presentò domanda per ottenere l’indennità mensile di disoccupazione (Naspi). Domanda che l’Inps aveva rigettato in quanto “i detenuti che svolgono attività lavorativa alle dipendenze dell’istituto penitenziario non hanno diritto alla Naspi”. Nonostante il versamento dei contributi. La sentenza pronunciata dal giudice del Lavoro Marco Cucchetto è destinata a fare giurisprudenza poiché il magistrato, accogliendo il ricorso presentato da Giorgio Paraschiv, legale dell’ex detenuto, ha dichiarato “il diritto di G.B. a percepire l’indennità di Naspi per il periodo di legge con la conseguente condanna dell’Inps a corrispondere tale indennità oltre agli interessi legali dal 121° giorno successivo alla presentazione della domanda (il 3 febbraio 2021)”. E l’Istituto previdenziale dovrà anche rifondere le spese di lite. Da una parte la richiesta alla quale l’ente diede risposta negativa a fronte della peculiarità del lavoro svolto dai detenuti e ritenendo che non esisteva il requisito della “involontarietà della perdita del lavoro” poiché l’uscita dal carcere era riferibile al lavoratore. Il magistrato, dopo aver evidenziato i tre requisiti per ottenere l’indennità (stato di disoccupazione involontario, almeno 30 giornate lavorative nei 12 mesi antecedenti e almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti) ha chiarito che a fronte della cessazione del rapporto di lavoro “ritenere il licenziamento (ovvero la scarcerazione) “evidentemente riferibile alla persona del lavoratore” pare frutto di un malinteso. Il detenuto”, ha aggiunto, “non ha alcuna possibilità di richiedere la permanenza all’interno della casa circondariale per poter continuare a lavorare”. La scarcerazione per fine pena diventa così una “circostanza oggettiva e di fatto che rende impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro”. Il giudice si richiama anche alla Costituzione poiché sottolinea che “se si negasse in questo caso il diritto alla disoccupazione verrebbe vulnerato sia l’articolo 35 (la tutela del lavoro in tutte le sue forme) sia l’articolo 38, ovvero il diritto dei lavoratori di ottenere mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di disoccupazione involontaria”. Ha richiamato quindi la legge 345/75 che disciplina il lavoro carcerario, la cui essenza è la finalità rieducativa e di reinserimento sociale, che non ha carattere afflittivo ed è remunerato ma soprattutto dispone che “l’organizzazione e i metodi devono riflettere quelli nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione adeguata per agevolarne il reinserimento”. La norma precisa che sono le amministrazioni penitenziarie a stipulare convenzioni con soggetti pubblici, privati o cooperative sociali, convenzioni che tengono conto sia della formazione sia del trattamento retributivo, il tutto senza oneri per la finanza pubblica. “Non sussistono ragioni per escludere dal beneficio della Naspi il lavoratore che, come G.B., dopo aver prestato ininterrottamente attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria”, conclude il dottor Cucchetto, “versando la prevista contribuzione all’Inps sia entrato in stato di disoccupazione a causa della scarcerazione, non rilevando né il particolare sistema di collocamento (il carcere, ndr) né la finalità rieducativa che non esclude, di per sé, la applicazione della tutela contro la disoccupazione”. Bologna. La prefettura espelle migranti dai Centri e chiede rimborsi fino a 20mila euro di Luisa Monforte Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2022 Il caso sollevato dal Coordinamento migranti, che ha diffuso le lettere ricevute da una ventina di migranti. Oltre al foglio d’espulsione, ai richiedenti asilo che hanno guadagnato più dell’assegno sociale vengono richieste migliaia di euro di rimborsi. “Cifre esorbitanti e punitive” denuncia l’associazione. “Siamo obbligati, è la legge” replicano dalla prefettura. Durante i mesi più duri del lockdown, a marzo 2020, avevano lavorato all’interporto di Bologna per rifornire cibo ai supermercati e rispondere all’aumento degli ordini degli italiani chiusi in casa per la pandemia. Oggi alcuni di quei migranti impegnati nello smistamento dei pacchi hanno ricevuto un foglio d’espulsione dal centro d’accoglienza dove sono ospiti, con richieste di risarcimento che raggiungono anche i 20mila euro. Lo ha denunciato il Coordinamento migranti di Bologna, punto di riferimento in città nell’assistenza di richiedenti asilo e stranieri, rendendo pubbliche alcune lettere inviate dalla Prefettura a una ventina di richiedenti asilo che dormono nell’hub di via Mattei. Fogli con i quali si comunica “la revoca delle misure d’accoglienza” per “l’accertamento della disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici sufficienti”. In altre parole, spiega il Coordinamento “questi migranti hanno guadagnato in un anno più dell’ammontare dell’assegno sociale, ovvero più di 5.900 euro, e secondo i regolamenti devono uscire dai circuiti dell’accoglienza”. Non solo. A queste persone la Prefettura ha presentato il conto dei mesi passati nel centro. E quindi oltre alla revoca dell’accoglienza, viene chiesto “il pagamento della somma equivalente ai costi sostenuti per le misure di cui hanno indebitamente usufruito”. Cifra che per alcuni ha toccato i 20mila euro e che comprende anche il rimborso dei pocket money, ossia quella parte di diaria che viene erogata direttamente ai richiedenti asilo, spesso attraverso carte ricaricabili. Un “rimborso esorbitante”, lo definisce il Coordinamento, che fa notare come questi migranti non avevano altro posto dove andare a vivere. “Dovrebbero pagare per i due anni passati in camerate da 14 persone, per i due anni di pandemia in cui hanno lavorato e guadagnato dei salari da fame per mandare avanti i profitti dell’Interporto e per far arrivare le merci nei supermercati, nelle case e per rispondere alle esigenze della crisi pandemica, per i due anni in cui la legge stessa ha bloccato le espulsioni dai centri per contenere il rischio sanitario”. Alcuni di quei richiedenti asilo ora non lavorano più e quindi potrebbero trovarsi senza un letto dove dormire. E la stessa situazione potrebbe presto verificarsi in altre strutture d’Italia. “Abbiamo ricevuto segnalazioni che la stessa cosa sta succedendo anche in altre città. L’ispettorato del lavoro dice di non poter effettuare adeguati controlli sulle imprese perché mancano gli ispettori, e così aumentano i morti e gli infortuni sul lavoro. A quanto pare però non mancano mai né il tempo né il personale per controllare i migranti e chiedere rimborsi da decine di migliaia di euro per un’infrazione evidentemente senza senso. A Bologna tutto questo succede dopo che i migranti con le loro lotte e le loro proteste hanno denunciato le condizioni di invivibilità delle strutture di accoglienza e dei grandi centri come il Mattei, quelle per le quali adesso la Prefettura vorrebbe addirittura un rimborso”. Parlando a Repubblica Bologna il responsabile dell’ufficio immigrazione della Prefettura, Massimo Di Donato, spiega come quelle lettere siano un passaggio inevitabile. Lo prevede la normativa del 2015, “altrimenti saremmo passabili di danno erariale”. L’accertamento, aggiunge, viene fatto attraverso la Guardia di finanza e l’Ispettorato del lavoro: “Siamo obbligati”. Intanto il Coordinamento, chiede che vengano ritirate le richieste di rimborso. “Sono punitive, oltre che ridicole, e il Prefetto e la ministra Lamorgese sanno bene che non vedranno un euro. Vogliamo che vengano ritirate e soprattutto che la facciano finita una volta per tutte con queste pratiche amministrative che rapinano i migranti in ogni momento” Roma. 16mila persone senza fissa dimora ma solo 400 posti per accoglierle di Luisa Monforte Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2022 Ayedi è morto a novembre scorso dopo aver aspettato per 4 ore un’ambulanza. Viveva in strada. In tutto, dall’inizio dell’inverno a Roma, si sono registrati una decina di decessi per freddo tra i senza fissa dimora: un numero inferiore rispetto agli scorsi anni, complici anche le temperature meno rigide e l’inverno che non è ancora finito. Per lo più si tratta di stranieri: un 30enne nordafricano a Termini, un 52enne polacco sotto un cavalcavia alla Laurentina, un 53enne romeno in un parco. I posti per l’accoglienza offerti dai servizi comunali nella Capitale sono poco più di 400, erano 95 fino a qualche mese fa. Un salto in avanti, ma comunque insufficiente a fronte di una stima di circa 16mila persone senza fissa dimora. Sono quasi il doppio gli homeless, infatti, rispetto a quanto ipotizzato dall’Istat nel 2015, anno dell’ultima rilevazione, quando né Roma né il mondo conoscevano il Covid e la crisi economica che ne è derivata. I 16mila che vivono ai bordi delle strade, nei sottopassi delle stazioni, in accampamenti informali sotto i cavalcavia di periferia ma anche negli anfratti delle mura nel centro storico della città spesso vengono chiamati “gli invisibili”. Non lo sono davvero, però, agli occhi di turisti e passanti, così per ripristinare il decoro in aree di pregio e di passaggio, come le stazioni e le grandi piazze, vengono allontanati con misure “repressive e che non risolvono”, afferma la presidente della commissione Politiche sociali del Campidoglio, Nella Converti del Pd, che ha raccolto la denuncia dell’associazione Nonna Roma. Nel rapporto Rhomeless di Nonna Roma, che fotografa lo stato della povertà nella Capitale, i numeri e i metodi sono chiari. Si va dal getto d’acqua sull’asfalto alla sera, in piazza dei Cinquecento davanti alla stazione Termini, che impedisce a chi non ha una casa di accamparsi in strada, alle reti metalliche di protezione: ne è spuntata una attorno alle mura a Castro Pretorio, a pochi chilometri da Termini. Ma soprattutto ci sono i Daspo, i divieti di avvicinamento comminati dalla polizia locale come previsto dal regolamento vigente. Alla stazione Termini c’è un uomo bengalese che sui Daspo detiene il primato: 187 in un anno. In tutto il territorio, da febbraio 2017 a oggi, sono stati comminati 5.836 divieti a 2.536 persone senza fissa dimora, una media di più di 2,3 a testa. In pole position, però, ci sono quattro persone che in totale, insieme, hanno ricevuto 630 ordini di allontanamento, tutti nella zona della stazione Termini di Roma. E il lockdown, che ha portato chi viveva già sul confine della povertà a vivere in strada, non ha mancato di far sentire i suoi effetti: il report di Nonna Roma ha conteggiato, incrociando più fonti, 320 Daspo ai danni di 103 homeless nei mesi più duri delle restrizioni. “Criminalizzare la povertà e la fragilità sociale non porta a nulla. È ovvio che le persone non devono dormire per strada, non vogliamo che dormano in strada, ma dobbiamo trovare soluzioni che siano durature e che le portino dall’essere escluse a essere incluse nella società: le multe e i getti d’acqua non risolvono il problema”, spiega Converti. Tra l’altro, ironia della sorte, la maggior parte dei senza fissa dimora sta nell’area del Municipio I, quello che abbraccia il prestigioso centro storico, forse anche per la presenza di noti spazi d’accoglienza come quelli della Caritas e della Comunità di Sant’Egidio. Subito dietro, per numero di presenze, ci sono i territori del Municipio II, che da Porta Pia si estende fino a San Lorenzo e ai Parioli, e del Municipio XIII, che confina con piazza San Pietro e il Vaticano e arriva fino a Boccea e Casalotti. Questo lo scenario registrato nel 2014 e che oggi, per numero di accessi ai servizi sociali, appare più o meno lo stesso. L’associazione Nonna Roma ha chiesto a Palazzo Senatorio di “modificare il regolamento della polizia urbana e di superare l’idea della stagionalità. La povertà non si esaurisce con la fine dell’inverno”, spiega Ilaria Manti. “Bisogna ampliare l’accoglienza, ma soprattutto il Campidoglio deve garantire agli homeless l’accesso alla residenza fittizia anche tramite le associazioni abbattendo così i tempi e permettendo a queste persone di accedere a diritti basilari, come i servizi sanitari”, aggiunge. L’obiettivo del Campidoglio è “rafforzare la collaborazione, sia istituzionale che operativa tra servizi differenti: sociale, sanitario, politiche educative, del lavoro, abitative”, spiega l’assessora alle Politiche sociali, Barbara Funari. “Vogliamo promuovere nuove e durature alleanze tra servizi e terzo settore, che vadano oltre il singolo intervento o la singola iniziativa”, conclude. Cagliari. Libri nelle carceri, gli scrittori incontrano i detenuti youtg.net, 13 febbraio 2022 L’iniziativa culturale voluta dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Maurizio Veneziano, e supportata da Carlo Raccis funzionario giuridico pedagogico dell’amministrazione penitenziaria presso il provveditorato della Sardegna sta per terminare il suo giro di eventi che nonostante la pandemia è riuscita brillantemente a portare eventi di grande livello culturale, ricreativi e teatrali dentro uno degli ambienti più delicati che ha subito pesantemente gli effetti di questi tre anni di pandemia. Una decina gli istituti coinvolti, con le presentazioni dei libri di dieci autori differenti che si sono offerti di presentare la propria opera e di donare alle biblioteche penitenziarie il proprio libro. È partito tutto dal 3 settembre 2021 con la presentazione di Giampaolo Cassita nel carcere di Tempio Pausania, via via si sono uniti autori come Flavio Soriga, Marcello Fois, Roberta Secchi, Gianni Mascia, Cristian Mannu, Francesco Abate, Matteo Porru, e Fabrizio Raccis che proprio il 12 febbraio attraverso la piattaforma Teams ha presentato nel carcere di Mamone (Nu) il suo libro Edgar Allan Poe - Il mistero della morte, edito Catartica Edizioni. Lo scrittore Cagliaritano ha detto: “è stata davvero un’esperienza molto emozionante, ho visto molto interesse da parte dei detenuti che hanno partecipato alla discussione e risposto con grande positività a questo progetto letterario, voglio fare i miei più sentiti ringraziamenti alle educatrici, agli organizzatori, a coloro che stanno facendo in modo che questi incontri letterari possano concludersi nonostante le mille difficoltà dovute alla pandemia”. Manca poco alla conclusione di questi incontri che finiranno dopo gli appuntamenti con le carceri di Is Arenas, Lanusei, Oristano e Nuoro. Una iniziativa complessa che sta riscuotendo un grande successo e tende a sensibilizzare i detenuti delle carceri della Sardegna avvicinando gli autori ad un contesto del tutto inedito. Messina. Spot dei detenuti a sostegno della campagna vaccinale di Simona Arena meridionews.it, 13 febbraio 2022 “Dimostra come la rieducazione possa essere realizzata”. Colloqui con i familiari interrotti, così come i momenti all’esterno delle celle. La doppia reclusione nelle carceri durante la pandemia è stata raccontata in un video musicale. “Un messaggio di speranza e di coinvolgimento”, afferma Daniela Ursino a MeridioNews. Hanno vissuto una reclusione nella reclusione durante il primo lockdown. Alle già rigide restrizioni a cui devono sottostare per la detenzione in carcere, si sono unite quelle previste dalle norme per contenere la diffusione del contagio da Covid. Questo ha comportato anche la chiusura degli spazi esterni del carcere, interrompendo anche le attività trattamentali e i colloqui con i familiari. Quando è stata data loro la possibilità di contribuire in qualche modo a promuovere un messaggio importante, non ci hanno pensato due volte. È nata in questo modo l’idea di chiedere ai detenuti di due carceri siciliane di partecipare attivamente alla realizzazione di due spot per incentivare la vaccinazione anticovid. “L’idea dello spot è nata da una condivisione con l’assessorato alla Sanità della Regione siciliana nel momento in cui si parlava della situazione generale delle carceri” spiega Daniela Ursino, presidente dell’associazione D’aRteventi che da anni porta avanti all’interno della casa circondariale Gazzi di Messina un laboratorio teatrale. Così, proprio i detenuti che fanno parte del progetto, chiamato Il teatro per sognare, coinvolti da tanto entusiasmo hanno partecipato a tutte le fasi di elaborazione dello spot. Il progetto si chiama “Un piccolo grande gesto per te e per gli altri” ed è stato promosso dall’assessorato regionale alla Salute in collaborazione con l’amministrazione penitenziaria e con la partecipazione di due associazioni impegnate in specifici laboratori di rieducazione. Oltre a D’aRteventi si è messa in gioco anche Rock10elode, attiva nell’Istituto penale per minorenni di Palermo con un percorso di scrittura di canzoni. “È stata un’esperienza che ha consentito ai protagonisti di dare un contributo attivo nella battaglia contro la pandemia e di sentirsi parte della società in un momento drammatico, che ha accomunato la popolazione mondiale in uno stato di isolamento diffuso - spiega Angela Sciavicco, direttore della casa circondariale di Messina-. L’esperienza recitativa consente a chi la sperimenta di interpretare ruoli di vite senza errori e senza intoppi nelle quali, spesso, è contemplato il lieto fine. Un messaggio di speranza per chi vuole trovare ispirazioni positive. È questo il senso che si vuole attribuire a tutte le attività che vengono svolte in carcere. Si può sempre cambiare abito e può essere inebriante indossare panni diversi dai soliti”. Le due associazioni in circa due settimane hanno messo nero su bianco le sensazioni e le suggestioni vissute dai detenuti durante il primo lockdown. Tante esperienze che sono state sintetizzate e veicolate in un video, con due giorni di riprese per raccontare la loro vita in un momento in cui la quotidianità di tutto il mondo è stata messa alla prova. La voce dello spot racconta come le attività hanno subito un’interruzione, l’impossibilità di incontrare i propri cari: momenti bui che si aggiungevano alle altre restrizioni con cui si è stati costretti a fare i conti in questi anni. Così come non può passare in secondo piano il non aver potuto godere della boccata di ossigeno, sempre per via delle restrizioni. In questo contesto, la protezione del vaccino diventa una speranza per potersi ricongiungere con i genitori e gli spazi esterni della struttura. “Voi che siete fuori potete abbracciare questa libertà vaccinandovi” è questo il messaggio che i detenuti del carcere di Messina. L’immagine simbolo dello spot è stata quella delle mani che non si potevano toccare durante il colloquio, se non attraverso una barriera di plexiglass. Dodici i detenuti che hanno preso parte allo spot, che ha visto anche la collaborazione e la partecipazione anche della polizia penitenziaria. “Siamo contenti di averli accompagnati anche in questo percorso - prosegue Ursino - Perché questo spot è un esempio di come la rieducazione possa essere pienamente realizzata quando il detenuto è coinvolto in un’attività che lo vede protagonista. Dalla scrittura del testo alla recitazione fino alle riprese, sono stati protagonisti attenti e consapevoli del tema importante che rappresenta la campagna vaccinale. Si sono sentiti coinvolti nel contributo da offrire alla società esterna”. Ursino non manca di menzionare Sciavicco, per il sostegno offerto dalla Casa circondariale, fino a Caterina Pacileo, comandante della polizia penitenziaria e dell’area trattamentale. “Una partecipazione corale - conclude Ursino - con cui si è riusciti a trarre da una difficoltà oggettiva la conferma che le energie impegnate e il percorso intrapreso continuano a portare buoni frutti”. Pierluigi Torregiani, ucciso dai terroristi nel 1979: la Milano violenta diventa un film di Gianni Santucci Corriere della Sera, 13 febbraio 2022 Torregiani, orologiaio e gioielliere, ucciso a 42 anni fuori dal suo negozio, in via Mercantini, a pochi metri da piazza Bausan, da una cellula dei Proletari armati per il comunismo. La sua storia è diventata un film, al cinema e ora in tv. Milano nel 1979 era una città piagata dal terrorismo, dall’eroina e da una malavita di una violenza smodata. Per 43 anni s’è parlato più degli assassini (Giuseppe Memeo, l’uomo che impugnava la pistola durante il corteo in via De Amicis il 14 maggio 1977; Gabriele Grimaldi, morto a 55 anni nel 2006, dissociato dalla lotta armata dopo il carcere, figlio di Laura Grimaldi, scrittrice, traduttrice e direttrice del Gialli Mondadori; infine Cesare Battisti, a lungo latitante e infine catturato in Bolivia nel 2019). E s’è invece dimenticato cosa fosse Milano tra gennaio e febbraio 1979, una città piagata dal terrorismo, dal primo dilagare dell’eroina, da una malavita che abusava di una violenza smodata. Ma soprattutto, oscurata dietro le vicende del commando dei killer, è rimasta la storia della vittima di uno dei più gravi omicidi politici nella storia d’Italia: Pierluigi Torregiani, orologiaio e gioielliere, ucciso a 42 anni fuori dal suo negozio, in via Mercantini, a pochi metri da piazza Bausan, da una cellula dei Proletari armati per il comunismo. Il processo - L’uomo che s’è ritrovato dentro questo buco nero della storia di Milano viene però oggi ricordato da un film, già uscito al cinema e che andrà in onda su Rai1 proprio il 16 febbraio, nel quarantatreesimo anniversario dell’omicidio, un agguato nel quale rimase ferito anche il figlio del gioielliere, Alberto, da quel giorno in sedia rotelle, colpito da un proiettile sparato dal padre che impugnava una pistola mentre i terroristi lo trucidavano. Torregiani è interpretato da Francesco Montanari (il “libanese” di Romanzo criminale, regista Fabio Resinaro, produttore Luca Barbareschi). Il titolo del film è lo stesso del libro che Alberto Torregiani pubblicò nel 2006, “Ero in guerra ma non lo sapevo”. Gli anni di piombo - La sceneggiatura restituisce alla memoria della città la figura del gioielliere, ma perché sia completa, bisogna ricordare il contesto. E allora bisogna tornare al 22 gennaio dello stesso anno, il 1979, perché il delitto Torregiani inizia da lì. Poco dopo la mezzanotte il gioielliere è a cena nel ristorante “Transatlantico” di via Malpighi, in zona Porta Venezia. Ha con sé una valigetta di gioielli che ha appena esposto in una televendita. È seduto con la figlia e altre cinque persone, colleghi e amici. Entrano due banditi per una rapina. Torregiani reagisce perché i rapinatori lo minacciano puntando la pistola contro la ragazza che, con i suoi due fratelli, tra cui Alberto, il gioielliere aveva adottato qualche anno prima, dopo aver conosciuto la loro madre, deceduta per un tumore nell’ospedale in cui era anche lui stato ricoverato per la stessa malattia. Quella sera si innesca un conflitto a fuoco e a terra nel ristorante restano i cadaveri di un cliente (Vittorio Consoli, 38 anni) e di un rapinatore (Orazio Daidone, 34 anni). Torregiani diventerà bersaglio dei Pac perché alcuni giornali nei giorni seguenti lo identificheranno come il pistolero, il giustiziere, il borghese che si ribella e spara contro le azioni del proletariato. Il carattere - Il film racconta i 25 giorni nei quali il gioielliere finisce divorato in questa sequenza di eventi, da vittima di rapina a vittima di omicidio, con tutte le sue difficoltà di sopportare la protezione che gli raccomandava la questura: “Sarebbe stato facile fare di mio padre l’innocente con cui tutti solidarizzano da subito - ha spiegato in una recente intervista al Corriere il figlio Alberto -. Invece nel film abbiamo voluto raccontare una verità più ricca e complessa. Mio padre era un po’ impulsivo, a volte forse arrogante, uno a cui non piaceva farsi mettere i piedi in testa. Niente di più. Tutto questo è diventato la sua condanna. Durante quella rapina si è difeso solo perché aveva accanto sua figlia. Nei giorni seguenti stava soltanto nascondendo a tutti noi la sua paura. Si teneva tutto dentro: anche la consapevolezza che prima o poi qualcosa gli avrebbero fatto”. Intorno c’era la Milano dell’anno 1979, quella che oggi è completamente obliata quando si fanno analisi politiche sulla sicurezza, senza ricordare (per volontaria omissione o per scarsa memoria), quale sia il termine di paragone lontano quattro decenni, non quattro secoli. La sera del 22 gennaio 1979, quella in cui la rapina al gioielliere Pierluigi Torregiani finisce con due morti in un ristorante in Porta Venezia, un’altra rapina alle porte di Milano (Novate) è finita in tragedia: un tabaccaio ferito, un cliente ucciso a colpi di pistola. Ma la pagina di cronaca del Corriere che racconta i fatti di quel giorno contiene anche altro: la scoperta dei cadaveri di due sorelle, Anna e Wanda Galli, 67 e 66 anni, massacrate per rapina nel loro appartamento al civico 30 di via Moscova. Quattro morti e due feriti da arma da fuoco, in due distinte sparatorie per rapina, in un solo giorno. Milano era così, 43 anni fa. Rapporto Ismu: gli stranieri in Italia sempre più poveri e senza lavoro di Simona Buscaglia La Stampa, 13 febbraio 2022 Il XXVII Rapporto Ismu sulle Migrazioni 2021, presentato a Milano. Gli stranieri in Italia sono sempre più poveri e disoccupati. Inoltre, i ragazzi con un background migratorio inseriti a scuola registrano ancora spesso un ritardo di diversi anni rispetto ai coetanei italiani, soprattutto alle superiori, che si traduce molte volte in un tasso più alto di abbandono dei percorsi formativi. A delineare questo quadro è stato il XXVII Rapporto Ismu sulle Migrazioni 2021, presentato oggi a Milano. La pandemia ha sicuramente accentuato la loro vulnerabilità: il tasso di occupazione degli stranieri registra un calo significativo, passando dal 61% del 2019 al 57,3% del 2020, arrivando così per la prima volta a un valore inferiore a quello degli italiani (58,2%). Sono le donne ad aver pagato il prezzo più alto nel mercato del lavoro: la riduzione del tasso di occupazione è doppia rispetto a quella degli immigrati maschi. Dei 456mila posti che si sono persi tra il 2019 e il 2020, quasi un quarto coinvolge le sole donne straniere. Aumenta comunque la povertà complessiva, che colpisce nel 2020 il 29,3% degli stranieri (rispetto al 7,5% degli italiani) e il 26,7% delle famiglie di soli stranieri (erano il 24,4% nel 2019). Parliamo di 415mila nuclei familiari, che diventano 568mila se si includono anche le famiglie miste, quelle cioè con almeno un componente straniero. L’unico dato in controtendenza riguarda le imprese trainate da titolari o soci stranieri che nel 2020 risultano in crescita del 2,3%. Ma quanti sono gli stranieri in Italia? “Al primo gennaio 2021 gli stranieri presenti in Italia sono 5.756.000, di questi il 91 per cento sono migranti regolari - spiega Livia Elisa Ortensi, Responsabile Settore Statistica Fondazione Ismu - rispetto all’anno precedente e per il secondo anno consecutivo vediamo una variazione negativa nel numero di stranieri (-2,8%), dovuta in parte all’acquisizione di cittadinanza e in parta alla riduzione dei nuovi ingressi. Ad essere maggiormente colpiti dalla riduzione sono i permessi per studio e per famiglia, quest’ultimo rimane uno dei principali canali legali in Italia”. Gli sbarchi sulle coste italiane nel 2020 sono stati oltre 34mila, circa il triplo di quelli del 2019. Nel 2021 gli sbarchi sono quasi raddoppiati per un totale di 67.040. Per quanto riguarda la popolazione irregolare, Fondazione Ismu sottolinea come dal 2009 siano rimasti sempre al di sotto del 10% della presenza straniera complessiva. Al primo gennaio 2021 questa percentuale è rimasta sostanzialmente invariata (519mila contro i 517mila dell’anno precedente). Il nostro Paese si conferma inoltre, uno dei principali approdi o transiti per i minori stranieri non accompagnati (msna) insieme a Grecia e Spagna: al 30 novembre 2021 erano 11.159 (+69% rispetto allo stesso periodo del 2020, in cui se ne contavano 6.601). Ad oggi però, in Italia, solo il 3% dei minori ha potuto beneficiare dell’affido familiare. Uno spaccato che sottolinea anche le difficoltà della popolazione straniera più giovane. La scuola in Italia è sempre più multietnica: guardando gli ultimi dati disponibili relativi all’anno scolastico 2019/2020 gli alunni con background migratorio sono più di 870mila, quasi 20mila in più rispetto all’anno scolastico precedente, rappresentando il 10,3% del totale degli iscritti nelle scuole italiane. Nonostante ci sia stato un miglioramento negli ultimi anni, il loro ritardo scolastico però riguarda circa il 30% degli alunni, contro il 9% di quelli italiani. Il disagio giovanile qui può essere letto sotto diversi punti di vista. Nel 2020 gli Elet (Early Leavers from Education and Training) nati all’estero - cioè i ragazzi tra i 18 e i 24 anni che non è in possesso di un titolo di istruzione secondaria superiore o di una qualifica professionale e che non è inserita in percorsi scolastico-formativi - sono il 32,1% degli stranieri in quella fascia d’età. Il dato corrisponde al triplo dei coetanei autoctoni, che si fermano invece all’11%. Numeri che non migliorano se si va ad analizzare la quota di NEET (Not in Education, Employment or Training), che rappresenta quei giovani che non studiano e non lavorano. Quelli nati all’estero raggiungono il 36% del totale dei giovani nati all’estero tra i 15 e i 29 anni residenti in Italia, segnando una crescita del 4,1 % rispetto al 2019. Ucraina. Stavolta l’atlantismo è nudo. Come il re di Alberto Negri Il Manifesto, 13 febbraio 2022 Biden nella telefonata con il leader del Cremlino, sembra quasi spingere Putin a entrare in Ucraina: minaccia ma non propone nulla. Una situazione per certi versi ineluttabile visto quanto accaduto negli ultimi vent’anni dopo essersi volontariamente cacciata nel cul de sac preparato dagli americani, con interventi militari dall’esito devastante che nel gergo comune si chiamano sconfitte, politiche e militari. Se l’Europa vivrà altre giornate sul filo del rasoio e delle telefonate tra i leader, come quella di ieri Putin-Biden, lo deve anche a se stessa. Biden nella telefonata con il leader del Cremlino, sembra quasi spingere Putin a entrare in Ucraina: minaccia ma non propone nulla. Una situazione per certi versi ineluttabile visto quanto accaduto negli ultimi vent’anni dopo essersi volontariamente cacciata nel cul de sac preparato dagli americani, con interventi militari dall’esito devastante che nel gergo comune si chiamano sconfitte, politiche e militari. Sui nostri giornali campeggiano, a commento dei fatti ucraini, i cantori dell’atlantismo con frasi come queste: “Ogni Stato ha diritto di scegliersi gli alleati che vuole”, “massima solidarietà agli Stati Uniti per mantenere l’ordine liberale”. Come il presidente americano Joe Biden, in caduta libera nei sondaggi e - sotto un ostorico 40% di consensi - in lucidità (in tv confonde Afghanistan, Iraq e Ucraina). devono esser stati sconnessi da alcuni eventi e massacri recenti dove i princìpi occidentali, così propagandati, sono stati clamorosamente sbeffeggiati proprio dagli americani e dall’Alleanza atlantica. Quale “ordine” liberale propugnano gli Stati uniti e la Nato? Quello che ha spinto Washington a usare i jihadisti contro l’Urss negli Ottanta? Quello dell’Afghanistan 2021? L’”ordine” dell’intervento inventato di sana pianta in Iraq nel 2003? Quello della guerra in Libia nel 2011 i cui disastri sono ancora sotto i nostri occhi? L’”ordine” americano che ci ha portato attentati in Europa e milioni di migranti trattati come oggetti e ricacciati nella disperazione, privandoci anche delle risorse energetiche dei nostri vicini? L’”ordine” della Turchia, Paese Nato utile a massacrare i curdi con il Sultano Erdogan? L’”ordine” che silenzia e cancella i palestinesi? Americani e atlantisti si arrogano il diritto di decidere cosa va bene e cosa va male aggrappandosi a principi di autodeterminazione dei popoli che sono i primi a violare. Prendiamo la Siria: per anni Washington e Bruxelles hanno dichiarato che “Assad se ne doveva andare” ma per destabilizzarlo hanno incoraggiato Erdogan a mandare migliaia di tagliagole jihadisti dall’altra parte del confine. Hanno chiesto alla Siria di rompere i suoi legami con l’Iran e poi è intervenuta la Russia, storico alleato di Damasco. Che cosa voleva l’Occidente, forse il bene dei siriani, tenuti ancora sotto drammatico embargo? Che cosa pretendevano gli americani dall’Afghanistan? Vendicarsi dell’11 settembre 2001, come ha ammesso lo stesso Biden? Bene dopo l’uccisione di Bin Laden avrebbero potuto andarsene ma sono rimasti ad ammazzare più civili che talebani, ai quali hanno riconsegnato in mano il Paese e ora si vendicano contro la popolazione congelando i fondi afghani e ostacolando l’invio di aiuti umanitari. Per non parlare dell’Iraq, attaccato nel 2003 per il presunto possesso di armi distruzione di massa che non esistevano e lasciando poi il Paese a uno dei maggiori massacri della storia. E quali sono i diritti? Gli ucraini hanno diritto alla loro identità nazionale ma ce l’hanno pure i russi che vivono in quel Paese. A un’identità nazionale avrebbero diritto pure i palestinesi e mentre non si esita a imporre sanzioni a Mosca, a Teheran e Damasco non si possono neppure nominare eventuali sanzioni a Israele per gli insediamenti illegali secondo la comunità internazionale e le e le Nazioni Unite. Sono questi i princìpi occidentali? Questo è doppio standard. E se parliamo dei curdi si arriva al paradosso. Usati dagli americani come fanteria contro i jihadisti, sono stati lasciati da Washington nel 2019 ai massacri di Erdogan e dei “suoi” jihadisti, che poi il “reiss” turco ha usato anche in Tripolitania e in Azerbaijan. Ma la Turchia non è un Paese della Nato e suo baluardo a sud? E di quali princìpi è mai portatore questo Paese se non il massacro dei suoi avversari? I cantori dell’atlantismo sono assai male informati. Gli ucraini ora si sono affidati per il riarmo alla Turchia di Erdogan, accolto a Kiev come un salvatore. Francamente è difficile dire se sia una fortuna o meno. Putin trova dall’altra parte un suo nemico - in Siria, Libia, Azerbaijan - ma anche un autocrate con cui si mette d’accordo e al quale vende le batterie anti-missile. Putin ha persino riconosciuto Erdogan come possibile mediatore nella crisi ucraina. La Turchia è pur sempre un Paese della Nato, con le galere piene di oppositori: che cosa si può chiedere di meglio? Forse per Kiev è un passo avanti per sentirsi dentro l’Alleanza e in un mondo migliore. Auguri, come si dice. Anche qui però, tra i cantori dell’atlantismo, c’è qualche segno di resipiscenza. E arriva stavolta, incredibilmente, dall’Italia Il ministro degli Esteri Di Maio, in seduta congiunta delle commissioni esteri e difesa del parlamento, ha evocato l’articolo 10 della Nato secondo il quale ogni allargamento dell’Alleanza atlantica deve soddisfare un requisito che è quello di “contribuire all’accrescimento della sicurezza collettiva”. In poche parole non si fa entrare un Paese se costituisce un elemento di destabilizzazione. Qualcuno per favore dica se l’allargamento della Nato a est ha portato alla nostra sicurezza o no. Stati Uniti. Le anime dimenticate sull’isola da incubo nel cuore di New York di Antonio Monda La Stampa, 13 febbraio 2022 Tra la punta nord di Queens e quella sud del Bronx, nel mezzo della biforcazione del fiume Hudson, che lì prende il nome di East River, c’è un’isola tristemente nota a tutti i newyorkesi chiamata Rikers Island. Dopo essere stata utilizzata per decenni come discarica della città, è divenuta dal 1932 la sede del complesso di dieci istituzioni penitenziarie e mentali, all’interno delle quali 9.000 ufficiali e 1.500 civili gestiscono un flusso di 100.000 ammissioni annue e una popolazione media giornaliera di 10.000 detenuti, nessuno dei quali in grado di pagare la cauzione. In origine Rikers Island era raggiungibile unicamente con il traghetto, ma nel 1966, il sindaco John Lindsay, un repubblicano passato ai democratici, decise di costruire un ponte per collegarla a Queens, con il fine di dare minor senso di isolamento ai detenuti. Sin da quando è stata costruita, l’intento degli amministratori di ogni colore politico è stato di farne un carcere modello, in opposizione ad Alcatraz, altra prigione situata in un’isola al centro di una baia: ma, nonostante le migliori intenzioni, Rikers Island è stata classificata recentemente tra le peggiori dieci istituzioni americane, e negli ultimi mesi ha registrato una serie di eventi drammatici. Nel 2021 il numero dei detenuti è aumentato del 25% e, dopo un tasso di mortalità che negli ultimi due anni era pari a zero, nel 2021 ben quindici di loro hanno perso lì la vita: alcuni per suicidio, altri per overdose, altri ancora per malattia. In quest’ultimo anno la percentuale dei detenuti ammalati di Covid è salita dall’uno al 17%, e si sono moltiplicati i casi di violenza, al punto che negli ultimi mesi ben 1.000 ufficiali hanno chiesto un trasferimento. Da un punto divista demografico, la popolazione carceraria è composta al 90% da gente di colore, detenuta per crimini che vanno dall’aver imbrattato un muro con dei graffiti sino allo spaccio, lo stupro e l’omicidio. Uno degli episodi più agghiaccianti avvenuti negli ultimi anni è stato il brutale pestaggio di Robert Hinton, un detenuto con gravi disturbi mentali: è stato l’eco di questo abuso ha portare l’attenzione della stampa sull’istituzione, che si era già trovata al centro di uno scandalo quando a un altro detenuto, Jason Echevarria, venne negata l’assistenza medica dopo che aveva ingoiato del detersivo, e morì dopo una dolorosissima agonia. Un’inchiesta condotta qualche settimana fa dal New York Magazine ha denunciato il costante abuso dell’isolamento, anche tra i minorenni, certificando che la città spende 550.000 dollari l’anno per ogni persona incarcerata: cifra più che doppia rispetto a quanto era previsto in origine, che diventa ancora più clamorosa se si pensa che il costo di uno studente delle scuole pubbliche è invece di 28.000 dollari annui. Il leader sindacale Benny Boscio ha parlato di “anime dimenticate”, ed è stato ancora più duro il nuovo sindaco Eric Adams, che ha definito Rikers Island come un “imbarazzo nazionale” e “una macchia sulla nostra città”. Dalle prime dichiarazioni sembra intenzionato a mettere in atto il progetto del suo predecessore Bill De Blasio, un populista di sinistra con pessimi rapporti con la polizia cittadina, il quale aveva fatto approvare una delibera comunale per chiudere l’istituzione a partire dal 2026, dimezzandone la popolazione carceraria già a partire da quest’anno. Nel sostanziale disinteresse dell’opinione pubblica, i 15 morti lanciano forse l’ultimo campanello d’allarme per gli amministratori su un luogo ormai sinonimo di vergogna. Le storie raccontate sul New York Magazine generano strazio e rabbia, e parla per tutti il figlio di uno dei morti, in una lettera al sindaco: “mio padre non era semplicemente una nullità”. Stati Uniti. Guantánamo, i desaparecidos del gulag a stelle e strisce di Luca Celada Il Manifesto, 13 febbraio 2022 Compie 20 anni il gulag della “war on terror”. Dopo l’autorizzazione a rimpatriare il saudita al Qahtani resteranno 38 detenuti, tutti su basi extra legali: simbolo del fallimento morale Usa. La scorsa settimana una commissione del Pentagono ha autorizzato il rimpatrio da Guantánamo di Mohammed al Qahtani, un saudita che si trova nella prigione militare nell’omonima baia cubana dal 2002. Nel 2001, prima degli attentati dell’11 settembre, al Qahtani era stato respinto al controllo passaporti dell’aeroporto di Orlando. Quando si era scoperto che ad attenderlo ci sarebbe stato Mohammed Atta, capofila degli attacchi, al Qahtani era stato considerato il “ventesimo uomo” che avrebbe dovuto partecipare al dirottamento del volo United 93. Catturato in Afghanistan nell’autunno del 2001, era stato trasferito a Guantanamo, ma al Qahtani era anche un giovane squilibrato che aveva subito un trauma cerebrale e diagnosticato come schizofrenico. La sua condizione mentale è definitivamente deteriorata dopo che gli aguzzini di Camp X Ray lo hanno sistematicamente torturato nel 2002 e 2003 nella capanna adibita alle “interrogazioni maggiorate”. Nei successivi vent’anni al Qahtani che non comunica più ed è terrorizzato dagli agenti, ha tentato numerose volte di togliersi la vita - e questi due decenni ci sono voluti perché la commissione riconoscesse che il detenuto disabile “non costituisce più un pericolo imminente per gli Stati uniti”. Il suo caso ha riportato per l’ennesima volta l’attenzione sulla guerra al terrorismo e su di un luogo simbolo del conflitto più lungo della storia americana, che perdura anche dopo il ritiro dall’Afghanistan. Il campo di prigionia, posto fisicamente e simbolicamente fuori dai confini nazionali e da ogni garanzia costituzionale e umanitaria è rappresentazione fisica di una guerra extra legale che a gennaio ha celebrato un triste ventennale. Dei 38 detenuti che rimarranno rinchiusi a Guantanamo, se al Qahtani verrà effettivamente rispedito in Arabia Saudita, 12 sono, almeno sulla carta, anch’essi autorizzati al trasferimento. 14, i cosiddetti prigionieri perpetui, sono detenuti senza capo d’accusa fuori da ogni legittima procedura penale, ed altri 12 sono stati “rinviati a giudizio” da tribunali militari il cui iter rimane impantanato in un dedalo procedurale apparentemente infinito per una principale causa: le imputazioni sono fondate su testimonianze e confessioni estratte con la tortura e quindi non ammissibili come prove. Languono dunque in una terra di nessuno legale che rappresenta - ancor più della disordinata ritirata da Kabul - la sconfitta morale americana. Dei 780 prigionieri passati per Guantanamo durante questi vent’anni, 731 sono stati rilasciati o trasferiti e nove sono morti in prigionia. Appositamente classificati come enemy combatants per porli al di fuori sia dallo stato di diritto che dai trattati internazionali sui prigionieri di guerra, quasi tutti sono dunque risultati innocenti rimanendo comunque per lunghi anni prigionieri del paradosso che li riteneva “troppo poco innocenti e non abbastanza colpevoli” ad insindacabile discrezione del Pentagono o della Cia. Spesso si è trattato di persone incappate nelle retate delle forze d’occupazione americane, a volte per essere stati combattenti o simpatizzanti dei mujaheddin inizialmente sostenuti dagli stessi Usa contro i talebani. Talvolta semplicemente vittime delle delazioni lautamente retribuite e quindi proporzionalmente inaffidabili. Altri semplicemente si sono trovati nel luogo sbagliato al momento sbagliato, danni collaterali di una guerra in gran parte sommersa. Quasi tutti quelli che Donald Rumsfeld aveva definito “i peggiori dei peggiori” sono dunque risultati molto presto innocenti. Lo stesso George Bush - sollecitato da un paio di sentenze della Corte suprema - aveva finito per rimpatriare 532 detenuti. Obama, succedutogli con la promessa di chiudere il campo, aveva firmato un decreto esecutivo in questo senso il giorno del suo stesso insediamento. Il suo tentativo di trasferire molti dei detenuti al sistema penale nazionale è stato bloccato dal congresso repubblicano che ha varato una legge che vietava di portare qualunque imputato di terrorismo in territorio americano - un modo per mantenere alta la psicosi del “pericolo imminente”. L’alternativa era il rimpatrio spesso però problematico verso zone di guerra o paesi destabilizzati. Come ha scritto di recente Lee Woloski, designato da Obama a responsabile del decommissionamento, per svuotare il campo gli Usa hanno intrapreso fitti negoziati (e spesso baratti in cambio di armi o aiuti finanziari) con molti paesi alleati, specie se deboli o poveri. Fra le centinaia di rimpatri avvenuti in era Obama c’è stato quello di Mohamedou Ould Slahi in Mauritania (il suo caso divenuto celebre per l’autobiografia ed il film che ne ha tratto Kevin Macdonald: The Mauritanian). E hanno compreso il trasferimento degli ultimi tre (di 12) prigionieri uiguri finiti nelle maglie americane dopo aver rifuggito in Afghanistan la repressione subita nello Xinjiang ad opera delle autorità cinesi. Resi sostanzialmente apolidi dal gulag dove hanno passato 12 anni, sono infine stati spediti in Slovacchia nel 2013. Nel racconto fatto sul sito Politico, Woloski fa anche un’altra considerazione: “Se questi detenuti fossero stati bianchi anziché neri o bruni, qualcuno crede che uno stato di diritto come gli Usa li avrebbe imprigionati senza imputazione per decenni? Davvero non lo credo”. Woloski formula infine un’idea che ormai è acquisita da un numero sempre maggiore di legali e politici, nonché da molti militari: che la stessa extra legalità intrapresa dagli architetti della war on terror e dagli avvocati ingaggiati per sdoganare la tortura come “male necessario”, hanno finito per impedire che gli “Usa possano mai sperare di ottenere la giustizia che nominalmente cercavano”. Assicurando invece al contempo che fosse azzerata ogni credibilità morale nel conflitto. I forever prisoners sono bloccati in un diabolico comma 22 in cui non possono essere processati da tribunali a causa delle torture subite, né trasferiti a tribunali civili per via della legge vigente, né liberati. Allo stesso tempo la loro detenzione extra legale diventa sempre più insostenibile. “Su Guantanamo e sulla tortura ormai sono stati girati grandi film di Hollywood”, ha di recente dichiarato Moazzam Begg, un cittadino britannico di origini pakistane detenuto per tre anni a Cuba e nella base americana di Bagram, dove è stato testimone oculare dell’uccisione di due detenuti picchiati dalle guardie americane. Begg, finito nel gulag per aver sostenuto la causa dei musulmani in Bosnia durante la guerra balcanica e lavorato da volontario in campi profughi in Afghanistan, è stato rilasciato nel 2005 dopo l’intercessione del governo inglese, da allora ha costituito un’associazione di ex detenuti che ha in una lettera aperta a Biden ha chiesto nuovamente la chiusura definitiva dell’ultimo lager. “Ci sono stati attori nominati all’Oscar per aver rappresentato la nostra sofferenza”, ha detto alla radio Npr, “eppure quei desaparecidos sono ancora là, dietro il filo spinato”. Per custodire quegli ultimi 38 prigionieri gli Usa impiegano uno staff di 1500 fra militari e contractor al costo di 500 milioni di dollari l’anno. Ma è il costo morale ad essere davvero insostenibile. Egitto. Sanaa Seif è “libera, ma la prigione resta a un passo” di Gianluca Diana Il Manifesto, 13 febbraio 2022 All’indomani del suo rilascio parla la giovane attivista egiziana che insieme al fratello, il noto e perseguitato blogger Alaa Abd el-Fattah, sfida il regime di al-Sisi con la battaglia per il rispetto dei diritti umani. “Sono stata arrestata la prima volta nel 2014. Fu un grande shock in famiglia, perché ero la più piccola e la meno coinvolta nella politica”. “Nei due giorni che hanno preceduto la scarcerazione ero davvero in ansia. So che avrei dovuto essere entusiasta all’idea di tornare libera, ma non ero totalmente sicura che sarebbe successo, perché altre persone nelle mie stesse condizioni, poco prima di uscire sono state accusate di ulteriori reati, con il conseguente slittamento in avanti sia dei processi che delle pene”. L’attivista egiziana Sanaa Seif, 28 anni, rilasciata lo scorso 23 dicembre dal carcere femminile di Al Qanater El Khayereya, a nord del Cairo, racconta così le ore immediatamente precedenti al suo ritorno in libertà. Libertà sopraggiunta dopo aver scontato per intero la condanna a 18 mesi per “divulgazione di notizie false tramite i social media” e “offesa a un pubblico ufficiale”. L’abbiamo raggiunta telefonicamente nell’abitazione cairota di famiglia, da dove la sua voce arriva con i rumori di fondo della capitale egiziana. “Non ero certa che sarei stata davvero liberata, perché all’inizio delle indagini tra i vari capi di accusa che mi notificarono, ne spiccavano due per terrorismo. Quando sono arrivata in tribunale queste accuse non erano più presenti, non perché decadute, ma semplicemente sospese. Ciò significa che le imputazioni esistevano ancora e se avessero voluto riprenderle in mano, avrebbero potuto farlo. In via non ufficiale mi hanno detto che ancora pendevano su di me, per ricordarmi che la prigione è sempre a un passo”. “In quei giorni - prosegue Seif - non sapevo cosa dovevo aspettarmi. Ma alla fine le cose sono andate abbastanza lisce. Dopo un anno e mezzo di detenzione, che nei primi mesi è stata molto difficile, sono finalmente tornata a casa dove mi aspettava la famiglia. Adesso, sono felice”. L’arresto, avvenuto il 23 giugno 2020 da parte di poliziotti in borghese, mentre si recava in procura per denunciare una rapina e un’aggressione fisica subita la notte precedente durante un sit-in in favore del fratello - nonché attivista di spicco - Alaa Abd El-Fattah, è il terzo per Seif, ritrovatasi suo malgrado sin da giovanissima a impegnarsi nello stesso percorso intrapreso da tutta la famiglia: la madre Laila Soueif, docente universitaria e militante per i diritti della donne, il padre Ahmed Seif El-Islam avvocato attivo sin dagli anni settanta, la sorella Mona e il fratello Alaa, attualmente in carcere dopo l’ennesima condanna a 5 anni. Anche Seif si è gettata con tutte le sue forze nella ricerca di un senso di giustizia a metà tra le vicende personali e quelle collettive: “Sono stata arrestata la prima volta nel 2014. È stato un grande shock per tutta la famiglia perché, oltre ad essere la più piccola dei fratelli e dei nipoti, ero la meno coinvolta nella politica. Ero la persona che percepiva che questo era un percorso senza speranza per la vita. Certo, vedevo che c’era un sacco di ingiustizia nel nostro paese, ma non ritenevo di dover fare qualcosa per cambiarlo perché mi sentivo senza speranza. Le cose sono cambiate nel 2011, in seguito all’arresto di Alaa. Ho iniziato a prendermi cura di lui in ogni modo, ad esempio facendo attenzione a ogni piccolo dettaglio inerente al suo campo di lavoro in modo da riferirglielo durante le visite”. Un rapporto importante quello con il fratello, che a metà tra relazione familiare, mutuo supporto e complicità politica, è stato l’innesco dell’attivismo reale per Sanaa Seif. La quale, grazie a una costante e continua presenza in chiave social media, è diventata una delle voci dissenzienti dell’Egitto contemporaneo. E che il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi l’avesse individuata come tale, se ne è avuta riprova durante i fatti precedenti l’arresto del 2020: “All’epoca - racconta - mio fratello era in carcere mentre il coronavirus stava dilagando. La nostra richiesta di avere una lettera da parte di Alaa come prova che fosse ancora vivo rimase completamente inascoltata. Per questo mia madre decise di fare un sit-in dimostrativo assieme a Mona e a me. Passammo la notte sulla strada di fronte ai cancelli della prigione di Tora. Eravamo nel mezzo di tre grandi strutture di polizia, un luogo dove nessuno si sognerebbe di rubare nulla, considerato come è monitorato ovunque da videocamere. All’alba, durante il coprifuoco anti-Covid, arrivò un gruppo di donne che iniziò a derubarci e a picchiarci. Hanno spinto mia madre e mia sorella intimando loro di andare via, ma nei miei confronti sembravano aver ricevuto da qualcuno indicazioni di vendicarsi specificamente. Sembrava volessero umiliarmi e mentre mi picchiavano dicevano cose tipo “la polizia ha le scarpe sulla tua testa”. Queste persone erano state istruite dalle forze di sicurezza per colpire me in particolar modo”. Come tanti altri media attivisti, Seif rimane critica sulla situazione attuale dei diritti umani in Egitto. Riferendosi al recente taglio di 130 milioni di dollari di aiuti militari da parte del Dipartimento di Stato americano, a seguito di una riluttanza del governo di al-Sisi nell’affrontare seriamente la questione, così si esprime: “È stata una mossa simbolica, non pratica. Non stanno veramente diminuendo i contributi per uso militare, al contrario, stanno dando addirittura più fondi per ammortizzare i tagli effettuati”. Algeria, 40 prigionieri politici in sciopero della fame di Karima Moual La Stampa, 13 febbraio 2022 “Ci accusano di terrorismo ma siamo solo oppositori”. Dal 28 gennaio sono rinchiusi nella prigione di El Harrach che fanno lo sciopero della fame per essere liberati. La parola, la libertà di pronunciare un pensiero, un’opinione o un’idea che sia in contrasto con il potere continua ad essere il nemico più temibile da contrastare, portando chi la pronuncia sino alla reclusione. Il grido di allarme questa volta arriva dall’Algeria, ma con il rischio che passi anche questa volta nel silenzio totale. Non a caso, si abbraccia una delle più vecchie contestazioni: lo sciopero della fame. Da venerdì 28 gennaio, ci sono 40 prigionieri politici nella prigione di El Harrach che digiunano per protesta invocando la liberazione. Un suicidio collettivo se non si puntano i riflettori su una piaga che ormai viaggia indisturbata in Algeria (alcune stime parlano di 330 detenuti per reati di opinione) ma anche in altri paesi del Maghreb con varie sfumature anche se il primato continua a detenerlo l’Egitto di Al Sisi, che tiene reclusi nelle sue carceri più di 60mila persone. La storia di Patrick Zaki, ci ha fatto toccare più da vicino quella che è ormai una vera repressione del dissenso. I 40 prigionieri di Algeri promettono di fare rumore, anche grazie ai loro familiari, diversi attivisti per i diritti umani, e avvocati che non intendono sottomettersi al silenzio. La procura della Repubblica aveva infatti emesso un comunicato stampa negando l’esistenza dello sciopero della fame dei 40 detenuti, minacciando con azioni legati media o persone che trasmettono informazioni in merito. Non è bastato, perché la notizia sui 40 detenuti non gira soltanto attraverso i social ma viene riportata anche da giornali locali come Le Matin d’Algerie, che dà spazio anche all’avvocato dei detenuti. Protestano contro i procedimenti e le false accuse di cui sono vittime - spiega l’avvocato Abdelghani Badi - mentre altri, tra i detenuti, insorgono, attraverso lo sciopero per il prolungamento abusivo della loro detenzione provvisoria. C’è però un altro punto che emerge da questa storia che fa coincidere l’inizio di questa azione con il 64° anniversario dello sciopero degli Otto Giorni, del 1957, perché spiega sempre l’avvocato Badi - si protesta anche contro l’articolo 87 bis del codice penale algerino, sulla base del quale sono accusati di “terrorismo”. Nell’articolo viene perseguito per atto terroristico chiunque operi o inciti attraverso qualunque mezzo, ad accedere al potere o a cambiare il sistema di governo con mezzi non costituzionali. Ecco, se infatti la lotta al terrorismo è stata fin da principio la causa che ha coinvolto un po’ tutti andando al di là delle frontiere culturali e politiche, riuscendo a costruirci anche accordi per una lotta condivisa, c’è da evidenziare che la stessa parola negli ultimi anni si è sdoppiata diventando sempre più un’arma utile al presidente autoritario di turno, per reprimere quel dissenso, che può indebolire chi detiene il potere. È quanto sta accadendo in Algeria denunciano gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani. Molti detenuti sono caduti in questa trappola che poi è stata l’introduzione, nell’articolo 87 bis, di un paragrafo ambiguo sulla definizione stessa dell’atto terroristico. Sarà anche per questo che in una comunicazione indirizzata all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ai Diritti Umani (Ohchr) esperti e relatori Speciali dell’Onu non hanno usato mezzi termini quando hanno accusato il regime di Algeri di strumentalizzare politicamente il, terrorismo per reprimere le libertà pubbliche. Insomma, nonostante i popoli nel Maghreb sono scesi nelle varie piazze chiedendo libertà e democrazia, ribaltando regimi decennali, continua a ripresentarsi lo stesso metodo, in vesti e forme diverse, ma che ha sempre maledettamente la stessa ostilità: quella della libertà di parola e opinione. Eppure servirebbero proprio quella libertà di parola, opinione e idee, per far fare quel salto in avanti e verso il futuro a paesi ancora imbalsamati in un passato dove l’autorità è tutt’altro che al servizio del cittadino. Afghanistan. La povertà estrema, i beni congelati dagli Usa e adesso l’epidemia di morbillo di Antonella Sinopoli La Repubblica, 13 febbraio 2022 Definita “furiosa” dall’OMS che sta provocando centinaia di decessi soprattutto fra i bambini al di sotto dei 5 anni, infragiliti dalla fame o dalla malnutrizione. Le difficoltà di garantire aiuti umanitari. La popolazione afgana (circa 38 milioni, con il 42% di età inferiore ai 15 anni, secondo la World Bank) affronta il sesto mese di convivenza con il nuovo governo dei talebani, dopo circa 80 mila morti tra i civili, durante i venti anni di presenza militare statunitense e della Nato, e con una situazione di povertà diffusa e insicurezza alimentare, alimentata anche dal congelamento delle ingenti riserve internazionali della Banca Centrale Afghana, che da 9,5 miliardi di dollari si sono ridotte a 7 miliardi dal 18 agosto scorso, quando cioè il governo di Washington li ha bloccati, per non farli finire nelle mani dei talebani. Quel denaro è ora in un fondo fiduciario della Banca Federale delle Riserve di New York. Di questi, circa 3.5 miliardi dovrebbero in futuro essere impiegati per interventi umanitari in Afghanistan. Gli altri 3 miliardi e mezzo gli USA li trattengono per compensare le famiglie delle vittime degli attacchi terroristici, compreso l’attacco alle Torri Gemelle del’11 settembre 2001. Un’epidemia definita “furiosa”. Oggi, all’emergenza determinata dal fatto che la metà della popolazione afgana sopravvive con aiuti umanitari e tre quarti vive in condizione di povertà estrema, si aggiungono i numerosi casi di morbillo, che provocano altre vittime. L’allarme è dell’OMS l’Agenzia sanitaria delle Nazioni Unite, dalla quale si apprende che l’epidemia è particolarmente preoccupante, proprio perché aggravata da una massiccia insicurezza alimentare e dalla diffusa malnutrizione, che espone soprattutto i bambini ad una maggiore probabilità di contagio. L’epidemia di morbillo afgana è definita “furiosa” e sta colpendo decine di migliaia di persone, dopo averne uccise più di 150 solo nell’arco del mese scorso. “I casi di morbillo - dice il portavoce dell’Oms, Christian Lindmeier da Ginevra - sono aumentati in tutte le province dalla fine di luglio 2021” ed ha aggiunto che i casi sono aumentati di recente, del 40% nell’ultima settimana del mese di gennaio. Muoiono soprattutto bambini. In tutto il mese di gennaio sono stati segnalati 35.319 casi di morbillo, di cui 3.000 confermati in laboratorio e 156 decessi: il 97% erano bambini con meno di 5 anni. Numeri sottostimati, sostiene Lindmeier, destinati comunque ad aumentare. Il morbillo è una malattia altamente contagiosa, causata da un virus che attacca principalmente i bambini. Le complicanze più gravi includono cecità, gonfiore del cervello, diarrea e gravi infezioni respiratorie. L’ultima ondata di casi arriva proprio mentre l’Afghanistan è nella morsa di un disastro umanitario, aggravato dalla conquista del potere dei talebani e dal blocco degli aiuti internazionali e dell’accesso ai beni detenuti all’estero. L’impossibile campagna vaccinale per tutti. Le Agenzie umanitarie delle Nazioni Unite continuano ad avvertire che per metà del Paese c’è carenza di cibo. La migliore protezione contro il morbillo sarebbe un’ampia vaccinazione in tutto il Paese, con almeno il 95% di copertura. Ma si tratta di un obiettivo impossibile nel contesto afghano. Lindmeier ha affermato che l’OMS e i suoi partner hanno lavorato per aumentare le loro capacità di sorveglianza del morbillo e fornire supporto con test di laboratorio e campagne di immunizzazione. Il sistema sanitario dell’Afghanistan crolla sotto lo stress della povertà e dell’oppressione talebana. Tuttavia, lo scorso dicembre, una campagna di vaccinazione nelle zone più colpite ha raggiunto 1,5 milioni di bambini, ha affermato Christian Lindmeier. Sono stati forniti integratori di vitamina A, che sono importanti per aiutare a ridurre la malattia e la morte per morbillo, raggiungendo 8,5 milioni di bambini in un’altra campagna nazionale nel novembre scorso.